Piedmont under Swabian reign

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FRAN CESCO COGNASSO

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In Italian. Excerpts () from IL PIEMONTE NELL'ETÀ SVEVA. Ed. DEPUTAZIONE SUBALPINA DI STORIA PATRIA. TORINO - PALAZZO CARIGNANO. 1968By Francesco Cognasso, http://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Cognasso

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FRAN CESCO COGNASSO

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IL PIEMONTE NELL'ETÀ SVEVA

DEPUTAZIONE SUBALPINA DI STORIA PATRIATORINO - PALAZZO CARIGNANO

1968

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CAPITOLO VIII

FEDERICO BARBAROSSA ED I PROBLEMI POLITICI DELL'ITALIA OCCIDENTALE

1. Il comune di Novara e i conti di Biandrate. - 2. Le que-stioni politiche della valle del Tanaro. - 3. In Val di Scrivia. - 4. Federico Barbarossa in Piemonte. - 5. La dieta di Roncagli» del 1158. - 6. Federico Barbarossa fra due papi. - 7. L'antipapa Vittore IV a San Pietro di Savigliano. 8. Dopo la distruzione di Milano. - 9. L'incoronazione impe-riale di Torino. - 10. Federico Barbarossa ed I Genovesi. 11. La spedizione di Roma.

1. Il comune di Novara ed i conti di Biandrate

La politica degli Staufer aa. Federico I a Federico II ebbe quasi costantemente come centro ai. gravità l'Italia occidentale, l'at -tuale Piemonte. L'anti-imperialisrno stentò sempre a radkarvisi, così per la prima come per la seconda Lega Lombarda.

Le marche dove spesso gli imperatori avevano trovato resi-stenza erano scomparse: ora vi erano numerose dinastie di marchesi, di conti, la cui autorità era legata ad un diploma imperiale. In Pie -monte la lista delle corti regie del servizio della mensa imperiale comprendeva ventotto corti: Settimo, Torino, Susa, Avigliana, Pios-sasco, Chieri, Testona, Revello, Saluzzo, Albenga, Savona, Torcello, Villa del Foro, Gamondo, Casale, Odalengo, Pecetto, Marengo, Sez-zè, Retorto, Ponti (o Belmome?), Basaluzzo, Vinchio, Tromello, Lomello, Montiglio, Curana. L'elenco, che è della metà del secolo X, comprende corti che nel secolo XII erano diventate feudi e centri importanti feudali o comunali, ma le tradizioni imperiali non erano cadute e gli obblighi vivi.

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Quando Federico Barbarcssa comparve in Italia nel 1154, egli sapeva di poter contare in Piemonte sopra l'appoggio sicuro di tutta la feudalità maggiori; eò anche delle città, dove i vescovi apparivano, per la loro posizione feudale, devoti all'impero e dove anche i nuclei comunali che raccoglievano le forze della piccola feudalità non erano ostili all'impero che aveva approvato le loro consuetudìni, i loro buoni usi, le loro libertà. Vi erano però nella regione pedemontana àeQe. controversie giuridico-cconoiniche che dovevano attirare l'atten-zione del nuovo Cesare e metterlo anche nll'ìmbarazzo.

Fra Sesia e Ticino vi era la questione novarese. Attraverso ad avvenimenti die non conosciamo, Novara era passata fin dal prin-cipio del secolo XII sotto l'influsso di Milano. Così, anche ì conti di Biandrate che conservavano tutti i loro possessi di "Valsesia e dell'Ossola e non parevano aver del tutto rinunciato ai loro vecchi comitati di Pombia e di Bulgaria. Come già si è accennato, all'assedio di Comò del 1119 i milanesi avevano rimorchiato vercellesi, asti-giani, novaresi e persine la vedova dì Alberto conte di Biandrate che era venuta all'esercito col figlioletto Guido:

V.I coruhissa suura gettando brachio natura, Spente sua tota cum gente Novaria venit.

Proprio « sponte »? Nel 1127 di nuovo i novaresi ed il conte Guido di Biandrate, certo non più in braccio, ma accompagnato dalla madre, questa volta, ritornarono alla richiesta dei milanesi per un nuovo assedio di Comò. Ci dice Ottone di Frisinga che Guido di, Biandrate — alla metà del secolo XII — possedeva il territorio novarese « Mediolanensium... aucioritate »; altrove dice che il contes di Biandrate era « naturalis in Medioiano civis » sì che « curiae carus et civibus suis non esset suspiciostis ». È da pensare che il conte di Biandrate avesse dovuto, per salvaguardarsi dai milanesi ed averLi alleati contto i novaresi legati al vescovo, giurare il cittadinatìco dii Milano. E se i milanesi prima del 1154 avevano costrutto òeiì»e fortificazioni -A Ticino per avere il possesso del ponte ed aveva?»*? nelle mani alcuni castelli come Morno, Galliate, Trecate, Mosezzco, Farà, in modo da dominare la regione novarese, si può supporrle die Milano intromettendosi nelle controversie locali cercasse di uro-porsi ed al comune novarese ed ai Biandrate.

Guido di Biandrate non poteva non ricorrere però ail'autoritrta imperiale pel averne protezione, contro questa azione awolgitrioce da parte di Milano.

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212 I PROBLEMI POLITICI DELL'ITALIA OCCIDENTALE

Già nel 1140, poco dopo l'elezione di Corrado III, il coate di Biandrate si, recò in Germania, insieme con Raineri di Bulgaro, forse per la dieta di Worms: è dubbio se allora ottenne da Cor -rado III un diploma. Ma dodici anni dopo, quando Federico Bar-barossa fu proclamato, Guido di Biandrate si affrettò a ritornare in Germania e nella dieta di Wùrzburg dell'ottobre del 1152 ottenne dall'imperatore un privilegio di conferma di tutti i suoi domini nei territori di No vara e di Chieri: nel diploma nessun accenno invece si faceva al comitato di Pombia. La questione era dunque chiusa?

2. Le questioni politiche della valle del Tartaro

Più grave problema era offerto dalla situazione politica nella valle inferiore del Tanaro, per i contrasti gravi tra il comune d'Asti ed H marchese di Monferrato. La politica di ingrandimento del co-mune mercé accordi pacifici con i piccoli feudatari limitrofi aveva presto urtato contro le aspirazioni dei marchesi. Un cronista poste-riore che può avere attinto a qualche fonte fede degna, Guglielmo Ventura, afferma che tra astigiani ed il marchese Raineri vi fu bat-taglia il 4 luglio 1123 e che i primi furono sconfitti. Ignoriamo in che cosa consistesse il dissidio. Nel 1135 il violento contrasto scoppiato, come già accennammo, tra il nuovo marchese, Guglielmo il Vecchio, ed i suoi cugini del ramo di Felizzano, diede nuova esca al conflitto con Asti, In quell'anno Ardizzone II in odio al cugino Guglielmo si gettò tra le braccia oegli astigiani ed acconsentì a tenere da essi in feudo la sua parte deKcastello di Felizzano, il castello di Calliano e quello di Tonengo, i qoali due però erano nelle mani del nemico; anzi si impegnò a tenere "in feudo da Asti quel che potesse riconquistare dei suoi domini in Monferrato, tra Po e Ta -naro ed a non venire ad accordi con" il cugino Guglielmo senza intesa con Asti.

Del conflitto tra i due marchesi non abbiamo notizie precise. Si può pensare che Ardizzone I ed Ardizzone II volessero trasfor-mare in signoria autonoma i loro possessi come stavano pure cer -cando di fare i cugini marchesi di Occimiano. Veramente nel 1126 i tre marchesi Raineri, Ardizzone e Bernardo di Enrico Balbo erano concordi nella fondazione del monastero di Lucedio e nel 1135 tro-viamo ancora concordi Raineri ed Ardizzone in un'altra donazione a Lucedio. Ardizzone I aveva cercato di costituire la signoria di

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IN VAL DI SCRIVIA 213

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Felizzano trattando con Bonifacio del Vasto per reciproche rinunce e concessioni, ma Raineri compartecipe del possesso di Felizzano pare si opponesse ottenendo da Enrico V la conferma di detti domini contestati. Una nuova conferma ottenne poi da Corrado III il mar-chese Guglielmo V, La rottura tra Ardizzone II e Guglielmo V diventò in seguito dell'intervento di Asti completa ed insanabile. Anche i figli di Ardizzone II, i marchesi Enrico e Bernardo, nel 1149 rinnovarono i buoni rapporti con gli Astigiani cedendo loro, per riaverlo in feudo, il castello di Vignale.

Ad aggravare la situazione politica sul Tanaro contribuì ancora nel 1149 un altro acquisto di Asti. Uno dei figli di Bonifacio del Vasto, il marchese Ottone il Bovaro, cedette ad Asti metà del comi-tato di Loreto, riavendolo in feudo. Anche il marchese Ottone era in contrasto con Guglielmo V di Monferrato, evidentemente per contestazioni patrimoniali, forse appunto per Loreto, ed intendeva assicurarsi l'aiuto degli astigiani. Sappiamo che alla vigilia della discesa in Italia di Federico Barbarossa, sul Tanaro si combatteva: il 2 settembre 1154 Guglielmo V venne sconfitto dagli astigiani.

3. In Val ài Scrivici

Anche in Val di Scrivia le questioni relative alle strade com-merciali tra il Po ed il mare ed ai pedaggi avevano reso difficili i rapporti tra i vari comuni: Genova, Gamondio, Tortona, Pavia, Milano. I genovesi nella necessità di assicurarsi sicuri e tranquilli i commerci portuari avevano creato una rete di accordi con i comuni padani. Cosi nel 1130 si erano accordati con i pavesi per dieci anni: alleanza, rispetto reciproco di uomini e di merci, riconoscimento di una lìnea di demarcazione (Castello d'Orba, Parodi, Carosio, Mon-taldo, Stazzano, Sarazzano, Vogherà, Castelnuovo, Sala, Rovoreto, Ga-mondio, Sezzè) accordi contro i marchesi di Gavi, contro il comune di Tortona. Ma nel 1140, prima di rinnovare per un altro decennio gli accordi con- i pavesi, credettero opportuno accordarsi con i torto-Resi con un patto pure decennale, che permise loro di fare delle riserve esplicite negli accordi con i pavesi. Poi nel 1144 i genovesi, preoccupati di tenere la pace in Val di Scrivia, rifecero accordi con i pavesi e con i tortonesi, ma questi due comuni, sebbene costretti a pace dal comune alleato, non riuscirono ad intendersi mai. E sap-piamo che Tortona era in lotta con Pavia già nel 1107! Invece i

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tortonesi riuscirono ad accordarsi con i milanesi contro i pavesi.Così nel 1146 i genovesi si accordarono con i gamondiesi esen-

tandoli dal pedaggio di Voltaggio ed avendone in cambio promessa di protezione per i castelli loro di Voltaggio, FLaccone, Aimero, Mon-taldo: l'accordo era diretto contro i marchesi di Gavi e di Parodi e contro il loro alleato e congiunto Guglielmo V di Monferrato che aveva vecchie questioni con Genova. Conseguenza fu che Alberto di Parodi fu fatto prigioniero dagli abitanti di Castelletto d'Orba a lui ribellatisi. La consorte Matilde di Monferrato, sorella appunto di Guglielmo V, per liberare il marito si rivolse ai genovesi impe-gnandosi a cedere loro per prezzo il castello stesso di Parodi ed a prendere la cittadinanza genovese. Nel 1150 il marchese di Mon-ferrato giurò il cittadinatico di Genova promettendo di intervenire ai parlamenti e di aiutare con le armi e con i consigli il comune; e così anche si impegnarono i marchesi di Gavi.

Avrebbe saputo Federico Barbarossa regolare le varie contro-versie locali senza provocare reazioni? Nel 1154 egli era ancora giovane, impulsivo, convinto che l'autorità imperiale dovesse risol-vere tutte le difficoltà. Occorreva solo comandare.

