Poem shot vol 1 davide castiglione
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Transcript of Poem shot vol 1 davide castiglione
Titolo Poem Shot - Traversate di testi esemplari da 15 autori italiani
di
Davide Castiglione www.castiglionedav.altervista.org
Edizioni a cura di
[email protected] www.poesia2punto0.com
Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.
Poem Shot Traversate di testi esemplari da 15 autori italiani
di
Davide Castiglione
1
Premessa
Sono qui raccolte in un unico file (e lievemente riviste, per
adattarle al nuovo medium) le quindici analisi testuali fatte
finora (da dicembre 2012 a giugno 2013) su poeti italiani -
sia contemporanei più o meno noti che classici moderni,
come precisa scelta anti-storicistica - nella rubrica Poem
Shot. Un secondo fascicolo, con le analisi di quindici
stranieri, seguirà nei prossimi mesi, con mie nuove
traduzioni in italiano, stavolta non più di servizio.
Non c’è, in questo mio raccogliere queste prime quindici
analisi, una volontà di “pre-canonizzazione”, sia essa
rivolta ad alcuni degli autori o a me stesso in quanto
critico militante. C’è invece una volontà di ordine e
chiarezza, e di ridare ai Poem Shot il loro spazio naturale - la
carta, dato che tutte sono nate in un file word e destinate
solo in un secondo momento a diventare post in un sito,
necessariamente più corrivi.
Inoltre, mi è sembrato giusto e interessante inserire anche
le considerazioni di Lorenzo Carlucci sulla mia analisi,
ovviamente con il suo consenso. Questa modalità un po’
diversa consente di valutare la vicinanza o lo scarto tra chi
è comunque “esterno” (il critico) e chi è “interno”
(l’autore di una data poesia) e offrire spunti ulteriori.
2
Se non sbaglio, fu Pound a sostenere che a studiare
approfonditamente la scrittura di alcuni testi esemplari si
impara assai di più che nel leggerne molti. Non sta a me
valutare se Pound abbia avuto torto o ragione, perché non
è questo il punto: dico soltanto che questa ricetta ha
funzionato - sta funzionando - per me, sia perché si
confanno a un mio modo naturale di fruire la poesia
(analitico, diluito nel tempo, fatto di ritorni), sia perché i
Poem Shot rappresentano, almeno in seconda battuta,
un’occasione per confrontarmi (da autore anche di versi)
con una piccola frazione di quanto di meglio, secondo il
mio senso critico, si sta facendo o si è fatto in poesia in
questi ultimi tempi.
A latere, spero ovviamente che queste analisi siano
d’incoraggiamento per altri critici, perché possano
riscoprire il piacere di misurarsi sui testi anziché sulle
questioni capitali senza prima passare per l’importanza
della lettera; e ai lettori, perché da essi derivino alcuni
spunti da integrare, preferibilmente a posteriori, dalla
lettura il più possibile “vergine” del testo poetico.
Infine, da questo fascicolo ho sviluppato una sorta di
tavola, o mappatura, stilistica: questa non è inserita nel
fascicolo per non appesantirlo, ma sarà disponibile a breve
su Poesia 2.0 e sul mio blog personale.
Buona lettura, o rilettura, insomma.
Davide Castiglione, 5 settembre 2013
Poem Shot Traversate di testi esemplari da 15 autori italiani
3
Poem Shot 2: Carlo Bellinvia (1985 - )
Carlo Bellinvia lo lessi anni fa su un sito di poesia – uno di
quelli non selettivi, dove puoi trovarci di tutto nel bene e
nel male – e il suo modo di fare poesia mi colpì molto:
nella sua capacità camaleontica di mutare agilmente stili e
forme poetiche, dagli haiku a poemetti discorsivi, con un
occhio attento a Montale ma almeno un altro verso un suo
superamento.
Corrispondemmo, scrissi dei commenti a una sua raccolta
inedita, poi di lui non ho più saputo nulla, fino a pochi
mesi fa (giugno 2013) quando si è rifatto vivo, con mia
grande gioia.
Di edito, che io sappia, c’è solo la raccolta di haiku Per i
vicoli, macellai di piccioni e spettri di carta (Cicorivolta 2006). Le
sue cose migliori però, secondo me, sono nei testi che
articolano un discorso, una descrizione. È il caso de
L’immobile, che pubblico e commento qui: questo
poemetto è a mio parere uno dei suoi migliori testi scritti
allora – a 22, 23 anni all’incirca.
L’immobile
I.
Dell’aria che esce, dell’aria che entra,
nel blu dipinto di blu, elettrificato ora dai lampi ora dai soli
come siete deviate nel vostro avvivarvi, stagioni scadute, d’inserto in altre stagioni,
e anzi nel vostro scombinarvi in un unico anno minore, il meno certo.
4
II.
E il colore e la lozione è nella foglia cinese, il must, il devi esserci d’autunno,
ma qui in città ancora rappresentativa di molti alberi, agli incroci,
e non si usa ormai più la resistenza che la tenga ancora lì affissa in croce;
se cade non si sa in quale oblio: inesistenti funerali di incarnati gialli,
solo morti promiscue di antichi bianchi. Fogli-nunzi, rivangati dal vento-becchino.
III.
Sopra le ringhiere, ancora decidono le ere le podarcis appassite
al loro milionario appuntamento, per remoto retaggio, col raggio garibaldino
dell’immaturo sole di marzo. Tutta la tetralogia primaverile è posta quasi in dubbio
dallo sfarzo dallo sfocio del ramarro dalla sterzata dal suo innescato contropiede.
Per inferiorità realizza l’autogoal: s’allenta colla fitta rete della verdura sventolata,
da ultrà difensivista. Sarebbe però irragionevole presagio invernale
se i suoi passi indietro contassero come giorni. Dagli al ramarro letargista- repubblicano!
IV.
Che, se torni, dal balcone si vede, la macroscopica calligrafia, a lettere chiare, del mare
che a branco ora si smembra o continuo, bianco suo autografo oppone
-la sua biografia discorre nella distesa, non solo nelle disperate profondità o nel cielo che vi si replica-
e gode nel poter accostare la culminata lingua all’inguine della spiaggia ultima:
mi varrà come bramosia, d’estate, ma siamo in marzo, appunto.
V.
Così, tutta sommata, mi piace questa nostra minima dimensione
che volge al male, questa mezza glaciazione, totale desertificazione
di simboli, di sentimenti. Dici che la Coca-Cola resterà: non menti. Pure Paperino,
timbrato senza narici (per orrore pop), anche senza olfatto la scamperà lo stesso.
Invece adesso scattista sulla già brevissima distanza
è il tempo nei riguardi dell’abitante della mia stanza.
Tutta la sequela si ricomincia da tutti o da nessuno,
da me o da te o dal responso assoluto
della pietra che suscita acqua.
5
Le stagioni sono un topos letterario: difficile non trovare
chi non ne abbia scritto. Precedenti novecenteschi illustri
sono Eliot (il ciclo stagionale alla base dell’architettura de
La Terra Desolata) e anche il tardo Montale, che intitola Le
stagioni una delle più riuscite poesie di Satura.
Se riduciamo una poesia al suo tema (nucleo semantico o
matrice, secondo Riffaterre), la distruggiamo: è il limite di
tanta critica contenutistica e solo tematica. Invece, la
grandezza o almeno la bravura sta quasi tutta in superficie,
nella struttura linguistica e discorsiva del testo. Vediamo.
D’impatto, colpisce l’estensione dei versi liberi, la cui
struttura ‘agglutinata’ è memore di grandi precedenti del
secondo novecento (Sereni, Luzi, Bertolucci,
Pagliarani…). In particolare, la punteggiatura scandisce il
dettato in unità minori, alcune delle quali a loro volta
scandibili – e scandite, alla lettura – come versi lunghi
composti (vd. il primo verso della sezione II).
Le rime interne – in sordina, come voleva Montale – sono
funzionali a complicare e rilanciare il verso lungo,
solitamente spia di un’attitudine affabulatoria e discorsiva.
È infatti sul piano dell’inventio discorsiva che la poesia
mostra una considerevole varietà nell’unità, un intarsio che
la rende omogenea ma increspata e avvincente al tempo
stesso. Alcuni esempi: in I, verso 1, il complemento
d’argomento in stile trattatistico (Del…) contrasta
ironicamente con l’ovvietà tematica (aria che esce, aria che
entra), che a sua volta è complicata dai riferimenti alla
cultura popolare (la celeberrima canzone di Modugno).
Questo stile ‘distaccato’ cede poi il passo a un’inflessione
elegiaco-nostalgica, con il vocativo (come siete deviate, I, v.3).
6
Nella sezione II, il topos – pochi ve n’è di più triti – della
foglia d’autunno e della morte è riciclato in un
immaginario contemporaneo, coi riferimenti al
consumismo, alla cultura dell’esserci (must). C’è una voce
che parla e che descrive, un ‘io’ ragionante ma per nulla
sovraesposto in termini emotivi: c’è un mescolio di
disincanto eppure di continua attenzione.
In III – notare intanto l’insistenza delle consonanti liquide
‘l’ e ‘r’, le rime interne e le fricative sorde ‘z’ e ‘s’ – un
dettaglio (‘continua attenzione’, appunto), il ramarro di
montaliana memoria, fa cadere, squarcia l’ordine degli
eventi, come il singolo è talora irriducibile alla
generalizzazione.
In IV mare e scrittura si compenetrano – la mia memoria
non può non andare al poemetto di Sereni “Un posto di
vacanza” e anche a una poesia di Williams, tradotta da
Sereni, in cui le onde sono descritte come parole:
“frangersi d’onde come di parole”, e forse anche Shelley e
la tradizione romantica in generale – salvo poi che un
unità colloquiale come ‘appunto’ chiude il pur trattenuto
slancio lirico dell’imagery appena tracciata.
In VI, infine, infrange appena l’impersonalità modernista
del poemetto presentando una figura umana – il poeta
stesso – mediante perifrasi straniante (abitante della mia
stanza: come se l’esserci fisicamente, l’occupare spazio sia
una delle poche cose incontestabili). Nel – per me –
bellissimo finale, che combina pietra e acqua (anche qui,
torna in mente Eliot, certo Williams, ma anche, nel tropo,
le poesie di Laura Biagini postate su “Le parole e le cose”
il 9 dicembre 2009), nell’affermazione di una verità
7
oracolare, in netto contrasto con i riferimenti bassi, ‘pop’
della Coca-Cola e di Paperino. Tutto questo a poco più di
vent’anni: e scusate se è poco.
8
Poem Shot (4): Paola Tomasiello (1981 -)
Anonimia è una poesia di Paola Tomasiello, come Carlo
Bellinvia altra poeta pressoché inedita e con cui ero in
contatto, avendone, poi, perso le tracce.
Ricordo che quando la lessi, mi colpì come poche poesie
avevano saputo colpirmi prima. Gli anni, le nuove letture,
un maggior disincanto, perfino un mio cambio di poetica,
non sono bastati a non farmi credere ancora in un testo
così.
Anonimia
Mia frontiera di volti in comunione,
che abbiano inizio gli scavi.
Presto ritroverò
aorta emaciata e occhi elisi.
Forse qualche rosa.
Sognando, a volte,
la fossa che mi sorprende.
Ché sui margini sociali
ancora non mi volto.
E annuso furia primordiale.
Venerata sodomia
di bestie inconsapevoli.
Non una sola lettera, segno, simbolo
a rivoltare questo bianco vuoto.
Limite cellulosico muto.
Dopo la sepoltura,
luce e terra solenni abbastanza.
9
Così me ne andrò
con bava artificiosa su labbra di graniglia
e il terrore di disturbare
sudicio sotto le unghie,
austera,
elio inerte.
Tra condotti di qualcuno
io, in acque conseguenti,
scoglio allusivo.
L’esperienza della propria morte (aporia linguistica, poiché
non possiamo avere esperienza della nostra morte) è
fissata lucidamente, come strumento conoscitivo e
indagatore del Sé: una prefigurazione che ha precedenti
illustri (penso alla bellissima Le sei del mattino di Vittorio
Sereni, dove parla di una casa visitata dalla mia fresca
morte; a Sereni rimanda anche la parola frontiera e il tono
cupo ma stoico del dettato).
La presenza di una voce poetica, di un io che articola il
discorso e la rende presente, tangibile – a partire dal
generico vocativo che apre il testo – ci accoglie, ma con
responsabilità e senza morbosità, senza far leva su
un’emotività spicciola ed esibita, limite maggiore di molte
poesie cosiddette confessionali.
Non mi sembra, questa poesia, una di quelle che ci spiano
guardandoci e riguardandoci gli ormoni, come ha scritto
con arguzia (e con ragione) il poeta Leopoldo Attolico
(vd. Poem Shot 15).
10
C’è un senso di calma ineluttabilità, una certezza che viene
come liberazione (Presto ritroverò, a contraddire il
concetto di perdita associato alla morte).
Mi sembra indubbio che proprio l’articolazione della voce
(più concretamente: la lettura a voce, suggerita dalla
disposizione delle virgole, dei fine-verso, della struttura
degli enunciati, spesso nominali ed ellittici) dia a questa
poesia un’aria di incontestabile autenticità.
Ma c’è molto altro. Il tessuto semantico del testo è infatti
più complesso di quanto faccia apparire questa dizione
composta. Cerco di rintracciarne alcuni fili, che spero
vogliate seguire insieme a me.
Anzitutto, vedo una sorta di sottilissima e appuntita ironia
(eppure smorzata da un senso di pathos, di vera
partecipazione) nell’uso dell’espressione in comunione:
comunione nella morte, nella separazione. Da un lato un
fattore antropologico, cioè la coesione sociale garantita
dalle cerimonie funebri; dall’altro però, in filigrana, la
constatazione che questa comunione è una frontiera,
qualcosa da raggiungere – evento impossibile, data la
morte immaginata ma accuratamente descritta – e al
tempo stesso, qualcosa che frena.
Il secondo verso può essere ferocemente letterale, ma
scavi è parola associata alla ricerca, a un’attività (lo scavo
del poeta nella sua lingua: questa metafora di “poesia =
scavo” è abbastanza assestata). Ed ecco che la morte
immaginata si fa occasione di azione, segnalata dai
frequenti verbi in prima persona (ritroverò, annuso, me ne
andrò), e l’anonimia dello scomparire (e del titolo) è
contraddetta dalla drammatica messa al centro del
11
soggetto, unico, vero – paradossale – superstite della
scena. Si veda inoltre come le parole formino patterns
semanticamente coerenti: da fossa (v. 7) si passa a margini
(v. 8), con un transfert semantico (da senso letterale a
senso metaforico corrente) garantito da una inclusione
metonimica (la fossa è caratterizzata da margini). La terra
(della sepoltura) è poi replicata, nella seconda strofa, in
terrore, non solo per l’inclusione anagrammatica, ma
soprattutto perché i predicati che lo descrivono (sudicio e
sotto le unghie) derivano entrambi da terra.
Un’altra potente risorsa di questo testo, infine, è nello
scontro concreto-astratto, tipico di molta poesia
espressionista e neo-ermetica (alla De Angelis, per
intenderci) rilevabile in questa tensione tra terra e terrore,
e più ancora in scoglio allusivo, sorta di sintagma
ossimorico in posizione di rilievo (a chiusa del
componimento); senza contare poi la ricerca
fonosimbolica, che collega a distanza aorta emaciata e
occhi elisi con austera, elio inerte, a creare un sotto-
sistema in cui la morte (ora vista come metonimie del
corpo, connotate da una attenta scelta aggettivale) viene
risarcita con una bellezza estetica che però non tradisce e
non traveste la verità della constatazione (cioè, lavora
sempre entro i limiti di una certa verosimiglianza).
