Poem shot vol 1 davide castiglione

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Titolo Poem Shot - Traversate di testi esemplari da 15 autori italiani

di

Davide Castiglione www.castiglionedav.altervista.org

Edizioni a cura di

[email protected] www.poesia2punto0.com

Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

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Poem Shot Traversate di testi esemplari da 15 autori italiani

di

Davide Castiglione

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Premessa

Sono qui raccolte in un unico file (e lievemente riviste, per

adattarle al nuovo medium) le quindici analisi testuali fatte

finora (da dicembre 2012 a giugno 2013) su poeti italiani -

sia contemporanei più o meno noti che classici moderni,

come precisa scelta anti-storicistica - nella rubrica Poem

Shot. Un secondo fascicolo, con le analisi di quindici

stranieri, seguirà nei prossimi mesi, con mie nuove

traduzioni in italiano, stavolta non più di servizio.

Non c’è, in questo mio raccogliere queste prime quindici

analisi, una volontà di “pre-canonizzazione”, sia essa

rivolta ad alcuni degli autori o a me stesso in quanto

critico militante. C’è invece una volontà di ordine e

chiarezza, e di ridare ai Poem Shot il loro spazio naturale - la

carta, dato che tutte sono nate in un file word e destinate

solo in un secondo momento a diventare post in un sito,

necessariamente più corrivi.

Inoltre, mi è sembrato giusto e interessante inserire anche

le considerazioni di Lorenzo Carlucci sulla mia analisi,

ovviamente con il suo consenso. Questa modalità un po’

diversa consente di valutare la vicinanza o lo scarto tra chi

è comunque “esterno” (il critico) e chi è “interno”

(l’autore di una data poesia) e offrire spunti ulteriori.

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Se non sbaglio, fu Pound a sostenere che a studiare

approfonditamente la scrittura di alcuni testi esemplari si

impara assai di più che nel leggerne molti. Non sta a me

valutare se Pound abbia avuto torto o ragione, perché non

è questo il punto: dico soltanto che questa ricetta ha

funzionato - sta funzionando - per me, sia perché si

confanno a un mio modo naturale di fruire la poesia

(analitico, diluito nel tempo, fatto di ritorni), sia perché i

Poem Shot rappresentano, almeno in seconda battuta,

un’occasione per confrontarmi (da autore anche di versi)

con una piccola frazione di quanto di meglio, secondo il

mio senso critico, si sta facendo o si è fatto in poesia in

questi ultimi tempi.

A latere, spero ovviamente che queste analisi siano

d’incoraggiamento per altri critici, perché possano

riscoprire il piacere di misurarsi sui testi anziché sulle

questioni capitali senza prima passare per l’importanza

della lettera; e ai lettori, perché da essi derivino alcuni

spunti da integrare, preferibilmente a posteriori, dalla

lettura il più possibile “vergine” del testo poetico.

Infine, da questo fascicolo ho sviluppato una sorta di

tavola, o mappatura, stilistica: questa non è inserita nel

fascicolo per non appesantirlo, ma sarà disponibile a breve

su Poesia 2.0 e sul mio blog personale.

Buona lettura, o rilettura, insomma.

Davide Castiglione, 5 settembre 2013

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Poem Shot 2: Carlo Bellinvia (1985 - )

Carlo Bellinvia lo lessi anni fa su un sito di poesia – uno di

quelli non selettivi, dove puoi trovarci di tutto nel bene e

nel male – e il suo modo di fare poesia mi colpì molto:

nella sua capacità camaleontica di mutare agilmente stili e

forme poetiche, dagli haiku a poemetti discorsivi, con un

occhio attento a Montale ma almeno un altro verso un suo

superamento.

Corrispondemmo, scrissi dei commenti a una sua raccolta

inedita, poi di lui non ho più saputo nulla, fino a pochi

mesi fa (giugno 2013) quando si è rifatto vivo, con mia

grande gioia.

Di edito, che io sappia, c’è solo la raccolta di haiku Per i

vicoli, macellai di piccioni e spettri di carta (Cicorivolta 2006). Le

sue cose migliori però, secondo me, sono nei testi che

articolano un discorso, una descrizione. È il caso de

L’immobile, che pubblico e commento qui: questo

poemetto è a mio parere uno dei suoi migliori testi scritti

allora – a 22, 23 anni all’incirca.

L’immobile

I.

Dell’aria che esce, dell’aria che entra,

nel blu dipinto di blu, elettrificato ora dai lampi ora dai soli

come siete deviate nel vostro avvivarvi, stagioni scadute, d’inserto in altre stagioni,

e anzi nel vostro scombinarvi in un unico anno minore, il meno certo.

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II.

E il colore e la lozione è nella foglia cinese, il must, il devi esserci d’autunno,

ma qui in città ancora rappresentativa di molti alberi, agli incroci,

e non si usa ormai più la resistenza che la tenga ancora lì affissa in croce;

se cade non si sa in quale oblio: inesistenti funerali di incarnati gialli,

solo morti promiscue di antichi bianchi. Fogli-nunzi, rivangati dal vento-becchino.

III.

Sopra le ringhiere, ancora decidono le ere le podarcis appassite

al loro milionario appuntamento, per remoto retaggio, col raggio garibaldino

dell’immaturo sole di marzo. Tutta la tetralogia primaverile è posta quasi in dubbio

dallo sfarzo dallo sfocio del ramarro dalla sterzata dal suo innescato contropiede.

Per inferiorità realizza l’autogoal: s’allenta colla fitta rete della verdura sventolata,

da ultrà difensivista. Sarebbe però irragionevole presagio invernale

se i suoi passi indietro contassero come giorni. Dagli al ramarro letargista- repubblicano!

IV.

Che, se torni, dal balcone si vede, la macroscopica calligrafia, a lettere chiare, del mare

che a branco ora si smembra o continuo, bianco suo autografo oppone

-la sua biografia discorre nella distesa, non solo nelle disperate profondità o nel cielo che vi si replica-

e gode nel poter accostare la culminata lingua all’inguine della spiaggia ultima:

mi varrà come bramosia, d’estate, ma siamo in marzo, appunto.

V.

Così, tutta sommata, mi piace questa nostra minima dimensione

che volge al male, questa mezza glaciazione, totale desertificazione

di simboli, di sentimenti. Dici che la Coca-Cola resterà: non menti. Pure Paperino,

timbrato senza narici (per orrore pop), anche senza olfatto la scamperà lo stesso.

Invece adesso scattista sulla già brevissima distanza

è il tempo nei riguardi dell’abitante della mia stanza.

Tutta la sequela si ricomincia da tutti o da nessuno,

da me o da te o dal responso assoluto

della pietra che suscita acqua.

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Le stagioni sono un topos letterario: difficile non trovare

chi non ne abbia scritto. Precedenti novecenteschi illustri

sono Eliot (il ciclo stagionale alla base dell’architettura de

La Terra Desolata) e anche il tardo Montale, che intitola Le

stagioni una delle più riuscite poesie di Satura.

Se riduciamo una poesia al suo tema (nucleo semantico o

matrice, secondo Riffaterre), la distruggiamo: è il limite di

tanta critica contenutistica e solo tematica. Invece, la

grandezza o almeno la bravura sta quasi tutta in superficie,

nella struttura linguistica e discorsiva del testo. Vediamo.

D’impatto, colpisce l’estensione dei versi liberi, la cui

struttura ‘agglutinata’ è memore di grandi precedenti del

secondo novecento (Sereni, Luzi, Bertolucci,

Pagliarani…). In particolare, la punteggiatura scandisce il

dettato in unità minori, alcune delle quali a loro volta

scandibili – e scandite, alla lettura – come versi lunghi

composti (vd. il primo verso della sezione II).

Le rime interne – in sordina, come voleva Montale – sono

funzionali a complicare e rilanciare il verso lungo,

solitamente spia di un’attitudine affabulatoria e discorsiva.

È infatti sul piano dell’inventio discorsiva che la poesia

mostra una considerevole varietà nell’unità, un intarsio che

la rende omogenea ma increspata e avvincente al tempo

stesso. Alcuni esempi: in I, verso 1, il complemento

d’argomento in stile trattatistico (Del…) contrasta

ironicamente con l’ovvietà tematica (aria che esce, aria che

entra), che a sua volta è complicata dai riferimenti alla

cultura popolare (la celeberrima canzone di Modugno).

Questo stile ‘distaccato’ cede poi il passo a un’inflessione

elegiaco-nostalgica, con il vocativo (come siete deviate, I, v.3).

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Nella sezione II, il topos – pochi ve n’è di più triti – della

foglia d’autunno e della morte è riciclato in un

immaginario contemporaneo, coi riferimenti al

consumismo, alla cultura dell’esserci (must). C’è una voce

che parla e che descrive, un ‘io’ ragionante ma per nulla

sovraesposto in termini emotivi: c’è un mescolio di

disincanto eppure di continua attenzione.

In III – notare intanto l’insistenza delle consonanti liquide

‘l’ e ‘r’, le rime interne e le fricative sorde ‘z’ e ‘s’ – un

dettaglio (‘continua attenzione’, appunto), il ramarro di

montaliana memoria, fa cadere, squarcia l’ordine degli

eventi, come il singolo è talora irriducibile alla

generalizzazione.

In IV mare e scrittura si compenetrano – la mia memoria

non può non andare al poemetto di Sereni “Un posto di

vacanza” e anche a una poesia di Williams, tradotta da

Sereni, in cui le onde sono descritte come parole:

“frangersi d’onde come di parole”, e forse anche Shelley e

la tradizione romantica in generale – salvo poi che un

unità colloquiale come ‘appunto’ chiude il pur trattenuto

slancio lirico dell’imagery appena tracciata.

In VI, infine, infrange appena l’impersonalità modernista

del poemetto presentando una figura umana – il poeta

stesso – mediante perifrasi straniante (abitante della mia

stanza: come se l’esserci fisicamente, l’occupare spazio sia

una delle poche cose incontestabili). Nel – per me –

bellissimo finale, che combina pietra e acqua (anche qui,

torna in mente Eliot, certo Williams, ma anche, nel tropo,

le poesie di Laura Biagini postate su “Le parole e le cose”

il 9 dicembre 2009), nell’affermazione di una verità

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oracolare, in netto contrasto con i riferimenti bassi, ‘pop’

della Coca-Cola e di Paperino. Tutto questo a poco più di

vent’anni: e scusate se è poco.

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Poem Shot (4): Paola Tomasiello (1981 -)

Anonimia è una poesia di Paola Tomasiello, come Carlo

Bellinvia altra poeta pressoché inedita e con cui ero in

contatto, avendone, poi, perso le tracce.

Ricordo che quando la lessi, mi colpì come poche poesie

avevano saputo colpirmi prima. Gli anni, le nuove letture,

un maggior disincanto, perfino un mio cambio di poetica,

non sono bastati a non farmi credere ancora in un testo

così.

Anonimia

Mia frontiera di volti in comunione,

che abbiano inizio gli scavi.

Presto ritroverò

aorta emaciata e occhi elisi.

Forse qualche rosa.

Sognando, a volte,

la fossa che mi sorprende.

Ché sui margini sociali

ancora non mi volto.

E annuso furia primordiale.

Venerata sodomia

di bestie inconsapevoli.

Non una sola lettera, segno, simbolo

a rivoltare questo bianco vuoto.

Limite cellulosico muto.

Dopo la sepoltura,

luce e terra solenni abbastanza.

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Così me ne andrò

con bava artificiosa su labbra di graniglia

e il terrore di disturbare

sudicio sotto le unghie,

austera,

elio inerte.

Tra condotti di qualcuno

io, in acque conseguenti,

scoglio allusivo.

L’esperienza della propria morte (aporia linguistica, poiché

non possiamo avere esperienza della nostra morte) è

fissata lucidamente, come strumento conoscitivo e

indagatore del Sé: una prefigurazione che ha precedenti

illustri (penso alla bellissima Le sei del mattino di Vittorio

Sereni, dove parla di una casa visitata dalla mia fresca

morte; a Sereni rimanda anche la parola frontiera e il tono

cupo ma stoico del dettato).

La presenza di una voce poetica, di un io che articola il

discorso e la rende presente, tangibile – a partire dal

generico vocativo che apre il testo – ci accoglie, ma con

responsabilità e senza morbosità, senza far leva su

un’emotività spicciola ed esibita, limite maggiore di molte

poesie cosiddette confessionali.

Non mi sembra, questa poesia, una di quelle che ci spiano

guardandoci e riguardandoci gli ormoni, come ha scritto

con arguzia (e con ragione) il poeta Leopoldo Attolico

(vd. Poem Shot 15).

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C’è un senso di calma ineluttabilità, una certezza che viene

come liberazione (Presto ritroverò, a contraddire il

concetto di perdita associato alla morte).

Mi sembra indubbio che proprio l’articolazione della voce

(più concretamente: la lettura a voce, suggerita dalla

disposizione delle virgole, dei fine-verso, della struttura

degli enunciati, spesso nominali ed ellittici) dia a questa

poesia un’aria di incontestabile autenticità.

Ma c’è molto altro. Il tessuto semantico del testo è infatti

più complesso di quanto faccia apparire questa dizione

composta. Cerco di rintracciarne alcuni fili, che spero

vogliate seguire insieme a me.

Anzitutto, vedo una sorta di sottilissima e appuntita ironia

(eppure smorzata da un senso di pathos, di vera

partecipazione) nell’uso dell’espressione in comunione:

comunione nella morte, nella separazione. Da un lato un

fattore antropologico, cioè la coesione sociale garantita

dalle cerimonie funebri; dall’altro però, in filigrana, la

constatazione che questa comunione è una frontiera,

qualcosa da raggiungere – evento impossibile, data la

morte immaginata ma accuratamente descritta – e al

tempo stesso, qualcosa che frena.

Il secondo verso può essere ferocemente letterale, ma

scavi è parola associata alla ricerca, a un’attività (lo scavo

del poeta nella sua lingua: questa metafora di “poesia =

scavo” è abbastanza assestata). Ed ecco che la morte

immaginata si fa occasione di azione, segnalata dai

frequenti verbi in prima persona (ritroverò, annuso, me ne

andrò), e l’anonimia dello scomparire (e del titolo) è

contraddetta dalla drammatica messa al centro del

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soggetto, unico, vero – paradossale – superstite della

scena. Si veda inoltre come le parole formino patterns

semanticamente coerenti: da fossa (v. 7) si passa a margini

(v. 8), con un transfert semantico (da senso letterale a

senso metaforico corrente) garantito da una inclusione

metonimica (la fossa è caratterizzata da margini). La terra

(della sepoltura) è poi replicata, nella seconda strofa, in

terrore, non solo per l’inclusione anagrammatica, ma

soprattutto perché i predicati che lo descrivono (sudicio e

sotto le unghie) derivano entrambi da terra.

Un’altra potente risorsa di questo testo, infine, è nello

scontro concreto-astratto, tipico di molta poesia

espressionista e neo-ermetica (alla De Angelis, per

intenderci) rilevabile in questa tensione tra terra e terrore,

e più ancora in scoglio allusivo, sorta di sintagma

ossimorico in posizione di rilievo (a chiusa del

componimento); senza contare poi la ricerca

fonosimbolica, che collega a distanza aorta emaciata e

occhi elisi con austera, elio inerte, a creare un sotto-

sistema in cui la morte (ora vista come metonimie del

corpo, connotate da una attenta scelta aggettivale) viene

risarcita con una bellezza estetica che però non tradisce e

non traveste la verità della constatazione (cioè, lavora

sempre entro i limiti di una certa verosimiglianza).

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Poem Shot (6): Lorenzo Carlucci (1976-)

La comunità assoluta (Lampi di stampa 2008), di Lorenzo

Carlucci, è un libro che sono tornato a rileggere

quest’estate, trovandoci grande varietà di forme e un

primitivismo quasi aggressivo, stralunato, l’uso del non-

sequitur, la commistione di didattico e lirico. Forse, tra

tutti, il testo che più mi si è impresso nel ricordo - già dalla

prima lettura quasi quattro anni fa - è enespace10 qui

sotto, che certo ripropone molti aspetti, anche formali,

dell’intero libro.

enespace10

Tra una pattumiera e un distributore, su una panchina rossa.

