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POLITECNICO DI MILANO Facoltà di Architettura e Società Corso di Laurea in Architettura LA CITTÀ FRA MEMORIA E IDENTITÀ CASI STUDIO: MESSINA, FIRENZE, GIBELLINA. Relatore: Ch.ma Prof.ssa Anna Lucia MARAMOTTI POLITI Corelatore: Ch.mo Prof. Amedeo BELLINaI Laureando: Alberto STRACI Matr. N. 702242 Anno Accademico 2011-2012

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POLITECNICO DI MILANO

Facoltà di Architettura e Società

Corso di Laurea in Architettura

LA CITTÀ FRA MEMORIA E IDENTITÀ

CASI STUDIO: MESSINA, FIRENZE, GIBELLINA.

Relatore: Ch.ma Prof.ssa Anna Lucia MARAMOTTI POLITI

Corelatore: Ch.mo Prof. Amedeo BELLINaI

Laureando:

Alberto STRACI

Matr. N. 702242

Anno Accademico 2011-2012

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INDICE

LA CITTÀ FRA MEMORIA E IDENTITÀ. CASI STUDIO: MESSINA, FIRENZE, GIBELLINA.

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Introduzione 5

Messina: lo stretto indispensabile 11 Firenze: il dopoguerra 72 Gibellina: paesaggio con rovine 100

Conclusioni 134

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LA CITTÀ FRA MEMORIA E IDENTITÀ. CASI STUDIO: MESSINA, FIRENZE, GIBELLINA

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INTRODUZIONE

Messina, Firenze e Gibellina sono tenute insieme da tre storie assimilabili: tre modi differenti di reagire al pericolo, più o meno concreto, di smarrire, a causa di ragioni prevaricanti e imprevedibili, la propria memoria e con essa, ci ripetiamo, la propria identità. Messina, Firenze e Gibellina offrono un amplissimo spettro d’indagine e, coprendo tutto l’arco del novecento, secolo di svolta per la rivalutazione delle discipline legate alla conservazione e tutela, danno la possibilità di scandagliare quanti più aspetti siano legati alla memoria delle città.

La ricostruzione della città di Messina, seguita al sisma del 1908, s’esaurisce, per la sua parte più consistente, nella prima metà del XX secolo, andandosi ad arrestare sul finire della Seconda Guerra. Ciò sottrae l’intera vicenda messinese al dibattito sorto intorno la conservazione dei centri urbani, svillupatosi proprio nel secondo dopoguerra. Inoltre chi operò nella ricostruzione era imbevuto di dottrina positivistica e non aveva alcuna ragione di dubitare del suo modo di operare. È perciò l’esempio che meglio chiarisce l’autonomia della memoria di un luogo dalla sua immagine. Non si commetta l’errore di credere che memoria e identità si fondino sull’immutabilità e sulla tassidermia, come detto l’identità è un

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valore dinamico, e la memoria si costruisce solo per una parte, pure consistente, sull’immagine. Se è vero, quindi, che l’immagine della Messina precedente al sisma del 1908 fu sepolta coi morti tra le macerie, l’identità avrebbe potuto non seguire la medesima sorte. Avrebbe potuto rifondarsi sulla scorta di altre istanze, non direttamente legate ad una particolare forma di barocco: sul modo di vivere il porto, la posizione, il paesaggio, su quello stretto mitopoietico che, a volerlo, potrebbe tornare ad essere prolifica sorgente di significati. Fu quindi un caso di memoria tradita e non già per le numerose demolizioni che seguirono quella più grande del sisma, ma perché subisce una perenne e sistematica smentita delle proprie fondamentali. Offre infine la possibilità di comparare ed indagare i primi modi di intendere la conservazione.

Firenze, differentemente, non soltanto fu al centro di quel dibattito, cui si faceva poco prima cenno, ma per buona parte lo generò. Fino alla metà del secolo si restaurano solo le fabbriche a carattere monumentale e l’edilizia minore solamente quando quinta della maggiore. Si era spinti al restauro dal bisogno di tenere in ordine i gioielli di famiglia, quelli che potessero meritarsi il titolo di alfieri d’italianità, non certo per conservare la memoria dei luoghi. La lacuna urbana era lontana dall’essere tematizzata, vuoti urbani, se ce n’erano, erano trattati dalla regolare amministrazione. Il contesto e l’ambiente non erano minimamente problematizzati se non da qualche romantico trasognante come oggetto di puro godimento. L’interesse per una conservazione sistematica del costruito, e non più solamente degli episodi edilizi più rappresentativi, sorse in concomitanza con la distruzione dei luoghi civili (non più soltanto militari) e tra questi la sponda degli Acciaiuoli e dei cinque ponti fiorentini per arrestare l’avanzata alleata. L’opportunità, le modalità, i tempi, della ricostruzione di quanto era andato perduto costituirono la circostanza sulla quale si delinearono le tematiche fondanti un nuovo statuto della disciplina del restauro. A Firenze si discusse dell’integrazione del nuovo e del vecchio, del trattamento della lacuna, della conservazione dell’immagine dei luoghi e non più solamente dei monumenti. Si trattò quindi, come per Messina, di occuparsi della memoria dei luoghi, ma la questione fu

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ampiamente problematizzata, con esiti forse discutibili, ma comunque con un atteggiamento di costante rispetto alla Firenze di ieri e di oggi. Per questo se quella di Messina è una memoria tradita, quella di Firenze è una memoria rispettata, col punto interrogativo. Gli interventi legati alle opere di risanamento edilizio postbellico si inseguirono nel volgere di quel ventennio intellettualmente densissimo che sancì la legittimità dei contesti urbani come materia della conservazione.

Gibellina, rasa al suolo dal disastroso terremoto del 1968, è caso complesso. Contrariamente a Messina e tanto più a Firenze dove i ragionamenti sulla difesa della memoria possono essere sciolti nella conservazione della materia, fugace comparsa nell’una Città, autentica protagonista nell’altra, a Gibellina ciò che manca è proprio la materia del restauro perché non c’è più nulla da poter trasmettere, avendo posto sulla città morta quella pietra tombale che è il Cretto di Burri. L’assenza di un luogo dal quale partire astrae i paradigmi della memoria, ora assai più volatile e indefinita, quasi assente. Può esserci allora identità senza memoria? È su questo interrogativo che il caso sostiene il ragionamento. La risposta è chiaramente negativa, ma lo sforzo deve essere quello di trovare memoria e identità di là dei sensi e delle percezioni. La memoria è nella tradizione, nell’economia, nel modo delle persone diventa patrimonio immateriale, e da questo, che è pur sempre memoria, si deve partire per rifondare l’identità. Ciò a Gibellina non è accaduto. La distruzione del borgo vecchio ha fornito l’alibi per una totale libertà di forme, per creare al tavolo del disegno i luoghi senza rispettare la dualità dell’identità tra giudizio e poetica. Tanto più grave se si pensa che il dibattito del quale Firenze fu protagonista, era quasi esaurito perché ormai assorbito, avendo esitato nella carta del restauro di Venezia del 1962(?); e che i protagonisti della ricostruzione operavano professandosi intimamente legati alle dottrine sociali ed ecologiche in voga negli anni sessanta. La costruzione di Gibellina non è ultimata e temporalmente compre gli ultimi trent’anni del novecento completando così l’arco temporale prefissatoci. Oggi s’assiste ad un fenomeno straordinario di riappropriazione dei luoghi: è la memoria negata di Gibellina che esordisce in un potente sforzo di

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assorbimento del corpo estraneo di Gibellina Nuova, smentendo, a conti fatti, tutti coloro che avevano creduto che un’identità potesse essere calata dall’alto, che potesse reggersi solamente sull’eccellenza di un progetto.

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MESSINA: LO STRETTO INDISPENSABILE

[…] «Cosa pensate di fare in futuro» dissi a Francesco «rimanere a Roma, o più avanti tornare a Messina?». Sino a quel momento, dal di fuori, era chiaro che noi non avevamo ancora capito la spaventosa dimensione del disastro. Alla mia domanda, infatti, Rosina sembrò terrorizzata e per la prima volta durante l’intervista perse il suo autocontrollo. Alzò entrambe le braccia sopra la testa con un gesto spaventoso di dolore e urlò «Messina? Ma che cosa sta dicendo? Messina non esiste più».1

Il terremoto di Messina del 1908 fu subito percepito per quel che era: una tragedia d’immane portata. Né la storia smentì mai questa percezione: la catastrofe registrò, infatti, numeri da record ad oggi rimasti fortunatamente insuperati. La cronaca è nota, occorre tuttavia richiamarla alla memoria.

Alle cinque e ventuno minuti della mattina del 28 dicembre 1908, una scossa lunga trenta secondi, compresa tra 6,7 e 7.2 di magnitudo scala Richter (XI Mercalli), squassò le città di Messina e Reggio. L’epicentro esattamente nello stretto, sotto il mare. Le vibrazioni del terreno furono avvertite fino a Napoli a

1 M. HOWE, Sicily in schadow and in sun, the earthquake and the American relief work, 1910, trad it Elena dell’Agnese, in La furia di Poseidon: Messina 1908 e dintorni a cura di G. Campione, Vol I, Milano, Silvana editoriale, 2007.

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settentrione, fino ad Agrigento e Palermo a ponente. Qualche minuto dopo il sisma, un’onda di otto metri si abbatté sulla costa messinese. Dopo la terra e l’acqua, l’opera distruttrice si compì col fuoco; le fuoruscite di gas, causate dalle scosse, esplosero in incendi terribilissimi così che tutta la città fu avvolta da un lugubre «alone giallastro». I morti si contano nell’ordine delle decine di migliaia, le case dirute sono attestate intorno al novanta per cento.2

Ma cosa interruppe il sisma? In quale momento della storia del capoluogo peloritano, che fu pressoché raso al suolo, la terra cominciò a tremare?

Nel cinquantennio che intercorre tra il Risorgimento e i primi anni del novecento, Messina attraversa un periodo di profonda trasformazione, come del resto qualsiasi altra realtà testimone della giovanissima Italia: periferie che divengono centri e centri che divengono periferie, politiche liberali che mutano gli schemi economici e mercantili andatisi consolidando nell’ambito degli stati preunitari, indebolimento del potere ecclesiastico con tutto quanto esso comportava. Per non parlare delle più generali mutazioni-innovazioni dello scacchiere politico-economico internazionale; fra quelle che più riguardano la nostra fattispecie: il declino delle tratte mediterranee a vantaggio del rafforzamento di quelle transoceaniche, l’innovazione tecnica nel settore della navigazione civile e mercantile, l’apertura del canale di Suez.

Inutile dire che la città di Messina, sin dalla fondazione, basò la sua prosperità quasi integralmente sul porto e sulle attività connesse, e certamente fu la vocazione marinara a plasmarne i tratti morfologici, urbanistici, paesaggistici, sociali, etno-antropologici. In tal senso non deve sorprendere come negli anni di maggiore gloria della città e fino all’Unità,

2 La letteratura in materia è amplissima e non si contano le memorie di quella notte, tra i contributi più autorevoli: MARIO BARATTA, La catastrofe sismica calabro-messinese(28 dicembre 1908), Relazione alla Società Geografica Messinese, Roma, presso la Società Geografica Italiana, 1910; GIORGIO BOATTI, La terra trema, Messina 28 dicembre 1908. I trenta secondi che cambiarono l’Italia, non gli italiani, Milano, Mondadori, 2004; Il terremoto di Messina, corrispondenze, testimonianze e polemiche giornalistiche, a cura di FRANCESCO MERCADANTE, ristampa anastatica dell’edizione del 1962, Messina, Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, 2004.

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Messina mostrasse evidenti differenze, di ordine principalmente socio-economico, con le vicine e concorrenti (quando non apertamente nemiche)3 Palermo e Catania, che si possono facilmente riassumere nell’esistenza di una solida borghesia mercantile e di una più variegata piramide sociale a fronte di una quasi esclusiva primazia del baronaggio negli altri due centri siciliani.

Nello scenario rapidamente evocato, Messina smise presto di avere un ruolo da protagonista nel Mediterraneo, ceduto ad altri e più favoriti porti del neonato regno. E non sorprende, quindi, ammettendo, come abbiamo fatto, la centralità del porto per la salute della città, che il suo declino coincise quasi immediatamente con il declino del capoluogo.

Negli anni a cavallo tra i due secoli la situazione è instabile e Messina fatica a trovare una sua propria collocazione: se da un parte già dopo “l’annessione al Regno viene riconfermata la funzione amministrativa di capoluogo di provincia, […] viene riconosciuta [l’Università] e nel 1885 pareggiata alle [altre] di primo livello”4 e vengono istituiti il museo pubblico e la biblioteca; dall’altra non si hanno “positive conseguenze sulla vita economica”5.

Questo almeno fino agli ultimi anni dell’Ottocento. In effetti, dopo un primo momento di riformismo liberale che non troppi effetti ebbe per l’economia cittadina,6 si registra a partire dal 1887 un’inversione di tendenza verso un maggiore protezionismo, atto a favorire le industrie tessili e siderurgiche del nord e conseguentemente i porti che a queste erano più prossimi (Genova in testa).

Di quella gretta politica il commercio di esportazione agrumario e vinicolo, che costituiva le due più importanti risorse economiche messinesi, fu colpito a morte. Sicché da quindici anni quella Messina,

3 Durante la rivolta antispagnola del 1674 la città di Palermo si schierò contro i rivoltosi messinesi, nella speranza di non doversi più vedere contestata l’egemonia nell’Isola sistematicamente insediata dalla Città dello Stretto. 4 AMALIA IOLI GIGANTE, Messina, Bari, Laterza, 1980, p. 116. 5 Ibidem. 6 Come registrano vari autori tra cui Ioli Gigante e D’Angelo, la fin tanto temuta abolizione del porto franco, privilegio del quale la città di Messina beneficiava prosperosamente, non ebbe ripercussioni sulla quantità di mercanzia, che ancora nel 1887 s’attesta attorno al milione di tonnellate.

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che in nome dell’eguaglianza era stata spogliata dei suoi secolari privilegi, divenne la vittima indifesa di nuovi e ben più ingiusti privilegi, largiti non a città o consorzi amministrativi, ma a singoli e privati speculatori, e si è vista precipitare dall’antica prosperità, guadagnata coll’onesto lavoro, ad un’immeritata quanto fatale decadenza, frutto della relativa inerzia, cui fu condannata dalle leggi vigenti.7

Conseguenze assai più gravi furono patite dal settore serico, fiorente da sempre e che moltissimo aveva dato alla città.8

In modo più ampio possiamo dire che il nodo commerciale dello Stretto non interessava in quel preciso momento politico al Governo Italiano che aveva altre priorità. Un certo sospetto favore per diverse aree di sviluppo industriale; uno sguardo espansionistico rivolto ai Balcani che sospinse lo sviluppo dei porti di Brindisi9 e Taranto (mercantile il primo, militare il secondo). Né come osserva Ioli Gigante l’apertura del canale di Suez aiutò: pure portando nello Stretto «l’imponente viavai di maestosi colossi marini»,10 la ripresa si limitò ad «abbellire solo il panorama», ma nessuna conseguenza ebbe per l’economia della città. Nemmeno vi fu in quegli anni una politica organica di risistemazione del porto, inadeguato tanto alla navigazione a vapore, quanto ad accogliere navi di accresciuto tonnellaggio.11

È importante rilevare sin da adesso che il caso Messina - sia che si voglia parlare degli anni dell’”italianizzazione” tra il

7 GIUSEPPE ARENAPRIMO ET ALII, Messina e dintorni 1902, in MICHELA D’ANGELO, Prima e dopo. Messina 1902-1914, in La furia di Poseidon…, op. cit. p. 101. 8 «“Oreste Lattes, ispettore delle industrie e del commercio, lamenta che i filandieri chiudono con bilanci meschini e che questi servono in sostanza a pagare il personale impiegato. Inoltre il raccolto si presenta, nel 1888, minore di un terzo degli anni precedenti e la coltura del gelso viene in alcune zone abbandonata perché non da profitti.”» A. I. GIGANTI, Messina…, op. cit. p. 116 9 «La valigia delle Indie fa capo a Brindisi», Ivi, p. 121. 10 Dal Discorso letto all’Università di Messina, da Gabriele Grasso. Ibidem. 11 Per il rilancio del porto i tentativi ci furono ma si rivelarono inefficaci, certuni spingevano per il ripristino del porto franco visto come panacea per tutti i mali della regione, altri più costruttivamente proponeva un ammodernamento delle strutture di carico scarico che nel 1895 prevedevano ancora soltanto cinque gru azionate a mano. Inoltre la vecchia falce non era in grado di accogliere le navi di più recente varo e si ragionava dell’opportunità di investire somme considerevoli di denaro per il potenziamento di un porto in quel momento a margine degli interessi mercantili nel mediterraneo.

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marzo 186112 e il dicembre del 1908, sia che si ragioni di quelli della ricostruzione, dal dicembre del 1908 ad oggi - ruota attorno alla vocazione-identità della città siciliana. In effetti, emerge come la tendenza del Governo Italiano prima e dopo il disastro sia stata quella di un rovesciamento del Comune da città di mare a forte vocazione mercantile, a città di terra con funzioni quasi esclusivamente legate ai servizi.

Infatti, le maggiori novità di questi anni riguardano gli interventi infrastrutturali a terra (ferrovia e carrabile per Palermo) e di ampliamento del tessuto urbano (tanto a settentrione quanto a meridione). Assistiamo ad una terziarizzazione di Messina ed ad una trasformazione da punto strategico mercantile e militare nel Mediterraneo a «testa di ponte»13 dell’Italia peninsulare in Sicilia (ruolo che a tutt’oggi fa grandemente discutere). In questa direzione va letta la più importante fra le novità di questi anni: l’istituzione dei firribbotti che risolveranno, almeno provvisoriamente, la crisi economica, ma anche, soprattutto, identitaria del capoluogo peloritano. Osserviamo inoltre che tutti gli interventi di questi anni sono in linea con il nuovo assetto economico ed istituzionale in cui viene forzata la città. A ben vedere l’espansione a sud (inedita nella storia di Messina, che non si era mai allontanata, topograficamente parlando, dal porto) oltre ad essere giustificata da ragionevoli questioni edificatorie, convoglia i flussi di traffici via terra (strada carrabile o ferrata è uguale) da Palermo e da Catania e li immette per linea diretta nelle navi traghetto.

È come se i naturali assi sui quali Messina sorse, fossero ruotati. La genesi della città è, infatti, facilmente derivabile da un’osservazione attenta della topografia prima del sisma, incrociata con qualche notizia storica di rilevanza urbanistica. La ‘falce’14 fu chiaramente la prima attrazione del sito: un naturale ricovero per le barche nel punto più centrale delle colonie greche ebbe un peso determinante per la fondazione 12 A questa data l’ultimo presidio Borbonico siciliano, asserragliato nella cittadella spagnola, capitolava. 13 Cfr. GIUSEPPE CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina, Messina, Gangemi, 1988. 14 Con falce o area falcata si fa riferimento alla penisola San Ranieri, che chiude ad oriente il porto naturale.

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della città, e fu anche la ragione del suo più antico nome.15 Tralasciando le trasformazioni morfologiche della Messina antica, che così lontane nel tempo a poco giovano per la nostra indagine, si arriva per grandi balzi alla fase normanna. La città, a questo punto, ha quasi raggiunto i limiti territoriali che manterrà per tutta la storia moderna, ed è fatta tanto nell’impronta quanto nel tracciato viario fondamentale. Due i criteri secondo i quali si edifica: la prossimità al porto ed alla penisola San Ranieri, ovverosia l’area falcata; il naturale declivio delle radici pedemontane dei Monti Peloritani. In effetti, al visitatore, Messina appare come un grande anfiteatro, ché avendo la città esaurito le aree edificatorie più piane a valle, si inerpicò sulle prime alture. Da rilevare l’importanza fondamentale che rivestirono i torrenti Boccetta, Portalegni e Zaera con il suo delta - ordinati da nord a sud - che segnano l’andamento est-ovest (monte-mare), e rappresentano giaciture di primissima importanza, ché individuano le aree pianeggianti e costringono la città perpendicolarmente al porto e verso questo. Di fase Normanna è anche il primo tracciato viario nord-sud, il cui segno più importante e durevole sarà la strata magistra, oggi Corso Cavour.

Sono però gli spagnoli tra il XVI e il XVII secolo a conferire a Messina l’assetto pressoché definitivo. Delle modifiche di questi anni, concentrati tra il 153516 e il 162517 distinguiamo: interventi di ordine militare, interventi di bonifica e risanamento, interventi di ridisegno urbano. L’occasione politica era presto trovata: Carlo V che in forza delle sue eccellenti ascendenze si trovava ad essere monarca della prima e più estesa superpotenza europea, osservava con preoccupazione l’espansione turca a oriente, e Messina, era tatticamente indispensabile in questo scenario. Fu così, per sua volontà, che, nel giugno del 1537, iniziò l’edificazione delle fortificazioni.18 Il progetto era ambizioso e gli esiti non delusero

15 Zancle dal Greco antico falce. Il mito vuole sia la falce usata da Crono per evirare il padre Uranio, in seguito gettata sulla terra dalla divinità. 16 Anno della visita di Carlo V imperatore in Sicilia. 17 Al 1625 gli storici fissano l’inaugurazione del Teatro Marittimo, ultimo contributo di rilevanza urbanistica alla città. 18 L’incarico viene assegnato a Francesco Maurolico, genio eclettico, che insieme con Antonio Ferramolino, Domenico Giuntalocchi da Prato,

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le aspettative: fortini vennero eretti sui punti più sporgenti delle pendici peloritane, traguardate tra loro da una robusta e sinuosa cintura muraria che scendeva a valle lungo i letti dei torrenti Boccetta e Portalegni, poi naturalmente predisposti ad uso di fossato. Infine, le mura ricalcarono la linea dello specchio d’acqua prospiciente il porto, collegando le foci dei due torrenti, affinché non restassero punti scoperti. Così fortificata, Messina, ospitò la flotta della Lega Santa, alla vigilia della battaglia di Lepanto, evento che la diplomò base militare di primissima importanza.

All’apice della sua gloria, forte di un operoso ceto mercantile, Messina, similmente ad altri centri del Rinascimento, cambia volto: gli architetti incaricati hanno il compito di «conferire dignità e decoro ai quartieri ove si riuniscono le funzioni direzionali, dare una più elegante e sontuosa facciata ai compiti di rappresentanza e realizzare un più razionale dislocamento di funzioni economiche».19 Tra questi interventi i più significativi: la realizzazione delle Quattro Fontane e delle vie Austria e Cardines,20 la

Montorsoli da Firenze realizzerà un progetto di fortificazione che per perizia tecnica e qualità godrà già nel cinquecento di unanime plauso. Cfr. A. I. GIGANTE, Messina…, op. cit. 19 Ivi p. 52. 20 È l’intervento, realizzato su disegno del “magistro di strata” Andrea Calamech di maggiore rilevanza urbanistica e, parimenti con la realizzazione dei quattro canti di Roma, Catania, Napoli e ovviamente Palermo, ha una forte valenza istituzionale. Infatti, delle due vie che formano il monumentale quadrivio, magnificato delle marmoree fontane, la prima, intitolata a don Giovanni d’Austria eroe di Lepanto, metteva in relazione il Duomo con il Palazzo Reale; la seconda, intitolata a Don Bernardino Cardines duca di Maqueda viceré di Sicilia, il porto con l’area di espansione a meridione, dove sorgevano l’ospedale maggiore e l’università. I messaggi politici dell’operazione non sono poi nemmeno troppo occulti, oltre la razionalità urbanistica che interlaccia i principali centri direzionali cittadini, l’intitolazione di una delle due vie al viceré spagnolo è tradizionalmente letta come un’alzata di testa, con lo scopo di stabilire un rapporto paritario con Palermo. Nella capitale dell’Isola, infatti, tra il 1577 e la fine del secolo decimo sesto, si realizza la grande arteria sull’asse est-ovest che interseca, per l’appunto alle Quattro Fontane, la strada del Cassaro – la più importante della città; e che alla sua ultimazione verrà, com’è noto, intitolata proprio al Maqueda. Si confronti sul tema, oltre la già citata Ioli Gigante, per la stessa collana: CESARE DE SETA, Palermo, Bari, Laterza, 1980. Inoltre, GAETANO LA CORTE CAILER, Andrea

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realizzazione ad opera del Montorsoli della lanterna San Ranieri e delle più belle fontane cittadine, l’edificazione del Palazzo Reale e dell’Ospedale Maggiore, opere del Calamech.

In questo clima di prosperità, coincidente con il momento di vivace attività edificatoria, Messina vede la realizzazione della fabbrica che più delle altre avrà la funzione di glorificarne il potere e il prestigio economico. Il Teatro Marittimo eretto nel brevissimo volgere di tre anni, tra il 1622 e il 1625, per volere dall’allora viceré Savoia,21 su progetto dell’architetto Simone Gullì, che dall’opera ebbe imperitura gloria; era una cortina di palazzi alta venti metri, lunga oltre un chilometro che magnificava la costa e che fu subito percepita come l’ottava meraviglia e come monumento di impareggiabile bellezza.22 Sul Teatro marittimo, poi ribattezzato Palazzata, avremo modo di tornare più avanti, per adesso ci limiteremo a dire che con l’edificazione della cortina del porto, Messina è completa. Questo fu, infatti, l’ultimo significativo segno urbano, con conseguenze anche rilevanti sul tracciato viario. Da questo momento, insieme alla già citata strata magistra di normanna memoria, che conservò il suo ruolo anche nella città spagnola, coesisteranno altre tre strade di collegamento nord-sud, ognuna con una precisa destinazione sociale e culturale.23 La strada tra

Calamech scultore e architetto, Messina, 1908; e Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. Oliva, ristampa anastatica dell’edizione di Principato, 1914. 21 Terzogenito di Carlo Emanuele I di Savoia e dell’infanta di Spagna Caterina d’Asburgo, sarà nominato Viceré di Sicilia da Filippo IV nel 1588 e manterrà la carica fino alla sua morte avvenuta nell’estate del 1624. 22 Il giudizio è univoco, studiosi del luogo, viaggiatori, stranieri, restano tutti strabiliati dalla vista di questo muro d’architetture che accoglie chi entra nel porto della città. 23 La concentrazione di funzioni analoghe o di uno stesso ceto in specifiche aree cittadine era già in uso nella pratica urbanistica o ricostruttiva di fine Seicento animata da pulsioni proto-illuministiche. È, in effetti, un momento di grande sperimentazione, durante il quale specialmente l’edificazione di nuovi centri, è stata insostituibile palestra per l’urbanistica. L’estetica del rettifilo, la costruzione di strade che mettano in relazione i maggiori centri di potere, la concentrazione in posizioni diverse di diverse funzioni, sono tutti criteri andatisi calcificando in anni di esercizio. La ricostruzione seguita al disastroso terremoto del 1693, non poteva che seguire quei modelli già comprovati, e così, ad esempio a Noto come similmente a Messina, esistono tre strade distribuite a digradare, una per la nobiltà, una per il clero ed una per la borghesia; oppure, per Grammichele, sempre nella Val di Noto, è stato voluto un piano a maglia esagonale. La bibliografia a riguardo è vasta, si suggeriscono gli scritti sul tema

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il teatro marittimo e la banchina del porto consoliderà il suo ruolo di strada del commercio e dei traffici legati all’attività portuale;24 la prima parallela a ovest e direttamente collegata con questa mediante le porte del Teatro Marittimo, sarà la strada elegante dei negozi raffinati e delle case nobili e notabili; quindi il Corso; infine più in alto, più riparata dalla vivacità urbana, la strada detta «de’ monasteri», nella quale si concentrerà un gran numero di edifici religiosi. Il pentagramma di vie è variato dai quattro canti di città, quadrivio tra le vie Cardines e Austria che collegano il Palazzo Reale con la Piazza Duomo (centro religioso e centro militare-politico) e l’ospedale e l’università con il porto (servizi).

Quindi, riassumendo. Quattro strade a orientamento nord-sud degradanti verso il porto: via de’ monasteri, ecclesiastica; Corso, politico-istituzionale; via lungo le mura,25 commerciale e alto residenziale; via Colonna, commerciale-portuale. L’elemento di variazione del disegno urbano è affidato ai quattro canti che mettono in relazione tra loro tutti i servizi e i poteri cittadini. Il corso dei torrenti impone la direzione della città che volgerà naturalmente al porto, centro assoluto e indiscusso della vita e degli interessi dei messinesi. Se si eccettuano le trasformazioni successive alla rivolta del 1674, che includono privazioni, soppressione dei privilegi storici e l’edificazione della cittadella con la militarizzazione del braccio di S. Ranieri, possiamo affermare senza rischio di smentita che la Messina della metà del seicento è la stessa che fu colta nel sonno dal terremoto di dicembre. Tanto più se si tiene a conto che il sisma del 1784, che pure distrusse gran parte della città, non ne mutò minimamente l’aspetto.26

di Stefano Piazza ricercatore di Storia dell’Architettura all’Università di Palermo. 24 Già via de Banchi, poi Colonna in ossequio al viceré Marcantonio Colonna che ne aveva disposto la sistemazione, diviene nota «per i mercati di rango, per le spesse botteghe ripiene di ricchissime merci di panno d’oro, seta e lana». Messina prima e dopo il disastro… op. cit. p. xx 25 Titolazione borbonica, era la vecchia via del teatro marittimo. 26 Le vicende ricostruttive, seguite al terremoto del 1783 sono ampiamente documentate. In questa sede ci limitiamo a dire che Messina fu ricostruita dov’era e pressoché com’era, le variazioni sono solo di natura epidermica e comunque sempre rispettose del gusto messinese - che era quel misto di Barocco e bizantino –; inoltre anche le norme asismiche che furono varate dal

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Diversamente accadde all’indomani del terremoto del 1908. Chissà forse a Messina la sera del 28 dicembre, dopo l’Aida

di Verdi in replica per tutto il mese, al teatro Santa Elisabetta, si parlava di attualità, di tasse doganali, della crisi della seta, del piano d’espansione dello Spadaro.27 La mattina appresso, la sorpresa e lo sconcerto avrebbero fatto dimenticare tutti i problemi, probabilmente relegandoli ai confini della memoria; avrebbero posto una questione di portata eccezionale di cui non si sarebbe mai smesso di parlare, un fatto che, nell’esatto momento in cui accade, sublima dalla cronaca al mito senza nemmeno passare per la storia. Questo è stato il terremoto a Messina: un mito, un terrore sopito, che mettendo in moto le «cieche forze» con uno «starnuto della natura», in poco meno di quaranta secondi fa orrendo scempio di due città.

In questo scenario di vite sospese, qualche giorno dopo il disastro, parte, dal porto di Messina, un piroscafo carico di agrumi per l’America. È il primo, inequivocabile segno che la città non perì nel tragico evento. A questa data possiamo fissare l’inizio della ricostruzione, immaginando di far coincidere il gesto con la volontà. D’altronde non si poteva volere diversamente. Le due ipotesi, che pure furono avanzate, di non ricostruire affatto Messina o di ricostruirla in altro sito furono rapidamente cantonate. Della prima si era fatto sostenitore l’on. Colajanni secondo il quale «per sgomberar le macerie [sarebbero occorsi] tanti milioni quanti […] per costruire gli edifici. Messina [sarebbe, quindi, restata] solo testa di linea ferroviaria per le comunicazioni con il continente». Di ricostruire altrove aveva avuto a dire il sen. Paternò per il quale: «Messina non [era] più e non [poteva] risorgere nello stesso posto anche se [lo si fosse voluto; sarebbe, quindi,

governo borbonico all’indomani del disastro furono col tempo sempre più incurantemente infrante, e non contribuirono se non in minima parte ad una nuova veste urbana. 27 Era questo il piano di espansione a meridione sulla piana delle Moselle. Prevedeva la realizzazione di una lunga spina, dalla quale diramassero perpendicolari, sì da disegnare un piano a scacchiera. Non sarà diverso da quello che riprenderà l’ingegner Borzì una volta assunto l’incarico.

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dovuta] essere ricostruita in un altro punto, fuori da ogni pericolo di terremoto».28

Ma più eloquente di queste opinioni e di questi voti a sostanziare la scelta della ricostruzione sulla «istessa plaga» fu «il tenace attaccamento delle rovine di quelle poche migliaia di scampati che nonostante gli sforzi fatti dalle autorità per allontanarli […] rimasero nei malsicuri spazi liberi dopo il crollo di tutte le case tra disagi tremendi». «Provate a dire ad un popolano che Messina sarà ricostruita e vedrete i suoi occhi accendersi di una fiamma di commozione ansiosa come se gli diceste che ritroverà la sua famiglia perduta».29

«[…] Io lo grido con tutta la mia anima, so che anche Giolitti lo vuole. Messina deve risorgere. Risorgerebbe, indipendentemente della leggi che noi potremmo fare per impedirlo. Sono le convulsioni della natura che l’hanno distrutta, ma sono pure le leggi della natura che l’hanno voluta lì da venti secoli. Porta aperta sul mare, emporio di commercio fiorente, città forte, essa è una necessità inderogabile della vita dell’isola, essa ha la sua funzione d’esistenza anche in questo momento nel quale ci sembra distrutta. Mancherebbe alla Sicilia un polmone, e nelle catene di organi che formano la marina d’Italia mancherebbe un organo essenziale. Non si possono annullare venti secoli di storia»30

Messina deve risorgere! Questa convinzione hanno già affermata Governo e Camere; […]31

«Ma qui dove troneggia ancora Nettuno, simbolo del genio marinaro di nostra gente […]; qui dove è in piedi ancora il monumento dell’eroico Musotto, ricordo della fortezza e della generosità siciliane, [qui] freme già un alito di vita nuova e Messina fedele a Cristo, che è vita e

28 La cronaca della polemica intorno la ricostruzione - attraverso i medesimi episodi - è presa da G. CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina… op. cit. p. 39 e sg. Dallo stesso si ricava: «il Paternò, poi, su “L’ora” del 13 gennaio 1909 (dopo la seduta solenne del Senato [nella quale si decretò la rinascita della città]), precisava il senso di queste affermazioni: “nel riferire una conversazione che io ebbi con un giornale siciliano, fu detto esser mio pensiero che la città debba risorger in altro luogo. Il concetto, a cui m’ispiro, è questo: che volendo subito ricostruire a vita civile Messina, i primi edifizi non possono sorgere sulle macerie dell’antica città, perché il loro sgombero richiederebbe un tempo troppo lungo. E perciò essi debbono sorgere oltre la periferia delle macerie, precisamente al limite di essa. D’altronde un problema come questo non si risolve che dopo studi maturi; né è lecito improvvisare”». La citazione è da CESARE SOBRERO, La nuova Messina secondo il sen. Paternò, L’Ora, 13 gennaio 1909, in Il terremoto…, op. cit. p. 482 e sgg. 29 G. CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina… op. cit. p. 40 e sg. 30 TULLIO GIORDANA, V. E. Orlando: la regina dello Stretto risorgerà, La Tribuna, 5 gennaio 1909. Ivi. p. 478 e sgg. 31 Ivi, p. 482 e sgg.