Federico Barbarossa entrò in Lombardia per la valle dell'Adige: il 26 ottobre 1154 era a Povegliano (Villafranca), dal 19 al 22 no-vembre fu presso Brescia, poi venne presso Cremona: attraversò l'Adda sul ponte dei Cremonesi fra San Vito e Castiglione ed il 30 novembre si accampò a Roncaglia dove comunità, arcivescovi, abati, baroni dovevano convenire..

4. Federico Barbarossa in Piemonte \

Dopo avere esaminate le varievvertenze nella dieta di Roncaglia, sul principio del dicembre del 1154 Federico Barbarossa fece una breve incursione nel territorio di Milano, ma senza una vera ten -denza ostile. Voleva recarsi in « superiores Italiae partes » cioè in Piemonte. Nell'attraversare il territorio milanese nacquero contrasti tra Federico ed i rappresentanti di Milano; Federico per rappresaglia bruciò Rosate; alcuni cavalieri tedeschi furono feriti; i milanesi die-dero la colpa al loro console Gerardo Negri e per punirlo ne distrassero la casa.

Federico Barbarossa intanto attraversava il Ticino a Turbigo il 15 dicembre e si recava a Biandrate, ospite del conte Guido. Awen-

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FKBERIOO BÀRBAROSSA IN PIEMONTE 215

nero in questo momento delle trattative con Milano, ma senza esito: l'imperatore perciò distrasse le fortificazioni milanesi al ponte sul Ticino, poi i castelli novaresi presidiati da Milano, Momo, Galliate, Trecate. Sotto le mura di Trecate appunto festeggiò Federico il Natale: di quei giorni certo è la decisione di confermare al vescovo di Novara tutti i suoi possessi e domini feudali comprendendovi Novara ed i comitati di Pombia e d'Ossola. Il diploma fu sigillato poi a Casale il 3 gennaio seguente: era presente il conte di Biandrate che pure sapeva di avere ottenuto il comitato d'Ossola nel diploma di due anni prima. Voleva Federico I togliere il vescovo di Novara dall'influsso di Milano?

Dopo avere adunque visitato Vercelli e Casale, l'imperatore risalì nel nord ed attraversò il Canavese. A Rivarolo il 13 gennaio Federico ricevette l'omaggio feudale di un grande signore del regno d'Arles, Guido V conte d'Albon: gli concedette la conferma di tutti i suoi privilegi e possessi, in più la concessione di una miniera d'argento a Rama ed il diritto di aprire una zecca a Cesana che doveva rivaleggiare con quella sabauda di Susa. Anche Bertoldo di Zahringen, rettore della Borgogna, che accompagnava Federico I, fece notevoli concessioni al conte d'Albon per il possesso di Vienne promettendogli aiuto contro il conte di Macon. Invece Umberto III di Savoia, • sebbene Federico attraversasse una regione così impor-tante per i suoi interessi, era assente.

Dal Canavese Federico Barbarossa raggiunse Torino, dove fu ospite del vescovo Carlo ed ora attraversò il Po al ponte di Testona per raggiungere la valle del Tanaro. Dalla dieta di Roncaglia aveva inviato solenni intimazioni ai milites di Chieri, gli « oppidani Kairae » ed ai cittadini di Asti « astenses cives » di soddisfare alle giuste esigenze del marchese di Monferrato. A Roncaglia, il vescovo d'Asti Anselmo aveva unito le sue proteste a quelle di Guglielmo V: il comune astigiano evidentemente si disinteressava e dei diritti comi-tali del vescovo e dei diritti non meglio precisati del marchese di Monferrato. Guglielmo V pretendeva forse che Asti fosse di spet -tanza della vecchia, primitiva marca aleramica? o si considerava erede della contessa Adelaide? Naturalmente né chieresi né astigiani cedet-tero alle intimazioni imperiali. Federico Barbarossa li dichiarò ribelli e mise gli uni e gli altri al bando dell'impero.

I primi ad essere colpiti furono quei di Chieri. Corte regia in origine, Chieri figura già nelle donazioni imperiali all'episcopio di Torino dal secolo X; il vescovo Landolfo vi costruì un castello

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ed una torre. Altri beni il vescovo torinese vi acquistò alla fine del secolo XI, operando permute con l'abazia di Cavour.

Molti beni nella regione possedevano però i conti di Biandrate per il noto scambio di terre fatto nel 1034 con l'abazia di Nonantola; terre staccate forse dalle corti regie, fin dall'età langobardica o caro-lingia. Appunto nel 1152 con il diploma di Wùrzburg, Guido di Biandrate aveva ottenuto da Federico I la conferma per Cesoie, Riva (di Chieri), Porcile, Val di Masio « cum omni comitatu et districto » ed inoltre per i beni di Monteu (Roero), castello e corte che il conte Guido aveva ereditato da un vassallo dell'episcopio astense, Rodolfo di Monteu, morto senza eredi diretti, essendogli premorta la figlia Berta che aveva sposata un Oddone di Biandrate.

A Chieri vi erano dunque dei vassalli del vescovo di Torino e del conte di Biandrate, forse anche del marchese di Monferrato. Non si ha traccia ancora di organizzazione comunale. All'arrivo di Federico I, gli « oppidani » abbandonarono la loro « maximam et munitissimam villani » e si rifugiarono nei castelli sulle vicine col-line; i tedeschi vi si fermarono qualche giorno, poi andandosene diedero fuoco al castello ed alle torri.

Anche Asti si vuotò della popolazione all'arrivo di Federico Barbarossa: il rifugio dei capi fu il castello di Annone. Così l'impe-ratore potè senza difficoltà occupare la città e partendosene (1° feb -braio 1155), consegnarla al marchese di Monferrato. Proseguendo la sua marcia, Federico si portò, a Gamondio, poi a Bosco presso quei marchesi che lo spinsero coltro Tortona. Ottone di Frisinga ci dice che Federico intimò ai tortosesi di lasciare l'alleanza di Mi -lano e di allearsi con Pavia; però le intimazioni urtarono contro un assoluto rifiuto e fu necessario ricorrere ài}a forza. La città fu stret-tamente assediata, battuta con macchine, incendiata nei borghi. Ma poiché i milanesi e gli stessi marchési Malaspina aiutarono gli asse-diati, Tortona resistette eroicamente per più cii due mesi (14 feb-braio- 18 aprile); poi Federico abbandonò la città, arresasi per fame, all'odio dei pavesi che in otto giorni distrassero castello, mura, case. Ora Federico Barbarossa giudicò che l'Italia occidentale fosse tran-quilla e si recò a Pavia a festeggiare le vittorie su Chieri, Asti e Tortona. Quindi proseguì per Roma: l'incoronazione imperiale, la questione di Arnaldo da Brescia lo occuparono assai.

Nel luglio del 1155 Federico già riprese la via della Germania. Da Roma sari a Spoleto dove gli fu necessario combattere aspra-mente con la popolazione insorta contro i tedeschi; quindi si portò

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LA DIETA DI RONCAGLIA DEL 1158 217

ad Ancona e sciolse l'esercito. Egli risalì la valle dell'Adige ed attra -versò il Brennero; altri principi invece ripresero la via del Piemonte e si recarono ai valichi del Cenisio e del San Bemardo.

5. La dieta di Roncarla del 1158

Ma nell'Italia occidentale la pace non si era ristabilita. Appena i tedeschi si erano allontanati verso Roma, i milanesi erano accorsi alle mine di Tortona e si erano messi a ricostruire mura e case. Per ricordare la riedificazione della città, i Consoli di Milano invia-rono ai Tortonesi una lettera con tre simboli che rappresentassero la loro devozione: una tromba di bronzo che servisse a chiamare i cittadini alla battaglia, un vessillo bianco con la croce rossa, un sigillo che rappresentasse le due città unite in perpetuo. Di qui nacque una lunga guerra tra Milano e Pavia, prima attorno alle ruine di Tortona, poi in Lomellina, e poi sotto Lodi, e sotto Cre-mona. I milanesi si preoccuparono di allargare la sfera delle loro alleanze, in modo da isolare i comuni nemici, Lodi, Pavia, Cremona: trattati conchiusero con Tortona, Vercelli, Asti, Genova, Piacenza, Brescia. Il 19 luglio del 1156 promisero ai piacentini che li avreb-bero aiutati contro i cremonesi ed i pavesi; riservavano i cremaschi, i genovesi, i giuramenti fatti agli astigiani, ai vercellesi, ai tortonesi.

Nel 1156 le miHzie milanesi ricomparvero pure nel Novarese, dove assediarono il castello di Cerano, che era del conte di Biandrate ed ora si trovava nelle mani dei novaresi e dei loro alleati i pavesi. Il conte Guido si trovava allora in Germania, alla corte imperiale. Per lui, e per sé, i milanesi occuparono successivamente non pochi castelli: Cerano, Sozzago, Morghengo, Momo, Mosezzo, Farà; poi rifecero il ponte sul Ticino e Io presidiarono. Quando Guido di Biandrate ritornò, assunse egli stesso il comando supremo delle forze alleate milanesi (contro Pavia; nel 1157 ditesse appunto le operazioni per la presa di' Vigevano.

Così il conte di Biandrate continuava nella sua amicizia con Milano — ignoriamo quando avesse prestato il giuramento di citta-dinatico a Milano — pur essendo in ottimi rapporti con Federico Barbar ossa. Questi alla dieta di Francoforte (1" febbraio 1156) aveva concesso al conte un importante diploma: lo assumeva sotto la sua speciale protezione, gli riconfermava possessi e privilegi in perpetuo, lo dichiarava dipendente solamente dall'autorità imperiale, gli ricon-

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218 I PROBLEMI POLITICI DELL'ITALIA OCCIDENTALE

fermava la giurisdizione per tutto il comitato ed il vescovado di Novara, eoa il diritto per i suoi sudditi di commerciare liberamente nei tre vescovadi di Novara, Vercelli, Ivrea.

Era senza dubbio una notevole affermazione di prestigio e di autorità in tutta la regione compresa tra la Dora Baltea ed il Ticino; la politica ambigua di Guido pareva essere per ora vittoriosa. Ancora nel 1157, appunto dopo aver combattuto con Milano contro Pavia, insieme con il cognato Guglielmo di Monfemto riprese la via di Germania. A Wurzburg alla Pentecoste assistettero alle nozze del-l'imperatore con Beatrice di Borgogna; alla dieta di Besangon (otto-bre 1157), Federico discusse della prossima discesa in Italia.

La resistenza di Milano ai suoi voleri faceva capire all'impe-ratore ch'egli non avrebbe potuto dominare in Italia se non avesse piegato prima i milanesi « i quali superbamente ribelli al romano impero, minacciavano di sovvertire e soggiogare tutta l'Italia ». Così scriveva Ottone di Frisinga interpretando il pensiero del nipote imperatore.

Federico aveva già deciso di portare in Italia un poderoso esercito e mandò avanti il cancelliere Rainaldo di Dassel ed il conte palatino Ottone ad intimare alle città il giuramento di fedeltà ed il pagamento del fodro.

Infatti nella primavera del 1158, Federico Barbarossa dal campo di Augusta diresse le operazioni delle diverse colonne che per i vari valichi alpini dovevano sbucare nella pianura padana. Così il duca di Zahringen con le sue gentiMi Borgogna attraversò il Gran San Bernardo; Svevi e Franconi passarono per Chiavenna, il duca di Carinzia per il passo di Pontebba, rbnperatore scese per il Brennero e Val d'Adige. L'adunata si fece a Bifescia e qeusta città, presa di sorpresa quasi, dovette rassegnarsi e sottomettersi.

Anche i vassalli ed i comuni^italiani avevano avuto ordine di convenire al campo di Brescia: dall'Italia occidentale vi si recarono il conte di Biandrate, il marchese di Monferrato, i vari marchesi aleramici di Savona e gli Obertenghi, le milizie comunali di Novara, di Asti, di Vercelli, di Gamondio, di Bergoglio, di Marengo, di Biandrate. Mancava anche questa volta e tra le schiere borgognone e tra le schiere italiane il Conte di Savoia, Umberto III.