La mia vita è uno straccio.

E’ evidente, il mio cuore ti accoglie come un cielo.

La panchina è rossa come il distributore.

E’ evidente che le buste della spesa mi segano le dita.

Evidente.

Io ti accolgo nella mia vita straccio perché sono vuoto.

Sono per voi.

Le mie mani sono vuote. Il mio petto respira il respiro del cielo.

Le mie mani sono vuote, il sangue è rosso come questa panchina.

Voi andate, avete sangue. Andate.

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Tra una pattumiera dalla quale mi aspetto che esca

il viso di uno scoiattolo

un topo

un uccello

e un distributore dal quale mi aspetto che esca

una coca-cola

mi fumo una sigaretta e la butto per terra a metà.

Il mio respiro è uno straccio, voi mi attraversate.

Il mio petto è attraversato dalla sigaretta

fumata a metà

che butto per terra.

Questo silenzio è insopportabile. Andate.

Lo stare seduto sotto lo straccio del cielo

è insopportabile. Venitemi a prendere.

Dalla pattumiera dalla quale mi aspetto che esca

il viso di uno scoiattolo sporco

non esce nessuno. Voi andate.

Continuate a vendere piante lungo una porta a vetri.

Le mie tasche sono vuote.

Pago ogni piantina con una malattia.

Venitemi a prendere.

Dal distributore dal quale mi aspetto che esca

una coca-cola

esce una coca-cola.

(Da La comunità assoluta, Lampi di stampa, 2008)

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Cominciamo dal titolo, che graficamente camuffa –

tramite abolizione di spazio bianco – l’espressione

francese mise en espace, derivata da mise en scène, e che

rispetto a quest’ultima non ha le stesse pretese di

verosimiglianza e sofisticazione: più un bozzetto

semplificato ma tridimensionale, come da installazione.

La descrittività preparata dal titolo viene messa in atto dal

primo verso, formato da due indicazioni di circostanza

spaziale tramite sostantivi indicanti cliché urbani:

pattumiera, distributore, panchina. Come un dipinto di

Hopper.

Dopo questa inquadratura senza soggetto, ci

aspetteremmo lo svolgersi di un’azione – e invece il

secondo verso vira in un tono patetico-confessionale

veicolato da una frase fatta (La mia vita è uno straccio);

l’ironia risiede nella possibilità di leggere letteralmente

questo verso, perché straccio è nello stesso paradigma

situazionale di pattumiera. Ironia che diventa palese, quasi

sfrontata, nel verso successivo: È evidente, il mio cuore ti

accoglie come un cielo. Da una parte, l’insistenza sull’io

confessionale – ma destrutturato perché sovraesposto,

come in Frank O’ Hara – crea continuità; dall’altro,

l’antipoetico È evidente, a metà tra didatticismo e

rimprovero, cozza con l’esposto poetismo della vita che

accoglie come un cielo. Con questa mossa, il poetese è

invalidato ma così anche l’appoggio pseudo-scientifico

all’empirismo dell’evidenza, ulteriormente svalutata (come

molte altre cose) dalla sua ripetizione ossessiva nel corso

del testo.

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Come nella Pop Art, l’appeal popolare (cuore, vita, cielo) è

sorretto da una fine ironia e autoconsapevolezza

avanguardistica. La svalutazione insita nella ripetizione, sul

piano strutturale, può forse essere accostata – pur con

qualche mio timore di sovra-interpretazione – alla

riproducibilità dell’opera d’arte di cui ha scritto Benjamin.

Il discorso corrosivo si impunta poi contro la mistica

dell’accoglienza, contro – mi sembra – l’epigonismo

esausto di una tradizione alta culminata in Heidegger e

Celan (io ti accolgo… perché sono vuoto). Il bello, però, è che

nemmeno a quest’ironia postmoderna possiamo dare

intero credito, perché – in questa poesia, ma anche in

molti punti del libro – c’è davvero un’inflessione umana,

lacerti di testo che suonano autentici.

Voi andate, avete sangue è uno di questi; e altri corrono

comunque sul filo tra ironia e paradossale autenticità. Il

primo movimento si conclude in un rimescolamento degli

elementi (ritroviamo la pattumiera e il distributore) e in un

finale in sordina, tipico di certa narrativa novecentesca: un

finale che fa di tutto pur di non essere memorabile.

Il secondo movimento riprende, per via di elementi di

coesione testuale, il primo: segnatamente, la sigaretta

fumata a metà.

L’io che parla davvero sembra svuotato, contraddittorio

(Andate, ma poi Venitemi a prendere). Il finale, nel suo

understatement, è eloquente: il coincidere di desiderio e

realtà (Dal distributore dal quale mi aspetto che esca / una coca-

cola / esce una coca-cola) può avvenire, e allora, per quanto

amara, l’eliminazione della sorpresa si contrappone

comunque al nulla dell’angoscia beckettiana di prima (non

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esce nessuno) e così la ripetizione dell’uguale (l’immobilità

che struttura tutta la poesia mediante il riuscitissimo gioco

di ripetizioni e variazioni che chiunque può verificare da

sé) è salvezza e condanna al tempo stesso.

Cosa ci salva da questo stallo, da questo eterno ritorno

dell’uguale? forse la consapevolezza, amarissima, di pagare

ogni piantina con una malattia, la consapevolezza che l’unico

tratto quasi libero della poesia (non imprigionato dalle

ripetizioni) è il verso – con funzione di discontinuità –

continuate a vendere piante lungo una porta a vetri, che sembra

uscire dall’asfissia desolata e un po’ caricaturale della

scena: libero è il capitalismo, da intendersi non solo

economicamente ma anche antropologicamente (vendete),

prigioniero tutto il resto (le tasche vuote ben riflettono

l’avvenuta foga dell’acquisto, il pagare, anzi: il pagarla).

Questo mi sembra il sunto, il nocciolo del testo – se poi

verrò ammonito e contraddetto dallo stesso Carlucci per

questa mia appropriazione indebita, tanto meglio: se ci si

accoglie, proprio vuoti non bisogna essere.

Appendice: due risposte di Lorenzo Carlucci

Caro Davide Castiglione, ho trovato poco fa per caso la

tua lettura del mio testo “enespace10”. Ti ringrazio per

l’attenzione (spassionata, i.e., appassionata). Ho trovato

molto piacevole la tua analisi, e in grandissima parte esatta

e acuta. Mi ha illuminato su alcuni aspetti del mio testo e

perciò te ne sono grato. Mi sono molto compiaciuto dei

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tuoi rilievi sulla funzione di certi espedienti lirici e, di

contro, avanguardistici, come quando scrivi: “Con questa

mossa, il poetese è invalidato ma così anche l’appoggio

pseudo-scientifico all’empirismo dell’evidenza,

ulteriormente svalutata (come molte altre cose) dalla sua

ripetizione ossessiva nel corso del testo”, oppure: “Il

bello, però, è che nemmeno a quest’ironia postmoderna

[…] possiamo dare intero credito”. Questo doppio

movimento - di liberazione da un doppio vincolo - è

quanto di più bello io possa immaginare.

Per il resto, “un certo fauvismo aggressivo ed esibito” è

forse il limite di quel libro, ma è (stato) un tratto

inaggirabile del mio carattere in gioventù. Contiene però

un elemento essenziale, quello pulsionale, che è meno

transitorio e altrettanto centrale. L’aggressività che rilevi,

insieme alla posizione dei problemi (esistenziali, etici,

filosofici, etc.) in una dimensione pulsionale è

probabilmente una caratteristica essenziale di quanto ho

scritto e scrivo. (Proprio oggi ho passato la mattinata a

leggere il capitolo “Pulsioni e difese” di “Il secolo

inquieto. La formazione della cultura borghese (1815-

1914)” di Peter Gay!) Questo aspetto viene molto bene in

luce nella tua lettura della chiusa della poesia: “Il finale, nel

suo understatement, è eloquente: il coincidere di desiderio

e realtà […] può avvenire, e allora, per quanto amara,

l’eliminazione della sorpresa si contrappone comunque al

nulla dell’angoscia beckettiana di prima (“non esce

nessuno”) e così la ripetizione dell’uguale (l’immobilità che

struttura tutta la poesia mediante il riuscitissimo gioco di

ripetizioni e variazioni che chiunque può verificare da sé)

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è salvezza e condanna”. Capisco leggendoti che questa

coincidenza di desiderio e realtà è la mia versione di ciò

che si può chiamare una “tautologia estetica” - o una

“estetica della tautologia” se vuoi – una forma che è

presente in diversi altri poeti della mia età. Per esempio

prendi questa chiusa di Valentino Ronchi (da: “La Casa di

Ostiglia”, Canzoni di Bella Vita): “[…] A un piccolo market

ho preso pane / e affettato e una lattina colorata. In

piazza all’ombra / ho mangiato e bevuto. Ecco, è tutto

così, ecco è tutto qua”. Qui è in forma più ontologica o

fenomenologica (e - almeno apparentemente - più

pacificata) mentre nel mio testo è in forma più pulsionale

e meno risolta (come tu scrivi: “è salvezza e condanna”).

Ma probabilmente le due istanze sono commensurabili.

La tua conclusione (“libero è il capitalismo (“vendete”),

prigioniero tutto il resto (“le tasche vuote” ben riflettono

l’avvenuta foga dell’acquisto, il pagare, anzi: il pagarla)”)

mi ha stupito e a tutta prima non mi ha convinto,

soprattutto per la sua dimensione esplicitamente politica, a

me davvero estranea. Ma con un po’ di riflessione ho

potuto riconoscerle una certa esattezza. Ricordo che la

poesia è stata composta su una panchina (rossa) all’uscita

di un K-Mart in un centro commerciale in un paesino di

provincia degli Stati Uniti. Le tasche vuote erano per me

un semplice correlativo oggettivo dell’io svuotato, ma

effettivamente avevo appena fatto la spesa (e nella poesia

si parla delle “buste della spesa”). Cosicché le tasche vuote

sono anche l’indice di un’azione compiuta: comprare,

pagare. Dunque hai di fatto ragione, e tanto più in quanto

accenni a una dimensione morale del pagare, seppure di

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sfuggita: “il pagare, anzi: il pagarla”. Preferisco leggere il

“pagare” in questa prospettiva etica. Analogamente, non

intendevo indicare il “capitalismo” come unica forma

possibile di libertà, quanto contrapporre il fluire di una

comunità viva (che ha “sangue” e “piante” da vendere) ma

indifferente (“continuate”) alla stasi di un individuo

irretito in una meccanica di vacuità e vacua accoglienza

perché non sa (ancora) bene cosa farsene della sua

“consapevolezza”. Che questa comunità fosse una società

capitalistica ha un che di accidentale, ma certo non

trascurabile.

**

Caro Davide aggiungo una glossa a quanto ti ho scritto

ieri: "La tua conclusione (“libero è il capitalismo

(“vendete”), prigioniero tutto il resto [...] mi ha stupito e a

tutta prima non mi ha convinto, soprattutto per la sua

dimensione esplicitamente politica, a me davvero

estranea." Non posso certo sostenere che una dimensione

politica in senso lato sia assente da un libro che ha per

titolo La Comunità Assoluta: intendevo dire che mi è

estranea (almeno in quel libro) ogni forma di esplicito

schieramento politico o di predilezione per una forma

economica rispetto a una qualunque altra. Che io fossi

immerso in una società decisamente capitalistica durante la

stesura del libro è un dato oggettivo e non il frutto di una

scelta, decisione, o predilezione.

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Poem Shot (8): Alessandra Cava (1984 -)

Avevo già letto in rete qualcosa di e su Alessandra Cava,

giovane poetessa la cui ascendenza rosselliana è stata

puntualizzata dalla postfatrice al volume, la critica Cecilia

Bello Minciacchi, e condivisa da Stefano Gugliemin, tra gli

altri. Ci sono tornato grazie a “I poeti sono vivi”, che l’ha

ospitata pochi giorni fa, abbastanza in conflitto con il

genere di poesia postata lì solitamente. Riporto la poesia in

questione:

oggi è un sole lungo, uno sguardo di notte bianca –

natura mi scosta, mi ignora: di sicuro la offende

il mio amore d’interni, di tubi, di tetti, di vetri all’incastro;

ma poco le basta, quel poco che afferra alle spalle

con passi d’altalena, quando sbaglia e prende aloni d’inferno,

quando pare artificio, un inganno, uno schermo

e m’attendo si spenga – processo d’infrazione del mondo, nulla

che raduna i suoi pezzi, così il mio seguire una parola

con altra in spazi di vuoto – ecco me allora, a chiedere di quale

tessuto è il ricordo, di quale s’intreccia, se è uguale, uguale

il colore – ecco allora l’immagine fatta di niente, ecco che arriva,

ecco, col suo bagaglio di niente – si sta a scrivere

allora, si sta in angolo stretto, si sta –

(Da rsvp, Polimata, 2011)

Page 29: Poem shot vol 1 davide castiglione

21

La poesia è quasi un unico momento sintattico, se si

escludono i vv. 1-3 (constatazione in forma affermativa +

micronarrazione di un rapporto tra natura e io poetico), la

sintassi è paratattica, procede per addizioni spesso

appositive, la versificazione lunga e la grande quantità di

inarcature sottolineano questa prosodia ansiosa, che

sembra crescere per poi implodere in un finale tanto

marcato stilisticamente (la ripetizione di sta con variazioni

nell’uso da un’occorrenza all’altra) quanto in sordina nel

suo contenuto letterale, che si limita a ripetere un dato

banale in forma impersonale e perciò collettiva (si sta a

scrivere).

È la banalità del dato enunciato che però racchiude

un’intera poetica, quella del limite riconosciuto

dolorosamente ma non accettato, che qui mi pare di

intravedere: un carico di angoscia esistenziale anche

sottolineato dal procedimento stilistico a cui ho prima

accennato.

Perché inizio questa mia lettura dalle strutture (sintassi e

verso, ritmo)? Perché ancora più dei motivi (lessico, temi)

esse indicano un modo di porsi, perciò vi si rinuncia meno

volentieri che a un certo lessico (e da qui la compattezza

stilistica della maggior parte delle raccolte oggi in

circolazione).

È alla forma di questa poesia per come l’ho

sommariamente descritta che si lega infatti spesso

l’interrogazione ansiosa e insoddisfatta; la quale, a livello

enunciativo, è accentuata dalle innumerevoli ripetizioni,

tendenzialmente di parole singole e che qui mi sembrano

più vicine all’uso che ne fa Sereni piuttosto che Rosselli:

Page 30: Poem shot vol 1 davide castiglione

22

sono marcatori psicologici più che intere serie svuotate

dalla loro ripresa ossessiva, da ventriloquo.

Sul piano del contenuto, si profila una duplice

opposizione: Io poetico vs. Natura, e Natura vs. Artificio.

Del resto, come ha notato il critico strutturalista

Riffaterre, la poesia è sempre attratta dalle opposizioni

polari, e le declina come variazioni degli stessi ossessivi

elementi-base.

Vediamo il primo contrasto: anzitutto, l’Io poetico è quasi

sempre paziente, non agente semantico. Vale a dire che

subisce l’azione anziché compierla (mi scosta, mi ignora).

Quando diventa agente, rimane passivo (m’attendo, mio

seguire, ecco me allora), come una contingenza. All’opposto,

la natura compie pressoché tutte le azioni elencate nella

poesia, veicolate spesso da verbi ‘forti’ (scosta, offende,

sbaglia, prende).

Quanto al secondo contrasto, la elencatio del verso 3 offre

un piccolo campionario dell’artificiale inizialmente

opposto alla natura (che infatti si offende). Eppure la

natura, quando sbaglia (viene in mente lo sbaglio di natura

montaliano) può farsi o sembrare artificio, schermo e

inganno (v. 6). In questo modo è come se il conflitto si

risolvesse in una identità tra natura e soggetto, poco

importa se amorfa e disorganica (nulla / che raduna i suoi

pezzi [...] così il mio seguire).