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resurrezione, ode ancora una volta il suo comando: “Risorgi!”».32

Insomma una cosa fu da subito certa Messina, per urlata volontà dei suoi cittadini, sarebbe risorta e sarebbe risorta «dov’era». Almeno questo si deliberò la mattina del 7 gennaio allorquando

«sotto la tettoia della stazione ferroviaria33 i deputati Lodovico Fulci e Giuseppe De Felice si riunirono ai membri superstiti della Deputazione Provinciale. L’adunanza ordina per acclamazione il seguente ordine del giorno: “i cittadini di Messina, scampati all’immane disastro, e qui presenti, nonché i consiglieri provinciali superstiti, il sen. Durante, gli onorevoli Pantano, Faranda, De Felice, Micheli, Orlando, Salvatore, Casciani, Bucelli, Fulci Lodovico, riuniti sulle rovine della città, incoraggiati dalle universali e commoventi prove di solidarietà umana, affermano essere un dovere storico e nazionale il risorgimento di Messina. Il Parlamento Italiano, rendendosi interprete dell’anima nazionale e dei voti del mondo civile, voglia con provvedimenti adeguati alla eccezionale sciagura e con l’indirizzo imposto dalla tragica esperienza, assicurare in queste plaghe desolate dalle forze cieche della natura la vita nuova della Città che vide seppelliti i suoi figli sotto altre rovine per la difesa della patria e della civiltà»34

Con quest’ordine del giorno un «gruppo di potere» spontaneo ma non estemporaneo e amorfo, un’élite che comprende cittadini elettori, ministri in carica, parlamentari autorevoli, eletti in collegi della città e in altri collegi, senza distinzione di maggioranza e opposizione, pronuncia uno statuario «io voglio» e lo fa in termini di volontà generale, come può essere espressa da una parte della nazione (da un municipio) per la nazione tutta intera.35

32 Si tratta dell’orazione fatta dal gesuita padre Fernando Calvi in occasione della ricorrenza dell’anniversario. Ivi, p. 35. 33 I superstiti dei quadri dirigenti, invero decimati, fissarono un incerto quartier generale alla stazione – probabilmente posto fra i più sicuri nell’oceano di macerie –, da lì, durante il primo improvvisato e commosso consiglio cittadino, si deliberò la resurrezione di Messina. 34 Il passo, pubblicato da La tribuna del Mezzogiorno, supplemento, 28 dicembre 1958, in La furia di Poseidon…, op. cit. p. 34 35 Ibidem. F. Mercadante, autore del contributo, passa poi ad un’attenta analisi del passo riportato, individuando tre passaggi di grande e misurata qualità: «1) la rilevanza planetaria del caso Messina, in relazione alle eccezionali prove di solidarietà umana giunte da tutto il mondo: 2) il richiamo abilissimo, nella sua allusività, alla Messina città patriottica che ha già dato tanto, in sangue e rovine, alla causa del risorgimento italiano; 3) la certificazione diplomatica in un testo di pubblico interesse, fornita alle forze cieche della natura». Con grande acume, il nostro autore, in un positivo complessivo giudizio delle

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Fu dunque Giolitti che il 15 gennaio 1909 nominò una Commissione Reale – istituita con decreto regio – con l’incarico di designare le «zone più adatte alla ricostruzione degli abitati colpiti dal terremoto del 1908 e precedenti».36 La Commissione valutava affinché la ricostruzione avvenisse, sostanzialmente, nella medesima zona d’impianto e «nelle immediate vicinanze del porto»,37 ma che:

Nella riedificazione della città occorre pure tenersi a maggiore distanza dal mare e che in conseguenza non dovrà permettersi la costruzione di edifici destinati ad abitazioni permanenti in prossimità della spiaggia e sarà invece da prescrivere che tali abitazioni si mantengano a distanza di almeno 100 metri dal ciglio esterno delle banchine o dalla battigia del mare e dovrà del pari essere vietata ogni costruzione di abitazioni permanenti nell’area falcata.38

È facile credere che le rigide conclusioni cui pervenne la commissione, furono tratte nella convinzione – certamente ben radicata nei testimoni dell’orrendo spettacolo – della distruttività del maremoto, e nella necessità di attrezzare le

vicende della ricostruzione, per la particolare cifra di solidarietà dei popoli che la contrassegnò, non manca di notare come occorra periodizzare, «[…, Fra] esercizio della virtù, nel primo trentennio del secolo, fino al 1938, e […] satiriasi urbanistica [dal 1938 ad oggi]». 36 Formata da: prof. Pietro Blaserna, senatore, presidente dell’Accademia dei Lincei con funzione di presidente; prof. Angelo Battelli, deputato al Parlamento, don Guido Alfani, direttore dell’Osservatorio geodinamico Ximeniano; prof. Carlo De Stefani, docente presso l’Istituto superiore di Firenze; ing. Raffaele De Corné, ispettore superiore del Genio Civile; Lucio Mazzuoli, ispettore superiore capo del Regio Corpo delle Miniere; prof. Torquato Taramelli, docente presso la Regia Università di Pavia; Eugenio Caputo, tenente colonnello del Corpo di Stato Maggiore del Regio Esercito; Paolo Marzolo, capitano di fregata, direttore del Regio Istituto idrografico della Marina; prof. Luigi Palazzo, direttore dell’Ufficio centrale di meteorologia e geodinamica; prof. Annibale Riccò, direttore dell’Osservatorio Etneo di Catania; prof. Giovanni Battista Rizzo, direttore dell’Osservatorio di Fisica di Messina. La Relazione della Commissione Reale incaricata di designare zone più adatte alla ricostruzione degli abitati colpiti dal terremoto del 1908 e precedenti, Roma, Tipografia della R. Accademia dei Lincei, 1909 è citata nell’articolo di NICOLA ARICÒ, Ragionamento sulla città tradita, in La furia di Poseidon…op. cit. p. 313 e sgg. 37 Cfr. ANTONIO GUIDINI, Piano Regolatore della Città di Messina, Milano, Civelli, 1910, p. 24 e sg. 38 L’estratto della relazione è riportata da NICOLA ARICÒ in La furia di Poseidon… op. cit. p. 319

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banchine per l’approdo di più grandi scafi. Non si spiegano altrimenti prescrizioni che contravverrebbero con la spontanea vocazione della città e che creerebbero (e che, in effetti, crearono) una laceratura tra Messina e il suo porto. I cento metri di sicurezza fissati dalla battigia – e poi scrupolosamente rispettati nella prima stesura del piano approvato – fecero subito una vittima illustre. Ricadeva, infatti, all’interno della fascia di inedificabilità39 delimitata dalla Commissione quanto restava del Teatro Marittimo – che d’ora in avanti appelleremo col nome post-unitario di Palazzata – e che non era poca cosa.

Sembra, infatti, che la Palazzata fosse dirupata a blocchi e nel complesso, non difficilmente riedificabile. Svariate le teorie al proposito dei danni, pure consistenti nel Grande Palazzo; ad esempio ci fu chi credé che a rimanere in piedi furono solamente le fabbriche cadute durante il sisma del 1783 e poi interamente riedificate; mentre a rovinare quelle che, pur resistendo alla prima «convulsione», raffazonatamente rattoppate, non ressero alla seconda. Pare plausibile; si tenga anche conto che il moto composito del sisma, prima oscillatorio poi sussultorio, crepò il terreno con discontinuità, come testimoniato dall’on. Luigi Fulci, il quale scrive:

«Ho saputo pure che il suolo della via Garibaldi si fosse rialzato. […] Essa presentava dei crepacci tra le basole della strada, ma non come un rialzo del terreno, ma invece come un avvallamento nella parte più bassa della città, nell’area cioè in cui la Palazzata fronteggia il teatro Vittorio Emanuele. […] Ebbi pure l’impressione che la distruzione completa sia stata in tutto quel terreno alluvionale che si trova vicino al torrente Boccetta e al torrente Portalegni, che passa presso il Grande Ospedale civico […]»40

E le fotografie della città distrutta non smentiscono la testimonianza, tanto più che anche laddove il nucleo della fabbrica crollava, i muri maestri restavano in piedi.41

39 Tra 15 e 30 m, con un massimo di 70 m. davanti la fontana del Nettuno. Cfr. La furia di Poseidon… op. cit. p. 322. 40 Ibidem, p. 34 e sg. La testimonianza di Luigi Fulci è edita ne I giorni del terremoto, a cura di Attilio Borda Bossana, Messina, Città e Territorio, 1998. 41 E lo spettacolo doveva parere spettrale: «A prima vista, sembrava che la Palazzata […] fosse poco danneggiata. Ma non appena giunsero più vicino,

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Comprensibile, quindi, che in breve tempo s’accese un appassionato dibattito fra i sostenitori della completa distruzione della Palazzata – concordemente con le norme igieniche e antisismiche – e coloro i quali, contrariamente, ne auspicavano la rinascita.

Per capire la centralità del tema, occorre tenere ben presente l’importanza che la cortina del porto assunse per Messina sin dalla sua fondazione: essa era il massimo orgoglio civico e s’identificava quasi integralmente con l’immagine della città. In tutta la topografia, cartografia, nelle rappresentazioni storiche dal 1625 fino ai primi anni del Novecento – sia, Messina, ritratta da sud (arrivando via terra da Catania), lo sia da nord (via mare) o lo sia frontalmente (è il caso più comune) – la Palazzata occupa, visivamente, un posto di assoluta importanza, a volta retoricamente ingigantita a discapito delle verità spaziali. Sia detto inoltre, che di là del pregio architettonico e della suggestività dell’immagine, il grande complesso monumentale rappresentava il potere cittadino che al suo interno vi teneva dimora.

Fondata con lo scopo di magnificare una tra le città più floride del regno, fu edificata con il sostegno stesso dell’élite messinese. Il viceré Savoia, infatti, mecenate e ideatore del Teatro Marittimo nel 1622 dopo aver messo in vendita l’area demaniale su cui sorgeva la cintura muraria lato mare, primamente abbattuta per far spazio all’erigenda fabbrica, obbligò gli acquirenti al completamento della costruzione, sul disegno dell’architetto incaricato Simone Gullì, in tempi strettissimi; fu così che la colossale opera poté essere ultimata in soli tre anni.42

Una lunga fila di sontuosi edificj sullo stesso disegno cingevano in guisa d’anfiteatro il porto anzidetto: eran questi uniti per via di magnifiche porte, in guisa che un solo palazzo figuravano. […] era tale la loro maestà ed eccellenza che venivan chiamati l’ottava meraviglia del

videro che il muro esterno, con la sua facciata scolpita di graziose divinità, era come un guscio vuoto di conchiglia». Ibidem p. 136. 42 Messina prima e dopo…, op. cit.

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mondo.43

In tutte le rappresentazioni, la costruzione appare sempre a quattro piani, di cui due nobili, con balconi a frontini alternati (curvilinei e triangolari) senza lesene, in cui l’unico elemento verticale di scansione ritmica era rappresentato dalle porte di accesso che si alternavano con periodicità costante, connotandosi in tal modo come elementi architettonici di riferimento.44

Il successo e la fama dell’opus maximum furono planetari (per il senso che può assumere questa parola nel XVII secolo): Regent Street, Bath, così come il l’idea di più palazzi, distribuiti lungo uno sviluppo mistilineo, «che un solo palazzo figuravano» trovano nel Teatro Marittimo Messinese il primo e più valido archetipo. La forza di un progetto, «in grado di cingere lo specchio del Porto», stava, fra l’altro, nel sostituire con «un’immagine di città aperta e vitale, [la] chiusura delle mura che isolavano la città dal mare».45 Per di più la varietà funzionale e sociale che trovava albergo al suo interno – come dimora nobile, come centro direzionale, come centro mercantile – restava un unicum nel panorama italiano, come anche siciliano, possibile solo dove «quella fonte inesauribile di ricchezza»,46 che era il porto, aveva consentito la proliferazione di un agiato ceto borghese. La Palazzata, per tutte queste ragioni trasversali, è candidata ad essere, con prepotenza, e quasi sin dalla sua inaugurazione, come fronte stesso della città e come unico modello di auto-rappresentazione.47

Tale la gloria che il giovane Filippo Juvarra, massimo tra gli architetti barocchi e – non a caso – messinese,48 alla vigilia

43 GAETANO GRANO, Guida alla città di Messina, scritta dall’autore de’ Pittori Messinesi, Messina, Giuseppe Pappalardo, 1826. 44 PASQUALE LA SPINA, Appunti grafici della Palazzata nella Città di Messina, Messina, Quaderno n. 2 dell’istituto di disegno dell’Università di Messina, 1980, p. 97 45 LAURA DI LEO, MASSIMO LO CURZIO, Messina, una città ricostruita: materiali per lo studio di una realtà urbana, Bari, Dedalo, 1985, p. 35. 46 Messina prima e dopo il disastro…, op. cit. p. 163 47 Cfr. L. Di Leo, M. Lo Curzio, Messina una città ricostruita… op. cit. 48 Messina durante il XVII secolo teneva scuola di maestranze, principalmente specializzate nell’opera d’intaglio e nel commesso di marmi. Foraggiati da un clero economicamente potente, capace di commissionare opere mirabolanti e massimamente decorate, le scuole messinesi si affermarono solidamente in tutta

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della partenza per Torino, schizzerà una veduta del porto cittadino immaginando di vedere prolungata la Palazzata di cinque chilometri – oltre metà dell’intera lunghezza della costa settentrionale – fino al santuario di Santa Maria delle Grazie nel villaggio suburbano di Grotte.

Non sorprende, quindi, che dopo il terremoto del 1783, già nel 1803, su disegno dell’abate Giacomo Minutoli e con le stesse modalità secondo le quali sorse la precedente, «Rincorati gli animi […], prima d’ogni altro, si pensò di far risorgere la Palazzata più ricca, più imponente, più bella, se non più elevata di prima, quale segnacolo del risveglio edilizio della nuova Messina».49 Non vi fu, quindi, un dubbio ch’essa avesse a risorgere, ma molte furono «le lungaggini» per risolvere il «grave quesito di non privare il porto della sua antica imponenza» e allo stesso tempo di assicurarla contro le future «convulsioni» del terreno. Nel complesso, la Palazzata dell’abate Minutoli era di bella forma e di poco divergeva da quella del Gullì, se non per un più evidente classicismo e per il «freddo razionalismo minutoliano».50 Per il resto – come la precedente – era caratterizzata dall’assenza d’interruzioni orizzontali, e solamente cadenzata verticalmente da un alternarsi di colonnati. Al centro della cortina, spiccava su gli altri, il Palazzo della Città (Municipio) che aveva una più evidente cifra di monumentalità; mentre al 1908 essa appariva incompleta in alcuni blocchi i quali non erano ancora stati elevati alla quota del cornicione. Comunque, nell’insieme, «esprimeva gli stessi valori urbanistico-scenografici» della più antica fabbrica,51 e l’effetto era parimenti pregevole e del tutto

l’isola. Dalle decorazioni dei palazzi Biscari e Cerami a Catania, fino ai frontoni delle chiese di Noto, passando per la grande stagione edilizia che seguì il terremoto del 1693, Messina diede i natali a moltissimi tra gli artigiani più prolifici e raffinati del meridione. Juvarra, in questo senso, anch’egli figlio di un mastro cesellatore, non costituisce eccezione e porta alla corte sabauda quella fantasia spregiudicatamente barocca che eccelleva nella Città dello Stretto. Cfr. MARIA ACCASCINA, Profilo dell’Architettura a Messina dal 1600 al 1800, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1964. 49 Messina prima e dopo il disastro…, op. cit. 50 Il giudizio è di Francesco Basile, riportato da P. La Spina, Appunti… op. cit. p. 103 51 Ivi.

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analogo a quello che aveva a meravigliare i viaggiatori durante il XVII e XVIII secolo.

È comprensibile quindi come la cittadinanza di Messina sentisse prioritaria la questione della Palazzata – e particolarmente del municipio, esempio di monumentalità e rappresentatività civica – che esplose allorquando il governo fissò quelle leggi antisismiche e igieniche cui ne sarebbe conseguita la definitiva soppressione. Di queste leggi occorre tenere a mente soltanto i due articoli del Regio Decreto 18 aprile 1909 N. 193, che furono decisivi nella ricostruzione e che tanto mutarono il volto della Città: «Art. 22 comma a) le vie debbono avere una larghezza non minore di metri dieci; […] comma b) le case prospicienti, […] non debbono avere altezza maggiore della larghezza della strada diminuita di m. 3,50».52 La ratio di queste due disposizioni è facilmente intuibile. Le case basse resistettero meglio al movimento tellurico, perché le oscillazioni non s’amplificarono in elevato. Messina, poi, all’alba del 28, era letteralmente sepolta sotto le macerie, tanto che non se ne riconosceva il tracciato viario: un’opportuna ampiezza delle strade – oltre ad avere degli ovvi vantaggi tecnologici e impiantistici – avrebbe maggiormente assicurato la sicurezza all’aperto.

È l’ingegnere cav. Luigi Borzì – già tecnico comunale al Genio Civile e sopravvissuto al 28 dicembre – a ricevere l’incarico del nuovo Piano Regolatore per la ricostruzione della città, ed a rispettare per primo puntigliosamente la normativa asismica, a misura di disastro, varata dal Governo. Egli previde, nel suo Piano, la soppressione della Palazzata, per l’intera sua chilometrica lunghezza, avendo fatte proprie le ragioni della sopra citata Regia Commissione, delle normative, e convinto, com’era, dalle precedenti sciagure, dell’instabilità di una simile opera.53 Scriveva, infatti, nel suo documento che

52 LUIGI BORZÌ, Piano regolatore della città di Messina, approvato con R. Decreto 31 dicembre 1911, p. 19 e sg. Edito in G. CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina…, op. cit. p. 217 e sg. 53 Di seguito riportiamo le righe che Borzì dedica all’argomento nel suo Piano, con le ragioni cui faceva ricorso per affermare l’impossibilità del restauro della Palazzata: prima fra tutte, l’esito disastroso del Teatro Marittimo gulliniano all’indomani del 1783. Scrive Borzì: «[…] Prima di chiudere questa parte, ritengo opportuno dare qualche notizia intorno alla Palazzata, la cui

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«sarebbe il più grave errore persistere ora nella riedificazione della Palazzata»; e più avanti ribadiva come primaria per la «ricostruzione e il risanamento della vecchia città», la «soppressione della Palazzata con allargamento della via

costruzione, durante il regno di Filippo IV, fu ideata da Emanuele Filiberto. Questo Principe, il quale nutriva un culto per le manifestazioni dell'arte, pensò di costruire attorno al porto un superbo teatro di palazzi: e nel 1622 ne fece porre la prima pietra ed a ricordo fece subito erigere un altare presso la Porta dei Martoriati, “Porta Messina”. Gli annali del Gallo narrano che la grande fabbrica fu ultimata in soli due anni [in realtà sono tre, dal ’22 – ’25. N.d.A.]. Ciò valga a dimostrare quanto florida fosse allora la città. Un secolo dopo, 20 Giugno 1753. il viceré Duca di Laviefuille, sotto il dominio di Carlo di Borbone, nominava una speciale commissione per la decorazione del grande edifizio; e, “per migliorare la linea estetica del teatro marittimo”, faceva sgombrare la casupole e le baracche abitate dai pescatori, le quali deturpavano l’ampia strada. La Palazzata cadde poi interamente, in seguito al terremoto del 1783. Attenuata col tempo l’impressione disastrosa di quel cataclisma, rinacque l’idea di riedificare la Palazzata là dov’era già caduta. E molti furono i dibattiti nei quali, più che le ragioni dell’arte, contendevasi la vittoria gli interessi delle persone. Nel 1790 il Capitano Ingegnere Francesco La Vega, aveva impartito all’abate Minutoli (incaricato del progetto) istruzioni in proposito; ma queste furono revocate nel 1801 in seguito a parere della Giunta delle strade, la quale stabilì che la nuova Palazzata, a differenza dell’antica, dovesse comprendere 36 isolati con altrettante porte 13 delle quali dovevano distinguersi per speciali ornamenti. Oltre a ciò ogni fabbricato doveva contenere tre ordini di aperture, ciascun dei quali, in linea orizzontale, doveva averne almeno sei. L’altezza. dal livello del terreno al cornicione, doveva essere di palmi 77, pari a metri 19.86. Ma gli intrighi continuarono, e solo cessarono quando l’abate Minutoli autore del progetto approvato, si unì con uno degli altri architetti il quale, pur facendo parte della giunta delle strade, era stato il più accanito avversario. Ciò avvenne il I7 settembre 1808. Ma una nuova remora doveva ostacolare la riedificazione della Palazzata: le difficoltà per la concessione del suolo. Provvide disposizioni del governo permisero di appianare siffatte difficoltà, diguisaché sul finire del 1809 si videro sorgere i primi palazzi che, col volgere di alquanti lustri, dovevano formare quel monumento d’arte che fu uno dei più lodati di Messina e che il tremendo disastro ultimo inesorabilmente distrusse. Certamente i nostri antenati non tennero alcun conto dei movimenti sismici a cui era oggetto il nostro territorio: il disastro del 1783 ed i fenomeni allora osservati, avrebbero dovuto ammaestrarli specialmente sulla resistenza che poteva offrire il sottosuolo della città: ma l’amore dell’arte e la maestosità dell’opera sorpassarono ogni sentimento di prudenza! A distanza di un secolo, la rovina del superbo edificio doveva recare lo sterminio nelle famiglie più agiate e di nobile casato! Sarebbe quindi il più grave errore persistere ora nella riedificazione della Palazzata». Ivi, p. 9 e sgg.; in G. CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina…, op. cit. p. 207 e sgg.

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Garibaldi sino al mare».54 E così accadde. Ma non prima, che l’opinione pubblica, i quadri dirigenti e altri autorevoli personaggi si fossero espressi sulla questione ed avessero auspicato la conservazione del fronte a mare.

Il parere che più d’altri è rilevante, per serietà d’indagine e sensibilità d’approccio, è quello sostenuto dall’ingegner Augusto Guidini, ticinese, di solida e moderna formazione. Egli alimentò la speranza nei superstiti, che non solo la Palazzata potesse essere ricostruita, ma che ciò accadesse, era un obbligo e un segno di rispetto verso la Città.55 Guidini aveva proposto 54 Quest’ultima seguirà il contorno del porto, raccordandosi col viale 'Principe Amedeo’ a nord e con viale San Martino a sud. Per aderire al desiderio della cittadinanza, espresso dalla commissione nominata dal Regio Commissario, detta via, in corrispondenza del palazzo prefettizio, continuerà egualmente larga a nord Verso il quartiere Fornaci, mentre dal lato opposto, attraversando sempre in linea retta la via Primo Settembre, sboccherà in Piazza Cairoli. Tenuto conto del rialzamento che dovrà subire lo spazio destinato a calata del porto (in conformità del progetto di massima compilato da apposita Commissione di Ispettori Superiori del Genio Civile) il tipo che abbiamo dato all’arteria in questione è indicato nella tavola 6. Allegato 6. La sua massima larghezza, dato il traffico che è destinata a contenere, è stata stabilita pari a quella dei viali Principe Amedeo e San Martino, dei quali rappresenta il tratto di riunione. Eguale larghezza si é pure assegnata ai due tratti estremi in rettifilo con la parte Centrale. Ivi p. 27; in G. CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina…, op. cit. p. 225. 55 Di seguito si riporta il paragrafo, dal titolo «Necessaria e doverosa conservazione della Palazzata», nel quale, Guidini, scrive ragioni e modi per trattare il fronte a mare. «E ciò deve valere anche e principalmente per la Palazzata, di così monumentale e grandioso aspetto, che segna una linea frontale decorativa in prospetto del mare. La quale Palazzata può essere, in tutta od in parte, conservata e riedificata, con monumentale carattere – ad esempio degli insigni monumenti antichi ed asismici – alla semplice condizione di migliorarne ed irrobustirne le fondazioni, mediante larghe ed idonee platee d’impianto, in cemento armato ed a doppia orditura; o con una costruzione più collegata e massiccia, con miglior pietra che non sia l’arenaria di Siracusa, ed impiegata meno a rimpello dell’attuale. È un fatto che la Palazzata – nel suo sviluppo chilometrico, formante il magnifico fronte della città – ebbe più gravemente a soffrire dell’incendio, che delle scosse telluriche. Onde il suo aspetto – solo in parte lesionato – larvava dal Porto l’immensità del disastro retrostante ed esteso, dell’infranta Città. Nessuna speciale ragione scientifica ne esige od impone lo sgombro. La costituzione litologia e geologica del sottosuolo è uguale a quella della adiacente e rimanente zona pianeggiante, risultando lo stesso identicamente formato da sabbie marine, e da alluvioni recenti, consolidate: col vantaggio di una stratificazione regolare e spianta, esente dai pericoli di frana dei più accentuati pendii retrostanti; e colla identica e

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al Comune, su iniziativa personale, un Piano Regolatore alternativo a quello Borzì, segnato da una cifra spiccatamente più conservativa e rispettosa, non soltanto del tessuto dell’antica «zona d’impianto», quant’anche delle testimonianze che, seppur malconce, avevano ancora speranza di essere restituite alla città. Tanto più, un tale approccio, doveva valere

sottostante esistenza del cristallino e del conglomerato, come è attestato dai diversi affioramenti circostanti, e nella falce naturale ed antistante del Porto. E la stessa Sottocommissione scientifica, nella dotta Relazione stesa dall’illustre professore Taramelli, mentre afferma come «nell’area della distrutta Messina non esistono plaghe di spiccata incolumità» riconosce esplicitamente, ed a ragione, che «le alture circostanti […] siano state ancora più del piano fortemente scosse e sconvolte, e disseminate di rovine». Ora la Palazzata forma appunto il fronte della zona pianeggiante: e di questa, e della intiera zona d’impianto della vecchia Città, fu la meno danneggiata dalle scosse distruttrici, segnatamente nella sua tratta centrale e nella testata verso l’antico Palazzo Reale; risultando solo più lesionata nell’opposta testata, verso il Faro, ove si accentua un maggior isolamento. Tutto questo non attesta certamente, in suo favore: né può imporne, od anche semplicemente indicarne, la totale rimossione [sic], e lo sgombro. Né il parziale abbassamento di uno dei margini del Corso Vittorio Emanuele, può far temere – e dopo una tanto catastrofe – ulteriori frane o sommersioni: trattandosi per di più di sponda di un Porto, di limitata profondità, e moderata azione delle acque, e colle continue dejezioni dei torrenti che vi sboccano: e non di riva di mare aperto. E la battigia del mare – in detto Porto naturale protetto dal lido falcato – è ben limitata: né può esercitarvi, certamente, una soverchia azione di corrosione. Perché dunque distruggere l’intiera Palazzata ed arretrare il fronte della Città? Perché non dovrà invece essere conservata: e meglio perché non dovrà risorgere – almeno in parte – nella identica zona d’impianto, nello storico e scenico suo aspetto, ed alle forme tradizionali e congenite della classica architettura? L’eliminarla intieramente sarebbe, certamente, atto ingiustificato ed eccessivo. Il deliberato già accennato della Commissione Reale conferma ed elenca le imprescindibili ragioni, esigenti che la Città risorga sulla superficie già da essa occupata, in immediata vicinanza del porto» la eliminazione della intiera sua parte frontale e migliore, sarebbe quindi in contraddizione: sarebbe per di più un vandalismo – che tornerebbe di grave sfregio alla Città, dannoso allo stesso Porto, e sommamente doloroso ai superstiti abitanti. Il magnifico anfiteatro marittimo – che data ormai dal XVII secolo – e che fu geniale concetto e creazione fastosa degli antenati di Casa Savoia, essendone stato ideatore Emanuele Filiberto, e continuatore Vittorio Amedeo Sovrano di Sicilia, fregiato dal nome del primo Re d’Italia, vuol essere conservato all’arte, alla storia, ai fasti della Città sventurata e gloriosa. Così l’aspetto sul mare, della Città rinnovata, non sarà meno bello e trionfale, di quanto lo era quello della vecchia Città; ora tanto ed orribilmente devastata e distrutta. Così la risorgente Città avrà nuovamente il suo fronte tradizionale, specchiantesi nelle acque azzurre del Porto falcato ed eterno. “Post fata resurgam”, ed in tutto il prisco splendore: sarà la divisa fatidica della nuova Messina». A. GUIDINI, Piano Regolatore…, op. cit. p. 24 e sgg.

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per la Palazzata «di così monumentale e grandioso aspetto». Le ragioni tecniche che attendono all’operazione di tutela, pongono un’alternativa alle rigide norme asismiche, ampiamente avallate nel piano Borzì: tanto l’altezza degli edifici,56 quanto l’ampiezza delle strade, per Guidni, non dovrebbero costituire una variabile, stando costante l’elevata qualità tecnologica delle fabbriche e le alte prestazioni dei materiali impiegati. Anzi, rilancia. Una maggiore altezza, «colla aggiunta di [un piano] intermedio», oltre ad assicurare quella cifra di monumentalità che sarebbe impari negare alle zone del sud, dove esistono poche «aree di spiccata incolumità» dai sismi, renderebbe «l’edificio […] più solido, collegato e resistente: e la sua limitata maggior altezza è largamente compensata dal migliore ed organico sistema costruttivo e dalla maggiore sicurezza asismica, conseguentemente risultante». «Nessuna speciale ragione scientifica ne esige od impone lo sgombro», «alla semplice condizione di migliorarne ed irrobustirne le fondazioni, mediante larghe ed idonee platee d’impianto, in cemento armato», e mediante l’impiego di una pietra diversa, più resistente, della fragile arenaria di Siracusa. La Palazzata, poi, diversamente dalle costruzioni più a monte, meglio resistette alle scosse, e ciò avvenne per la sua posizione, nell’area più pianeggiante e quindi meno soggetta ai moti

56 «Vostra eccellenza accenna alle norme tecniche ed alla limitata altezza ufficialmente prescritta per i nuovi edifici. Ma io osservo in proposito, che la buona soluzione di un edificio asismico e sicuro è possibile anche fuori dai limiti ufficiali. […] L’altezza soverchiamente limitata degli edifici costituisce una vera e propria disparità di trattamento nelle zone meridionali generalmente soggette a scosse sismiche. E penso che Vostra eccellenza farebbe cosa utile e necessaria – pur rispettando per i casi comuni e di edifici popolari ed economici le norme citate – di porre allo studio la occorrente estensione del problema, e la utile soluzione, per speciali ed importanti edifici civili, e pubblici e privati, di organismi di maggior altezza, da almeno dodici a sedici metri: e comunque prendenti almeno un piano ammezzato, oltre i due piani normali. […] perché l’edificio spesso – colla aggiunta di una intermedia e generale impalcatura – ne risulta più solido, collegato e resistente: e la sua limitata maggior altezza è largamente compensata dal migliore ed organico sistema costruttivo e dalla maggiore sicurezza asismica, conseguentemente risultante». Si tratta di uno stralcio della corrispondenza tra Guidini e il Ministro ai LL. PP. Ettore Sacchi pubblicata sulla «Gazzetta di Messina e delle Calabrie», 7-8 agosto 1910, in RAIMONDO MERCADANTE, Messina dopo il terremoto del 1908, la ricostruzione dal piano Borzì agli interventi fascisti, Palermo, Caracol, 2009, p. 93.

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tellurici, nonché per la buona qualità edilizia. Né può costituire un impedimento la distanza fissata dalla banchina, che contraddice la disposizione – pure contenuta nello stesso regio documento – secondo cui la città risorga nell’immediata vicinanza del porto. E per l’adeguamento delle battigie, che ne comanda l’inevitabile allargamento, invece di arretrare il fronte, lo si può fare avanzare, ricorrendo tranquillamente alle macerie usate a modo di riempimento, sicché il piano di sgombero non sia un’operazione inutilmente dispendiosa.57 «[… Eliminare la Palazzata] intieramente sarebbe, certamente, atto ingiustificato ed eccessivo» e quindi, conclude, «“Post fata resurgam”, ed in tutto il prisco splendore: sarà la divisa fatidica della nuova Messina».

La Città fa eco e lancia il proprio j’accuse: «Si vede chiaro, quindi, che non si tratta, né di questione tecnica, né di questione sismica; ma solo la meschinità, la grettezza della

57 «il bisogno di ampliamento della banchina del Porto – e segnatamente della estesa tratta fronteggiante la Città – era sentito in Messina anche prima della catastrofe. Era dunque ovvio che tale concetto si affermasse in questa grave contingenza […] La soluzione più ovvia – di ampliamento della banchina – sarebbe quella certamente della parziale ripiena; estendendone il ciglio nello specchio d’acqua del Porto, e regolarizzandone il profilo, attualmente frastagliato. Ed in parte, nel progetto officiale predisposto sembra che detta soluzione sia stata attuata. Ma nella rimanente parte, e per conseguire la larghezza di cinquanta metri della banchina […] verrebbe occupata l’attuale area d’impianto della Palazzata; eliminandola di conseguenza, ed arretrando colla totale demolizione il fronte della Città di tutta la sua larghezza, e per tutta la sua ampia falcata distesa […] Ed ecco come la storica e monumentale Palazzata di Messina – segnacoli di tanti fasti e di tante gloriose memorie; l’ammirevole ed ammirato suo Teatro Marittimo, che il Darcel chiamò frontespizio della Città, di eccezionale ed incomparabile bellezza, risulta sacrificata più che altro, e di deliberato proposito, per le pretese ragioni geometriche e di ampiezza delle banchine, che potrebbero avere una doverosa e più idonea soluzione! […] Nel progetto di variante, e di maggiore ripiena basato appunto sul concetto – che considero utile e doveroso – di conservazione della Palazzata, l’ampiezza della banchina, sul fronte della città, risulterebbe di ben metri ottantacinque; anziché di soli metri cinquanta, come nel progetto ufficiale ed ottenuta per di più colla eliminazione della Palazzata. La soluzione del problema dovrebbe ottenersi colla ripiena: onde ottenere detta ampiezza di metri cinquanta della panchina, conservando la Palazzata […] Ed essendo in argomento, raccomando parimenti il concetto dei puntoni, e calate, sporgenti nel Porto. E segnatamente di struttura galleggiante, ancorata ed asismica: corrispondendo detti organi – assai meglio della semplice banchina – alle funzioni praticissime di carico e di scarico, nell’esercizio del Porto». Ibidem.

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spesa è quella che ha il predominio sulle altre parti rilevantissime».58

La polemica interessò, insieme con il fronte del porto, il Palazzo Municipale minutoliano che occupava il blocco centrale del medesimo. I valori particolari (civici e architettonici) che esso conteneva permisero di trattarlo anche nel suo isolamento, pure quando le sorti della Palazzata sembravano, ormai, irreparabilmente decise. Inoltre, il Palazzo, per le sue evidenze monumentali, era oggetto d’interesse da parte della Commissione Governativa di Antichità e Belle Arti, incaricata «di assicurare il recupero materiale dei pezzi del

58 Alessandro Giunta scrive un articolo sulla «Gazzetta» del 30 luglio 1910, nel quale rilancia la proposta di Guidini e sfida Borzì sulla retrocessione-avanzamento della battigia del porto. «Lo stesso Egregio Cav. Borzì Ingegnere Capo dell’Ufficio tecnico Comunale, con saggi e ponderati studi ne aveva proposto l’allargamento, [della battigia], e il sovralzamento della banchina V[ittorio]. E[manuele]. dallo sbarcatoio della Sanità e dalla Vasca a Piazza Vittoria, alla cui estremità aveva previsto un molo sporgente con il trasporto ivi dell’Ufficio di Porto e posto foto-elettrico. Se altri criteri sono sopraggiunti dopo la catastrofe ed imposte nuove condizioni dalla Commissione Tecnica, circa la sistemazione delle banchine, l’Egregio Cav. Borzì, a cui non mancano né buon senso, né studi, avrebbe potuto proporre di protendere la banchina verso mare, occupando uno specchio d’acqua, che del resto sarebbe stata una cosa insignificante rispetto al bacino del nostro Porto, anziché retrocedere verso la via Garibaldi occupando il posto della Palazzata. […] La Commissione tecnica governativa non disse di prendere il posto della Palazzata, né poteva dirlo, poiché sarebbe stata in contraddizione a quanto aveva già stabilito la Commissione Reale sismologica, e cioè: che ragioni imprescindibili esigono che la Città risorga sulla superficie già da essa occupata in immediata vicinanza del porto. Ora se ragioni tecniche e scientifiche non vi sono quale è il motivo che indusse il progettista ad occupare la zona della Palazzata ed a sopprimere la zona più bella della nostra Città? La proposta della soppressione del magnifico e caratteristico Teatro Marittimo è partita proprio dal nostro Ufficio Tecnico Comunale» e cita una lettera del Ministro Sacchi per il quale: «l’avanzamento del fronte a mare che non potrebbe ottenersi con un semplice getto di macerie, e richiederebbe invece opere in muratura eseguite a regola d’arte in fondali dai 6 ai 10 metri, importerebbe, come Ella ben comprende, una spesa ingente e tale, mi pare, da non bilanciare i miti vantaggi d’indole estetica e storica, che se ne ricaverebbero». Conclude, quindi, Giunta «Si vede chiaro, quindi, che non si tratta, né di questione tecnica, né di questione sismica; ma solo la meschinità, la grettezza della spesa è quella che ha il predominio sulle altre parti rilevantissime», l’appello «ed agli altri cittadini che hanno amore per la loro natia perché insistano e si sappiano imporre con le autorità competenti». R. MERCADANTE, Messina dopo il terremoto…, op. cit. p. 95 e sg.

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patrimonio storico di Messina»,59 operativa già subito dopo poche settimane dal sisma. Si carezzò persino l’ipotesi di porre un vincolo di tutela sopra il Palazzo, ma la questione restò sospesa e non bastò a scongiurarne la demolizione.

Il 4 settembre 1911, durante una seduta della suddetta Commissione, il dibattito, tra i sostenitori delle ragioni civiche e simboliche, da una parte, e i ‘responsabili’, funzionalisti e igienisti, dall’altra, infiammò, proprio, sulla conservazione dell’ottocentesco Municipio.