Vi era invece il vescovo di Torino, Carlo, fiero nemico delle ambizioni sabaude sulla sua città e desideroso di assicurarsi la pro-tezione imperiale. Ed appunto sotto questo punto di vista è impor-tante un diploma concesso da Federico Barbarossa al conte di Bian-

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LA DIETA DI SONCAGLIA DEL 1158 219

drate nell'agosto del 1158 a Bolgiano sul LambroJ appunto mentre attendeva a costruire Lodi Nuova. Alla presenza dell'imperatore, il vescovo Carlo concedette in feudo a Guido di Biandrate la corte ed il castello di Chieri; Federico poi approvò la infeudazione ed in più concesse al conte le regalie del luogo, il fodro, l'albergaria, il distretto, il teioneo, l'arimannia e dichiarò il conte di Biandrate obbligato alla fedeltà soltanto verso l'imperatore. Sostanzialmente il vescovo abbandonava Chieri a Guido di Biandrate: evidentemente aveva speranza di avere maggiori compensi e forse già la promessa.

Da Brescia, l'imperatore scese su Lodi e si accampò sotto Mi-lano. Assedio selvaggio a base di distruzione di alberi, di messi, di case. Dopo un mese d'assedio, Milano chiese pace (7 settembre 1158) e l'ebbe a condizioni umilianti. Federico trionfava.

L'11 novembre del 1158 l'imperatore tenne nella pianura di Roncaglia la famosa dieta in cui riaffermò i diritti dell'impero su feudatari e su comuni, avocando a sé tutte le regalie ed il governo e la giustizia nelle città1. Le importanti decisioni proclamate aper-tamente erano prima state prese in privati colloquii di Federico con i pochi vescovi e feudatari. Così le città del Piemonte furono sacri-ficate dai loro vescovi: Alba, Torino, Ivrea, Asti, Novara, Vercelli, Tortona, sebbene tutte fossero desiderose di rimanere ossequienti all'impero. Furono contenti i consoli di questi comuni, quando, nella seduta pubblica, l'imperatore proclamò le decisioni prese?

Apparentemente si trattava di un'affermazione di diritto che non toccava la situazione di fatto. « L'arcivescovo di Milano ed i consoli di Milano e tutti i vescovi, conti, marchesi, duchi e tutti i principi d'Italia ed i consoli delle città di Lombardia, nelle mani dell'imperatore consegnarono tutti quei diritti regali che i giudici presenti avevano elencato » (1).

11 catalogo delel regalie nei Libri Teudorum è:1. Regalia sunt haec: Arimannie, vie publice, flumina navigabilk et ex

quibus fiunt cavìgabilia, portus, ripatica, vectigalia que vulgo dicuntur thelonea, monete, mulctarum penarumque compendia, bona vacantia et que indignis legi-bus auferuntur, nisi que specialiter quibusdam conceduntur et bona contxahen-tium incestas nuptias, et dampnatorum et proscriptorum secundum quod in novis constitutionibus cavetur, angariarutn et parangariarum et plaustrorum et navium praestationes, et extraordinaria coOatio ad felicissimam regalis numinis expeditionem, potestas constituendorum magistratuum ad iustitiam expedien-dam, argentarle et palatia in civitatìbus consuetis, piscationum redditus et salinarum et bona committentiuta crimen maiestatis et dimidìtun thesauri inventi in loco Cesaris, vel loco religioso; si data opera, totum ad eum pertineat {Constitutiònes, I, n. 175).

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220 T PROBLEMI POLITICI DKLL'lTALIA OCCIDENTALE

Ma vescovi e marchesi e conti potevano pensare che si trattava solo di avere la riconferma mediante diplomi per i quali la cancel-leria imperiale avrebbe presentato il conto, ma che era nell'interesse e nella necessità del governo di concedere come pegno delia fedeltà e del servizio. Tutto questo era implicito che non poteva Federico distruggere quello che voleva rinsaldare.

I legati imperiali, tra i quali il conte di Biandrate, incominciarono a girare per le città, portando ordini e disposizioni per ilnuovo ordine di cose. Intanto Federico Barbarossa si avviava versoil Piemonte. Per la valle del Tanaro si spinse sino ad Alba dovefesteggiò il Natale, poi si diresse verso Torino e vi entrò il 12 gennaio 1159. Fu un'entrata trionfale. Non aveva dianzi a Roncagliarestaurata la dignità dell'impero romano? Il vescovo, il clero, tuttala popolazione accolsero alle porte della città il Cesare romano; l'abatedi San Solutore l'accolse nella sua chiesa « hymnis et canticis spiri-tualibus » e gli donò parte delle reliquie preziose dei santi protettoriSolutore, Avventore, Ottavio, ed altre reliquie di San Benedetto.Non veniva Federico in Torino « ad honorem Dei et imperii ordi-nandum »? Da Torino l'imperatore si spinse sino a Rivoli: volevavedere rimboccatura della sabauda e vietata valle di Susa? Concessioni di diplomi furono fatte alla abazia di San Solutore, alla pre-vostura di Vezzolano, all'abazia di Staflarda, a quella di. Lucedio.E con il vescovo Carlo l'imperatore decise sull'ordinamento di Torino: il diploma relativo fu sigStkto poco dopo, il 26 gennaio, nelcastello di Occkniano. ■

Ora veramente la situazione <fr Torino fu sistemata imperial-mente. L'imperatore se dichiarava di voler confermare alla sede epi-scopale tutte le donazioni e le concessioni ìatte dai suoi predecessori, in pratica concedeva ben di più. ^.e corti dell'episcopio, anzitutto, cioè la « sedes » e la « domus » della città con tutte le pertinenze, il distretto, le « case pubbliche », il muro della città, il fisco, il te-loneo ed ogni diritto nel raggio di dieci origlia. Poi le corti in gran numero, sì da abbracciare quasi tutto il territorio dei comitati di Torino e di Auriate. Quindi tutti i diritti fiscali, pubblici, comitali, vicecomitali nel raggio pure di dieci miglia, i diritti di tenere placiti e giudizi; ed era interdetto a qualsiasi duca, marchese, conte, vi-sconie, gastaldo, di inquietare in qualsiasi modo il vescovo di Torino. Così sotto la protezione imperiale, si veniva a costituire una signoria episcopale in Torino, anche senza il titolo comitale: le ambizioni del Conte di Savoia erano respinte; le velleità comunali, subordinate

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LA DIETA DI RONCAGUA DEL 1158 221

al vescovo. Federico Barbarossa ripetutamente fu negli anni seguenti a Torino, mostrando una certa simpatia per la città.

Una nuova solenne dieta aveva arinunziato Federico per la Puri-ficazione del 1159 al castello di Occirniano. Già aveva convocato vescovi e baroni. Intendeva ricevere con la maggiore magnificenza gli ambasciatori dell'imperatore bizantino Manuele Commeno, del re di Francia Luigi VII, del re d'Inghilterra, Enrico II. A Federico Barbarossa piacevano queste solenni parate e dimostrazioni di potenza.

Ma in quegli ultimi giorni di gennaio, i suoi nunzi andati a Crema furono costretti a fuggirsene per le minacce e peggiore fu l'accoglienza che il conte palatino ed il cancelliere ebbero a Milano. Solo il conte dì Biandrate ambiguo sempre li salvò.

Ad Ocdmiano nella riunione dei principi del 2 febbraio, Fede-rico ebbe parole terribili per i milanesi: violazione dei patti, per -fidia, spergiuro. Il vescovo di Piacenza applaudì ed inveì contro la nuova Babilonia. Occorreva colpirla.

Da Occimiano, l'imperatore passò alla vecchia corte regia di Marengo e vi si stabilì qualche giorno. Queste corti regie erano state le prime ad essere rivendicate al fisco: l'autonomia comunale che vi si era sviluppata, ora venne soppressa. Da Marengo Federico concedette un nuovo diploma al conte di Biandrate: vi riconosceva l'autorità comitale lasciata al conte Guido dal padre e dall'avo; si annullavano le alienazioni di terra fatte, si dichiaravano irriti i diritti di prescrizione; si affidavano al conte tutti i diritti regali così nel suo comitato come nell'episcopato dì Novara. .

A Marengo fu regolata pure la situazione di Asti. La media-zione del marchese di Monferrato fu utile agli astigiani; i loro rap-presentanti prestarono all'imperatore questo giuramento: « Io giuro che d'ora innanzi sarò fedele al signor Federico, imperatore romano, così come devo giustamente essere al signor imperatore; lo aiuterò in buona fede a conservare l'impero e la corona imperiale contro tutti gli uomini, specie in Italia, nella città di Asti ed in tutto il suo comitato ed episcopato; non mi impadronirò dei diritti regali, né in tutto né in parte, anzi aiuterò l'imperatore a ricuperarli ed a conservarli. Non prenderò parte ad azioni e consigli contro la vita dell'imperatore; adempirò tutti gli ordini che egli mi darà diretta-mente od indirettamente; farò pace e guerra a chi mi dirà. Tutto questo osserverò lealmente e Dio mi aiuti ».

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222 1 PROBLEMI POLITICI DELL'ITALIA OCCIDENTALE

II diploma imperiale per regolare la situazione di Asti fu sigil -lato adunque a Marengo il 15 febbraio 1159. Federico Barbarossa prendeva la città nella sua giurisdizione e speciale podestà; ordi-nandovi con ogni liberalità « l'onore ed il servizio » vi stabiliva a suo arbitrio tre rettori o podestà, ai quali era affidata la cura, la difesa ed li reggimento delle città per quanto riguardava i diritti regali ed inoltre il distretto su tutte ie ville che gli astigiani posse-devano, riservando per sé il fodro regale ed un tributo annuo di 150 marche d'argento. L'autorità dei tre rettori era illimitata « quam-diu maiestati nostre in ipsis bene cornplacuerit ». L'imperatore affi-dava inoltre ai tre magistrati il castello di Annone, per 50 marche d'argento all'anno. li diploma precisava quali ville appartenessero allora ad Asti e che cosa si dovesse intendere per diritti regali: moneta, via pubblica, le acque correnti, i pubblici mulini, forni, pedaggi, pesca, placiti... ecc.

Tale diploma ha grande importanza. Concesso mentre stava per iniziarsi la lotta contro Milano, esso rappresenta quell'ordinamento che avrebbe voluto dare Federico Barbarossa alle città italiane sulla base delle recenti disposizioni di Roncaglia: una commissione pode-starile per il governo, eletta dall'imperatore, pagamento di un tri -buto, amministrazione cittadina dei diritti regali, fissazione stabile del territorio cittadino, esclusione di ogni autorità episcopale o feu-dale. Così le città sarebbero diventate membri rigidi della organiz-zazione statale; ogni autonomia comunale, ogni attività politica, ogni sviluppo sarebbe stato impedite»»

Sarebbero rimasti soddisfatti gli astigiani? Se ne può dubitare. Infatti già nel febbraio del 1160 in Asti vi erano di nuovo i consoli che conchiudevano con i feudatari di Monbercelli una alleanza contro il marchese di Monferrato ed il conte di Biandrate. In quel torno, finito il lacrimoso assedio di Crema, l'imperatore era in Val di Tanaro, a Gamondio, a Marengo: come vi erano i consoli in Asti? Era venuto Federico a concessioni? o vi era stata rottura? Non troppo contento dovette certo essere il vescovo* di Asti che vedeva sfug-girgli, a beneficio dell'impero, il dominio della città. Negli anni pre-cedenti il vescovo Anselmo si era premunito contro le pretese del comune, con tre bolle pontificie di conferma di tutti i possessi e diritti della sua chiesa: dì Eugenio III en 11153, di Anastasio IV nel 1154, di Adriano IV nel 1156; in essi si. parla del « comitatus civitatis et totius episcopatus ». Ora il comune trovava un nuovo padrone: l'imperatore.

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FEDERICO BARBAROSSA FRA DUE PAPI 223

Non pochi documenti mostrano in questi armi la potenza del vescovo di Asti che riafferma la sua signoria sopra famiglie signorili in base alle proclamazioni di Roncaglia.