12
Poem Shot (6): Lorenzo Carlucci (1976-)
La comunità assoluta (Lampi di stampa 2008), di Lorenzo
Carlucci, è un libro che sono tornato a rileggere
quest’estate, trovandoci grande varietà di forme e un
primitivismo quasi aggressivo, stralunato, l’uso del non-
sequitur, la commistione di didattico e lirico. Forse, tra
tutti, il testo che più mi si è impresso nel ricordo - già dalla
prima lettura quasi quattro anni fa - è enespace10 qui
sotto, che certo ripropone molti aspetti, anche formali,
dell’intero libro.
enespace10
Tra una pattumiera e un distributore, su una panchina rossa.
La mia vita è uno straccio.
E’ evidente, il mio cuore ti accoglie come un cielo.
La panchina è rossa come il distributore.
E’ evidente che le buste della spesa mi segano le dita.
Evidente.
Io ti accolgo nella mia vita straccio perché sono vuoto.
Sono per voi.
Le mie mani sono vuote. Il mio petto respira il respiro del cielo.
Le mie mani sono vuote, il sangue è rosso come questa panchina.
Voi andate, avete sangue. Andate.
13
Tra una pattumiera dalla quale mi aspetto che esca
il viso di uno scoiattolo
un topo
un uccello
e un distributore dal quale mi aspetto che esca
una coca-cola
mi fumo una sigaretta e la butto per terra a metà.
—
Il mio respiro è uno straccio, voi mi attraversate.
Il mio petto è attraversato dalla sigaretta
fumata a metà
che butto per terra.
Questo silenzio è insopportabile. Andate.
Lo stare seduto sotto lo straccio del cielo
è insopportabile. Venitemi a prendere.
Dalla pattumiera dalla quale mi aspetto che esca
il viso di uno scoiattolo sporco
non esce nessuno. Voi andate.
Continuate a vendere piante lungo una porta a vetri.
Le mie tasche sono vuote.
Pago ogni piantina con una malattia.
Venitemi a prendere.
Dal distributore dal quale mi aspetto che esca
una coca-cola
esce una coca-cola.
(Da La comunità assoluta, Lampi di stampa, 2008)
14
Cominciamo dal titolo, che graficamente camuffa –
tramite abolizione di spazio bianco – l’espressione
francese mise en espace, derivata da mise en scène, e che
rispetto a quest’ultima non ha le stesse pretese di
verosimiglianza e sofisticazione: più un bozzetto
semplificato ma tridimensionale, come da installazione.
La descrittività preparata dal titolo viene messa in atto dal
primo verso, formato da due indicazioni di circostanza
spaziale tramite sostantivi indicanti cliché urbani:
pattumiera, distributore, panchina. Come un dipinto di
Hopper.
Dopo questa inquadratura senza soggetto, ci
aspetteremmo lo svolgersi di un’azione – e invece il
secondo verso vira in un tono patetico-confessionale
veicolato da una frase fatta (La mia vita è uno straccio);
l’ironia risiede nella possibilità di leggere letteralmente
questo verso, perché straccio è nello stesso paradigma
situazionale di pattumiera. Ironia che diventa palese, quasi
sfrontata, nel verso successivo: È evidente, il mio cuore ti
accoglie come un cielo. Da una parte, l’insistenza sull’io
confessionale – ma destrutturato perché sovraesposto,
come in Frank O’ Hara – crea continuità; dall’altro,
l’antipoetico È evidente, a metà tra didatticismo e
rimprovero, cozza con l’esposto poetismo della vita che
accoglie come un cielo. Con questa mossa, il poetese è
invalidato ma così anche l’appoggio pseudo-scientifico
all’empirismo dell’evidenza, ulteriormente svalutata (come
molte altre cose) dalla sua ripetizione ossessiva nel corso
del testo.
15
Come nella Pop Art, l’appeal popolare (cuore, vita, cielo) è
sorretto da una fine ironia e autoconsapevolezza
avanguardistica. La svalutazione insita nella ripetizione, sul
piano strutturale, può forse essere accostata – pur con
qualche mio timore di sovra-interpretazione – alla
riproducibilità dell’opera d’arte di cui ha scritto Benjamin.
Il discorso corrosivo si impunta poi contro la mistica
dell’accoglienza, contro – mi sembra – l’epigonismo
esausto di una tradizione alta culminata in Heidegger e
Celan (io ti accolgo… perché sono vuoto). Il bello, però, è che
nemmeno a quest’ironia postmoderna possiamo dare
intero credito, perché – in questa poesia, ma anche in
molti punti del libro – c’è davvero un’inflessione umana,
lacerti di testo che suonano autentici.
Voi andate, avete sangue è uno di questi; e altri corrono
comunque sul filo tra ironia e paradossale autenticità. Il
primo movimento si conclude in un rimescolamento degli
elementi (ritroviamo la pattumiera e il distributore) e in un
finale in sordina, tipico di certa narrativa novecentesca: un
finale che fa di tutto pur di non essere memorabile.
Il secondo movimento riprende, per via di elementi di
coesione testuale, il primo: segnatamente, la sigaretta
fumata a metà.
L’io che parla davvero sembra svuotato, contraddittorio
(Andate, ma poi Venitemi a prendere). Il finale, nel suo
understatement, è eloquente: il coincidere di desiderio e
realtà (Dal distributore dal quale mi aspetto che esca / una coca-
cola / esce una coca-cola) può avvenire, e allora, per quanto
amara, l’eliminazione della sorpresa si contrappone
comunque al nulla dell’angoscia beckettiana di prima (non
16
esce nessuno) e così la ripetizione dell’uguale (l’immobilità
che struttura tutta la poesia mediante il riuscitissimo gioco
di ripetizioni e variazioni che chiunque può verificare da
sé) è salvezza e condanna al tempo stesso.
Cosa ci salva da questo stallo, da questo eterno ritorno
dell’uguale? forse la consapevolezza, amarissima, di pagare
ogni piantina con una malattia, la consapevolezza che l’unico
tratto quasi libero della poesia (non imprigionato dalle
ripetizioni) è il verso – con funzione di discontinuità –
continuate a vendere piante lungo una porta a vetri, che sembra
uscire dall’asfissia desolata e un po’ caricaturale della
scena: libero è il capitalismo, da intendersi non solo
economicamente ma anche antropologicamente (vendete),
prigioniero tutto il resto (le tasche vuote ben riflettono
l’avvenuta foga dell’acquisto, il pagare, anzi: il pagarla).
Questo mi sembra il sunto, il nocciolo del testo – se poi
verrò ammonito e contraddetto dallo stesso Carlucci per
questa mia appropriazione indebita, tanto meglio: se ci si
accoglie, proprio vuoti non bisogna essere.
Appendice: due risposte di Lorenzo Carlucci
Caro Davide Castiglione, ho trovato poco fa per caso la
tua lettura del mio testo “enespace10”. Ti ringrazio per
l’attenzione (spassionata, i.e., appassionata). Ho trovato
molto piacevole la tua analisi, e in grandissima parte esatta
e acuta. Mi ha illuminato su alcuni aspetti del mio testo e
perciò te ne sono grato. Mi sono molto compiaciuto dei
17
tuoi rilievi sulla funzione di certi espedienti lirici e, di
contro, avanguardistici, come quando scrivi: “Con questa
mossa, il poetese è invalidato ma così anche l’appoggio
pseudo-scientifico all’empirismo dell’evidenza,
ulteriormente svalutata (come molte altre cose) dalla sua
ripetizione ossessiva nel corso del testo”, oppure: “Il
bello, però, è che nemmeno a quest’ironia postmoderna
[…] possiamo dare intero credito”. Questo doppio
movimento - di liberazione da un doppio vincolo - è
quanto di più bello io possa immaginare.
Per il resto, “un certo fauvismo aggressivo ed esibito” è
forse il limite di quel libro, ma è (stato) un tratto
inaggirabile del mio carattere in gioventù. Contiene però
un elemento essenziale, quello pulsionale, che è meno
transitorio e altrettanto centrale. L’aggressività che rilevi,
insieme alla posizione dei problemi (esistenziali, etici,
filosofici, etc.) in una dimensione pulsionale è
probabilmente una caratteristica essenziale di quanto ho
scritto e scrivo. (Proprio oggi ho passato la mattinata a
leggere il capitolo “Pulsioni e difese” di “Il secolo
inquieto. La formazione della cultura borghese (1815-
1914)” di Peter Gay!) Questo aspetto viene molto bene in
luce nella tua lettura della chiusa della poesia: “Il finale, nel
suo understatement, è eloquente: il coincidere di desiderio
e realtà […] può avvenire, e allora, per quanto amara,
l’eliminazione della sorpresa si contrappone comunque al
nulla dell’angoscia beckettiana di prima (“non esce
nessuno”) e così la ripetizione dell’uguale (l’immobilità che
struttura tutta la poesia mediante il riuscitissimo gioco di
ripetizioni e variazioni che chiunque può verificare da sé)
18
è salvezza e condanna”. Capisco leggendoti che questa
coincidenza di desiderio e realtà è la mia versione di ciò
che si può chiamare una “tautologia estetica” - o una
“estetica della tautologia” se vuoi – una forma che è
presente in diversi altri poeti della mia età. Per esempio
prendi questa chiusa di Valentino Ronchi (da: “La Casa di
Ostiglia”, Canzoni di Bella Vita): “[…] A un piccolo market
ho preso pane / e affettato e una lattina colorata. In
piazza all’ombra / ho mangiato e bevuto. Ecco, è tutto
così, ecco è tutto qua”. Qui è in forma più ontologica o
fenomenologica (e - almeno apparentemente - più
pacificata) mentre nel mio testo è in forma più pulsionale
e meno risolta (come tu scrivi: “è salvezza e condanna”).
Ma probabilmente le due istanze sono commensurabili.
La tua conclusione (“libero è il capitalismo (“vendete”),
prigioniero tutto il resto (“le tasche vuote” ben riflettono
l’avvenuta foga dell’acquisto, il pagare, anzi: il pagarla)”)
mi ha stupito e a tutta prima non mi ha convinto,
soprattutto per la sua dimensione esplicitamente politica, a
me davvero estranea. Ma con un po’ di riflessione ho
potuto riconoscerle una certa esattezza. Ricordo che la
poesia è stata composta su una panchina (rossa) all’uscita
di un K-Mart in un centro commerciale in un paesino di
provincia degli Stati Uniti. Le tasche vuote erano per me
un semplice correlativo oggettivo dell’io svuotato, ma
effettivamente avevo appena fatto la spesa (e nella poesia
si parla delle “buste della spesa”). Cosicché le tasche vuote
sono anche l’indice di un’azione compiuta: comprare,
pagare. Dunque hai di fatto ragione, e tanto più in quanto
accenni a una dimensione morale del pagare, seppure di
19
sfuggita: “il pagare, anzi: il pagarla”. Preferisco leggere il
“pagare” in questa prospettiva etica. Analogamente, non
intendevo indicare il “capitalismo” come unica forma
possibile di libertà, quanto contrapporre il fluire di una
comunità viva (che ha “sangue” e “piante” da vendere) ma
indifferente (“continuate”) alla stasi di un individuo
irretito in una meccanica di vacuità e vacua accoglienza
perché non sa (ancora) bene cosa farsene della sua
“consapevolezza”. Che questa comunità fosse una società
capitalistica ha un che di accidentale, ma certo non
trascurabile.
**
Caro Davide aggiungo una glossa a quanto ti ho scritto
ieri: "La tua conclusione (“libero è il capitalismo
(“vendete”), prigioniero tutto il resto [...] mi ha stupito e a
tutta prima non mi ha convinto, soprattutto per la sua
dimensione esplicitamente politica, a me davvero
estranea." Non posso certo sostenere che una dimensione
politica in senso lato sia assente da un libro che ha per
titolo La Comunità Assoluta: intendevo dire che mi è
estranea (almeno in quel libro) ogni forma di esplicito
schieramento politico o di predilezione per una forma
economica rispetto a una qualunque altra. Che io fossi
immerso in una società decisamente capitalistica durante la
stesura del libro è un dato oggettivo e non il frutto di una
scelta, decisione, o predilezione.
20
Poem Shot (8): Alessandra Cava (1984 -)
Avevo già letto in rete qualcosa di e su Alessandra Cava,
giovane poetessa la cui ascendenza rosselliana è stata
puntualizzata dalla postfatrice al volume, la critica Cecilia
Bello Minciacchi, e condivisa da Stefano Gugliemin, tra gli
altri. Ci sono tornato grazie a “I poeti sono vivi”, che l’ha
ospitata pochi giorni fa, abbastanza in conflitto con il
genere di poesia postata lì solitamente. Riporto la poesia in
questione:
oggi è un sole lungo, uno sguardo di notte bianca –
natura mi scosta, mi ignora: di sicuro la offende
il mio amore d’interni, di tubi, di tetti, di vetri all’incastro;
ma poco le basta, quel poco che afferra alle spalle
con passi d’altalena, quando sbaglia e prende aloni d’inferno,
quando pare artificio, un inganno, uno schermo
e m’attendo si spenga – processo d’infrazione del mondo, nulla
che raduna i suoi pezzi, così il mio seguire una parola
con altra in spazi di vuoto – ecco me allora, a chiedere di quale
tessuto è il ricordo, di quale s’intreccia, se è uguale, uguale
il colore – ecco allora l’immagine fatta di niente, ecco che arriva,
ecco, col suo bagaglio di niente – si sta a scrivere
allora, si sta in angolo stretto, si sta –
(Da rsvp, Polimata, 2011)
21
La poesia è quasi un unico momento sintattico, se si
escludono i vv. 1-3 (constatazione in forma affermativa +
micronarrazione di un rapporto tra natura e io poetico), la
sintassi è paratattica, procede per addizioni spesso
appositive, la versificazione lunga e la grande quantità di
inarcature sottolineano questa prosodia ansiosa, che
sembra crescere per poi implodere in un finale tanto
marcato stilisticamente (la ripetizione di sta con variazioni
nell’uso da un’occorrenza all’altra) quanto in sordina nel
suo contenuto letterale, che si limita a ripetere un dato
banale in forma impersonale e perciò collettiva (si sta a
scrivere).
È la banalità del dato enunciato che però racchiude
un’intera poetica, quella del limite riconosciuto
dolorosamente ma non accettato, che qui mi pare di
intravedere: un carico di angoscia esistenziale anche
sottolineato dal procedimento stilistico a cui ho prima
accennato.
Perché inizio questa mia lettura dalle strutture (sintassi e
verso, ritmo)? Perché ancora più dei motivi (lessico, temi)
esse indicano un modo di porsi, perciò vi si rinuncia meno
volentieri che a un certo lessico (e da qui la compattezza
stilistica della maggior parte delle raccolte oggi in
circolazione).
È alla forma di questa poesia per come l’ho
sommariamente descritta che si lega infatti spesso
l’interrogazione ansiosa e insoddisfatta; la quale, a livello
enunciativo, è accentuata dalle innumerevoli ripetizioni,
tendenzialmente di parole singole e che qui mi sembrano
più vicine all’uso che ne fa Sereni piuttosto che Rosselli:
22
sono marcatori psicologici più che intere serie svuotate
dalla loro ripresa ossessiva, da ventriloquo.
Sul piano del contenuto, si profila una duplice
opposizione: Io poetico vs. Natura, e Natura vs. Artificio.
Del resto, come ha notato il critico strutturalista
Riffaterre, la poesia è sempre attratta dalle opposizioni
polari, e le declina come variazioni degli stessi ossessivi
elementi-base.
Vediamo il primo contrasto: anzitutto, l’Io poetico è quasi
sempre paziente, non agente semantico. Vale a dire che
subisce l’azione anziché compierla (mi scosta, mi ignora).