Il primo a prendere la parola è l’ing. Papa60 il quale introduce subito l’ordine del giorno della seduta ed elenca con

59 Ivi, p. 101. 60 L’ing. Papa, chiesta la parola, fa rilevare essere necessario che la Commissione porti il suo esame ed il suo giudizio sopra d’un monumento il quale, con la sua importanza artistica e storica, compendia e rappresenta la grandezza di Messina, al momento della terribile catastrofe del 28 dicembre 1908. L’antico palazzo comunale di Messina opera insigne del Minutoli, è uno dei pochi e pregevoli monumenti che restano a rappresentare il risorgimento d’arte del secolo XVIII. Esso formava il nucleo principale di quella cortina di Palazzi che resero celebre, anzi unica nel mondo, la bellezza di Messina come città Marittima. […] Questo insigne monumento, dopo il terribile disastro del 28 dicembre, quantunque danneggiato per linee longitudinali di cedimento del suolo, pure, per la sua ammirevole costruzione è rimasto in piedi. Quando si considera che ogni giorno nelle diverse Città d’Italia si spendono (e si fa bene) centinaia di mila lire per mettere in evidenza informi avanzi di antichi monumenti, che ricordano la Storia civile dell’Arte Italiana a traverso i secoli, non si saprebbe capire, e molto meno giustificare, la demolizione e la separazione di un monumento il quale sebbene danneggiato, mantiene l’insieme delle sue belle linee artistiche […] Né l’eccezione che il mantenimento di tale monumento possa costituire un continuo pericolo per la cittadinanza, ha fondamento. Nessuno è autorizzato a dare tutta l’ingegneria italiana una patente d’assoluta incapacità d’essere inetta a sapere consolidare un edificio che è rimasto in piedi da sé, dopo il terremoto del 1908, e che si è mantenuto tetragono a tutti quelli successivi, quantunque lasciato in un deplorevole abbandono. La stessa Commissione nominata dal Ministero dei LL. PP. per l’esame della conservazione o meno di detto Palazzo, dopo riconosciuti ad unanimità i pregi artistici e storici che lo rendevano meritevole d’esser conservato, a maggioranza di uno dichiarava che l’impensieriva la gravità della spesa. In nessun’altra Città d’Italia si sarebbe sollevata una simile questione, trattandosi di un monumento che si lega così intimamente alla Storia ed alla grandezza di essa. Solo in Messina, dove la beneficenza mondiale e della Nazione ha profuso a larghe mani centinaia di milioni, si fa questioni di lesina per alcune centinaia di mila lire. Procedere per una limitata questione finanza alla demolizione di un monumento che compendia e rappresenta la grandezza della Città caduta, sarebbe il danno maggiore che si potrebbe fare alla Città di

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esaustività le ragioni per le quali l’antico Palazzo di città ha ad essere ripristinato: perché fra i «pochi e pregevoli monumenti che restano a rappresentare il risorgimento d’arte del secolo XVIII» e quale nucleo centrale «di quella cortina di Palazzi che resero celebre, anzi unica nel mondo, la bellezza di Messina come città Marittima». Perché «per la sua ammirevole costruzione è rimasto in piedi». Né pare ragionevole temere per la sua solidità, ché sarebbe ingiurioso ritenere l’ingegneria italiana «inetta a sapere consolidare un edificio che è rimasto in piedi da sé» dopo i tremendi colpi del sisma. Tanto più che le città italiane spendono somme ingenti di denaro per conservare le loro antichità e parimenti dovrebbe farsi a Messina. Guai, quindi, impensierirsi per la tasca: che non si facciano «questioni di lesina», «dove la beneficenza mondiale e della Nazione ha profuso a larghe mani centinaia di milioni», per «un monumento che si lega così intimamente alla Storia ed alla grandezza» di Messina. Infine, il Papa, tira di fioretto contro il nuovo governo sabaudo, ammonito affinché non abbia a «ripetere il triste gesto della tirannide straniera», la quale, «dopo domata la rivolta del 1682, fece demolire il Palazzo della Banca e seminarvi il sale».61 E conclude: «la Commissione fa voti perché l’antico Palazzo Comunale venga

Messina. Né l’eccezione che rimanendo l’antico Palazzo isolato in mezzo alla zona sismica potrebbe costituire un ostacolo ed un ingombro, ha ragione di essere, perché detto Palazzo, consolidato e restaurato, può benissimo coordinarsi con quella cortina di edifici commerciali previsti dal Decreto Legge del 15 luglio 1910, che devono sorgere nella zona sismica. Esso quindi può benissimo rappresentare il testimone glorioso dell’antica grandezza di Messina, affratellata alla futura grandezza della Città. Se la tirannide straniera, dopo domata la rivoluzione di Messina del 1682, fece demolire il Palazzo della Banca e seminarvi il sale, il barbarico gesto della tirannide, se non si può giustificare, si spiega. Se voleva fare sparire qualunque traccia della principale sede della Città ribelle. L’oscurantismo tirannico credeva così di poter distruggere la Storia. Sarebbe incomprensibile che sotto il libero Regno d’Italia, in occasione dell’immane sventura che ha colpito Messina, si volesse ripetere il triste gesto della tirannide straniera. Qualunque perturbamento dello spirito non è possibile che possa arrivare a tanto! Si pronuncia l’ordine del giorno: la Commissione fa voti perché l’antico Palazzo Comunale venga conservato come glorioso ricordo della Città caduta, e venga possibilmente coordinato con la cortina degli edifici commerciali che dovranno sorgere lungo il Corso Vittorio Emanuele». Ivi p. 106. 61 La rivolta è domata nel 1678, non si capisce a cosa faccia riferimento la data, forse a quando fu demolito il palazzo della Banca.

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conservato come glorioso ricordo della Città caduta, e venga possibilmente coordinato con la cortina degli edifici commerciali che dovranno sorgere lungo il Corso Vittorio Emanuele».

Di tutt’altro parere è Borzì, che coerentemente con la posizione da lui sostenuta in merito alla Palazzata, non poteva in alcun modo accogliere l’istanza espressa dai colleghi durante quella seduta, e da questi ne prendeva decisa distanza.62 La conservazione dell’antico palazzo pareva impossibile per le sue condizioni statiche, per il pietoso stato d’abbandono in cui versava, per l’incompatibilità altimetrica tra la vecchia quota del suolo e quella prevista dal nuovo piano, per facili questioni di borsa, per la sua posizione d’intralcio sul panorama del

62 «L’ing. Borzì, nelle proposte avanzate dai colleghi Papa e Giunta di conservare l’attuale Palazzo Municipale nello stesso sito completandolo con la ricostruzione della Palazzata, fa osservare che la Commissione, a cui ha l’onore di appartenere, non può essere chiamata che a far voti per la sua conservazione, ma non mai per la ricostruzione di un fabbricato che, pur servendo al completamento del prospetto a mare del Palazzo Municipale, oggi non esiste più, né può essere ripristinato fino a quando non sarà approvato il R. D. del 15 luglio 1909, n° 542. Ritiene poi che sia opportuno prendere cognizione delle conclusioni a cui venne la Commissione nominata dal Ministro dei LL. PP. per poter discutere sull’importante questione che viene oggi in Commissione. Egli, quantunque sia stato il primo a dare l’allarme contro la barbarica distruzione delle ali del suo prospetto a mare, che servivano a completare l’edificio, ora, non si sente di dovere insistere per la sua conservazione, come rudero, nello stesso locale ove trovasi, per le seguenti osservazioni: 1° Le sue condizioni statiche sono deplorevoli; così abbandonato rappresenterà un pericolo permanente. 2° La sua posizione circa l’altimetrica delle nuove banchine previste col Piano Regolatore del Porto è tale che dovrebbe interrarsi tutto il suo basamento fino a circa centimetri ottanta al di sopra dello stilobate, a meno che non si volesse costruire in giro un muro a sostegno delle nuove banchine occupando parte dell’area di esse. 3° Anche dal lato della piazza il piano della nuova strada Garibaldi, per potere permettere lo scolo della pluviali verso mare, va rialzato in conseguenza il relativo prospetto dovrebbe interrarsi fino al plinto delle colonne. 4° Restando in quel posto ostacolerebbe la visuale del prospetto principale del nuovo palazzo e resterebbe dissimmetrico alla nuova piazza. Considerando poi che la sua conservazione, senza del necessario restauro e del completamento delle ali, che prima erano formate dalla Palazzata, non si potrebbe comprendere, e che per il suo solo restauro occorrerebbe affrontare una spesa ingente, l’ing. Borzì | Propone | Che sia affrontata piuttosto la spesa per la sua demolizione e ricostruzione in altro sito, per esempio dal lato posteriore del muro del nuovo palazzo verso la via Cavour, adibendo questo palazzo a Sezione del Museo Civico per l’Archeologia». R. MERCADANTE, Messina dopo il terremoto...op. cit. p. 108-109

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nuovo municipio – pensato come fondale della retrostante piazza – e, ragione forse più condivisibile, perché l’esistenza dell’antico glorioso Municipio non aveva alcun senso privo delle sue ali, ovverosia della Palazzata per tutta la sua lunghezza, ché solingo sulla banchina sarebbe parso umile e miserevole. Propone, quindi, la sua demolizione e ricostruzione come ala del nuovo Palazzo della Città, all’interno della quale ospitare le collezioni del museo archeologico.

È un passaggio d’importanza sostanziale nella nostra analisi. Il Borzì si fa portatore di una pratica molto diffusa: quella della ricostruzione in altro situ. Potremmo considerarla come primitiva pratica della conservazione, intesa quale mezzo per contemperare le necessità imposte dagli urbanisti positivisti, largamente attivi nell’Europa dell’ultimo Ottocento, con le ragioni avanzate dagli storici idealisti; le quali, contestualmente con lo sviluppo della città industriale, erano naturalmente sorte a baluardo delle antiche memorie cittadine e dei valori morali, estetici, ideali che da quelle sarebbero derivate.63

E proprio al rigore storico del restauro scientifico e alle ragioni di ambientamento, ricorrono: il Sig. Gentile e l’ing. Papa.64 Le tesi sono sostanzialmente convergenti e largamente corrispondenti con le normative in materia e con le più nazionali teorie giovannoniane: si fa assoluto divieto di «trasferimento d’opere d’arte dal sito ove furono sin dalla loro origine piantate, […] costituendo, l’ambiente, la Storia vera

63 È Giovannoni il più autorevole riferimento per questi anni in Italia, sul tema, il quale fisserà i principi del diradamento edilizio e del ambientamento urbano. Cfr. GUSTAVO GIOVANNONI, Vecchie città ed edilizia nuova, a cura di Francesca Ventura, Milano, CittàStudiEdizioni, 1995. Ristampa dell’edizione UTET del 1932. 64 Si oppongono con rigore storico, delle ragioni di ambientamento alla proposta di Borzì di demolire l’edificio per poi ricostruirlo in forme analoghe: «il Sig. Gentile ricorda che le disposizioni regolamentari vietano in modo assoluto il trasferimento di opere d’arte dal sito ove furono, sin dalla loro origine, piantate, in altre località, costituendo l’ambiente, la Storia vera per cui quel dato monumento venne edificato e pel quale l’artista si è ispirato. L’ing. Papa dichiara che non può aderire alla proposta dell’egregio Cav. Borzì di demolire, cioè, l’antico Palazzo e ricostruirlo altrove con gli stessi materiali e forme. La Storia non si muta, né tampoco si trasporta. Nel sito ove si trova, il Palazzo rappresenta un ricordo glorioso. Portarlo altrove non rappresenterebbe più nulla. Per altro, avvenuta la demolizione, le leggi vigenti impedirebbero la ricostruzione». Ibidem.

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per cui quel dato monumento venne edificato e pel quale l’artista si è ispirato»; né «la Storia si muta, né tampoco si trasporta». Quindi, si ricorda ancora agli illustri colleghi, il grande valore simbolico e monumentale dell’antico Palazzo.

A quella data il Municipio è salvo: se ne ordina il suo consolidamento e successivo restauro in situ.65

Ma non durerà a lungo. Il Regio Commissario Salvadori, in una successiva relazione del 1913, delibera la ricostruzione in altro situ, legittimando, quindi, a due anni dalla precedente seduta, l’ipotesi ventilata e in prima istanza cantonata da Borzì, e motivando tale scelta a metà tra le ragioni istituzionali-monumentali e le urgenze statiche e di pubblica sicurezza.66 Queste ragioni, apparentemente inconciliabili, saranno il leitmotiv che condizionerà le decisioni del partito dei ‘responsabili’, fino a quando con l’inizio dei cantieri, le ragioni igieniche, tecnologiche, di sicurezza, ma anche speculative, sopravarranno sulle altre, decretando la fine della cortina di

65 Vince temporaneamente, in occasione di quella riunione, il partito della conservazione: «la proposta dell’Ing. Borzì è respinta con cinque voti di maggioranza e due favorevoli. Il Presidente si è astenuto. Messa ai voti la proposta dell’Ing. Papa con l’emendamento dell’Ing. Borzì, e cioè perché il Palazzo sia restaurato, e consolidato nelle parti danneggiate e pericolanti, viene approvata ad unanimità di voti». Ibidem. 66 Nella relazione del 1913, il Regio Commissario Salvadori, interessato oltretutto al progetto per il nuovo palazzo Municipale, si esprime, in sintonia con Borzì, a favore della demolizione. Si incarica allora una Commissione che, tra gli altri, è composta anche dall’«Ingegner Papa, presidente del Collegio degli Ingegneri di Messina», da Salinas e da Ernesto Basile, che visita i luoghi in data 22 luglio 1912. Nel discorso di Salvadori si prende atto: «1. Che il vecchi palazzo municipale trovasi in condizioni tali, da non poter essere semplicemente restaurato, ma da dover essere quasi interamente ricostruito. 2. Che d’altronde, ciò essendo, si sarebbe menomato il ricordo del senso che la ricostruzione sarebbe stata opera nuova, al quale poi, nei riguardi delle parti laterali, che per la demolizione senz’altro; ma io soprassedetti inquantoché non si presentava tanto urgente […] ed anche perché si ventilò dal Collegio degli Ingegneri la proposta di farlo dichiarare monumento nazionale. Il Ministero della Pubblica Istruzione peraltro non aderì, pur dichiarando che il vecchio palazzo municipale di Messina aveva pregi tali da rivestire il carattere di monumentalità. Intanto le condizioni del vecchio Palazzo di Città andavano deperendo, e queste condizioni si aggravarono dopo il terremoto del 24 dicembre 1912 tantoché provvidi subito alla chiusura del transito». Salvadori conclude con la deliberazione a ricostruire il palazzo ottocentesco smontato e ricostruito in altro sito. Ivi.

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Palazzi i cui resti saranno successivamente demoliti a colpi di dinamite.67

Ma indomato il desiderio dei cittadini di riavere il proprio fronte a mare che, una volta smussate certe asperità della normativa, nel 1919, lo stesso Borzì fu costretto a riconsiderare; e così ormai morente, redisse un progetto per un nuovo water front. L’idea era interessante, e per quanto profondamente diversa dall’antico Palazzo, offriva spunti d’indiscussa qualità. Mantenuti alcuni limiti di sito e di altezza, come il divieto di costruire abitazioni o commerci in quell’area, o di non superare i dieci metri in elevato, Borzì opterà per un edificio forum: una lunga passeggiata su due elevazioni, coperta al pianterreno e scoperta al primo, costruita simmetricamente sull’asse della nuova piazza del Municipio, inquadrante il Palazzo di Città alla maniera minutoliana della rovinata Palazzata; che risolvesse ad un tempo le istanze di rappresentatività e collegamento col porto, e attenuasse l’esposizione e l’apertura al mare. L’idea era buona e, per certi versi, coraggiosa, ma non ebbe seguito.

La questione del fronte a mare verrà quindi cantonata fino al 1930, quando sarà bandito il Concorso per il progetto della nuova Palazzata di Messina.

L’occasione fu salutata dai più, come il momento felice di un’amministrazione illuminata: il concorso di architettura, metteva in competizione professionisti secondo precisi paradigmi meritocratici. Inoltre fu momento di grande sperimentazione, sicché di fianco i progetti più tradizionalisti o modernisti, costruiti su una grammatica di sintagmi classici (o classicheggianti), pure si scorgevano idee più audaci, futuriste e razionaliste.

Nel bando erano elencati i requisiti pregiudiziali che dovevano essere mantenuti nei progetti e che limitavano pesantemente la libertà espressiva di ciascun gruppo di architetti. Erano limiti formali – la nuova Palazzata doveva avere molti punti di convergenza con quella minutoliana – tecnici e normativi – chiaramente derivati dalle restrizioni

67 Cfr. GAETANO LA CORTE CAILER, I miei diari, a cura di Giovanni Molonia, vol. 2, G.B.M. Messina, 2002.

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antisismiche sull’uso dei materiali e sull’altezza della fabbrica. Più precisamente:

«Art. 2 Ai concorrenti, compatibilmente con le esigenze di una organica e razionale utilizzazione delle aree, nei limiti imposti dalla necessitò di non ridurre la zona riservata alle calate portuali, è lasciata ampia libertà di creazione artistica. Essi, nello interpretare l’unanime desiderio della cittadinanza, che anela a vedere ricostruita un’opera altrettanto monumentale quanto la distrutta “Palazzata”, potranno anche modificare la distribuzione schematica degli isolati […] variando la lunghezza dei fronti longitudinali e potranno creare corpi di collegamento fra gli isolati stessi, tenendo presente che la larghezza degli intervalli scoperti tra un isolata e l’latro non dovrà risultare inferiore a m. 14,50. l’isolato […] destinato […] al Banco di Sicilia, resta escluso da qualsiasi modifica tendente a variare la impostazione degli assi stradali […].

Art. 3. – Tutti gli isolati della costruenda “Palazzata” dovranno avere un’inquadratura architettonica inspirata ad unico stile, come nella distrutta “Palazzata” evitando però effetti di monotonia, che possano nuocere alla funzione estetica panoramica della prospettiva portuale.

Art. 4. – L’altezza degli edifici è stabilita di m. 14,50 misurata dal piano di banchina alla linea di gronda e con tre piani rispettivamente di altezza m. 5 per il piano terreno e m. 4,75 per ciascuno dei piani superiori, salve quelle limitatissime variazioni che potranno derivare da inderogabili esigenze architettoniche. Devono i concorrenti tener presente che i locali del piano terreno verranno destinati esclusivamente ad uso del commercio e della navigazione ed a pubblici ritrovi, mentre i locali dei piani superiori verranno utilizzati per uffici commerciali e per abitazioni signorili

Art. 5. – I prospetti dei costruendi edifici avranno la zoccolatura in pietra da tagli proveniente da cave della Sicilia; la rimanente sopraelevazione verrà eseguita con rivestimento ad intonaco di graniglia. L’intiera costruzione dovrà in armonia con le norme tecniche ed igieniche per i paese colpiti dal terremoto, risultare costituita da una intelaiatura portante in cemento armato e da muri interni ed esterni di mattoni e tramezzi di mattoni; la copertura dovrà essere a terrazza […]».68

Delle complicazioni c’erano, e se ne accorsero sin da subito gli stessi organizzatori che, nella relazione allegata al bando,69

68 Seguono i dettagli riguardanti i criteri e l’assegnazione dei premi. Il regolamento del concorso è parzialmente riportato da PLINIO MARCONI, Il Concorso Nazionale per il progetto della nuova Palazzata di Messina, in «Architettura e arti decorative», Agosto 1931. 69 Relazione di Concorso. Ibidem.

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spiegarono le difficoltà e fissarono i limiti entro i quali avrebbero potuto muovere i partecipanti.

«Vogliamo prima di tutto e francamente riconoscere che di rado un concorso di architettura ha presentato per i concorrenti le difficoltà di questo che siamo chiamati a giudicare. Difficoltà che provengono essenzialmente dalla inevitabile impostazione del problema i cui dati suggeriscono soluzioni particolari così antitetiche fra loro che è arduo conchiuderle in una soluzione unitaria.

A conti fatti, «l’erigenda Palazzata» è dimezzata in altezza e larghezza, rispetto la precedente, a scapito della cifra di pretesa rappresentatività: dovrà essere monumentale, pur non avendo dimensioni monumentali.

Si richiede da Messina, fiera un tempo della sua Palazzata più volte abbattuta e altrettante ricostruita, che questa sua facciata sul mare abbia la solennità di un monumento, ma si è costretti, per i regolamenti antisismici, a limitarne l’altezza dal suolo quando certamente, in una fronte lunga 1180 metri, l'altezza costituisce elemento importante di monumentalità. Si vuole giustamente che la nuova Palazzata abbia un tono di nobiltà e di signorilità, ma si deve imporre il massimo possibile di sfruttamento delle aree e quindi il minimo possibile di costo relativo delle murature e dei paramenti.

In più per le stesse ragioni di monumentalità oltre che per avere assicurata una maggiore legatura tra i blocchi, questi devono essere tra loro interlacciati mediante l’impiego di porte, che rimandassero alle più antiche del Minutoli.

Si desidera opportunamente che la lunghissima fronte non generi monotonie con la ripetizione dei motivi, ma si deve pretendere che la Palazzata abbia rigorosa unità stilistica fondata su elementi tipo da ripetere, e che questi elementi, per ragioni dipendenti dalle condizioni climatiche siano collegati in massa compatta.70

A rendere tutto più complicato, era la richiesta di impiegare uno stile da echi e proporzioni classiche, e allo stesso tempo di ricorrere, per prescrizione tecnologica, al calcestruzzo armato.

I cittadini di Messina desiderano che lo stile dei nuovi edifici non sia in contrasto con quel classicismo di forma a cui s’erano ispirati gli architetti delle due ultime Palazzate, ma si prescrive per obbligo che i metodi costruttivi siano proprio i più moderni, cioè i meno affini alle forma classiche e tradizionali. Tali antitesi fondamentali non sono errore o capriccio del bando di concorso: sono il portato di dure necessità dalle

70 Ibidem.

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quali non si può prescindere anche se appaiano tiranniche e se vincolino molto la libertà della creazione artistica. D’altra parte l’architettura è: proprio nella sua essenza quell'arte nata fantasia e dalla logica che può e deve conciliare le antitesi del tema in una armonia che le comprenda e le secondi. Appunto alla ricerca di questa conciliazione fra necessità pratiche ed ideali ci siamo di proposito rivolti, scegliendo quale dei concorrenti l’abbia meglio raggiunta. Risolto l’ostacolo più difficile, i progettisti s’atterranno con scrupolo alle indicazioni esitando in forme di indiscussa qualità.

Risolti gli ostacoli più difficili, i progettisti s’attennero con scrupolo alle indicazioni, esitando in forme di inattesa qualità.

Il primo premio se lo aggiudicò il progetto “Post Fata Resurgo” del gruppo formato dagli architetti Camillo Autore, Raffaele Leone, Giuseppe Samonà e Guido Viola:

«Che malgrado alcune carenze dichiarate dalla giuria, come il mancato collegamento tra i singoli edifici e l’eccessivo uso di vetrine continue al piano terra a scapito dell’effetto di solidità della base, [suscitò apprezzamenti per] lo spirito di sobria e ritmica monumentalità, e il criterio architettonico generale informato ad una più felice fusione di modernità di spirito con italianità tradizionale di forme, basato su un’alternanza di partiti verticali con partiti orizzontali molto felicemente trovati per evitare i pericoli della monotonia lungo il fronte».71

La Palazzata di Samonà e soci era composta di tredici blocchi di tre piani ognuno, di foggia littoria, tenuti insieme da un’alternanza di porte decorate con bassorilievi. Nel centro geometrico la cortina apriva alla Piazza del Municipio, così da non essere ostruttiva alla vista del porto.

Secondi classificati, siciliani come i primi, sono i fratelli Rapisardi. Il loro progetto contrassegnato dal motto “Jonio”, è tra i più lodati quello che più rispetta l’immagine dell’antica Palazzata – senza contare i più sfacciatamente accademici. I blocchi sono molto ben legati, e l’insieme offre un colpo d’occhio notevolmente accresciuto dall’uniformità del prospetto. Presentava però dei limiti, che gli fecero preferire l’altro di Samonà.

«Seppur questo progetto ha un carattere che ben si accorda con le tradizioni locali nel ricordo dell’antica Palazzata, l’infelice inquadratura delle finestre del primo piano, la mancanza di intima connessione tra la massa murario del fronte e i motivi delle colonne destinate in funzione

71 FRANCESCO CARDULLO, La ricostruzione di Messina 1909-1940, l’architettura dei servizi pubblici e la città, Roma, Officina Edizioni, 1993, p. 32, 38.

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puramente decorativa si risolvono in deficienza di sobrietà ed organicità del complesso».

L’assegnazione del terzo premio sembra essere stata controversa. Il testa a testa era tra Di Capua, Tagliolini autori del progetto “Rinascita”, e Fagiolo, Libera, Ridolfi autori del progetto “Tre”. La disputa ruota su contrasti antichi: tra un progetto, il primo, passivo, nelle forme, alla grammatica accademica, e l’altro di «lodevole spregiudicatezza», ma «più adatto per una città balneare che per il prospetto di una città gloriosa».72

Insomma un momento di qualità, che a conti fatti, vede primeggiare ancora, negli anni trenta, un gusto più vicino alle forme classiche, e meno a quelle moderne, probabilmente anche per la posizione provinciale di Messina rispetto a centri di più vivace sperimentazione. Si noti, infatti, come i primi tre progetti siano tutti ossequiosi di un gusto scolastico, mentre gli altri tre che pure ebbero menzione, tutti ispirati a modelli contemporanei, non riuscirono in altro se non a sfiorare il podio.

L’esito del concorso non fu, però, quello sperato. Autorizzati dal regolamento che garantiva piena libertà d’azione all’amministrazione rispetto il risultato dalla gara, il progetto “Post Fata Resurgo” venne sì realizzato, ma profondamente rimaneggiato.

Negli anni successivi come conseguenza delle vittoria nel Concorso, ma con variazioni anche notevoli rispetto al progetto vincitore, C. Autore, e G. Viola realizzano nel 1936 la sede dell’INA; C. Autore sempre nel 1936 il Banco di Sicilia; G. Viola e G. Samonà la Casa Littoria; e sempre G. Viola e G. Samonà tra il 1939 e il 1940 la sede dell’INAIL.73

Dei tredici blocchi previsti, furono edificati, come da progetto, solamente quelli più prossimi la dogana a sud e il Banco di Sicilia; gli altri fino alla capitaneria di porto a nord, pur essendo architetture di livello, riuscite o meno, erano tra di loro disomogenei e incoerenti negli esiti formali. «Oltre a non [ri]costituire il “Teatro marittimo” e non assolvere perciò al loro ruolo urbano»,74 stridevano con le forme di manifesta

72 P. MARCONI, Il concorso Nazionale..., op. cit. p. 604 e sg. 73 F. Cardullo, La ricostruzione…, op. cit. p. 38. 74 Ibidem.

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rappresentatività che andavano caratterizzando la Messina ricostruita, e toglievano alla città, in via definitiva, la possibilità di riappropriarsi dell’immagine del porto.

Con il Concorso, naufraga per Messina il sogno della Palazzata: relegata in una dimensione evocativa, la cortina di palazzi, così necessaria cerniera tra la città e lo stretto, da quel momento in avanti, diventerà di dominio esclusivo della memoria, quando niente più che un’astrazione accademica.

A ben vedere, la Palazzata, seppure il più illustre, non poteva essere l’unico esempio di sacrificio compiuto in nome della salute pubblica. I limiti delle leggi antisismiche erano evidenti, già nella loro attualità, infatti, pur assicurando la sicurezza per le nuove fabbriche, lasciavano irrisolti problemi sociali e urbanistici tutt’altro che secondari. Problemi che emergono con chiarezza da un’analisi del Piano Regolatore dell’ingegner igienista Luigi Borzì.

Prima di procedere, occorre però fissare alcune premesse di ordine critico, necessarie per non tradire il senso del progetto Borzì, per tributargli i giusti meriti e per non trattarlo secondo una prospettiva storica distorta e incompatibile tanto con analoghi esempi di pratica urbanistica quanto nell’eccezionalità del momento in cui fu redatto.

Nato nel 1853 da una famiglia agiata della provincia di Messina; nel capoluogo studia da agrimensore e, come tale, matura una breve esperienza professionale, poi negli anni ottanta dell’Ottocento, dopo il biennio in Scienze Matematiche e Fisiche, frequenta la Regia Scuola d’applicazione degli ingegneri a Palermo, dove si laurea nel 1884.

La più grande città dell’Isola, negli anni in cui la vive da ‘fuorisede’ Borzì, attraversava un momento di grande vivacità culturale, corrispondente ad un’espansione urbanistica a ovest sull’asse di Corso Ruggerio Settimo (prolungamento della via Maqueda) e ad est intorno alla stazione. È, inoltre, Palermo, laboratorio prolifico dell’architettura eclettica, esercitata dai Basile, da Damiani Almeyda, che acquisisce delle cifre squisitamente locali e che crea le premesse per il liberty siciliano dell’esperienza Florio. Ed è anche città di un ceto borghese sempre più forte, fatto dai Withaker, dai Tasca, dai citati Florio, che spingono per un forte sviluppo industriale e per un ammodernamento tecnologico della città: non è un caso

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che il Collegio degli Ingegneri ed Architetti di Palermo (ordine professionale della prima ora) nasca in questi anni. Tutte spinte che rendono la formazione di Borzì, miscellanea di tecnologia, costruzione di ferrovie e ponti, idraulica fluviale e marittima, matematica e geometria applicate, disegno d’ornato e di figura; così come si legge scorrendo il libretto universitario del Nostro.75

In particolare è Basile (il gran massone del Teatro Massimo di Palermo) ad essere decisivo per la formazione di Borzì e quindi ad influenzarlo più degli altri nell’esperienza della ricostruzione. È dato che a Palermo, in quegli anni, complice un certo benessere del ceto medio, come anzi detto, si andasse sviluppando una scienza urbanistica mutuata dalle esperienze del positivismo francese e dalle conclusioni tardo-illuministiche di Durand e Rondelet.76 La diffusione di questi autori è resa nota dai programmi d’ateneo, come anche dalla biblioteca Borzì,77 e d’altronde erano testi tra i più diffusi in Europa, nonché bibliografia essenziale dei corsi di Basile. Egli dai 75 «Risulta che Borzì abbia frequentato: […] per il primo anno Meccanica razionale e Geodesia, con Francesco Caldarera, Nozioni Giuridiche, con Nicola Cusumano, Applicazioni della geometria descrittiva ed esercitazioni, e Statica grafica con disegno, con Giuseppe Albeggiani, Chimica docimastica, con Emanuele Paternò; per il secondo anno, Geometria pratica ed esercitazioni e Meccanica applicata alle costruzioni, con Giovanni Salemi Pace, Costruzioni stradali e Meccanica applicata alle macchine, con Carlo Pintacuda; Idraulica teorico-pratica e costruzioni fluviali, con Michele Capitò, Architettura tecnica ed esercitazione, con Giovan Battista Filippo Basile, Mineralogia e geologia, con Gaetano Giorgio Gemellaro; per il terzo anno, Meccanica applicata alle costruzioni e ponti di struttura murale con esercitazioni, con Salemi Pace, Meccanica applicata alle macchine e Costruzioni ferroviarie, con Carlo Pintacuda, Idraulica teorico-pratica e Costruzioni marittime, con Michele Capitò, Architettura tecnica ed esercitazioni con Giovan Battista Filippo Basile e infine Economia ed etimo rurale, con Giuseppe Inzegna». R. MERCADANTE, Messina dopo il terremoto…, op. cit. p. 24. 76 «Con Durand, ogni tentativo naturalistico può considerarsi seppellito […]; la sua casistica compositiva tendente ad un assolutismo formale basato su leggi di articolazione e aggregazione puramente geometriche apre, nell’ambito della cultura neoclassica, al grande problema della quantificazione controllata delle esperienze e “all’estensione del problema qualitativo alla totalità dei tipi di edifici caratterizzanti la città ottocentesca”». MARCO BIRAGHI, Storia dell’architettura contemporanea I, Einaudi editore, Torino, 2008. p. 21. 77 All’interno della quale è conservato il manuale di Durand in una tradizione edita a Venezia nel 1881. Cfr. R. MERCADANTE, Messina dopo il terremoto…, op. cit. p. 51 e sg.

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francesi derivava i concetti di tipizzazione78 e standardizzazione – sia consentita l’imprecisione storica – come anche «l’estensione del problema qualitativo alla totalità dei tipi di edifici caratterizzanti la città ottocentesca».79 Era inoltre sedotto dalla teoria di Durand dell’aussetismo architettonico, metodo che contaminava la tipizzazione delle fabbriche con la loro riproducibilità (in anticipo sul Le Corbusier del museo a crescita illimitata di un secolo abbondante). Basile faceva sua la teoria e così scriveva a riguardo:

Non gli antichi né i moderni concepirono mai edificii aumentativi, cioè: tali da ritenere tutte le proprietà interne, e la esterna euritmica decorazione in ogni stato successivo di loro aumento […]. Noi chiamiamo aussetico un edifizio completo e così organizzato da poter subire aumenti in ogni stato successivo di grandezza, senza che perciò vengano meno le proprietà inerenti al medesimo né la sua euritmica bellezza esteriore e scienza d’Aussetismo architettonico diciamo quella che insegna ad ideare edifici aussetici.80

Precisava poi che il metodo non doveva essere applicato a tutti i tipi edilizi, ché certuni mantengono costante la loro grandezza (come i teatri), ma poteva essere applicato alle città quando composte «di edifici modulari, costruiti in economia».81

Insomma Borzì a Palermo impara un metodo ed uno stile, fa riferimento ad autori e modelli precisi, e sarebbe ingenuo pensare che avrebbe potuto redigere un Piano Regolatore differente, incalzato per altro da una normativa che, più che ostacolarlo, lo assecondava.

L’incarico gli fu conferito il 27 maggio 190982. Nella retorica premessa l’ingegnere, così scrive:

78 Non a caso le esercitazioni previste da Basile per il biennio di Architettura decorativa e composizione sono costruite su tipi edilizi quali: «la Chiesa; il Palagio; il Camposanto; il Palagio dei tribunali; il Collegio; la Biblioteca; i Pubblici Bagni; lo Istituto; il Pubblico Tesoro; il Palagio dei Ministeri; le Camere; il Museo; la Borsa; la Stazione Ferroviaria; la Dogana; il Teatro; gli Ospedali; Casa particolare; scomparto di una Casa particolare; Scomparto di una Casa sopra un terreno irregolare; Case di campagna». Ivi, p. 25. 79 La citazione di Manfredo Tafuri è ripresa da M. Biraghi, Storia dell’architettura…, op. cit. p. 21. 80 R. Mercadante, Messina dopo il terremoto…, op. cit. p. 57. 81 Ivi, p. 58. 82 Con la delibera d’urgenza n. 384. Il piano Borzì nella sua interezza è riportato da g. Campione in progetto urbano p. 203 e sgg.

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Io sono fra coloro che credono nel pronto risorgimento di Messina, e penso che chi opina diversamente costringa la mente ad uno sforzo: poiché questo popolo che è parte di quello di ieri, attorno al porto che è sempre quello del passato, sulla plaga istessa ove un tempo fiorì dovizia di gloria, di arti e di commercio, ha ineluttabilmente segnato un compito capace anche di soverchiare quel cieco destino che, se sfrondò più volte – nel corso dei secoli – la ricca chioma dell’albero, non riuscì però mai ad abbatterne il ceppo.83

Segue, nel documento che sarà poi approvato, una ricognizione storica, invero un po’ frettolosa; una catalogazione dei danni, restituiti in planimetria; un approfondimento tecnico sulla natura del terreno. Fin qui è prassi. La parte III del Piano contiene i criteri fondamentali, preceduti da una breve elegia della città e delle glorie del sito, quindi dalla ripetuta necessità di ricostruire Messina nel medesimo luogo: in undici punti programmatici esaurisce, poi, tutte le linee guida seguite per la stesura del documento.

Va anzitutto ricordato che gli incendi, che avevano infierito sulla città caduta, avevano distrutto le carte storiche, le mappe catastali, i documenti di proprietà; le macerie in più, sparse in gran disordine su tutta la superficie costruita seppellirono coi morti l’antico tracciato viario. È punto cruciale questo, soprattutto per le scelte amministrative-gestionali delle operazioni di ricostruzione, e che rende al Borzì il merito di avere steso il Piano Regolatore nella grande emergenza quasi integralmente ricordando a memoria l’antica città. E infatti:

Non essendo stato possibile rintracciare nessuno dei vecchi documenti, nel presente progetto di massima si è considerato lo stato in cui fu lasciata la città dalla terribile convulsione del 28 dicembre 1908, e si sono essenzialmente seguiti i concetti organici appresso enunciati:

1. Utilizzare la superficie occupata dalla città distrutta, conservando alla città l’impronta primitiva ed evitando costruzioni laddove confinino terreni di diversa natura come pure su un terreno infido od a forte pendio;

2. Contenere la larghezza delle vie nei limiti necessari perché ogni fabbricato possa raggiungere l’altezza massima di dieci metri consentita dalle suddette norme;

3. Sventrare la vecchia città nei quartieri in cui, per la tortuosità e per la pessima orientazione delle vie e la difficoltà di costruire razionali opere

83 L. Borzì, Piano Regolatore…, op. cit. p. 1.

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igieniche, le indispensabili opere di risanamento sarebbero riuscite difficili e onerose;

4. Ampliare la vecchia città in guisa da renderla capace di contenere la popolazione che presumibilmente avrà fra 25 anni e tenendo presente la limitata altezza dei fabbricati;

5. Sviluppare un sistema razionale di fognatura e di conduttura per l’alimentazione idrica della città, utilizzando le preesistenti opere risparmiate dal terremoto nonché quelle costruite nella città baraccata;

6. Rettificare i vari tronchi stradali in maniera da rendere possibile un esteso sviluppo tranviario;

7. Subordinatamente a tutte le enunciate condizioni e, nei limiti del possibile, conservare immutate le aree occupate da edifici suscettibili di riparazioni;

8. Circuire la città con strada di circonvallazione, suscettibile di un impianto di linee tranviarie;

9. Dotare la città di una zona, indipendente dal centro urbano, riservata allo sviluppo delle industrie;

10. Tenere conto dell’ampliamento della stazione ferroviaria viaggiatori e smistamento;

11. Tenere conto della sistemazione del porto, per le opere necessarie ad un razionale sviluppo commerciale.84

E segue con la spiegazione punto punto dei suoi precetti. Già dal primo enunciato, emerge con ogni evidenza la

dualità del progettista, diviso – e non equamente – fra necessità storiche e urgenze tecniche: anche laddove l’affermazione del principio basilare, autosufficiente e primitivo della rinascita, posto a tutta ragione in incipit, non abbisognava di nessuna legittimazione tecnica, Borzì sentì di doverlo giustificare:

[…] le vie sono in genere razionali e corrispondenti alle esigenze igieniche moderne. Infatti le vie principali hanno un’orientazione prevalente da nord a sud, molto opportunamente raccomandata dagli igienisti tanto per i paesi freddi quanto per quelli caldi, giacché consente una più regolare distribuzione di luce e di calore nel suolo stradale e nei prospetti di casa: così le traverse risultano orientate da est ed ovest, conformemente alle raccomandazioni degli igienisti medesimi, e le case restano sottratte all’influenza diretta dei venti settentrionali.85

Infine, la forma irregolare del tracciato non viola «i dettami

84 Ivi, p. XX. 85 Ivi, p. XX.

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dell’igiene», e il naturale pendio delle traverse tende spontaneamente al porto, e ciò è assai saggio.

La ricostruzione in situ, era dato ormai acquisito e non c’erano alternative alla riedificazione nell’antica zona d’impianto, vicina al porto, perché da questo dipendevano le sorti della città. Il recupero dell’“antica impronta” era quindi passaggio obbligato, al quale Borzì s’atterrà con scrupolo, ma in maniera forse un po’ goffa. Il tracciato viario, recuperato come matrice di segni, era il triangolo traguardato dalle vie Cavour, Garibaldi e Primo Settembre. Invero un po’ poco. All’interno di questa forma irregolare si forzò la maglia reticolare resecando palazzi, retrocedendoli o ruotandoli, nei casi più fortunati; più spesso la sorte per i resti era assai meno “conservativa”. E com’era possibile fare diversamente, volendo rispettare rigidamente le normative antisismiche varate dal Governo?

