Player One - Primo capitolo

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Ernest Cline ha fatto il sottocuoco, ha pulito il pe- sce, donato il plasma, è stato un commesso snob di videoteca, e ha svolto lavori di bassa manovalanza tecnologica. Ma ha sempre trascurato tutte queste promettenti carriere per dedicarsi a tempo pieno al suo amore per la cultura pop in tutte le sue forme, prima attraverso la poesia orale, poi come sceneg- giatore. Ha scritto un film, Fanboys (2008), che è diventato un fenomeno di culto, con suo grande stupore. Oggi vive a Austin, Texas, con moglie, fi- glia e un’immensa collezione di videogiochi d’epoca. Player One è il suo primo romanzo. L’autore con la sua DeLorean © Dan Winters

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Il primo capitolo del libro di Ernest Cline

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Ernest Cline ha fatto il sottocuoco, ha pulito il pe­sce, donato il plasma, è stato un commesso snob di video teca, e ha svolto lavori di bassa manovalanza tecnologica. Ma ha sempre trascurato tutte queste promettenti carriere per dedicarsi a tempo pieno al suo amore per la cultura pop in tutte le sue forme, prima attraverso la poesia orale, poi come sceneg­giatore. Ha scritto un film, Fanboys (2008), che è diventato un fenomeno di culto, con suo grande stupore. Oggi vive a Austin, Texas, con moglie, fi­glia e un’immensa collezione di videogiochi d’epoca. Player One è il suo primo romanzo.

L’autore con la sua DeLorean © Dan Winters

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ERNEST CLINE

Player One

Romanzo

Traduzione Laura Spini

special books | isbn edizioni

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Isbn Edizionivia Sirtori, 420129 Milano

Presidente: Luca FormentonDirezione editoriale: Massimo CoppolaEditor: Mario BonaldiRedazione: Antonio Benforte, Linda FavaDiritti e redazione: Sara SedehiComunicazione: Valentina Ferrara, Giulia OsnaghiGrafica: Alice Beniero

Copyright © 2011 by Dark All Day, Inc.

© Isbn Edizioni S.r.l., Milano 2011

Titolo originale: Ready Player One

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Per Susan e Libby.Perché non c’è una mappa

per il posto in cui stiamo andando.

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Chiunque abbia la mia età ricorda bene dove si tro­vava e cosa stava facendo nel preciso momento in cui, per la prima volta, sentì parlare della gara. Io ero seduto nel mio nascondiglio e guardavo i cartoni ani­mati quando il notiziario fece irruzione sullo scher­mo, annunciando che James Halliday era morto nel corso della notte.

Naturalmente, avevo già sentito parlare di Halliday. Come chiunque, del resto. Era l’ideatore di videogio­chi che aveva creato oasis, il gioco multiplayer online con milioni di utenti che si era gradualmente evoluto fino a diventare la realtà virtuale, connessa su scala globale, che la maggior parte dell’umanità usava or­mai quotidianamente. Il successo senza precedenti di oasis aveva reso Halliday uno degli uomini più ricchi del mondo.

Sulle prime non riuscivo a capire perché i media avessero tanto a cuore la morte del miliardario. In fon­do, gli abitanti del Pianeta Terra avevano altro a cui pensare. L’inarrestabile crisi energetica. I catastrofici

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mutamenti climatici. Le carestie e la fame, la povertà, le malattie. Una mezza dozzina di guerre. La solita storia: «Cani e gatti che vivono insieme… isteria di massa!». Generalmente i notiziari non interrompeva­no mai la visione di sitcom e soap interattive a meno che non fosse accaduto qualcosa di grosso. Come lo scoppio di un’epidemia letale o la distruzione di un’altra grande città, inghiottita da un fungo atomi­co. Cose così, importanti. Per quanto Halliday fosse importante, la sua morte avrebbe dovuto guadagnar­si solamente uno spezzoncino durante il telegiornale della sera, giusto per far sì che le masse scuotessero le loro testoline plebee con invidia, quando i telecro­nisti avessero annunciato la quantità vergognosa di denaro che sarebbe stata elargita agli eredi.