A contrasti tra il comune di Asti ed il conte di Biandrate ci riporta un documento del 1161: il vescovo d'Asti pretendeva dal conte la restituzione di due castelli, di San Michele e della Torre, che il conte aveva avuto da Rodolfo di Monteu. 11 conte si rassegnò a cedere. Ma Federico Barbarossa indennizzò Guido di Biandrate: nel gennaio del 1162 infatti diede al fratello Corrado di Svevia la valle di Canale con il vecchio ed il nuovo castello ed il principe tedesco a sua volta cedette il tutto in feudo al conte di Biandrate. Così questi dispose di terre che da Porcile e Riva dì Chieri arri -vavano fino a poca distanza da Asti.

Nelle vicende di quegli anni l'imperatore ci compare sempre circondato dai grandi feudatari del Piemonte: il marchese di Mon-ferrato, i fratelli del Vasto di Savona, Obizzo Malaspina, Guido di Biandrate. Così alle operazioni militari di Lombardia presero parte ripetutamente le milizie dei comuni pedemontani, specie Novata e Vercelli con i loro podestà imperiali.

Prima di attaccare Milano, Federico volle procedere sgìi atri legali. La violenza si ammantava delle forme esteriori delia giustizia. Ma la sentenza era già prestabilita. I milanesi furono citati una, due, tre, quattro volte. Da Bologna poi l'imperatore lanciò il 16 aprile una terribile sentenza contro i ribelli: contumaci, traditori, avreb -bero avuto le case distrutte, le persone fatte schiave.

In agosto Crema venne assediata. Resistette sei mesi: il 27 gen-naio 1160 cedette e fu distrutta. Milano fu già bloccata nell'agosto del 1160, assediata strettamente nella primavera del 1161, nel marzo del 1.161 si arrese e fu distrutta.

Ora il terrore dominò in tutto il paese: tutte le città attesta -rono la loro sottomissione.

6. Federico Barbarossa fra due papi

Le teorie gelasiane che la chiesa di Roma rigidamente conser-vava e difendeva vennero ad urtare con la concezione solennemente proclamata da Federico Baxbarossa deìì'Honor imperii superiore a rutto ed a tutti perché l'autorità dell'imperatore discende da Dio

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224 I PROBLEMI POLITICI DELL'ITALIA OCCIDENTALE

e solo a Dio deve rispondere l'imperatore e non ad altra autorità terreno.

Difficili quindi sin dall'inizio dovevano essere i rapporti fra l'imperatore Federico ed i papi ch'egli si trovò dinanzi nella sua azione in Italia. Se comunque fu possibile conchiudere quel Concor-dato di Costanza che doveva permettere l'incoronazione imperiale a Roma e se dopo l'incidente di Sutri per Vofìcium slraiora rifiu-tato da Federico e poi concesso di malavoglia, avvenne l'incorona-zione del 18 giugno 1155, l'atteggiamento dell'imperatore iti Italia in tutte le questioni che avevano dei riflessi ecclesiastici,, doveva non tardare a produrre un urto insanabile.

Questo parve aversi alla dieta di Besancon dell'ottobre 1157. Due cardinali portarono all'imperatore una lettera di Àdriano IV che lamentando la prigionia in Germania dell'arcivescovo di Lund ed altre cose contrapponeva la costante osservanza da parte papale del Concordato di Costanza; lieto si diceva il papa « si malora beneficia Excellentia tua de marni nostra suscepisset ». La lettera destò scan-dalo alla dieta dove il cancelliere dell'impero tradusse « beneficia » con il termine « feudi ». Il conte palatino sguainò la spada e sì lanciò contro i cardinali uno dei quali, si riferiva poi da parte impe-riale, aveva creduto di spiegare: non è dal papa che l'imperatore riceve I'« imperium »?

L'incidente pare essere stato provocato ad arte perché Federico non avesse da discutere con i Legati sulle lagnanze gravi del papa. Se è vero che « beneficìum » poteva indicare nel linguaggio tecnico feudale « feudo », non è certo da ritrovare tale significato nella frase di Àdriano IV in quella lettera ed in quella circostanza.

I rapporti fra imperatore e papa lurono dopo l'incidente di Besancon freddi, difficili, nonostante tutti i tentativi per medicarli. A Federico sopratutto spiaceva che Àdriano IV stringendo la pace di Benevento con Guglielmo di Sicilia e riconoscendone il titolo regio si fosse messo nella possibilità di sfuggire alla protezione pesante e costosa dell'impero per le questioni romane.

Un altro incidente si ebbe nel 1158. Essendo morto Anselmo di Havelberg arcivescovo di Ravenna (12 agosto 1158) che appunto Federico Barbarossa aveva di propria autorità portato a quella sede ottenendo il consenso di Eugenio III, ora credette l'imperatore di poter nominare un altro suo favorito e scelse Guido di Biandrate suddiacono della chiesa di Roma. L'intenzione era di far cosa gradita al conte di Biandrate suo devoto ed assiduo consigliere nelle que-

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FEDERICO BARBAROSSA FRA DUE PAPI 22'J

stioni di Lombardia portando un suo figlio & quella cattedra che sarebbe quindi stata ben custodita negli interessi imperiali. Abil-mente mandò a Ravenna un prelato di corte Ermanno vescovo dì Verden e persine un cardinale Giacinto di Santa Maria in Cosmedin di passaggio per la Lombardia, perché inducessero quei canonici ad accettare il candidato imperiale. A Ravenna riuscì, ma quando chiese ad Addano IV il suo consenso, trovò un energico rifiuto.

L'imperatore irritatissimo spedi a Roma il vescovo di Vercelli Uguccione, poi di nuovo il vescovo di Verden e quindi egli stesso scrisse ad Addano IV una lettera solenne, rna in tono imperatorio e durissimo. La risposta del papa fu un nuovo rifiuto: i canoni della chiesa non permettevano tale trasferimento; era sicuro che l'imperatore avrebbe aderito a tale punto di vista.

L'imperatore ora tacque, non seppe come reagire né col garbo né con la violenza. Ma l'acredine passò nella trattativa di cose più gravi ed importanti.

Egli però mandò Guido di Biandrate a Ravenna e Io installò come vescovo eletto e come amministratore dandogli ufficialmente l'ufficio ed il Biandrate vi rimase sino alla morte nel 1169.

Dopo la dieta di Roncaglia si incominciò a svolgere il grande programma di sfruttare le rivendicazioni giuridiche colà proclamate, traendo il maggior profitto possibile nel campo finanziario. La parola ora eia al fodro. Incominciarono le esazioni e queste colpirono anche i domini papali.

E qui presto si ebbero le proteste papali, il patrimonio di San Pietro non poteva essere toccato, Adriano IV nel principio del 1159 ammonì l'imperatore: non poteva permettere procedimenti che violassero il Concordato di Costanza del 1153. Ribattè Federico aspramente minacciando dì abbandonare la tradizionale reverenda beati Petri e di ricorrere a nuovi sistemi.

Trattative per riallacciare i buoni rapporti e risolvere i pro-blemi durarono diversi mesi. Due cardinali andarono persino ad assistere alla dieta di Bologna in cui Federico lanciò il bando contro Milano. Da parte papale si prepararono certi capitala che riguar-davano le violazioni delle libertà ecclesiastiche di Federico. Adria-no IV pareva incline ad accettare una revisione del Concordato di Costanza, ma respinse la proposta dell'imperatore di rimettere ia controversia ad una commissione arbitrale paritetica.

Federico seppe della ripulsa papale al campo sotto Crema al principio del luglio. Molto abilmente, seguendo un sistema già usato,

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226 I PROBLEMI POLITICI DELL'ITALIA OCCIDENTALE

convocò nel campo una specie di dieta — baroni, vescovi italiani e tedeschi — espose le pretese papali, contrappose le sue che erano naturalmente eque e giuste ed ebbe il consenso generale.

Trattative forse avrebbero ancora potuto essere riprese, ma improvvisamente arrivò la notizia della morte di Àdriano IV ad Anagni dove si era portato da qualche mese (31 agosto 1159).

Portata la salma a Roma, i cardinali convennero in San Pietro per l'elezione del nuovo papa. Si diceva che papa Adriano prima di morire avesse indicato come suo successore il cardinale Bernardo vescovo di Porto e Santa Rufìna. Questa candidatura fu sostenuta dal cancelliere Rolando ma presto fu abbandonata ed i cardinali si divisero fra le candidature del cardinale Rolando e del cardinale Ottaviano. A Roma vi erano in questo momento a rappresentare l'imperatore il conte di Biandrate ed il conte Palatino Ottone ed altri agenti. Questi presero a svolgere una viva azione in favore del cardinale Ottaviano che venne ad apparire come il candidato imperiale.

Ad un certo momento i partigiani del cancelliere si sentirono in maggioranza e senz'altro proclamarono papa Alessandro III. Subito dopo gli awersarì si raccolsero attorno al cardinale Ottaviano e proclamarono Vittore IV.

Due papi ora vi furono e ciascun pretese di essere il legittimo, il vero papa. Era la situazione quasi di trent'anni prima, fra Inno-cenzo II ed Ànacleto II. A risolvere allora il conflitto sì erano pro-vati i principi d'Europa a favore dell'uno o dell'altro; molto aveva giovato a far pesare la bilancia dalla parte di Innocenze) II l'influsso di Bernardo di Clairvaux. Ora fu Federico Barbarossa che si provò. Ma aveva egli previsto la morte di Adriano IV? di questa possi -bilità e delle sue conseguenze si era parlato nei colloqui ch'egli aveva avuto con il cardinale Ottaviano andato a lui per incarico del papa? Ma che gli ambasciatori di Federico a Roma abbiano sostenuto la candidatura del cardinale Ottaviano setto la loro personale re-sponsabilità è difficile da ammettere.

Senza dubbio l'imperatore si astenne da principio dal pren-dere posizione fra i due contendenti. Ma lasciò che si svolgesse dai suoi uomini tutta una campagna contro il cardinale Rolando: ad Anagni nel mese di agosto si era tramata una vera congiura fra i cardinali, il re di Sicilia, i milanesi col progetto di fare scomu-nicare l'imperatore, con l'impegno di portare al papato solo uno dei cardinali congiurati.

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L'ANTIPAPA VITTORE IV A SAN PIETRO DI SAVIGLIANO 227

Si può anche pensare ch'egli non fosse soddisfatto della doppia elezione nel senso però ch'egli doveva aver desiderato che vi fosse un papa a lui devoto, che la candidatura del cancelliere Rolando gli doveva essere fin dai tempi della dieta di Besancon del tutto invisa.

Assai presto pensò che la soluzione del conflitto poteva essere affidata ad una commissione di viri religiosi, l'idea che già aveva lanciato mesi prima per il suo conflitto con Adriano IV. Prese quindi l'iniziativa di un concilio che doveva esaminare canonicamente le due elezioni, II concilio si riunì a Pavia dal 5 all'I 1 febbraio 1160. Nel pensiero dell'imperatore vi era che esso dovesse riconoscere come papa solo Vittore IV. Questi solo con i suoi cardinali vi intervenne; Alessandro III negò al Concilio la capacità di giudicare.

Al concilio si cercò di sceverare quale fosse stata nella ele-zione la maior et sanior pars; si constatò che per il cardinale Ro-lando vi era stata la maior pars, per Ottaviano la pars sanior e ch'esso doveva essere considerato come unico papa.

Federico Barbarossa approvò. A lui importava di avere un papa devoto agli interessi dell'impero, non della chiesa. Così Federico suscitò lo scisma che doveva dilaniare la chiesa.