Il secondo enunciato risponde al quesito. Il risultato della facile equazione, posta dal R. Decreto per l’edilizia antisismica, è per Borzì di fissare la larghezza delle strade a 14 m., così da poter tenere costante l’altezza degli isolati a 10 m. Dall’applicazione sistematica di questo postulato, derivano diversi corollari esposti al quarto enunciato.

Anteriormente al terremoto del 1908, Messina aveva una superficie fabbricata di mq 993491 ed una popolazione di 120000 abitanti; sicché la superficie coperta risultava per ogni abitante in media ed in cifra tonda, di metri quadrati 9,00. Considerato che ogni edifizio poteva virtualmente considerarsi composto di tre piani, compreso quello terreno, per mantenere integro quel rapporto di mq. 9,00 riferendolo però ad edifizî di due soli piani, la superficie effettiva di area coperta ascenderebbe per ogni cittadino a mq 13,50 o, in cifra tonda, a mq. 14,00.86

Parliamo di una rivoluzione. Messina viene spalmata su una superficie doppia la precedente, un tipo edilizio s’estingue e con esso è sconvolta la misura urbana della città antica, nella quale coesistevano vie, viuzze e viali, case, palazzetti e palazzi. Infatti, questi numeri, significano che «per non accrescere enormemente la superficie stradale», si diede «la preferenza ai grandi isolati sui quali poi si [svilupparono] vie private, corti e

86 Ivi, p. XX.

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giardinetti».87 L’isolato fu quindi la cifra più espressiva del nuovo piano, la soluzione che tenne assieme problemi urbanistici con problemi legati alla proprietà privata. Non è un caso che la città, a tutt’oggi, sia ancora numerata a isolati.88 Il grande blocco era fra l’altro un modello applicativo preso in prestito dalla aussetismo di Basile e certamente il tipo edilizio che più di altri s’incastrava con lo schema a scacchiere di haussmaniana memoria, il più flessibile e il meglio rispondente alle istanze degli igienisti e tecnologi delle città tardo ottocentesche. Insomma aveva troppe buone qualità per non essere massicciamente impiegato: era riproducibile, più o meno infinite volte; era controllabile, caratteristica essenziale nell’emergenza sicché il piano Borzì somigliò «più ad un piano di ricostruzione con l’operatività di un piano particolareggiato»;89 rispondeva magistralmente alla normativa antisismica, si prestava meglio di altre forme a frazionamenti in grado di conciliare, dopo complesse manovre amministrative, le proteste dei proprietari rimasti senza casa dopo il disastro. Con grande pragmatismo, poi, Borzì s’accorse che l’isolato poteva felicemente incastrarsi nel Piano Spadaro. Questo datato 1869 prevedeva l’espansione a sud sul piano della Mosella, secondo una maglia a scacchiera ed era già parzialmente realizzato, se non altro nella sistemazione dei lotti e del tracciato. Per di più l’area a sud fu il primo nucleo della città baraccata ed era ragionevole assecondare la tendenza nel modo più proficuo possibile dato il sentimento d’urgenza che aleggiava.

Di contro, vennero individuate aree d’espansione per 883037 mq. (il doppio di quei novecento e tanti della città pre-1908), sia a nord che a sud dell’antico nucleo; sparirono dalla Città i piani mezzanini, e con essi i valori di stratificazione sociali che contenevano; si tese ad una rigida forma di zonizzazione, direzione poi ampiamente perseguita durante il ventennio; ed ad una omologazione del costruito, variato da

87 Ivi, p. XX 88 Cfr. L. DI LEO, M. LO CURZIO, Messina ricostruita…, op. cit.; FRANCESCO CARDULLO, La ricostruzione di Messina…, op. cit.; RITA SIMONE, Messina tra norma e forma, Roma, Gangemi, 1996. 89 L. DI LEO, M. LO CURZIO, Messina ricostruita… op. cit. p. 22

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poche emergenze rappresentative. Oltre alla sicurezza dai terremoti, la distruzione di Messina,

liberò la strada al piano di risanamento di quei quartieri che «costituivano […] focolari miasmatici irradianti l’infezione per tutta la città». Risanamento, senza mezzi termini, sarà sinonimo di sventramento, e le ragioni di un agire così spregiudicato – penseremmo oggi – sono tutte del tecnologo e dell’igienista.

[…] Le cause dell’elevata mortalità [di questi quartieri], vanno ricercate nella soverchia agglomerazione degli abitanti, nelle vie strette e tortuose, nei vicoli, vicoletti e cortili male esposti o peggio illuminati e ventilati; circostanze tutte le quali unite alla deficienza e talvolta anche all’assoluto difetto di razionali opere di fognatura avevano creato ambienti favorevoli allo sviluppo del miasma della putrefazione. Ci siamo quindi preoccupati di combattere la formazione di siffatti ambienti, ed abbiamo perciò proposto lo sventramento dei quartieri in questione (le cui abitazioni per altro sono state totalmente abbattute dal terremoto) dando loro luce sufficiente, dotandoli di una razionale fognatura e distribuzione di acqua potabile e rendendovi facile la ventilazione naturale in modo che qualunque vento cardinale spiri, in tutta la rete stradale vi sia sempre richiamo e quindi rinnovamento d’aria. E codesto criterio della ventilazione venne esteso a tutta la città, poiché in Messina […] si constatava nella medesima ora ed in vie ugualmente orientate una sensibile differenza di temperatura […]. Non abbiamo perciò esitato a prolungare in ogni parte le vie, specie quelle sboccanti sul mare, le quali, a motivo della posizione e della pendenza, funzioneranno come organi di respirazione dell’aria iodio-ossigenata del mare. E sarebbe grave ed inopportuno, nell’interesse igienico e generale di Messina, se, per ragioni particolari, i proprietari interessati ostacolassero l’attuazione completa di questo concetto, che, rispondendo ai dettami dell’igiene moderna, accrescerà indubbiamente l’estetica della città.90

Negli enunciati restanti l’istinto del professionista prende il sopravvento, e così Borzì passa ad illustrare le opere necessarie per il tramvai, per l’ampliamento del porto e della ferrovia, per la strada di circonvallazione che abbia scopo di decongestionare la città e di collegarne con maggiore efficacia i diversi punti; per il sistema della fognatura, che fu detto essere fra «i più razionali, quali poche fra le città più progredite possono vantare».91 Tutto, mantenendo costante il riferimento 90 Piano Borzì, p. 21, in Campione 219 91 La citazione di cui non è riportato l’autore è contenuta in Nino Principato, Le trasformazioni di Messina…op. cit. p. 80

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all’igiene – i cui «dettami» sono ripetutamente evocati - alla salute pubblica, all’efficienza dei collegamenti, alla razionalità dell’impianto d’illuminazione. Anche al paragrafo 7, che pure pare un’apertura alle domande della conservazione, la ricostruzione degli edifici «suscettibili di riparazioni» può avvenire solo subordinatamente gli altri enunciati – quindi concordemente con i rigidi contenuti tecnici – e guardando più al risparmio che ne deriverebbe piuttosto ai paradigmi legati alla memoria.

Segue ai criteri fondamentali la “Dichiarazione descrittiva della proposta”. Non è difficile indovinare la forma urbana esitata dal documento in base agli enunciati così meticolosamente applicati. La Palazzata come già lungamente detto è la prima a subire il fatale destino: troppo mal ridotta, troppo vicina alla banchina del porto e quindi d’ostacolo al suo potenziamento, troppo esposta al rischio maremoti. Conseguentemente Corso Garibaldi diventa il nuovo lungomare e viene sistemato a giardino, sicché l’area così preziosamente allestita, sia ancora richiamo per il ceto più agiato. Si legge appresso: “Rettificazione del Corso Cavour, […] della via Cardines, […] della via Monasteri”. Queste rettificazioni-ampliamenti (da sei e otto metri a quindici o venti), come facilmente osservabile dalla planimetria allegata al piano, hanno significato la demolizione delle vecchie cortine; specialmente il raddrizzamento della via Cardines, che con via Primo settembre formava la piazza delle Quattro Fontane, è stato tanto generoso da causarne lo sdoppiamento e la cancellazione della piazza,92 simbolo tra i più noti della città.

La disinvoltura con la quale Borzì tratta le preesistenze, è giustificata dal grande pragmatismo ed efficientismo che lo caratterizza; e se poi le ragioni igieniche non bastavano a rassicurare gli scettici, il desolante stato di rovina in cui versavano le fabbriche, a seguito del sisma, si prestava ad essere l’argomento più efficace con cui sedare le coscienze dei più sensibili. Sul punto, però, occorre essere rigorosi. Rispetto

92 Ora via Cardines è solo un breve vicolo, tra via Garibaldi e via Primo settembre, al cui incrocio possono vedersi due delle quattro fontane dei ‘canti’, corrispondente con l’inizio della più antica via, mentre la strada rettificata è stata titolata a Cesare Battisti.

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l’abuso che se ne fece, il concetto della città ridotta a tabula rasa dopo il disastro, appare oggi, alla luce di una più attenta analisi delle testimonianze, dei documenti inediti, molto meno convincente.

Nei resoconti del ministero c’è una prevalenza di descrizioni che non si fa fatica a definire telegrafiche: «edificio completamente rovinato, crollato il tetto ed i muri est ovest, […] crollata completamente, […] l’edificio si regge ancora, tuttoché gravemente lesionato, […] crollata in parte, […] completamente e mostruosamente caduta, […] in rovina, […] lesionata, […] crollato il tetto ed un muro, […] rimasta in piedi sebbene danneggiata, […] etc.» Si possono fare a questo proposito due considerazioni. La prima che nei resoconti si tende a vedere il monumento nella sua interezza, quindi con l’insieme di statue, quadri e apparati che lo adornavano e si tende a concentrare l’attenzione e le misure di restauro sui beni mobili restaurabili. La seconda che i margini operativi rispetto ad un discorso di restauro architettonico si mostrano estremamente ridotti già all’indomani del sisma. Questa situazione si deve in buona sostanza tanto all’entità delle distruzioni che alle immediate misure adottate per avviare una rapida ricostruzione. L’entità della distruzione […] induceva ad accomunare il destino della costruzione totalmente rovinata a quello della costruzione parzialmente distrutta. In questo panorama l’affermazione della scarsa importanza che viene data alla possibilità del restauro parziale è da considerare alla stregua di un garbato eufemismo tendente a non porre l’accento sulla grossa percentuale di monumenti per i quali non si ipotizzava alcuna possibilità di intervento. Nella realtà una parte del patrimonio monumentale non viene presa in considerazione malgrado la parzialità dei danni.93

La verità è quella che almeno il 30% degli edifici era rimasto pressoché intatto, danneggiato e comunque non in maniera così grave da giustificarne le indiscriminate demolizioni […]. Ma intanto si demoliva dissennatamente e senza motivo quanto (ed era tanto) era sopravvissuto quasi indenne al terremoto […].94

Pure l’attività della già citata Commissione delle Antichità, fu molto limitata, e Antonio Salinas, soprintendente a Palermo e Commissario di nomina governativa, insieme a suoi volontari, per quanto mosso da sacro zelo, riuscì a salvare molto poco del patrimonio architettonico, e fortunatamente molto più del patrimonio artistico. Giunto a Messina subito

93 L. Di Leo, M. Lo Curzio, Messina ricostruita… op. cit. p. 32 94 Nino Principiato, Le trasformazioni urbane dopo il sisma del 1908; in 1908-2008: Messina l’incompiuta, l’identità perduta, a cura di Clara Stella Vicari Aversa, Messina, 2008, p. 65 e sg.

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dopo la tragedia, egli si troverà in grande imbarazzo:

«arrivato a Messina il primo gennaio in una rapida corsa tra le macerie sanguinanti ebbi tosto a vedere come all’immane carneficina degli uomini, rispondesse purtroppo un’immane carneficina dei monumenti e delle opere d’arte, e come nell’immensità del disastro l’opera di uno solo non avesse modo di esplicarsi. D’altronde mentre le piazze e le rovine eran piene di feriti e di cadaveri, io sentivo vergogna di attendere a trasporti di oggetti d’arte, sottraendo braccia che dovevano conservarsi ad uffici più pietosi e imitando in certa guisa i molti intesi alla febbrile ricerca dei cosiddetti valori e delle casse forti».95

Salinas non mancherà comunque di gratificare quanti lo aiuteranno nell’operazione di salvataggio, richiedendo per costoro onorificenze pubbliche. Si trattava di lavoro di fatica: i pochi incaricati dal governo, insieme con qualche militare, e chi fra i cittadini avesse voglia e sensibilità alle questioni della tutela, portavano a spalla o con altri mezzi di fortuna i frammenti, i gessi, le statue, le tele, gli elementi architettonici nei luoghi sicuri rimasti in città da dove sarebbero stati poi recuperati e per essere accatastati sulla piana di S. Salvatore dei Greci, dove era prevista la realizzazione del nuovo museo civico.96

Questo guardare propriamente alla salvaguardia dei beni artistici come ad un lavoro manuale, paziente e pesante che si esegue senza clamore e che vale per la storia, ma che è tutto proteso e verso l’uomo, verso un concetto di ricostruzione che non può in ogni caso essere scambiato per un fatto meramente materiale dà certamente oggi molto da pensare.97

Degli scampati eccellenti ci fornisce un preciso elenco, un galantuomo di Messina, Gaetano La Corte Cailer, che sopravvissuto al disastro, annota, nei suoi preziosi diari,98 i successi dell’attività di salvaguardia, ma anche le “barbarie” che vennero perpetrate a danni di molti edifici in nome della sicurezza pubblica, a suoi giudizio riparabilissimi. La sua attività di volontario incomincerà quasi subito.

2 Gennaio (Sabato) - Mi rianimo [scrive], e vado al ferry-boat a parlare

95 La citazione è riportata in L. Di Leo, M. Lo Curzio, Messina ricostruita… op. cit. p. 31 96 Cfr. R. MERCADANTE, Messina dopo il terremoto…, op. cit. 97 Ibidem. 98 G. LA CORTE CAILER, I miei diari…, op. cit.

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col R. Commissario.99 Appena gli dico di Museo, recupero e custodia degli oggetti d'arte, mi volta bruscamente le spalle e mi lascia in asso. C’era presente il Segretario Francesco Majolino, il quale si mostra pure annoiato, ed allora io gli dico che ci tengo a dimostrare che io son pronto a servire il Comune in qualsiasi ramo, e che non mi si dichiari dimissionario. Il Majoino si voltò brusco sempre, alle mie resistenze aprì un taccuino, ed a malincuore segnò in esso il mio nome e l’indirizzo, dicendo che mi avrebbero chiamato a prestar servizio. Dopo ciò, me ne andai.

3 Gennaio (Domenica) - Siccome il Prefetto comm. Adriano Trinchieri mostrava della stima per me, cosi stamani andai da lui, sul ferry-boat, a dirgli che mi dedicasse ai lavori di recupero degli oggetti d’arte. Ei mi rispose che era venuto il Prof Salinas, il quale non voleva con sé che il suo personale, ma che egli gliene avrebbe parlato. Non mi nascondeva però la difficoltà della riuscita.100

I diari di La Corte, che poi collaborò lungamente e proficuamente con Salinas, adottano spesso i toni della denuncia e sono una testimonianza utilissima per tentare di capire non solo il reale stato di conservazione degli edifici dopo il sisma (il cui bilancio è assai distante da quello fornito dai responsabili di nomina governativa che si occuparono della stima dei danni), ma anche le autentiche ragioni che fecero protendere per una soluzione così radicale, piuttosto di una mediazione tra conservazione e innovazione tecnologica. Si riportano di seguito le annotazioni di alcune giornate tra il 1911 e il 1913, affinché si riesca a far luce su quanto davvero accadde.101

1911

5 Settembre (Martedì) – Il Rettore dell’Università risponde promettendo

99 Ivi, vol. 2, p. 1069. Il Regio Commissario cui fa riferimento è l’avv. Nicola De Bernardinis al quale non lesinerà commenti al vetriolo: «Consigliere delegato della Prefettura, uomo dedito al vino e di modi villani. Alcuni impiegati municipali si sono messi a lavorar con lui alla meglio in un vagone ferroviario, ma oggi l’ufficio si é trasferito sul Ferry-boat Cariddi, dove io andai per offrir l’opera mia, ma tutti quei visi biechi d’impiegati mi fecero scoraggiare, e tornai indietro sconfortato». 100 Ibidem. 101 Le annotazioni riportate sono in G. LA CORTE CAILER, I miei diari…, op. cit. pp. 1078, 1090 e sg., 1094, 1097, 1098, 1099, 1129 e sg., 1139, 1140, 1143, 1148, 1168, 1184, 1189, 1190. Molte fra queste erano già state selezionare da N. Principato, in Messina l’incompiuta… op. cit.

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che proporrà al Ministero la conservazione delle due porte, ma il Genio Civile oggi stesso risponde ritenendo invece opportuna la demolizione della porta della Chiesa…!

6 Settembre (Mercoledì) – Il Rettore scrive daccapo, assicurando che il Genio Civile, per ora, non demolirà nessuna porta. Intanto si continua con la dinamite a buttar giù il fabbricato.

7 Settembre (Giovedì) – Continua la resistenza per la retrocessione della Chiesa di S. Elia […].

31 Ottobre (Martedì) – Oggi, a Policara, la Ditta Salvago ha chiuso i conti della fornitura di dinamite e capsule al Genio Civile per le demolizioni in Messina dal 4 febbrajo 1909 ad oggi […]. L’lng. Ermes D’Orlando può andar contento! Esso ha distrutto Messina più del 28 Dicembre, ed al Salvago (cognato dell’lng. Capo Ghersi) ha fatto fare affari d'oro!! Al resto, ora!

4 Novembre (Sabato) – Si demolisce la chiesa di S. Bartolomeo, della quale eran caduti la volta e la parte superiore del prospetto, al che s’era riparato subito, tanto che la chiesa funzionava, anche con un campanile provvisorio in legno. Tutto si va radendo al suolo! ma i preti hanno i torti maggiori: non sanno resistere!!

«11 Novembre (Sabato) – Ferve agitazione perché S.Giovanni di Malta lo vogliono demolire a forza. Il Comitato diocesano si occupa della cosa e non si sa come andrà a finire. […]

13 Novembre (Lunedì) - L’agitazione è giustificata, perché il Prefetto scrisse al canonico Scarcella perché sgombri subito il Santuario (S. Giovanni di Malta) dovendolo minare d'urgenza! Lo Scarcella venne da me, ma il R. Commissario é d’accordo per la distruzione di tutti i monumenti di Messina, ed io non so che fare.

29 Novembre (Mercoledì) – […] Oggi il Prefetto con l’Ing. Ghersi si sono recati a visitare S. Giovanni di Malta, ma siccome non c’erano le chiavi del santuario (che le detiene l’Arcivescovo) cosi non poterono vedere che la sola chiesa. Il Prefetto si persuase che l’edificio potrebbe restare, ma il Ghersi insistette sempre per la demolizione. In ogni modo, tutto é sospeso per adesso.

2 Dicembre (Sabato) – […] Il prospetto della chiesa di S. Clemente, rimasto intatto ma pericolante, è stato demolito con la dinamite l’altro giorno, perché il Tram a vapore col suo passaggio correva pericolo. Era un prospetto semplice e bellino […].

6 Dicembre (Mercoledì) – Il Genio Civile fece saltare in aria il Palazzo La Corte, baroni di Ciurrame, che era all'angolo tra Via S. Camillo e Corso Cavour. Questo robusto e bel fabbricato (già degli Spadafora principi di Maletto) nel 1812 era stato rifatto dai miei antenati i quali vi avevano conservato le belle mensole del balcone, scolpite dal Calamecca [...]. L’edificio rimase intatto il 28 dicembre, ed ora resistette a lungo alla dinamite: fu demolito perché sorgerà in quel posto il nuovo edifizio municipale del Calderini.

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9 Dicembre (Sabato) – Si provvede a demolire l’arco addossato al Palazzo Senatorio dal lato della via S. Camillo. […] così […] mancherà di appoggio, e siccome questo è il lato molto lesionato dalla dinamite che buttò giù il vicino palazzo dell’Hotel Trinacria, così si spera dal Borzì e complici che l’edifizio andrà in malora!

1912

18 Gennajo (Giovedì) – Giorni fa venne demolito – con stenti grandissimi – quanto restava dell’Annunziata el Convento […] Mi narrava il Sig. Giuseppe Bensaja, […] che fu fatica enorme buttar giù quelle mura […] dell’Annunziata: sembravano d’acciaio! […]

19 Gennajo (Venerdì) [l9l2]. I’ing. Ermes D’Orlando ordina al Salvago 700 Cg. di dinamite, a 100 Cg. al giorno, per cominciare la demolizione di quanto resta del Civico Ospedale, già in gran parte abbattuto non dal terremoto, ma dalla dinamite [...]. E perché, intanto, distruggere completamente un vastissimo e robusto edifizio, i cui pianterreni sarebbero ancora utilizzabili tutti? Oh infamia! Sol per fornire guadagni al Salvago, cognato dell’Ing. Capo Ghersi?

31 Gennajo (Mercoledì) – La demolizione dell’Ospedale continua con sforzi enormi. Le mura colossali non vogliono cadere!

1 Febbrajo (Giovedì) – Bombe colossali abbattono stamane l'angolo dell’Ospedale sulla via Porta Imperiale, a tramontana, ma manca la dinamite e l’Ing. D'Orlando ne chiede altra al Salvago per domani.

2 Febbrajo (Venerdì) – La Chiesa dell’Ospedale cadde oggi, con tutta la facciata, alle ore 12,40 dopo vari spari di dinamite. Il resto del prospetto dell'Ospedale, da quel lato, cedette alle ore l6,50. In complesso, si consumarono circa 1000 Cg. di dinamite a £ 5,50 il chilo!

14 Febbrajo (Giovedì) – Scrissi al R. Commissario interessandolo perché venga conservato l’atrio medioevale di Casa Cammareri.

26 Febbrajo (Lunedì) – Oggi il Genio Civile compì un altro dei suoi vandalici atti, al coperto della legge. Minò e fece saltare in aria l’atrio medioevale, bellissimo e conservatissimo, che c’era nella Casa Cammareri in Via del Rovere! Mascalzoni! […] c’era imminente pericolo per gli operai… Ecco l’usbergo solito!!!

15 Gennajo (Mercoledì) – Era rimasta intatta (meno la facciata) la bella chiesetta della Grazia, a Porta Real Basso. E la bella cupola cinquecentesca era intatta, anche perché la chiesa poggiava tutta sull'antico muraglione della città, attaccato al Castello. Ma stamane si cominciò a demolir tutto...! fu vana quindi la mia viva raccomandazione al Salinas!!! tutto poteva restare, ma... era una chiesa, e bella per giunta!

18 Febbrajo (Martedì) – Si sono cominciate da più giorni le demolizioni del Palazzo Caruso, all’angolo delle Quattro Fontane, dove sorgeva il tempio di Ercole Mantico […].

23 Febbrajo (Domenica) - Si ha grande interesse di demolire la chiesa di

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S.Andrea Avellino che essendo intatta minaccia di essere riaperta al culto.

25 Febbrajo (Martedì) – Un violentissimo terremoto ci scosse stamane alle 6 del mattino. Si replicò la solita scena umoristica, cioè i Pompieri della Caserma Centrale in automobile corrono al Palazzo Senatorio per dichiarare ancora una volta di più che è caduta… Ma io volli controllare, e il monumento è sempre lì, come prima: pare che lo faccia apposta a Borzì, a Ghersi ed alla Massoneria ignorante, presuntuosa e patrona di Messina per sventura collettiva!!

Insomma se vincolanti normative antisismiche ci furono, è vero anche come s’assecondarono altre istanze durante la ricostruzione. Di là dei prevedibili interessi di portafoglio, che La Corte non manca d’annotare, si potrebbe tessere, prestando attenzione a precise informazioni e chiose, la storia di una ricostruzione, per certi versi, ideologica. Uomo perspicace, La Corte, era tra quei notabili cittadini estranei alla massoneria, quando non in aperta polemica con essa, legato, se non proprio compromesso, con la passata monarchia, e certamente rispettoso dell’autorità ecclesiastica, o comunque del patrimonio artistico di cui questa s’era fatta mecenate nel corso del tempo.

Ora, quando scrive della «bella chiesetta della Grazia» che c’era interesse a demolirla, perché «era una chiesa e bella per giunta», o quando tenta di difendere S. Giovanni di Malta, o quando si scaglia contro i «mascalzoni» che vorrebbero minare la chiesa di S. Andrea «che minaccia di essere riaperta al culto»; non leggiamo solamente gli intimi sfoghi di un umanista al servizio dell’arte, bensì intravediamo un fenomeno assai più complesso che ha radici antiche, e molti più interpreti che non gli attorucoli delle meschine ladronerie di una città in ginocchio. Per intendere meglio, riportiamo ancora le parole di La Corte appuntate al 28 gennaio del 1912:

Ebbi notizie [scrive] intorno la nuova Chiesa di S. Maria del Bosco. – L’edifizio […] ancora manca del cappellone e del pavimento, perché mancarono i denari ai confrati. Questa mancanza di somme fu prodotta dall’Ufficio del Piano Regolatore, che prima dette la linea per la costruzione, e poi fece demolire circa mille lire di lavoro già fatto… Ciò per stancare i confrati!... È la lotta conto i cattolici, che si espleta in tutti i modi dalla massoneria.102

102 Ivi, p. 1137.

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Ecco il punto. La ricostruzione della città fu interamente gestita dalla massoneria siciliana e la cosa non fu tenuta nemmeno troppo occulta. Borzì, come il suo maestro Basile, come l’on. Fulci di cui s’è fatta menzione, insieme con gli altri protagonisti della grande manovra urbanistica, erano notoriamente tra i maggiori affiliati di quella stessa massoneria che aveva apparecchiato il Risorgimento nell’Isola e che poi lucrò sui beni ecclesiastici demanializzati dal Governo Italiano. Quell’anticlericalismo non andò estinto in cinquant’anni ed il sisma fu per questo gruppo la grande occasione per firmare ideologicamente la resurrezione della città.

Specialmente Ludovico Fulci, deputato e senatore del Regno, «e capo indiscusso della potente Massoneria di Palazzo Giustiniani in Sicilia»,103 sarà il principale intermediario e coordinatore delle vicende della ricostruzione. Seguendo il principio «dell’esproprio generalizzato di tutte le aree interessate dal sisma», fonderà l’“Unione di Messinesi danneggiati dal sisma”, «un consorzio di cittadini, [destinatario] del conferimento coattivo delle proprietà immobiliari». L’ente, il cui nome cambiò nel 1919 in “Unione Edilizia messinese”, aveva «il compito di provvedere alla ricostruzione di tutte le zone terremotate, per permettere di stabilire l’ordine di priorità delle case da ricostruire».104 In pratica un nucleo dirigente che, fino all’avvento del fascismo, orchestrava in prima persona la ricostruzione.

Con maggiore accuratezza di come fatto in queste poche righe, Gaetano Palazzolo in uno studio recente sull’architettura di Giuseppe Samonà a Messina e sulla breve stagione dei concorsi d’architettura in Sicilia,105 spiega quanto d’ideologico ci sia stato nella ricostruzione. Secondo questo studio, la Messina dei primi anni del Novecento era attraversata da un profondo rinnovamento culturale a metà tra idealismo gentiliniano e dottrine positiviste,

mentre l’analisi scientifica di reperti e fabbriche antiche viene condotta

103 GAETANO PALAZZOLO, L’Architettura di Giuseppe Samonà a Messina, dal concorso della Nuova Palazzata al Palazzo Littorio, Grafill, Palermo, 2010. All’epoca dei fatti, Palazzo Giustiniani era sede della Loggia del Grande Oriente d’Italia 104 Ivi, p. 15. 105 G. PALAZZOLO, L’Architettura di Giuseppe Samonà…, op. cit.

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con il fine di «rintracciarne i meccanismi formativi e i nessi storici reali con altre opere o con tendenze generali», per riallacciarsi alla tradizione ermetica e a quella attitudine a rivisitarne i segni e i contenuti in chiave purista. A Messina, gli effetti del simbolismo ermetico sono particolarmente sentiti in ambito artistico e letterario, grazie all’impegno culturale e politico della famiglia Colonna di Cesarò, esponente della Massoneria ferriana, all’interno dei circoli di potere, in cui ci si preoccupa di diffondere la carica mistica ed esoterica del pensiero di Rudolf Steiner […]. Nella città peloritana, cosi come del resto in molte parti dell’isola, la diffusione del pensiero teosofico e antroposofico diventa il fulcro irradiante di una tradizione, che, ponendosi al di sopra della storia, tenta di ricostruire le linee essenziali dell’ideologia esoterica ed ermetica, avvalendosi delle avanguardie architettoniche. […] Gli esiti stilistici del nuovo linguaggio delle avanguardie nella città peloritana dominata da una politica di imperialistica baldanza e di accesa esaltazione nazionalistica, si riflettono in ambito prettamente architettonico ed artistico, dove emerge la predilezione per turgide membrature e plastici apparati simbolico ermetici con valenze comunicative che si innestano su un lessico costruttivo, rivolto alla rivelazione di nuovi contenuti estetici ed ideologici. Messina diventa un laboratorio di sperimentazioni urbanistico-architettonica […]. Appare abbastanza chiaro il disegno tentato dai progettisti, di costruire una costellazioni di simboli architettonici dai connotati semantici capaci di rendere evidente la specificità di un tessuto pregno di valenze. La maggior parte degli studiosi […] sembra più propensa ad operare una politica di compromesso tra varie istanze, in cui diventa fondamentale riappropriarsi del tessuto storico per riplasmarlo secondo “i moderni ritrovati della scienza costruttiva”.106

Insomma come che andarono le cose, Antonio Salinas, insieme con La Corte Cailer riuscì a sottrarre alla parossistica furia demolitrice pochi, sparuti monumenti;107 mentre il Piano Borzì fu, sotto molti aspetti, un prodotto del proprio tempo,

106 Ivi, p. 16 e sg. 107 «Dal canto suo non poteva che esprimere la propria amarezza per gli scempi artistici cui era costretto, suo malgrado, ad assistere, scrivendo al Ministro per la Pubblica Istruzione, il 28 dicembre 1915: “Alla soddisfazione di aver potuto salvare qualche pregevole fabbrica come il bel tempietto cinquecentesco di S.Tommaso, fa doloroso riscontro l’amara delusione della perdita di tanti belli avanzi che le nostre cure non giovarono a proteggere dalla mania demolitrice sorretta da brutti tornaconti commerciali: alludo principalmente ai belli archi di Via Pianellari e all’interno medioevale di una casa che un giorno trovammo distrutti all’insaputa di tutti. E qui alle gesta dei demolitori dovrei far seguire quelle dei ladri volgari e dei macchinatori di furti artistici. Ma di questa piaga che imperversò a Messina e che vi domina ancora in modo inconcepibilmente spudorato, tratterò in altro posto”». L. DI LEO, M. LO CURZIO, Messina ricostruita…, op. cit. p. 31.

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tanto tecnologicamente quanto ideologicamente, con lo scopo dichiarato di «riappropriarsi del tessuto storico per riplasmarlo».

Fuori dal centro le cose sono rese certamente più piane. Le aree d’espansione individuate a nord e a sud, non erano una novità per Messina. Il piano della Mosella, come l’area pianeggiante definita dal corso del Torrente Giostra erano zone pressoché obbligate, dove prevedere un’espansione dell’edificato, ché salire ulteriormente sui Peloritani, non era ipotesi da prendere in considerazione per il troppo scosceso pendio (oggi chi governa la pensa diversamente). Non va, inoltre, dimenticata la teoria secondo la quale Messina era destinata a diventare una città di collegamento nord-sud, che convogliasse merci e uomini da Palermo e da Catania, e il sorgere di una zona industriale a meridione e di un nuovo pezzo di città sull’asse ionico era cosa perfettamente coerente e naturale. Le strade già c’erano, si trattava soltanto di lottizzare l’area, che era per altro per sua predisposizione litologica ben fatta per essere edificata. La novità è un’altra. Complice la necessaria eventualità per la quale i due piani baraccati, vennero eretti, nemmeno a dirlo, su queste aree, Borzì volle dotarle di un carattere di primaria centralità. Al margine dell’antica Messina, a nord, prevede la realizzazione del Palazzo del Governo, del giardino a mare e di un’area alto-residenziale; al margine sud invece il cuore pulsante della Messina ‘nova’, identificato urbanisticamente nella Piazza Cairoli, che a tutt’oggi conserva il suo carattere di centralità.

L’effetto è distonico: Messina subisce un processo di snervamento in direzione longitudinale, che frantuma i collegamenti antichi e sedimentati, e che costringe in direzione di tre centri, due dei quali residenziali nord e sud e il terzo, il centro “storico”, che sembra debba esistere per conformismo più che per autentica utilità, o al massimo come macroarea di transito. L’antica zona d’impianto doveva veicolare altri sensi che non un triangolo di vie. Della Messina antica non rimasero la varietà sociale, la misura urbana, alcuni tipi edilizi, alcune immagini, intese come raffigurazione di una stratificazione urbana.

Non si fraintenda, si riconosce il merito a Borzì di avere saputo tenere insieme questi tre poli attraverso una sapiente

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sistemazione delle rinnovate Vie Garibaldi e Cavour, così che ogni nodo sia in dialogo costante con un altro attraverso una successione di piazze a tema fortemente connotate dalla concentrazione di servizi. Così vanno intese la Piazza Antonello, dove dialogano il Palazzo della Provincia, la Galleria civica – intitolata a Vittorio Emanuele III – le Poste e un lato del Municipio; o la stessa Piazza Municipio col suo bello e nuovissimo affaccio a mare, o ancora Piazza Maurolico con il grande complesso monumentale dei Palazzi dei Tribunali e dell’Università. E sono tutte piazze nella vecchia “zona d’impianto”, che evidentemente non fu dimenticata. Quello che mancò fu un dialogo tra il Piano, astratto, teorico e braccio armato della normativa, e la città con tutta quella ricchezza di significati e contenuti che non potevano risolversi in due vie e quattro chiese. Forse, troppo ingenuamente, si bilanciarono le ragioni della storia e della memoria, con le ragioni dell’utilità quando si liquidò la Palazzata, ché il conservarla non era vanità, ma un elemento di cesura tra il porto e la città con delle ricadute sulla vita economica, politica e culturale; il Corso Cavour, che Borzì si dice felice di poter ridisegnare,108 porta via tra le macerie immagini della memoria; o la via Cardines, la cui sistemazione cancella come niente un monumento della pianificazione carloquintiana che poneva Messina al pari di altre tra le maggiori città italiane.

Come abbiamo visto non mancò chi tra gli studiosi – ma anche leggendo le polemiche che rimbalzarono sui giornali del tempo – sospettò che dietro la rinuncia a un piano di riparazione, giudicato sbrigativamente velleitario, più che una palingenesi urbana, s’attestassero meno elevati interessi di volgare tornaconto. Tanto più se si pensa, che a guadagnare dalla non ricostruzione, non fossero solo le cooperative edili, ma anche le imprese che avevano gli appalti dello sgombero, ché meno si riparava, più si demoliva, e più si demoliva, più si sgomberava. Lo si può tutt’altro che escludere, anche se a cent’anni di distanza poco cale, più che le cause interessano gli effetti, e forse l’introduzione di un’economia incentrata

108 «Chi avrebbe mai pensato che a ciò [di raddrizzare la via] sarebbe stato ora possibile di provvedere facilmente, non essendo rimasto più nulla». L. Borzì, Piano Regolatore… op. cit. p. 28.

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sull’attività edificatoria è l’unica novità di quegli anni direttamente riconducibile agli interessi personalistici. Per il resto le conseguenze su Messina sono tutte nella città, nel suo disegno.

Nonostante ciò il piano Borzì fu approvato, e nel bene e nel male ha ridisegnato il volto di quella Messina che, seppur «sfrondata», all’indomani del terremoto, voleva ancora una volta rinascere sullo Stretto, che si identifica per moltissimi aspetti con la città stessa, la nutre e le dona la ragione d’esistere.

Di tutt’altro tenore era il Piano dell’ing. Augusto Guidini,109 che – lo ricordiamo – si era battuto per la conservazione della Palazzata.

Innamorato della Città dello Stretto, pubblica in autonomia uno studio di piano per la ricostruzione – dal motto allusivo Post fata resurgo – con l’intenzione di offrire anch’egli i propri contribuiti e competenze.

Il piano per Messina di Guidini, presenta un respiro più vasto rispetto al piano Borzì, dimostrando una cultura più avanzata, basata su Haussmann, Cedrà e su tutte le applicazioni più recenti dell’urbanistica della Belle Epoque, proponendo, specialmente per la zona nuova della Moselle, un tracciato viario più complesso ed elaborato, che si avvaleva, di isolati molto frammentati da tagli stradali, specialmente diagonali (avvicinandosi alla Barcellona dell’Ensanche del Cerdà) che avrebbero creato un insieme più vario, con una grafia da città liberty internazionale, lontanissima dall’antica Messina.110

«Lontanissima dall’antica Messina» è giudizio valido forse solamente per le caratteristiche più epidermiche delle zone d’espansione. Guardando bene alle tavole e al documento che 109 «Interessante figura del Modernismo italiano dei primi anni del Novecento. Nato a Barbengo presso Lugano nella Svizzera Italiana, Guidini viaggia moltissimo, in Europa, in Egitto, nel Medio Oriente e in Sud America. In Italia collabora con Giuseppe Mengoni alla realizzazione della Galleria Vittorio Emanuele e alla sistemazione della piazza del duomo a Milano. In Uruguay realizza nel 1909 un progetto per la Gran Galleria Montevideo con Carlos Ricci y Toribio; nel 1911 firma con Sommaruga, il progetto per il palazzo del Governo, e nello stesso anno sempre per Montevideo vince il primo premio per un grandioso piano urbanistico. L’anno successivo entra a far parte della commissione tecnica per l’esecuzione del piano, con gli ingegneri José Giannelli ed Eugenio Paolo Baroffio». R. MERCADANTE, Messina dopo il terremoto…, op. cit. p. 91. 110 Ibidem.