Ma era quello il problema. James Halliday non aveva eredi.

Era morto a sessantasette anni, scapolo, senza pa­renti e, a quanto dicevano in molti, senza un solo amico. Aveva trascorso gli ultimi quindici anni del­la sua vita in un isolamento autoimposto, durante il quale (se le voci erano attendibili) aveva perso com­pletamente la ragione.

Perciò la notizia che, quella mattina di gennaio, la­sciò tutti a bocca aperta, la notizia che lasciò, da To­ronto a Tokyo, tutti di stucco davanti alla ciotola di cereali, riguardava il contenuto delle ultime volontà e del testamento di Halliday, e il destino delle sue vaste fortune.

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Halliday aveva preparato un breve videomessag­gio, corredato dalla raccomandazione che fosse di­stribuito ai media di tutto il mondo al momento della sua morte. Aveva anche fatto in modo che una copia del video fosse inviata per email a ogni singolo utente oasis quella mattina stessa. Ricordo ancora il momento in cui il messaggio raggiunse la mia casel­la di posta elettronica e io sentii il trillo a me tanto familiare, pochi secondi dopo aver visto quel primo notiziario.

Il suo videomessaggio era in realtà un cortometrag­gio meticolosamente costruito e intitolato L’invito di Anorak. Notoriamente eccentrico, per tutta la vita Hal­liday aveva nutrito un’ossessione per gli anni ottanta, il decennio della sua adolescenza: L’invito di Anorak era strapieno di riferimenti semisconosciuti alla cultura pop degli anni ottanta, riferimenti che riuscii a coglie­re solo in minima parte quando guardai il filmato per la prima volta.

L’intero video era poco più lungo di cinque minu­ti e, durante i giorni e le settimane che seguirono, sarebbe diventato il segmento più minuziosamente esaminato della storia; superò addirittura le riprese di Zapruder quanto al numero di scrupolose analisi fotogramma­per­fotogramma che subì. Tutta la mia generazione finì per imparare a memoria ogni secon­do del messaggio di Halliday.

*

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L’invito di Anorak si apre con un suono di trombe, l’at­tacco di una vecchia canzone intitolata Dead Man’s Party.

Il brano va avanti a schermo nero per i primi se­condi e il momento in cui alle trombe si unisce una chitarra è anche quello in cui compare Halliday. Ma non è un sessantasettenne intaccato dal tempo e dal­la malattia. Il suo aspetto è uguale a quello che aveva sulla copertina del Time nel 2014: un uomo appena quarantenne, alto, magro, in salute, spettinato, con i suoi tipici occhiali dalla montatura di corno. Inol­tre, veste gli stessi abiti che aveva nella fotografia del Time: jeans scoloriti e una maglietta vintage di Space Invaders.

Halliday si trova a un ballo del liceo, in una grande palestra. È circondato da adolescenti le cui capiglia­ture, così come gli abiti e i passi di danza, suggerisco­no che ci troviamo alla fine degli anni ottanta.* Ma Halliday non ha una compagna per il ballo. Sta, come direbbe qualcuno, ballando da solo.

Alcune righe di testo appaiono brevemente in bas­so a sinistra, segnalando il nome del gruppo, il tito­lo della canzone, l’etichetta discografica e l’anno di uscita, come si trattasse di un vecchio video musicale trasmesso da mtv: Dead Man’s Party, Oingo Boingo, mca Records, 1985.

* Un’attenta analisi della scena rivela che tutti i ragazzini dietro a Halliday sono in realtà comparse digitalmente ritagliate da teen movie di John Hughes e incollate all’interno del video.

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Non appena iniziano a cantare, anche Halliday co­mincia a cantare in playback, sempre volteggiando: «All dressed up and nowhere to go. Walking with a dead man over my shoulder. Don’t run away, it’s only me…».

Poi improvvisamente smette di ballare e, con un gesto secco della mano destra, interrompe la musica. In quello stesso momento, i ragazzi che ballano sullo sfondo, spariscono, così come la palestra, e la scena cambia all’improvviso.