Notare, nel passaggio appena riportato, anche la sua

ambiguità sintattica e semantica, a racchiudere una

contraddizione nello stesso enunciato: 1. Niente raduna i

suoi pezzi o 2. Il nulla che raduna i suoi pezzi; la stessa catena

sintagmatica nulla che è in De Angelis, nella poesia Nei

Page 31: Poem shot vol 1 davide castiglione

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polmoni: nulla che / fu soltanto materia. Così il nulla,

tematizzato e replicato in immagine fatta di niente [...] col suo

bagaglio di niente (perifrasi per la poesia stessa?) porta alla

scrittura, interpretata e vissuta come atto passivo (come

dettatura: posizione orfica per eccellenza).

Elementi che concorrono a fare di Cava – in questa

poesia, ma probabilmente anche nelle altre – una voce

lirica e tragica, e dove però la posizione del soggetto è

meno centrale che in Rosselli (dove l’io grammaticale è

invece spesso nel focus dell’informazione) e, se posso

osare, quanto detto sembra arrivare con molta meno sfida,

come umile ricognizione su di sé.

Chissà in che modo si evolverà questa poetessa a me

coetanea: chissà se all’intensità ritmica e figurativa, a

questa raffinata ma selvaggia autenticità si aggiungerà

anche un allargamento prospettico dei temi, un maggiore e

polifonico intrecciarsi di verticalità-orizzontalità.

Page 32: Poem shot vol 1 davide castiglione

24

Poem Shot (10): Gregorio Scalise (1939 - )

Per esperienza personale, arrivo a leggere alcuni poeti in

quanto citati da altri poeti o critici che ammiro, come in

una costellazione regolata da una legge interna. Così

Sereni (vd. poem shot 11) mi ha portato a Fortini, uno dei

suoi critici più acuti; e Fortini mi ha portato a leggere

Gregorio Scalise, per cui Fortini ha parole

d’apprezzamento – fatto di per sé significativo – in un

libretto avvincente e caustico chiamato, se non ricordo

male, 36 moderni.

Mi affretto allora ad acquistare Opera-opera, significativa

auto-antologia del poeta edita per Sossella, una delle case

editrici a cui mi sento più affine nelle scelte di poetica.

Le mie aspettative non sono state tradite (benché l’ultima

parte degli inediti mi sia parsa più prescindibile, più

adagiata su meccanismi già esautorati rispetto alla prima

parte di versi editi). In particolare, mi hanno molto colpito

alcune poesie all’inizio del libro: La casa dei poveri è una di

queste, e allora cerco di capirla meglio analizzandola qui

sotto.

La casa dei poveri

Nelle case dei poveri c'è sempre una tavola

e sopra una lampada

che illustra un autografo,

vivono vespe tra le assi

dicono di contribuire alla leggibilità del padre,

Page 33: Poem shot vol 1 davide castiglione

25

ma non c'è né luce, né telefono,

il frigorifero vuoto

arde sopra un'aiuola, impressiona per la sua

mancanza di formule

la vita che si complica di fanatici,

sotto la sua gaia demenza

si ascolta la critica delle sue premesse

e gira come una macina

trascinata da rozzi cavalli

sempre quella lampada segue la filigrana

della neve, fra sassi e pubblico potere

(Da Opera-opera, Sossella, 2008)

Di questa poesia mi colpisce un contrasto tanto

immanente al testo quanto proprio per questo impossibile

da individuare in un luogo testuale piuttosto che in un

altro: il contrasto tra una dizione neoclassica, nitida, e un

concatenarsi analogico, surrealista di immagini (referenti).

Forse per questo, stilisticamente, questa e altre poesie mi

riportano al De Angelis di Somiglianze (per es. la chiusa di

Ogni metafora: “dove un millennio ha esitato / tra cedere e non

cedere / perdendosi sempre tardi, e con intelligenza”).

Non so se ci sia una contaminazione reciproca, una

convergenza indipendente oppure se l’influenza abbia una

direzione (Scalise De Angelis o De Angelis Scalise):

bisognerebbe appurarsi delle date di composizione di

entrambi i componimenti, cosa che qui non posso fare.

Page 34: Poem shot vol 1 davide castiglione

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La dizione neoclassica è evidente nella metrica, spesso

affidata a settenari (anche doppi, come nel verso d’incipit)

e spesso sdruccioli (vv. 1, 2, 3, 6, 9, 10, più alcuni

sdruccioli interni), con una presenza sempre più rada man

mano che ci si avvicina alla fine del componimento.

Dove la semantica surrealista del testo increspa la dizione

neoclassica è probabilmente nel respiro sintattico, che

accompagna quest’esuberanza delle immagini (su cui

tornerò dopo) senza mai apporre un punto fermo,

rimandando al punto finale lo sciogliersi della tensione,

non diversamente, da questo punto di vista, da quanto

visto in Alessandra Cava, (poem shot 8), e Louis García

Montero (poem shot 9, non in questo fascicolo).

Dicevo del surrealismo. E in effetti, se la vulgata del

surrealismo vuole un accostamento imprevedibile e

arbitrario d’immagini (ma non è così: Riffaterre, ad

esempio, ha mostrato come il testo surrealista risponda a

delle logiche ferree, mentre speculare sulla consapevolezza

autoriale è un esercizio irrilevante), qui troviamo un’intera

catena di accostamenti a-logici, cioè non appartenenti allo

stesso campo semantico né allo stesso dominio

esperienziale (quale si avrebbe se tutti i referenti

appartenessero a un paradigma situazionale, del tipo: bar,

caffè, zucchero, giornale). Cosa c’entrano, per esempio, il

frigorifero, l’aiuola, la mancanza di formule e la macina,

tra loro?

Troppo facile, e troppo praticato dai critici, liquidare il

testo come volutamente nonsense: è quanto, ad esempio,

è accaduto a “RicercaBo”, dove il critico Renato Barilli

contestava a Manuel Micaletto che Hobbes e i cefalopodi

Page 35: Poem shot vol 1 davide castiglione

27

nella sua poesia non avessero nulla a che fare, e quindi che

ci fosse arbitrio (o una generica “intuizione”) e non logica

in quel passaggio, come invece sosteneva, a difesa

dell’autore, Simona Menicocci. O come – ne ho avuto

conferma l’altro ieri durante una conferenza – un critico,

Eagleton, abbia contestato a Dylan Thomas che non esiste

un round pain, un dolore rotondo.

Tutti questi fallimenti della critica (non c’è dubbio che

siano, oggettivamente parlando, fallimenti, perché anziché

essere esplicativi diventano prescrittivi) derivano dal voler

forzare il testo a una conformazione referenziale, come

giustamente Riffaterre, nell’arco della sua carriera, ha

denunciato.

Ma torniamo, dopo questa piccola benché giusta

digressione polemica, alla poesia di Scalise. L’irrelatezza

delle immagini chiede di essere ricostruita dalla sintassi e

dal tono discorsivo (non lirico-evocativo, dunque) che

suggerisce di prendere sul serio questa apparente

mancanza di senso. E allora, se capire significa “fare

senso” (to make sense), fare senso significa legare insieme:

vediamo allora cosa si può legare insieme senza troppo

arbitrio, e quali zone rimangono in ombra, come un

residuo di arbitrio potenzialmente significante (finché

qualcuno più acuto di me vedrà una concatenazione che a

me è sfuggita, anche per mancanza di adeguati supporti

extratestuali).

I primi 4 versi sono, tutto sommato, coesivi: ci immettono

in un’ambientazione familiare e vagamente archetipica

(attenzione a quel sempre): le case dei poveri come categoria

omogenea, la tavola e la lampada come arredo minimo che

Page 36: Poem shot vol 1 davide castiglione

28

nemmeno lì può mancare, e le assi (che possono essere

della tavola ma anche del soffitto: perché un soffitto c’è

sempre, anche nelle case dei poveri).

Ecco però alcuni elementi disturbanti: l’autografo e le

vespe. Le vespe, sul piano referenziale, sono giustificate

dalla presenza delle assi, che entrano nello stesso ambiente

(casa dei poveri) e che con tavola condividono lo stesso

materiale (il legno). Si potrebbero interpretare come

dettaglio realistico aggiunto, o come indice di abbandono

dell’uomo. Ma a livello simbolico, sembrano introdurre

una minaccia: le vespe pungono, e a differenza delle api

non producono nemmeno il miele, quindi non sono

asservibili all’uomo. E veniamo all’autografo. Che non è

fuoriluogo a livello di referente (l’autografo è il

manoscritto originale di un’opera, come sanno bene i

filologi: è quindi un pezzo di carta scritta), ma di registro:

nel lessico di base dell’incipit (poveri, case, sempre,

tavola… quasi “l’arte povera” con cui Montale tracciava

un parallelo tra un certo tipo di pittura e la sua poesia da

Satura in poi) introduce un elemento di specializzazione.

L’autografo implica un autore (non possiamo certo dire

che la lista della spesa sia un autografo!), e quindi

introduce la figura del poeta per via metonimica.

Altre spie coesive testuali rendono il testo più compatto di

quanto appaia a una prima lettura: il frigorifero che arde non

è altro che l’esplicitazione di un ossimoro (cfr. Petrarca:

“et ardo e sono un ghiaccio”), impressiona è un calembour che sta

sia per “stupisce” sia per “lascia traccia” (cfr. la pellicola

impressionata, e qui la filigrana). O si veda, negli stessi

versi, la costruzione sintattica ambigua (“garden path”, la

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29

chiamano gli psicolinguisti) per cui a impressionare è sia il

frigorifero che la vita.

Critica richiama sia la critica testuale e filologica (cfr.

l’autografo) che quella contro la gaia demenza del caos

moderno (vedi sotto). Il fatto che giri come una macina, oltre

a richiamare un elemento di tortura, risponde a un suono

sgradevole (e che però si ascolta). È difficile che anche solo

una parola sfugga dalla rete delle relazioni: tutto torna,

anche se sembra non tornare a una prima lettura.

E a proposito di versi che (non) tornano: il verso 5 è tra i

più oscuri della poesia: in che senso le vespe dicono di

contribuire alla leggibilità del padre? Perché il padre, e

perché leggibilità? L’unica lettura che mi sembra tenere è

questa, ottenuta per inferenze sullo sfondo della lingua

abituale: vespe implica “nido” (cfr. il sintagma “nido di

vespe”), e “nido” è parzialmente giustificato anche dal

verbo “vivere” (“vivono vespe tra le assi”). Letteralmente,

dunque, le vespe implicano un nido (un’origine, una

madre) e rendono intelligibile la controparte del padre

(l’autografo, riferito com’è all’auctor-auctoritas, è

anticipazione del padre). Leggibilità è poi efficace perché

richiama strettamente sia la lampada (di per sé, simbolo

archetipico di coscienza, da Diogene in poi), sia il non c’è

luce (che sul piano referenziale entra nell’ambientazione

delle case dei poveri) e poi filigrana verso la fine della

poesia.

Insomma, proprio mentre noi cerchiamo di decifrare la

poesia, dentro la poesia stessa anche la persona del poeta

(ridotta a puro strumento di registrazione, dato che il testo

è tutto in terza persona, descrittivo-argomentativo)

Page 38: Poem shot vol 1 davide castiglione

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compie uno sforzo di decifrazione, che la poesia stessa

sembra mimare.

E del resto, che cosa è la poesia se non uno strumento per

capire ciò che le sta intorno? Non si tratta di una

decifrazione del tutto astratta però, perché un oggetto c’è:

ed è, mi sembra, il rapporto tra tradizione (“il padre”,

presentato archetipicamente, senza antecedente nel testo;

l’autografo; la lampada) e il caos, la mancanza di ragione,

una declinazione del dionisiaco verso una violenza e

stoltezza abiurati (“la vita che si complica di fanatici”, mancanza

di formule, gaia demenza, rozzi cavalli, sassi: si veda il

linguaggio pesantemente valutativo).

Mi sembra quindi che – dato anche il contesto storico, gli

anni ’70, tra ri-emergere dei miti dello spontaneismo e gli

anni di piombo – questa poesia invochi una postura

illuministica (non a caso lampada è ripetuto verso la fine

della poesia) senza negare l’irrazionalità immanente a lei e

alla società tutta (donde le immagini surrealistiche). Per

questo, probabilmente, Fortini ne sarà rimasto colpito:

perché il classicismo della forma (che anche lui

perseguiva) non implica rimozione dell’inconscio

collettivo, dell’irrazionale (Fortini scrisse una monografia

sul surrealismo), e la soggettività del discorso richiama una

responsabilità collettiva, come indica il chiarissimo

sintagma finale pubblico potere.

La postura illuministica, o umanistica in senso più

generale, è poi anche garantita dalla presenza di un

probabile intertesto dall’umanista Montale, il secondo

movimento di Notizie dall’Amiata, da Le occasioni: anche lì

c’è un tavolo, un riferimento alla trasparenza (diafana lì,

Page 39: Poem shot vol 1 davide castiglione

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filigrana in Scalise), qualcuno che scrive e perfino una cellula

di miele che implica le api, in Scalise però “tramutate” in

vespe.

Una poesia che è quindi una piccola lezione per molti: fa

vedere come sia possibile superare la dicotomia tra

chiarezza cartesiana e spudorata irrazionalità, inglobandole

entrambe nel suo tessuto testuale, in una dialettica tanto

più efficace quanto più nascosta.

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Poem Shot (11): Vittorio Sereni (1913-1983)

Oggi, domenica 10 febbraio 2013, ricorre il trentennale

della morte di Vittorio Sereni. Il 2013 è anche l’anno del

centenario della sua nascita, e iniziative – letture, mostre,

conferenze – si stanno diffondendo, anche se forse meno

numerose di quanto sarebbe opportuno.

Una conoscenza approfondita di Sereni permetterebbe, ad

esempio, di capire in che misura e fino a che punto le

nuove generazioni che dicono di ispirarsi a lui, davvero

abbiano fatto entrare nei propri versi quegli inimitabili

tremiti interni dove c’è tutto Sereni e anche una

scommessa persa o ignorata da molti contemporanei.

Il fatto è che Sereni spesso, e frettolosamente, viene

ancora ricollegato “alle cose”, alla Linea Lombarda di

Anceschi; un incasellamento a cui egli stesso si ribellò e

che però è ancora oggi investito di un contenuto di verità

quasi assiomatica, con la sfortunata conseguenza di vedere

in Sereni un precursore del minimalismo, quando non c’è

minimalismo, mai, in Sereni: se per minimalismo

intendiamo una rinuncia del soggetto – esaltata, elegiaca o

ironica non conta – a un qualche oltre, mai negato ma anzi

reso necessario da un’ininterrotta ricognizione dei limiti

dello scrivente (“scrivente”, non “poeta” né “autore”, si

definisce Sereni con spietato e lucido auto-revisionismo

nel poemetto Un posto di vacanza).

Questo discorso ci porterebbe però lontano, e lo terrò per

un’altra volta. Così come il fatto che la formula della Linea

Lombarda, ancora forte e influente, andrebbe

necessariamente vagliata, nella sua ricezione attuale, sui

Page 41: Poem shot vol 1 davide castiglione

33

testi, con uno studio orientato, comparato e sistematico

che a tuttora – per quanto ne sappia io – manca.

Ma non è giorno di polemiche, né di inopportune

“commemorazioni”, poco in linea con l’umiltà di Sereni.

E nemmeno troverei utile, per chi mi sta leggendo adesso,

indugiare sull’importanza per me affettiva ed effettiva

della sua figura, che non saprei rendere in poche righe

senza sembrare fuoriluogo.

L’unico modo di rendere giustizia a ogni poeta, e tanto più

a un poeta come Sereni, è ascoltarlo – con empatia ma

anche rigore; i suoi testi, più che lui stesso o quello che

altri ne hanno scritto. Del resto, “E ascoltami, come sai”, è

un verso di Sereni, posto a sigillo di una delle più

struggenti elegie del secolo scorso, scritte in morte

dell’amico Niccolò Gallo.

Allora, siccome oggi è anche l’undicesima puntata di Poem

Shot, mi appresto a una delle poesie più belle e forse meno

conosciute di Sereni – anche se molte altre avrei

voluto/dovuto analizzarne. Questa poesia è L’alibi e il

beneficio, uscita ne Gli strumenti umani (1965).