Quando diventa agente, rimane passivo (m’attendo, mio
seguire, ecco me allora), come una contingenza. All’opposto,
la natura compie pressoché tutte le azioni elencate nella
poesia, veicolate spesso da verbi ‘forti’ (scosta, offende,
sbaglia, prende).
Quanto al secondo contrasto, la elencatio del verso 3 offre
un piccolo campionario dell’artificiale inizialmente
opposto alla natura (che infatti si offende). Eppure la
natura, quando sbaglia (viene in mente lo sbaglio di natura
montaliano) può farsi o sembrare artificio, schermo e
inganno (v. 6). In questo modo è come se il conflitto si
risolvesse in una identità tra natura e soggetto, poco
importa se amorfa e disorganica (nulla / che raduna i suoi
pezzi [...] così il mio seguire).
Notare, nel passaggio appena riportato, anche la sua
ambiguità sintattica e semantica, a racchiudere una
contraddizione nello stesso enunciato: 1. Niente raduna i
suoi pezzi o 2. Il nulla che raduna i suoi pezzi; la stessa catena
sintagmatica nulla che è in De Angelis, nella poesia Nei
23
polmoni: nulla che / fu soltanto materia. Così il nulla,
tematizzato e replicato in immagine fatta di niente [...] col suo
bagaglio di niente (perifrasi per la poesia stessa?) porta alla
scrittura, interpretata e vissuta come atto passivo (come
dettatura: posizione orfica per eccellenza).
Elementi che concorrono a fare di Cava – in questa
poesia, ma probabilmente anche nelle altre – una voce
lirica e tragica, e dove però la posizione del soggetto è
meno centrale che in Rosselli (dove l’io grammaticale è
invece spesso nel focus dell’informazione) e, se posso
osare, quanto detto sembra arrivare con molta meno sfida,
come umile ricognizione su di sé.
Chissà in che modo si evolverà questa poetessa a me
coetanea: chissà se all’intensità ritmica e figurativa, a
questa raffinata ma selvaggia autenticità si aggiungerà
anche un allargamento prospettico dei temi, un maggiore e
polifonico intrecciarsi di verticalità-orizzontalità.
24
Poem Shot (10): Gregorio Scalise (1939 - )
Per esperienza personale, arrivo a leggere alcuni poeti in
quanto citati da altri poeti o critici che ammiro, come in
una costellazione regolata da una legge interna. Così
Sereni (vd. poem shot 11) mi ha portato a Fortini, uno dei
suoi critici più acuti; e Fortini mi ha portato a leggere
Gregorio Scalise, per cui Fortini ha parole
d’apprezzamento – fatto di per sé significativo – in un
libretto avvincente e caustico chiamato, se non ricordo
male, 36 moderni.
Mi affretto allora ad acquistare Opera-opera, significativa
auto-antologia del poeta edita per Sossella, una delle case
editrici a cui mi sento più affine nelle scelte di poetica.
Le mie aspettative non sono state tradite (benché l’ultima
parte degli inediti mi sia parsa più prescindibile, più
adagiata su meccanismi già esautorati rispetto alla prima
parte di versi editi). In particolare, mi hanno molto colpito
alcune poesie all’inizio del libro: La casa dei poveri è una di
queste, e allora cerco di capirla meglio analizzandola qui
sotto.
La casa dei poveri
Nelle case dei poveri c'è sempre una tavola
e sopra una lampada
che illustra un autografo,
vivono vespe tra le assi
dicono di contribuire alla leggibilità del padre,
25
ma non c'è né luce, né telefono,
il frigorifero vuoto
arde sopra un'aiuola, impressiona per la sua
mancanza di formule
la vita che si complica di fanatici,
sotto la sua gaia demenza
si ascolta la critica delle sue premesse
e gira come una macina
trascinata da rozzi cavalli
sempre quella lampada segue la filigrana
della neve, fra sassi e pubblico potere
(Da Opera-opera, Sossella, 2008)
Di questa poesia mi colpisce un contrasto tanto
immanente al testo quanto proprio per questo impossibile
da individuare in un luogo testuale piuttosto che in un
altro: il contrasto tra una dizione neoclassica, nitida, e un
concatenarsi analogico, surrealista di immagini (referenti).
Forse per questo, stilisticamente, questa e altre poesie mi
riportano al De Angelis di Somiglianze (per es. la chiusa di
Ogni metafora: “dove un millennio ha esitato / tra cedere e non
cedere / perdendosi sempre tardi, e con intelligenza”).
Non so se ci sia una contaminazione reciproca, una
convergenza indipendente oppure se l’influenza abbia una
direzione (Scalise De Angelis o De Angelis Scalise):
bisognerebbe appurarsi delle date di composizione di
entrambi i componimenti, cosa che qui non posso fare.
26
La dizione neoclassica è evidente nella metrica, spesso
affidata a settenari (anche doppi, come nel verso d’incipit)
e spesso sdruccioli (vv. 1, 2, 3, 6, 9, 10, più alcuni
sdruccioli interni), con una presenza sempre più rada man
mano che ci si avvicina alla fine del componimento.
Dove la semantica surrealista del testo increspa la dizione
neoclassica è probabilmente nel respiro sintattico, che
accompagna quest’esuberanza delle immagini (su cui
tornerò dopo) senza mai apporre un punto fermo,
rimandando al punto finale lo sciogliersi della tensione,
non diversamente, da questo punto di vista, da quanto
visto in Alessandra Cava, (poem shot 8), e Louis García
Montero (poem shot 9, non in questo fascicolo).
Dicevo del surrealismo. E in effetti, se la vulgata del
surrealismo vuole un accostamento imprevedibile e
arbitrario d’immagini (ma non è così: Riffaterre, ad
esempio, ha mostrato come il testo surrealista risponda a
delle logiche ferree, mentre speculare sulla consapevolezza
autoriale è un esercizio irrilevante), qui troviamo un’intera
catena di accostamenti a-logici, cioè non appartenenti allo
stesso campo semantico né allo stesso dominio
esperienziale (quale si avrebbe se tutti i referenti
appartenessero a un paradigma situazionale, del tipo: bar,
caffè, zucchero, giornale). Cosa c’entrano, per esempio, il
frigorifero, l’aiuola, la mancanza di formule e la macina,
tra loro?
Troppo facile, e troppo praticato dai critici, liquidare il
testo come volutamente nonsense: è quanto, ad esempio,
è accaduto a “RicercaBo”, dove il critico Renato Barilli
contestava a Manuel Micaletto che Hobbes e i cefalopodi
27
nella sua poesia non avessero nulla a che fare, e quindi che
ci fosse arbitrio (o una generica “intuizione”) e non logica
in quel passaggio, come invece sosteneva, a difesa
dell’autore, Simona Menicocci. O come – ne ho avuto
conferma l’altro ieri durante una conferenza – un critico,
Eagleton, abbia contestato a Dylan Thomas che non esiste
un round pain, un dolore rotondo.
Tutti questi fallimenti della critica (non c’è dubbio che
siano, oggettivamente parlando, fallimenti, perché anziché
essere esplicativi diventano prescrittivi) derivano dal voler
forzare il testo a una conformazione referenziale, come
giustamente Riffaterre, nell’arco della sua carriera, ha
denunciato.
Ma torniamo, dopo questa piccola benché giusta
digressione polemica, alla poesia di Scalise. L’irrelatezza
delle immagini chiede di essere ricostruita dalla sintassi e
dal tono discorsivo (non lirico-evocativo, dunque) che
suggerisce di prendere sul serio questa apparente
mancanza di senso. E allora, se capire significa “fare
senso” (to make sense), fare senso significa legare insieme:
vediamo allora cosa si può legare insieme senza troppo
arbitrio, e quali zone rimangono in ombra, come un
residuo di arbitrio potenzialmente significante (finché
qualcuno più acuto di me vedrà una concatenazione che a
me è sfuggita, anche per mancanza di adeguati supporti
extratestuali).
I primi 4 versi sono, tutto sommato, coesivi: ci immettono
in un’ambientazione familiare e vagamente archetipica
(attenzione a quel sempre): le case dei poveri come categoria
omogenea, la tavola e la lampada come arredo minimo che
28
nemmeno lì può mancare, e le assi (che possono essere
della tavola ma anche del soffitto: perché un soffitto c’è
sempre, anche nelle case dei poveri).
Ecco però alcuni elementi disturbanti: l’autografo e le
vespe. Le vespe, sul piano referenziale, sono giustificate
dalla presenza delle assi, che entrano nello stesso ambiente
(casa dei poveri) e che con tavola condividono lo stesso
materiale (il legno). Si potrebbero interpretare come
dettaglio realistico aggiunto, o come indice di abbandono
dell’uomo. Ma a livello simbolico, sembrano introdurre
una minaccia: le vespe pungono, e a differenza delle api
non producono nemmeno il miele, quindi non sono
asservibili all’uomo. E veniamo all’autografo. Che non è
fuoriluogo a livello di referente (l’autografo è il
manoscritto originale di un’opera, come sanno bene i
filologi: è quindi un pezzo di carta scritta), ma di registro:
nel lessico di base dell’incipit (poveri, case, sempre,
tavola… quasi “l’arte povera” con cui Montale tracciava
un parallelo tra un certo tipo di pittura e la sua poesia da
Satura in poi) introduce un elemento di specializzazione.
L’autografo implica un autore (non possiamo certo dire
che la lista della spesa sia un autografo!), e quindi
introduce la figura del poeta per via metonimica.
Altre spie coesive testuali rendono il testo più compatto di
quanto appaia a una prima lettura: il frigorifero che arde non
è altro che l’esplicitazione di un ossimoro (cfr. Petrarca:
“et ardo e sono un ghiaccio”), impressiona è un calembour che sta
sia per “stupisce” sia per “lascia traccia” (cfr. la pellicola
impressionata, e qui la filigrana). O si veda, negli stessi
versi, la costruzione sintattica ambigua (“garden path”, la
29
chiamano gli psicolinguisti) per cui a impressionare è sia il
frigorifero che la vita.
Critica richiama sia la critica testuale e filologica (cfr.
l’autografo) che quella contro la gaia demenza del caos
moderno (vedi sotto). Il fatto che giri come una macina, oltre
a richiamare un elemento di tortura, risponde a un suono
sgradevole (e che però si ascolta). È difficile che anche solo
una parola sfugga dalla rete delle relazioni: tutto torna,
anche se sembra non tornare a una prima lettura.
E a proposito di versi che (non) tornano: il verso 5 è tra i
più oscuri della poesia: in che senso le vespe dicono di
contribuire alla leggibilità del padre? Perché il padre, e
perché leggibilità? L’unica lettura che mi sembra tenere è
questa, ottenuta per inferenze sullo sfondo della lingua
abituale: vespe implica “nido” (cfr. il sintagma “nido di
vespe”), e “nido” è parzialmente giustificato anche dal
verbo “vivere” (“vivono vespe tra le assi”). Letteralmente,
dunque, le vespe implicano un nido (un’origine, una
madre) e rendono intelligibile la controparte del padre
(l’autografo, riferito com’è all’auctor-auctoritas, è
anticipazione del padre). Leggibilità è poi efficace perché
richiama strettamente sia la lampada (di per sé, simbolo
archetipico di coscienza, da Diogene in poi), sia il non c’è
luce (che sul piano referenziale entra nell’ambientazione
delle case dei poveri) e poi filigrana verso la fine della
poesia.
Insomma, proprio mentre noi cerchiamo di decifrare la
poesia, dentro la poesia stessa anche la persona del poeta
(ridotta a puro strumento di registrazione, dato che il testo
è tutto in terza persona, descrittivo-argomentativo)
30
compie uno sforzo di decifrazione, che la poesia stessa
sembra mimare.
E del resto, che cosa è la poesia se non uno strumento per
capire ciò che le sta intorno? Non si tratta di una
decifrazione del tutto astratta però, perché un oggetto c’è:
ed è, mi sembra, il rapporto tra tradizione (“il padre”,
presentato archetipicamente, senza antecedente nel testo;
l’autografo; la lampada) e il caos, la mancanza di ragione,
una declinazione del dionisiaco verso una violenza e
stoltezza abiurati (“la vita che si complica di fanatici”, mancanza
di formule, gaia demenza, rozzi cavalli, sassi: si veda il
linguaggio pesantemente valutativo).
Mi sembra quindi che – dato anche il contesto storico, gli
anni ’70, tra ri-emergere dei miti dello spontaneismo e gli
anni di piombo – questa poesia invochi una postura
illuministica (non a caso lampada è ripetuto verso la fine
della poesia) senza negare l’irrazionalità immanente a lei e
alla società tutta (donde le immagini surrealistiche). Per
questo, probabilmente, Fortini ne sarà rimasto colpito:
perché il classicismo della forma (che anche lui
perseguiva) non implica rimozione dell’inconscio
collettivo, dell’irrazionale (Fortini scrisse una monografia
sul surrealismo), e la soggettività del discorso richiama una
responsabilità collettiva, come indica il chiarissimo
sintagma finale pubblico potere.
La postura illuministica, o umanistica in senso più
generale, è poi anche garantita dalla presenza di un
probabile intertesto dall’umanista Montale, il secondo
movimento di Notizie dall’Amiata, da Le occasioni: anche lì
c’è un tavolo, un riferimento alla trasparenza (diafana lì,
31
filigrana in Scalise), qualcuno che scrive e perfino una cellula
di miele che implica le api, in Scalise però “tramutate” in
vespe.
Una poesia che è quindi una piccola lezione per molti: fa
vedere come sia possibile superare la dicotomia tra
chiarezza cartesiana e spudorata irrazionalità, inglobandole
entrambe nel suo tessuto testuale, in una dialettica tanto
più efficace quanto più nascosta.
32
Poem Shot (11): Vittorio Sereni (1913-1983)
Oggi, domenica 10 febbraio 2013, ricorre il trentennale
della morte di Vittorio Sereni. Il 2013 è anche l’anno del
centenario della sua nascita, e iniziative – letture, mostre,
conferenze – si stanno diffondendo, anche se forse meno
numerose di quanto sarebbe opportuno.
Una conoscenza approfondita di Sereni permetterebbe, ad
esempio, di capire in che misura e fino a che punto le
nuove generazioni che dicono di ispirarsi a lui, davvero
abbiano fatto entrare nei propri versi quegli inimitabili
tremiti interni dove c’è tutto Sereni e anche una
scommessa persa o ignorata da molti contemporanei.
Il fatto è che Sereni spesso, e frettolosamente, viene
ancora ricollegato “alle cose”, alla Linea Lombarda di
Anceschi; un incasellamento a cui egli stesso si ribellò e
che però è ancora oggi investito di un contenuto di verità
quasi assiomatica, con la sfortunata conseguenza di vedere
in Sereni un precursore del minimalismo, quando non c’è
minimalismo, mai, in Sereni: se per minimalismo
intendiamo una rinuncia del soggetto – esaltata, elegiaca o
ironica non conta – a un qualche oltre, mai negato ma anzi
reso necessario da un’ininterrotta ricognizione dei limiti
dello scrivente (“scrivente”, non “poeta” né “autore”, si
definisce Sereni con spietato e lucido auto-revisionismo
nel poemetto Un posto di vacanza).
Questo discorso ci porterebbe però lontano, e lo terrò per
un’altra volta. Così come il fatto che la formula della Linea
Lombarda, ancora forte e influente, andrebbe
necessariamente vagliata, nella sua ricezione attuale, sui
33
testi, con uno studio orientato, comparato e sistematico
che a tuttora – per quanto ne sappia io – manca.
Ma non è giorno di polemiche, né di inopportune
“commemorazioni”, poco in linea con l’umiltà di Sereni.
E nemmeno troverei utile, per chi mi sta leggendo adesso,
indugiare sull’importanza per me affettiva ed effettiva
della sua figura, che non saprei rendere in poche righe
senza sembrare fuoriluogo.