Ora Halliday si trova davanti a una camera mortua­ria, accanto a una bara aperta.*

Un altro Halliday, molto più vecchio, giace all’in­terno della bara, con il corpo emaciato e devastato dal cancro. Due quarti di dollaro scintillano sulle sue palpebre.**

Halliday, quello giovane, osserva dall’alto il suo ca­davere invecchiato simulando tristezza, poi si rivol­ge ai partecipanti in lutto.*** Halliday schiocca le dita e nella sua mano destra appare una pergamena. La apre con ostentazione, e quella si srotola al suolo,

* Ciò che lo circonda in realtà è preso da una scena di Schegge di follia, film del 1989. Pare che Halliday abbia ricreato digitalmente il set della camera mortuaria e si sia inserito al suo interno. ** Un’analisi ad alta risoluzione ci rivela che entrambe le monete sono state coniate nel 1984.*** Questi, di fatto, sono attori e comparse presi da quella stessa scena del funerale di Schegge di follia. Tra gli astanti è possibile riconoscere chiaramente, seduti in fondo, Winona Ryder e Christian Slater.

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lungo il corridoio davanti a lui. Quindi Halliday rom­pe la quarta parete: si rivolge agli spettatori e comin­cia a leggere.

«Io, James Donovan Halliday, nel pieno possesso delle mie facoltà di intendere e di volere, con il pre­sente messaggio stabilisco, pubblico e dichiaro che questo documento costituirà le mie ultime volontà e il mio testamento, e revoco ogni testamento di qual­sivoglia natura redatto da me in precedenza…» Poi continua a leggerlo, sempre più velocemente, sciori­nando molti altri paragrafi in fitto gergo giuridico, finché non arriva a parlare tanto in fretta che le sue parole diventano incomprensibili. Quindi, si ferma bruscamente. «Lasciamo stare» dice. «Anche a questa velocità, ci impiegherei un mese a leggere tutta que­sta roba. Mi spiace dirlo, ma non ho tanto tempo.» Lascia cadere la pergamena, che scompare in una pioggia di polvere d’oro. «Facciamo che vi illustro i punti chiave.»

La camera mortuaria scompare e la scena cambia di nuovo. Halliday ora si trova di fronte all’immen­sa porta del caveau di una banca. «Tutti i miei beni, compresa la maggioranza delle azioni della mia com­pagnia, la Gregarious Simulation Systems, saranno congelati finché non verrà soddisfatta l’unica condi­zione che ho imposto nel mio testamento. Il primo individuo che soddisferà tale condizione erediterà tutte le mie fortune, al momento valutate per eccesso in duecentoquaranta miliardi di dollari.»

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La porta si spalanca, e Halliday entra nel caveau. L’interno è enorme e contiene una smisurata pila di lingotti d’oro, la cui mole arriva pressapoco a egua­gliare quella di una casa piuttosto grossa. «Ecco la grana che vi metto a disposizione» dice Halliday con un largo sorriso. «Che cavolo. Non è facile da traspor­tare, dico bene?»

Halliday si appoggia al cumulo di lingotti e l’inqua­dratura stringe sul suo volto. «Ora, sono sicuro che vi starete già domandando, cosa dovete fare per mettere le mani su tutto il gruzzolo? Be’, cari miei, una cosa alla volta. Ci sto arrivando…» Fa una pausa teatrale e la sua espressione cambia e diventa quella di un ra­gazzino che sta per rivelare un gran segreto.

Halliday schiocca di nuovo le dita e il caveau scom­pare. In quello stesso istante, Halliday diventa più piccolo e si trasforma in un bambino, con pantaloni in velluto marrone e una maglietta sbiadita del Mup-pet Show.*

Il piccolo Halliday si trova in un salotto disordina­to con una moquette arancione scuro, le pareti rico­perte da pannelli di legno, e un arredamento kitsch fine anni settanta.

Poco distante, un televisore Zenith a 21 pollici a cui è attaccato un’Atari 2600.

«Questa è la prima console per videogiochi che ab­

* Halliday ora è identico a come appare in una foto scattata a scuo­la nel 1980, quando aveva otto anni.