Mi scuso fin d’ora se non posso appoggiarmi, nei

commenti, al Meridiano con apparato critico di Dante

Isella: non ce l’ho qui con me in Inghilterra. Farò allora

come se rileggessi Sereni (che non studio più da tre anni)

per la prima volta, senza troppo sovraccarico critico

precedente.

Page 42: Poem shot vol 1 davide castiglione

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L’alibi e il beneficio

Le portiere spalancate a vuoto sulla sera di nebbia

nessuno che salga o scenda se non

una folata di smog la voce dello strillone

- paradossale - il Tempo di Milano l'alibi

e il beneficio della nebbia cose occulte

camminano al coperto muovono verso di me

divergono da me passato come storia passato

come memoria: il venti il tredici il trentatre

anni come cifre tramviarie

o solo indizio ammiccante della radice perduta

una sera di nebbia agli incroci di ogni possibile sera

infatti è sera qualunque traversata da tram semivuoti

mi vedi avanzare come sai nei quartieri senza ricordo

mai visto un quartiere così ricco in ricordi

come questi sedicenti «senza» nei versi del giovane Erba

tra due fonde barriere dentro un grigio acre tunnel

con che pena il trasporto buca la nebbia stasera

alibi ma beneficio della nebbia globalità del possibile

che si nasconde ma per fiorire

in alberi e fontane questa polvere d'anni di Milano.

(Da Gli strumenti umani, Einaudi, 1965)

Il ritmo e il livello fonosimbolico di questa poesia ne

fanno, a mio parere, uno degli esiti più alti della poesia di

Sereni, e non solo. Si veda quante consonanti vicine per

l’articolazione (le labiali /b/, /p/, le nasali /m/ e /n/ le

liquide /l/ e /r/), le velari (/k/ e /g/) e le vocali

posteriori (/o/, /u/) percorrano tutto il testo,

Page 43: Poem shot vol 1 davide castiglione

35

addensandosi in alcuni punti come il v. 3 (vocali

posteriori), i vv. 4-5 e 18 (bilabiali e liquide), eccetera.

Perfino i due nomi del titolo, alibi e beneficio, replicano

questo pattern e anagrammano nebbia, che è il fulcro

tematico e compositivo dell’opera, dettando forse perfino

la punteggiatura: che è rada, perché il monologo interiore

e interrogante sfuma i contorni del detto come fa la

nebbia, affermata sul piano della mimesi solo per acquisire

una portata simbolica alla quale ci avvicineremo più

avanti.

Il titolo è sovradeterminato (ovvero, ricco di significanza)

sia per questo impianto fonosimbolico, sia per il suo

essere quasi ossimorico (alibi e beneficio hanno

connotazioni spesso antitetiche). Perché questa coppia è

associata a nebbia esplicitamente due volte (“l’alibi / e il

beneficio della nebbia”, vv. 4-5 e poi, con avversativa, “alibi

ma beneficio della nebbia” al v. 18)? Probabilmente perché la

nebbia è immagine/metonimia dell’ambiguità: essa copre

(“cose occulte / camminano al coperto muovono verso di me”) ma

promette qualcosa che non possiamo ancora vedere

(“globalità del possibile / che si nasconde ma per rifiorire”).

La poesia sviluppa questa contraddittorietà lungo tutto il

suo percorso. Qualche esempio: l’assenza di vita del

centro abitato (“nessuno che salga o che scenda”) è

contraddetta da segnali che presuppongono attività umane

(“una folata di smog la voce dello strillone”), ma anche l’essere il

quartiere “ricco in ricordi”. Allora, paradossale può essere

inteso letteralmente in questo contesto. Oppure, a

muoversi sono le cose, che conquistano la scena e fanno

dell’io poetico (qui ridotto ai minimi termini) un puro

Page 44: Poem shot vol 1 davide castiglione

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recipiente passivo (“muovono verso di me/ divergono da me”: si

noti quest’altra contraddizione).

Perfino la collocazione corrente spalancate a vuoto viene ri-

significata dal testo, in quanto è apertura (spalancate) e

assenza (a vuoto). Insomma, una catena di controsensi

sviluppatasi come per gemmazione, e a cui non è forse

estranea l’opposizione-somiglianza tra ogni possibile sera e

sera qualunque: come a dire che l’ordinario, proprio per il

suo essere spoglio e comune, ha potenzialità per diventare

altro.

Questo forse non si capirebbe con chiarezza se non si

richiamasse alla mente la tensione utopica in Sereni in un

testo come Appuntamento a ora insolita (“Caro – mi dileggia

apertamente – caro, / con quella faccia di vacanza. E pensi / alla

città socialista?”, vv. 12-14 e “Potrei / con questa uccidere, con la

sola gioia”, vv. 33-34).

Almeno altri due o tre aspetti meritano d’essere

menzionati e approfonditi: il blending concettuale tra tempo

e spazio, l’intrecciarsi di privato e collettivo, e il dialogo

metapoetico. Il primo è un principio strutturale del testo

quanto lo è anche l’ambiguità connotativa di nebbia

discussa sopra.

La dimensione temporale è in sera (dove obbedisce sia a

mimesi sia a significanza, come simbolo convenzionale del

declino), in Tempo (nome del giornale, ma appunto

caricato di significanza), in passato, anni e polvere d’anni. La

dimensione spaziale è in Milano (punto forte perché in

chiusa) e in una serie di termini che richiamano il

movimento: già in incipit, portiere segnala metonimicamente

la presenza di un mezzo di locomozione (ribadito

Page 45: Poem shot vol 1 davide castiglione

37

direttamente in tram e trasporto più avanti), incroci la

presenza di strade, verbi di moto sono nei vv. 6, 12 e 13

(“camminano al coperto muovono verso di me”; traversata;

avanzare). La compresenza di questi due assi si fonde in

alcuni luoghi, con una similitudine fulminante (“anni come

cifre tramviarie”, snodo strutturale e ritmico del testo) e un

luogo comune risignificato (“sera traversata da tram”, dove

sera passa da una connotazione temporale a una spaziale).

Quanto all’intrecciarsi di privato e collettivo, bastino i

riferimenti alla stampa come organo collettivo e

(mal)comunicante (“lo strillone / – paradossale – Il Tempo di

Milano”) il riferimento a storia (passato collettivo) contro

memoria (passato individuale), nonché i riferimenti esterni

alla città di Milano, in posizione forte perché in chiusa

della poesia. Il privato è certamente in memoria, in me

ripetuto due volte e nella scelta dei numeri (per es. il tredici

è l’anno di nascita di Sereni: motivo in più per ricordarlo

qui con questa poesia), e nel dialogo metapoetico con

Luciano Erba, amico ed esponente anche lui della Linea

Lombarda cui accennavo sopra. I versi di Erba, posti in

corsivo, hanno anche loro una duplice ambiguità come la

nebbia: da un lato servono ad argomentare quanto detto

prima (come spiegare, altrimenti, il didascalico e

argomentativo infatti?), dall’altro vengono ribaltati e irrisi

(senza ricordo…. “mai visto un quartiere così ricco in ricordi / come

questi sedicenti “senza” nei versi del giovane Erba”). Come dire,

forse, che la poesia, anche la propria, come la nebbia “si

nasconde” (in quella degli altri) per “rifiorire”, cioè per

apportarvi un qualcosa in più, anche contraddicendo le

parole di un amico e compagno di percorso, se necessario.

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Poem Shot (13): Alessandra Palmigiano (1973 - )

l'amore che alberga negli adolescenti non li conosce, ed essi non lo conoscono.

così li infesta senza esserne cambiato, e per questo

varia così poco da un adolescente all'altro.

l'amore degli adulti, volente o nolente, ormai li conosce, ed assomiglia

a ciascuno di loro e a nessun altro.

ma anche nell'amore, così come nell'arte, il non conoscere

può essere un vantaggio, e far produrre per caso pezzi unici,

al di sopra del talento dell'autore.

Questa poesia di Alessandra Palmigiano è stata pubblicata

sul numero 1 della rivista indipendente “dopotutto”.

Ho scelto di scriverne perché – come le altre che ho letto

dell’autrice su “Blanc de ta nuque” – mi sembra innestarsi su

coordinate poetiche poco frequentate, ugualmente lontane

da sperimentalismo e lirismo, e (forse per questo) relegate

ai margini della scena poetica attuale (uso “scena” come

teatro, esibizione: e non a caso).

La coordinata estetica è quella di una discorsività

pensante, limpida, epigrammatica ma con un sottile

equilibrio tra saggezza e trattenuto (e perciò più efficace)

sarcasmo, che evidenzierò linguisticamente più avanti.

Questa modalità mostra come è possibile, una volta tanto,

guardare l’amore (il tema dichiarato della poesia) da un po’

lontano, senza i risaputi contorcimenti viscerali o

abbandoni elegiaci, ma anche senza che l’amore come

tema diventi un tabù, un cliché del poetese da evitare

assolutamente.

Page 47: Poem shot vol 1 davide castiglione

39

Il testo ha un impianto esplicitamente discorsivo e quasi –

ma ironicamente – didascalico: prova ne sia il ricorso a

connettivi causali (per questo), l’uso analitico della

punteggiatura a soppesare le affermazioni e specificazioni

(volente o nolente, con l’uso inatteso di una locuzione

colloquiale), comparazioni (ma anche) e il ripetersi delle

parole-tema (amore e le varie forme del verbo conoscere) che

hanno semplice funzione coesiva come in testi

apertamente argomentativi (per es. saggi) se non

didascalici (per es. manuali).

Questa salutare attitudine distanziante si segnala già a

partire dal primo verso, una constatazione impersonale

espressa nella forma di una saggezza proverbiale.

L’immediatezza comunicativa non ha nulla di ruffiano, e

non rinuncia – nella semplicità del lessico – a una ricerca

direi neoclassica di bilanciamento: ne è spia l’implicazione

speculare della frase (l’amore non conosce gli adolescenti

– gli adolescenti non conoscono l’amore) nonché la tripla

allitterazione in a- (amore, alberga, adolescenti), marcatore

non soltanto ritmico ma anche semantico, dato che pone

in relazione tre concetti salienti all’intero testo da un

punto di vista tematico.

Forse per una volta non è fuorviante appoggiarsi a dati

biografici nel rilevare una correlazione tra questa cristallina

chiarezza e il dottorato in logica conseguito da

Palmigiano.

Tale bilanciamento – visibile nel microsistema del verso –

si estende all’intero componimento, che consta di tre

momenti: 1) reciproco non conoscersi (l’amore degli

adolescenti: tesi); 2) reciproco conoscersi (antitesi); 3)

Page 48: Poem shot vol 1 davide castiglione

40

valore del reciproco non conoscersi, traslato dall’amore

all’arte (sintesi).

La sintesi di 3) è però solo apparentemente una sintesi, in

quanto ripropone e rafforza la tesi scartando come

sbagliata l’antitesi. Può dunque giungere, quasi

popperianamente, a un contenuto di verità per

approssimazione (può essere, con la modalità che esprime

appunto la possibilità) enunciato negli ultimi tre versi e

però non esente da una svolta sarcastica.

Ho detto “sarcastica” perché l’aggettivo “ironico” implica

un nascondimento, una doppia lettura che qui invece

manca di proposito. Tutto va preso alla lettera, l’autrice ci

parla da una postura assertiva e che però (pace a certe

semplificazioni della teoresi delle neo-avanguardie) non

intende illudere il lettore obbligandolo al gioco dell’autore.

Al contrario, la chiarezza argomentativa chiede di essere

presa sul serio e più ancora chiede al lettore di

intraprendere un simile percorso critico e razionale.

Il sarcasmo che aleggia, elegantissimo, è implicito nel

contrasto tra produrre (implicante progettualità industriale,

mercificazione) e a caso (mancanza di progettualità!), nel

relegare la riuscita (pezzi unici: anche qui un allusione alla

mercificazione di arte e amore) al di fuori della

consapevolezza.

Il testo ha altre attrattive. Anzitutto, esibisce un contrasto

fondativo tra tema e forma, in quanto esaltazione del caso

nella più stringente logica, e dell’ignoranza nell’espressione

di contenuti di verità.

È quindi un testo ottimista, malgrado tutto, un testo che

ha fiducia nella funzione razionale dell’uomo e proprio per

Page 49: Poem shot vol 1 davide castiglione

41

questo rispetta l’imprevedibilità (il caso), teorizzato come

necessario perfino in alcune teorie fisiche, contro gli

eccessi del determinismo (vd. Popper 1979, Of Clocks and

Clouds).

Bisogna infine notare che l’approccio scientifico entrato

nelle pieghe della poesia, non la s-poeticizza affatto: tutto

il significato di questa preservata ma utile freddezza sta

nella reazione alle esperienze amorose, anche private, da

cui presumibilmente prende avvio (ma di cui,

pudicamente, non parla), esperienze che per una volta non

si rispecchiano nelle vicissitudini di un io privato ma che

assumono un semplice valore antropologico, di dato o

problema a partire dal quale cercare, possibilmente

insieme, le nostre soluzioni.

Page 50: Poem shot vol 1 davide castiglione

42

Poem Shot (15): Leopoldo Attolico (1946 - )

Vandalismi ed elegia

Di questo itinerario son rimaste

le randellate di Pulcinella a Pantalone

le panchine basse del Pincio

le gambe delle mamme

le sagrestie scombussolate del pudore

e, a sera, lo zero lattescente della luna

per sigillo.

E' rimasta una cifra sospesa a metà strada

tra la piccola preistoria personale

e un tamburo di latta a ribadire

sprazzi di grazia antica

dipinta dal suono.

Più in là

soltanto la Prima Comunione ha salvato la faccia

ha un colore intatto dalla sua

e resiste ad oltranza;

come quei mezzi busti un po' fantasmi

tra siepi di mortella spelacchiata

che per aver troppo annusato la gioia

l'hanno pagata cara

e son rimasti senza naso

stupiti anzichenò

nel verde di una favola.

(da La realtà sofferta del comico, Aìsara, 2009)

Page 51: Poem shot vol 1 davide castiglione

43

Conosco da anni questa poesia e il suo autore, Leopoldo

Attolico (www.attolico.it), e posso dire – per fortuna – che

il suo mistero ancora “resiste ad oltranza”.

Provo a darne qui una lettura che non faccia torto a

questo strano residuo elusivo; “strano” perché a fatica

verrebbe di associarlo con il suo tono narrativo e piano –

talvolta perfino gergale (per es. “l’hanno pagata cara”).

Qui il titolo ha importanza massima, proprio nel binomio

che associa vandalismi ed elegia: cos’hanno in comune le due

cose? meglio rovesciare la domanda: cos’hanno di

opposto? tutto, forse.

Cominciamo da elegia. Essa è anzitutto un genere poetico,

ed è ovvio che questa connotazione entri nel testo, anche

considerando i numerosi riferimenti scherzosamente

meta-poetici che costellano l’intero libro da cui la poesia è

tratta. In quanto genere poetico, essa si oppone a

vandalismi: all’immaterialità intellettuale della poesia fa da

contraltare l’estrema fisicità dell’atto distruttivo, non

diversamente da un’altra poesia di Attolico in cui le poesie

uscivano sconfitte, agli occhi del figlio, rispetto ai

formidabili cazzotti di Bud Spencer.

C’è però anche un’opposizione più stringente fra i due

termini: la “elegia” infatti, nell’antica Grecia e a Roma,

aveva una forte componente etica e civile, proponeva un

modello eroico collettivo e perciò complementare a quello

dell’epica. Si capisce allora che, in questa accezione, elegia è

metonimica rispetto a civiltà come vandalismi lo è rispetto a

barbarie. Un dualismo, nuovamente, si annuncia

all’orizzonte.

Page 52: Poem shot vol 1 davide castiglione

44

Come è risolto o trasposto nel testo tale dualismo?

Anzitutto, bisogna dire che tutte le accezioni e le relazioni

sopra abbozzate non sono digressioni, ma presupposti

necessari per capire la poesia: che fa entrare e integra con

maestria scrupolosa, anche a livello linguistico, tali variabili

nel tessuto del testo.