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presentò come «scioglimento di un voto verso la città», in realtà, il piano Guidini è straordinariamente sensibile rispetto la città antica e per certi versi molto più moderno del piano Borzì, ben radicato invece nella cultura del proprio tempo. Pure il disegno per il piano della Mosella, che certamente rivoluzionava il piano Spadaro, era costruito in relazione costante con il tessuto del nucleo storico, attraverso il prolungamento della via Garibaldi, giacitura diagonale primaria dalla quale, per altre linee normali e parallele, si veniva a costruire tutto lo schema dei lotti. E questo è punto sul quale ritorna più volte nel documento:

in base [al] concetto della integrale sistemazione, si svolge il Piano regolatore della città di Messina, il quale va considerato sotto un duplice aspetto. E cioè in quello della sede effettiva e storica della vecchia Città. E del suo risorgimento: ed in quello della nuova zona adiacente, e di espansione. Entrambi coordinati in una occorrente unità di tracciato d’impianto, e di raccordo; in modo da conseguire una organica disposizione di insieme, ed una forma assestata ed adatta alle nuove funzioni, ed alla nuova vita civile.

La città nuova risulta così molto più ricca, legata a esperimenti dal maggiore respiro internazionale come il piano di Cedrà di Barcellona, e meglio ammorsata con la vecchia, con benefici per la mobilità, l’ariosità, la rappresentatività.

Ma ciò che veramente pone distanza tra i due piani è l’atteggiamento verso «l’antica zona d’impianto, di debita sistemazione». Per l’area del nucleo storico, Guidini, prevede di mantenere integralmente il vecchio tracciato viario, contemperando di volta in volta le preesistenze con le normative. Certo per fare ciò, parole come sventramenti e rettificazioni saranno del vocabolario di Guidini tanto quanto già furono di quello di Borzì, e non lo si creda un conservatore della prima ora, in anticipo financo sulla Carta d’Atene. S’assiste, però, ad un ribaltamento del punto di vista riguardo la testimonianza storica, o sul valore rappresentativo della vecchia città: se per Borzì, infatti, salve rare eccezioni, l’edilizia «suscettibile di riparazione» era un vantaggio economico, quando non un ostacolo al risanamento; per Guidini si trattava di «un sentimento di rispetto, e doverosa conservazione dei Monumenti». È in questo senso anche un utilizzo molto più spregiudicato delle deroghe alle norme asismiche, come l’incremento a sedici metri – a fronte dei dieci meccanicamente

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applicati da Borzì – per l’architettura monumentale (sul punto era entrato in polemica anche con il ministero, ché era impari imporre un limite così restrittivo per le aree a rischio terremoti), o piuttosto l’idea di avanzare la banchina così da salvaguardare la posizione della Palazzata (e con essa la stessa). Insomma, accorgimenti, che rimarcano una profonda diversità da Borzì: le stesse pressanti urgenze igieniche e di sicurezza sono risolte con la buona qualità dell’edificato, anziché con una sudditanza professionale al decreto. Per meglio intendere riportiamo di seguito la pagina, di grande modernità, del documento dedicata all’atteggiamento programmaticamente adottato nei riguardi dei monumenti.

In massima, nello svolgimento del Plano regolatore, venne costantemente adottato il concetto – integrato dal sentimento – del massimo rispetto verso i maggiori Monumenti dell’arte e della storia che attestano la civiltà dl Messina e ne consacrano la gloria. Le tracce della città greca e romana, e del templi pagani, la cinta dell’epoca normanna, le porte, e tutti i frammenti dl Monumenti civili – che formano le pagine eterne della sua storia fatale – compresi i migliori palazzi antichi, e pubblici e privati, l’Università, il Museo, il Palazzo del Comune – furono oggetto di speciale attenzione e di cura, di meritevole e doverosa conservazione. Lo stesso dicasi di tutti gli altri splendidi Monumenti cristiani che attestano la fede ed il fasto degli avi del medio evo, della rinascita, e dei tempi più moderni che muovono sino a noi. E cioè dal millenario Duomo, consacrato nelle antiche pitture policrome delle travate e delle pareti, nelle sculture del Gaggini, negli intagli della rinascita dl Giorgio Veneziano, e nei fastosi ed ammirevoli mosaici in parte ancora conservati allo sfondo del tempio, e sopra il maggiore altare, superbamente scintillanti di oro e di luce. Alla splendida, alla maestosa Basilica di S. Barbara, o S. Maria di Malfino, coll’adiacente monastero; alle splendide Chiese di S. Maria della Pietà, dello Spirito Santo, dell’Annunziata, di S. Maria della Scala, di S. Maria di Gesù inferiore, di S. Francesco di Paola, di S. Anna, dell’Addolorata, di S. Nicolò, di S. Andrea di Avellino, di S. Giovanni di Malta, dell’Annunziata dei Catalani, di S. Maria del Basicò, agli avanzi del Tempio dell’Alemanna. Ed il sentimento dl tutela e di rispetto venne esteso a tutte le opere di pregio e di valore, che offrono uno speciale interesse d’arte, di storia, di culto e come tali si raccomandano – a tutte le genti civili – per la doverosa conservazione. Comunque per quelle parti di Monumenti che dovessero forzatamente esser demoliti - (e pur troppo tutti i Monumenti della distrutta Città sono gravemente lesionati e devastati) - ne verrebbero raccolti i frammenti, per parziali ricostruzioni commemorative nelle vicinanze, o per trovare degna sede nel Museo: sempre nell’intento della loro doverosa conservazione, ed in ogni forma consentita. Questo per quanto riguarda il Piano regolatore, sull’area della devastata Città, e nell’aspetto dei Monumenti. Piano difficilissimo – per tante e debite misure di tutela – del quale si

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espongono le linee generali: salve e riservate tutte le modificazioni che risultassero indicate ed appropriate, nell’intento di ogni migliore soluzione.111

La ricchezza del progetto non si limita comunque a questo – che pure a nostro giudizio è tra i meriti più alti. Il Piano Guidini, oltre una pratica tecnico-professionale precisa e rigorosa, offre altri spunti di qualità. Torniamo ancora sulla Palazzata. «La necessaria ricostruzione» della cortina del porto, oltre a condividere, con «il sentimento di doverosa conservazione dei Monumenti», la stessa matrice di comune rispetto, era accresciuta nei suoi valori formali e architettonici da due interventi: la sistemazione a giardino della banchina, ampliata dalle macerie, sicché il piano di sgombero abbia più di un’utilità; la realizzazione di un maggior numero di aperture nei blocchi del Palazzo, così da incrementare il grado di permeabilità tra la città e il porto, con ricadute benefiche sulla salubrità, per maggiore ariosità, sulla qualità delle strade, arricchite sensibilmente dagli scorci di panorama, sulla viabilità.

È poi grande cura per le problematiche del Porto «di tanta e tradizionale importanza, ed al quale è collegato – anzi dal quale dipende – il nuovo e sicuro avvenire [della città]». Oltre l’ampliamento della banchina, Guidini prevede la realizzazione nella parte più interna del golfo, all’attaccatura della zona falcata, due calate di approdo e scarico. Pianifica, come anche Borzì, lo sviluppo del piano nel breve e nel lungo termine, e cura con estrema attenzione i problemi derivati dall’applicazione dell’esproprio generalizzato.

Il progetto di Augusto Guidini, non ebbe seguito, ma resta comunque una testimonianza rilevante di come andassero maturando critiche sempre più consistenti ed autorevoli – già negli anni venti del Novecento – contro l’ottimismo tecnologico del positivismo urbanistico; e in difesa di altri valori e bisogni quali la storicità, la rappresentatività, l’identità. Compiendo un piccolo sforzo logico, si potrebbero intravedere, in questa cronaca, le premesse del fallimento di un metodo che s’avvita sempre più sull’esattezza scientifica e teleologica, sul funzionalismo; e al tempo, trascura colpevolmente i simboli 111 A. Guidini, Il piano regolatore…, op. cit. p. 41.

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racchiusi nelle forme,112 ovverosia quell’umanesimo, quel linguaggio universale che, su un piano metafisico, superando i limiti del tempo e dello spazio, crea i legami tra le persone e con le cose.

* * *

«Une cité n’est pas un organisme artificiel, dont on trace le plan dans des ministères comme s’il s’agissait d’un fort ou d’un cuirassè. Une cité est une production naturelle, qui dépend à la fois de besoins de la géographie: on ne la fait pas, elle se fait. […] Donc de deux choses l’une: ou Messine n’est pas nécessarie; et alors, malgré toutes, les réthoriques officielles, ses murailles ne renaîtront pas; ou elle nécessarie et elle renaîtra sur le même emplacement, malgré tous les rapports des

administrations conjurées».113

Carrere, anche lui testimone del disastro, addensa un pensiero bellissimo, sulla performatività del territorio. La città è prescrittiva, essa non è fatta, si fa, da sé. E per Messina accade nel medesimo modo.

Per cogliere appieno il senso di questo abbarbicarsi ai luoghi, bisogna far mente locale al permanere delle ‘«percezioni», a questo modo di interiorizzare caratteri fisici e qualità del paesaggio. Sono questi «aspetti visivi», che impongono il «significato» ad un ambiente, posseduto da sempre nel suo spessore storico, »in quanto abitato, trasformato, modellato». Sono queste «rappresentazioni mentali coerenti», queste «pulsioni consce ed inconsce», «la figurabilità», le immagini, i riferimenti comuni, il senso di appartenenza e di identità che sostanziano questi comportamenti. Sono queste «Complesse grammatiche», sia consce che inconsce, sia individuali che sociali, sia storiche che geografiche, che si traducono in «linguaggio», che diventano «termine essenziale alla comprensione» di questi comportamenti e ne determinano, ne orientano le azioni. La Caduta, «il

112 È su queste premesse, sul disprezzo del mondo del progresso e della macchina, che si componeva già la critica di Ruskin. Con esiti differenti da quelli che si registreranno nel secondo dopoguerra, l’Inglese, evocherà uno stile che, attraverso la forma, sia in qualche modo in grado di restaurare il dialogo tra l’uomo, lo spirito e il simbolo: «Non si ha bisogno di uno stile ma di un qualche stile», serve un’architettura priva di scopo ma utile allo spirito dell’uomo. Il finale è noto, Ruskin crederà salvifiche le forme del medioevo, come «incarnazioni della Politica, della Vita, della Storia e della Fede Religiosa». 113 La citazioni del giornalista JEAN CARRERE, Terre tremolante, Calabre et Messine, Parigi, 1909, edite in G. CAMPIONE, Il progetto urbano…, op. cit. p. 38

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mito della caduta deve presupporre la tensione verso una nuova sponda, verso il mito della resurrezione [...]. Non cessa di essere significativo che […] i filosofi del tempo individuassero nel terremoto [qui ci si riferisce al terremoto del 1785, N.d.A.] un’”epoca” e nel dopo terremoto (o almeno nei suoi primordi) un “ritorno”, che e anche frutto della attività mitopoietica dell’immaginario sociale». All’interno di queste «complesse grammatiche», la nodalità dei luoghi, la memoria di una marittimità prestigiosa, si traducono in ragioni fondanti.

Quello Stretto, in una parola, indispensabile.

Infatti il piano dell’ing. Borzì che doveva vigere per venticinque anni (approvato nel 1911 sarebbe dovuto scadere nel 1936), è durato almeno fino alla metà degli anni Settanta. Se poi si considera che, in fondo, al piano della Tekne74, degli anni Settanta, si è attribuito soltanto il carattere di mero strumento edificatorio e che le successive varianti non hanno visto la luce, bisognerà concludere che il disegno resta ancora, nelle linee essenziali, quello di oltre novant’anni fa, concepito in condizioni di emergenza. Come se l’emergenza continuasse. Ma questa è la storia della città ricostruita (o, meglio, della città ancora da costruire?), della città incompiuta, che è poi la storia dei nostri anni nella loro proiezione spaziale, nei sistemi di relazione più ereditati che costruiti, nell’incapacità della rigida maglia ortogonale di reggere i flussi e il movimento, nell’impossibilità di ricompattare in un unicum urbano, di una qualche qualità, nuove e antiche marginalità, sempre più disgregate: la storia della società messinese con i valori civici che ha saputo esprimere.

Il futuro però sarà, acriticamente svincolato dalla storia, e dai valori

territoriali anche simbolici, affidato al permanente uso patrimoniale dello Stretto, senza ricadute produttive pubbliche, ma solo particolari? E allora possono ancora immaginarsi funzioni che si colleghino ai processi di un territorio, letto come storia sedimentata? Si riproporrà, il disegno di una città che si disisola e che potrebbe agganciare la nuova rete di relazioni prodotte dall’«arco etneo», quello indotto dalla progressiva intermodalità catanese e dalla dirompente novità da Gioia Tauro a Pozzallo e a Malta? O questo è solo nello zigzagare della intellettualità «esigente» che si crogiuola tra malinconia e impotenza. Anche la nostalgia del luminoso talento visuale dello Stretto non sembra più varcare il grigio delle assuefazioni.

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FIRENZE: IL DOPOGUERRA

Bernardo Berenson in un articolo sulla ricostruzione del

centro di Firenze114 ricorda che fino a qualche decennio prima si ragionava sull’opportunità di distruggere Ponte Vecchio115: poco pratico, incapace di accogliere flussi sempre crescenti di persone, affollato di botteghe pericolanti. Ciò nondimeno dal 1945 vennero indetti i concorsi per la ricostruzione dei cinque ponti cittadini minati dai tedeschi.

Sembra lecito domandarsi cosa sia capitato nel mezzo. La guerra certamente. Chiave di volta di tutto il XX secolo, è la risposta degli storici a gran parte delle domande che gli vengono poste, e non a torto, né il nostro caso può costituire eccezione. Ma se comodamente possiamo individuare nella guerra la causa prima e immediata di quanto accaduto negli anni seguenti ad essa, dobbiamo comunque tenere presente che non può trattarsi della sola; tanto più che il mutato atteggiamento rispetto alle preesistenze non fu l’eccezionale risposta ad un evento eccezionale - o almeno smise presto di 114 B. BERENSON, Come ricostruire il centro di Firenze demolita, «Il Ponte», n. 1, Firenze 1945. Vedilo ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 67. 115 “Nella scia di quel ciclone di vandalismo che abbatté le mura della città e travolse il Mercato Vecchio”. Ibidem.

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esserlo - e alimentò il dibattito anche quando le ragioni della ricostruzioni avevano perso in vigore.

La nostra ricognizione vuole mettere in luce le cause che hanno modificato l’approccio all’ambiente antico, capire storicamente quand’esso acquisì rilevanza e indicare le conseguenze che investirono i modi della pianificazione e della tutela in forza dell’inedito interesse. Per fare questo ci avvarremo dei contributi dei più impegnati intellettuali del tempo, lasciandogli non raramente la parola, ché quanto già detto chiarissimamente nell’emozione di quegli anni non ha ragione di essere rimaneggiato. Le pagine di riviste e quotidiani furono i luoghi dei più accesi confronti: Casabella Continuità e Urbanistica le più impegnate.

Dalle proposte della ricostruzione di Firenze fino ai due congressi del 1957 è l’intervallo di tempo che abbiamo stimato utile per dimostrare i nostri argomenti e per condividere con il lettore il fascino di quegli anni fertilissimi di pensiero, durante i quali per la prima volta in una coralità polifonica si espressero i le idee necessarie affinché il Paese si dotasse degli strumenti per una crescita globale e culturalmente sostenibile; e nei quali si formarono gli assetti disciplinari dell’oggi in Architettura.

La prima occasione: Firenze116

All’alba del 4 agosto 1944 i tedeschi, per rallentare

l’avanzata delle truppe alleate, facevano tabula rasa di intere strade del centro, minavano le case ed esplodevano tutti i ponti, ad eccezione del solo Ponte Vecchio, risparmiato per aver solleticato la sensibilità romantica del comando del Reich.

L’eccezionalità dell’accaduto fu presto chiara a tutti. Le città che durante la guerra furono bombardate, presentavano sì molti sventramenti, ma secondo uno schema a macchia di leopardo, magari su porzioni di isolati, o su sezioni di cortine, e spesso per ogni certo numero di fabbriche distrutte, altrettante restavano illese. Insomma, nella città, le lacune discontinue

116 Le notizie storiche di questo capitolo sono ricavate integralmente da due fonti. Il monografico sulla ricostruzione del centro di Firenze: «Urbanistica», n. 12, 1953; e la pubblicazione di G. K. KOENIG, Architettura in Toscana 1931-1968, Torino, ERI. 1968.

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degli strati urbani furono la diretta conseguenza della casualità con la quale venivano sganciate le bombe. Gioco forza, in casi simili la ricostruzione procedeva per risanamento e convenzionalmente si adottarono dei criteri quali l’altezza degli edifici, l’allineamento del perimetro117, etc. A Firenze questo non accadde.

Se, infatti, il capoluogo toscano fu relativamente risparmiato dai bombardamenti aerei, subì un tipo di devastazione diversissima: integrale per una ben determinata quantità urbana. Procedendo da ovest verso est i caduti furono: il ponte della Vittoria, il ponte alla Carraia, il ponte di Santa Trinita, il ponte alle Grazie, il ponte a San Nicolò; infine avendo accettato di risparmiare Ponte Vecchio furono minati gli edifici sul lungarno Acciaiuoli sì che le macerie servissero allo scopo tattico. Per la prima volta ci si trovò a discutere non tanto dei modi del risanamento o di integrazione di nuove fabbriche frapposte a quelle preesistenti, quanto di un progetto di ricostruzione di una porzione compatta, omogenea, fortemente stratificata e determinante l’identità civica. Non si è trattato di perdere singole fabbriche o di distruggere semplici luoghi, ma i veri e propri luoghi della memoria.

In questi termini posto il problema, non sorprende come la faccenda abbia subito alimentato un ampio dibattito cui parteciparono architetti, intellettuali e urbanisti. Un evento collettivo e certamente una gran prova per la democrazia nascente118. Fra il ’45 e il ’47 è un susseguirsi di articoli sui maggiori giornali dell’epoca119. Si avanzano proposte, si discute sui modi e sui mezzi. Le posizioni adottate sono molteplici, data la complessità del problema, e solo con una certa approssimazione si possono individuare delle angolazioni ricorrenti.

117 Questi erano per esempio i suggerimenti di Roberto Pane per le ricostruzioni dei centri storici. Piccole indicazioni di carattere generale che servissero il duplice obiettivo di agevolare l’integrazione degli inserimenti negli ambienti costruiti e di calmierare le speculazioni sulle aree resese libere in seguito ai bombardamenti. 118 È Koenig a parlare di lezioni di democrazia, impartiteci degli americani a seguito delle polemiche per i risultati dei concorsi per la ricostruzione dei ponti. 119 Si confronti a riguardo la rassegna di articoli curata da E. Detti. Opinioni e proposte per la ricostruzione, «Urbanistica», n. 12, cit.

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Tra le più nette quella di Bernardo Berenson, lo storico dell’arte, all’epoca dei fatti ottuagenario, scrive un articolo sul primo numero de Il Ponte dal titolo “come ricostruire Firenze demolita”120. Con molta chiarezza Berenson sostiene la posizione del “com’era e dov’era”, citando ad esempio la ricostruzione del campanile di San Marco a Venezia. Suadenti gli argomenti. Fattibilità di un progetto di ripristino: Firenze era – come certamente è ancora – fra i comuni di maggior interesse artistico ed architettonico, e numerosissimi i documenti, gli acquarelli, le prime fotografie, i rilievi delle fabbriche danneggiate. Inconciliabilità stilistica tra il fronte del borgo San Jacopo, “troppo cupamente medievale”, e la facciata aperta alla vista in seguito ai bombardamenti sulla riva degli Acciaiuoli. Terza ragione, certamente per noi la più significante, è:

Che per secoli quando si pronunciava o si leggeva il nome

Firenze, l’immagine visiva che prima balenava alla mente era quella del Ponte Vecchio e del lato opposto dell’Arno come lo si vedeva passeggiando per il lungarno Acciaiuoli. Seguivano pensandoci su, altre immagini ma come estensioni o particolari […]. Esse non alteravano la prima spontanea evocazione. Se non la si ricostruisce si verrebbe a sostituire l’immagine mnemonica della Firenze che noi e i nostri predecessori hanno conosciuto per generazioni […]. Non si riconoscerebbe più l’identità e saremmo costretti a ricostruirla rimettendo insieme frammenti di ricordi.121

E ancora appresso. Se quanto detto è valido per i fiorentini,

lo sarà a maggior ragione per i forestieri i quali solo a seguito di una perfetta ricostruzione potranno contemplarla “come un’emanazione di pura bellezza, che esprime il gusto di un popolo più sensibile artisticamente di alcun altro popolo che l’Europa abbia conosciuto negli ultimi duemila anni”122. Le ultime parole dell’articolo sono spese per ribadire la necessità di comportarsi parimenti per la ricostruzione dei cinque ponti demoliti. Non ci dilungheremo in chiose, tanto più che quanto riportato, è di una chiarezza lapidaria. Ci interessa piuttosto

120 B. BERENSON, Come ricostruire… cit. 121 Ibidem. 122 Ibidem.

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rilevare come una tesi assai simile sia alla base di una certa idea di restauro, secondo la quale l’intervento sulla preesistenza deve assicurare la trasmissibilità dei valori contenuti nell’immagine del monumento, forse più che del monumento stesso. Evidentemente tutti coloro i quali anteporranno, all’immagine della memoria, l’autenticità della materia saranno i fieri sostenitori della tesi contraria.

A prescindere dalle personali idee o simpatie, questa del Berenson è tesi di indiscutibile interesse. Per le particolari circostanze in cui la sostenne, per essere stato l’unico ad averla sostenuta e con sufficiente coerenza da ritenere utile l’introduzione di tutti i perfezionamenti moderni. Egli, infatti, con una certa disillusione sulle attribuzioni di autenticità, riteneva che ogni proprietario di caso potesse dotare l’interno della sua abitazione di tutte le comodità che più lo aggradavano; similmente i progettisti e gli strutturalisti potevano ricorrere alle tecniche più moderne che meglio avessero servito allo scopo.

Il Ponte al numero successivo pubblicherà la fiera avversa posizione di Ranuccio Bianchi Bandinelli alla tesi del vecchio storico123. Il pittoresco cui s’appellava Berenson è secondo il nostro oppositore frutto di lenta sedimentazione e quindi impossibile da riprodurre in una volta soltanto. Si accusa inoltre il Berenson di un certo discutibile romanticismo che privilegerebbe il pittoresco al bello classico, la stessa preferenza che i tedeschi accordarono al Ponte Vecchio a spese ad esempio del michelangiolesco ponte di Santa Trinita.

Piuttosto che soffrire per la fresca ferita, Bandinelli suggerirebbe di approfittare freddamente delle circostanze create dalla guerra, che mai diversamente si sarebbero potute verificare, proprio a causa di quell’amore che tanto il Berenson quanto il Bandinelli con i fiorentini tutti nutrivano. Ammodernare il centro di Firenze, cogliere l’occasione per costruire una nuova città e fondare i criteri di una rinnovata

123 R. BIANCHI BANDINELLI, Come non ricostruire Firenze, «Il Ponte», n. 2, Firenze 1945. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 68.

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bellezza. Meglio serbare una segreta nostalgia che bearsi di una “verginità artificiale e chirurgica”124.

Infine è il nodo polemico di cui si strutturano le posizioni anti-ripristino, vale a dire l’impossibilità di riprodurre qualsiasi cosa andata perduta; perché non esistono più i singoli artefici e perché impossibile ricreare tanto l’ambiente culturale, quanto il momento storico che ne hanno permesso l’origine. In ragione di ciò tutte le imitazioni sono condannabili “come ripugnanti all’estetica”125, Firenze se “non ha il diritto di mutare volto, ha il dovere di non rifarselo di cartapesta”

Le proposte che seguiranno si allineeranno, con sfumature differenti, alla tesi ora del Berenson (poche) ora del Bandinelli (quasi tutti gli architetti militanti). C’è chi come l’allora sindaco Ugo Procacci avanza la proposta vagamente naif di ispirarsi agli edifici raffigurati nella cappella Brancacci126; o chi come Piero Bigongiari affida tutte le sue speranze ad uno stile moderno127; c’è Papini che invece di stile non vuole nemmeno parlare, perché una casa “non ha stile”128; e Michelucci che dalla colonne de La Nazione del Popolo prega che “le sponde dell’Arno non debbono diventare un museo”, perché “sarebbe un assurdo riportare l’uomo nelle strade-trincea”129. Ragghianti che assieme con Nicolosi e Piccinato130 ribadiva l’impossibilità, antieconomicità, nonché assurdità di una ricostruzione in stile; risolve furbamente il conflitto tra antichi e moderni, poiché

124 Ibidem. 125 Ibidem. 126 U. PROCACCI, Difesa della città medioevale, «La Nazione del Popoplo», Firenze, 6 ottobre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 69. 127 P. BOIGONGIARI, Più architettura, «La Nazione del Popoplo», Firenze, 27 ottobre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 70. 128 R. PAPINI, Il referendum sulla ricostruzione di Firenze, «La Nazione del Popoplo», Firenze, 15 settembre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 68. 129 G. MICHELUCCI, Le sponde dell’Arno non debbono diventare un museo, «La Nazione del Popoplo», Firenze, 27 ottobre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 69. 130 G. NICOLOSI, L. PICCINATO, C. L. RAGGHIANTI, Relazione della commissione giudicatrice del concorso per la ricostruzione delle zone distrutte intorno al Ponte Vecchio, Firenze, 1947. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 70.

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un’urbanistica odierna che “intendesse” le istanze della città non sarà diversa dall’urbanistica medievale avendo conservato la città le medesime istanze131. E tra quelli elencati solo i più autorevoli.

Anche i concorsi dei ponti suscitarono grande interesse. Giovanni Klaus Koenig ce ne restituisce la cronaca puntuale132. Il primo ad essere ricostruito fu il ponte della Vittoria. Quando fu bandito il concorso, Firenze era ancora sotto l’amministrazione alleata e i progettisti si trovarono a dovere opere con delle limitazioni. La scarsa reperibilità del ferro per le strutture in calcestruzzo armato costringeva ad una soluzione ad arco con balaustre in pietra o muratura. Inoltre bisognava riutilizzare quel che era rimasto, sicché quasi tutti i progetti mantennero immutata la linea del ponte e gli architetti si risparmiarono di ricalcolare le strutture.

La vittoria fu contesa da due progetti. “Il ponte” di Baroni, Bartoli, Gamberini, Maggiora e “L’uomo sul ponte” di Gizdulich, Gori, Ricci, Savioli. Dei dodici giurati che componevano la commissione, il pittore Annigoni, l’architetto Michelucci, i critici Longhi e Salvini, l’assessore Albertoni e il capitano dell’esercito alleato Einthoven si schierarono per il secondo dei due progetti. I restanti sei fra cui l’avvocato Zoli, il sindaco Pieraccini, l’architetto Coppedé, il critico Papini, si schierarono per “Il ponte”. Bisognò quindi nominare un tredicesimo giudice per risolvere l’ex aequo e per un solo voto la spuntò il progetto di Gamberini e compagni. Nemmeno a dirlo un trionfo così risicato non poteva non dare sfogo alle polemiche più infiammate133.

Poco mancava si boicottasse il risultato del concorso e si cominciasse tutto da capo. Solo la tenacia di Pieraccini con la collaborazione del capitano Einthoven permise l’avvio del cantiere.

131 C. L. RAGGHIANTI, Urbanistica medioevale e urbanistica d’oggi, «La Nazione del Popoplo», Firenze, 22 settembre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 69. 132 G. K. KOENIG, Architettura in Toscana… cit. 133 È di Carlo Lodovico Ragghianti e Carlo Levi il distico satirico: Ministro Ivanoé/ Giudice Coppedé/ ricostruiremo i ponti/ col gusto dei geronti. Dedicato all’allora presidente dei Consiglio Ivanoè Bonomi, ad Adolfo Coppedè ed al sindaco di Pieraccini, esperto geriatria.

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Dal raffronto tra i due progetti, emerge subito la natura dei due schieramenti. “L’uomo sul ponte” voleva essere una passeggiata galante sull’Arno, tanto fortemente compromessa con la tradizione e forse anche con una certa maniera scolastica, per i sui tempietti e mascheroni; da indurci a pensare che poco si sarebbe adattato al repentino cambiamento di costumi che avvenne sin dal primissimo dopoguerra. Il ponte vincitore, invece, si limitava a raccordare le pile superstiti in un gioco di linee curve e sghembe che, seppur più umile per forme e contenuti, manteneva una certa semplice eleganza.

Il secondo ad essere ricostruito fu il ponte alla Carraia. Sorvolando sulle prime fasi dei concorsi che procedettero non diversamente dal ponte della Vittoria, con gli audaci tentativi vagamente retrò del gruppo di Gori, e Michelucci che con alcuni dei suoi proponeva un ponte di grande snellezza; si arriva al 1948, quando il Genio Civile, senza tenere in alcuna considerazione i risultati dei concorsi già fatti, decide di bandirne uno nuovo. Questa volta a spuntarla fu un forestiero, il veronese Ettore Fagioli, che con buona pace delle soluzioni progettuali dei Gori, dei Michelucci realizzò il ponte con un’improbabile arcuatura a modello di uno medioevale134.

Il ponte di Santa Trinita è certamente quello che maggiormente suscita il nostro interesse, perché la sua ricostruzione ruotò attorno ad uno dei temi centrali della disciplina del restauro: l’autorialità. Disegnato da Michelangelo, il cinquecentesco ponte mandò in crisi personalità come Ragghianti, che fiero sostenitore dell’impossibilità di una ricostruzione in stile ma incapace di accettare la scomparsa di un così caro bene, si trovò a considerare la possibilità del ripristino come un caso limite di restauro. Messa da parte con il primo dolore anche l’idea di un ponte modernissimo, in ferro e acciaio, che testimoniasse la perdita e che non scimmiottasse l’Opera michelangiolesca, si accettò di procedere con il restauro-ripristino.

134 Immancabilemente Koenig ci riporta gustosi aneddoti. Papini oratore ufficiale all’innaugurazione di una mostra della ricostruzione postbellica così esordì: “se è vero, come è vero, che il Genio Civile è la spina dorsale della ricostruzione italiana, adesso mi spiego perché il ponte alla Carraia è così gobbo…”

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“Com’era e dov’era” era quindi il criterio da seguire fermamente, e quando il Genio Civile, preso atto delle difficoltà che sarebbero nate ricorrendo a tecniche e modi tradizionali, considerò la possibilità di ricostruire solamente l’involucro e risolvere il problema strutturale in calcestruzzo armato, si levò puntualmente il vento di polemiche135. Ragghianti e Papini concordarono che se il ponte andava rifatto “come’era” non ci si poteva limitare alla sola buccia. Fu così che Papini chiamò a Firenze un’eccezionale squadra di luminari delle scienze delle costruzioni che sentenziarono la fattibilità del progetto.

Gizdulich si preoccupò della compagnia di rilievi, di recuperare i frammenti, di eseguirne dei calchi, di ritrovare le statue. L’ingegner Brizzi nel frattempo, incaricato per le strutture , studiava la statica manieristica e la curva del ponte. Né si manco di osservare lo scrupolo di prelevare il materiale lapideo dalla stessa cava che servì al primo scopo.

Il caso nella sua eccezionalità ci costringe ad una riflessione. Di fronte ad un indiscusso successo cittadino, quale fu il progetto di restauro del ponte di Santa Trinita, ci si può rammaricare della perduta autenticità del bene? Qualsiasi sia la risposta, Firenze riebbe il suo ponte e dopo “dieci anni di piogge e alluvioni che hanno dato alla pietra la patina dell’antico, nessuno quasi ricorda più che si tratta di un altro ponte”136.

Gli ultimi due ponti ad essere ricostruiti, alle Grazie e a San Nicolò, suscitano minore interesse e per un verso o per l’altro scontentarono sempre qualcuno vuoi per una cattiva scolastica vuoi per un eccesso di tecnica.

Complessivamente però la ricostruzione del centro di Firenze, fatte le immancabili eccezioni, fu un fiasco totale e ciò accadde nonostante la massiccia partecipazione di solidi professionisti. Scontentò tutti, meno gli speculatori: i fautori della tesi del Berenson videro una città trasformata e tristemente impoverita, i sostenitori delle qualità della

135 E ancora un distico di Ragghianti riportatoci da Koenig, che abbiamo il gusto di riportare a nostra volta. “Non in cemento armato, perché armato ancor non è/ bensì in cemento armando in onore di Vené”. Contro l’allora sovrintendente Armando Vené che non aveva avuto nulla da obiettare alla proposta del Genio Civile. 136 G. K. KOENIG, Architettura… cit. p. 65.

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modernità furono prontamente smentiti da risultati intermittenti quando non decisamente scadenti, in un climax discendente che denunciava la scarsa coesione dei quadri dirigenti. Ci piace riportare quasi integralmente il commento di Giovanni Michelucci su quanto stava accadendo nel grande cantiere della ricostruzione.

[…] A noi sembra che facendo un confronto fra i progetti presentati al concorso, quello «definitivo» e la ricostruzione in parte realizzata e in parte in via di realizzazione , si possa dimostrare un graduale impoverimento di soluzioni.

I progetti del Concorso ponevano in evidenza alcune idee episodiche assai interessanti (come la strada sopraelevata in Por Santa Maria, i vari affaccia menti sull’Arno, il largo in Borgo S. Jacopo) che disparvero in gran parte nel piano del Comune o su indicazione della Commissione giudicatrice o per le critiche della stampa.

Anche le residue idee particolari, che conservava il piano «definitivo» del Comune, stanno scomparendo nella realizzazione, il cui clima è tale da fare ancor più convinti i fautori della ricostruzione in stile che il Berenson aveva ragione quando proponeva di ricostruire le facciate distrutte e lasciare che dietro questi paraventi la proprietà privata arrangiasse gli ambienti.

Volendosi limitare a considerare quello che è stato realizzato si può affermare che l’urbanistica non può essere chiamata in causa per questo centro ricostruito. Si tratta infatti du una banale ricostruzione piena di difetti funzionali, tecnici, igienici, economici.

La mancanza di un’idea direttrice a cui tutto sia subordinato (e che doveva essere conseguente ad attuali, precise funzioni vitali della zona) fa appunto escludere che questo parto dell’intelligenza e della sensibilità fiorentina possa avere una qualche relazione con l’urbanistica. […]

La ricostruzione del centro di Firenze è l’espressione di quello che le varie teorie dell’ambientamento possano far raggiungere praticamente, è il succo di una scolastica concezione dell’architettura e dell’urbanistica: esse è, si voglia o no, il compromesso fatto muro, che rispecchia una esistente prima negli spiriti che nell’edilizia.137

Comunque siano andate le cose, in tutto ciò che è legato alla

ricostruzione del centro di Firenze, siano ponti o fabbriche, al di là delle ragioni progettuali o strettamente funzionali, oltre le scelte e vedute personali, di là dei successi e dei fallimenti, delle

137 G. MICHELUCCI , La realizzazione: ambizioni e compromessi, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 72 e p. 80.

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ambizioni e dei compromessi; risulta chiaro come in pochi anni di vivace partecipazione siano emersi moltissimi temi centrali per chi si occupa di costruito: l’importanza della storia, il significato di tradizione, l’interesse per il contesto come insieme costituente l’immagine di una città, l’integrazione di una fabbrica nuova in un contesto antico; i modi della ricostruzione, le scelte estetiche, statiche, urbanistiche; l’identità dei luoghi. E gli errori che furono commessi si scolpirono indelebilmente negli animi di chi quell’occasione l’aveva mancata.

Non deve dunque sorprendere come nel primo decennio che seguì alla seconda guerra mondiale non si parlasse d’altro che di questi temi sulle riviste specializzate (Casabella in testa) fino a quando alla fine del 1957 non si tennero: il congresso internazionale indetto dall’undicesima Triennale di Milano sul tema “Attualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico” e il Convegno di Lucca dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sul tema “Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale”. I due incontri fissano storicamente, con nessuna approssimazione, il momento nel quale pervennero a piena maturazione queste idee ed i bisogni della conservazione investirono per la prima volta tutto il costruito antico.

Le Riviste. I Congressi Fin dal 1928, anno della sua fondazione, Casabella si affermò

come una tra le maggiori riviste che trattasse i temi dell’architettura razionalista. Quando il regime nutrì di propaganda un’architettura di gusto fiaccamente classico e di vistosa monumentalità, l’allora direttore della rivista Giuseppe Pagano si schierò apertamente contro, denunciando le “occasioni mancate”138. Le conseguenze di una simile presa di

138 Giuseppe Pagano scriverà due editoriali pericolosamente polemici uno di seguito l’altro. Potremo salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali?, «Casabella-Costruzioni», n. 157, 1941, in cui si critica satiricamente una carrellata di architetture fasciste e che gli costerà un richiamo generale dal direttore generale della stampa Gherardo Casini. E Occasioni perdute, «Casabella-Costruzioni», n. 158, 1941, accorato appello allo spirito “affinché si veda che non tutti gli architetti italiani si sono rimminchioniti, affinché siano chiarite le nostre posizioni e le responsabilità dei megalomani dilapidatori di

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posizione non tardarono ad arrivare: Pagano fu deportato nel campo di Mauthausen e la rivista sospesa. Dal 1943 per dieci anni Casabella tacerà quasi completamente, ad eccezione dei tre numeri curati nel ’46 dalla coppia Albini Palanti. Solo nel 1953 la rivista tornerà ad essere pubblicata regolarmente, edita da Editore Domus e diretta da Ernesto Nathan Rogers.