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bia mai avuto» dice Halliday, con la voce di un bambi­no. «È un’Atari 2600. Me l’hanno regalato per Natale, nel 1979.» Si lascia cadere di fronte all’Atari, raccoglie un joystick e comincia a giocare. «Questo era il mio gioco preferito» dice, indicando lo schermo del te­levisore, sul quale un quadratino sta attraversando una serie di labirinti piuttosto semplici. «Si chiamava Adventure. Come molti altri vecchi videogiochi, Ad­venture era stato progettato e programmato da una sola persona. Ma, al tempo, la Atari si rifiutava di ri­conoscere i meriti ai propri programmatori, perciò il nome di chi aveva creato un videogioco non compa­riva da nessuna parte sulla confezione.» Sullo scher­mo, vediamo che Halliday sta usando una spada per uccidere un drago rosso – anche se, a causa della ru­dimentale grafica a bassa risoluzione, si ha più l’im­pressione che un quadrato stia usando una freccia per pugnalare un’anatra deforme.

«E così, il creatore di Adventure, un tale di nome Warren Robinett, decise di celare il suo nome diret­tamente nel gioco. Nascose una chiave all’interno di uno dei labirinti. Una volta trovata questa chiave, un puntino grigio grande quanto un pixel, potevi usar­la per accedere a una stanza segreta dove Robinett aveva nascosto il proprio nome.» Halliday conduce il suo protagonista, il quadrato, all’interno della stanza segreta del gioco finché, al centro dello schermo, non compaiono le parole Creato da Warren Robinett.

«Questo» dice Halliday, indicando lo schermo con

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sincera venerazione «è stato il primo Easter Egg nel mondo dei videogiochi. Robinett l’aveva nascosto nel codice del gioco senza che nessuno ne fosse a co­noscenza e la Atari ha prodotto in serie Adventure e l’ha distribuito in tutto il mondo senza sapere della stanza segreta. Ne rimasero all’oscuro fino a qualche mese dopo, quando i ragazzini, ovunque, iniziarono a scoprire l’Easter Egg. Io ero uno di questi ragazzini, e trovare l’Easter Egg di Robinett per la prima volta fu una delle esperienze più grandiose della mia vita di videogiocatore.»

Il giovane Halliday abbandona il joystick e si rialza. Mentre lo fa, il salotto comincia a scomparire, e la sce­na cambia di nuovo. Ora Halliday si trova in una grot­ta buia, sulle cui pareti umide trema la luce di alcune torce. Simultaneamente, cambia anche il suo aspetto, Halliday si trasforma nel famoso avatar che usava su oasis: Anorak, un mago alto e togato con un volto che è la versione vagamente più attraente (e senza occhia­li) di Halliday da adulto. Anorak indossa la tipica tuni­ca nera che, su entrambe le maniche, ha ricamato l’em­blema del suo avatar (una grande A ben disegnata).

«Prima di morire» dice quindi Anorak, con un tono molto più cupo «ho creato il mio personale Easter Egg e l’ho nascosto all’interno del mio videogioco più fa­moso: oasis. Il primo che troverà l’Easter Egg eredite­rà i miei beni nella loro totalità.»

Altra pausa teatrale.«È difficile da trovare. Non l’ho semplicemente na­

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scosto da qualche parte, dietro un sasso. Presumo si possa dire che è chiuso dentro una cassaforte sepolta in una camera segreta che, a sua volta, è nascosta al centro di un labirinto situato da qualche parte…» Sol­leva il braccio a picchiettarsi la fronte. «Qui dentro.»

«Ma non preoccupatevi. Ho lasciato qualche indi­zio in giro, per mettervi sulla buona strada. Ecco il primo.» Anorak fa un cenno pomposo con la mano destra e subito compaiono tre chiavi che roteano in aria, proprio di fronte a lui, e sembrerebbero fatte di rame, giada e cristallo. Mentre le chiavi continuano a roteare, Anorak comincia a recitare la strofa di una poesia e ogni verso compare, per pochi istanti, come un sottotitolo fiammeggiante in fondo allo schermo:

Tre chiavi, ognuna una porta apriràChe il valor dei viandanti proverà

Chi l’ardue prove superar sapràGiunto alla Fine, il premio otterrà

Al concludersi di questi versi, la Chiave di Giada e quel­la di cristallo svaniscono; rimane soltanto la Chiave di Rame, ora appesa con una catenina al collo di Anorak.