Anzitutto, la parola più carica in incipit è son rimaste:

posizionata a fine verso (posizione forte anche a livello

visivo e d’intonazione), non può non rimandare,

ritmicamente, al celebre incipit ungarettiano di San Martino

del Carso: “Di queste case / non è rimasto / che qualche /

brandello di muro”. Là era la guerra; qui una distruzione in

minore, ma che non nasconde di meno la sua violenza,

con le randellate di Pulcinella a Pantalone. È necessario

tornare sul valore di quel rimaste: il verbo “rimanere”

infatti segnala tanto incompletezza quanto resistenza: la

prima riassume e fonde i motivi elegiaci e quelli vandalici.

Da un lato infatti, il testo elenca mancanze fisiche: “mezzi

busti un po’ fantasmi”, “rimasti senza naso”; dall’altro lascia

intendere che queste mancanze possono essere materia di

elegia, di rimpianto.

L’elegia – nel senso moderno del termine, stavolta –

sublima ciò che rimane nel ricordo, lo trasforma in

bellezza. C’è una fiducia nella bellezza, che appare a

intermittenza ma in maniera luminosa: dalle gambe delle

mamme allo zero lattescente della luna (immagine compressa,

sinestetica, che può far pensare a Zanzotto), per non dire

della sinestesia dipinti dal suono, la fisicità dell’annusare la

gioia, e il verde di una favola.

Page 53: Poem shot vol 1 davide castiglione

45

È un modo estremamente onesto di “travestire” la realtà:

il dolore non è gridato (vedi anche la prima poesia del

libro, dove il poeta redarguisce ironicamente le epigoni di

Sylvia Plath) ma è più reale proprio perché più pietoso il

tentativo di coprirlo. Il che spiega, d’altronde, l’intero

titolo del libro: la realtà sofferta del comico. Ma di quale realtà

si parla qui?

Beh, è difficile negare la convergenza di motivi

schiettamente italiani: le maschere della Commedia

dell’Arte, la città di Roma evocata dal toponimo Pincio, i

riferimenti cattolici della sagrestia e della Prima Comunione.

L’elegia, intesa come nostalgia e retorica del “prima si

stava meglio”, o adorazione delle rovine, potrebbe allora

essere la rappresentazione di un malcostume italiano. Ma

questa interpretazione svilupperebbe “elegia” nel senso

moderno, mentre quella precedente prenderebbe in

considerazione il senso antico.

La poesia ingenera allora un campo di forze: come una

partita di scacchi, ci spinge a pensare a varie possibilità.

Una di queste è che vandalismi ed elegia potrebbe anche

suggerire uno scenario o evento possibile: una rivincita

degli istinti naturali (pagani?, dionisiaci?) contro le

costrizioni religiose imposte (le “sagrestie scombussolate del

pudore”). Una distruzione positiva, che cerca di fare tabula

rasa del passato.

Ma il passato è ingombrante, e a Roma più che mai: così la

Prima Comunione – personificata secondo un cliché della

poesia classica – sfugge al saccheggio, “resiste ad oltranza”,

immutabile al passare del tempo e all’avanzare della civiltà.

E poi, chi sono quei “mezzi busti un po’ fantasmi” che

Page 54: Poem shot vol 1 davide castiglione

46

“l’hanno pagata cara”? malgrado la similitudine esplicita

(“come… quei mezzi busti”), essi sembrano i veri sconfitti:

l’impersonalità della Prima Comunione riesce a salvare la

faccia, mentre chi, fidandosi delle spinte istintive “annusa

la gioia”, rimane “senza naso”.

La poesia si chiude col ritorno di qualcosa che rimane,

stavolta però nel segno del negativo, della mancanza

appena, pietosamente mascherata, dal “verde della favola”.

Inoltre, alcune notazioni linguistico-stilistiche per

mostrare, ancora di più, come il testo si tiene

intelligentemente insieme: il riferimento a mamme può

dettare l’uso, pochi versi dopo, di lattescente (arcaismo,

come altri nella poesia, per es. anzichenò, e legato alla

dimensione archeologica del testo, che parla di rovine e

mezzi busti); l’espressione a sigillo è seguita, iconicamente,

da un punto fermo, a presentare un riquadro scomposto,

che ha qualcosa di fiabesco e qualcosa di sinistramente

concreto; lo zero della luna (riferimento tanto alla sua

forma quanto al suo valore nullo: ancora un tema

leopardiano e poi zanzottiano?) è ripreso dalla “cifra sospesa

a metà strada”, mentre la strada richiama l’itinerario dell’inizio

(“itinerario” è un termine turistico: quindi supporta

l’interpretazione per cui le rovine sono adorate, per cui

l’Italia dorme sui suoi allori).

Qual è la conclusione? che Leopoldo Attolico ci mette in

una posizione problematica, alludendo al dualismo

barbarie-civiltà e mostrando come la barbarie può essere

civile se rovescia un ordine esistente, mentre la civiltà può

essere barbara, se “resiste a oltranza” tappandosi le orecchie

agli umori che montano dal basso.

Page 55: Poem shot vol 1 davide castiglione

47

Tuttavia, come abbiamo visto,anche il ruolo dell’arte è

chiamato in causa, nel suo potere liberatorio e istintuale

(“tamburi di latta”, “piccola preistoria personale”) ma anche

consolatorio e impotente contro l’ignoranza della

violenza, dell’arroganza.

Page 56: Poem shot vol 1 davide castiglione

48

Poem Shot (17): Paul Sinelli (1972 - )

Come altri ottimi e sconosciuti autori presentati qui su

Poem Shot (Carlo Bellinvia e Paola Tomasiello) anche Paul

Sinelli lo lessi sul Club dei Poeti, perdendone poi le tracce.

La sua poesia talvolta sarcastica e cinica, difficile e

grottesca, mi aveva colpito per l’integrità e la distanza

siderale da molte cose proposte dal mainstream (ma anche

dalle poche opere di ricerca che ho letto finora).

Qui presento una poesia che certo non rende giustizia alla

varietà di toni e temi delle altre sue (che spero di

presentare più in là nel tempo) e che però mi ha colpito ed

è rimasta, nella sua fulminea concettualità.

Come una presunzione

Da un chiodo

s'estende il desiderio

di essere più in là

puntato

al buio

di un appena dentro

senza che si possa vedere

l’intonaco cadere

e deridere

il centro.

Page 57: Poem shot vol 1 davide castiglione

49

Un unico momento sintattico formulato come una verità

sentenziosa, con versi brevi ma ben attestati dalla

tradizione: trisillabi e settenari nervosamente alternati, con

rime e assonanze a pioggia (desiderio-dentro-centro, vedere-

cadere) che ritmicamente mi riportano al Montale di A

Liuba che parte nelle Occasioni (“Non il grillo, ma il gatto / del

focolare / or ti consiglia, splendido /lare della dispersa tua

famiglia”). Ma la sentenziosità distaccata, più filosofica, fa

forse pensare di più a Magrelli (“il desiderio è questo /

fruttificare della commozione / al limitare delle membra”, da Ora

serrata retinae). In Sinelli però il dettato non è neoclassico,

ma s’increspa nervosamente, diventa aguzzo come la

presunzione del “chiodo”. Forse più calzante è il parallelo

con una breve poesia di Cattafi (“la mosca ignora / che

quell’altra mosca / bisillabo inchiostro sulla carta / non è più sua

compagna ma nostra”) e che però è più solare, esplicita e

“danzante” rispetto a questa. O anche la breve I razionalisti

di Wallace Stevens (“Se provassero romboidi, / coni, linee

onlulate, ellissi, / – come per esempio l’ellisse della mezzaluna – / i

razionalisti porterebbero il sombrero”). A proposito, sembra

esserci un’intera categoria di queste poesie concettuali e

sentenziose che andrebbe un giorno indagata coi moderni

strumenti della linguistica testuale.

Gli elementi indicati dal breve testo (chiodo, buio, dentro,

intonaco) ci immettono in un interno concettualizzato,

dove non è possibile nessuna fermata intermedia nella

mimesi: la minutezza del chiodo è assunta a tema

portante, a origine (anche del testo). L’estendersi del

desiderio, la tentazione dell’oltre, fa pensare a una

versione platonica dell’amore che ha bisogno di andare

Page 58: Poem shot vol 1 davide castiglione

50

oltre sé stesso; la presunzione è che si vorrebbe rispondere

a questo impulso salvaguardando, al tempo stesso,

l’illusione della propria integrità (“senza che si possa vedere /

l’intonaco cadere / e deridere / il centro”: ovvero senza che

crolli la nostra facciata, l’identità socialmente costruita, e

senza che questo fragile “centro” venga deriso da questa

apocalisse in minore, tutta interna).

Perché il chiodo? ritengo che quest’immagine sia adatta

sotto tutti i punti di vista. Anzitutto perché, sul piano della

mimesi, tutti abbiamo presente l’ombra proiettata sul

muro dal chiodo illuminato: ombra come estensione e

come correlativo dunque dello stesso desiderio del chiodo.

In secondo luogo, il chiodo è qualcosa che permette di

reggere, che aiuta a costruire; ma anche qualcosa che,

scavando, ferisce, rischia di raschiare via l’intonaco. Infine

– ma non meno importante – il chiodo è leggibile come

simbolo fallico, contestualmente giustificato dal fatto che

il “buio / di un appena dentro” può far pensare a un

indistinto femminino. Così, secondo questa

interpretazione, l’estendersi all’altro brilla come genuino

desiderio e come meccanica di conquista: è un desiderio

bifronte, ambiguo.

Potrei aver compiuto un peccato di sovra-interpretazione;

eppure, se quanto detto finora tiene, se l’intonaco di

questa interpretazione non crolla, questa breve Come una

presunzione dimostra come sia possibile alludere con forza

icastica a questioni di relazione, perfino intimi,

mantenendo una oggettività che permette di guardarci da

un po’ più lontano – e vedere dunque noi stessi meglio –

lavorando con la mente, riportando in poesia l’ormai

Page 59: Poem shot vol 1 davide castiglione

51

tramontato valore del wit, dell’ingegno non fine a se

stesso.

Page 60: Poem shot vol 1 davide castiglione

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Poem Shot (19): Bartolo Cattafi (1922-1979)

Cattafi, ricordo, fu il primo poeta – dopo Montale – di cui

desiderai comprare un libro, già quasi una decina d’anni fa,

dopo aver letto un paio di sue poesie in una (illuminata)

antologia scolastica di cui non ricordo il nome.

Dovetti invece aspettare la ristampa dell’Oscar Mondadori

(prefazione di Giovanni Raboni), perché le raccolte di

Cattafi mi sembravano (o forse davvero erano) introvabili.

Lode dunque a Elisabetta cattafi (figlia del poeta) e allo

studioso Diego Bertelli per aver messo tantissimi materiali

cattafiani in rete grazie al sito ufficiale che vi invito a

visitare.

Alcune delle poesie di Cattafi sono rimaste fortissime in

me: come, ad esempio (ma che ardua la scelta!) Il resto

manca.

Il resto manca

Mancavano pagine

il marmo dell’epigrafe

era scheggiato

due sole parole

cetera desunt

il resto mancante

mancanti la testa e i piedi

e tutto il resto mancante

che testa e piedi divide

cetera desunt…. cetera desunt…

Page 61: Poem shot vol 1 davide castiglione

53

parole sul frontone d’un tempio vuoto

vorticanti col vento come per dirci

solo noi ci siamo

tutto il resto manca

era questo che non sapevate.

(Da Chiromanzia d’inverno, Mondadori, 1983, pubblicazione

postuma)

Questa poesia ha tutta l’aria di essere scolpita come il

marmo: come spesso mi succede, è il tono prima ancora

del contenuto a farmi amare una poesia (e disprezzare le

volute dolci, monotone, tra il timoroso e l’indulgente di

molte poesie contemporanee, ma lasciamo stare…).

L’inizio è in medias res, drammatico: mancavano pagine è una

constatazione assoluta, perché pagine resta indeterminato

(mancanza d’articolo), senza contare la forza di un verso a

terminazione sdrucciola. Non credo d’aver mai letto un

imperfetto usato con questo senso del tragico: la funzione

stessa dell’imperfetto (elegiaca, di ricordo, nostalgica) ne

esce stravolta.

L’arte, o più umilmente l’artigianato (un concetto in realtà

molto alto, per me, legato com’è al concetto di

“mestiere”), è evidente anche nel secondo verso, dove il

marmo dell’epigrafe forma una costruzione sintattica ambigua

cui questo sintagma sembra dapprima oggetto del

mancare, ma poi diventa soggetto dell’essere scheggiato.

Ogni referente conquista la scena del rispettivo verso, gli

Page 62: Poem shot vol 1 davide castiglione

54

enjambements nel senso di continuità di fraseggio sono

aboliti, ed è questo a dare alla poesia un effetto “scolpito”.

Le ripetizioni hanno funzione intensiva, come di un’eco

ossessiva. Non a caso le parti di testo ripetute sono quelle

costitutive del centro tematico del testo: cetera desunt, che

passa da una menzione al v. 5 a una doppia al v. 10,

scandendo i due momenti medi nei 15 versi complessivi; e

il resto manca, con le sue variazioni (il resto mancante, tutto il

resto mancante, tutto il resto manca, mancavano).

Una poesia sull’assenza, in apparenza: un’assenza che

ritorna tante volte fino a diventare la raggelante accusa – e

rovesciamento di prospettiva – degli ultimi due versi. Una

climax visionaria pervade il testo, dove l’immobilità

dell’epigrafe si trasforma in parole vorticanti nel vento.

Come interpretarla? Io credo che la poesia sia originata da

un equivoco linguistico atroce (un po’ come Sachsenhausen

nel Sereni di Nel vero anno zero, che si riferisce sia al nome

di un quartiere sia quello di un campo di sterminio): cetera

desunt (= gli altri mancano: gli altri, non un generico resto)

riporta a una iscrizione funebre (come i monumenti in

memoria dei caduti) dove lo spazio è troppo poco per

rammemorare coi nomi.

L’accostamento alla guerra è plausibile, perché mancanti la

testa e i piedi e “tutto il resto mancante / che testa e piedi divide”

(notare, tra l’altro, il parallelismo con variatio) riporta ai

mutilati di guerra, ma un po’ anche alle statue mozzate

presenti anche in Vandalismi ed Elegia di Attolico già

analizzata prima.

L’assenza dei morti richiama alla responsabilità dei vivi,

ricorda loro la loro presenza certa e ingombrante (solo noi ci

Page 63: Poem shot vol 1 davide castiglione

55

siamo), macchiata dalla falsa coscienza filosofeggiante che

mette in dubbio il nostro esserci, la nostra concretezza (un

attacco, dunque, alla fluidità postmoderna? Plausibile, dato

che la poesia può essere stata scritta alla fine degli anni

’70, quando la svolta post-moderna e decostruzionista

cominciava ad aleggiare per poi dominare).

Cattafi sembra proporci un modello di poesia fondato

sulla tradizione, sulla continuità: non è un caso che i

marmi, il tempio vuoto (che non possono non richiamare

i templi siciliani, giusta anche la provenienza dell’autore) e

le parti mancanti – come delle statue oltre che dei militi –

siano “rovine”, ma rovine che parlano. Le stesse rovine

inquietanti che troviamo nei quadri di De Chirico, anche

lui con forte retroterra mediterraneo. Viene in mente il

titolo di un saggio di Fortini (Extrema Ratio: note per il buon

uso delle rovine) e anche – a livello di situazione – il “sorriso

balordo / che mi fermò tra le lapidi” di Sopra un’immagine

sepolcrale, di Sereni.

Questa è una poesia profondamente etica, che interroga e

accusa, che non usa parole superflue (Cattafi è rimasto

fedele ai principi, forse di derivazione imagistica, de L’osso,

l’anima). Una poesia di tale forza e freschezza che

potrebbe essere stata scritta oggi, o più verosimilmente,

domani.

Page 64: Poem shot vol 1 davide castiglione

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Poem Shot (21): Cristina Annino (1941 - )

Quella di Cristina Annino (www.anninocristina.it) è poesia

che resterà. Vuoi vedere che la volontà dell’autrice di

svincolarsi da quella che lei definisce l’idea-tempo non

solo è segno di qualità poetica, ma anche, appunto, il

segreto del suo restare?