7. L'antipapa Vittore IV a San Pietro di Savigliano

Ottaviano come è sbrigativamente chiamato nei nostri docu-menti fu a Savigliano. all'abazia di San Pietro certamente nel 1161 e 1162 quando doveva seguire Federico Barbarossa in Borgogna per quel convegno con il re di Francia in cui si doveva fave il confronto fra i due papi. Già nel gennaio del 1161 era a Torino e di qua diramava lettere ai vescovi per invitarli al concilio che preparava a Tortona,

A Savigliano venne chiamato da una lite fra l'abate Aldo ed i suoi monaci. Alessandro III forse da Genova nel febbraio o marzo di quel 1162 aveva incaricato Stefano abate della Chiusa di andare a mettere la quiete in quel ricco monastero. Stefano vi andò e si condusse seco l'abate di Fruttuaria, RufEno. Però non erano riusciti a nulla, anzi sapendo che l'imperatore era arrivato o doveva arrivare a Torino (siamo nel luglio), si erano accontentati di mettere fuori del convento e l'abate ed i suoi avversati, affidando l'abazia a due monaci sicuri di Fruttuaria che governassero in nome delle due abazie.

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228 I PROBLEMI POLITICI DF.LI..ÌTAUA OCCIDENTALE

Qualche monaco malcontento portò poco dopo a Savigliano papa Vittore IV. Questi fece atto di autorità e mise come abate un suo fidato. Ora fuggirono i monaci che erano dell'altra obbe-dienza, poi ritornarono, fecero concardia e tutto parve tranquillo.

Passò qualche anno, poi l'abate Raimondo che teneva d'occhio l'andamento delle cose credette opportuno mettersi d'accordo con l'abate della Chiusa che ora era definitivamente diventato alessan-drino, dopo di avere giocato di equilibrio.

L'abate Stefano però si rivolse, non al vescovo di Torino, ma al capo della gerarchla subalpina, l'arcivescovo di Milano Galdino. Siamo dunque dopo il 1170. A Milano l'abate della Chiusa condusse con sé dei rappresentanti dei Signori di Sarmatorio che erano i pa -troni dell'abazia.

Si discusse adunque con i saviglianesi. L'abazia era in cattive condizioni; « destructio imtninebat ». Una scia soluzione vi era: affi -darla all'abate della Chiusa. E l'arcivescovo così conchiuse, in attesa che il papa altrimenti deliberasse.

E dell'abate scismatico che cosa fare? chiese l'abate Stefano. Od imporgli l'obbedienza, o dargli un cavallo e del denaro che se ne vada al suo monastero.

Però per agire a Savigliano era necessaria la forza e se ne incaricarono i signori di Sarmatorio ai quali l'abate della Chiusa versò 80 lire che andarono divise fra i vari consorti secondo l'entità della loro sorte. E qui si entrava nella simonia vera.

L'abate Raimondo convocato ebbe l'intimazione di consegnare le chiavi del monastero e di andarsene. La cosa non fu semplice: i monaci suoi fedeli protestarono in virtù dei privilegi della casa, ma furono costretti a cedere. L'abate della Chiusa invitò i monaci rimasti a riunirsi in capitolo e ad eleggere quella persona che gli pareva adatta. Ma l'abate Guglielrho ora si trovò a dover pensare ad una amministrazione rovinata e tu costretto a far debiti dando in pegno la suppellettile della chiesa.

La questione ancora si trascinò e si chiuse solo quando nel 1180 Alessandro III prosciolse l'abazia di Savigliano da ogni legame con la Chiusa.

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UOPO LA DISTRUZIONE DI MUANO 229

8. Dopo la distruzione di Milano

- Dopo di avere dettate le sue decisioni sulla sorte dei milanesi, l'imperatore si portò da Monza a Pavia dove celebrò il trionfo sulla città nemica vinta e schiacciata. Solennemente assunse la corona in segno di dominazione. I suoi diplomi ora portarono pet vari mesi nella datazione l'indicazione « post destructionem Mediolani ».

In una dieta proclamò poi la nuova meta delia sua azione guerresca: l'assedio e la distruzione di Piacenza.

.Anche Bresda sentì avvicinarsi il pericolo e rapidamente offrì la sua sottomissione senza condizioni. L'imperatore acconsentì a rice verli nella sua grazia ma fece loro patti assai duri: demolire le mura, le torri, spianar le fosse, accettare il podestà ch'egli avrebbe destinato, consegnare i castelli della diocesi, giurare obbedienaa, inviare armati ai suoi eserciti, pagare un alto tributo di guerra.

Ora Piacenza si trovò completamente sola, isolata ed anch'essa si rassegnò a sottomettersi. La concardia con cui dovevano entrare nella grazia dell'imperatore stabiliva lo spianamento del fossato, l'abbattimento del muro e delle torri; avrebbero restituiti tutti i. regali ed in città e nell'episcopato; tutti t cittadini dai 15 ai 70 anni avrebbero giurato fedeltà; consegnerebbero tutti i castelli; avrebbero fatto guerra al vescovo della città se non si fosse sottomesso; l'impe-ratore l'avrebbe fatto condurre od a Venezia o a Genova o nel regno di Francia. Il vescovo di Piacenza adunque si era mantenuto fedele ad Alessandro ILI. I piacentini avrebbero pagato all'impe-ratore ed alla imperatrice 6000 marchi d'argento in tre rate. Avreb-bero accettato il podestà che l'imperatore loro mandasse o teuto -nico o lombardo. L'imperatore avrebbe scelto 500 ostaggi e li avreb-be poi tenuti a gruppi di 70 per tre mesi sino a che le mura fossero state del tutto distrutte e fosse pagato tutto il denaro...

La sottomissione di Brescia e di Piacenza costrinse pure altre città a sottomettersi: Bologna, Faenza, Imola, ecc.

Così i lombardi « qui inter alias nationes libertatis singularitate gaudebant: » seguirono Milano nella schiavitù.

Dovunque ora andarono vicari e podestà a governare le città, ad esigere i fodri e tutti i tributi che occorrevano per il tesoro del tiranno.

Federico decise di completare l'impresa gloriosa della sottomis-sione di Piacenza e di Brescia con un intervento militare nell'Emilia.

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250 1 PROBLEMI POLITICI DELLÌTAUA OCCIDENTALE

Bologna non sì era ancora sottomessa chiaramente all'autorità im-periale.

Fu una spedizione solenne. Federico partì da Pavia alla testa di tutte le sue genti, lo accompagnavano ciuchi, marchesi, conti, vescovi. Il 24 giugno era sotto Modena, nei giorni seguenti si presentò davanti Bologna, I magistrati si affrettarono a sottomettersi alle im-posizioni imperiali. Federico si spinse sino ad Imola ed a Faenza. Tutta la Romagna parve sottomessa ed obbediente.

9. L'incoronazione imperiale di Torino

La distruzione di Milano segnò per Federico Barbarossa il fastì-gio della sua potenza ed in Italia e nell'impero. Anche la questione della chiesa si poteva oramai considerare come risolta: dovunque ora avrebbe potuto imporre le sue volontà; dovunque egli avrebbe imposta l'obbedienza al papa esecutore dei suoi desideri, la chiesa sarebbe stata ossequente aìì'honor imperii. La Francia sola non si era ancora piegata. Ma non dubitava di riuscirvi. Per questo appunto da Pavia aveva trattato con il re Luigi VII ed aveva ottenuto il suo consenso per un colloquio in cui avrebbero dovtuo esaminare il problema dei due papi: tutti e due questi avrebbero dovuto pre-sentarsi; Federico intendeva riuscire od alla abdicazione od alla rimozione di Alessandro III.

Fu fissato il convegno a Saint-Jean-de-Losne, al confine franco-borgognone il 29 agosto.

L'imperatore dopo la rapida spedizione nelle Romagne, seguito da rutto il suo corteo di vescovi e di principi lasciò Pavia per por -tarsi a Torino, insieme con l'imperatrice.. Calcolava di trascorrere a Torino qualche settimana. Aveva stabilito di farsi incoronare con Beatrice nella cattedrale di Torino alla Madonna di Agosto, Per questo Federico aveva convocato a Torino vescovi e feudatari del regno di Arles. Dai vescovi intendeva ottenere — dai più reni -tenti — la sottomissione a papa Vittore; con i baroni voleva risolvere la questione politica, la dichiarazione di fedeltà assoluta. Per questo egli aveva convocato il conte di Provenza, Raimondo Berengario di Barcellona che si conservava fedele ad Alessandro III. Vi erano altri principi che erano pronti ad accettare la contea pro-venzale; i conti di Baux che erano fedeli all'imperatore ed a Vit -tore IV, vi era il conte di Toiosa Raimondo di Saint-GiHes. Era una questione da tirare in chiaro.

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L'INCORONAZIONE IMPERIALE DI TORINO 231

A Torino aveva anche convocato gli ambasciatori di Genova e di Pisa per risolvere infine le lunghe vertenze delle due repub-bliche. Il soggiorno torinese si annunziava pieno di discussioni e o'i buoni risultati.

Giunse la corte imperiale a Torino verso la line del luglio: già vi erano i Genovesi ed i Pisani pronti per le loro difese ed accuse.

iMa improvvisamente gli arrivò la notizia che il conte Raimondo Berengario si era arrestato a San Dalmaz20 di Tenda per un grave malore e si temeva per la vita. L'imperatore partì da Torino e si precipitò a San Dalmazzo, facendosi accompagnare dagli ambascia-tori genovesi, forse come guide.

In realtà il conte di Provenza morì l'8 agosto. La sua salma pani per Barcellona, ma Federico condusse con sé 3 Torino il nipote del defunto, giovanetto, ed il suo tutore, il fratello del defunto.

Fu così facilmente risolta la questione della Provenza. II nuovo conte ed il suo tutore accettarono un trattato che consacrava i legami feudali della Provenza con l'impero, accettando tutti gli obblighi del vassallaggio, fu preso l'impegno di riconoscere come vero papa Vittore IV, di considerare Alessandro III come nemico e nemici tutti i suoi aderenti. Il giovane conte acconsenti a ricevere in moglie Ricliilde nipote dell'imperatore, matrimonio che avrebbe assicurata la dipendenza delia Provenza in modo sicuro. Nel trattato Federico dichiarava di abbandonare ì conti di Baux e contro di questi avrebbe potuto il conte di Provenza procedere per omicidio, spergiuro ed altri delitti.

In conseguenza di questo trattato Raimondo Berengario fu investito della contea il 18 agosto posi destruetionem Mediolani. Era presente il vescovo di Die.

Secondo quanto aveva deciso, Federico celebrò la solenne inco-ronazione, poi fattosi promettere da Genovesi e Pisani che nulla avrebbero innovato, ma che avrebbero atteso le sue decisioni al ritorno, partì con Beatrice e tutto il corteo fastoso che voleva con-durre al re di Francia.

Risalì adunque la valle di Susa e traversò il Cenisio. Si trovò ora nei domìni di Umberto III di Savoia. Venne questi a fare atto di omaggio?

Prima di accingersi al viaggio di Borgogna, Federico Barbarossa aveva affidato ad altri auspici il passaggio delle Alpi con la conces-sione all'abate della Chiusa, Stefano, di un diploma che era un sostan-

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232 I PROBLEMI POLITICI DELL'ITALIA OCCIDENTALE

ziale riconoscimento dei domini dell'abazia nella valle. Sant'Ambro-gio caposaldo dei domini abbaziali doveva diventare per il diploma poco meno che un caposaldo dell'autorità imperiale. L'influsso del conte di Savoia era fieramenet intaccato; Federico Barbarossa gli metteva contro l'abate del Pirchiriano (.31 dicembre 1161).

Giunse puntualmente a Saint-Jean-de-Losne il 29 agosto, ma non trovò nessuno. Non il re di Francia, non il papa Alessandro III. Questi aveva soggiornato nel febbraio-marzo a Genova, poi si era imbarcato per la Francia ed era andato a sbarcare a Maguelonne. accolto con riverenza dal conte di 'foiosa.