La macchina da presa segue Anorak che si volta e continua a camminare lungo la caverna. Pochi secon­di dopo, raggiunge una massiccia porta di legno a due battenti, incassata nella parete rocciosa.

La porta è rivestita in acciaio e, incisi sulla super­ficie, appaiono scudi e draghi. «Questo gioco non ho

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potuto testarlo, quindi la mia preoccupazione è che potrei aver nascosto il mio Easter Egg talmente bene da renderlo introvabile. Non lo so per certo. Anche se fosse, ora è comunque troppo tardi per cambiare qualcosa. Perciò staremo a vedere.»

Anorak spalanca la porta rivelando una smisurata stanza del tesoro, ricolma di monete d’oro scintillan­te e calici tempestati di gioielli.* Poi oltrepassa la so­glia e si rivolge agli spettatori, allargando le braccia per tenere aperta la porta.**

«E quindi, senza altri indugi» annuncia Anorak «che la caccia all’Easter Egg di Halliday abbia inizio!» Poi scompare in un lampo di luce, lasciando lo spettatore a guardare gli abbaglianti cumuli di tesori al di là della porta aperta.

Poi parte una dissolvenza al nero.

*

Alla fine del video, Halliday aveva allegato un link al suo sito personale, che era cambiato radicalmente la

* Un’attenta analisi ci rivela decine di oggetti bizzarri nascosti tra i cumuli di ricchezze. Da segnalare: molti dei primi personal com­puter (un Apple IIe, un Commodore 64, un’Atari 800xl, e un trs­80 Color Computer 2), decine di controller compatibili con una va­sta gamma di sistemi, centinaia di dadi poliedrici, di quelli usati nei vecchi giochi di ruolo da tavolo.** Il fermo­immagine della scena è praticamente identico a un dipinto di Jeff Easley che comparve sulla copertina di Dungeon Master’s Guide, un libro di regole di Dungeons & Dragons pubblicato nel 1983.

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mattina della sua morte. Per più di un decennio, l’uni­co elemento presente sul sito era stata una breve ani­mazione in loop che mostrava il suo avatar, Anorak, seduto in una biblioteca medievale, ricurvo, intento a mescolare pozioni e concentrato su alcuni libri di incantesimi sopra un tavolo da lavoro consumato dal tempo. Sulla parete dietro di lui si vedeva un grande dipinto che raffigurava un drago nero.

Ma ora quell’animazione non c’era più e, al suo po­sto, si poteva vedere una classifica dei punteggi più alti, simile a quelle che si trovavano nei vecchi video­giochi a gettone. La lista presentava dieci posizioni, occupate tutte dalle iniziali jdh – James Donovan Halliday – seguite da un punteggio a sei zeri. Tale li­sta fu presto denominata il «Segnapunti».

Sotto il Segnapunti, un’icona rappresentava un li­bricino rilegato in pelle, che linkava a una copia, sca­ricabile gratuitamente, dell’Almanacco di Anorak, una raccolta di centinaia di annotazioni tratte dal diario di Halliday e prive di data. L’Almanacco consisteva in più di un migliaio di pagine, ma forniva pochi detta­gli sulla vita privata di Halliday o sulle sue attività quotidiane.

Perlopiù, si trattava di un flusso di coscienza con osservazioni riguardanti numerosi classici del vide­ogioco, romanzi fantasy e di fantascienza, fumetti, cultura pop degli anni ottanta; il tutto mescolato con divertenti diatribe che denunciavano qualsiasi cosa, dalle religioni organizzate alle bibite dietetiche.