Stimata da grandi nomi del novecento (Fortini, Giudici,

Pagliarani, Raboni…), la poesia di Annino è oggetto di un

virtuoso passaparola su internet, possibile soprattutto

grazie agli sforzi di Stefano Guglielmin e Francesco

Marotta. Estranea da sempre alle correnti dominanti come

alle mode più effimere del contro-corrente, obbedisce fino

allo stremo a logiche sue, con quella libertà spregiudicata

che può dettare il confine tra buona poesia e grande

poesia.

Se della buona poesia ci si compiace perché funziona o

tiene, la grande poesia marchia, spezza il fiato, può creare

un terremoto percettivo. Quando a questo si aggiunge una

significanza collettiva benché sfuggente, allora è il

capolavoro. Userei questa parola per Andante pesante con

abbandono, tratta da Gemello Carnivoro (2002).

Andante pesante con abbandono

(Per Daniela Marcheschi)

Il piatto

filippino preferito è la scimmia. La portano in

ginocchio, il viso sulla tovaglia poi

Page 65: Poem shot vol 1 davide castiglione

57

il cervello lo segano vivo. Ci facciamo

un’idea del mondo mangiando, del modo

di fare ordine della vita, radio, giornale, d’un

patito giallista. Io

mai m’abituo; ma l’auto

sul viadotto s’allontana simile al viso ben diviso

della barista, nel mattino: triste, ben

triste, in due. Come si va

semisoli insieme giù per la strada.

Danì

capisce il chiodo nel cervello; lo batte un solo

uomo, certo, e l’inferno detto la via. Lei ha

un diverso rapporto con la carne; ma stan

piegando la sua natura, così dentro il letto. La

stan mettendo sotto spirito: i piedi sul lato

del vetro e testa al contrario. Una foce. Leggi

fato. Anche il Nilo

si guarda da ragazzi e per primo ci prende in giro.

O quando

uno di noi s’alzò nel sonno dicendo “lo zio ama i negri!”.

Per legge

di gravità il tempo è passato. Siamo ormai

diventati, con moto

che allontana dal posto, e dei negri ci importa

poco. Ora c’è

un comportarsi da zie e tutto il resto. C’è non essere

più capaci del colmo. NOI

digeriamo QUEL piatto. Insomma ormai del sonno

ci appartiene l’insonnia.

Di lei. Che si strappa

di dosso l’io semifuso dal corto circuito d’uno

sbalzo di pressione nel sangue.

Page 66: Poem shot vol 1 davide castiglione

58

Sviene

indietro come l’acqua del Nilo va su. Colpito

in un lampo in viso il centro della memoria. Dati.

Mentre

dal toporagno arboricolo a noi, il tempo evolutivo

è settantacinque milioni d’anni. Dice la radio.

(Da Gemello Carnivoro, I quaderni del circolo degli artisti, 2002)

Le quattro strofe libere, marcatamente polimetriche ma di

simile lunghezza complessiva, dànno una traccia di ordine

– meglio: di principio regolativo – a un dettato dalle

fortissime spinte centrifughe.

L’ordine (il filo argomentativo che percorre la poesia e che

mostrerò) si mescola al disordine (il surrealismo delle

immagini, l’idiosincrasia ritmica) come suo

completamento necessario, in una dialettica che Fortini

avrebbe approvato (si ricordi la prosa L’ordine e il disordine

in Questo muro).

C’è una grande tradizione dietro, l’impressione di essere di

fronte a una poesia importante: una poesia in cui

all’assertività proposizionale (= memorabilità) dei versi si

aggiunge una lacerazione emotiva marcata dalle frequenti

spezzature estreme, aguzze, a fine verso.

Lo sperimentale e il lirico collidono, addirittura collimano.

In quanto segue proverò a dare una mia lettura: più che

un’interpretazione (atto che sembra mirare alla impossibile

e sbagliata riduzione del campo di forze di questa poesia a

Page 67: Poem shot vol 1 davide castiglione

59

un enunciato unico), un percorso appassionatamente

soggiogato al testo.

A chiederlo è la stessa necessaria materialità, eccentricità

della lingua poetica anniniana.

Il titolo è uno scrambling (manipolazione) di un tempo

musicale, dove anziché da “vivace” o “allegro”, andante è

seguito da pesante.

La pesantezza si fa più acuta in abbandono, parola pesante

sia ritmicamente (le sue quattro sillabe) sia

semanticamente (la doppia accezione di “abbandono”:

lasciarsi andare, o essere lasciati). Questa manipolazione

segnala un gioco di parole umoristico e però serio, tanto

più alla luce della drammaticità delle immagini presenti

nella poesia.

Un indizio successivo è la dedica alla nota studiosa

Daniela Marcheschi, amica dell’autrice come segnalato dal

diminutivo d’affetto nel primo verso della seconda strofa

(Danì). La poesia sembra quindi configurarsi come una

lunga allocuzione dell’io poetico a un destinatario unico e

specifico; questo permette una presenza più verosimile dei

numerosi riferimenti privati, apparentemente chiusi

all’esterno. Perché il piatto filippino? perché la scimmia?

È però chiaro che lo spunto apparentemente privato

diventa occasione di discorso pubblico: da qui il

riferimento a una terza plurale inquietante perché non

specificata (“La portano in / ginocchio”). Da qui, anche,

l’ambiguità del noi che può essere duale (l’io poetico e

l’interlocutrice) o collettivo (“noi” come “tutti noi”) e la

cui importanza è segnalata graficamente dallo stampatello

in seguito, e forse per inclusione anagrammatica in Nilo.

Page 68: Poem shot vol 1 davide castiglione

60

Anche il tema non dichiarato è pubblico: una sorta di

matrice che condensa i temi della carne, della natura, del

cibo e dell’evoluzione. È possibile che il famoso detto di

Feuerbach, “l’uomo è ciò che mangia” (cfr. “ci facciamo /

un’idea del mondo mangiando”), abbia avuto un suo ruolo

generativo nella costituzione della poesia.

Una matrice filo-marxista sembra sussistere in questi temi

e legarli: il materialismo crudo delle immagini (“il cervello lo

segano vivo”), un riferimento a chi è subordinato (filippino,

negri), quello ripetuto agli organi di comunicazione (radio,

giornale) e l’enfasi, già notata, sul noi e quella sul

cambiamento, o piuttosto la sua negazione (il tempo

evolutivo, “il tempo è passato”).

Qualcosa rimane, dunque, del clima sessantottino così

esplicito nella raccolta Non me lo dire, non posso crederci

(1969). Ma è poco, è quasi irriconoscibile: tutta la poesia si

dedica a decostruire questa fiducia nelle grandi narrazioni,

con precisa spietatezza, ma senza esaltazione, senza la

fiducia nel pensiero debole del postmoderno.

Questo Andante pesante con abbandono sembrerebbe il

canovaccio di un grande affresco antropologico, dove

l’orrore è tanto da rifiutare il realismo della

rappresentazione diretta. È la posizione tardo-modernista,

dove la crudeltà disadorna del dato di fatto (Dati, “dal

toporagno arboricolo a noi / il tempo evolutivo / è settantacinque

milioni d’anni”) tradisce un’amarezza in filigrana (“Ora c’è /

un comportarsi da zie e tutto il resto”), conserva una fortissima

traccia etica.

Quello che denuncia la poesia è il “non essere / più capaci del

colmo”, il digerire QUEL piatto: il piatto dell’orrore servito

Page 69: Poem shot vol 1 davide castiglione

61

quotidianamente, ma anche – forse – la piattezza di

prospettive, il nonsenso di quello che accade.

Il cervello della scimmia (dunque esteriorizzato nella

prima strofa) sembra diventare il proprio (“Danì / capisce il

chiodo nel cervello”: dove chiodo sta sia per “chiodo fisso”,

cioè “fissazione”, sia per declinazione della violenza del

coltello alluso per via metonimica – segano nella prima

strofa).

Poco importa, a questo punto, che nel gioco auto-

generativo delle immagini, il Nilo sia originato dalla parola

letto (= letto del fiume) e da foce, la quale a sua volta è

suggerita dalla somiglianza tra la forma dell’estuario e

quella del collo umano che si allarga in corrispondenza

delle spalle.

Più conta forse che l’essere messi “sotto spirito” (nella

metà della seconda strofa) è un calembour atroce, e

riassuntivo forse dell’intera poesia: significa che siamo

stati congelati in provetta, non ci siamo evoluti (c’è un che

di sarcastico nella sproporzione tra toporagno arboricolo e un

lasso di tempo di settantacinque milioni di anni); e anche

significa che siamo stati soggiogati dallo spirito (“sotto-

spirito”), ovvero dalle sovrastrutture – non solo cattoliche

e cristiane: il comunismo stesso pare essere messo sotto

accusa, o forse il suo legame con la dialettica hegeliana –

che sembrano averci illuso, frustrando la carne, la

necessità biologica. Con diverso esito, un nucleo di

contenuto che abbiamo identificato simile in Vandalismi ed

elegia di Attolico.

Così, amaramente (non) si conclude lo “spirito dei tempi”

(è il caso di dirlo), che sembra tenere più che mai per la

Page 70: Poem shot vol 1 davide castiglione

62

situazione attuale e che è meglio reso (rispettato) da un

surrealismo lucido (!), impastato di ferocia e libertà, come

quello di Annino, che da troppo espliciti richiami narrativi,

da appiattimenti sulla mimesi e sul realismo, o da

formulazioni inutilmente programmatiche.

Page 71: Poem shot vol 1 davide castiglione

63

Poem Shot (23): Roberto R. Corsi (1970 - )

Quando leggo in rete dei soliti (pur bravi, ma difficilmente

più che bravi) nomi che circolano e rimbalzano di sito in

sito, mi rendo conto di quanto lavoro c’è da fare per

erodere dall’interno questo meccanismo pseudo-critico

che oscura – per pigrizia o cattiva fede – voci come, per

esempio, quella di Roberto R. Corsi.

Se Roberto non si fosse posto in dialogo con me,

probabilmente a tutt’oggi non saprei dell’esistenza della

sua scrittura poetica. Ne ho avuto una prima portata

importante con la sua raccolta in progress

Cinquantaseicozze, leggibile a puntate sul suo sito.

Per Poem Shot ho scelto – dopo averle rilette tutte, fino alla

ventunesima – la terza, che mi sembra (insieme alla

seconda) una delle più riuscite. Esorto comunque a

leggerle tutte, per scoprire una voce indipendente, diretta e

ricercata, auto-ironica e aspra.

III.

La radio semina ricorrenze civiche nel deserto; io

rivedo i tuoi sguardi clorofilla che a sprazzi hanno irrorato giorni spessi.

Umidi dei vent’anni mi annunciarono di via D’Amelio, ed eravamo

casti e sapevi del fieno attorno casa; poi burrascosi in venuzze, specchi

ustori di Alice nel meraviglioso mondo bancario all’alba del nuovo

millennio, sprezzavano a Genova quei miei comunisti di merda

e se Giuliani è morto, dicevi, qualcosa avrà pur combinato,

male non fare paura non avere (refugium peccatorum).

Page 72: Poem shot vol 1 davide castiglione

64

Poi facevamo una pace generosa e m’affilavo nella tua carne come l’illusione

ultraterrena sa innestarsi nell’occaso, gentilmente deflorando la foschia.

Di noi per fortuna non resterà nulla, i quarant’anni son tazze riposte all’acqua fredda

del calcolo, galassie in moti diametrali, sgranate da qualunque

storia risoluta nello schivarci, orrore grosso di stragi mangia

orrore piccolo del tuo delirio borghese rampicante, della mia vulvocentrica viltà.

(Dalla raccolta inedita Cinquantasei cozze)

Questa cozza è una delle più perfette e naturali

compenetrazioni tra confessione privata e contesto storico

che ho letto da un bel po’ di tempo a questa parte. Questa

tensione, questa dialettica s’innerva già nel primo verso: da

un lato una constatazione asciutta, dove la formalità di una

parola come ricorrenze sembra anticipare il vuoto implicito

in (o semioticamente suggerito da) deserto. Dall’altro quell’

io in bilico a fine verso, quasi un’appendice suo malgrado

espulsa da una partecipazione più implicata (onde il punto

e virgola), dall’altro tenacemente vicina al dato collettivo:

sullo stesso piano, o verso.

Ma rileggiamo il primo verso, apparentemente amaro:

escludendo come poco plausibile o giustificata una lettura

di semina nel senso di “far disperdere” (che lo renderebbe,

se possibile, ancora più amaro) può balenare il portato di

speranza del verbo “seminare”, cui non è estranea un’eco

biblica. Intanto, però, qualcosa davvero fiorisce: è la

memoria del soggetto poetante, o io empirico, che si

rivolge a “tu” intimo, femminile, il quale si fa carico dei

connotati di rinnovamento (espressi tramite un lessico

Page 73: Poem shot vol 1 davide castiglione

65

botanico: clorofilla, irrora) presagiti e negati al tempo stesso

nella diffusione radiofonica delle notizie.

Questo è significativo: nell’impotenza di agire in un

contesto collettivo e modificarlo (in quest’ottica, non è

casuale il riferimento ai drammatici giorni del G8 e alle

parole, solo apparentemente desuete, comunisti e borghese), al

soggetto non rimane che il privato, la compensazione del

ricordo, l’intimismo. È quanto succede in molta poesia

contemporanea: che però, a differenza di quella di Corsi,

sembra rimuovere o dare per scontato il contesto in cui le

nostre poesie vengono scritte. È una differenza cruciale: la

differenza che passa tra il mettersi all’angolo guardando

rabbiosamente il resto della stanza, e quella di pensare che

il proprio angolo sia tutto o che nulla debba mutare.

Corsi sa però bene che questa fuga nel privato – che per

alcuni dura un libro o un’intera carriera – non può durare,

se davvero si vive nel mondo: e quindi, appena un verso

dopo, l’irruzione nel ricordo della strage mafiosa di via

D’Amelio, che richiede alla poesia un innalzamento

retorico (mi annunciarono) richiesto dal tragico e

opportunamente negato al primo verso, dove si enunciava

seccamente la trivialità (comunque grave) di un non-fatto,

di un non-accadere che è forse lo specchio più fedele di

questi ultimi vent’anni italiani.

Accenni regressivi, bucolici (“eravamo / casti e sapevi del fieno

attorno casa”) cozzano, è il caso di dirlo, con la satira che fa

diventare ustorio lo specchio di Alice nel paese delle

meraviglie e combina meraviglioso con bancario. L’asprezza

del sintagma nominale meraviglioso mondo bancario è,

ironicamente, quasi meno destabilizzante delle pubblicità

Page 74: Poem shot vol 1 davide castiglione

66

che ingegnosamente ancora continuano a venderci la

banca come un campione di valori umani, nonostante o

proprio per il crac finanziario mondiale. Anche nel suo

poemetto Litalìa De Alberti ironizza amaramente sulla

bontà delle banche.

Il turbine di giustificato pessimismo si intensifica nelle

espressioni in corsivo, stralci di dialogo o monologo

interiore il cui contenuto, intollerabile, è però divenuto

parte di noi, del “vivi e lascia vivere” all’italiana: nella

poesia è difficile, significativamente, attribuire questi

stralci a un soggetto piuttosto che a un altro. Il senso di

impotenza, l’addossamento di colpe non direttamente

proprie, fa iscrivere questa poesia – e in generale, la

scrittura di Corsi – in un paradigma fortemente etico che

va dalla Primavera Hitleriana di Montale a Nel vero anno zero

di Sereni al Pusterla di Le prime fragole (vd. poem shot 27).

Non è allora un caso se il flusso sintattico si interrompe

qui, dopo un accumulo non più sopportabile; come non è

un caso che il verso successivo (il v. 9) si apre con la

parola pace, che nel contesto semantico della frase rimane

un dato privato (il “fare la pace”), mentre nel contesto

semiotico della poesia risuona delle tensioni esplose nei

versi precedenti. Quando arriviamo a pace generosa ci è

difficile prendere sul serio l’espressione, ci è difficile darle

più peso di quello che ha nel linguaggio corrente

l’espressione “far pace”. Un esempio di come la poesia,

funzionalmente, può rinunciare a caricare il discorso

corrente di significanza, proprio per esporlo nella sua

nudità.