L’unico modo di rendere giustizia a ogni poeta, e tanto più
a un poeta come Sereni, è ascoltarlo – con empatia ma
anche rigore; i suoi testi, più che lui stesso o quello che
altri ne hanno scritto. Del resto, “E ascoltami, come sai”, è
un verso di Sereni, posto a sigillo di una delle più
struggenti elegie del secolo scorso, scritte in morte
dell’amico Niccolò Gallo.
Allora, siccome oggi è anche l’undicesima puntata di Poem
Shot, mi appresto a una delle poesie più belle e forse meno
conosciute di Sereni – anche se molte altre avrei
voluto/dovuto analizzarne. Questa poesia è L’alibi e il
beneficio, uscita ne Gli strumenti umani (1965).
Mi scuso fin d’ora se non posso appoggiarmi, nei
commenti, al Meridiano con apparato critico di Dante
Isella: non ce l’ho qui con me in Inghilterra. Farò allora
come se rileggessi Sereni (che non studio più da tre anni)
per la prima volta, senza troppo sovraccarico critico
precedente.
34
L’alibi e il beneficio
Le portiere spalancate a vuoto sulla sera di nebbia
nessuno che salga o scenda se non
una folata di smog la voce dello strillone
- paradossale - il Tempo di Milano l'alibi
e il beneficio della nebbia cose occulte
camminano al coperto muovono verso di me
divergono da me passato come storia passato
come memoria: il venti il tredici il trentatre
anni come cifre tramviarie
o solo indizio ammiccante della radice perduta
una sera di nebbia agli incroci di ogni possibile sera
infatti è sera qualunque traversata da tram semivuoti
mi vedi avanzare come sai nei quartieri senza ricordo
mai visto un quartiere così ricco in ricordi
come questi sedicenti «senza» nei versi del giovane Erba
tra due fonde barriere dentro un grigio acre tunnel
con che pena il trasporto buca la nebbia stasera
alibi ma beneficio della nebbia globalità del possibile
che si nasconde ma per fiorire
in alberi e fontane questa polvere d'anni di Milano.
(Da Gli strumenti umani, Einaudi, 1965)
Il ritmo e il livello fonosimbolico di questa poesia ne
fanno, a mio parere, uno degli esiti più alti della poesia di
Sereni, e non solo. Si veda quante consonanti vicine per
l’articolazione (le labiali /b/, /p/, le nasali /m/ e /n/ le
liquide /l/ e /r/), le velari (/k/ e /g/) e le vocali
posteriori (/o/, /u/) percorrano tutto il testo,
35
addensandosi in alcuni punti come il v. 3 (vocali
posteriori), i vv. 4-5 e 18 (bilabiali e liquide), eccetera.
Perfino i due nomi del titolo, alibi e beneficio, replicano
questo pattern e anagrammano nebbia, che è il fulcro
tematico e compositivo dell’opera, dettando forse perfino
la punteggiatura: che è rada, perché il monologo interiore
e interrogante sfuma i contorni del detto come fa la
nebbia, affermata sul piano della mimesi solo per acquisire
una portata simbolica alla quale ci avvicineremo più
avanti.
Il titolo è sovradeterminato (ovvero, ricco di significanza)
sia per questo impianto fonosimbolico, sia per il suo
essere quasi ossimorico (alibi e beneficio hanno
connotazioni spesso antitetiche). Perché questa coppia è
associata a nebbia esplicitamente due volte (“l’alibi / e il
beneficio della nebbia”, vv. 4-5 e poi, con avversativa, “alibi
ma beneficio della nebbia” al v. 18)? Probabilmente perché la
nebbia è immagine/metonimia dell’ambiguità: essa copre
(“cose occulte / camminano al coperto muovono verso di me”) ma
promette qualcosa che non possiamo ancora vedere
(“globalità del possibile / che si nasconde ma per rifiorire”).
La poesia sviluppa questa contraddittorietà lungo tutto il
suo percorso. Qualche esempio: l’assenza di vita del
centro abitato (“nessuno che salga o che scenda”) è
contraddetta da segnali che presuppongono attività umane
(“una folata di smog la voce dello strillone”), ma anche l’essere il
quartiere “ricco in ricordi”. Allora, paradossale può essere
inteso letteralmente in questo contesto. Oppure, a
muoversi sono le cose, che conquistano la scena e fanno
dell’io poetico (qui ridotto ai minimi termini) un puro
36
recipiente passivo (“muovono verso di me/ divergono da me”: si
noti quest’altra contraddizione).
Perfino la collocazione corrente spalancate a vuoto viene ri-
significata dal testo, in quanto è apertura (spalancate) e
assenza (a vuoto). Insomma, una catena di controsensi
sviluppatasi come per gemmazione, e a cui non è forse
estranea l’opposizione-somiglianza tra ogni possibile sera e
sera qualunque: come a dire che l’ordinario, proprio per il
suo essere spoglio e comune, ha potenzialità per diventare
altro.
Questo forse non si capirebbe con chiarezza se non si
richiamasse alla mente la tensione utopica in Sereni in un
testo come Appuntamento a ora insolita (“Caro – mi dileggia
apertamente – caro, / con quella faccia di vacanza. E pensi / alla
città socialista?”, vv. 12-14 e “Potrei / con questa uccidere, con la
sola gioia”, vv. 33-34).
Almeno altri due o tre aspetti meritano d’essere
menzionati e approfonditi: il blending concettuale tra tempo
e spazio, l’intrecciarsi di privato e collettivo, e il dialogo
metapoetico. Il primo è un principio strutturale del testo
quanto lo è anche l’ambiguità connotativa di nebbia
discussa sopra.
La dimensione temporale è in sera (dove obbedisce sia a
mimesi sia a significanza, come simbolo convenzionale del
declino), in Tempo (nome del giornale, ma appunto
caricato di significanza), in passato, anni e polvere d’anni. La
dimensione spaziale è in Milano (punto forte perché in
chiusa) e in una serie di termini che richiamano il
movimento: già in incipit, portiere segnala metonimicamente
la presenza di un mezzo di locomozione (ribadito
37
direttamente in tram e trasporto più avanti), incroci la
presenza di strade, verbi di moto sono nei vv. 6, 12 e 13
(“camminano al coperto muovono verso di me”; traversata;
avanzare). La compresenza di questi due assi si fonde in
alcuni luoghi, con una similitudine fulminante (“anni come
cifre tramviarie”, snodo strutturale e ritmico del testo) e un
luogo comune risignificato (“sera traversata da tram”, dove
sera passa da una connotazione temporale a una spaziale).
Quanto all’intrecciarsi di privato e collettivo, bastino i
riferimenti alla stampa come organo collettivo e
(mal)comunicante (“lo strillone / – paradossale – Il Tempo di
Milano”) il riferimento a storia (passato collettivo) contro
memoria (passato individuale), nonché i riferimenti esterni
alla città di Milano, in posizione forte perché in chiusa
della poesia. Il privato è certamente in memoria, in me
ripetuto due volte e nella scelta dei numeri (per es. il tredici
è l’anno di nascita di Sereni: motivo in più per ricordarlo
qui con questa poesia), e nel dialogo metapoetico con
Luciano Erba, amico ed esponente anche lui della Linea
Lombarda cui accennavo sopra. I versi di Erba, posti in
corsivo, hanno anche loro una duplice ambiguità come la
nebbia: da un lato servono ad argomentare quanto detto
prima (come spiegare, altrimenti, il didascalico e
argomentativo infatti?), dall’altro vengono ribaltati e irrisi
(senza ricordo…. “mai visto un quartiere così ricco in ricordi / come
questi sedicenti “senza” nei versi del giovane Erba”). Come dire,
forse, che la poesia, anche la propria, come la nebbia “si
nasconde” (in quella degli altri) per “rifiorire”, cioè per
apportarvi un qualcosa in più, anche contraddicendo le
parole di un amico e compagno di percorso, se necessario.
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Poem Shot (13): Alessandra Palmigiano (1973 - )
l'amore che alberga negli adolescenti non li conosce, ed essi non lo conoscono.
così li infesta senza esserne cambiato, e per questo
varia così poco da un adolescente all'altro.
l'amore degli adulti, volente o nolente, ormai li conosce, ed assomiglia
a ciascuno di loro e a nessun altro.
ma anche nell'amore, così come nell'arte, il non conoscere
può essere un vantaggio, e far produrre per caso pezzi unici,
al di sopra del talento dell'autore.
Questa poesia di Alessandra Palmigiano è stata pubblicata
sul numero 1 della rivista indipendente “dopotutto”.
Ho scelto di scriverne perché – come le altre che ho letto
dell’autrice su “Blanc de ta nuque” – mi sembra innestarsi su
coordinate poetiche poco frequentate, ugualmente lontane
da sperimentalismo e lirismo, e (forse per questo) relegate
ai margini della scena poetica attuale (uso “scena” come
teatro, esibizione: e non a caso).
La coordinata estetica è quella di una discorsività
pensante, limpida, epigrammatica ma con un sottile
equilibrio tra saggezza e trattenuto (e perciò più efficace)
sarcasmo, che evidenzierò linguisticamente più avanti.
Questa modalità mostra come è possibile, una volta tanto,
guardare l’amore (il tema dichiarato della poesia) da un po’
lontano, senza i risaputi contorcimenti viscerali o
abbandoni elegiaci, ma anche senza che l’amore come
tema diventi un tabù, un cliché del poetese da evitare
assolutamente.
39
Il testo ha un impianto esplicitamente discorsivo e quasi –
ma ironicamente – didascalico: prova ne sia il ricorso a
connettivi causali (per questo), l’uso analitico della
punteggiatura a soppesare le affermazioni e specificazioni
(volente o nolente, con l’uso inatteso di una locuzione
colloquiale), comparazioni (ma anche) e il ripetersi delle
parole-tema (amore e le varie forme del verbo conoscere) che
hanno semplice funzione coesiva come in testi
apertamente argomentativi (per es. saggi) se non
didascalici (per es. manuali).
Questa salutare attitudine distanziante si segnala già a
partire dal primo verso, una constatazione impersonale
espressa nella forma di una saggezza proverbiale.
L’immediatezza comunicativa non ha nulla di ruffiano, e
non rinuncia – nella semplicità del lessico – a una ricerca
direi neoclassica di bilanciamento: ne è spia l’implicazione
speculare della frase (l’amore non conosce gli adolescenti
– gli adolescenti non conoscono l’amore) nonché la tripla
allitterazione in a- (amore, alberga, adolescenti), marcatore
non soltanto ritmico ma anche semantico, dato che pone
in relazione tre concetti salienti all’intero testo da un
punto di vista tematico.
Forse per una volta non è fuorviante appoggiarsi a dati
biografici nel rilevare una correlazione tra questa cristallina
chiarezza e il dottorato in logica conseguito da
Palmigiano.
Tale bilanciamento – visibile nel microsistema del verso –
si estende all’intero componimento, che consta di tre
momenti: 1) reciproco non conoscersi (l’amore degli
adolescenti: tesi); 2) reciproco conoscersi (antitesi); 3)
40
valore del reciproco non conoscersi, traslato dall’amore
all’arte (sintesi).
La sintesi di 3) è però solo apparentemente una sintesi, in
quanto ripropone e rafforza la tesi scartando come
sbagliata l’antitesi. Può dunque giungere, quasi
popperianamente, a un contenuto di verità per
approssimazione (può essere, con la modalità che esprime
appunto la possibilità) enunciato negli ultimi tre versi e
però non esente da una svolta sarcastica.
Ho detto “sarcastica” perché l’aggettivo “ironico” implica
un nascondimento, una doppia lettura che qui invece
manca di proposito. Tutto va preso alla lettera, l’autrice ci
parla da una postura assertiva e che però (pace a certe
semplificazioni della teoresi delle neo-avanguardie) non
intende illudere il lettore obbligandolo al gioco dell’autore.
Al contrario, la chiarezza argomentativa chiede di essere
presa sul serio e più ancora chiede al lettore di
intraprendere un simile percorso critico e razionale.
Il sarcasmo che aleggia, elegantissimo, è implicito nel
contrasto tra produrre (implicante progettualità industriale,
mercificazione) e a caso (mancanza di progettualità!), nel
relegare la riuscita (pezzi unici: anche qui un allusione alla
mercificazione di arte e amore) al di fuori della
consapevolezza.
Il testo ha altre attrattive. Anzitutto, esibisce un contrasto
fondativo tra tema e forma, in quanto esaltazione del caso
nella più stringente logica, e dell’ignoranza nell’espressione
di contenuti di verità.
È quindi un testo ottimista, malgrado tutto, un testo che
ha fiducia nella funzione razionale dell’uomo e proprio per
41
questo rispetta l’imprevedibilità (il caso), teorizzato come
necessario perfino in alcune teorie fisiche, contro gli
eccessi del determinismo (vd. Popper 1979, Of Clocks and
Clouds).
Bisogna infine notare che l’approccio scientifico entrato
nelle pieghe della poesia, non la s-poeticizza affatto: tutto
il significato di questa preservata ma utile freddezza sta
nella reazione alle esperienze amorose, anche private, da
cui presumibilmente prende avvio (ma di cui,
pudicamente, non parla), esperienze che per una volta non
si rispecchiano nelle vicissitudini di un io privato ma che
assumono un semplice valore antropologico, di dato o
problema a partire dal quale cercare, possibilmente
insieme, le nostre soluzioni.
42
Poem Shot (15): Leopoldo Attolico (1946 - )
Vandalismi ed elegia
Di questo itinerario son rimaste
le randellate di Pulcinella a Pantalone
le panchine basse del Pincio
le gambe delle mamme
le sagrestie scombussolate del pudore
e, a sera, lo zero lattescente della luna
per sigillo.
E' rimasta una cifra sospesa a metà strada
tra la piccola preistoria personale
e un tamburo di latta a ribadire
sprazzi di grazia antica
dipinta dal suono.
Più in là
soltanto la Prima Comunione ha salvato la faccia
ha un colore intatto dalla sua
e resiste ad oltranza;
come quei mezzi busti un po' fantasmi
tra siepi di mortella spelacchiata
che per aver troppo annusato la gioia
l'hanno pagata cara
e son rimasti senza naso
stupiti anzichenò
nel verde di una favola.
(da La realtà sofferta del comico, Aìsara, 2009)
43
Conosco da anni questa poesia e il suo autore, Leopoldo
Attolico (www.attolico.it), e posso dire – per fortuna – che
il suo mistero ancora “resiste ad oltranza”.
Provo a darne qui una lettura che non faccia torto a
questo strano residuo elusivo; “strano” perché a fatica
verrebbe di associarlo con il suo tono narrativo e piano –
talvolta perfino gergale (per es. “l’hanno pagata cara”).
Qui il titolo ha importanza massima, proprio nel binomio
che associa vandalismi ed elegia: cos’hanno in comune le due
cose? meglio rovesciare la domanda: cos’hanno di
opposto? tutto, forse.
Cominciamo da elegia. Essa è anzitutto un genere poetico,
ed è ovvio che questa connotazione entri nel testo, anche
considerando i numerosi riferimenti scherzosamente
meta-poetici che costellano l’intero libro da cui la poesia è
tratta. In quanto genere poetico, essa si oppone a
vandalismi: all’immaterialità intellettuale della poesia fa da
contraltare l’estrema fisicità dell’atto distruttivo, non
diversamente da un’altra poesia di Attolico in cui le poesie
uscivano sconfitte, agli occhi del figlio, rispetto ai
formidabili cazzotti di Bud Spencer.
C’è però anche un’opposizione più stringente fra i due
termini: la “elegia” infatti, nell’antica Grecia e a Roma,
aveva una forte componente etica e civile, proponeva un
modello eroico collettivo e perciò complementare a quello
dell’epica. Si capisce allora che, in questa accezione, elegia è
metonimica rispetto a civiltà come vandalismi lo è rispetto a
barbarie. Un dualismo, nuovamente, si annuncia
all’orizzonte.