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La Caccia, come venne ribattezzata la gara, si diffu­se in fretta per tutto il mondo. La possibilità di trovare l’Easter Egg di Halliday divenne una fantasia diffusa, tra gli adulti e tra i bambini, come quella di vincere alla lotteria. Si trattava di un gioco cui chiunque po­teva partecipare e, sulle prime, non sembrava ci fosse un approccio giusto o sbagliato. L’unico indizio che l’Almanacco di Anorak sembrava suggerire era che la conoscenza più o meno approfondita delle varie os­sessioni di Halliday sarebbe stata imprescindibile per la soluzione dell’enigma. Cosa che portò tutti ad ap­passionarsi sempre più alla cultura pop degli anni ot­tanta. Cinquant’anni dopo, i film, la musica, i giochi e la moda di quel decennio erano di nuovo all’ultimo grido. Dal 2041, i capelli a punta e i jeans scoloriti in candeggina erano tornati di moda e le classifiche mu­sicali erano dominate da band contemporanee che suonavano cover dei successi pop degli ottanta. Tutti coloro che erano stati ragazzini in quel decennio, or­mai prossimi alla vecchiaia, stavano vivendo la strana esperienza di vedere gli stili e le tendenze della loro giovinezza abbracciati dai nipotini.

Era nata una nuova sottocultura, composta dai mi­lioni di individui che ora impiegavano il loro tempo libero alla ricerca dell’Easter Egg di Halliday. Inizial­mente venivano definiti, abbastanza semplicemente, come Egg Hunters, ma presto il soprannome fu con­tratto in Gunters.

Durante il primo anno della Caccia, essere un Gun­

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ter andava molto di moda e non c’era utente oasis che non si fregiasse di quel titolo.

Al primo anniversario della morte di Halliday, però, la frenesia che circondava la Caccia iniziò ad affievo­lirsi. Era passato un anno intero, e nessuno aveva tro­vato nulla. Non una chiave, non una porta. Parte del problema era legato all’estensione stessa di oasis. Al suo interno erano presenti più di mille mondi virtuali e la chiave poteva trovarsi in ognuno di essi. Un Gun­ter avrebbe potuto impiegare anni per una ricerca ap­profondita anche solo in un mondo.

Al di là di tutti i Gunter cosiddetti «professionisti» che ogni giorno, sui loro blog, si vantavano di essere vicini a una svolta, la verità divenne via via più evi­dente: nessuno aveva idea di cosa stesse cercando, né sapeva da dove cominciare.

Passò un altro anno.E un altro ancora.Niente. Il grande pubblico perse interesse per la gara. Co­

minciò a diffondersi l’idea che fosse una bufala in­ventata da un ricco stravagante. Altri credevano che, anche se l’Egg fosse esistito veramente, nessuno lo avrebbe mai trovato. Al contrario, oasis continuava a evolversi e a diventare sempre più popolare e protet­to sia dalle grinfie di coloro che volevano acquisirne il controllo sia dalle controversie legali, grazie al testa­mento blindato di Halliday e all’esercito di avvocati rabbiosi incaricati di occuparsi dei suoi beni.

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L’Easter Egg di Halliday entrò lentamente a far parte delle leggende metropolitane e il popolo dei Gunter, che sempre più si assottigliava, diventò og­getto di scherno. Ogni anno, nel giorno della morte di Halliday, i telegiornali riportavano, sarcasticamente, la notizia che non si era giunti ad alcun progresso. E ogni anno che passava, sempre più Gunter gettavano la spugna, giunti alla conclusione che Halliday avesse davvero reso l’Easter Egg impossibile da trovare.

E passò un altro anno.E un altro ancora.Poi, la sera dell’11 febbraio 2045, il nome di un ava­

tar comparve in cima al Segnapunti, in bella vista da­vanti a tutto il mondo. Dopo cinque lunghi anni, la Chiave di Rame era stata trovata da un diciottenne che viveva in un parcheggio di case mobili alla perife­ria di Oklahoma City.

Ero io. Decine di libri, cartoni animati, film e miniserie

hanno cercato di raccontare la storia di tutto quello che accadde in seguito, ma nessuno l’ha fatto nella maniera giusta. È per questo che voglio mettere le cose in chiaro, una volta per tutte.