Luigi VII aveva attraversato un lungo periodo di indecisione, poi si era risolto a non recarsi al convegno. L'imperatore attese alcuni giorni, sdegnatissimo per il contegno di Luigi VII. Egli aveva scritto all'arcivescovo di Lione e ad altri vescovi di Borgogna perché si trovassero a quella data a Saint-Jean-de-Losne dove intendeva presentarsi al re di Francia ed a rutta la Francia nel pieno della sua potenza. Ed in realtà aveva fatto impressione in Europa l'an-nunzio di questo convegno che doveva chiudere il conflitto della chiesa. Ora invece fece grande impressione l'annunzio che il con-vegno non era avvenuto, che il re di Francia aveva rifiutato di raggiungere l'imperatore. Molti lasciarono Vittore IV e ritornarono ad Alessandro III.

Da Saint-Jean-de-Losne Federico raggiunse Besancon dove tenne una solenne dieta a cui intervennero tutti i vescovi e principi di Borgogna. Alla presenza di tutti-attaccò fieramente il re di Francia e pronunziò delle minacce.

A Besangon forse solo di tutti i principi di Borgogna il contedi Savoia non intervenne. Per favorire il suo grande seguace ilvescovo di Ginevra, l'imperatore tolse a Bertoldo di Zàhringen i'av-vocazia per quella chiesa (7 settembre 1162); da questo momentogli Zàhringer passarono all'opposizione concordando con Umberto III di Savoia. *

La spedizione imperiale di Borgogna e Francia era così fallita. Alessandro III nel maggio del 1163 tenne un concilio a Tours; vennero vescovi da tutte le provincie di Francia e di Borgogna. I più zelanti partigiani del papa erano Antelmo abate della Grande Certosa che fu subito dopo fatto vescovo di Belley e Pietro abate cistercense che fu poi arcivescovo di Tarentasia. Erano anche i più devoti del conte di Savoia.

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FEDERICO BARBAROSSA ED I GENOVESI 23}

10. Federico Barbarossa ed i Genovesi

Da Genova si era seguito con grande interesse e preoccupazioni quanto l'imperatore era venuto operando in Lombardia nelle sue diverse discese.

Ripetuti inviti erano venuti perché avessero a rendere omaggio a Federico.

Nel 1154 andarono alla dieta di Roncaglia lo storico famoso Caiiaro con Ugone della Volta. Avevano evidentemente solo l'inca-rico di prendere contatto con l'imperatore evitando qualsìasi im-pegno. Federico li ricevette, scrive il Caflaro, onorevolmente e ma-nifestò loro quei che lo storico dice « secreta consilia de honore regni ». Promise che avrebbe onorato Genova sopra a tutte le altre città italiane e li autorizzò a partirsene, per poi ritornare e fare accordi. Cafìaro ed il suo collega si accontentarono di promettere: ritornati in patria esposero ai nuovi consoli i « secreta consilia ».

Ottone di Frisinga completa quanto sappiamo di questi primi contatti fra Genova e l'imperatore dicendo che gli ambasciatori por-tarono in omaggio a Federico, leoni, struzzi, pappagalli ed altre cose rare del bottino fatto in Spagna.

Alla seconda dieta di Roncaglia i Genovesi dovettero inviare una più solenne ambasceria. Federico aveva un grande esercito e voleva colpire quanti si ribellavano alla sua autorità e sollecitati a più riprese (multi vicibm litteris et eius principibus et curidibus) si dovette inviare una nuova e più solenne ambasceria. Ebbero inti -mazione di consegnare ostaggi e versare denaro.

1 Genovesi con grande abilità e flemma cercarono di mostrare all'imperatore la situazione speciale in cui si trovava la loro città. Per il passato gli imperatori non avevano mai colpito la loro città con esazioni: la loro repubblica rappresentava la difesa della vita dell'impero contro i barbari.

I Genovesi respingevano « barbarorum impetus et insultus » che sempre minacciavano la costa e per la loro fatica avveniva che « quisque securus dormiat et quiescat sub ficu et vite sua ». Noi, dicevano, non siamo come gli altri popoli d'Italia: « de terra impe-rii » non abbiamo di che possiamo vivere, al contrario noi portiamo da altri paesi di che vivere e conservare l'onore dell'impero. Conclu-sione: noi all'impero dobbiamo solo la fedeltà e nuli'altro.

Risposta molto abile che metteva Genova fuori di qualsiasi obbligo verso Federico. Questi mandò a Genova a trattare il can-

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234 I PROBLEMI POLITICI D£IX'ITALIA OCCIDENTALE

celliere Rainaldo di Dassel ed il conte Guido di Biandrate per rice vere il giuramento che a nome di rutti i genovesi prestarono 40 cit-tadini cospicui.

Però in silenzio, poco fidandosi dell'imperatore si iniziò una energica opera di preparazione. In silenzio si vennero armando i castelli, portandovi armi, uomini e viveri.

Una nuova ambasceria si dovette inviare a Federico per con-durre a termine la trattativa circa la richiesta di inviare armati all'esercito imperiale e per la fissazione del tributo: Federico voleva denaro. Gli si promisero 1200 marchi d'argento come dono.

Uomini e donne però lavoravano giorno e notte a portar pietre e calce per completare le mura cittadine.

Il giuramento prestato stabiliva che non vi fosse l'obbligo di partecipare a guerre, di dare tributi; vi era la promessa di abban-donare i regalia che fossero di sua spettanza.

Che di Federico vi fosse poco da fidare, risultò presto quando si seppe che aveva inviato ambasciatori a Savona ed a tutte le altre città della Riviera a chiedere giuramento di obbedienza e tributo. A Savona il marchese Enrico Guercio si adoprò per ottenere il consenso; a Ventimiglia la popolazione trasse motivo per assalire il castello e distruggerlo.

Genova ospitò Alessandro III dal 21 gennaio al 25 marzo1162, sino a che cioè si imbarcò per la Provenza.

Dopo la caduta e la distruzione di Milano, i Genovesi impau-riti mandarono di nuovo ambasciatori all'imperatore.

Federico li ricevette con grande solennità e concesse loro un grande diploma con cui abbracciava nel suo impero la repubblica genovese; in compenso degli impegni presi « de servitio imperii et retributione servicii » egli « cuncta regalia civitatis et possessiones quas tenebant et multa alia concedendo per privilegium aureo sigillo signatura in perpetuum confermavit » (5-9 giugno 1162). Durante la sua assenza venne in Italia ad esaminare la situazione politica Farcicancelliere arcivescovo di Colonia Rainaldo di Dassel che andò sino a Roma, poi venne il vescovo di Verden, Hermann per veri -ficare i procedimenti giudiziari.

L'imperatore ricomparve in Lombardia solo nel novembre del1163, insieme con l'imperatrice. Stabilitosi a Pavia diede ordine chesi distruggessero di nuovo le mura di Tortona che i milanesi alcunianni prima avevano ricostruito « in dedecus » dell'imperatore. Alprincipio del dicembre Federico Barbarossa si recò a Monza dove

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FEDERICO BARBAROSSA F.0 I GENOVESI 235

intendeva costruire una grande città che sostituisse Milano e co-minciò col costruire il suo palazzo. Poi si recò in ?,emagna e quindi nella marca d'Ancona. Il 1" aprile 1164 ritornò a'Lodi ed a Pavia. Quivi seppe die Verona, Vicenza, Treviso e Padova avevano stretta una lega, aiutate da Venezia. Cercò di calmare la ribellione man-dando come ambasciatori cittadini di Pavia, Cremona, Lodi: dove-vano dire di non fare sciocchezze; egli era pronto ad accettare un lodo dei Lombardi. Accettarono, vennero a Pavia, si discusse e ripartirono.

Federico fece allora una spedizione verso Verona, ma non aveva forze sufficienti per attaccare. Decise quindi di ritornare in Germania e radunare un grande esercito.

Ma un problema che meriterebbe di essere ancora approfon-dito è quello delle relazioni fra l'imperatore e quelli che erano i bastioni del partito imperiale in Italia, cioè i principi. A questi egli chiedeva il servizio feudale, ma si rimane perplessi circa quello che l'imperatore dava ad essi oltre la gloria militare.

Una lettera di Guglielmo di Monferrato a Luigi VII di Francia accenna ai gravissimi affari dell'imperatore nei quali, la Dio mercé, « noi gli rendemmo servizio più o meglio di ogni altro dei suoi prin -cipi ». Lettera scritta quando nell'estate del 1164 Federico e Beatrice erano partiti lasciando in custodia al marchese il figlio neonato. A Luigi VII poi il marchese si rivolgeva mandandogli l'abate di Lucedio perché si occupasse della pace della chiesa. Ed alla questione della chiesa rivolgeva la sua attenzione il marchese in onta alle tendenze scismatiche di Federico, trattando con il re Enrico II di Inghilterra: nel 1166 gli chiedeva ia mano di una figlia per uno dei figli suoi e prometteva in questo caso di procurargli la deposizione di Thomas Becket dalla sede di Canterbury. Aveva dunque Guglielmo relazioni segrete con Alessandro III.

Ritornato dalla Borgogna in Italia nel 1163, Federico continuò ad avere come usuali compagni il conce di Biandrate ed il marchese di Monferrato. Non erano stati anch'essi scomunicati da Alessan-dro III al pari del loro signore?

Solo nell'ottobre del 1164 Federico Barbarossa lasciò la Lom-bardia: il suo trionfo, era stato, e rimaneva la distruzione di Milano. Prima di partire ricompensò i suoi fedeli con non pochi diplomi e concessioni. L'8 agosto confermò a Pavia i suoi privilegi, le regalie su Vigevano ed altre terre. Il marchese di Monferrato ebbe il 5 otto-bre 1164 dalla corte regia di Belforte (Varese) due diplomi per la

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236 I PROBLEMI POLITICI DELL'ITALIA OCCIDENTALE

conferma di tutti i suoi possessi e feudi. Forse della stessa epoca sono altri due diplomi a favore di Asti; il primo autorizzava quel comune a riscuotere tributi in sei ville del loro territorio (Calliano, Solbrito, Montanaro, Loreto, Montemale) con esclusione di qual-siasi altra autorità; il secondo condonava ad Asti cento marche del tributo loro di quell'anno e concedeva inoltre al comune il diritto di battere moneta. Evidentemente l'imperatore sentiva il bisogno di farsi o procurarsi degli amici.

La generosità di Federico Barbarossa era però calcolata ed aveva dei limiti come presentava anche dei mutamenti improvvisi nei Criteri.

Che nel Monferrato occupasse brutalmente i castelli di Verrua, di Serralunga ed altri e li armasse « sapienter » per avere delle sicure basi non doveva piacere al marchese. E poco doveva piacere ai baroni italiani che creasse dei grandi feudi per i suoi cavalieri tedeschi, come per Rainaldo di Dassel, per Arnaldo di Dornstadt, o che occupasse terre per farne un dominio per l'imperatrice e per il conte palatino Corrado.

Alle volte i suoi provvedimenti erano contradditori: nel di -ploma per il marchese di Monferrato del 1164 vi sono molte terre che figurano nel diploma per il vescovo di Torino del 1159. Erano ad esempio le terre fra Dora Riparia e Stura di Lanzo che erano nelle mani dei Visconti di Baratonia. Erano sorti questi nell'età di Adelaide e nel secolo XII avevano creato un vero staterello nelle valli di Lanzo e di Val della Torre. A Torino avevano il palazzo e la curia in cui amministravano la giustizia; il castello di Baratonia presso Varisella era il loro centro; di là dominavano a Lanzo, a Mathi, a Piano, a Noie, a San Gilìio,\a Druent e persino in Val di Susa a Villarfocchiardo. Ramificazioni famigliari, groviglio di in-feudazioni, di omaggi per feudi che spesso erano frazioni proble-matiche.