44
Come è risolto o trasposto nel testo tale dualismo?
Anzitutto, bisogna dire che tutte le accezioni e le relazioni
sopra abbozzate non sono digressioni, ma presupposti
necessari per capire la poesia: che fa entrare e integra con
maestria scrupolosa, anche a livello linguistico, tali variabili
nel tessuto del testo.
Anzitutto, la parola più carica in incipit è son rimaste:
posizionata a fine verso (posizione forte anche a livello
visivo e d’intonazione), non può non rimandare,
ritmicamente, al celebre incipit ungarettiano di San Martino
del Carso: “Di queste case / non è rimasto / che qualche /
brandello di muro”. Là era la guerra; qui una distruzione in
minore, ma che non nasconde di meno la sua violenza,
con le randellate di Pulcinella a Pantalone. È necessario
tornare sul valore di quel rimaste: il verbo “rimanere”
infatti segnala tanto incompletezza quanto resistenza: la
prima riassume e fonde i motivi elegiaci e quelli vandalici.
Da un lato infatti, il testo elenca mancanze fisiche: “mezzi
busti un po’ fantasmi”, “rimasti senza naso”; dall’altro lascia
intendere che queste mancanze possono essere materia di
elegia, di rimpianto.
L’elegia – nel senso moderno del termine, stavolta –
sublima ciò che rimane nel ricordo, lo trasforma in
bellezza. C’è una fiducia nella bellezza, che appare a
intermittenza ma in maniera luminosa: dalle gambe delle
mamme allo zero lattescente della luna (immagine compressa,
sinestetica, che può far pensare a Zanzotto), per non dire
della sinestesia dipinti dal suono, la fisicità dell’annusare la
gioia, e il verde di una favola.
45
È un modo estremamente onesto di “travestire” la realtà:
il dolore non è gridato (vedi anche la prima poesia del
libro, dove il poeta redarguisce ironicamente le epigoni di
Sylvia Plath) ma è più reale proprio perché più pietoso il
tentativo di coprirlo. Il che spiega, d’altronde, l’intero
titolo del libro: la realtà sofferta del comico. Ma di quale realtà
si parla qui?
Beh, è difficile negare la convergenza di motivi
schiettamente italiani: le maschere della Commedia
dell’Arte, la città di Roma evocata dal toponimo Pincio, i
riferimenti cattolici della sagrestia e della Prima Comunione.
L’elegia, intesa come nostalgia e retorica del “prima si
stava meglio”, o adorazione delle rovine, potrebbe allora
essere la rappresentazione di un malcostume italiano. Ma
questa interpretazione svilupperebbe “elegia” nel senso
moderno, mentre quella precedente prenderebbe in
considerazione il senso antico.
La poesia ingenera allora un campo di forze: come una
partita di scacchi, ci spinge a pensare a varie possibilità.
Una di queste è che vandalismi ed elegia potrebbe anche
suggerire uno scenario o evento possibile: una rivincita
degli istinti naturali (pagani?, dionisiaci?) contro le
costrizioni religiose imposte (le “sagrestie scombussolate del
pudore”). Una distruzione positiva, che cerca di fare tabula
rasa del passato.
Ma il passato è ingombrante, e a Roma più che mai: così la
Prima Comunione – personificata secondo un cliché della
poesia classica – sfugge al saccheggio, “resiste ad oltranza”,
immutabile al passare del tempo e all’avanzare della civiltà.
E poi, chi sono quei “mezzi busti un po’ fantasmi” che
46
“l’hanno pagata cara”? malgrado la similitudine esplicita
(“come… quei mezzi busti”), essi sembrano i veri sconfitti:
l’impersonalità della Prima Comunione riesce a salvare la
faccia, mentre chi, fidandosi delle spinte istintive “annusa
la gioia”, rimane “senza naso”.
La poesia si chiude col ritorno di qualcosa che rimane,
stavolta però nel segno del negativo, della mancanza
appena, pietosamente mascherata, dal “verde della favola”.
Inoltre, alcune notazioni linguistico-stilistiche per
mostrare, ancora di più, come il testo si tiene
intelligentemente insieme: il riferimento a mamme può
dettare l’uso, pochi versi dopo, di lattescente (arcaismo,
come altri nella poesia, per es. anzichenò, e legato alla
dimensione archeologica del testo, che parla di rovine e
mezzi busti); l’espressione a sigillo è seguita, iconicamente,
da un punto fermo, a presentare un riquadro scomposto,
che ha qualcosa di fiabesco e qualcosa di sinistramente
concreto; lo zero della luna (riferimento tanto alla sua
forma quanto al suo valore nullo: ancora un tema
leopardiano e poi zanzottiano?) è ripreso dalla “cifra sospesa
a metà strada”, mentre la strada richiama l’itinerario dell’inizio
(“itinerario” è un termine turistico: quindi supporta
l’interpretazione per cui le rovine sono adorate, per cui
l’Italia dorme sui suoi allori).
Qual è la conclusione? che Leopoldo Attolico ci mette in
una posizione problematica, alludendo al dualismo
barbarie-civiltà e mostrando come la barbarie può essere
civile se rovescia un ordine esistente, mentre la civiltà può
essere barbara, se “resiste a oltranza” tappandosi le orecchie
agli umori che montano dal basso.
47
Tuttavia, come abbiamo visto,anche il ruolo dell’arte è
chiamato in causa, nel suo potere liberatorio e istintuale
(“tamburi di latta”, “piccola preistoria personale”) ma anche
consolatorio e impotente contro l’ignoranza della
violenza, dell’arroganza.
48
Poem Shot (17): Paul Sinelli (1972 - )
Come altri ottimi e sconosciuti autori presentati qui su
Poem Shot (Carlo Bellinvia e Paola Tomasiello) anche Paul
Sinelli lo lessi sul Club dei Poeti, perdendone poi le tracce.
La sua poesia talvolta sarcastica e cinica, difficile e
grottesca, mi aveva colpito per l’integrità e la distanza
siderale da molte cose proposte dal mainstream (ma anche
dalle poche opere di ricerca che ho letto finora).
Qui presento una poesia che certo non rende giustizia alla
varietà di toni e temi delle altre sue (che spero di
presentare più in là nel tempo) e che però mi ha colpito ed
è rimasta, nella sua fulminea concettualità.
Come una presunzione
Da un chiodo
s'estende il desiderio
di essere più in là
puntato
al buio
di un appena dentro
senza che si possa vedere
l’intonaco cadere
e deridere
il centro.
49
Un unico momento sintattico formulato come una verità
sentenziosa, con versi brevi ma ben attestati dalla
tradizione: trisillabi e settenari nervosamente alternati, con
rime e assonanze a pioggia (desiderio-dentro-centro, vedere-
cadere) che ritmicamente mi riportano al Montale di A
Liuba che parte nelle Occasioni (“Non il grillo, ma il gatto / del
focolare / or ti consiglia, splendido /lare della dispersa tua
famiglia”). Ma la sentenziosità distaccata, più filosofica, fa
forse pensare di più a Magrelli (“il desiderio è questo /
fruttificare della commozione / al limitare delle membra”, da Ora
serrata retinae). In Sinelli però il dettato non è neoclassico,
ma s’increspa nervosamente, diventa aguzzo come la
presunzione del “chiodo”. Forse più calzante è il parallelo
con una breve poesia di Cattafi (“la mosca ignora / che
quell’altra mosca / bisillabo inchiostro sulla carta / non è più sua
compagna ma nostra”) e che però è più solare, esplicita e
“danzante” rispetto a questa. O anche la breve I razionalisti
di Wallace Stevens (“Se provassero romboidi, / coni, linee
onlulate, ellissi, / – come per esempio l’ellisse della mezzaluna – / i
razionalisti porterebbero il sombrero”). A proposito, sembra
esserci un’intera categoria di queste poesie concettuali e
sentenziose che andrebbe un giorno indagata coi moderni
strumenti della linguistica testuale.
Gli elementi indicati dal breve testo (chiodo, buio, dentro,
intonaco) ci immettono in un interno concettualizzato,
dove non è possibile nessuna fermata intermedia nella
mimesi: la minutezza del chiodo è assunta a tema
portante, a origine (anche del testo). L’estendersi del
desiderio, la tentazione dell’oltre, fa pensare a una
versione platonica dell’amore che ha bisogno di andare
50
oltre sé stesso; la presunzione è che si vorrebbe rispondere
a questo impulso salvaguardando, al tempo stesso,
l’illusione della propria integrità (“senza che si possa vedere /
l’intonaco cadere / e deridere / il centro”: ovvero senza che
crolli la nostra facciata, l’identità socialmente costruita, e
senza che questo fragile “centro” venga deriso da questa
apocalisse in minore, tutta interna).
Perché il chiodo? ritengo che quest’immagine sia adatta
sotto tutti i punti di vista. Anzitutto perché, sul piano della
mimesi, tutti abbiamo presente l’ombra proiettata sul
muro dal chiodo illuminato: ombra come estensione e
come correlativo dunque dello stesso desiderio del chiodo.
In secondo luogo, il chiodo è qualcosa che permette di
reggere, che aiuta a costruire; ma anche qualcosa che,
scavando, ferisce, rischia di raschiare via l’intonaco. Infine
– ma non meno importante – il chiodo è leggibile come
simbolo fallico, contestualmente giustificato dal fatto che
il “buio / di un appena dentro” può far pensare a un
indistinto femminino. Così, secondo questa
interpretazione, l’estendersi all’altro brilla come genuino
desiderio e come meccanica di conquista: è un desiderio
bifronte, ambiguo.
Potrei aver compiuto un peccato di sovra-interpretazione;
eppure, se quanto detto finora tiene, se l’intonaco di
questa interpretazione non crolla, questa breve Come una
presunzione dimostra come sia possibile alludere con forza
icastica a questioni di relazione, perfino intimi,
mantenendo una oggettività che permette di guardarci da
un po’ più lontano – e vedere dunque noi stessi meglio –
lavorando con la mente, riportando in poesia l’ormai
51
tramontato valore del wit, dell’ingegno non fine a se
stesso.
52
Poem Shot (19): Bartolo Cattafi (1922-1979)
Cattafi, ricordo, fu il primo poeta – dopo Montale – di cui
desiderai comprare un libro, già quasi una decina d’anni fa,
dopo aver letto un paio di sue poesie in una (illuminata)
antologia scolastica di cui non ricordo il nome.
Dovetti invece aspettare la ristampa dell’Oscar Mondadori
(prefazione di Giovanni Raboni), perché le raccolte di
Cattafi mi sembravano (o forse davvero erano) introvabili.
Lode dunque a Elisabetta cattafi (figlia del poeta) e allo
studioso Diego Bertelli per aver messo tantissimi materiali
cattafiani in rete grazie al sito ufficiale che vi invito a
visitare.
Alcune delle poesie di Cattafi sono rimaste fortissime in
me: come, ad esempio (ma che ardua la scelta!) Il resto
manca.
Il resto manca
Mancavano pagine
il marmo dell’epigrafe
era scheggiato
due sole parole
cetera desunt
il resto mancante
mancanti la testa e i piedi
e tutto il resto mancante
che testa e piedi divide
cetera desunt…. cetera desunt…
53
parole sul frontone d’un tempio vuoto
vorticanti col vento come per dirci
solo noi ci siamo
tutto il resto manca
era questo che non sapevate.
(Da Chiromanzia d’inverno, Mondadori, 1983, pubblicazione
postuma)
Questa poesia ha tutta l’aria di essere scolpita come il
marmo: come spesso mi succede, è il tono prima ancora
del contenuto a farmi amare una poesia (e disprezzare le
volute dolci, monotone, tra il timoroso e l’indulgente di
molte poesie contemporanee, ma lasciamo stare…).
L’inizio è in medias res, drammatico: mancavano pagine è una
constatazione assoluta, perché pagine resta indeterminato
(mancanza d’articolo), senza contare la forza di un verso a
terminazione sdrucciola. Non credo d’aver mai letto un
imperfetto usato con questo senso del tragico: la funzione
stessa dell’imperfetto (elegiaca, di ricordo, nostalgica) ne
esce stravolta.
L’arte, o più umilmente l’artigianato (un concetto in realtà
molto alto, per me, legato com’è al concetto di
“mestiere”), è evidente anche nel secondo verso, dove il
marmo dell’epigrafe forma una costruzione sintattica ambigua
cui questo sintagma sembra dapprima oggetto del
mancare, ma poi diventa soggetto dell’essere scheggiato.
Ogni referente conquista la scena del rispettivo verso, gli
54
enjambements nel senso di continuità di fraseggio sono
aboliti, ed è questo a dare alla poesia un effetto “scolpito”.
Le ripetizioni hanno funzione intensiva, come di un’eco
ossessiva. Non a caso le parti di testo ripetute sono quelle
costitutive del centro tematico del testo: cetera desunt, che
passa da una menzione al v. 5 a una doppia al v. 10,
scandendo i due momenti medi nei 15 versi complessivi; e
il resto manca, con le sue variazioni (il resto mancante, tutto il
resto mancante, tutto il resto manca, mancavano).
Una poesia sull’assenza, in apparenza: un’assenza che
ritorna tante volte fino a diventare la raggelante accusa – e
rovesciamento di prospettiva – degli ultimi due versi. Una
climax visionaria pervade il testo, dove l’immobilità
dell’epigrafe si trasforma in parole vorticanti nel vento.
Come interpretarla? Io credo che la poesia sia originata da
un equivoco linguistico atroce (un po’ come Sachsenhausen
nel Sereni di Nel vero anno zero, che si riferisce sia al nome
di un quartiere sia quello di un campo di sterminio): cetera
desunt (= gli altri mancano: gli altri, non un generico resto)
riporta a una iscrizione funebre (come i monumenti in
memoria dei caduti) dove lo spazio è troppo poco per
rammemorare coi nomi.
L’accostamento alla guerra è plausibile, perché mancanti la
testa e i piedi e “tutto il resto mancante / che testa e piedi divide”
(notare, tra l’altro, il parallelismo con variatio) riporta ai
mutilati di guerra, ma un po’ anche alle statue mozzate
presenti anche in Vandalismi ed Elegia di Attolico già
analizzata prima.
L’assenza dei morti richiama alla responsabilità dei vivi,
ricorda loro la loro presenza certa e ingombrante (solo noi ci
55
siamo), macchiata dalla falsa coscienza filosofeggiante che
mette in dubbio il nostro esserci, la nostra concretezza (un
attacco, dunque, alla fluidità postmoderna? Plausibile, dato
che la poesia può essere stata scritta alla fine degli anni
’70, quando la svolta post-moderna e decostruzionista
cominciava ad aleggiare per poi dominare).
Cattafi sembra proporci un modello di poesia fondato
sulla tradizione, sulla continuità: non è un caso che i
marmi, il tempio vuoto (che non possono non richiamare
i templi siciliani, giusta anche la provenienza dell’autore) e
le parti mancanti – come delle statue oltre che dei militi –
siano “rovine”, ma rovine che parlano. Le stesse rovine
inquietanti che troviamo nei quadri di De Chirico, anche
lui con forte retroterra mediterraneo. Viene in mente il
titolo di un saggio di Fortini (Extrema Ratio: note per il buon
uso delle rovine) e anche – a livello di situazione – il “sorriso
balordo / che mi fermò tra le lapidi” di Sopra un’immagine
sepolcrale, di Sereni.
Questa è una poesia profondamente etica, che interroga e
accusa, che non usa parole superflue (Cattafi è rimasto
fedele ai principi, forse di derivazione imagistica, de L’osso,
l’anima). Una poesia di tale forza e freschezza che
potrebbe essere stata scritta oggi, o più verosimilmente,
domani.