Riepilogando, abbiamo un’eminente rivista specialistica sospesa durante il regime, un direttore uscente (Pagano) deportato, un direttore entrante (Rogers) rifugiato in Svizzera, gli amici e colleghi del direttore entrante, Banfi e Belgiojoso (punto di riferimento della Resistenza milanese) a Mauthausen. Come doveva essere Casabella alla sua riapertura? Per Rogers la risposta era semplice: Casabella doveva essere Continuità.

Il programma di Casabella Continuità è scritto nell’editoriale del numero 199 nella forma del manifesto dalla penna di Rogers.

Continuità significa coscienza storica; cioè la vera essenza della tradizione nella precisa accettazione di una tendenza che, per Pagano e per Persico, come per noi è nell’eterna varietà dello spirito avversa ad ogni formalismo passato e presente. […]

Dinamico proseguimento e non passiva ricopiatura: non maniera, non dogma ma libera ricerca spregiudicata con costanza di metodo. […]

Non siamo né idolatri, né iconoclasti: amiamo i Maestri (della storia contemporanea e della passata), riconoscendo con gioia, il nutrimento che abbiamo ricevuto dal loro esempio, ma non rinunciando alla parte più gelosa del nostro spirito che riserviamo al giudizio sereno di ogni esperienza. […]

Universalità della cultura: continuità nel tempo; continuità nello spazio. Non è opera veramente moderna quella che non abbia autentiche fondamenta nella tradizione. […]

Siamo per un linguaggio veramente internazionale, ma fatto di mutua comprensione, dove ognuno possa contribuire con la sua libertà interiore e l’apporto colturale caratteristico della regione nella quale opera […].

Tale compito può essere tentato dallo sforzo consapevole dei produttori dell’architettura (artisti, industriali, artigiani) […], dei lettori italiani e stranieri, degli amici vecchi e nuovi […], degli studenti, perché ci

pubblico denaro, affinché si pensi alle occasioni perdute dalla civiltà italiana anche nel campo dell’architettura”; che avrà ben più gravi conseguenze.

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aiutino a dar sostanza tutti insieme al nostro programma.139

Continuità fu però anche una necessità. Come abbiamo già avuto modo di dire, scrivendo su Firenze, s’era ormai imposto un nuovo modo di fare la guerra che non fu più solo una lotta fra truppe ma fu guerra totale: il fronte attraversava le città, i bombardieri non si limitavano a radere al suolo basi militari, né risparmiavano fabbriche di civili; e certo è per questo motivo che Roma si dichiarò città aperta. Mai prima d’allora s’era temuto così gravemente per i beni. Né il timore si fondava su una presunta vulnerabilità; essa era concreta e la potenza della distruzione minò, ci ripetiamo, i luoghi dell’identità. Ma non è tutto. Il fuoco delle avanguardie con la sua ansia innovatrice s’era già spento da tempo e aveva lasciato il posto ad una pedante applicazione dello stile moderno, molti formalismi avevano già esaurito la loro parabola ivi compreso quello fascista che si volle con ogni forza estirpare.

E poi c’era il problema dell’italianità e non è poco. La Resistenza fu una vaga occasione mancata per rifondare un ethos morale della Nazione, e sempre più pressante si fece la necessità di riscoprire delle radici comuni. Esse potevano essere ricercate solo scandagliando la storia e i suoi reperti; incluse le architetture, specialmente quelle più genuine, così autenticamente italiane. Non si poteva più mandare al diavolo il passato, sfiduciati nelle forme nuove tanto quanto si era dimentichi di quelle antiche. Né si poteva esercitare una selezione elitaria sul passato. Molti tra gli architetti militanti degli anni ’50 erano stati nella Resistenza, certi sperimentarono i campi e alcuni di loro ci morirono, parlare solo delle grandi opere sarebbe stato per lo meno fuori luogo.

La storia, tutta la storia, serviva a rifondare gli animi e riscoprire un’identità collettiva. Da questo punto in avanti il rapporto con la storia sarà il tema su cui inevitabilmente saranno costretti a confrontarsi i maggiori intellettuali.

Esso si sostanziava essenzialmente di tre aspetti: peso e consistenza della tradizione, interesse riguardo l’ambiente antico, modi degli inserimenti nelle preesistenze ambientali. Questi tre fattori sono strettamente interconnessi e impressero

139 E. N. ROGERS, Continuità, «Cabella-Continuità», n. 199, 1954.

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sensibilmente l’opera degli architetti che s’occupavano di restauro, di quelli che si curavano della progettazione del nuovo, o di coloro che con grande passione e consapevolezza semplicemente ne scrivevano.

Senza troppa retorica Le responsabilità verso la tradizione è il titolo dell’editoriale di Rogers del numero 202 . Fondamentale appare:

allargare i termini della cultura indagando oltre gli schemi stilistici dell’insegnamento scolastico nel più vasto e non ancora abbastanza esplorato campo dell’arte spontanea, […] stabilire le relazioni tra la tradizione spontanea (popolare) e la tradizione colta per saldarle in un’unica tradizione. Delle due componenti, l’una è per consuetudine – e quasi per definizione – oggetto di studi da tempo immemorabile, ma l’altra, quella dell’arte popolare, […] è stata negletta e perfino avulsa dalla storiografia artistica e dalla sistematizzazione estetica.140

L’acquisizione di Rogers è epocale e non riguarda soltanto l’architetto e l’architettura. Negli stessi anni tutte le discipline storiche adottano il nuovo punto di osservazione: la rilevanza dei grandi fatti, dei grandi uomini, delle res gestae perde importanza a vantaggio delle ragioni collegiali, delle conquiste dei popoli. E non è un caso che gli studiosi che nutrirono questo pensiero fossero vicini agli ambienti che fecero la Resistenza, come non è casuale la vittoria intellettuale delle sinistre nell’Italia del dopoguerra.

L’interesse per questi fenomeni, continuamente nutrito da nuove energie, la crescente disposizione d’amore per tanti trascurati monumenti di anonima umanità, sono un sintomo caratteristico della cultura odierna: segni sicuri che la coscienza politica sociale, pur se lenta e distorta, sta sfondando le muraglie convenzionali.141

Il circolo virtuoso che Rogers voleva avviare, procedeva dalla riscoperta dei luoghi della tradizione popolare, passando dalla riconquista di questi da parte della cultura, cui era delegato il compito di studiarli, catalogarli e selezionarli; fino ad arrivare alla fusione di “un’unica tradizione” che fosse capace di sostanziare le nuove realizzazioni. Non più prodotti di un’accademia – antica o moderna poco importa, son tutte da condannare - ma frutto di una “problematica dinamica” dalla quale si potesse trarre “la concretezza dei fenomeni”.

Non si può realizzare la semplicità perduta che riconquistandola

140 E. N. ROGERS, Le responsabilità della tradizione, «Cabella-Continuità», n. 202, 1954, p 1-3. 141 Ivi.

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mediatamente, traverso il processo selettivo della cultura: questo è un atto profondo del pensiero che rielabora i sentimenti e l’intuizione, trasferendoli sul piano dell’attività artistica, con nuovi solchi, con nuove sementi, con nuovo faticoso lavoro. […]

Per cogliere il carattere di una tradizione bisogna considerare la storia totale di un popolo e non alcuni suoi frammenti più o meno rilevanti. […]

Due forze essenziali compongono la tradizione: una è il verticale permanente radicarsi dei fenomeni ai luoghi, la loro ragione oggettiva di consistenza; la seconda è il circolare dinamico connettersi di un fenomeno all’altro, tramite il mutevole scambio intellettuale fra gli uomini. […]

Ogni artista e, anzi, ogni opera d’arte sono all’incrocio di queste due forze che collaborano al processo storico e ne sono la vera essenza. […]

La soluzione è nel vitale connubio tra le energie autoctone della tradizione spontanea, con gli originali apporti di quelle correnti che formano il patrimonio universale del pensiero. […]142

E a questo articolo di Rogers cui abbiamo attinto a piene mani ne sono seguiti molti. Il carteggio tra Roberto Gabetti con Aimaro d’Isola e Vittorio Gregotti sull’impegno della tradizione, nel quale i due architetti torinesi ribadivano la loro necessità di rimanere indipendenti dalle scuole, di fuggire i tipi anche quando fossero stati loro, affinché non intralciassero la loro ricerca. E Gregotti rispondeva loro che:

il riconquistato senso della storia ci pone tutti in modo preciso di fronte le nostre responsabilità di intellettuali. O sapremo coglierne la sostanza civile, narrare, celebrare e commuovere o ci aspetta il terribile silenzio di un’incomunicabile perfezione.143

E ancora Rogers in un altro editoriale tenta di capire quanto dell’operato di quegli anni quanto effettivamente sia in continuità e quanto viceversa sia in crisi. Considerando la storia un processo dove queste due istanze convivono e si superano vicendevolmente a seconda che si dia più peso alle emergenze piuttosto alle permanenze144.

142 Ivi. 143 R. GABETTI, A. D’ISOLA, V. GREGOTTI, L’impegno della tradizione, «Cabella-Continuità», n. 215, 1957. Pp. 61-62. 144 E. N. ROGERS, Continuità o Crisi?, «Cabella-Continuità», n. 215, 1957. Pp. 3-4.

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E poi Giuseppe Samonà sulle pagine di Urbanistica scrive nel 1954 cinque pagine dense dal titolo Architettura spontanea: documento di edilizia fuori dalla storia145, in cui vengono descritti i contenuti, i messaggi ed i modi dell’operare su questo bacino di tradizione. Si scandagliano le cause storiche, ambientali, orografiche che hanno forgiato le forme edilizie più comuni; si discute sulla differenza con la letteratura architettonica146; sulla minore rilevanza degli aspetti legati all’autorialità e su quella maggiore della “consuetudine artigianesca” il cui apporto alla tradizione è forse superiore che per l’architettura colta. Si mette in guardia l’artista dalle tentazioni di edifici senza età, che possono risultare fin troppo suadenti a chi cercasse forme universali. Si punta l’attenzione sul carattere più modestamente intimo di una cultura attiva che libera “dagli impacci e dalle autosufficienze della tradizione erudita” può risolvere con grande efficacia lo sposalizio tra forma e funzione; nonché sul duplice rapporto di causa e conseguenza che su queste fabbriche ebbero le piccole comunità.

Va da sé come un’architettura che fonda la sua qualità estetica non più sulla forma, sui modelli e sulla composizione, ovvero sia sul perfetto compiuto, ma sull’adattabilità, sulla materia, sulla tecnica artigianale; vada conservata nei suoi contenuti materici e non in quelli esteriori o ideologici, ché l’ideologia è contenuta nelle pietre e nel legno di cui è costruita. E Samonà questo lo sa bene nonostante si accosti con fare dubbioso alla questione.

In un territorio che si va configurando artificialmente, per ragioni che sono tuttavia indispensabili alla nostra civiltà, l’invocata conservazione di una crosta edilizia che accentua l’espressione ambiente nella natura in cui sorge, diventa molto problematica e direi sempre più anacronistica. Nonstante tutto questo la conservazione dei nuclei più caratteristici si impone, perché richiesta dalla nostra civiltà.147

È in questa temperie culturale che trova il giusto spazio il VI Convegno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, sul tema: Difesa e Valorizzazione del Paesaggio urbano e rurale, tenutosi 145 G. SAMONÀ, Architettura spontanea: documento di edilizia fuori dalla storia, «Urbanistica », n. 14, 1954. Pp. 6-10. 146 La felice espressione è di Pane. R. PANE, Città antiche edilizia nuova, Napoli, ESI, 1959. 147 G. SAMONÀ, Architettura spontanea… cit. p. 9.

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a Lucca il 9 novembre 1957148. Obiettivo del convegno era quello di formulare delle proposte legislative che potessero correggere le leggi del 1939 e sulla tutela del patrimonio storico artistico e sulle bellezze naturale e del 1942 sui piani regolatori149, ormai inadeguate per la nuova idea di paesaggio che si era andata affermando. E di questa idea parlano i relatori Giuseppe Samonà, Eduardo Vittoria, Ernesto Rogers, Leonardo Benevolo, Ludovico Quaroni e altri prestigiose firme dell’intellighenzia di quegli anni. Non si può più parlare dell’ambiente in:

senso naturalistico, come di qualcosa che scuota l’immaginazione e possa essere motivo di commozione o di eccitazione […]. Neanche può essere inteso in senso archeologico come ambiente tipico o monumentale […].

Il paesaggio inteso unicamente come integrazione dello spazio fisico nel quale vive e lavora l’uomo contemporaneo.150

È per queste ragioni che l’obiettivo dell’I.N.U. era quello di:

riportare nel’ambito della pianificazione urbanistica tutti i problemi che si riferiscono alla tutela del paesaggio urbano e rurale, inteso nella sua totalità di valori umani […] senza i quali questo paesaggio non avrebbe alcun senso come continuità della storia che è storia dell’uomo. 151

Nella pianificazione cui si fa cenno bisogna sapere che:

Conservare, o costruire sono momenti di un medesimo atto di coscienza, perché l’uno e l’altro sono sottoposti ad un medesimo metodo: conservare non ha senso se non è inteso nel significato dell’attuazione del passato e costruire non ha senso se non è inteso come continuazione del processo storico: si tratta di chiarire in noi il senso

148 Le relazioni generali furono riportate in «Urbanistica», n. 23, 1958, p. 115 e sgg. 149 In particolare la legge del 1939, seppur acerba, ebbe il merito di anticipare un certo interesse per l’ambiente, anche se limitatamente all’ambiente dei monumenti. Il ministro della Pubblica Istruzione secondo la legge regia avrebbe “la facoltà di prescrivere le distanze le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità delle cose immobili soggette alla disposizione della presente legge, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”. 150 E. VITTORIA, VI Convegno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sul tema: Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale Lucca 9 novembre 1957, relazioni generali, «Urbanistica» n. 23, 1958, pp. 117. 151 G. SAMONÀ, VI Convegno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sul tema: Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale Lucca 9 novembre 1957, relazioni generali, «Urbanistica» n. 23, 1958, pp. 116.

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della storia.152

Donde la rilevanza che occupano le testimonianza materiali del passato e la necessità:

di conservare gelosamente le cose antiche, non solo come fonti di godimento estetico, ma come elementi indispensabili per il nostro equilibrio culturale.153

Stabilito ciò, come tutelare l’ambiente storico ed il paesaggio? Se da una parte, infatti, i bisogni della tutela si facevano sempre più pressanti, dall’altra le spinte della trasformazione non erano da sottovalutare. È vero la guerra aveva piegato l’Italia, ma dai primissimi anni ’60 il Paese si stava trasformando da un piccolo Stato ai margini dell’Europa in una delle più solide potenze mondiali. Stava conoscendo uno sviluppo demografico ed economico senza precedenti e la domanda di nuovi alloggi e di nuove aree edificabili si faceva sempre più massiccia. Non sorprende che si cercasse urgentemente di formulare la giurisprudenza che disciplinasse lo sviluppo urbanistico e sanzionasse gli speculatori, ingrassatisi durante gli anni della ricostruzione.

La proposta degli intellettuali che presero parte al convegno era semplice, fare del piano regolatore lo strumento capace di far convergere, nell’unica possibile direzione di una crescita culturalmente sostenibile, l’interesse alla trasformazione e quello all’innovazione; perché l’uno senza l’altro sarebbero stati insufficienti quando non proprio dannosi. Senza quest’accorgimento metodologico la trasformazione di una casa, ad esempio, avrebbero incontrato scarse resistenze, poiché troppo spesso singole fabbriche, riconducibili all’insieme dell’architettura spontanea o – preferiamo dire – artigianale, prive di qualità estetiche architettoniche rilevanti, non suscitavano il dovuto rispetto (e oggi non

152 E. N. ROGERS, VI Convegno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sul tema: Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale Lucca 9 novembre 1957, relazioni generali, «Urbanistica» n. 23, 1958, pp. 118. 153 L. BENEVOLO, VI Convegno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sul tema: Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale Lucca 9 novembre 1957, relazioni generali, «Urbanistica» n. 23, 1958, pp. 118.

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accade diversamente). Sembrava evidente quindi che la compromissione di isolate emergenze architettoniche avrebbero minato la complessità dell’insieme, nel quale risiede il valore di questo specifico ambiente. Di contro accordare ai bisogni della salvaguardia una priorità rischiava di aggiungere “altri equivoci all’orizzonte limitato della tecnica e della burocrazia”154 e di trasformare il fertile interesse per la tradizione in uno sterile feticismo per il passato, ché spesso:

Tutte ciò che le considerazioni critiche contengono di profondamente etico, spirituale e genuino sul valore della persistenza di certe forme d’ambiente che siano spazio naturale, struttura dell’uomo, costume, esercizio civico di determinate attività, ha sempre perduto ogni sua forza quando si è intorbidito e confuso nello schematismo burocratico della vigilanza amministrativa, o quando è stato settariamente e ciecamente difeso da quegli ambienti dello storicismo reazionario che sono quasi sempre inoperanti e distruttivi.155

Avere esteso la sfera di competenza degli organi di salvaguardia e avere richiamato l’attenzione su un enorme quantità di fatti architettonici che fino a vent’anni prima gli eventi di cui stiamo narrando erano tenuti nel più oscuro anonimato; ha avuto conseguenze a catena tanto significanti quanto logicamente prevedibili. Uno dei problemi maggiori degli interventi di restauro sui monumenti è di riuscire a tramandare l’immagine del bene che si tenta di tutelare operando delle aggiunte, spesso necessarie, che non ne compromettano i caratteri identitari. Ora quando il contesto è diventato a sua volta monumento e documento da leggere, proteggere e tramandare, il problema dell’aggiunta si è moltiplicato esponenzialmente per quantità e qualità. Risolvere una lacuna urbana non è certamente la stessa cosa di coprire un distacco pittorico o una perdita di pigmento; le implicazioni di un inserimento ambientale sono incontrollabili e il problema resta a tutt’oggi aperto.

154 G. SAMONÀ, VI Convegno dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sul tema: Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale Lucca 9 novembre 1957, relazioni generali, «Urbanistica» n. 23, 1958, pp. 115. 155 Ibidem.

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Problema complicato dalla convinzione – tutta ancora da verificare – che ogni architettura fosse un’opera d’arte156, antica e moderna poco importa, con l’effetto di schierare in campo partiti di innovatori e conservatori nutriti entrambi da idolatrie formaliste.

Quanto gli inserimenti trasformino il contesto e quanto, alla luce del nuovo stato ideologico di cui esso iniziò a godere, fosse lecito che lo trasformassero sono le domande che ci si pose con grande tempismo in quegli stessi anni. I mezzi del dibattito non cambiarono: articoli sulle riviste impegnate fino al grande congresso del 57, cui abbiamo già accennato, sull’ambiente storico e gli inserimenti ambientali, che facendo il pendant col convegno di Lucca attira parimenti gli interessi di questa ricerca.

Ad annunciare il congresso un dibattito sulle pagine di Casabella tra Rogers – sempre lui – e Roberto Pane il grande polemista, strenuo difensore dell’ambiente antico e incaricato del discorso d’apertura. Le divergenze tra i due sono presto evidenti.157 Pane, Negando le premesse dell’architettura moderna e liberando le considerazioni estetiche dai presupposti di funzionalità e organicità strutturale, vuole slegare chi si occupa di interventi sul e nel costruito dal giogo dei formalismi razionalisti, con l’effetto (voluto?) di legittimare quando necessario interventi di mimesi e restauri per anastilosi, ché per ogni architettura moderna di pregevole qualità altrettante danneggiano goffamente i centri italiani. D’altronde in tutte le città d’Europa non ci si stava comportando diversamente e scopo del congresso era quello di far conoscere anche l’esempio di questi paesi, che con pazienza ed umiltà, pezzo pezzo, stavano ricostruendo le loro piazze.

Rogers preoccupato com’era della continuità storica, come processo nel quale la tradizione nutre l’innovazione, era di ben altro avviso ed esortava lo stimato rivale a non sottovalutare il pericolo “di una continuità di forme svuotate dei significati più

156 E. N. ROGERS, Le preesistenze ambientali e i temi pratici contemporanei, «Cabella-Continuità», n. 204, 1955. Pp. 3-5. 157 R. PANE, E. N. ROGERS, Dibattito sugli inserimenti nelle preesistenze ambientali, «Cabella-Continuità», n. 214, 1957. Pp. 2-4

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profondi che le hanno generate”158. Entrambi i disputanti temerono la calcificazione di un formalismo ed il danno che esso avrebbe recato al Bel Paese, “giardino fiorito” sul quale “si muovono torme di criminali”159. Lo scontro non manca di essere produttivo e Rogers suggerisce cinque punti al suo collega, sì che se ne possa discutere in sede congressuale mentre egli farà lo stesso a Lucca al convegno dell’I.N.U.

Affrontare i problemi caso per caso […].

1. Creare un collegio di responsabili scelti enll’ambito del caso in esame.

2. Non stabilire a priori una fittizia gerarchia di problemi (per esempio architettura ed edilizia) ma considerarli tutti al massimo livello.

3. Pretendere soluzioni qualificate per ogni problema in qualsiasi ambiente e per qualsiasi tema architettonico.

4. Non uccidere la vitalità del paese sommergendolo sotto la cappa della cultura libresca, ma inserire l’arte nella vita come il solo modo di garantire il perpetuarsi della tradizione.160

Il congresso tenutosi a Milano quasi contemporaneo al convegno di Lucca si sviluppava in tre giornate. Tema della prima giornata il destino dell’ambiente antico. Durante la seconda i congressisti si sarebbero confrontati sul rapporto tra antico e nuovo. La terza era dedicata alla formulazione di proposte per il legislatore sulla materia in oggetto. Pane fu incaricato della relazione d’apertura.

Le scoperte di questo congresso non distano nella sostanza da quelle del convegno di Lucca, e questo è normale se si intendono le due assemblee come l’inevitabile maturazione di idee lungamente dibattute per un decennio dalla fine della guerra. A cambiare è il punto di vista: il convegno dell’I.N.U. era tenuto principalmente da urbanisti che miravano a migliorare gli strumenti della pianificazione, includendo le istanze della conservazione come necessarie allo sviluppo urbanistico; il congresso, diversamente, cui hanno partecipato molti eminenti architetti restauratori (Pane e Bonelli in testa), aveva lo scopo di definire i mezzi e le competenze legislative della tutela e i modi della conservazione dei brani urbani. 158 Ivi. 159 Ivi. 160 Ivi.

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Dunque l’argomento posto in primo piano fu quello riguardante:

Il destino che il mondo attuale riserva alle forme architettoniche del passato nel configurarsi dei nuovi organismi urbani. […]

La valutazione dell’ambiente storico e la scoperta, vivamente attuale, di una coralità la cui sussistenza ci è cara non meno di quella delle opere di eccezione e che ancor più di questo, definisce il clima di una particolare civiltà figurativa. 161

Riguardo l’importanza dell’ambiente antico, Pane, nella relazione d’apertura si spingerà oltre le ragioni ormai condivise, quali l’esistenza di valori tradizionali, tecnici, artigianali, identitari; ovvero aggiungendovi il fallimento della nuova edilizia dimostratasi incapace di soddisfare gli interessi della collettività.

Insomma, ciò che ci importa dimostrare e che la nuova edilizia, sia quando si inserisce nel vecchio centro aumentandone pericolosamente la densità demografica ed alterandone i rapporti di massa, sia quando costruisce grattacieli in un nuovo quartiere, non obbedisce all’interesse della collettività poiché viene meno a quella fondamentale igiene fisica, psichica e morale sulla quale dovrebbe essere fondata la vita delle nostre comunità. 162

E più fermo ancora Guido Harbers nel suo giudizio contro gli errori dell’architettura moderna a tutte le scale che farebbe bene a trattare con umiltà e a farsi da parte di fronte la qualità delle fabbriche e dell’urbanistica tradizionale.163

Rebus sic stantibus, l’introduzioni di aggiunte contemporanee nell’ambiente antico si fa quanto mai problematico. Molti congressisti infatti concordarono nel giudicare inconciliabile la convivenza di nuovo e antico e guardarono agli esempi d’oltralpe (Praga rimasta integra, Varsavia ricostruita di sana pianta) con grande ammirazione. Aguoldomenico Pica sul punto fu estremamente esplicito rilevando come la nostra epoca si sia:

trovata così decisa nel ripudiare almeno teoricamente, qualsiasi forma di

161 R. PANE, Restauro dei monumenti e conservazione dell’ambiente antico, in Attualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico, a cura di C. Perogalli, Milano, Centro studi della Triennale di Milano, Görlich editore. 1958. Pp. 7-18 162 Ivi. 163 G. HARBERS, L’antico nell’età contemporanea, in Attualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico, a cura di C. Perogalli, Milano, Centro studi della Triennale di Milano, Görlich editore. 1958. p. 77 e sg.

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eclettismo e qualsiasi sospetto di compromesso individuale. Tre fattori hanno contribuito a questa impossibilità: a) la messa in mora di qualsiasi verità ricevuta e quindi la morte della «scuola»; b) la diaspora dello scibile moderno, ormai avviato alle più sottili specializzazioni, tanto che, al limite, intervengono casi di incomunicabilità, e in ogni caso rimane esclusa la pratica possibilità di un nuovo umanesimo; c) la contemporanea presenza di culture diverse, lontane ma ravvicinate dalla rete degli scambi moderni, antiche ma riemerse in una conoscenza sempre più agguerrita, in una frequentazione sempre più assidua. 164

E gli fa eco Bonelli quando accusa la società contemporanea di ottuso pragmatismo, forse rimpiangendo un certo illuminato mecenatismo che libero dalle pastoie dell’utilitarismo poteva ancora consegnarci qualcosa da poter voler proteggere.165

Gli esiti di questo ragionare non potevano essere differenti. I voti che furono fatti alla fine dell’ultima giornata di lavori del congresso e che noi riportiamo integralmente, tradiscono la ferma volontà di salvaguardia da esercitare: con misure punitive contro la speculazione, con l’assimilazione da parte della cultura e con l’elaborazione di strumenti della pianificazione in grado di ottemperare a questa necessità.

Il Congresso; considerato che il maggior danno apportato all’ambiente antico è determinato dalla prevalenza degli interessi della speculazione e che, d’altra parte, anche l’architettura di compromesso, sebbene ancora frequentemente attuata, non risolve affatto il problema tra nuovo e antico; considerato che molti architettu contribuiscono, per rassegnato conformismo, alle determinazioni della presente situazione; esorta gli stessi a riconoscere la loro parte di responsabilità e la necessità di una loro più vigile coscienza allo scopo di contribuire a configurare il nostro mondo in una forma accettabile e degna.

Il Congresso; considerato che il problema della conservazione del monumento e dell’ambiente antico è strettamente condizionato alla struttura del nuovo organismo urbano e che dal piano e del suo programma esso può ricevere la sua migliore soluzione, fa voti affinché sia attuata una più streta collaborazione tra la sovrintendenza ai monumenti e urbanisti allo scopo di creare, già attraverso il piano regolatore, i presupposti fondamentali per la tutela del monumento e dell’ambiente antico in una integrazione totale della città di domani.

164 A. PICA, Difficili convivenze, in Attualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico, a cura di C. Perogalli, Milano, Centro studi della Triennale di Milano, Görlich editore. 1958. p. 30 e sgg. 165 R. BONELLI, Il rapporto antico-nuovo nei suoi aspetti storici generali, in Attualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico, a cura di C. Perogalli, Milano, Centro studi della Triennale di Milano, Görlich editore. 1958. p. 55 e sgg.

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Il Congresso, ritenuta l’opportunità che si compia, sul piano internazionale, un comune sforzo diretto al perfezionamento della protezione legislativa dei monumenti e degli ambienti monumentali, che fanno parte integrante del patrimonio culturale dell’umanità, esprime il voto che siano prese iniziative atte a:

a) studiare con metodo comparativo le legislazioni dei vari Stati e raccogliere sistematicamente la documentazione relativa;

b) ricavare dallo studio predetto alcune norme da raccomandare all’attenzione dei governi come essenziali ai fini di una efficace protezione dei monumenti e degli ambienti monumentali, prega la Presidenza del Congresso di comunicare il presente voto all’UNESCO affinché detta organizzazione studi la possibilità di promuovere la iniziativa anzidetta, così come ha già efficacemente promosso le iniziative destinate a scopo analogo.

Il Congresso; considerata l’unanimità dei congressisti nel riconoscere la vitale importanza dell’ambiente antico, non soltanto come fatto d’arte e di cultura, ma come condizione di vita; considerato che la tutela di tale ambiente è già in atto in alcuni Paesi, fa voti affinché negli altri siano al più presto deliberate disposizioni legislative onde assicurare quella tutela che è universalmente auspicata.166

Conclusioni Complessivamente gli effetti di questi anni non tardarono ad

arrivare, e anche se non sempre gli esiti furono all’altezza delle aspettative non si può dire siano passati inutilmente. L’azzonamento dei Comuni, l’allargamento dei vincoli, l’ampliamento delle liste dei beni protetti, l’istituzione di fondazioni con questo scopo sono tutti tentativi più o meno goffi di rispondere alla chiamata della tutela. È vero anche che tutti i problemi e le contraddizione che erano sorte in quegli anni sono ben lontane dall’essere risolte: non abbiamo imparato ad inserire i prodotti della contemporaneità in tessuti urbani che la nostra cultura riconosce come compatti ed inviolabili, né ci siamo decisi sui problemi concernenti autorialità ed autenticità. Il Peep di Bologna ne è un esempio e per molti l’ennesima occasione mancata. Non sappiamo nemmeno se il problema è prossimo all’essere risolto. Ciò che si può dire con certezza è che dai dibattiti di Rogers e Pane, Samonà, Quaroni e di tutti gli altri, non si è mai più smesso di 166 Congresso internazionale indetto dall’Undicesima Triennale di Milano sul tema: attualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico. «Urbanistica» n. 23, 1958 p.114.

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pensare al paesaggio in un rapporto di reciprocità: esso è per definizione sempre plasmato dall’uomo e sempre per definizione esso plasma a sua volta l’uomo, determinando una catena incrollabile che ha nome tradizione.

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Bibliografia essenziale

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ERNEST NATAN ROGERS, Le responsabilità della tradizione, «Cabella-Continuità», n. 202, 1954. ERNEST NATAN ROGERS, Le preesisteneze ambientali e i temi pratici contemporanei «Casabella-Continuità» n. 204, 1955. ERNEST NATAN ROGERS, Continuità o Crisi?, «Cabella-Continuità», n. 215, 1957. Giuseppe SAMONÀ, Architettura spontanea: documento di edilizia fuori dalla storia, «Urbanistica », n. 14, 1954. Pp. 6-10. MANFREDO TAFURI Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Vicenza, Einaudi, 1986. PAOLO TORSELLO, Che cos’è il restauro, Venezia, Marisilio, 2005.

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GIBELLINA: PAESAGGIO CON ROVINE

Accingendoci a trattare il caso di Gibellina, ci siamo subito accorti di come si sia in presenza di una bibliografia sempre molto partigiana, divisa tra coloro i quali esaltano la visionarietà illuminata, il fascino della rifondazione, le potenzialità della pianificazione, il ruolo pedagogico dell’arte; e chi contrariamente punta il dito sul fallimento del piano, sulla memoria e l’identità tradita, sull’incapacità dei professionisti coinvolti di entrare in empatia con il territorio e gli abitanti.

A volere improvvisare una cloud word – come la chiamano gli analisti – del campione di scritti confrontati, affiorerebbero, con ricorrente insistenza e in ordine sparso, i termini: ‘arte’, ‘artistico’, ‘artista’, ‘artisticità’, ‘etica’ ed ‘estetica’, ‘esperienza’, ‘fallimento’, ‘identità’, ‘passatismo’, ‘opere’, ‘scultura’, ‘scultore’, ‘scultoreo’, ‘utopia’; nei libri che senza esitazione canonizzano la vicenda edilizia seguita al terremoto della Valle del Belice. Nei libri che senza appello demonizzano la medesima i tag sarebbero altri e altrettanto ricorrenti, come per esempio: ‘fallimento’, ‘gibellinese’, ‘abitante’, ‘abitanti’, ‘bestiame’, ‘campagna’, ‘cattedrali’, ‘cimitero’, ‘cimiteri’, ‘fantasma’, ‘identità’, ‘memoria’, ‘rurale’, ‘stalla’, ‘utopia’, ‘vuote’, ‘vuota’. Evidentemente su un punto si trovano tutti d’accordo: si trattò del fallimento di un’utopia.

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Ciò nonostante il partito degli innovatori non gli attribuisce un’accezione negativa, tutt’altro. Sostengono che nel fallimento del piano è il vero successo di Gibellina la Nuova.

[…] Se è vero che la forza di Gibellina risiede nel suo fallimento,167 allora non è far esperire l’architettura contemporanea ai gibellinesi che diventa necessario, bensì il suo fantomatico e incredibile distacco. [E ancora appresso]. Forse proprio nel fallimento che la critica più sprovveduta e superficiale vuole rintracciare a tutti i costi, nella coscienza dei suoi limiti, risiede la forza e il principale pregio di Gibellina la Nuova, perlomeno in questa prima fase (borghese) della sua storia. Frammenti di opere in grado di stabilire un dialogo con le altre opere disseminate nella nuova città.168

Sta proprio nel fatto che esse trasmettono il senso della imperfezione del mondo, al contrario delle utopie che ipotizzano una perfezione totalizzante, mostrandoci come gli ideali di armonia e di bellezza che andiamo a perseguire siano a maggior ragione legittimati e auspicabili entro tale imperfezione. È proprio tal vicinanza al mondo reale che permette a queste città di assumere una loro esemplarità, di fungere da riferimento del possibile, e dunque a spingerci a riflettere su tutto ciò che di possibile non è stato fatto nelle nostre città vere. Da qui l’interesse che proviamo nell’indagare vicende urbane come quella di Gibellina, la piccola città siciliana ricostruita di sana pianta dopo il terremoto 1960 […]. Le azioni di Corrao, sindaco di Gibellina, nascono, dal sentimento di una catastrofe urbanistica insostenibile.169

Secondo queste analisi, a chi credé nella rinascita, o meglio, nella fondazione (senza suffisso iterativo) di Gibellina, andrebbe il merito di avere anteposto all’astrazione utopica ed ideale, la «normalità» della Città nuova,170 all’interno della quale potessero coesistere l’opera e il piano come espressioni comuni in un orizzonte temporale condiviso.

167 «Marco De Michelis, intervento alla conferenza dell’autore, Gibellina utopia concreta?, IUAV, Venezia 11 ottobre 2002», MAURIZIO ODDO, Gibellina la Nuova, Attraverso la città di transizione, Roma, Testo e Immagine, 2003, p. 37. 168 Ivi, p. 42. 169 PIERLUIGI NICOLIN, Ideali urbani, «Lotus International», n. 69, 1991, p. 3, la citazione è riportata in M. ODDO, Gibellina la Nuova, op. cit. p. 22. 170 «Una normalità che, si badi bene, non è il risultato di una semplicistica normalizzazione. “Una normalità intesa come adeguamento di una situazione a codici precostituiti sembra non essere possibile. Ognuna di queste città ha costruito o rafforzato la propria identità, misurato i propri progetti di trasformazione su caratteristiche distintive e originali, ha introdotto nel proprio contesto fatti che hanno messo alla prova i principi democratici con le nozioni della qualità e della differenza”». Il virgolettato è di P. NICOLIN, Ideali urbani, op. cit., Ivi, p. 20.

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Gibellina la Nuova, infatti, non è il simulacro di Gibellina; non è il risultato spontaneo del passaggio dalle macerie alla nuova città e non è neppure, contrariamente all’opinione pubblica più diffusa, una semplice faccenda di opere pubbliche; è, innanzitutto, una città normale, carica delle contraddizioni di altre città nate da analoghi progetti urbanistici e calata nella realtà incontrovertibile del nostro tempo; lontana, spazialmente e temporalmente, dal vecchio impianto urbano esistente, del quale non riscrive l’insieme dei tracciati, proponendo un nuovo principio insediativo che da esso trascende, modificandone scala e misura dei differenti spazi, articolandosi intorno a due dimensioni essenziali: la relazione critica con il passato, non ancora metabolizzato e compreso, perfettamente posseduto, e la pragmaticità del presente.171

«Gibellina è l’oggi».172 Appellandosi alla «pragmaticità del presente», sostenuti dall’iniziativa illuminata del sindaco, uomo capace di «indirizzare il sentire della gente […] senza tradirne attese e nuovi bisogni», di catalizzare artisti e movimenti d’arte in una «tensione allo stesso tempo etica ed estetica»; gli abitanti di Gibellina riuscirono a vincere «l’atona anonimia degli altri luoghi del Belice», abitando «un paese sorprendente, scandito dalle opere d’arte», «[…] contro una quotidianità sorda, sordida, anchilosata nella perpetuazione del mero esistente».