Federico dominava su rutto serenamente, convinto di poter tenere comunque l'Italia, La sua autorità doveva essere presente dovunque. Non per nulla la legge di Roncaglia sui palazzi imperiali nella pristina lezione -rintracciata dal Colorni diceva: « Palacia et pretoria habere debet princeps in his locis in quibus ei placuerit ». Cioè dappertutto. E questo era lo spirito vero di Roncaglia,

Intanto nel cielo imperiale sì addensavano le nubi. L'errore grave di Federico era stato e continuava ad essere quello di non accorgersi che l'amministrazione imperiale quale egli aveva creato

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FKDERJCO EARBAROSSA ED 1 GENOVESI 237

dopo la dieta di Roncaglia {ormava un peso insostenibile per le popolazioni, tanto più che i suoi rappresentanti ubbriaca» dal trionfo di Milano appesantivano il pugno sulla doma — cosi credevano — Italia.

Il momento critico fu quello del ritorno di Federico. Discese nell'autunno del 1166 per la vai Camonica. A Lodi riunì tutti i governatori delle città; udì i lagni delle popolazioni: nulla fece per ripararvi.

11. La spedizione di Roma

Partì 3'11 gennaio da Lodi diretto a Roma. Però si arrestò a Bologna, poi a Faenza ospitato dai Manfredi. L'imperatrice era pros-sima al parto e Federico rallentò il viaggio. Nel febbraio passò a Modigliana presso il conte Guido Guerra che aveva sposato una figlia del marchese di Monferrato, e qui Beatrice partorì il suo ter-zogenito Corrado. Solo nel giugno Federico con l'imperatrice pro-seguì per Roma,

Egli era deciso a risolvere la questione papale, ad impadronirsi di Alessandro III, costringerlo ad abbandonare le sue pretese ed installare solennemente il suo papa, Pasquale 111, che era ritornato da Aquisgrana dove era stato a canonizzare Carlomagno secondo le imposizioni dell'imperatore.

Il 24 luglio pose l'assedio a Roma e combattendo con i romani, occupò San Pietro. Pasquale III fu installato sulla cattedra di Pietro ed il V agosto incoronò Federico e Beatrice. Papa Alessandro III dal Laterano si era rifugiato nella fortezza dei Frangipane al Colosseo.

Vi furono ora delle trattative fra le due parti. Federico si disse pronto a far abdicare il suo papa, se anche Alessandro avesse abdi cato, così si sarebbe eletto d'accordo un nuovo papa chiudendo lo scisma. Quando Alessandro III si accorse che i romani non erano disposti a sostenerlo ad oltranza, su galee di re Guglielmo di Sicilia venute su per il Tevere, partì per Gaeta e di là si recò a Benevento.

Federico già parlava dì scendere nel Regno, quando il suo esercito incominciò ad essere colpito da una pestilenza. Morirono in pochi giorni anche i principali capi delle forze tedesche e Federico fu costretto ad abbandonare Roma per salvare possibilmente le sue genti.

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CAPITOLO IX

DA ALESSANDRIA A LEGNANO

1. La Lega lombarda e la fuga di Federico. ■ 2. La fon-dazione di Alessandria. - 3. Il marchese dì Monferrato ed i comuni. - 4. - L'atteggiamento di Umberto III dì Savoia. 5. L'assedio di Alessandria, - 6. A Legnano. - 7, Corrado di Monferrato e l'arcivescovo di Magonza.

I. La Lega lombarda e la fuga dì Federico

Per la Toscana e la marca dei Malaspina, i resti dell'esercito imperiale arrivarono il 12 settembre a Pavia, La Lombardia era in aperta sollevazione e pareva decisa a scuotere il giogo tedesco.

Avevano dato l'esempio §n dal 1163 Verona, Padova, Vicenda e Treviso stringendo un accordo segreto con Venezia.

L'8 marzo del 1167, mentre: Federico era a Roma, Cremona, Bergamo, Brescìa, Mantova si accordarono per difendersi a vicenda e ristabilire l'ordinamento consolare à'u.tonomo. Ancora nel marzo i quattro comuni si intesero con i milanesi che vivevano pur sempre dispersi nelle borgate e decisero di ricondurli alia loro diroccata città. Il patto fu giurato poi il 4 aprile? Dove? La tradizione dice: al monastero di Pontida. Può essere cjie a Pontida il 7 aprile i rappresentanti di tutte le città aderenti abbiano ribadito il patto. Come non credere se la tradizione Io vuole? Il 27 aprile i rappre-sentanti di Cremona — che aveva assunto la direzione del movi -mento — di Brescia e di Bergamo consegnarono ai milanesi la città; le milizie delle varie città accampatevisi attesero che mura e fossa venissero restaurate. Anche Tortona che nel novembre del 1163 aveva subito una seconda distruzione, perché Federico aveva accon-sentito ai pavesi di distruggere di nuovo le mura: i pavesi con le

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LA LEGA LOMBARDA E LA FUGA DI FEDERICO 239

mura disrrussero anche tutte le case con l'aiuto di Milano rifatte. Tortona ora per la seconda volta risorse setto 1? protezione della Lega Lodi nel maggio successivo aderì a sua volta.

A Piacerla la decisione di aderire alla Lega contro l'imperatore produsse un dissidio grave; nel dicembre tutto un partito uscì dì città: « qui Placentiam exierunt et ex parte irnpeiatoris sunt », E non entrarono più. Si confiscarono i loro beni, le loro donne e figli ancora nel 1181 avevano proibizione di soggiornare nel terri -torio piacentino. Troppo aveva pesato l'oppressione fiscale imperiale.

Quando Federico Barbarossa potè considerale ia situazione, in Pavia, insieme con i suoi fedeli Guglielmo di Monferrato, Obizzo Malaspina, Guido di Biandrate, giudicò che non tutto fosse perduto. Occorreva cercar di dividere il blocco nemico, perciò se il 21 set -tembre proclamò solennemente il bando contro tutte le città ribelli, gettando in mezzo della corte un guanto a sfida, ebbe cura di eccet-tuare Lodi e Gremona. E subito con le milizie pavesi, novaresi e vercellesi accorse alla chiamata ed i suoi baroni aleramici, anscarici, obertenghi, marciò su Milano devastando il paese. Si spinse sino ad Abbiategrasso, ma da Lodi dove stavano concentrate in osser-vazione, le milizie leghiste si avviarono anch'esse a Milano. Rapi-damente allora Federico invertì la marcia verso sud, sperando di sorprendere Piacenza, ma a loro volta gli alleati accorsero in soc -corso. L'imperatore che aveva sperato di giocare strategicamente, senza affrontare il nemico sì ridusse allora in Pavia di nuovo e passò l'inverno tra Novara, Vercelli, Monferrato e le corti regie fra Tanaro e Bormida, per impedire alla Lega di fare proseliti nell'Italia occi -dentale. Questa era l'unico baluardo dell'impero oramai. Ma a fron-teggiare il nemico padrone di tutta l'Italia superiore non v'era da pensare: le sue forze non erano sufficienti. Occorreva riguadagnare la Germania e riunire nuove genti.

Per eccitare gli spiriti della Germania, da Pavia, con una lettera solenne, un vero proclama. Federico I annunciò a tutti i principi la rovina del suo esercito e la ribellione degli Italiani, ribellione a lui, ribellione alla dominazione della nazione tedesca. Né egli né l'impero potevano ammettere che l'Italia rivendicasse l'indipendenza. Federico annunciava la sua intenzione di accettare la sfida e ripren-dere la lotta al più presto.

Ma erano progetti per l'avvenire. Ora occorreva lasciare l'Italia prima che, arrivata la primavera, la Lega potesse attaccarlo mentre era sprovvisto di uomini. La situazione tendeva a peggiorare: Ver-

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240 DA ALESSANDRI A LEGNANO

celli e Novara, • sebbene ancora celatarnente, avevano aderito alla Lega, irritate dal sopravvento che il conte di Biandrate aveva preso con l'appoggio di Federico. Ma se tutto il paese ad oriente del Ticino era vietato ai tedeschi, anche i passi delle Alpi Occidentali, il San Bernardo ed il Cenisio, erano dominaci dal Conte di Savoia, ostile. Umberto III infatti era irritato perché così in Piemonte come in Borgogna la politica imperiale lo aveva gravemente colpito nei suoi interessi e nelle sue aspirazioni ed aveva assunto un atteggia-mento favorevole alla Lega, bloccando i valichi.

Federico Barbarossa fu costretto ad affidarsi al marchese di Monferrato perché contrattasse con il Conte di Savoia il passaggio per i suoi monti. Non sappiamo dove Umberto III allora si trovasse: nell'agosto precedente era stato in Val di Susa; forse allora aveva fatto gli accordi con la Lega. Le trattative non furono facili, che il Conte di Savoia mise le sue condizioni. Con il marchese Gugliel-mo V agì pure il rettore di Borgogna, il duca di Zahringen che era cognato di Umberto III: l'imperatore dovette promettere al Conte « restitutionem ablatorum, montes aureos, et cum honore et gloria imperii gratiarn sempiternam ».

Ed ora Federico potè passare. Nel principio del marzo, con l'imperatrice Beatrice che lo aveva seguito in tutte le peripezie della spedizione, con poche decine di cavalieri ed alcuni ostaggi di città lombarde, risali la Valle della Dora Riparia: a Sant'Ambrogio il conte di Biandrate ed il maionese di Monferrato si congedarono da lui. Ma a Susa, il 9 marzo, arrivò a Federico una grave notizia, vercellesi e novaresi avevano allè'-sue spalle levata la maschera ed, unitisi con i Milanesi e gli altri comuni, avevano assalito Biandrate.

La lontananza dell'imperatore aveVa dato coraggio ai novaresi e li aveva spinti ad abbattere la roccaforte dei loro nemici. I conti di Biandrate avevano dato assetto alla loro residenza con la ricon -ferma del patto con i militi e con gli abitatori del 1093 solo pochi mesi prima: il 12 marzo 1167, i cinqup figli del conte Guido che ora dirigevano il loro consortile Uberto, Guglielmo, Lanfranco, Ot-tone, Raineri, si erano trovati con i militi biandratini, con i dodici consoli della popolazione ed avevano giurato di prestarsi aiuto contro i nemici. I consoli avevano stabilito le albergarie che avrebbero po-tuto esigere e così i tributi: nessun fodro salvo il reale. I militi e gli abitatori avevano riconosciuti i loro obblighi.

Organizzazione compatta e pericolosa. I novaresi se ne erano di colpo liberati. Furente l'imperatore fece impiccare uno degli ostag-

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gi, un nobile bresciano, Gilio Prandi, su un'altura sopra Susa. L'atto feroce ed ingiustificato irritò terribilmente la popolazione di Susa. L'aria di libertà e di autonomia delle città italiane era giunta da molto alla cittadina sabauda che vedeva così spesso passare per la sua via i mercanti astigiani, piacentini e lombardi in genere. Già Amedeo III, forse negli anni seguiti al 1130, quando egli era in lotta con Torino, aveva concesso ai Susini ima carta di franchigia, così come ad Àvigliana. Nel 1167 poi il conte Umberto III per una concessione alla chiesa dì Oulx, si rivolgeva non solo ai suoi tnilttes, ma anche ai suoi burgenses: le autonomie comunali si svolgevano gradatamente all'ombra della Croce di Savoia.

« Cives et incolae » di Susa, cioè milite* et burgenses insorsero: si chiusero le porte della città, si liberarono gli altri ostaggi che i tedeschi volevano condurre in Germania, si vietò a chi non parlasse italiano di uscire di città. Federico Barbarossa fuggì da Susa di na-scosto sotto mentite spoglie, guidato dal duca di Zàhringen, lasciando ad un suo cavaliere che gli rassomigliava, Hartmatni di Siwenheich, l'ingrato ufficio di fungere da imperatore, sino a che i cittadini, accortisi dell'inganno, cavalierescamente acconsentirono che l'impe-ratrice raggiungesse Federico già in salvo a Ginevra.

Intanto le milizie della Lega espugnavano Biandrate e lo di-struggevano; i cavalieri tedeschi che vi erano di presidio furono massacrati, meno dieci che furono inviati a Brescia alla vedova di Gilio Prandi in omaggio alla vittima di Federico.

La Lega Lombarda sì riunì in assemblea il 3 maggio 1168 a Lodi: vi comparvero i rappresentanti di un nuovo comune aderente, la città nuova del Tanaro.