56
Poem Shot (21): Cristina Annino (1941 - )
Quella di Cristina Annino (www.anninocristina.it) è poesia
che resterà. Vuoi vedere che la volontà dell’autrice di
svincolarsi da quella che lei definisce l’idea-tempo non
solo è segno di qualità poetica, ma anche, appunto, il
segreto del suo restare?
Stimata da grandi nomi del novecento (Fortini, Giudici,
Pagliarani, Raboni…), la poesia di Annino è oggetto di un
virtuoso passaparola su internet, possibile soprattutto
grazie agli sforzi di Stefano Guglielmin e Francesco
Marotta. Estranea da sempre alle correnti dominanti come
alle mode più effimere del contro-corrente, obbedisce fino
allo stremo a logiche sue, con quella libertà spregiudicata
che può dettare il confine tra buona poesia e grande
poesia.
Se della buona poesia ci si compiace perché funziona o
tiene, la grande poesia marchia, spezza il fiato, può creare
un terremoto percettivo. Quando a questo si aggiunge una
significanza collettiva benché sfuggente, allora è il
capolavoro. Userei questa parola per Andante pesante con
abbandono, tratta da Gemello Carnivoro (2002).
Andante pesante con abbandono
(Per Daniela Marcheschi)
Il piatto
filippino preferito è la scimmia. La portano in
ginocchio, il viso sulla tovaglia poi
57
il cervello lo segano vivo. Ci facciamo
un’idea del mondo mangiando, del modo
di fare ordine della vita, radio, giornale, d’un
patito giallista. Io
mai m’abituo; ma l’auto
sul viadotto s’allontana simile al viso ben diviso
della barista, nel mattino: triste, ben
triste, in due. Come si va
semisoli insieme giù per la strada.
Danì
capisce il chiodo nel cervello; lo batte un solo
uomo, certo, e l’inferno detto la via. Lei ha
un diverso rapporto con la carne; ma stan
piegando la sua natura, così dentro il letto. La
stan mettendo sotto spirito: i piedi sul lato
del vetro e testa al contrario. Una foce. Leggi
fato. Anche il Nilo
si guarda da ragazzi e per primo ci prende in giro.
O quando
uno di noi s’alzò nel sonno dicendo “lo zio ama i negri!”.
Per legge
di gravità il tempo è passato. Siamo ormai
diventati, con moto
che allontana dal posto, e dei negri ci importa
poco. Ora c’è
un comportarsi da zie e tutto il resto. C’è non essere
più capaci del colmo. NOI
digeriamo QUEL piatto. Insomma ormai del sonno
ci appartiene l’insonnia.
Di lei. Che si strappa
di dosso l’io semifuso dal corto circuito d’uno
sbalzo di pressione nel sangue.
58
Sviene
indietro come l’acqua del Nilo va su. Colpito
in un lampo in viso il centro della memoria. Dati.
Mentre
dal toporagno arboricolo a noi, il tempo evolutivo
è settantacinque milioni d’anni. Dice la radio.
(Da Gemello Carnivoro, I quaderni del circolo degli artisti, 2002)
Le quattro strofe libere, marcatamente polimetriche ma di
simile lunghezza complessiva, dànno una traccia di ordine
– meglio: di principio regolativo – a un dettato dalle
fortissime spinte centrifughe.
L’ordine (il filo argomentativo che percorre la poesia e che
mostrerò) si mescola al disordine (il surrealismo delle
immagini, l’idiosincrasia ritmica) come suo
completamento necessario, in una dialettica che Fortini
avrebbe approvato (si ricordi la prosa L’ordine e il disordine
in Questo muro).
C’è una grande tradizione dietro, l’impressione di essere di
fronte a una poesia importante: una poesia in cui
all’assertività proposizionale (= memorabilità) dei versi si
aggiunge una lacerazione emotiva marcata dalle frequenti
spezzature estreme, aguzze, a fine verso.
Lo sperimentale e il lirico collidono, addirittura collimano.
In quanto segue proverò a dare una mia lettura: più che
un’interpretazione (atto che sembra mirare alla impossibile
e sbagliata riduzione del campo di forze di questa poesia a
59
un enunciato unico), un percorso appassionatamente
soggiogato al testo.
A chiederlo è la stessa necessaria materialità, eccentricità
della lingua poetica anniniana.
Il titolo è uno scrambling (manipolazione) di un tempo
musicale, dove anziché da “vivace” o “allegro”, andante è
seguito da pesante.
La pesantezza si fa più acuta in abbandono, parola pesante
sia ritmicamente (le sue quattro sillabe) sia
semanticamente (la doppia accezione di “abbandono”:
lasciarsi andare, o essere lasciati). Questa manipolazione
segnala un gioco di parole umoristico e però serio, tanto
più alla luce della drammaticità delle immagini presenti
nella poesia.
Un indizio successivo è la dedica alla nota studiosa
Daniela Marcheschi, amica dell’autrice come segnalato dal
diminutivo d’affetto nel primo verso della seconda strofa
(Danì). La poesia sembra quindi configurarsi come una
lunga allocuzione dell’io poetico a un destinatario unico e
specifico; questo permette una presenza più verosimile dei
numerosi riferimenti privati, apparentemente chiusi
all’esterno. Perché il piatto filippino? perché la scimmia?
È però chiaro che lo spunto apparentemente privato
diventa occasione di discorso pubblico: da qui il
riferimento a una terza plurale inquietante perché non
specificata (“La portano in / ginocchio”). Da qui, anche,
l’ambiguità del noi che può essere duale (l’io poetico e
l’interlocutrice) o collettivo (“noi” come “tutti noi”) e la
cui importanza è segnalata graficamente dallo stampatello
in seguito, e forse per inclusione anagrammatica in Nilo.
60
Anche il tema non dichiarato è pubblico: una sorta di
matrice che condensa i temi della carne, della natura, del
cibo e dell’evoluzione. È possibile che il famoso detto di
Feuerbach, “l’uomo è ciò che mangia” (cfr. “ci facciamo /
un’idea del mondo mangiando”), abbia avuto un suo ruolo
generativo nella costituzione della poesia.
Una matrice filo-marxista sembra sussistere in questi temi
e legarli: il materialismo crudo delle immagini (“il cervello lo
segano vivo”), un riferimento a chi è subordinato (filippino,
negri), quello ripetuto agli organi di comunicazione (radio,
giornale) e l’enfasi, già notata, sul noi e quella sul
cambiamento, o piuttosto la sua negazione (il tempo
evolutivo, “il tempo è passato”).
Qualcosa rimane, dunque, del clima sessantottino così
esplicito nella raccolta Non me lo dire, non posso crederci
(1969). Ma è poco, è quasi irriconoscibile: tutta la poesia si
dedica a decostruire questa fiducia nelle grandi narrazioni,
con precisa spietatezza, ma senza esaltazione, senza la
fiducia nel pensiero debole del postmoderno.
Questo Andante pesante con abbandono sembrerebbe il
canovaccio di un grande affresco antropologico, dove
l’orrore è tanto da rifiutare il realismo della
rappresentazione diretta. È la posizione tardo-modernista,
dove la crudeltà disadorna del dato di fatto (Dati, “dal
toporagno arboricolo a noi / il tempo evolutivo / è settantacinque
milioni d’anni”) tradisce un’amarezza in filigrana (“Ora c’è /
un comportarsi da zie e tutto il resto”), conserva una fortissima
traccia etica.
Quello che denuncia la poesia è il “non essere / più capaci del
colmo”, il digerire QUEL piatto: il piatto dell’orrore servito
61
quotidianamente, ma anche – forse – la piattezza di
prospettive, il nonsenso di quello che accade.
Il cervello della scimmia (dunque esteriorizzato nella
prima strofa) sembra diventare il proprio (“Danì / capisce il
chiodo nel cervello”: dove chiodo sta sia per “chiodo fisso”,
cioè “fissazione”, sia per declinazione della violenza del
coltello alluso per via metonimica – segano nella prima
strofa).
Poco importa, a questo punto, che nel gioco auto-
generativo delle immagini, il Nilo sia originato dalla parola
letto (= letto del fiume) e da foce, la quale a sua volta è
suggerita dalla somiglianza tra la forma dell’estuario e
quella del collo umano che si allarga in corrispondenza
delle spalle.
Più conta forse che l’essere messi “sotto spirito” (nella
metà della seconda strofa) è un calembour atroce, e
riassuntivo forse dell’intera poesia: significa che siamo
stati congelati in provetta, non ci siamo evoluti (c’è un che
di sarcastico nella sproporzione tra toporagno arboricolo e un
lasso di tempo di settantacinque milioni di anni); e anche
significa che siamo stati soggiogati dallo spirito (“sotto-
spirito”), ovvero dalle sovrastrutture – non solo cattoliche
e cristiane: il comunismo stesso pare essere messo sotto
accusa, o forse il suo legame con la dialettica hegeliana –
che sembrano averci illuso, frustrando la carne, la
necessità biologica. Con diverso esito, un nucleo di
contenuto che abbiamo identificato simile in Vandalismi ed
elegia di Attolico.
Così, amaramente (non) si conclude lo “spirito dei tempi”
(è il caso di dirlo), che sembra tenere più che mai per la
62
situazione attuale e che è meglio reso (rispettato) da un
surrealismo lucido (!), impastato di ferocia e libertà, come
quello di Annino, che da troppo espliciti richiami narrativi,
da appiattimenti sulla mimesi e sul realismo, o da
formulazioni inutilmente programmatiche.
63
Poem Shot (23): Roberto R. Corsi (1970 - )
Quando leggo in rete dei soliti (pur bravi, ma difficilmente
più che bravi) nomi che circolano e rimbalzano di sito in
sito, mi rendo conto di quanto lavoro c’è da fare per
erodere dall’interno questo meccanismo pseudo-critico
che oscura – per pigrizia o cattiva fede – voci come, per
esempio, quella di Roberto R. Corsi.
Se Roberto non si fosse posto in dialogo con me,
probabilmente a tutt’oggi non saprei dell’esistenza della
sua scrittura poetica. Ne ho avuto una prima portata
importante con la sua raccolta in progress
Cinquantaseicozze, leggibile a puntate sul suo sito.
Per Poem Shot ho scelto – dopo averle rilette tutte, fino alla
ventunesima – la terza, che mi sembra (insieme alla
seconda) una delle più riuscite. Esorto comunque a
leggerle tutte, per scoprire una voce indipendente, diretta e
ricercata, auto-ironica e aspra.
III.
La radio semina ricorrenze civiche nel deserto; io
rivedo i tuoi sguardi clorofilla che a sprazzi hanno irrorato giorni spessi.
Umidi dei vent’anni mi annunciarono di via D’Amelio, ed eravamo
casti e sapevi del fieno attorno casa; poi burrascosi in venuzze, specchi
ustori di Alice nel meraviglioso mondo bancario all’alba del nuovo
millennio, sprezzavano a Genova quei miei comunisti di merda
e se Giuliani è morto, dicevi, qualcosa avrà pur combinato,
male non fare paura non avere (refugium peccatorum).
64
Poi facevamo una pace generosa e m’affilavo nella tua carne come l’illusione
ultraterrena sa innestarsi nell’occaso, gentilmente deflorando la foschia.
Di noi per fortuna non resterà nulla, i quarant’anni son tazze riposte all’acqua fredda
del calcolo, galassie in moti diametrali, sgranate da qualunque
storia risoluta nello schivarci, orrore grosso di stragi mangia
orrore piccolo del tuo delirio borghese rampicante, della mia vulvocentrica viltà.
(Dalla raccolta inedita Cinquantasei cozze)
Questa cozza è una delle più perfette e naturali
compenetrazioni tra confessione privata e contesto storico
che ho letto da un bel po’ di tempo a questa parte. Questa
tensione, questa dialettica s’innerva già nel primo verso: da
un lato una constatazione asciutta, dove la formalità di una
parola come ricorrenze sembra anticipare il vuoto implicito
in (o semioticamente suggerito da) deserto. Dall’altro quell’
io in bilico a fine verso, quasi un’appendice suo malgrado
espulsa da una partecipazione più implicata (onde il punto
e virgola), dall’altro tenacemente vicina al dato collettivo:
sullo stesso piano, o verso.
Ma rileggiamo il primo verso, apparentemente amaro:
escludendo come poco plausibile o giustificata una lettura
di semina nel senso di “far disperdere” (che lo renderebbe,
se possibile, ancora più amaro) può balenare il portato di
speranza del verbo “seminare”, cui non è estranea un’eco
biblica. Intanto, però, qualcosa davvero fiorisce: è la
memoria del soggetto poetante, o io empirico, che si
rivolge a “tu” intimo, femminile, il quale si fa carico dei
connotati di rinnovamento (espressi tramite un lessico
65
botanico: clorofilla, irrora) presagiti e negati al tempo stesso
nella diffusione radiofonica delle notizie.
Questo è significativo: nell’impotenza di agire in un
contesto collettivo e modificarlo (in quest’ottica, non è
casuale il riferimento ai drammatici giorni del G8 e alle
parole, solo apparentemente desuete, comunisti e borghese), al
soggetto non rimane che il privato, la compensazione del
ricordo, l’intimismo. È quanto succede in molta poesia
contemporanea: che però, a differenza di quella di Corsi,
sembra rimuovere o dare per scontato il contesto in cui le
nostre poesie vengono scritte. È una differenza cruciale: la
differenza che passa tra il mettersi all’angolo guardando
rabbiosamente il resto della stanza, e quella di pensare che
il proprio angolo sia tutto o che nulla debba mutare.
Corsi sa però bene che questa fuga nel privato – che per
alcuni dura un libro o un’intera carriera – non può durare,
se davvero si vive nel mondo: e quindi, appena un verso
dopo, l’irruzione nel ricordo della strage mafiosa di via
D’Amelio, che richiede alla poesia un innalzamento
retorico (mi annunciarono) richiesto dal tragico e
opportunamente negato al primo verso, dove si enunciava
seccamente la trivialità (comunque grave) di un non-fatto,
di un non-accadere che è forse lo specchio più fedele di
questi ultimi vent’anni italiani.
Accenni regressivi, bucolici (“eravamo / casti e sapevi del fieno
attorno casa”) cozzano, è il caso di dirlo, con la satira che fa
diventare ustorio lo specchio di Alice nel paese delle
meraviglie e combina meraviglioso con bancario. L’asprezza
del sintagma nominale meraviglioso mondo bancario è,
ironicamente, quasi meno destabilizzante delle pubblicità
66
che ingegnosamente ancora continuano a venderci la
banca come un campione di valori umani, nonostante o
proprio per il crac finanziario mondiale. Anche nel suo
poemetto Litalìa De Alberti ironizza amaramente sulla
bontà delle banche.
Il turbine di giustificato pessimismo si intensifica nelle
espressioni in corsivo, stralci di dialogo o monologo
interiore il cui contenuto, intollerabile, è però divenuto
parte di noi, del “vivi e lascia vivere” all’italiana: nella
poesia è difficile, significativamente, attribuire questi
stralci a un soggetto piuttosto che a un altro. Il senso di
impotenza, l’addossamento di colpe non direttamente
proprie, fa iscrivere questa poesia – e in generale, la
scrittura di Corsi – in un paradigma fortemente etico che
va dalla Primavera Hitleriana di Montale a Nel vero anno zero
di Sereni al Pusterla di Le prime fragole (vd. poem shot 27).
Non è allora un caso se il flusso sintattico si interrompe
qui, dopo un accumulo non più sopportabile; come non è
un caso che il verso successivo (il v. 9) si apre con la
parola pace, che nel contesto semantico della frase rimane
un dato privato (il “fare la pace”), mentre nel contesto
semiotico della poesia risuona delle tensioni esplose nei
versi precedenti. Quando arriviamo a pace generosa ci è
difficile prendere sul serio l’espressione, ci è difficile darle
più peso di quello che ha nel linguaggio corrente
l’espressione “far pace”. Un esempio di come la poesia,
funzionalmente, può rinunciare a caricare il discorso
corrente di significanza, proprio per esporlo nella sua
nudità.