Page 75: Poem shot vol 1 davide castiglione

67

Ritorna, più spaesato e alieno che mai, il lessico botanico,

ora più connotato sessualmente (innestando, deflorando,

vulvocentrica). Grande è la sconfitta personale e storica, il

senso di auto-distruzione enunciato quasi con cinismo

(“Di noi per fortuna non resterà nulla”), che ancora una volta

mi rimanda al Sereni più cupo (“Non ti vuole ti espatria / si

libera di te / rifiuto nei rifiuti / la maestà della notte”, da

Notturno, in Stella variabile). Il salto dall’intimismo (tazze) al

cosmico (galassie in moti diametrali) è immediato e si

appoggia al linguaggio sempre più verticale (valga per tutte

la metafora ardua “tazze fredde / del calcolo”) di una poesia

che più sa la sua (nostra) sconfitta, più non teme di

incarnare – nella forma – un assoluto risarcimento

all’offesa, in una scansione chirurgica dei versi lunghi

eppure mai rappacificati.

Page 76: Poem shot vol 1 davide castiglione

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Poem Shot (25): Erika Crosara (1977 - )

Erika Crosara è stata, per me, forse la più bella rivelazione

del censimento poeti di Pordenonelegge. È lei che ho

votato (insieme a Giulio Marzaioli e a Gilda Policastro) e il

suo modo di fare poesia mi sembra indicare una via

proficua tra resoconto trattenuto e percezione di voci

incarnate, tra lirica e costruzione del discorso. Un modo

che mi ha ricordato il Guglielmin di C’è bufera dentro la

madre, uno dei poemetti più belli e intensi letti di recente

(non è un caso se Guglielmin è il prefatore del primo libro

di Crosara).

Il fatto che la raccolta di Crosara sia risultata vincitrice al

premio Lorenzo Montano di Anterem (nel 2010) è motivo

che accresce la mia fiducia in quel premio, cosa non facile

quando attorno vedi spuntare aggregati poetici ben fatti

ma mancanti di un quid, anonimi o tardo epigonici,

insomma.

Ma perché Crosara non viene mai riproposta dai blog

poetici? Forse perché molti di questi accettano le

(auto)proposte di autori ansiosi e a volte mediocri, anziché

cercare attivamente i validi e spesso appartati?

(l’inverno è rotto)

1.

«sono tutti bravi quando aspettano nenie, mirini,

dolci forni delle feste. accorrono col fiore infilzato,

Page 77: Poem shot vol 1 davide castiglione

69

con occhi grandi come pavoni».

2.

«ah dice se il melo almeno cantasse invece di questa

soldataglia glabra che vedo passata sopra e acuta sui

ponti, e che viene nel mondo, nel porco, nel bisogno

del giorno. una mano energumena entra nel piatto,

la malaparata avanza e taglia dopo la corda persino

i confini, coi petali intorno».

3.

«le lodi rimbalzano fra cannule e strisce ventose,

netto e mondato cammina. c’è fresco sotto le instabili

mura, muore ogni discorso davanti al serraglio. oggi

che il campo è nudo e un falco si annuncia nelle cose

minori, nei laghetti, per strada».

cauda.

«perché la polvere arretra, a stento ti dice: non importa

l’inverno è rotto e tu stipi e ti rimetti».

È la prima volta che su Poem Shot analizzo una poesia

(quasi) interamente presentata come discorso diretto di cui

non è svelata la fonte dell’enunciazione. Di per sé questa

procedura non è una novità (ma quale la è?), perché

Page 78: Poem shot vol 1 davide castiglione

70

esempi analoghi figurano in alcune poesie di Milo de

Angelis e perfino in alcuni passaggi dei Cantos poundiani,

dove le voci si affollano senza che ci sia sempre dato di

ricondurle a qualcuno.

Questa poesia di Crosara si presenta dunque come un

reportage – una trascrizione di voci e testimonianze da un

luogo – a frammenti. Un frammentismo che iconicamente

risponde al titolo (l’inverno è rotto) ma che anela all’unità,

come composto e perfino classico (ma di un classicismo

da metrica barbara, vicina agli esametri latini o ai versi

lunghi pavesiani) è l’incedere dei versi.

La prima trascrizione (1) inizia con l’espressione “sono tutti

bravi quando…” con un tono di rassegnazione e ironia

naturalmente veicolato da simili occorrenze nella lingua

corrente e dovuto, nella semantica frasale, al

qualunquismo esposto di tutti e al complemento di

limitazione applicato al non agire, all’aspettare. Aspettare

cosa?

Il complemento diretto consiste in una accumulazione di

elementi contrapposti, legati al riparo della ripetizione

(nenie) alla violenza (mirini) e agli affetti comunitari ma con

un’eco per me mostruosa (dolci forni delle feste: dove forni e

feste assumono una connotazione sinistra per la presenza di

mirini appena prima, facendomi legare forni all’olocausto e

feste al festino della Primavera Hitleriana di Montale). Lo

stridore del fiore infilzato conferma questi brutti presagi,

aumentati – in tutto il passaggio – dall’impossibilità di

sapere l’identità della terza persona plurale, argomento del

discorso (qualcosa di simile, e similmente sinistro, è in

Page 79: Poem shot vol 1 davide castiglione

71

Sereni, quando comincia con “Mi prendono da parte, mi

catechizzano” in La pietà ingiusta).

In (2) – data per scontata l’impossibilità di decidere se il

locutore è lo stesso che in (1) – sembra però di poter

percepire una modulazione interna, più intima. Fatto

sicuramente dovuto al passaggio dalla narrazione esterna

di (1) all’ipotetica rafforzata da interiezione di (2) (“ah dice

se il melo almeno cantasse”). Ma come mai non c’è nessuna

impressione di patetismo, qui? Ipotetica e interiezione

dovrebbero portare al patetismo come un’equazione tra

linguistica ed effetti. Invece da un lato c’è il distanziante

dice che rende il discorso diretto un discorso riportato da

altra fonte, come una mise en abîme per cui chi è interrogato

riporta le parole di un altro, con doppio distanziamento

dall’io lirico: non è la poetessa a parlare, e neanche un suo

personaggio: è un personaggio immaginato a riportare le

parole di un enunciatore che rimane indeterminato. E poi

– pragmaticamente, ovvero a livello di contesto – c’è il

contrasto tra il cantare del melo (impossibile a livello

referenziale, e metaforicamente interpretabile come il

suono del vento nella fronda) e la soldataglia glabra, che

riduce il desiderio espresso nell’ipotetica da alternativa allo

stato di cose presente a semplice accessorio che può,

simbolicamente (ma solo simbolicamente) opporsi al male.

Il mancato canto del melo contro la marcia dei soldati.

Con l’inquietante mano energumena si passa da una presa

esterna (i soldati che passano sul ponte) a una interna, una

scena di focolare (piatto può essere letto come una

sineddoche di casa, di frugalità). Notare poi come

l’espressione “persino / i confini, coi petali intorno” fonda

Page 80: Poem shot vol 1 davide castiglione

72

l’immagine del fiore (riprendendo e replicando, con

variatio, i fiori infilzati di 1) con quella della terra intesa

come confine geografico e punto strategico. Un

montaggio metonimico di elementi che sembra adatto per

un tipo di poesia autenticamente civile. La metonimia e la

fusione concettuale-immaginativa degli elementi si

sostituisce, per fortuna, alla pratica diretta della metafora,

del metamorfismo estetico e tutto sommato esteriore a cui

cedono molti poeti contemporanei.

In (3) elementi o segni del discorso (lodi, discorso, si

annuncia) sono compenetrati in uno scenario di immota e

sterile rusticità (appena suggerito da “il campo è nudo”, dalle

“cose / minori, nei laghetti, per strada”, le cannule). Il cambio

dei soggetti, più repentino che in (1) e (2), suggerisce che

dalla narrazione-descrizione dei due primi momenti si

passa a uno più sintetico, con inflessioni più filosofiche,

eppure senza cambiamenti di ritmo o registro: un senso di

uniformità e monotonia è necessario per il funzionamento

della poesia in questione.

Misteriosa, e carica di significanza, è la svolta degli ultimi

tre versi: anzitutto questi introducono, in posizione assai

forte, la parola cauda, l’unica a cadere fuori dal discorso

diretto. “Cauda” è termine zoologico per “coda equina”:

eppure questo non ci porta da nessuna parte. È più

plausibile (tralasciando un probabile uso regionale del

termine, a me ignoto) leggerla come “coda” nel senso di

chiusa del componimento o postilla (per associazione

linguistica penso al sonetto caudato), e come tale sembra

l’unica diretta intrusione autoriale nel componimento. È

però cruciale: perché instilla anche il dubbio

Page 81: Poem shot vol 1 davide castiglione

73

dell’arbitrarietà della scelta di quando interrompere o

meno le trascrizioni, esponendo il ruolo di selezionatore

che sempre deve svolgere chi scrive. L’aggiunta di cauda

sembra perciò un taglio inferto al discorso (e come non

collegarlo alle immagini di recisione dei fiore infilzato, e di

“taglia dopo la corda persino / i confini”?) e al tempo stesso

una promessa di continuità. È solo a questo punto, infatti,

che il lirismo del tu autoriferito, dei verbi usati

intransitivamente (“ti stipi e ti rimetti”) e della predicazione

“l’inverno è rotto” ripreso dal titolo, possono avere luogo

con naturalezza, come una possibilità più che legittima del

discorso poetico.

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Poem Shot (27): Fabio Pusterla (1957 - )

Fabio Pusterla è (e meritatamente) uno dei più noti poeti

italiani contemporanei, uno di quei pochissimi che, pur

restando lontano dai grandi centri letterari di Roma e

Milano, ha avuto un riconoscimento di critica e pubblico

pressoché unanime, anche con l’uscita, nel 2009,

dell’antologia Le terre emerse, per Einaudi.

Questa alterità o indifferenza alle mode, alle piccole

diatribe dei salotti letterari, ha agevolato a mio modesto

parere il formarsi, nei decenni, di una poesia radicata

nell’ascolto di sé, degli altri e del proprio ambiente: una

poesia dalla forte connotazione etica e civile, attività ed

esercizio umano prima che autoreferenzialmente

letterario, sulla scorta di un maestro riconosciuto (e che è

anche il mio), Vittorio Sereni.

Dal vivo, non sembrano esserci scollature tra l’uomo e il

poeta: Pusterla è davvero una persona gentile e

disponibile, umile, lontana da quel distacco o

quell’agonismo che invece mi è sembrato di ravvisare in

altri altrettanto noti poeti passati per l’ateneo pavese alcuni

anni fa. Per i miei versi ha avuto parole precise e

d’incoraggiamento, e senza nessuna sollecitazione da parte

mia.

Per Poem Shot ho scelto Le prime fragole, una di quelle poesie

davvero rimaste con me negli anni, e una delle più belle e

intense tra quelle in Folla sommersa (2004).

Page 83: Poem shot vol 1 davide castiglione

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Le prime fragole

Strisci nell'erba bianca di margherite.

Sei vestito di rosso, hai una cuffia rossa in testa,

e nella mano destra un pelacarote che infilzi

nel terreno ancora molle di marzo, sempre avanzando

lentamente nel folto del prato. Sdraiato

sull'erba, con le margherite negli occhi. Sto scalando

l'Everest, mi dici. E anche le guance sono rosse di gioia.

Strisciavi ieri nel tuo Everest di margherite

e io ti guardo oggi nel ricordo e intanto ascolto la radio

in attesa di notizie terribili, e tu continui a strisciare felice

e la radio dice della bambina schiacciata da un panzer a Gaza

tu prepari una pozione con piume d'uccello per imparare a volare

io ti preparo le prime fragole rosse dell'anno e mi chiedo

se gli occhi dell'uomo che guidava il panzer avranno capito.

(Da Folla sommersa, Marcos y Marcos, 2004)

Gianluca D’Andrea nota, a proposito di questa poesia, che

“in questi gesti è presente la storia umana, ma questa

storia, la testimonianza che ogni bambino è, può essere

distrutta”. L’attenzione dello sguardo, di cui Pusterla parlò

anni fa in un incontro al collegio S. Caterina di Pavia, c’è

tutta in questi versi: la vicinanza del soggetto poetico al

suo “oggetto” – segno di testimonianza e pietà, due dei

nodi su cui giustamente D’Andrea insiste nella sua

disanima – è palpabile. Questa vicinanza si realizza, a

livello linguistico, con l’uso del tu, che quasi per statuto è

Page 84: Poem shot vol 1 davide castiglione

76

difficile rendere antiretorico: eppure se c’è una resa che

fonde vicinanza evitando ogni sovrattono di affettazione,

è proprio quella a cui è giunto Pusterla.

La vicinanza è fatta di dettagli: testualmente, è il focus

sempre più vicino del soggetto ripreso. Prima il generico

moto dello strisciare, poi l’abbigliamento, poi ancora un

dettaglio meno usuale – dunque maggiormente prestato a

risaltare – come il pelacarote. Anche l’uso del verbo

presente e il discorso diretto segnalato dal passaggio alla

prima persona e a un verbo di resoconto (“sto scalando /

l’Everest, mi dici”) contribuiscono a questo effetto. En

passant, è notevole l’enjambement iconico che separa

scalando e l’Everest, a mimare la fatica del salire (del

crescere, del formarsi, per estensione simbolica). Quando

si è piccoli il poco di un prato è grande quanto il tetto del

mondo, e la prospettiva che lo sguardo del poeta accoglie

è proprio quella del bambino (spie linguistiche come cuffia

e pelacarote non potrebbero essere attribuite ad adulti né ad

altri esseri viventi). L’incipit è in apparenza meramente

denotativo-constatativo: uno scenario naturale – così

ricorrente in Pusterla, e non a caso, data la collocazione

geografica frontaliera – e quel verbo, strisci, del tutto

plausibile se riferito a un bambino. In realtà la posizione di

rilievo della constatazione (a inizio testo) è già un primo

segnale dell’investimento emotivo, benché pudicamente

trattenuto, che investe il dettato.

Eppure, qualcosa increspa questa superficie fatata, come

una tensione irrisolta sul pelo dell’acqua di un lago

svizzero. Chi ha qualche conoscenza dell’opera di Pusterla

sa quanto essa sia testimonianza anche, e spesso, di

Page 85: Poem shot vol 1 davide castiglione

77

tragedia, di sconfitta; e questa poesia non fa eccezione. A

un lettore avvertito non sarà sfuggita l’ambiguità del verbo

“strisciare”, che richiama i soldati nelle trincee o le

umiliazioni dei mutilati, né il forte contrasto simbolico tra

il rosso delle fragole e il bianco del prato; né la violenza in

nuce del pelacarote infilzato nel terreno di marzo

(violenza e sessualità possono essere lette in questo

dettaglio, senza essere tacciati di essere freudiani

impenitenti).

Nella seconda strofa, il brusco passaggio all’imperfetto e al

passato, nella ripresa quasi letterale del primo verso,

conferma i presagi sinistri che fino alla prima strofa

potevano sembrare vizio di sovra-interpretazione e

paranoia del critico. C’è una cesura netta, non solo nel

passaggio temporale, ma anche in quel nel ricordo che ha

forti implicazioni di cancellazione e morte. Continua,

anche fuoricampo (fuorivita?) lo sguardo del poeta, ma

anche l’interferenza del mondo di fuori, delle notizie terribili

ascoltate alla radio. Queste due correnti – pietas per

l’organismo singolo e consapevolezza della cornice storica

– coesistono in Pusterla e arrivano qui a competere per

occupare tutto lo spazio rimasto alla poesia.

Il risultato è un’efficassima contrapposizione di elementi,

un montaggio alternato (simile nella forma, nel principio

di funzionamento, a quello messo in atto dal poeta

spagnolo Luis Garcia Montero in una pur diversissima

poesia che analizzai su Poem Shot 9, non in questo

fascicolo) per cui il presente del ricordo resiste e si ostina

(“e tu continui a strisciare felice”) mentre l’opposto avviene

altrove, il crudo fatto di cronaca della bambina schiacciata

Page 86: Poem shot vol 1 davide castiglione

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a Gaza non è più rimandabile nella coscienza di chi scrive.