Nessuna utopia, quindi, nessuna pianificazione ideologica, nessuna astrazione. Tutt’altro. La fondazione di Gibellina Nuova si sostiene su una spinta salutarmente pragmatica nata nell’emergenza e dall’emergenza. I gibellinesi, rivendicarono piena autonomia dalla storia urbana del centro antico, in una vibrata affermazione di volontà di non soccombere all’immobilismo e al Mito – «che […] è pregiudizio» –, di scardinare l’immagine letterariamente abusata di una Sicilia irredimibile condizionata dalla stasi e «dall’inesausto ritorno del sempre-presente-passato».173

Il terremoto fu quindi l’occasione irripetibile di risolvere d’un colpo problemi altrimenti insuperabili, circostanze inamovibili, quali la posizione rispetto le vie di grande e medio traffico, la qualità del terreno povera d’acqua, la distanza dalle campagne di cui i gibellinesi, durante una lunga storia di

171 Ibidem. 172 MARCELLA APRILE, Immagini di città, in «Labirinti», a II, n. 3, p. 34-36. 173 Cfr. GIUSEPPE FRAZZETTO, Gibellina la mano e la stella, Gibellina, Orestiadi, 2007.

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rivendicazioni, erano divenuti proprietari. Circostanze che costringevano Gibellina in un ruolo sempre marginale.

Grande, quindi, fu la presenza di spirito, e soprattutto la capacità, da parte dei gibellinesi e del sindaco Ludovico Corrao, di rimettere in discussione i proprio luoghi, e di decidere lucidamente il luogo della nuova fondazione: gesto mitico di un popolo archegeta. Il nuovo sito fu scelto secondo opportunità: vicinanza all’autostrada Palermo-Mazara ed alle proprietà agricole, maggiore vicinanza al mare e alla stazione di Salemi.174

Né i maestri, architetti e artisti che si fecero coinvolgere, potevano mancare la sfida della fondazione. Si trattava, infatti, dell’imperdibile occasione di verificare le teorie che nutrivano, sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il dibattito attorno all’urbanistica, protagonista indiscussa degli ultimi CIAM, delle speculazioni degli Archigram, dell’esperienza

174 «“È stata una scelta più radicale rispetto a quella operata dagli altri paesi della balle del Belice che hanno preferito rimanere nella immediatezza del paese distrutto. Gibellina invece ha preferito fare un grande salto, anzitutto per una ragione economica e sociale. La vecchia città di Gibellina era un paese feudale, arroccato attorno al castello del proprietario per la sua difesa e le coltivazioni del suo feudo […]. I Gibellinesi con le lotte, con la loro storia hanno conquistato una prospettiva nuova e democratica e vedono capovolto questo rapporto di classe. Da ciò l’esigenza di riflettere il mutato rapporto economico e di classe sulla costruzione della nuova città, con la scelta dell’insediamento della nuova città nelle contrade che non sono più dei baroni, ma dei piccoli proprietari, coltivatori diretti”. […] Un territorio isolato ed eccessivamente periferico rispetto alle principali aree di sviluppo, carico di difficoltà drammaticamente messe in luce dal terremoto avvenuto nella notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968: “Tre quarti della proprietà agricola dei Gibellinesi era fertile pianura di Salinella e contrada Rocca e nelle colline circostanti: la nuova autostrada si accompagnava al percorso ferroviario, la stazione ferroviaria di Salemi e Gallitello era in quella piana. Alle ragioni agricole si aggiungevano quelle di una prospettiva di traffico e di commercio: tagliarsene fuori sarebbe stato sbagliato. Fu cosi che si pervenne alla scelta di insediare il nuovo centro in contrada Salinella, sancita da moltissime assemblee e da lunghe lorte popolari, culminate con Voccupazione simbolica di quelle tene, ratiticata all’unanimita da tutti i consiglieri comunali di ogni pane politica. La scelta di Gibellina fu grande atto di saggezza e di civilta contadina ma fu anche una felice scelta urbanistica […]”». I virgolettati all’interno del testo sono entrambi di LUDOVICO CORRAO. Il primo in NICOLA CATTEDRA, Gibellina utopia e realtà, Roma, Artemide edizioni, 1993; il secondo in GIUSEPPE LA MONICA, Gibellina ideologia e utopia, Palermo, Mazzone editore 1981. Tutto in M. ODDO, Gibellina la Nuova, op. cit.

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italiana olivettiana; insomma di tutta quella cultura del costruire le città, affermatasi nell’ambito anglosassone dell’urban structuring, che dilagò, prima, nei paesi maggiormente sviluppati e industrializzati (si trattò di modelli applicati inizialmente alle città fordiste), e che innervò poi ogni esperienza di pianificazione urbana. Durante gli anni ’60, pieni di fiducia per le scienze sociali, ampiamente assorbite dall’architettura (comprensiva dell’urbani-stica), ci si era persuasi di potere risolvere, attraverso una corretta programmazione dello spazio abitato e dell’arredo urbano, venuto alla ribalta, problematiche di natura sociale ed economica, e di poter correggere le falle dello zoning, colpevole, nella sua semplificazione funzionalista, di avere rotto le relazioni tra gli individui, snaturando, di fatti, la definizione stessa di città come luogo della complessità dove le funzioni devono coesistere e sovrapporsi.175

Ricomporre la complessità delle città è lo scopo degli architetti che si dedicarono con grande zelo alla pratica dell’urbani-stica. L’arte, in questa prospettiva, riconquista piena autonomia. Non più subordinata alle ragioni del razionalismo, secondo le quali il massimo appagamento estetico s’esauriva nell’adempimento della sua funzione; con i suoi valori e significati diventa, per questi protagonisti, efficace strumento per creare relazioni e fondare luoghi. Gibellina, non solo non fa eccezione, ma è creduta, dal partito dei suoi sostenitori, il campione di questo modello: essa «nasce dal soffio creativo dell’arte» che insieme con la cultura è «necessariamente trama e risultato».176

L’interesse per Gibellina dell’esperimento di Gibellina sta non tanto nella percentuale statistica di opere per abitante, superiore di gran lunga a quella di qualsiasi altra nuova città o parte di città e già di per sé segno

175 Trattandosi di un momento nodale della storia dell’architettura, l’argomento è ampiamente indagato da critici e storici dell’arte. Ci limitiamo a riportare i più autorevoli: MANFREDO TAFURI Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Vicenza, Einaudi, 1986; Kenneth Frampton, Modern Architecure: a critical History, London, Thames and Hudson, 1992, trad. it. Storia dell’architettura moderna, Bologna, Zanichelli, 1993; JOSEP MARIA MONTANER, Despuès del Movimiento Moderno. Arquitectura de la segunda mitad del siglo XX, Barcelona, Gustavo Gili, 1993, trad. it. Dopo il movimento moderno l’architettura della seconda metà del novecento, Bari, 2011. 176 LUDOVICO CORRAO in NICOLA CATTEDRA, Gibellina utopia e realtà, Roma, Artemide edizioni, 1993; in M. ODDO, Gibellina la Nuova, op. cit. p. 9.

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di grande civiltà urbana, né nell’aver messo l’una accanto all’altra, e qualche volta l’una contro l’altra, differenti vicende della ricerca plastica contemporanea in Italia, come in un grande museo en plein air, ma di aver riproposto a scala di un intero insediamento il problema del possibile ruolo dell’opera d’arte nella configurazione dello spazio urbano riprendendo evidentemente con alcune visibili ma ineliminabili incertezze, un filo spezzato dalle avanguardie.177

Così stando le cose, Corrao, appoggiato dai gibellinesi, non poteva parlare diversamente quando intervistato da Oddo affermò di avere rifiutato «la scelta, obbligata e senza scampo tra pane e cultura». E non era davvero possibile, essendosi affidati all’arte come elemento fondante la nuova identità.

La significativa presenza di opere d’arte contemporanee nel tessuto urbano di Gibellina si configura oggi come patrimonio di assoluto valore nel panorama artistico italiano. Esse sono in grado di emanare, complice l’evento fondativo della città, evocazioni tali da imporsi quali autentici momenti rivelatori.178

Le opere d’arte diventano così il pretesto del superamento del trauma, la ragione più valida per recidere sterili vincoli con il passato, senza per questo rinunciare alla «dignità e l’orgoglio» delle proprie «radici e della cultura senza confini geografici e temporali», nella ferrea volontà di rinnovarsi gioiosamente nell’ottica di un progetto visionario, sebbene molto concreto. Così questi oggetti, seppure alle volte forme straniere, sostituiscono gli antichi punti di riferimento, come la «chiesa», il «pozzo» e le «edicole religiose», la cui funzione «è ora assunta dalle opere d’arte contemporanee».

A Gibellina la Nuova, l’architettura è opera d’arte assoluta all’interno del nuovo tessuto urbano caratterizzato da questa pluralità di oggetti à réaction poétique che esibiscono la loro semplice, e perciò inquietante presenza. Ognuno di questi oggetti, con la storia, è un frammento del flusso di storie singolari che costituiscono la storia di Gibellina, quella che appartiene a tutti.179

È l’Arte quindi lo strumento della fondazione, e Gibellina è essa stessa opera d’arte, e solo in un’ottica storicizzante si può intendere la sua grandezza: la Storia, infatti, unica arma capace

177 Franco Purini, opere d’arte e spazio pubblico, in Giuseppe La Monica, (a cura di) op. cit. Ivi, p. 27 178 Ivi, p. 27. 179 Ivi, p. 24.

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di sfatare Miti180 opererà con i suoi tempi affinché la Città nuova concorra anch’essa a comporre l’identità dell’Isola. Ché Gibellina non è poi diversa dall’antica Occhiolà, costruita ex novo e battezzata Grammichele all’indomani del sisma del 1693 nella Sicilia orientale; o da Noto che costruita anch’essa in altro sito, col suo «barocco abbagliante» fa dimenticare il mito della sua fondazione. Ché la vicenda della Valle del Belice è davvero gemellata con quella della Val di Noto, essendo le domande di ieri uguali alle domande di oggi, e le risposte di oggi alle risposte di domani:

Occhiolà, divelta dal terremoto, viene spostata e ricostruita dal principe Carlo Maria Carafa, che decide di farne un grande esagono e di chiamarla Grammichele. Ha fatto bene, il Carafa? Noi, con gli occhi del suo futuro, forse diciamo sì, ha fatto bene, la pianta di Grammichele è su tutti i libri di Storia dell’arte; e sappiamo che, certo, c’era un «apriorismo» imitante «la 'scrittura' simbolica dei poligoni stellari delle città ’ideali’e delle fortezze rinascimentali» […], una pianta ad esagono cioè a sintetica stella che infatti non si vede, non può vedersi se non dall’elicottero o dall’aereo, e che perciò è solo astratta, mentalizzata. Lo sappiamo, eppure la coltre degli anni ha reso viva quell’astrazione, e oggi nel frastornante vocio della «identità siciliana» il disegno «stellare» di Grammichele non potrebbe essere zittito senza avvertire perciò una perdita, un rinnegamento. E visto che parliamo di ricostruzioni: quanti dei turisti che vanno a rifarsi gli occhi a Noto sanno dove si trovava l'antica città, la Noto precedente al disastro?181

Una Città lungimirante, quindi, che guarda al futuro, che aspetta di essere riconosciuta come opera d’arte, e su questo certo si è concordi: un’opera d’arte è tale se tale viene riconosciuta, e può latitare nell’anonimato per molto tempo fin quando non genera quella relazione capace di determinare il giudizio estetico che la porrà nell’insieme Arte, in un tempo nuovo, diverso da quello che l’ha generata.

Una città che fonda la propria identità sull’arte. E perché non dovrebbe? Pare evidente che non ci siano ragioni per dubitare che la caratteristica più esteriore di questo giovanissimo centro, così come della vicenda (che in forza di quel recentismo è cronaca e non ancora storia) risieda nell’arte:

180 «L’antidoto al Mito (che, spiace dirlo, e anche pregiudizio) e pur sempre la Storia. E la Storia ha i suoi tempi, che non sono quelli della percezione infastidita e meno ancora quelli della polemica meschina. Giacché ogni ricostruzione è assolutamente gettata verso i benefici e i rischi del futuro […]». Ivi, p. 11. 181 Ibidem.

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Gibellina città d’arte;182 come esistono città del mare, delle ville, delle industrie. Peculiarità, che se non fondano completamente l’identità, che è fenomeno assai più complesso, vi compartecipano preminentemente. Resta il problema. Della preposizione di cui sopra, infatti, la parola sotto accusa non è identità, né tanto meno arte (sarebbe grave errore di metodo), ma è città. La città non può attendere, non è fatta per un domani per quanto certo, ché è davvero facile immaginare il successo che potrà avere tutto il racconto e il suo esito fra cent’anni; la città è fatta per l’oggi, non è bella o brutta, ma per chi la abita è giusta o sbagliata. E certamente anche i detrattori della Città nuova che ricorrono alle ragioni dell’arte per screditare il progetto, scivolando nel medesimo errore, finiscono col mancare l’obiettivo. Quale che sia la posizione, occorre quindi vagliarla al setaccio del metodo: scrivere della ricostruzione di Gibellina, deve volere dire scrivere di architettura o di urbanistica; chi scrive del Comune trapanese, riferendosi all’arte e alla scultura, nel bene e nel male, cade in un’aporia fuorviante, che presentandosi come la più solida difesa, o la più feroce condanna, finisce col rivelarsi un inefficace alibi per eludere le questioni dell’architettura. Il problema è, infatti, di natura estetica: dire che ci sono delle sculture di grandissima qualità può essere un’affermazione corretta, ma dire che ci sono architettura dall’altissimo valore formale, se può non essere del tutto sbagliato, resta comunque insufficiente, ché altri sono i paradigmi su cui la si giudica. Perché si possa innescare un processo critico, occorre mettere a fuoco due cofattori: l’identità che fissa i limiti all’interno del quale esercitiamo il nostro giudizio, e il senso deputato a fruire di una forma piuttosto di un’altra. Così diremo che ascoltiamo una musica, fruita attraverso l’udito che è il suo senso, e guardiamo una pittura, fruita attraverso la vista. Anche per la scultura occorre intendersi sul senso attraverso il quale fruiamo la forma, che in forza della sua tridimensionalità, può essere 182 Definizione che pure Corrao rifiutò, convinto com’era che una città d’arte s’esaurisse in un museo en plen air, mentre egli desiderava per il suo Comune che l’arte fosse davvero la genitrice di Gibellina in tutte le sue valenze semantiche. Cfr. l’intervista al sindaco edita in: ELISABETTA CRISTALLINI, MARCELLO FABBRI, ANTONELLA GRECO, Nata dall’arte, Gibellina, una città per una società estetica, Roma, Gangemi, 2004, p. 79 e sgg.

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parimenti guardata (vista) e toccata (tatto), e tutte e due le sensazioni insieme. L’architettura è per sua stessa plasticità, strettamente imparentata con la scultura, e meno con la pittura, anche se pure ci fu chi la ridusse a mera bidimensionalità di facciata;183 ma in entrambi i casi i sensi adottati, pure non mancando l’obiettivo, che è certo, può essere visto e toccato, non colcogono il fondamento estetico della forma costruita. Il senso dell’architettura è l’abitare: un senso composito attraverso il quale l’individuo costruisce relazioni con lo spazio, e col proprio tempo esistenziale, al cui interno si muove e vive in una condizione di assicurato, o per lo meno ricercato, “bene-essere”.184 Da questa definizione, è facile ricavare un corollario fondamentale. Se la meccanica che s’innesca tra opera d’arte, fruita attraverso ciascuno dei sensi, e individui, come detto, può essere rimandata, vale a dire che l’opera, pur conservando una decisiva influenza sulle qualità dell’individuo, non è necessaria per la vita del medesimo – da qui l’attribuzione di certa critica di un valore puro-contemplativo all’arte – altrettanto non può dirsi per l’architet-tura che nell’esatto momento in cui viene fruita si impone come indispensabile per l’esistenza stessa. Quindi, quando il senso dell’abitare è offeso da un’architettura respingente, quel prodotto della poetica umana non può nominarsi tale, magari scultura, ma non architettura, perciocché non è possibile fruirla attraverso il senso ad essa deputato. Per transitività, come tutto ciò che si vede è immagine o tutto ciò che si ascolta è suono, anche tutto ciò che di costruito si abita con soddisfazione è architettura, in interno e in esterno, da che se ne ricava che la città è a sua volta architettura, perché già somma di più architetture e perché essa stessa luogo dell’abitare. Perciò anche per parlare della Città, occorrerà valutare la capacità del luogo di farsi abitare.

183 Si rimanda alla critica crociana, che riduceva l’architettura alla facciata delle fabbriche, applicando una meccanica intercambiabile con quella del disegno d’architettura che non subiva modifiche strutturali nel trasferirsi dalla carta al luogo. 184 Cfr. ANNA LUCIA MARAMOTTI POLITI, Passato, memoria, futuro : la conservazione dell'architettura: Giosia, Milano, Guerini studio, 1996. Inoltre della stessa autrice si veda Immaginario, Immagine, Immaginazione, in Strenna dell’ADAFA per l’anno 2012, pp. 9-36, Cremona, 2013.

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Ora, abbiamo detto che l’identità, germogliata nella memoria, fissa i limiti all’interno del quale esercitiamo il nostro giudizio; questo perché in un certo qual modo affiniamo i nostri sensi rispetto la nostra storia, rispetto la nostra memoria personale e collettiva. Se la memoria fonda l’identità, consente anche d’individuare le differenze, di leggere le complessità e di fare di queste le esegesi, costruendo spirali interpretative. Lo stesso oblio, in quanto effetto di perdita della memoria, si declina al suo interno. Epperò, propriamente per la qualità dell’architet-tura di essere indispensabile all’esistenza, il senso dell’abitare, attraverso cui essa viene fruita, solo parzialmente è condizionato dall’identità, perché parte delle nostre percezioni sono imprescindibili l’esistenza stessa, o comunque immediatamente riscontrabili in uno stato di benessere. Una casa senza soffitto, prima di ogni altra considerazione sulla forma, già non è luogo dell’abitare, una casa con pareti talmente sottili da non assicurare un giusto microclima interno è un luogo poco confortevole, e ugualmente città costruite su terreni insalubri non possono dirsi degne di questo nome. Così per altri aspetti che sono comuni agli individui, a prescindere dalle peculiarità di un popolo o di una comunità. Ciò che ne viene fuori non è ancora un’architettura, è più un’astrazione, qualcosa che non ha ancora una forma in cui può esistere, ma soltanto una lista di cautele che vanno osservate quando si produce architettura. Procedendo per delimitazioni, si osservi come i condizionamenti ambientali e culturali, che contribuiscono all’identità, prima di intervenire nelle relazioni tra forme e individui; influenzando le attività svolte da questi, intervengono nelle relazioni tra forma e funzione. Così città sorte in prossimità del mare, con ogni probabilità, svilupperanno architetture utili alle attività portuali; mentre in città di montagna, ne svilupperanno altre necessarie alle attività legate alla coltura ed alla pastorizia. Pensare un caseificio in un villaggio di pescatori, ha la stessa scarsa ragionevolezza, che pretendere di impiantare una coltura di cozze in uno stagno d’altura. Nella Valle del Belice, anche molto tempo dopo la diffusione della città fordista, l’economia rimase prevalentemente agricola, e le attività si esaurirono, allora come oggi, nel piccolo artigianato o nella raffinazione dei prodotti primari; insomma tutti aspetti collegati ad un centro

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rurale. Ecco che Gibellina, rispetto le necessità dell’architettura e le potenzialità del sito sarebbe dovuta essere prima di tutto città rurale, un luogo dell’abitare fondato su un’economia legata al territorio. Non si dimentichi come oggi la complessità comporta primariamente una lettura attraverso gli stakeholders. La città è una complessità che va letta attraverso un’interpretazione che si struttura entro una spirale esegetica, non identificabile in una semplice circolarità. Ciò comporta che il tempo, la memoria, il vissuto s’intreccino in una complessa quanto dinamica “scena” che si offre come condizione pre-progettuale, che deve avere come obiettivo un “farsi spazio costruito”. A sua volta questo deve rispondere all’esigenza dello “star bene” dei suoi abitanti che non sono semplici fruitori, ma attori di quello stesso spazio, che non può essere ridotto a semplice scenografia in quanto nel viverlo lo si modifica e lo si caratterizza.

Così i condizionamenti ambientali e culturali possono indirizzare sia lo sfruttamento delle potenzialità di un luogo, sia l’abbattimento delle sue problematiche. Due esempi: in un paesaggio alpino si fabbricano tetti con pendenze elevatissime per scongiurare i pericoli derivati dalle precipitazioni nevose, come in un altro del meridione si colorano le case di bianco per sconfiggere la calura dell’estate di fuoco. Nei centri della Sicilia, si rispettavano delle fondamentali nella realizzazione delle fabbriche, utili per il benessere degli abitanti. È da notare come molte delle caratteristiche dell’Isola, a parità di condizioni, siano comuni a molte altre aree del bacino mediterraneo. Quindi, aggiungiamo ancora un pezzo alla nostra definizione: Gibellina sarebbe dovuta essere una città rurale mediterranea, perché certe forme, già largamente sperimentate, sono le più corrette per l’ambiente di questo Mare Nostro.

A questo punto, una volta calata in un ambiente che ha esercitato degli aggiustamenti, atti ad adeguare, non solo la forma alla funzione, ma anche la forma allo spazio cui essa appartiene; l’architettura è sorta. Ciò che è esclusiva dell’estetica è il rapporto tra individui e forme. Il nostro modo di produrre forme e di giudicarle è nella nostra identità, intesa nel suo senso più completo. Si continui a procedere per delimitazioni. Se esistono, per le città siciliane, delle peculiarità comuni al bacino del mediterraneo – da qui alcuni punti di

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contatto con le città nordafricane, o del sud della Spagna, o della Grecia – è vero anche come esistano delle singolarità che identificano il tipo siciliano. Allora il senso dell’abitare cui c’appellammo all’inizio del ragionamento, sarà aggiustato per quella parte strettamente dipendente dall’identità e dal gusto. Il barocco, che è il codice espressivo adottato, ne è l’esempio chiarificatore, come pure lo è la scelta di colori legati a delle particolari specificità locali che uniformano l’immagine delle città, come il nero di una Catania inchinata all’Etna, o il giallo di una Noto costruita con l’arenaria, o come il bianco e l’oro delle ville del palermitano, o la specialissima sembianza che assumono i castelli dei signori normanni memori delle forme dei mori. Da questo momento, dopo avere dato risposta a tutte le istanze di cui sopra, ogni forma, dipendente dal gusto dell’individuo che vi si pone in relazione, è legittima. L’architettura realizzata, condizionata da tutta questa lunga lista di premesse, riconosciuta dall’individuo rispetto la propria sensibilità, si lascerà abitare e sarà adatta al luogo, alle funzioni adatte al luogo, agli abitanti che in quel luogo hanno vissuto la propria storia; da che se ne ricava come l’identità, cofattore del processo critico, quando esercitato sull’architettura, non si fondi soltanto nella memoria ma anche nel territorio. Quella dell’architettura come luogo dell’abitare è quindi un’identità assai complessa, che non può essere ridotta ad un’identità culturale fondata esclusivamente nella memoria e nella storia, pure sufficiente per sostenere il processo critico necessario a ricevere altre opere d’arte; ché se il luogo è semplice condizionamento indiretto dell’identità culturale, per cui partecipiamo di una cultura perché abbiamo abitato un preciso territorio, è consustanziale nell’identità dei luoghi della quale compartecipa con pari dignità della memoria.

Ecco perché una critica che parli delle opere d’arte di Gibellina è parziale e sviante: per parlare della città, occorrerà valutare la capacità del luogo di farsi luogo del vivere per ben determinate persone e altrettanto ben determinate funzioni, ovverosia di farsi abitare. Non può trattarsi di mettere a punto il piano perfetto, ma di assecondare con molta concretezza le interpellanze che provengono da territori geograficamente determinati. Né si può ingenuamente credere, per il solo fatto di insistere su una ben delimitata superficie spazialmente

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connotata, che il gesto della fondazione risolva, d’un colpo, i legami con il territorio: se è vero, infatti, che, per appartenenza, il paesaggio si staglia sullo sfondo quale orizzonte di condivisione fra i borghi che partecipano dello stesso panorama, è altresì ragionevole credere, che senza rispettare alcuni fondamentali paradigmi dell’ecologia, il nuovo centro, corpo estraneo di questo organismo-territorio, in contraddizione con il paesaggio, lo sconfesserà vandalizzandolo. E l’identità, per quanto profondamente rinnovata, non può dirsi rispettata se l’unica cosa ad essere conservata è il colore del cielo o la ricomposizione di qualche frammento di maceria, come pure si fece. L’identità avrebbe dovuto essere essa stessa prescrittiva e non essere prescritta, perché in essa si custodiscono le ricette di un popolo, quale insieme d’individui appartenenti a un territorio; adottare arbitrariamente altri modelli riferibili ad altre identità, altri schemi applicabili ad altre realtà, perché si è convinti che essi siano panacea di tutti i problemi della socialità urbana, è stato il vero errore della progettazione di Gibellina, dal quale, per un sinistro effetto domino, sono derivate tutte le altre manchevolezze. Se la pianificazione si esaurisce nell’astrazione formale, se non s’innesta su un processo vitale, non è architettura, ma vuota sovrastruttura. Per tutte queste ragioni, si è preferito ricostruire brevemente i paradigmi storicamente ed urbanisticamente più rilevanti, così da riuscire a mettere a fuoco le fondamentali che sarebbe state dovute essere riconosciute a Gibellina, città rurale mediterranea della Sicilia occidentale. Solo allora, per comparazione con il modello artificiosamente costruito, con il supporto dei testi che scansano l’inganno di un’identità esteriore e vistosa, potremmo criticare serenamente e secondo la giusta prospettiva la vicenda di Gibellina.

Per quanto il Belice sia una realtà territoriale geograficamente e storicamente omogenea, la sua vicenda non si discosta da quella del resto dell’Isola.185 I primi insediamenti

185 Segue, da questo punto in avanti, una sintetica ricognizione storica, per mettere a fuoco i passaggi che più di altri concorsero a formare l’identità dei luoghi e degli abitanti. Trattando sommariamente delle vicende siciliane si

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tra il I e il II millennio a.C. risalgono ai Sicani, ai quali seguirono gli Elimi, che popolarono le terre attorno al centro urbano di Segesta; dopo i Fenici toccò ai Romani, sotto il domino dei quali la Valle come l’Isola tutta fu estensivamente coltivata a frumento, sicché la Sicilia si guadagnò l’appellativo di granaio di Roma. Quelli dell’Impero furono anni di profonda crisi demografica, conseguenza della diffusione del latifondo, responsabile del diradamento dei centri urbani, quanto della scomparsa di agglomerati rurali nei territori più interni ed a vocazione agricola. Solo con l’avvento degli arabi le cose iniziarono a cambiare. Essi ripopolarono la Valle grazie ad una politica di frammentazione ed urbanizzazione del latifondo.

Il tessuto territoriale è gerarchicamente e precisamente strutturato, costellato da una trama fitta di rocche (qal’at) con il paese intorno, villaggi rurali (rahal) e casali (manzil), dalla struttura urbana scenograficamente mutevole perché sapientemente costruiti dopo un’attenta osservazione della vocazione naturale del suolo a cui le costruzioni sono intimamente legate.186

La Sicilia, sotto la dominazione musulmana, godé di un momento sostanzialmente prospero. Oltre una suddivisione razionale e sostenibile, ché distribuendo uniformemente la popolazione sul territorio, assicurava maggiori rendite e migliore controllo (ai secoli di dominazione islamica, tra il X e l’XI, si devono la suddivisione delle tre Valli),187 gli arabi introdussero le coltivazioni dell’agrume e della canna, e diffusero i risultati delle scoperte matematiche, scientifiche, astronomiche, così che l’Isola non fu colonia dell’Islam ma una sua libera parte, comprendente un grandissimo numero di gruppi etnologici.

rimanda ad una tra le più complete storie della Sicilia: ROSARIO ROMEO, Storia della Sicilia, Catani, Storia di Napoli e della Sicilia, 1979. 186 AUGUSTO CAGNARDI, Belice 1980, luoghi problemi progetti dodici anni dopo il terremoto, Venezia, Marsilio, 1981, p. 64. 187 Le Valli sono: Vallo di Demona, a settentrione del fiume Simeto ed a est del fiume Salso, fino a Capo Peloro, include interamente l’odierna provincia di Messina e parte delle provincie di Catania ed Enna; Vallo di Noto a meridione del Simeto e a oriente del Salso, fino a Capo Passero, include le provincie di Siracusa, Ragusa e parte di Catania, Enna e Caltanissetta; il Vallo di Mazara a ponente del salso include tutta la Sicilia occidentale fino a capo Lilibeo, con le provincie di Trapani, Palermo e Agrigento.

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Con la venuta di Ruggero della casa d’Altavilla (nel 1057) primo conte di Sicilia, conquistatore dell’Isola e vincitore degli arabi, in forza di un probabile opportunismo politico che lo legava al pontefice Urbano II, dal quale dipendeva la legittimità del suo titolo; la tolleranza per quella varietà etno-antropologica, caratteristica del momento islamico, era destinata ad estinguersi. Ciononostante, la struttura normanna si sovrappose a quella araba, e Ruggero mantenne alla sua corte filosofi greci e pensatori islamici. Di là delle ragioni, forse di propaganda, che lo spinsero, si rileva il fatto di come, ancora per qualche tempo, la presenza musulmana si mantenne considerevole nell’Isola. Almeno fino alla venuta di Federico II, durante il regno del quale, furono condotte a termine la soppressione e l’espulsione delle etnie rimaste.

Nel periodo di grande incertezza e confusione politica che seguì la capitolazione della casa Sveva, durante il quale la corona di Sicilia passò più volte di mano – dagli angioini agli aragonesi della casa di Barcellona – si affermò nell’Isola l’egemoni-a dei baroni che mantennero un incontrastato potere in Sicilia fino a tempi insospettabilmente recenti, e in certe realtà (Gibellina inclusa) ben oltre la soppressione della feudalità con la Costituzione Siciliana del 1812. Capire il ruolo fondamentale giocato dall’aristocrazia isolana, è indispensabile per comprendere molte vicende della contemporaneità siciliana, dalla configurazione del territorio, al disegno della città, allo spirito ed alla vocazione stessa dei luoghi.

I tre momenti chiave per lo sviluppo di Gibellina, come più propriamente di tutto il Belice sono: l’arabo durante l’alto medioevo, l’aragonese nel basso e lo spagnolo in età moderna. Nella prossimità dei centri di Segesta e Selinunte i musulmani fondarono Gibellina: a conferma di ciò è il nome che, infatti, ha chiara ascendenza araba, derivando da Gebel- = monte, -in = due, ovverosia in mezzo a due colli; oppure, secondo altra filologia, Gebel- e -zghir = piccolo, piccolo monte.188 Espulsi gli arabi dall’Isola ed impiantato il sistema feudale europeo, il territorio fu assegnato a Manfredi Chiaramonte,189 il quale

188 M. ODDO, Gibellina La Nuova…, op. cit. p. 15. 189 Quella dei Chiaramonte, conti di Modica, è una dinastia chiave nella storia della Sicilia. Infatti, tra il 1377 (anno della morte di Federico IV di Sicilia detto

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all’inizio del XIV secolo fondò il castello a difesa della terra. Con il passaggio della corona agli Aragona di Catalogna, conti di Barcellona, s’assisté a un rinnovamento profondo del gotha siciliano.190 I baroni che durante l’ultima fase del Vespro si erano dimostrati ostili al partito catalano, caddero in disgrazia: i Chiaramonte che avevano rappresentato l’ultima sacca di resistenza furono violentemente abbattuti e condannati a damnatio memoriae.191 Gli altri che giurarono fedeltà al re

“il semplice”) e il 1392 (assoggettamento della Sicilia al regno d’Aragona) furono loro, insieme con i Peralta conti di Caltabellotta, i Ventimiglia conti di Geraci, e gli Alagona che controllavano il catanese; a comandare la Sicilia. Questa fase storica è detta, non per niente, dei quattro vicari, che s’impegnavano a mantenere la pace nell’Isola, assicurandosi piena autonomia nei propri possedimenti. 190 La legittimità dei sovrani nei reami medioevali è questione assai instabile e delicata. Un re era tale e poteva governare in pace e prosperità solamente se aveva ricevuto l’investitura divina, e l’Altissimo esprimeva la propria volontà in maniera varia ma precisa; per esempio nel buon esito di una spedizione militare, o assicurando una legittima discendenza ad una tal schiatta, nella consacrazione di un matrimonio, oppure per bocca del pontefice, da cui lo strapotere dei vicari di Cristo. Ora, nel 1377 alla morte di Federico IV d’Aragona di Sicilia si verificarono circostanze tali per cui coesisterono, in un momento di grande tensione politica coincidente con la fase conclusiva dei vespri, due pretendenti al trono dell’Isola: il catalano Pietro IV d’Aragona e la regina angioina Giovanna I di Napoli – di partito francese, alleato storico della Santa Sede – entrambi strettamente imparentati con il defunto monarca. Questi lasciava al mondo una sola figlia femmina, Maria di Sicilia, e solamente attraverso il suo matrimonio il problema della successione si sarebbe potuto risolvere. A complicare ulteriormente le cose, i più potenti baroni dell’Isola (cfr. nota 184) che componevano il partito italiano, capeggiati da Artale Alagona tutore della giovane Maria, brigavano affinché la regina bambina andasse in sposa a Galeazzo Visconti duca di Milano, secondo un disegno politico, del quale l’Alagona ne era l’indiscusso deus ex machina, di grande fascino e che guardava con speranza ad una soluzione italiana. Nemici giurati di questo progetto, i Moncada, catalani per origine e bandiera, s’impegnarono con zelo per sabotare il piano di Artale. E così su incarico del re Martino “il giovane”, Guglielmo Raimondo Moncada, conte d’Augusta, rapì Maria, la imbarcò e la recapitò al suo sire a Barcellona, dove la giovane sposò il re aragonese. Così Martino, finalmente sovrano legittimo di Sicilia, partì con i suoi nobili alla volta dell’Isola per incassare la fiducia dell’aristocrazia, piegare le famiglie ostili, e punire le ribelli. 191 I primi a subire i rovesci della sorte furono proprio tre dei quattro vicari. Artale Alagona con il figlio, prima bandito e poi ingannevolmente graziato, fu assassinato durante il viaggio di rientro dal luogo dell’esilio. Il conte Francesco Ventimiglia ormai sconfitto, dopo avere inneggiato al re Carlo d’Angiò, si suicidò con il suo cavallo gettandosi da una rupe; e i suoi nemici ne

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aragonese Martino furono confermati nei loro possedimenti; e chi infine si prodigò per la causa catalana fu ampiamente ricompensato con terre e prebende, andando spesso ad occupare feudi che erano stati dei baroni ribelli. Così la baronia di Gibellina fu riassegnata, in parte di metà, al regio milite Niccolò di Lombardo, e per il resto a Michele del Boi. Dopo un numero considerevole di passaggi di proprietà in seguito a compravendita e sposalizi,192 Gibellina pervenne alla famiglia Morso. Questi furono i signori più direttamente coinvolti nell’ampliamento del Centro, come pure nell’edificazione ex novo di Poggioreale.193

Il fenomeno delle fondazioni e ripopolazioni delle campagne si registra a partire dagli anni venti del seicento, quando Filippo IV di Spagna, di casa Asburgo, per sostenere i costi della sua politica estera, concesse ai baroni di Napoli e Sicilia il privilegio di fondare nuovi borghi all’interno dei loro possedimenti rurali. Per fare ciò, l’aristocratico, richiedeva, a fronte del versamento di una tassa alla regia tesoreria, la Licentia Populandi, la quale conteneva al suo interno il privilegium aedificandi. Le ragioni per

scempiarono il cadavere dopo averlo raggiunto. Andrea Chiaramonte, infine, resistette tenacemente all’assedio catalano, a Palermo, nel suo palazzo-fortezza, lo Steri. Convinto alla resa da una falsa promesso di grazia fu catturato, e lì, davanti la gloriosissima dimora del suo casato, decapitato. I beni furono confiscati e divisi tra Moncada artefice del ratto della regina e Bernardo Cabrera assediatore e vincitore di Andrea. I simboli della famiglia furono cancellati. Lo Steri cambiò destinazione numerose volte, residenza di Martino prima, dei viceré poi, nel cinquecento dogana e tribunale, quindi sede dell’inquisizione. Oggi, dopo la ristrutturazione firmata da Carlo Scarpa è una delle sedi di rappresentanza dell’Università di Palermo. Per approfondimenti sullo Steri o su altri castelli chiaramontani che per rilevanza si costituiscono in genere autonomo, si confrontino: ALBA DRAGO BELTRANDI, MELO MINNELLA, Castelli di Sicilia, Palermo, Pielle, 2007; ANGHELI ZALAPÌ, Dimore di Sicilia, Venezia, Arsenale, 1998. 192 Differentemente dai regni in cui vigeva la legge salica, in Sicilia alle donne era concesso ereditare feudi e titoli, in assenza di discendenza maschile. Da queste poi venivano trasmesse ai figli ed in assenza dei quali, ai mariti. È in forza di questa legge, detta di successione siciliana, che i titoli nel meridione non solo non s’estinsero, ma passarono di mano concentrandosi spesse volte in un numero limitato di famiglie, le stesse che alla fine della feudalità si ritrovarono con tanti cognomi quanti pochi danari. 193 Per la ricostruzione di tutti i passaggi di proprietà si rimanda al testo del genealogista FRANCESCO MARIA EMANUELE DI VILLABIANCA, Della Sicilia nobile, Palermo, 1759.