67
Ritorna, più spaesato e alieno che mai, il lessico botanico,
ora più connotato sessualmente (innestando, deflorando,
vulvocentrica). Grande è la sconfitta personale e storica, il
senso di auto-distruzione enunciato quasi con cinismo
(“Di noi per fortuna non resterà nulla”), che ancora una volta
mi rimanda al Sereni più cupo (“Non ti vuole ti espatria / si
libera di te / rifiuto nei rifiuti / la maestà della notte”, da
Notturno, in Stella variabile). Il salto dall’intimismo (tazze) al
cosmico (galassie in moti diametrali) è immediato e si
appoggia al linguaggio sempre più verticale (valga per tutte
la metafora ardua “tazze fredde / del calcolo”) di una poesia
che più sa la sua (nostra) sconfitta, più non teme di
incarnare – nella forma – un assoluto risarcimento
all’offesa, in una scansione chirurgica dei versi lunghi
eppure mai rappacificati.
68
Poem Shot (25): Erika Crosara (1977 - )
Erika Crosara è stata, per me, forse la più bella rivelazione
del censimento poeti di Pordenonelegge. È lei che ho
votato (insieme a Giulio Marzaioli e a Gilda Policastro) e il
suo modo di fare poesia mi sembra indicare una via
proficua tra resoconto trattenuto e percezione di voci
incarnate, tra lirica e costruzione del discorso. Un modo
che mi ha ricordato il Guglielmin di C’è bufera dentro la
madre, uno dei poemetti più belli e intensi letti di recente
(non è un caso se Guglielmin è il prefatore del primo libro
di Crosara).
Il fatto che la raccolta di Crosara sia risultata vincitrice al
premio Lorenzo Montano di Anterem (nel 2010) è motivo
che accresce la mia fiducia in quel premio, cosa non facile
quando attorno vedi spuntare aggregati poetici ben fatti
ma mancanti di un quid, anonimi o tardo epigonici,
insomma.
Ma perché Crosara non viene mai riproposta dai blog
poetici? Forse perché molti di questi accettano le
(auto)proposte di autori ansiosi e a volte mediocri, anziché
cercare attivamente i validi e spesso appartati?
(l’inverno è rotto)
1.
«sono tutti bravi quando aspettano nenie, mirini,
dolci forni delle feste. accorrono col fiore infilzato,
69
con occhi grandi come pavoni».
2.
«ah dice se il melo almeno cantasse invece di questa
soldataglia glabra che vedo passata sopra e acuta sui
ponti, e che viene nel mondo, nel porco, nel bisogno
del giorno. una mano energumena entra nel piatto,
la malaparata avanza e taglia dopo la corda persino
i confini, coi petali intorno».
3.
«le lodi rimbalzano fra cannule e strisce ventose,
netto e mondato cammina. c’è fresco sotto le instabili
mura, muore ogni discorso davanti al serraglio. oggi
che il campo è nudo e un falco si annuncia nelle cose
minori, nei laghetti, per strada».
cauda.
«perché la polvere arretra, a stento ti dice: non importa
l’inverno è rotto e tu stipi e ti rimetti».
È la prima volta che su Poem Shot analizzo una poesia
(quasi) interamente presentata come discorso diretto di cui
non è svelata la fonte dell’enunciazione. Di per sé questa
procedura non è una novità (ma quale la è?), perché
70
esempi analoghi figurano in alcune poesie di Milo de
Angelis e perfino in alcuni passaggi dei Cantos poundiani,
dove le voci si affollano senza che ci sia sempre dato di
ricondurle a qualcuno.
Questa poesia di Crosara si presenta dunque come un
reportage – una trascrizione di voci e testimonianze da un
luogo – a frammenti. Un frammentismo che iconicamente
risponde al titolo (l’inverno è rotto) ma che anela all’unità,
come composto e perfino classico (ma di un classicismo
da metrica barbara, vicina agli esametri latini o ai versi
lunghi pavesiani) è l’incedere dei versi.
La prima trascrizione (1) inizia con l’espressione “sono tutti
bravi quando…” con un tono di rassegnazione e ironia
naturalmente veicolato da simili occorrenze nella lingua
corrente e dovuto, nella semantica frasale, al
qualunquismo esposto di tutti e al complemento di
limitazione applicato al non agire, all’aspettare. Aspettare
cosa?
Il complemento diretto consiste in una accumulazione di
elementi contrapposti, legati al riparo della ripetizione
(nenie) alla violenza (mirini) e agli affetti comunitari ma con
un’eco per me mostruosa (dolci forni delle feste: dove forni e
feste assumono una connotazione sinistra per la presenza di
mirini appena prima, facendomi legare forni all’olocausto e
feste al festino della Primavera Hitleriana di Montale). Lo
stridore del fiore infilzato conferma questi brutti presagi,
aumentati – in tutto il passaggio – dall’impossibilità di
sapere l’identità della terza persona plurale, argomento del
discorso (qualcosa di simile, e similmente sinistro, è in
71
Sereni, quando comincia con “Mi prendono da parte, mi
catechizzano” in La pietà ingiusta).
In (2) – data per scontata l’impossibilità di decidere se il
locutore è lo stesso che in (1) – sembra però di poter
percepire una modulazione interna, più intima. Fatto
sicuramente dovuto al passaggio dalla narrazione esterna
di (1) all’ipotetica rafforzata da interiezione di (2) (“ah dice
se il melo almeno cantasse”). Ma come mai non c’è nessuna
impressione di patetismo, qui? Ipotetica e interiezione
dovrebbero portare al patetismo come un’equazione tra
linguistica ed effetti. Invece da un lato c’è il distanziante
dice che rende il discorso diretto un discorso riportato da
altra fonte, come una mise en abîme per cui chi è interrogato
riporta le parole di un altro, con doppio distanziamento
dall’io lirico: non è la poetessa a parlare, e neanche un suo
personaggio: è un personaggio immaginato a riportare le
parole di un enunciatore che rimane indeterminato. E poi
– pragmaticamente, ovvero a livello di contesto – c’è il
contrasto tra il cantare del melo (impossibile a livello
referenziale, e metaforicamente interpretabile come il
suono del vento nella fronda) e la soldataglia glabra, che
riduce il desiderio espresso nell’ipotetica da alternativa allo
stato di cose presente a semplice accessorio che può,
simbolicamente (ma solo simbolicamente) opporsi al male.
Il mancato canto del melo contro la marcia dei soldati.
Con l’inquietante mano energumena si passa da una presa
esterna (i soldati che passano sul ponte) a una interna, una
scena di focolare (piatto può essere letto come una
sineddoche di casa, di frugalità). Notare poi come
l’espressione “persino / i confini, coi petali intorno” fonda
72
l’immagine del fiore (riprendendo e replicando, con
variatio, i fiori infilzati di 1) con quella della terra intesa
come confine geografico e punto strategico. Un
montaggio metonimico di elementi che sembra adatto per
un tipo di poesia autenticamente civile. La metonimia e la
fusione concettuale-immaginativa degli elementi si
sostituisce, per fortuna, alla pratica diretta della metafora,
del metamorfismo estetico e tutto sommato esteriore a cui
cedono molti poeti contemporanei.
In (3) elementi o segni del discorso (lodi, discorso, si
annuncia) sono compenetrati in uno scenario di immota e
sterile rusticità (appena suggerito da “il campo è nudo”, dalle
“cose / minori, nei laghetti, per strada”, le cannule). Il cambio
dei soggetti, più repentino che in (1) e (2), suggerisce che
dalla narrazione-descrizione dei due primi momenti si
passa a uno più sintetico, con inflessioni più filosofiche,
eppure senza cambiamenti di ritmo o registro: un senso di
uniformità e monotonia è necessario per il funzionamento
della poesia in questione.
Misteriosa, e carica di significanza, è la svolta degli ultimi
tre versi: anzitutto questi introducono, in posizione assai
forte, la parola cauda, l’unica a cadere fuori dal discorso
diretto. “Cauda” è termine zoologico per “coda equina”:
eppure questo non ci porta da nessuna parte. È più
plausibile (tralasciando un probabile uso regionale del
termine, a me ignoto) leggerla come “coda” nel senso di
chiusa del componimento o postilla (per associazione
linguistica penso al sonetto caudato), e come tale sembra
l’unica diretta intrusione autoriale nel componimento. È
però cruciale: perché instilla anche il dubbio
73
dell’arbitrarietà della scelta di quando interrompere o
meno le trascrizioni, esponendo il ruolo di selezionatore
che sempre deve svolgere chi scrive. L’aggiunta di cauda
sembra perciò un taglio inferto al discorso (e come non
collegarlo alle immagini di recisione dei fiore infilzato, e di
“taglia dopo la corda persino / i confini”?) e al tempo stesso
una promessa di continuità. È solo a questo punto, infatti,
che il lirismo del tu autoriferito, dei verbi usati
intransitivamente (“ti stipi e ti rimetti”) e della predicazione
“l’inverno è rotto” ripreso dal titolo, possono avere luogo
con naturalezza, come una possibilità più che legittima del
discorso poetico.
74
Poem Shot (27): Fabio Pusterla (1957 - )
Fabio Pusterla è (e meritatamente) uno dei più noti poeti
italiani contemporanei, uno di quei pochissimi che, pur
restando lontano dai grandi centri letterari di Roma e
Milano, ha avuto un riconoscimento di critica e pubblico
pressoché unanime, anche con l’uscita, nel 2009,
dell’antologia Le terre emerse, per Einaudi.
Questa alterità o indifferenza alle mode, alle piccole
diatribe dei salotti letterari, ha agevolato a mio modesto
parere il formarsi, nei decenni, di una poesia radicata
nell’ascolto di sé, degli altri e del proprio ambiente: una
poesia dalla forte connotazione etica e civile, attività ed
esercizio umano prima che autoreferenzialmente
letterario, sulla scorta di un maestro riconosciuto (e che è
anche il mio), Vittorio Sereni.
Dal vivo, non sembrano esserci scollature tra l’uomo e il
poeta: Pusterla è davvero una persona gentile e
disponibile, umile, lontana da quel distacco o
quell’agonismo che invece mi è sembrato di ravvisare in
altri altrettanto noti poeti passati per l’ateneo pavese alcuni
anni fa. Per i miei versi ha avuto parole precise e
d’incoraggiamento, e senza nessuna sollecitazione da parte
mia.
Per Poem Shot ho scelto Le prime fragole, una di quelle poesie
davvero rimaste con me negli anni, e una delle più belle e
intense tra quelle in Folla sommersa (2004).
75
Le prime fragole
Strisci nell'erba bianca di margherite.
Sei vestito di rosso, hai una cuffia rossa in testa,
e nella mano destra un pelacarote che infilzi
nel terreno ancora molle di marzo, sempre avanzando
lentamente nel folto del prato. Sdraiato
sull'erba, con le margherite negli occhi. Sto scalando
l'Everest, mi dici. E anche le guance sono rosse di gioia.
Strisciavi ieri nel tuo Everest di margherite
e io ti guardo oggi nel ricordo e intanto ascolto la radio
in attesa di notizie terribili, e tu continui a strisciare felice
e la radio dice della bambina schiacciata da un panzer a Gaza
tu prepari una pozione con piume d'uccello per imparare a volare
io ti preparo le prime fragole rosse dell'anno e mi chiedo
se gli occhi dell'uomo che guidava il panzer avranno capito.
(Da Folla sommersa, Marcos y Marcos, 2004)
Gianluca D’Andrea nota, a proposito di questa poesia, che
“in questi gesti è presente la storia umana, ma questa
storia, la testimonianza che ogni bambino è, può essere
distrutta”. L’attenzione dello sguardo, di cui Pusterla parlò
anni fa in un incontro al collegio S. Caterina di Pavia, c’è
tutta in questi versi: la vicinanza del soggetto poetico al
suo “oggetto” – segno di testimonianza e pietà, due dei
nodi su cui giustamente D’Andrea insiste nella sua
disanima – è palpabile. Questa vicinanza si realizza, a
livello linguistico, con l’uso del tu, che quasi per statuto è
76
difficile rendere antiretorico: eppure se c’è una resa che
fonde vicinanza evitando ogni sovrattono di affettazione,
è proprio quella a cui è giunto Pusterla.
La vicinanza è fatta di dettagli: testualmente, è il focus
sempre più vicino del soggetto ripreso. Prima il generico
moto dello strisciare, poi l’abbigliamento, poi ancora un
dettaglio meno usuale – dunque maggiormente prestato a
risaltare – come il pelacarote. Anche l’uso del verbo
presente e il discorso diretto segnalato dal passaggio alla
prima persona e a un verbo di resoconto (“sto scalando /
l’Everest, mi dici”) contribuiscono a questo effetto. En
passant, è notevole l’enjambement iconico che separa
scalando e l’Everest, a mimare la fatica del salire (del
crescere, del formarsi, per estensione simbolica). Quando
si è piccoli il poco di un prato è grande quanto il tetto del
mondo, e la prospettiva che lo sguardo del poeta accoglie
è proprio quella del bambino (spie linguistiche come cuffia
e pelacarote non potrebbero essere attribuite ad adulti né ad
altri esseri viventi). L’incipit è in apparenza meramente
denotativo-constatativo: uno scenario naturale – così
ricorrente in Pusterla, e non a caso, data la collocazione
geografica frontaliera – e quel verbo, strisci, del tutto
plausibile se riferito a un bambino. In realtà la posizione di
rilievo della constatazione (a inizio testo) è già un primo
segnale dell’investimento emotivo, benché pudicamente
trattenuto, che investe il dettato.
Eppure, qualcosa increspa questa superficie fatata, come
una tensione irrisolta sul pelo dell’acqua di un lago
svizzero. Chi ha qualche conoscenza dell’opera di Pusterla
sa quanto essa sia testimonianza anche, e spesso, di
77
tragedia, di sconfitta; e questa poesia non fa eccezione. A
un lettore avvertito non sarà sfuggita l’ambiguità del verbo
“strisciare”, che richiama i soldati nelle trincee o le
umiliazioni dei mutilati, né il forte contrasto simbolico tra
il rosso delle fragole e il bianco del prato; né la violenza in
nuce del pelacarote infilzato nel terreno di marzo
(violenza e sessualità possono essere lette in questo
dettaglio, senza essere tacciati di essere freudiani
impenitenti).
Nella seconda strofa, il brusco passaggio all’imperfetto e al
passato, nella ripresa quasi letterale del primo verso,
conferma i presagi sinistri che fino alla prima strofa
potevano sembrare vizio di sovra-interpretazione e
paranoia del critico. C’è una cesura netta, non solo nel
passaggio temporale, ma anche in quel nel ricordo che ha
forti implicazioni di cancellazione e morte. Continua,
anche fuoricampo (fuorivita?) lo sguardo del poeta, ma
anche l’interferenza del mondo di fuori, delle notizie terribili
ascoltate alla radio. Queste due correnti – pietas per
l’organismo singolo e consapevolezza della cornice storica
– coesistono in Pusterla e arrivano qui a competere per
occupare tutto lo spazio rimasto alla poesia.
Il risultato è un’efficassima contrapposizione di elementi,
un montaggio alternato (simile nella forma, nel principio
di funzionamento, a quello messo in atto dal poeta
spagnolo Luis Garcia Montero in una pur diversissima
poesia che analizzai su Poem Shot 9, non in questo
fascicolo) per cui il presente del ricordo resiste e si ostina
(“e tu continui a strisciare felice”) mentre l’opposto avviene
altrove, il crudo fatto di cronaca della bambina schiacciata
78
a Gaza non è più rimandabile nella coscienza di chi scrive.