Ora i due fatti non sono più scissi, il bene in un luogo

coesiste col male in un altro (“parte del male tu stesso tornino o

no sole e prato coperti”, scriveva Sereni in In una casa vuota).

Cosa può la poesia contro la violenza, contro il male? “For

poetry makes nothing happen: it survives” scriveva Auden

commemorando Yeats. Pusterla sa troppo bene che

questo assioma è atrocemente vero, eppure la poesia

indica simbolicamente un rovesciamento, una rivincita sul

male piuttosto che una sua consolatoria sublimazione: qui,

adottando la prospettiva rovesciata del bambino che

striscia tra le margherite, Pusterla oppone simbolicamente

ma con forza, con estrema forza, il bene del sogno e della

magia (“una pozione con piume d’uccello per imparare a volare”)

alla colpa umana e individuabile dell’uomo. Tanta forza,

tanta verità, con un dispendio assolutamente minimo di

mezzi retorici e un dettato piano ma necessario, tangibile,

in ogni sua singola parola.

Page 87: Poem shot vol 1 davide castiglione

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Poem Shot (29): Roberto Minardi (1977 - )

Mi interesso alla poesia schiva e intrinsecamente libera di

Roberto Minardi dal 2007 (altri due interventi sono su

www.castiglionedav.altervista.org). Se si esclude Note dallo

sterno, un volumetto pubblicato da ArchiLibri nel 2007, e

alcune uscite su riviste quali - se ricordo bene - “Il foglio

clandestino”, “Il foglio letterario”, “Tratti” e “Atti

impuri”, la sua abbondante ma necessaria produzione è

interamente inedita. Roberto sa aspettare, vive da oltre un

decennio a Londra ed è estraneo alle pressioni e alle ansie

dei circoli poetici nostrani, delle quali - quando ne ha

scoperto l’esistenza, informato da me - si è mostrato

sorpreso e di una diffidenza quasi divertita, ma mai snob.

Non esagero se dico di considerarlo un poeta autentico e

un maestro di attitudine prima ancora che di poesia (ai

suoi padri poetici, tra cui Pavese, Larkin, Di Ruscio, Frost,

mi sono accostato troppo tardi, quando mi sentivo già in

parte formato), convinzione che in me è maturata dopo la

lettura, negli anni, di svariate decine di sue sorprendenti

poesie, e lo svilupparsi di una corrispondenza costante e

preziosa. Per Poem Shot ho scelto La sua statura bassa, da

una raccolta inedita ma si spera quasi definitiva, e che dà

un limitato ma significativo assaggio della sua scrittura.

la sua statura bassa

stringe le labbra e non mi guarda,

cerca un posto a sedere,

Page 88: Poem shot vol 1 davide castiglione

80

barcolla leggermente e tiene salda

in mano la cassetta degli attrezzi.

saranno le basette bianche e incolte,

il viso esposto a ciò che c'è fuori,

palesemente, a fare di quest'uomo

una figura da me non lontana

che con le dita preme tira e lascia

andare un filo teso nella cassa

che sta all'altezza dello sterno (immagino)...

dov'è che spargerà, senza pensarci,

in quale casa, l'odore di ferro

che fanno certamente i suoi capelli?

il cane assisterà - se un cane c'è -

al suo pasto serale, al suo bicchiere,

mentre lui mastica e non si concentra

davanti ad un televisore acceso?

che lato che finestra si godrà

le scarse gocce di pioggia che formano

fiumi magrissimi sui doppi infissi?

chissà se c’è anche lì - come c'è qui -

la litania del compressore, lieve,

del frigorifero, nel sottofondo...

avrà il coraggio, infine, che non ho,

di ricoprire la giusta distanza

e non restare confinato in sala,

con l'unica ambizione di cercare

un rapporto alla pari con le fughe

del pavimento?

Il voyeurismo del poeta - aspetto su cui si sofferma Sereni

ne Gli immediati dintorni - è parte integrante della poetica di

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Minardi, in cui l’esercizio dell’osservazione minuta e della

descrizione raggiunge spesso esiti di grazia pensosa,

coraggiosamente sentimentale, o si fa pretesto per

constatazioni velatamente amare, ma aiutate da una

saggezza quasi umoristica, un senso del limite che si ferma

al di qua del tragico e riscatta una forma “forte”

d’intimismo e minimalismo in cui la lezione di Larkin

sembra attiva. La sua statura bassa illustra bene queste

componenti, anche se ha un tono più malinconico rispetto

a molte altre poesie in cui l’iperbole scherzosa, il gusto per

i repentini cambi di marcia del pensiero, l’autoironia

esibita, sono una costante che non ho trovato - almeno, in

questa forma - in nessun altro poeta letto sinora.

La poesia si sviluppa in un unico blocco tipografico, quasi

a marcare l’unitarietà del momento e la fluidità - sempre

discorsiva piuttosto che metaforica - del comporre, a

togliere enfasi sulla forma imposta da fuori che infatti è

messa in sordina: versi tradizionali (endecasillabi, un

novenario, un settenario e un quinario) che

accompagnano come un basso continuo e sembrano

sottolineare il carattere apparentemente immediato dello

scrivere, in realtà frutto di attente limature che tuttavia

intervengono dopo e non durante il processo compositivo.

Già nei primi quattro versi il focus è su una terza persona

- evocata per attribuzione di qualità fisiche già nel titolo -

che entra nella visuale (e verosimilmente nel vagone di una

metro) del poeta, e di cui le azioni contrastanti (barcollare

vs. tenere salda), e quindi una tensione irrisolta, vengono

selezionati. Per il resto, l’artificio retorico è ridotto quasi a

zero, se si esclude l’insistenza trocaica dei primi tre versi

Page 90: Poem shot vol 1 davide castiglione

82

che mima la pesantezza dei gesti. Nei versi seguenti la

descrizione (il ritratto) continua, ma già s’incresca

all’insegna del possibile, dell’immaginazione che continua

la sequenza: ciò si deve al futuro con valore ipotetico

(saranno le basette…), all’entrare in scena dell’io poetico

come ricevente, oggetto senza agenza (a me non lontana, non

mi guarda), e l’interrogativa introdotta da dove, che

restando entro i confini del monologo è indice di

soggettività, così come la discreta introduzione di una spia

attenuativa tra parentesi, (immagino…).

Tra tutte le figure presenti in metropolitana, quella che qui

finisce nei versi lo fa per virtù di un’ipotetica fratellanza o

vicinanza con la persona del poeta (una figura a me non

lontana), in un equilibrio che permette di parlare di altri

mediante se stessi, e di se stessi mediante altre: con una

mossa che invalida tanto il lirismo espressivo quanto il

montaggio impersonale. Si noti, per esempio, come

l’avverbio certamente sia anch’esso indice non di certezza

ma di probabilità, frutto di ipotesi ma non esito di

esperienza diretta (a ricordarci che, dove arriva la vista,

l’olfatto può fallire: in Minardi il corpo, spesso

frammentato nelle sue metonimie, è attore e protagonista,

ma non è quasi mai astrattamente tematizzato come in

molti altri poeti contemporanei). L’ipoteticità della

costruzione continua (“il cane assisterà - se un cane c’è”), e il

delizioso pleonasmo, il ricordarci dell’ovvietà (chiaramente

il cane, se non c’è, non può assistere, come in un’altra

poesia si specifica che il sole è “sotto forma di raggi”) è una

delle cifre più distinte e singolari di questa poesia. Ne

segue che l’incertezza è solo spia di una fedeltà che

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impedisce all’osservatore, sia pure in medias res, di farsi

narratore onnisciente, ma che non gli impedisce di tentare

un “andare sopra le righe”, com’è scritto in un altro testo.

All’accettazione di Minardi - non allarmata ma anzi

riconosciuta come dato di partenza, quasi con affetto -

delle limitazioni del reale, si intreccia una forte libertà che

alle posture teoriche sul come scrivere antepone

allegramente l’ascolto di sé in solitudine e del sé in

situazione.

Si crea perciò una sfasatura tra il primo scenario - io

poetico + figura ritratta in situazione - e il secondo, che

non è da meno in termini di ricchezza mimetica (gli infissi,

il compressore, il frigorifero); sfasatura che viene messa in

evidenza, svelata, quando si passa dal secondo al primo

scenario (“chissà se c’è anche lì - come c’è qui”). Quello che fa il

poeta, in altri termini, è misurare una distanza - tra il reale

mimetico e il reale immaginato, tra la propria e l’altrui

condizione - distanza che si tematizza nell’idea di scacco e

di fuga, con una forte risemantizzazione della parola fughe

usata in senso sia prospettico che esistenziale.

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NOTE BIBLIOGRAFICHE SUGLI AUTORI

Annino, Cristina (1941 - )

- Non me lo dire, non posso crederci (Techné, Firenze, 1968)

- Ritratto di un amico paziente (Gabrieli, Roma, 1977)

- Il cane dei miracoli (Bastogi, Foggia, 1980)

- L’udito cronico (in Nuovi Poeti Italiani, Einaudi, Torino,

1984, a cura di Walter Siti)

- Madrid (Corpo 10, Milano, 1987)

- Gemello Carnivoro (I quaderni degli artisti, Faenza, 2002)

- Casa d’Acquila (Levante Editore, Bari, 2008)

- Magnificat (Puntoacapo Editore, Novi, 2009, auto-

antologia, a cura di Luca Benassi)

- Chanson Turca (Lietocolle, Falloppio, 2012)

Per maggiori info: http://www.anninocristina.it/

Attolico, Leopoldo (1946 - )

- Piccolo spacciatore (Il ventaglio, Roma, 1987)

- Il parolaio (Campanotto, Udine, 1994)

- Scapricciatielle (El Bagatt , Bergamo,1995)

- Calli amari (Edizioni di Negativo, Bologna/Roma,

2000)

- Mix (Signum Edizioni d’Arte, Padova, 2001)

- Siamo alle solite (Fermenti, Roma, 2001)

- I colori dell’oro (Caramanica, Latina, 2004)

- La cicoria (Ogopogo Edizioni d’Arte, 2004)

- Mi s(consenta) (Signum Edizioni d’Arte, Padova, 2009)

- La realtà sofferta del comico (Aìsara, Cagliari, 2009)

Per maggiori info: http://www.attolico.it/

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Bellinvia, Carlo (1985 - )

- Per i vicoli macellai di piccioni e spettri di carta (Cicorivolta

Edizioni, 2006)

Carlucci, Lorenzo (1976 - )

- If music be the food of love, play on (Scheiwiller, Milano,

2007, con Oliver Scharpf e Jacopo Ricciardi)

- La comunità assoluta (Lampi di stampa, Milano, 2008)

- Ciclo di Giuda e altre poesie (L’arcolaio, Forlì, 2008)

Cattafi, Bartolo (1922-1979)

- Nel centro della mano (Edizioni della Meridiana, Milano,

1951)

- Partenza da Greenwich (Quaderni della Meridiana,

Milano, 1955)

- Le mosche del meriggio (Mondadori, Milano, 1958)

- Qualcosa di preciso (Scheiwiller, Milano, 1961)

- L’osso, l’anima (Mondadori, Milano, 1964)

- L’aria secca del fuoco (Mondadori, Milano, 1972)

- La discesa al trono (Mondadori, Milano, 1975

- Marzo e le sue idi, (Mondadori, Milano, 1977)

- 18 dediche (Scheiwiller, Milano, 1978)

- Poesie scelte 1946-1973, a cura di Giovanni Raboni

(Mondadori, Milano, 1978)

- L’allodola ottobrina (Mondadori, Milano, 1979)

- Chiromanzia d’inverno (Mondadori, Milano, 1983)

- Segni (Milano, Scheiwiller, 1986)

- Poesie 1943-1979 (a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni

Raboni, Milano, Mondadori, Milano, 1990,

Page 95: Poem shot vol 1 davide castiglione

87

ripubblicato con una nota biografica a cura di

Vincenzo Leotta, Milano, Mondadori, 2001)

Per maggiori info: http://www.bartolocattafi.it/

Cava, Alessandra (1984 - )

- rsvp (Polìmata, Roma, 2011)

Corsi, Roberto R. (1970 - )

- L’indegnità a succedere (Esuvia Edizioni, Firenze, 2007

[cartaceo])

- Divagazione, polemica e congedo (2009 [pdf])

- Sinfonia n. 42 (2011[pdf])

- Gli occhi di Prometeo (con L. Ugolini, 2011, [pdf])

- All’orza. Poesie 2005-2007 (2010 [ebook])

- Il ridursi del tutto a vuoto d’avvenenza (2011 [ebook])

Per maggiori info: http://www.robertocorsi.wordpress.com/

Crosara, Erika (1977 - )

- Ius (Anterem Edizioni, 2010)

Minardi, Roberto (1977 - )

- Note dallo sterno (ArchiLibri, 2007)

Palmigiano, Alessandra (1973 - )

- La seconda natura (LietoColle, Milano, 2008)

Page 96: Poem shot vol 1 davide castiglione

88

- L’appropriato governo del fuoco (La Vita Felice,

Milano, 2012)

Pusterla, Fabio (1957 - )

- Concessione all’inverno (Casagrande, Bellinzona, 1985)

- Bocksten (Marcos y Marcos, Milano, 1989)

- Le cose senza storia (Marcos y Marcos, Milano, 1994)

- Pietra sangue (Marcos y Marcos, Milano, 1999)

- Folla sommersa (Marcos y Marcos, Milano, 2004)

- Le terre emerse. Poesie scelte 1985-2008 (Einaudi, Torino,

2009)

- Corpo stellare (Marcos y Marcos, 2011)

Scalise, Gregorio (1939 - )

- A capo (Geiger, Torino 1968)

- L’erba al suo erbario (Geiger, Torino 1969)

- Gli artisti (Lunario nuovo, Catania, 1986)

- Danny Rose (Amadeus, Montebelluna, 1989)

- Poesie dagli anni ’90 (Orizzonti Meridionali, Catania,

1997)

- La perfezione delle formule (Stampa, Varese, 1999)

- Controcanti (Quaderni del circolo degli artisti, Faenza,

2001)

- Nell’ombra nel vento (Art, Bologna, 2005)

- Opera-opera poesie scelte 1968-2007 (Luca Sossella editore,

Roma, 2007)

Page 97: Poem shot vol 1 davide castiglione

89

Sereni, Vittorio (1913-1983)

- Frontiera (Corrente, Milano, 1941; Valecchi, Firenze,

1942)

- Diario d’Algeria (Valecchi, Firenze, 1947)

- Gli strumenti umani (Einaudi, Torino, 1965)

- Stella variabile (Garzanti, Milano, 1981)

- Poesie (Mondadori, Milano, 1995, a cura di Dante Isella)

Sinelli, Paul (1972 - )

(nessuna pubblicazione)

Tomasiello, Paola (1981 - )

(nessuna pubblicazione)

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Davide Castiglione è nato ad Alessandria nel 1985. Nel 2010 si

è laureato in lingue e letterature straniere all’Università di Pavia,

con una tesi dal titolo Sereni traduttore di Williams. Da settembre

2011 vive a Nottingham (UK), dove conduce un dottorato di

ricerca in poesia contemporanea e stilistica.

Ha vinto, nel 2008, ai concorsi «I poeti laureandi» e «Subway».

Suoi testi sono apparsi su antologie (I poeti laureandi, Momboso,

Pavia 2006 ed Edizioni Santa Caterina, Pavia 2009; Tredici

cadenze, Puntoacapo, 2011; Antologia della poesia piemontese,

Puntoacapo 2012), riviste («L’osservatorio letterario»,

«Capoverso») e su «Lo Specchio», supplemento della «Stampa».

Ha pubblicato la raccolta Per ogni frazione (Campanotto, Udine

2010), segnalata al premio Lorenzo Montano 2011 e recensita su

diverse riviste e blog letterari.

Cura il sito personale www.castiglionedav.altervista.org, è nella

redazione della rivista dopotutto e recensisce per i siti

www.criticaletteraria.org e www.giardinodeipoeti.wordpress.com

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