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le quali un barone era spinto a impelagarsi nell’impresa erano svariate: completato il ripopolamento, infatti, a questi, sarebbe stato concesso un seggio in parlamento, una promozione nella gerarchia sociale e, cosa più importante, il mero et misto impero; massimo tra i privilegi feudali, che trasformava il barone in un sovrano a tutti gli effetti all’interno delle sue terre: amministrazione della giustizia, nomine, incarichi, gabelle, dazi, tutto passava dalle mani del signore della tal terra. La corona, a fronte di questa cessione di sovranità, oltre ad entrate dirette ed ad un servigio militare direttamente proporzionale la densità demografica dei nuovi centri (espresso in cavalli o più raramente in staffe),194 si sarebbe assicurata l’efficientamento produttivo di un territorio che diversamente sarebbe rimasto incolto e sterile. Affinché l’operazione andasse a buon fine, il barone aveva tutto l’interesse a fondare centri appetibili (oggi diremo dotati di un buon milieu), ché il ripopolamento poteva avvenire per trasferimento da altro feudo o per migrazione volontaria; in questo senso la pianificazione urbana diventava uno strumento indispensabile per perseguire l’obiettivo. Una sapiente progettazione, oltre a glorificare il mecenate e il suo casato, avrebbe avuto benefiche ricadute sulla produttività del feudo. Con queste premesse, è facile immaginare quanto si sia raffinata la pratica dell’urbanistica lungo il corso di tutto il XVII secolo, che produce esiti sempre più arditi e fortemente influenzate da modelli cartesiani. L’estetica del rettifilo, la costruzione di strade che mettano in relazione i maggiori centri di potere, la concentrazione in posizioni diverse di diverse funzioni, sono tutti criteri andatisi calcificando in anni di esercizio.195

Proprio secondo questa prassi, la famiglia Morso dopo l’elevazione della baronia di Gibellina a marchesato, si ritrovò infeudata del principato di Poggioreale creato a partire dal

194 Per il principato di Poggioreale e il marchesato di Gibellina i Morso dovevano al sovrano sette cavalli. Per avere il polso della richiesta, si tenga conto che la media s’assesta attorno ai trenta cavalli, misurata su un range dal minimo di una staffa al massimo dei 162 cavalli del principe di Paternò. Cfr. F. M. E. VILLABIANCA (DI), Della Sicilia Nobile…, op. cit. 195 Per approfondire l’argomento attorno l’attività edificatoria nei feudi siciliani si rimanda a: STEFANO PIAZZA, Dimore feudali in Sicilia fra seicento e settecento, Palermo, Caracol, 2005.

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1642 dal marchese Francesco che godeva del mero et misto impero su entrambi i feudi. Sostanzialmente si trattava di controllare, per quanto in piccolo, due micro Stati ricavati dalla scissione, mediante ripopolamento, di uno più grande. Le opere di urbanizzazione che competevano al principe erano un impegno economico non indifferente. Oltre l’impronta del tracciato viario in caso di nuova fondazione, il barone si sarebbe dovuto fare carico della realizzazione, della chiesa madre, del pozzo, della fonte, dei conventi, e di ogni altra sorta di opera “pubblica” che potesse giovare alla prosperità di detti Stati. Non sappiamo, per scarsezza di fonti consultate, cosa di Gibellina fosse direttamente legato ai Morso; tanto più se si pensa che il luogo sul quale avrebbero potuto operare, non esiste più. A Poggioreale, differentemente – pur a parità di desolazione dopo il ‘68 – essendo stato centro di nuova fondazione, non ci sono dubbi che le opere “pubbliche” del centro fossero state tutte eseguite per la volontà e per i mezzi della famiglia.

Questa lunga digressione sulla particolare caratteristica del feudalesimo siciliano, è utile a intendere come esistano alcune caratteristiche legate alla Sicilia rurale che appartengono pressoché a tutti i centri, da cui l’importanza di avere presente se non le vicende, almeno le incombenze o il ruolo delle famiglie nei feudi.

Compiendo uno sforzo di semplificazione, potremmo raggruppare i centri dell’Isola in tre insiemi. Le città maggiori, identificabili, pure con una certa dose di approssimazione, negli attuali capoluoghi di provincia; i centri demaniali, sotto il diretto controllo della corona; i centri rurali o feudali, assoggettati alla sovranità dell’aristocrazia, in numero assai maggiori degli altri e riguardanti la quasi totalità dell’Isola. Si aggiungano a questi i feudi ecclesiastici, ma che sono, per struttura, in buona misura assimilabili ai centri rurali. Escludendo le città ed i centri demaniali che s’arricchiscono di complessità e risultano troppo articolati per varietà di funzioni – legate al governo del borgo, piuttosto ad uno specifico ruolo ricoperto da esso – e di attori – molti di più che in un centro rurale dove le iterazioni si esauriscono nella dialettica tra prìncipe e contado – ci limitiamo ad indagare i soli centri feudali, che pure sono la quasi totalità di quelli del Belice

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(fanno eccezione dei quattordici Comuni colpiti dal sisma solamente le città demaniali Mazara, Sciacca e Salemi).

Che fossero di mare (più rari e deputati al solo controllo militare della costa, ché i porti erano tutti demaniali) o di terra, gli agglomerati sorti all’interno di un feudo rispettavano uno schema preciso. Nel punto strategicamente più valido sorgeva la rocca, o castello, attorno al quale ed al riparo del quale s’assestava l’abitato, accentrato, compatto e ad alta densità edilizia; in cerchio un sistema di orti, campi e campagne che lo rendevano «autosufficiente, mentre con molta attenzione» si sceglievano «i terreni per le grandi colture».196 Il borgo (alle volte fortificato) era regolato da una serie di accorgimenti del buon costruire empiricamente dimostrati. Salubrità e longevità erano garantite dalla scelta del sito – in prossimità di fiumi navigabili e pescosi – dalla qualità del terreno, dall’altitudine, dall’ariosità, dall’esposizione e dall’orientamento; mentre le case erano costruite secondo regole edilizie locali, su un principio di economia delle risorse. Esclusi gli episodi urbani di maggiore rilevanza per i quali, il feudatario, qualora se lo fosse potuto permettere, avrebbe incaricato architetti e ingegneri di fama; l’abitato veniva eretto impiegando materiali d’immediata accessibilità (pietre estratte da cave locali, legna dai boschi più prossimi), e ricorrendo a tecniche che subivano non più che lievi flessioni, determinate dalle peculiarità della popolazione (avanzamento tecnico, ricchezza, varietà sociale). Si osservi come queste basi appartenessero già alla prima fase di urbanizzazione, ante 1392, quella alto-medievale; con la differenza che le ragioni, che attendevano alla fondazione dei centri più antichi, erano strettamente militari e di controllo del territorio, diversamente da quanto sarebbe accaduto poi con la vendita delle licentiae poulandi, con le quali, di fianco una funzione difensiva che va via via esautorandosi, s’imponevano le istanze della produttività e della politica. Inoltre è improprio parlare di nuove fondazioni, salvo rari casi, che per lo più le famiglie normanne si limitarono ad adeguare il sistema di fortificazioni e l’organizzazione del territorio ereditati dalla dominazione araba, raddrizzando le vie, semplificando e ammodernando l’impianto stradale E sono anche eredità arabe 196 A. CAGNARDI, Belice 1980, luoghi, problemi… op. cit. p. 59 e sg.

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(che pure compartecipano dell’identità della Sicilia rurale) l’attenzione alla forma del territorio, la piena continuità tra paesaggio e costruito (come nel Maghreb più bello), la straordinaria rete d’acquedotti che riforniva gli orti dalle alture; oppure quella sapienza tecnologica in virtù della quale si riuscivano, per esempio, a sfruttare i venti per scopi climatici ed igrotermici (si pensi alle camere dello scirocco, o al sofisticato impianto di climatizzazione della Zisa di Palermo). In qualche modo l’edilizia siciliana in esame si costruisce su premesse precise, che restano sotto traccia, anche quando occultate dall’opulenza barocca delle città seicentesche. Aperture piccole e cadenzate, mura spesse, colori chiari, strade strette per fare ombra e per “accelerare” l’aria; sono tutti dati acquisiti - arabi in gran parte, ma non solo – e rispettati nella loro più completa efficacia anche da chi poi s’avvicendò nel governo dell’Isola. Ciò che troviamo estremamente affascinante di questi aspetti, è che, pure con tutti i loro localismi, conseguenza di quell’economia delle risorse che è propria di un costruire intelligente, affiori una trama comune, solidamente costruita sul luogo e dal luogo, che identifica una vasta area geografica: il Mediterraneo nel suo senso più pieno di mare magnum.

Su queste premesse, già identitarie, si andò configurando la Sicilia spagnola. È possibile rintracciare paradigmi urbani peculiari e ricorrenti anche nei centri di fondazione seicentesca, della seconda e definitiva fase di urbanizzazione, incoraggiata da un Filippo IV bisognoso di rimpinguare le casse della tesoreria regia.197 Il sito del nuovo centro era scelto con grande

197 Definitiva anche perché non c’erano più le condizioni economiche, né tanto meno politiche, per nuove fondazioni. Infatti, dall’inizio del XVIII secolo, il baronaggio s’inurbò, nell’esatta convinzione che dalle città (Palermo in testa), meglio si potessero seguire i repentini capovolgimenti politici dell’Europa settecentesca. Inoltre la compera dei titoli, e gli obblighi di cerimonia che un nobile doveva mantenere, avevano profondamente impoverito la classe aristocratica siciliana, che vivendo spesso al di sopra delle proprie possibilità (grazie ad un istituto di credito, particolarmente cavilloso e anomalo), si ritrovava ad essere indebitata oltre l’immaginazione. È emblematico, in questo senso, l’esempio del principe di Pantelleria Giuseppe Antonio Requesens che ottenne con grande fatica la licentia per il feudo di Solarino nel 1770, l’operazione di popolamento portò al definitivo dissesto finanziario della famiglia, che nel volgere di una generazione fu costretta a vendere financo la casa di città. Possiamo quindi circoscrivere la fase di massiccia urbanizzazione

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attenzione per il suo potenziale agricolo ed economico – che è poi la stessa cosa – o per la vicinanza a diverse fonti di reddito, come tonnare, zolfare, saline; oppure per la preesistente presenza di un presidio bellico alla costruzione del quale non necessariamente era seguita la fondazione di un borgo. È una fase di complessivo ingentilimento dei centri feudali, che si videro trasformati da basi militare in minuscole signorie, e, a riprova di ciò, proprio allora, severi castelli in decadenza furono convertiti, secondo la lezione barocca, in vertiginosi palazzi baronali. Oltre la residenza del signore, adattata su una preesistenza o di nuova fabbricazione, gli altri simboli del potere feudale erano largamente codificati: il barone aveva l’obbligo, in qualità di nobile cattolico, di occuparsi della cura delle anime, erigendo, in relazione con il castello-palazzo, una o più chiese. Palazzo e chiesa matrice componevano così il primo fondamentale nucleo; con il pozzo, la fonte e il mulino, le opere di urbanizzazione potevano dirsi concluse, e attorno a queste emergenze sarebbero poi sorte le case. Pure rispettando l’orografia del sito, questa non fu più, come per gli arabi, l’unica responsabile dell’impronta del borgo; certamente l’antica lezione non andò perduta e l’orientamento delle fabbriche come pure l’adeguamento ai pendii, rimasero costanti dei nuovi agglomerati; ma ad un pianificazione “organica”, se ne affiancò un’altra di tipo formale. Questi prìncipi come pure gli architetti cui si rivolgevano, erano imbevuti della lezione rinascimentale, così declinavano gli imperativi del luogo e del clima, in geometrie pure o in forme astrattamente euritmiche. Perciò in Sicilia ci si può ritrovare in Comuni caratterizzati o da una planimetria semplice, a scacchiera; o più complessa, a stella, a esagono, come nelle città ideali dei trattatisti cinquecenteschi; oppure spontaneamente configuratasi su due o tre giaciture scelte dal committente.

agli anni compresi tra il 1620 (incoronazione di Filippo IV) e il 1700 (incoronazione di Filippo V) con il passaggio della corona di Spagna dagli Asburgo ai Borbone, che oltre a causare una tesissima crisi diplomatica in tutta Europa, scardinerà alcune consuetudini proprie del governo spagnolo. Da quel momento si aprirà un’altra stagione di febbrile attività edificatoria, altrettanto interessante, ma non più riguardante i feudi, bensì le città maggiori. Si rileva infine come, topograficamente, la Sicilia della metà del XVIII secolo sia in buona parte sovrapponibile a quella odierna.

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Il tipo edilizio residenziale impiegato indifferenziatamente in tutte e tre le morfologie urbane ed in entrambe le fasi, era l’isolato, di misura variabile; quando il suo volume raggiungeva proporzioni considerevoli, era frantumato per mezzo di cortili e vicoletti. Come in un’insula romana al suo interno erano ospitati più nuclei familiari che abitavano case fra loro sostanzialmente indipendenti, o al massimo gravate da qualche vincolo di servitù. Le unità abitative potevano poi svilupparsi su due o più livelli, meno spesso su di uno unico; avere una struttura prevalentemente verticale, con le camere impilate una sull’altra, oppure orizzontale; avere l’ingresso alla quota della strada od ad una differente, attraverso ballatoio; essere dotate di botteghe e depositi indipendenti dalla casa, o collegati, o occultati al suo interno. Tutte queste varietà insieme, ugualmente diffuse e incastrate come in un Tetris, formavano l’isolato. In questi microcosmi si esauriva la vita del borgo: infatti, eccezion fatta per alcuni servizi che catalizzavano l’abitato, come la chiesa con la sua piazza o il lavatoio, che certamente erano episodi estranei all’isolato, la quotidianità si svolgeva nei cortili, nel pezzo di strada davanti casa, nelle stanze del piano terra dove si tenevano i mestieri, tra i balconi. Insomma l’isolato come tipo edilizio composito, contenitore di più tipi edilizi semplici (casa di cortina, casa a ballatoio, casa verticale su lotto “gotico”, deposito, bottega) all’interno del quale si svolgevano funzioni molteplici e si articolavano relazioni tra gli individui.

Tirando le somme. Due fasi di urbanizzazione: durante la prima, araba e normanna, tra il X e il XVI secolo, i centri abitati sorgono attorno ad un castello e obbediscono alle necessità oroclimatiche del sito (ragioni difensive); nella seconda, per tutto il seicento spagnolo, sorgono attorno al palazzo, secondo disegni urbani codificati a priori d’ispirazione rinascimentale, ma pur sempre obbedienti alle medesime necessità dei primi (ragioni economico-politiche). A tutti i borghi, circondati dalle campagne, luoghi di lavoro delle popolazioni rurali, sono comuni alcune caratteristiche edilizie, proprie della cultura e dell’identità mediterranee. I tipi edilizi possono essere divisi in semplici o monofunzionali, per lo più opere di pubblica utilità; o compositi, l’isolato: microcosmo complesso, all’interno del quale si sedimentano varietà

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funzionale e ricchezza sociale. Capire questa ridottissima ossatura da già il peso di cosa fosse e come funzionasse un centro della Sicilia rurale in età medioevale e moderna, e soprattutto, in assenza di altre modifiche strutturali di rilievo, in quali condizioni la storia lo consegnò all’oggi.

Per tutti i centri colpiti dal sisma del 1968, il discorso fatto fin qui è valido. Sono centri della prima fase, dei quattordici maggiormente danneggiati: Salemi, Gibellina, Calatafimi, Sambuca (arabi); Partanna, Salaparuta, Castelvetrano (normanni). Della seconda: Poggioreale, Santa Ninfa, Vita, Montevago, Santa Margherita, Menfi, Camporeale.198

Il terremoto del 14 gennaio 1968 ha avuto conseguenze più o meno gravi in 52 comuni della Sicilia, la cui popolazione ammontava a circa un milione 500 mila abitanti, cioè quasi il 40% della popolazione di tutta l’isola. Gli effetti più disastrosi si sono verificati nella Valle del Belice e nei suoi immediati dintorni con la distruzione totale di quattro paesi: Gibellina, Montevago, Poggioreale, Salaparuta. In altre località si sono avute distruzioni elevatissime: il 94% a Santa Margherita Belice, l’87% a Santa Ninfa, il 60% a Partanna, il 48% a Salemi, il 41% a Contessa Entellina. […] Venne stimato che la ricostruzione dovesse interessare complessivamente settantamila vani e ottocentomila mc. di opere per servizi necessari a far rinascere la vita civile, oltre naturalmente alle opere di urbanizzazione, come fognature, strade, impianti idrici ed elettrici.199

Per quattro di questi comuni (Gibellina, Santa Ninfa, Poggioreale, Salaparuta) fu predisposto un piano di conurbazione. Coordinato da Danilo Dolci, il progetto prevedeva di unificare i centri in uno unico da fondare in località Rampinzeri (dove sorse il piano baraccato di Gibellina a mezza via tra la Città nuova e l’antica), nella convinzione che una conurbazione avesse maggiore potere contrattuale con le istituzioni, più di quattro piccoli borghi; ma l’idea fu rapidamente cantonata, avendo gli abitanti espresso la propria preferenza di mantenere separati i comuni.200 Così si cominciò 198 All’appello manca il solo comune di Contessa Entellina, che per la sua particolare storia, legata alla comunità albanese, si sottrae alla nostra ricognizione. Campoerale è un altro esempio di fondazione tardiva: Giuseppe Beccadelli principe di Camporeale e marchese della Sambuca iniziò l’edificazione del nuovo centro solo a partire dagli anni settanta del settecento. 199 A. CAGNARDI, Belice 1980, luoghi, problemi… op. cit. p. 25. 200 La vicenda legata alla conurbazione, promossa dall’ISES, portata avanti da Danilo Dolci, e apertamente appoggiata da Bruno Zevi, conserva delle zone

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a lavorare ai piani di trasferimento che «si sono occupati di localizzare, disegnare e programmare le realizzazioni dei nuovi interventi».201 Per la maggior parte dei centri fu prevista la ricostruzione nelle vicinanze o in adiacenza dell’antico centro, quando non addirittura sovrapposto ad esso (fu il caso di Santa Ninfa); solamente per i centri di Calatafimi e Gibellina si optò per la realizzazione di «insediamenti distaccati».202 Così, fallito il progetto della conurbazione ed emanato un decreto con cui si vietava di ricostruire sull’antica zona d’impianto, la popolazione, guidata da Corrao, spinse affinché Gibellina sorgesse in località Salinella, a diciotto chilometri dalla Città vecchia, al confine tra i territori di Santa Ninfa e Salemi, su un altitudine di 250 metri (a fronte dei quasi 400 del borgo antico) nelle immediate vicinanze delle proprietà agricole dei gibellinesi, delle infrastrutture e dei collegamenti.

In tempi relativamente brevi fu approntato il disegno della nuova Città, che una volta impresso nel territorio si fece punto di partenza ineludibile per qualsiasi ragionamento che ne seguì. Il piano, ideato dall’architetto Marcello Fabbri, molto disegnato e detto a farfalla, per la sua forma vagamente zoomorfa, che richiama proprio l’insetto dalle ali iridate, ha una configurazione organica costruita su un andamento viabilistico mistilineo, ché in forza della sua spiccata formalità, mal si coniuga con dei potenziali ampliamenti. La preferenza accordata ad un disegno chiuso, e rigido per eccesso di segni, fa già parte di quell’orizzonte culturale che rifiutava lo zooning, lo standard, le tipologie edilizie e le morfologie urbane “a crescita

d’ombra. Pare, infatti, che in un primo momento la popolazione partecipò con interesse alla possibilità di fondare un centro composito, e solo in un secondo sopravanzò la spinta localista. La vicenda è narrata da MARIO LA FERLA, Te la do io Brasilia, la ricostruzione incompiuta di Gibellina nel racconto di un giornalista detective, Viterbo, Nuovi Equilibri, 2004. Altre letture tacciano come prepotentemente coatta la proposta avanzata dall’ISES e quindi giustamente e subitamente respinta. Cfr. M. ODDO, Gibellina La Nuova…, op. cit.; G. LA MONICA, Gibellina ideologia e utopia…, op. cit. 201 A. CAGNARDI, Belice 1980, luoghi, problemi…, op. cit. p. 33. 202 «La configurazione attuale annovera tutte le soluzioni possibili: | - insediamenti staccati: Gibellina, Calatafimi; | - insediamenti a breve distanza: Salaparuta e Poggioreale; | - insediamenti adiacenti: Partanna, Salemi, Vita; | - insediamenti sovrapposti: Santa Ninfa». Ivi, p. 37

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illimitata”, espressioni di quel modo di fare architettura che era stato del razionalismo e del funzionalismo.

L’inadeguatezza del disegno nasce, però, proprio da quella parte dell’accademismo che rinnegava le soluzioni delle scuole precedenti, e che metteva a punto correttivi per rettificare gli effetti negativi di una loro applicazione su vasta scala. Si osservi però che le acquisizioni ideologiche e le soluzioni tecniche adottate in seno al Movimento Moderno, pur concordando sul giudizio che condusse gli intellettuali del secondo dopoguerra a rivederle profondamente, erano studiate per risolvere le problematiche delle realtà metropolitane che si andavano trasformando da città industriali (fordiste), a città di servizi (terziarie). Il ragionamento sulle garden-town, sulla qualità dello spazio privato, sull’uso e l’importanza di quello pubblico, sui metri quadri riservati a parcheggi oppure ad aree verdi, pur restando valido, poca rilevanza ha se applicato ad un centro la cui vocazione si conserva tenacemente agricola. Ma la convinzione, che nelle teorie urbanistiche globali risiedessero i rimedi di ogni male, fu maggiore; e così si adottò il piano a farfalla che, come osserva acutamente La Monica pare scelto, nemmeno fosse un articolo di un catalogo, tra le illustrazioni de “L’idea della città giardino” di Ebenezer Howard.203

Ciò che sorprende, che proprio in forza di quelle teorie, pure sostenute da Howard stesso, la pertinenza del piano al territorio sarebbe dovuta essere l’idea guida. Ma ciò non accadde. Dalla normativa, che, per ragioni di sicurezza, imponeva una misura urbana metropolitana, largamente fuori scala se applicata a un centro di seimila abitanti; alla scelta dei tipi edilizi, fino alla distribuzione dei servizi, si tradirono sistematicamente la vocazione, l’identità, i bisogni concreti e pressanti di una realtà in ginocchio.

Ed è tanto più strano se si considera il momento di grande ottimismo e partecipazione politica che viveva l’Italia nel ’68, e che smentisce la deriva di una gestione etero-diretta presa a Gibellina.

S’osservi il piano. Il corpo della farfalla è perpendicolare alla linea nord-sud della stazione di Salemi, visivamente questo s’impone come centro città con una concentrazione di servizi 203 G. LA MONICA, Gibellina ideologia e utopia…, op. cit. p. 10 e sg.

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(Municipio, museo); da questo si spiegano sul dolce pendio collinare le due ali entrambe a destinazione prevalentemente residenziale. Il tipo edilizio adottato è quello della casa unifamiliare a schiera affinché «il rapporto tra individui, famiglie, società, “usufruisca di una molteplicità di canali di comunicazione che impediscano la creazione di strozzature e passaggi obbligati sui quali possa tornare ad insediarsi una forma qualsiasi di potere capace di esigere un pedaggio”».204 Perciò le case sono efficacemente collegate con i servizi attraverso un alternarsi di vie pedonali, per il passeggio e la socialità, e via carrabili. Sempre rispettando il sogno politico di un egalitarismo diffuso grazie all’assenza di mediazioni tra individui e funzioni, affianco i servizi maggiori, concentrati nel centro geometrico del nuovo borgo, per tutto il contorno delle ali residenziali furono dislocati i servizi minori. Tutto queste scelte concordemente con i precetti fissati dall’ISES che riportiamo di seguito.

1) il rapporto tra le residenze e le attrezzature e tra le residenze e stesse deve avvenire mediante collegamenti realizzati attraverso attrezzature pubbliche a partire dalla più semplice, lo spazio pedonale attrezzato;

2) una simile ipotesi viene ad escludere qualsiasi forma corrispondente al tradizionale «vicinato» con una forte influenza sulla forma urbana, mentre lo studio delle tipologie edilizie prevede anche un elemento funzione-flessibile (portico, veranda , spazio aperto attrezzato, laboratori artigianali ecc.) cu si attribuisce il ruolo di cerniera tra funzione pubblica e funzione privata. L’insieme di questi elementi viene a costituire quel soggiorno «pubblico» con cui si arricchisce la strada nelle città meridionali;

3) la città così costruita viene ad assumere legami funzionali molteplici nei confronti dello spazio pubblico. Lo spazio attribuito alle infrastrutture sia urbane che territoriale compone. Il disegno urbano che è caratterizzato dai vuoti più che dalle case, dagli spazi pubblici e dalle infrastrutture più che dalle cortine degli edifici. A qualificare questa immagine dovrebbe concorrere in primo luogo l’intervento pubblico attraverso l’urbanizzazione e l’edificazione delle case a carico dello stato;

4) ciascun insediamento ha caratteristiche proprie. Il carattere unitario sta nel tentativo di eliminare attraverso i rapporti molteplici con le attrezzature pubbliche le distinzioni tra centro e periferia.205

204 A. CAGNARDI, Belice 1980, luoghi, problemi…, op. cit. p. 44. 205 Ibidem.

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Tutte premesse scrupolosamente rispettate da Fabbri nel suo piano d’ispirazione scandinava. Ma della Gibellina, città rurale mediterranea della Sicilia occidentale, cosa ne è stato? Ad essere oggettivi, i quattro punti sollevano questioni di lana caprina, quando non indicano delle vie manifestamente incongrue con le consuetudini del territorio. Rinunciare, per metodo, all’isolato, quando non è dannoso, è del tutto inefficace a risolvere il checchessia problema. Quel tipo edilizio, cui ci riferimmo come ad un microcosmo di eterogeneità, è scientificamente sacrificato, nella convinzione che ad esso andassero attribuite le «strozzature sulle quali si [sarebbe potuto] esigere un pedaggio», e che ad un tempo, con l’adozione di un nuovo tipo, questi ed altri inconvenienti potessero essere risolti. Per capire quanto irresponsabile fu la scelta, si noti come dallo scollamento “disidentitario” operato derivarono due modelli comportamentali problematici: la rinuncia alla strada come soggiorno urbano (che pure nelle intenzioni si voleva salvaguardare), con un conseguente ripiegamento dall’esterno all’interno della popolazione; un fenomeno di «abusivismo di necessità»206 che tentò di ripristinare le caratteristiche del perduto isolato, trasformando i garage (pure utilissimi nelle città metropolitane) in attività produttive. Come effetti immediati di questa spontanea manovra correttiva, si verificarono: il fallimento delle «funzioni-flessibili» di cerniera con il successivo abbandono delle vie pedonali, inutili in simili fattispecie se pensate come semplice luogo del passeggio; la trasformazione delle vie carrabili in improvvisate strade della relazione e dello scambio, preferite a quelle pedonali per l’indifferenza che ispiravano, ma incapaci per le ragioni della loro ideazione a ottemperare tanto alle necessità previste quanto a quelle puntualmente sopraggiunte. E fallace fu pure la preferenza accordata allo spazio pubblico, perché proprio nell’isolato, suo antipode, si esauriva una funzione semipubblica, che non sarebbe mai potuta essere ricreata in spazi diversi, essendo intimamente intrecciata con quella privata. La speranza riposta poi nei vuoti, intesi sempre come estensione del pubblico e maturati nella cultura metropolitana, che abbisognava di frammentare 206 M. LA FERLA, Te la do io Brasilia…, op. cit.

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la massa claustrofobica del costruito, spezzare la continuità asfittica di un’edilizia perennemente presente, dotare l’abitato di riserve verdi per migliorare la qualità e la salubrità del luogo; fa quasi sorridere se riportata ad una qualsiasi realtà dell’entroterra siciliano. Il territorio di Gibellina ha oggi una superficie di quarantacinque chilometri quadrati, di cui uno e mezzo occupato dal centro abitato; una densità di novantacinque abitanti per chilometro quadrato, ciò significa che ogni abitante ha a disposizione circa cinquecento ettari di terra: un deserto. Quello che si vuole dire è che la compattezza dei centri rurali, caratteristica di quelli siciliani, ma facilmente riscontrabili in altre realtà, ha delle ragioni precise: percettivamente, quando si è circondati da orti e campagne, sono questi a dovere essere interrotti da agglomerati, il cui confine con le aree agricole deve essere netto. Non occorre diluire l’edificato nel territorio, che altrimenti si rafforza quella sensazione di desolazione prodotta dalla sconfinatezza delle campagne. Se è necessario nelle città metropolitane che hanno bisogno di diradare il proprio costruito in forza di una migliore qualità della vita, è sconsigliabile nei centri agricoli che hanno bisogno di controbilanciare la vastità del paesaggio facendo massa. Tanto più, in un piano già pesantemente condizionato da una normativa ottusa (come lo era già stata per Messina) e “dedensificante”, occorreva intervenire per correggere la tendenza. L’effetto di vuotezza che s’avverte a Gibellina è dovuto in gran parte alla sproporzione tra l’estensione del costruito, il sovradimensionamento dei servizi, e il numero e le necessità degli abitanti. Non è tutto, oltre al rapporto campagna-costruito, sono da tenere a mente i condizionamenti ambientali che hanno caratterizzato nei secoli i centri mediterranei. Un centro compatto e ad alta densità edilizia, significa protezione contro lo scirocco e il solleone, la vicinanza delle fabbriche nei vecchi centri assicura ombra d’estate e riparo d’inverno, le strade che emergono per contrasto sono un intricato dedalo di vicoli (tanto disprezzati dalla scienza urbanistica), e anche l’espressione dialettale vaneddi vaneddi, traducibile con un inefficace “vicoli vicoli”, è il segno di un’immagine talmente radicata nel territorio da trascendere il luogo e contaminare altre grammatiche. Tutto ciò a Gibellina è assente, ed è forse questo suo essere spalmata in orizzontale,

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quest’impossibilità di raggrumarsi, la distanza d’immagine con un’idea del Mediterraneo, ad offendere più di ogni altra cosa il senso dell’abitare, e a fare di Gibellina un’architettura fallita.

Ma pure si potrebbe obiettare che questo abbarbicamento ai luoghi, altro non sia che l’incapacità di andare avanti; che dopo un terremoto, di fronte una tabula rasa, sia un grave errore riproporre modelli passati e quindi inefficaci; che volere costringere Gibellina Nuova dentro i limiti di Gibellina vecchia altro non sia se non un atteggiamento di arido immobilismo; che insistere sul carattere rurale del centro invece di puntare sulla possibilità di costruire, nella città-territorio Belice, un polo industriale e un altro di servizi e infrastrutture, significhi rinunciare a percorrere la giusta via, l’unica che possa riscattare questi luoghi miserabili; o ancora che dopo il terremoto del 1693 non si discusse sulla scelta del principe di Butera o del duca di Camastra, ma che nonostante il piano fosse calato dall’alto, e fosse ugualmente selezionato tra modelli intercambiabili, il tempo diede loro ragione.

A pensare così si profila, però, un parallelismo pericolosamente contraddittorio con l’impostazione partecipativa e democratica adottata a Gibellina, in special modo nei momenti immediatamente più prossimi il disastro; fra un’organizzazione legittimamente elitaria della Sicilia spagnola ed un’altra, seppur velatamente, altrettanto elitaria della contemporaneità capitalistica. Lungi dal questionare di politica, si rileva come in entrambi i casi ci sia una persona o un gruppo di persone cui è affidata la regia della ricostruzione, ma se questo è al più un disvalore per una società pretenziosamente democratica che vuole affidare alle collettività la gestione dell’operazione, è assolutamente ininfluente rispetto le questioni dell’architettura. Ciò ci riporta al problema di metodo.

Qui non si tratta di preferire forme antiche, perché «aurea prima sata est aetas»; tanto più se si considera la totalità della distruzione, e il divieto imposto, a termini di legge, di ricostruire sull’antica altura. Né, come abbiamo detto, per la necessità propria dell’architettura, possiamo aspettare a riconoscerla, in attesa che il gusto cambi, che vorrebbe dire rinunciare a fruirla fino a quel momento. D’altro canto, non essere in grado di trovare alternative formali a quelle della

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tradizione, significherebbe ridurre la poetica dell’architettura ad una meccanica, in quanto la forma esperita, sempre valida, sempre uguale a se stessa, non avrebbe ragione di mutare a seconda del gusto. Invece tutte le forme sono legittime, e il problema non sta tanto nella scelta dell’immagine della farfalla, o di avere ceduto alla «priorità potente del formalismo», quanto nel fatto che la forma non fu declinata nell’ambiente, gesto che avrebbe compiuto la poetica dell’architettura, che deve essere appunto intesa come fare forma nel territorio per l’abitare. Ancora una volta, si è scivolati nell’equivoco e si è scelto di riprodurre un bel disegno, invece di edificare una città. Né sarebbe stato corretto imporre l’isolato quale modello inscansabile, piuttosto si trattava di rendere la nuova tipologia capace di ricreare le medesime relazioni. E non si sta dicendo che per ripararsi dal solleone, dallo scirocco, dalla tramontana, l’unico modo fossero finestre piccole, mura bianche e strade strette, che ci si rende perfettamente conto di come nemmeno i modelli antichi siano più giusti per la contemporaneità, che ha maturato un’identità propria; ma che certamente occorresse studiare delle contromisure, questo sì, era doveroso.

È come se si volesse mettere in discussione la legittimità dei valori storici nelle ricostruzioni dopo i terremoti, che, come tutti quegli altri eventi naturali in grado di generare fratture profonde, fino a intaccare l’identità stessa di un luogo, si pongono quale occasione di rinnovamento. A Noto, si dice, nessuno si curò di quanto andò perduto, ma tutti lavorarono brillantemente, con gli strumenti del proprio tempo, su quanto c’era da fare, e certamente con una maggiore immediatezza e tempestività. Ma intendiamoci, Gibellina Nuova doveva essere una città moderna, condizionata dal gusto del tempo che fu testimone della sua nascita, come parimenti accadde dall’altra parte dell’Isola due secoli prima, quando il Carafa, il Lanza, il Landolina, mecenati e registi della ricostruzione, preferirono forme secondo il proprio gusto. Parimenti è facile immaginare che a qualcuno queste scelte non piacquero, ma non ci furono dubbi sul fatto che Noto, Grammichele, Avola, fossero città, immediatamente abitate, immediatamente rispondenti alle necessità del luogo, pure fra stelle e scacchiere.

La verità è che non ci furono dubbi sui problemi connaturati al piano, primo fra tutti l’aspetto di desolazione che tutte quelle

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casine uguali producevano, fu solo per questo che Corrao mise su la brigata dei cinquecento, che sperò nell’arte.

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CONCLUSIONI

Davanti a tanta sciagura, inutile strapparsi le vesti e levare alti lai. Inutile consolarsi favoleggiando di siti Unesco, interventi europei, aiuti extraterrestri. Per cercare una soluzione dobbiamo analizzare errori, denunciare responsabilità: l’incapacità delle nostre istituzioni di gestire se stesse e di mettere in sicurezza il territorio, l’assenza di una cultura della prevenzione.

Lo scorso 30 gennaio, Salvatore Settis usciva con un articolo su Repubblica attorno la vicenda del sito archeologico di Sibari, in Calabria, coperto dal fango a causa dell’esondazione del fiume Crati. Certamente, da grande intellettuale qual è, Settis insiste sull’importanza del sito come patrimonio sovranazionale, che l’Italia ha l’obbligo di mantenere. Mantenere la città scomparsa di Sibari quale luogo della memoria, memoria quale fondamento del principio d’identità, identità non certo intesa come staticità, ma come valore dinamico che segna i luoghi e gli individui e da questi è a sua volta regolata. Questa grammatica compone l’orizzonte spaziale e temporale, relativo in una parola, all’interno del quale sono condizionati la nostra poetica e il nostro giudizio.

S’osservi il racconto dell’arte figurativa. Essa trova la sua ragione d’essere in quel desiderio classico della rappresentazione della realtà, a seconda, più o meno idealizzata. E solo condividendo un’identità d’ascendenza

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classica possiamo capire e produrre arte della rappresentazione della realtà. L’identità cristiana fece propria l’eredità classica, essendo il cristianesimo, similmente e maggiormente al paganesimo, religione di narrazione: i vangeli sono racconto, Dio è uomo, tutto ciò può essere rappresentato. Al variare delle coordinate temoporo-spaziali il desiderio insieme con l’abilità s’estingue. L’iconoclastia non è altro che il prodotto di una differente premessa identitaria: se in forza della sua storia, l’uomo classico e poi, ancor più, cristiano rappresenta la realtà, certi uomini non classici e non cristiani, non appartenenti alla stessa narrazione, non solo non capiranno né produrranno oggetti di figura, ma combatteranno ferocemente gli idolatri di quell’eresia, ché il rappresentare prima di essere bello e brutto è sbagliato e peccaminoso. Così l’arte sacra poté proliferare nell’Europa cristiana, che nutriva e rafforzava la sua fede nella contemplazione della rappresentazione del dolore (anche questo, come la realtà, ora truce ora sublimato), ma abortì nel Medio Oriente islamico, dove Allah nella sua infinitezza può solamente essere intravisto nella perfezione delle geometrie infinite perenne presenza di quei luoghi; ed è in auge nell’Asia nuovamente iconofila del Buddha, ché raffigurare illusioni in un mondo d’illusioni, accettate senza compromessi né rinunce, non è colpevole, poiché solo in una prospettiva trascendentale esiste la verità.

Il giudizio estetico può quindi, estendersi solamente a quelle forme che riconosciamo (critica), per condizionamenti ambientali e culturali; e parimenti produrremo forme (poetica) in forza dei medesimi condizionamenti. L’identità è quindi un codice che regola le relazioni che s’innescano tra individui e forme; e contamina fra loro poetica e giudizio: non avremmo rappresentato la passione del nazareno se non fossimo stati cristiani, ma non avremmo scelto il cristianesimo se già come classici non fossimo stati naturalmente predisposti al mito e al racconto. L’identità deriva direttamente dalla memoria: non esiste, infatti, identità senza memoria. Perciò conservare la memoria, vuol dire conservare, difendere e trasmettere quel codice che tieni insieme critica e poetica, che è l’identità.