Ora i due fatti non sono più scissi, il bene in un luogo
coesiste col male in un altro (“parte del male tu stesso tornino o
no sole e prato coperti”, scriveva Sereni in In una casa vuota).
Cosa può la poesia contro la violenza, contro il male? “For
poetry makes nothing happen: it survives” scriveva Auden
commemorando Yeats. Pusterla sa troppo bene che
questo assioma è atrocemente vero, eppure la poesia
indica simbolicamente un rovesciamento, una rivincita sul
male piuttosto che una sua consolatoria sublimazione: qui,
adottando la prospettiva rovesciata del bambino che
striscia tra le margherite, Pusterla oppone simbolicamente
ma con forza, con estrema forza, il bene del sogno e della
magia (“una pozione con piume d’uccello per imparare a volare”)
alla colpa umana e individuabile dell’uomo. Tanta forza,
tanta verità, con un dispendio assolutamente minimo di
mezzi retorici e un dettato piano ma necessario, tangibile,
in ogni sua singola parola.
79
Poem Shot (29): Roberto Minardi (1977 - )
Mi interesso alla poesia schiva e intrinsecamente libera di
Roberto Minardi dal 2007 (altri due interventi sono su
www.castiglionedav.altervista.org). Se si esclude Note dallo
sterno, un volumetto pubblicato da ArchiLibri nel 2007, e
alcune uscite su riviste quali - se ricordo bene - “Il foglio
clandestino”, “Il foglio letterario”, “Tratti” e “Atti
impuri”, la sua abbondante ma necessaria produzione è
interamente inedita. Roberto sa aspettare, vive da oltre un
decennio a Londra ed è estraneo alle pressioni e alle ansie
dei circoli poetici nostrani, delle quali - quando ne ha
scoperto l’esistenza, informato da me - si è mostrato
sorpreso e di una diffidenza quasi divertita, ma mai snob.
Non esagero se dico di considerarlo un poeta autentico e
un maestro di attitudine prima ancora che di poesia (ai
suoi padri poetici, tra cui Pavese, Larkin, Di Ruscio, Frost,
mi sono accostato troppo tardi, quando mi sentivo già in
parte formato), convinzione che in me è maturata dopo la
lettura, negli anni, di svariate decine di sue sorprendenti
poesie, e lo svilupparsi di una corrispondenza costante e
preziosa. Per Poem Shot ho scelto La sua statura bassa, da
una raccolta inedita ma si spera quasi definitiva, e che dà
un limitato ma significativo assaggio della sua scrittura.
la sua statura bassa
stringe le labbra e non mi guarda,
cerca un posto a sedere,
80
barcolla leggermente e tiene salda
in mano la cassetta degli attrezzi.
saranno le basette bianche e incolte,
il viso esposto a ciò che c'è fuori,
palesemente, a fare di quest'uomo
una figura da me non lontana
che con le dita preme tira e lascia
andare un filo teso nella cassa
che sta all'altezza dello sterno (immagino)...
dov'è che spargerà, senza pensarci,
in quale casa, l'odore di ferro
che fanno certamente i suoi capelli?
il cane assisterà - se un cane c'è -
al suo pasto serale, al suo bicchiere,
mentre lui mastica e non si concentra
davanti ad un televisore acceso?
che lato che finestra si godrà
le scarse gocce di pioggia che formano
fiumi magrissimi sui doppi infissi?
chissà se c’è anche lì - come c'è qui -
la litania del compressore, lieve,
del frigorifero, nel sottofondo...
avrà il coraggio, infine, che non ho,
di ricoprire la giusta distanza
e non restare confinato in sala,
con l'unica ambizione di cercare
un rapporto alla pari con le fughe
del pavimento?
Il voyeurismo del poeta - aspetto su cui si sofferma Sereni
ne Gli immediati dintorni - è parte integrante della poetica di
81
Minardi, in cui l’esercizio dell’osservazione minuta e della
descrizione raggiunge spesso esiti di grazia pensosa,
coraggiosamente sentimentale, o si fa pretesto per
constatazioni velatamente amare, ma aiutate da una
saggezza quasi umoristica, un senso del limite che si ferma
al di qua del tragico e riscatta una forma “forte”
d’intimismo e minimalismo in cui la lezione di Larkin
sembra attiva. La sua statura bassa illustra bene queste
componenti, anche se ha un tono più malinconico rispetto
a molte altre poesie in cui l’iperbole scherzosa, il gusto per
i repentini cambi di marcia del pensiero, l’autoironia
esibita, sono una costante che non ho trovato - almeno, in
questa forma - in nessun altro poeta letto sinora.
La poesia si sviluppa in un unico blocco tipografico, quasi
a marcare l’unitarietà del momento e la fluidità - sempre
discorsiva piuttosto che metaforica - del comporre, a
togliere enfasi sulla forma imposta da fuori che infatti è
messa in sordina: versi tradizionali (endecasillabi, un
novenario, un settenario e un quinario) che
accompagnano come un basso continuo e sembrano
sottolineare il carattere apparentemente immediato dello
scrivere, in realtà frutto di attente limature che tuttavia
intervengono dopo e non durante il processo compositivo.
Già nei primi quattro versi il focus è su una terza persona
- evocata per attribuzione di qualità fisiche già nel titolo -
che entra nella visuale (e verosimilmente nel vagone di una
metro) del poeta, e di cui le azioni contrastanti (barcollare
vs. tenere salda), e quindi una tensione irrisolta, vengono
selezionati. Per il resto, l’artificio retorico è ridotto quasi a
zero, se si esclude l’insistenza trocaica dei primi tre versi
82
che mima la pesantezza dei gesti. Nei versi seguenti la
descrizione (il ritratto) continua, ma già s’incresca
all’insegna del possibile, dell’immaginazione che continua
la sequenza: ciò si deve al futuro con valore ipotetico
(saranno le basette…), all’entrare in scena dell’io poetico
come ricevente, oggetto senza agenza (a me non lontana, non
mi guarda), e l’interrogativa introdotta da dove, che
restando entro i confini del monologo è indice di
soggettività, così come la discreta introduzione di una spia
attenuativa tra parentesi, (immagino…).
Tra tutte le figure presenti in metropolitana, quella che qui
finisce nei versi lo fa per virtù di un’ipotetica fratellanza o
vicinanza con la persona del poeta (una figura a me non
lontana), in un equilibrio che permette di parlare di altri
mediante se stessi, e di se stessi mediante altre: con una
mossa che invalida tanto il lirismo espressivo quanto il
montaggio impersonale. Si noti, per esempio, come
l’avverbio certamente sia anch’esso indice non di certezza
ma di probabilità, frutto di ipotesi ma non esito di
esperienza diretta (a ricordarci che, dove arriva la vista,
l’olfatto può fallire: in Minardi il corpo, spesso
frammentato nelle sue metonimie, è attore e protagonista,
ma non è quasi mai astrattamente tematizzato come in
molti altri poeti contemporanei). L’ipoteticità della
costruzione continua (“il cane assisterà - se un cane c’è”), e il
delizioso pleonasmo, il ricordarci dell’ovvietà (chiaramente
il cane, se non c’è, non può assistere, come in un’altra
poesia si specifica che il sole è “sotto forma di raggi”) è una
delle cifre più distinte e singolari di questa poesia. Ne
segue che l’incertezza è solo spia di una fedeltà che
83
impedisce all’osservatore, sia pure in medias res, di farsi
narratore onnisciente, ma che non gli impedisce di tentare
un “andare sopra le righe”, com’è scritto in un altro testo.
All’accettazione di Minardi - non allarmata ma anzi
riconosciuta come dato di partenza, quasi con affetto -
delle limitazioni del reale, si intreccia una forte libertà che
alle posture teoriche sul come scrivere antepone
allegramente l’ascolto di sé in solitudine e del sé in
situazione.
Si crea perciò una sfasatura tra il primo scenario - io
poetico + figura ritratta in situazione - e il secondo, che
non è da meno in termini di ricchezza mimetica (gli infissi,
il compressore, il frigorifero); sfasatura che viene messa in
evidenza, svelata, quando si passa dal secondo al primo
scenario (“chissà se c’è anche lì - come c’è qui”). Quello che fa il
poeta, in altri termini, è misurare una distanza - tra il reale
mimetico e il reale immaginato, tra la propria e l’altrui
condizione - distanza che si tematizza nell’idea di scacco e
di fuga, con una forte risemantizzazione della parola fughe
usata in senso sia prospettico che esistenziale.
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NOTE BIBLIOGRAFICHE SUGLI AUTORI
Annino, Cristina (1941 - )
- Non me lo dire, non posso crederci (Techné, Firenze, 1968)
- Ritratto di un amico paziente (Gabrieli, Roma, 1977)
- Il cane dei miracoli (Bastogi, Foggia, 1980)
- L’udito cronico (in Nuovi Poeti Italiani, Einaudi, Torino,
1984, a cura di Walter Siti)
- Madrid (Corpo 10, Milano, 1987)
- Gemello Carnivoro (I quaderni degli artisti, Faenza, 2002)
- Casa d’Acquila (Levante Editore, Bari, 2008)
- Magnificat (Puntoacapo Editore, Novi, 2009, auto-
antologia, a cura di Luca Benassi)
- Chanson Turca (Lietocolle, Falloppio, 2012)
Per maggiori info: http://www.anninocristina.it/
Attolico, Leopoldo (1946 - )
- Piccolo spacciatore (Il ventaglio, Roma, 1987)
- Il parolaio (Campanotto, Udine, 1994)
- Scapricciatielle (El Bagatt , Bergamo,1995)
- Calli amari (Edizioni di Negativo, Bologna/Roma,
2000)
- Mix (Signum Edizioni d’Arte, Padova, 2001)
- Siamo alle solite (Fermenti, Roma, 2001)
- I colori dell’oro (Caramanica, Latina, 2004)
- La cicoria (Ogopogo Edizioni d’Arte, 2004)
- Mi s(consenta) (Signum Edizioni d’Arte, Padova, 2009)
- La realtà sofferta del comico (Aìsara, Cagliari, 2009)
Per maggiori info: http://www.attolico.it/
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Bellinvia, Carlo (1985 - )
- Per i vicoli macellai di piccioni e spettri di carta (Cicorivolta
Edizioni, 2006)
Carlucci, Lorenzo (1976 - )
- If music be the food of love, play on (Scheiwiller, Milano,
2007, con Oliver Scharpf e Jacopo Ricciardi)
- La comunità assoluta (Lampi di stampa, Milano, 2008)
- Ciclo di Giuda e altre poesie (L’arcolaio, Forlì, 2008)
Cattafi, Bartolo (1922-1979)
- Nel centro della mano (Edizioni della Meridiana, Milano,
1951)
- Partenza da Greenwich (Quaderni della Meridiana,
Milano, 1955)
- Le mosche del meriggio (Mondadori, Milano, 1958)
- Qualcosa di preciso (Scheiwiller, Milano, 1961)
- L’osso, l’anima (Mondadori, Milano, 1964)
- L’aria secca del fuoco (Mondadori, Milano, 1972)
- La discesa al trono (Mondadori, Milano, 1975
- Marzo e le sue idi, (Mondadori, Milano, 1977)
- 18 dediche (Scheiwiller, Milano, 1978)
- Poesie scelte 1946-1973, a cura di Giovanni Raboni
(Mondadori, Milano, 1978)
- L’allodola ottobrina (Mondadori, Milano, 1979)
- Chiromanzia d’inverno (Mondadori, Milano, 1983)
- Segni (Milano, Scheiwiller, 1986)
- Poesie 1943-1979 (a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni
Raboni, Milano, Mondadori, Milano, 1990,
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ripubblicato con una nota biografica a cura di
Vincenzo Leotta, Milano, Mondadori, 2001)
Per maggiori info: http://www.bartolocattafi.it/
Cava, Alessandra (1984 - )
- rsvp (Polìmata, Roma, 2011)
Corsi, Roberto R. (1970 - )
- L’indegnità a succedere (Esuvia Edizioni, Firenze, 2007
[cartaceo])
- Divagazione, polemica e congedo (2009 [pdf])
- Sinfonia n. 42 (2011[pdf])
- Gli occhi di Prometeo (con L. Ugolini, 2011, [pdf])
- All’orza. Poesie 2005-2007 (2010 [ebook])
- Il ridursi del tutto a vuoto d’avvenenza (2011 [ebook])
Per maggiori info: http://www.robertocorsi.wordpress.com/
Crosara, Erika (1977 - )
- Ius (Anterem Edizioni, 2010)
Minardi, Roberto (1977 - )
- Note dallo sterno (ArchiLibri, 2007)
Palmigiano, Alessandra (1973 - )
- La seconda natura (LietoColle, Milano, 2008)
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- L’appropriato governo del fuoco (La Vita Felice,
Milano, 2012)
Pusterla, Fabio (1957 - )
- Concessione all’inverno (Casagrande, Bellinzona, 1985)
- Bocksten (Marcos y Marcos, Milano, 1989)
- Le cose senza storia (Marcos y Marcos, Milano, 1994)
- Pietra sangue (Marcos y Marcos, Milano, 1999)
- Folla sommersa (Marcos y Marcos, Milano, 2004)
- Le terre emerse. Poesie scelte 1985-2008 (Einaudi, Torino,
2009)
- Corpo stellare (Marcos y Marcos, 2011)
Scalise, Gregorio (1939 - )
- A capo (Geiger, Torino 1968)
- L’erba al suo erbario (Geiger, Torino 1969)
- Gli artisti (Lunario nuovo, Catania, 1986)
- Danny Rose (Amadeus, Montebelluna, 1989)
- Poesie dagli anni ’90 (Orizzonti Meridionali, Catania,
1997)
- La perfezione delle formule (Stampa, Varese, 1999)
- Controcanti (Quaderni del circolo degli artisti, Faenza,
2001)
- Nell’ombra nel vento (Art, Bologna, 2005)
- Opera-opera poesie scelte 1968-2007 (Luca Sossella editore,
Roma, 2007)
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Sereni, Vittorio (1913-1983)
- Frontiera (Corrente, Milano, 1941; Valecchi, Firenze,
1942)
- Diario d’Algeria (Valecchi, Firenze, 1947)
- Gli strumenti umani (Einaudi, Torino, 1965)
- Stella variabile (Garzanti, Milano, 1981)
- Poesie (Mondadori, Milano, 1995, a cura di Dante Isella)
Sinelli, Paul (1972 - )
(nessuna pubblicazione)
Tomasiello, Paola (1981 - )
(nessuna pubblicazione)
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Davide Castiglione è nato ad Alessandria nel 1985. Nel 2010 si
è laureato in lingue e letterature straniere all’Università di Pavia,
con una tesi dal titolo Sereni traduttore di Williams. Da settembre
2011 vive a Nottingham (UK), dove conduce un dottorato di
ricerca in poesia contemporanea e stilistica.
Ha vinto, nel 2008, ai concorsi «I poeti laureandi» e «Subway».
Suoi testi sono apparsi su antologie (I poeti laureandi, Momboso,
Pavia 2006 ed Edizioni Santa Caterina, Pavia 2009; Tredici
cadenze, Puntoacapo, 2011; Antologia della poesia piemontese,
Puntoacapo 2012), riviste («L’osservatorio letterario»,
«Capoverso») e su «Lo Specchio», supplemento della «Stampa».
Ha pubblicato la raccolta Per ogni frazione (Campanotto, Udine
2010), segnalata al premio Lorenzo Montano 2011 e recensita su
diverse riviste e blog letterari.
Cura il sito personale www.castiglionedav.altervista.org, è nella
redazione della rivista dopotutto e recensisce per i siti
www.criticaletteraria.org e www.giardinodeipoeti.wordpress.com
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