Alessandria era sorta allora « in despectum et odimn Friderki ìmperatoris » come dice il biografo di papa Alessandro III, come in dispetto ed odio di Federico era stato distratto Biandrate. A Lodi Oberto di Foro, Rodolfo Nebbia e Aleramo di Marengo furono ammessi a giurare con gli altri consoli.

2. La fondazione di Alessandria

Come era sorta questa nuova città? Perché? La critica moderna ha cercato di investigare minuziosamente quanto potesse seivire a dare una risposta esauriente ai due problemi, poiché non sembrava più soddisfacente la risposta tradizionale che Alessandria fosse stata

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costrutta da!la Lega contro i sostenitori del partito imperiale, Pavia e Monferrato.

Attualmente abbiamo una conoscenza più precisa delle origini alessandrine. La città nuova sorse in una zona non deserta, ma già notevolmente abitata e coltivata. Appunto dove, fra Bormida e Tanaro, sorse la città, vi era un castelletto dei marchesi del Bosco appartenente alla diocesi pavese, Rovoreto. A breve distanza vi era Bergoglio: era sulla riva sinistra del Tanaro ed apparteneva all'arci-vescovo di Milano; sulla destra delia Bormida vi erano le due ville regie di Gamondio e di Marengo; tra Tanaro e Bormida vi erano i villaggi di Foro e di Oviglio, sulla sinistra del Tanaro, Solerò e Quargnento. La vita comunale si era sviluppata notevolmente, sotto l'influsso di Asti, di Pavia e di Tortona. Già si vide di Gamondio come fosse comune fin dal principio del secolo XII e come esso avesse rapporti commerciali intensi con Genova. Marengo era pure già comune nel 1135, sebbene fosse, almeno in parte, feudo del-l'abazia del Salvatore di Pavia. Marengo, così si chiamava, perché vi arrivava la vecchia via Maringa, la via del commercio fra il mare e la valle del Po, che portava ad Asti da una parte e dall'altra a Pavia. Anche Bergoglio aveva nel 1140 i suoi consoli. A Foro ave-vano feudi i marchesi del Bosco, cosi pure a Rovoreto, in cui però avevano diritti anche i Malaspina. Anche Rovoreto era comune. A Foro, a Gamondio, a Marengo pretendevano diritti i marchesi di Monferrato; nel diploma federiciano del 1164 vi sono inseriti. La pretesa dei marchesi confermata da Federico dovette agire per aggravare il malcontento. Nel J15# Gamondio, Marengo, Bergoglio avevano obbedito all'intimazione imperiale di mandare i loro uomini all'assedio di Milano.

Gamondio, Marengo, Rovoreto, Foro, Oviglie, Bergoglio tutte corti regie, erano i resti del grande patrimonio del fisco romano conservatosi attraverso le dominazioni barbariche. Goffredo di Vi-terbo dice con precisione di Aiessandria:

Hec nova pianta mancns, fisci drcumdatur agris, Unde suam propriam Cesar sibi fune reputavi!.

Re ed imperatori avevano sfruttato queste corti e se ne erano serviti per costituire doti di prindpesse, doari di imperatrici vedove, spesso le avevano dato a principi, a chiese in godimento, pur non abbandonando mai i diritti superiori di proprietà. Anche attorno 2l!e corti regie siruate fra Tanaro e Bormida si era formata una fitta rete di benefici diventati ereditari per la legge di Corrado II; i

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decreti di Lotario II e poi di Federico Barbarossa a Roncaglia del 1154 e del 1158 miravano prima che altrove a rimediare alla situa-zione formatasi fra Tanaro e Bormida dove i benefici divenrati ere-ditari avevano subito poi spartizioni, vendite sì che i grandi feu-datari non potevano più servirsene per il servizio militare dell'impero.

Il malcontento delle popolazioni rurali contro le. signorie feu-dali esisteva in tutta questa regione. Ce lo attesta un vecchio rustico di Bosco che depone in un processo del 1212: prima che fosse costruita Alessandria, egli dice, vide che i Marchesi tenevano la villa di Bosco « cum omni honore et iurisdictione »; si ricorda che allora nella villa di Bosco « non erant constituti consules » e che gli uomini di Bosco « rogabant marchiones quod darent eis consules ». E pare che quel che addolorasse di più i rustici fosse il diritto marchionale di raccogliere le successioni di chi morisse senza eredi diretti, esclu-dendo persino i collaterali e così durò la cosa fino a che i) marchese Enrico di Ponzone concesse ai suoi uomini di Bosco quel che il teste chiama « usum in successionibus ».

Così i processi del Piacentino degli anni seguiti alla pace mo-strano quali fossero le sofferenze delle popolazioni rurali sotto 1? tirannide di Federico Barbarossa e dei suoi ufficiali. Quel che Gof fredo di Viterbo annunciava come il programma di Roncaglia ora era diventata una dolorosa realtà per le popolazioni italiane:

Omnis ager plebis dat vecrigalia regi Omne genus pecorum pub'ica iura fcrunt.

Il soggiorno che Federico Barbarossa fece nella regione nel 1159 e negli anni seguenti fu decisivo per la storia dei piccoli centri. Egli distrusse le autonomie locali per riaffermare la sua proprietà nelle cord regie e quella dei marchesi nelle zone feudali. Non solo il fodro a lui importava, ma l'apporto dei pedaggi sulla \da del commercio di Genova. Una amministrazione fiscale diretta e pesante dei suoi ufficiali aggravò il malcontento. Federico vi ritornò nell'in-verno del 1167-68 e nulla fece neppur qui per correggere gli errori commessi.

Non furono i rustici delle campagne ad iniziare il movimento rinnovatore, ma l'elemento feudale, i milites minacciati dalle pretese imperiali di applicare le costituzioni di Roncaglia circa i feudi. Il pro-gramma federiciano di restaurazione imperiale significava il ristabi-limento di un ordinamento terriero che appariva oramai superato.

Non si trattava per i milìles di agitare le masse rurali, ma di inquadrarle in un ordinamento che le proteggesse: occorreva creare

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una città, un centro organizzato che potesse dirigere la vita econo-mica della regione.

I milites del secolo XII non erano più solo guerrieri: erano ricchi possidenti di terre che producevano grano e vino; erano mei-canti che sapevano vendere abilmente i loro prodotti al porto di Genova.

La città fu costruita nel punto più acconcio per questa funzione politico-economica, fra Tanaro e Bormida dove la strada che viene da Genova attraversa i due fiumi: Rovereto e Bergoglio erano le teste del ponte sul Tanaro, ponte che doveva essere la spina della città nuova. La regione si chiamava Patta, dal termine italico antico pai che significa pietra; la regione fra i fiumi, ricca di isole era il deposito dello sfasciume delle acque in piena.

Così, mentre Federico si allontanava per il Cenisio, mentre no-varesi e vercellesi si accordavano con i milanesi contro Biandrate, i milites di Gamondio, di Bergoglio, di Marengo, di Rovoreto trat -tavano pure con i capi della Lega per la loro adesione. Il nome di Alessandria fu naturale omaggio al papa Alessandro ILI, combattuto dall'imperatore, ma per il quale lavoravano in silenzio i fedeli della chiesa che respingevano papa e vescovi scismatici; la decisione è certamente dell'aprile 1168, mentre Federico attraversava le Alpi; tutte le teorie dirette ad antidatare le origini di Alessandria o come fondazione marchionale od imperiale sono artificiose e insussistenti.

Gli iniziatori e primi fondatori di Alessandria noi li cono-sciamo: sono quelli che il 3 maggio del 1168 andarono a Lodi al convegno dei Rettori della Legaci Lombardia, Oberto di Foro, Aleramo di Marengo, Rodolfo Nebbia. Già si dicevano consoli di Alessandria, della città che avevano creata, del comune che avevano organizzato.

Attorno ad Oberto di Foro,, "vassallo del marchese di Monfer-rato, di famiglia che aveva terre feudali ed allodiali, si erano riuniti altri milites, mercanti e possidenti. Essi desideravano collocare le loro famiglie e le loro ricchezze — bestie, grano, vino —- dietro le mura di una città che avesse amministrazione e giudici.

Ad Alessandria essi andarono con le loro famiglie, con i loro servi e la città nuova fu costituita dalle domus, dalle casate formate dalle famiglie che avevano un'origine sola e che continuavano a vivere consortilmente sotto il capo, l'anziano.

Città adunque nei suoi primi inizi, quasi aristocratica, certo non popolare: militi, mercanti, possidenti formavano un tutto uniforme.

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L'elemento popolare vi fu attratto assai presto. La società alessandrina rappresentava una base finanziaria che doveva alimentare il lavoro, la vendita dei prodotti del suolo, a Genova sopratutto, dove il mer-cato era attivo.

Anche da Quargnento volevano recarvisì, ma il vescovo di Asti che era il signore del luogo si oppose e venne ad un accordo con il nuovo comune: tutti gli abitanti di Quargnento avrebbero par-tecipato ai lavori di costruzione della nuova città, ma solo quaranta famiglie quargnentesi avrebbero potuto stabilirsi in. Alessandria (25 settembre 1168).

Così lo sviluppo spontaneo della vita comunale nella regione delle corti regie sotto la spinta della violenza imperiale e della rea-zione autonomista era sboccata in una costruzione nuova. Purtroppo non ci è giunto quell'atto che dovette esistere: il giuramento dì Oberto del Foro e dei suoi colleghi di associarsi ed unirsi in una nuova realtà.

Quanti diritti lesi dalla fondazione di Alessandria! Diritti del fisco imperiale, diritti di marchesi, vescovi ed abati; quanti proventi reali o nominali scomparsi! In questo stava la vera rivoluzione, nel -l'avere sconvolto l'assetto giurisdizionale e fiscale della regione. Ales-sandria tuttavia conservò l'assetto sociale e giuridico dei vari centri originali: vassalli, censuari, affittavo!!, livellari, coloni... dipendenti regi, marchionali, episcopali, non si confusero nella città, ma conser-varono come il ricordo del. luogo di provenienza così quello dei proprii legami giurisdizionali e fiscali. Vi era un punto grave su cui la Lega Lombarda poteva avare incertezza ed incapacità di precisare: come riconoscere la legittimità della nuova città? Non era l'imperatore la sola fons iuris? Non apparteneva Alessandria a quei « conven-ticula », a quelle « coniurationes » che erano state vietate alla Dieta di Roncaglia del 1158 « inter civitatem et civitatem, et inter per-sonam et personam sive inter civitatem et personam »?

Due consoli di Alessandria si recarono nel gennaio del 1169 a Benevento dove allora risiedeva Alessandro III ed alla presenza di tutti i cardinali lesserò la lor offerta: « a nome di tutti i consoli, dei militi, mercanti e possidenti di Alessandria, noi ofEriamo al beato Pietro ed a voi papa Alessandro ed ai vostri successori ed alla santa romana Chiesa la terra di nostro diritto che si trova dentro la nostra città, che il popolo di Alessandria comperò appositamente per co-struire la chiesa ». Giurarono quindi ì consoli fedeltà al papa e gli prestarono omaggio, mettendo le loro mani « sebbene indegne » tra

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le sacratissime mani del papa. La città avrebbe pagato ogni anno un tributo a San Martino: tre denari al papa come segno di dipen -denza feudale avrebbero pagato i militi, i mercanti, i possidenti, un denaro solo quei del popolo basso. Poi il popolo avrebbe ogni tre anni giurato fedeltà al papa, quando si radunasse per giurare ai consoli. Alessandria diventava adunque vassalla della Santa Sede: simbolo concreto della sua dipendenza sarebbe stata la nuova chiesa centrale della città, dedicata a San Pietro. Questa che doveva essere la cattedrale della città fu costruita a spese del nuovo popolo su terreno allodiale comperato dal popolo e di sua proprietà.

La città esisteva dunque nella libertas papale, ma chiusa nelle sue mura: non aveva comitato, non dhtrìctus, non suburbi; non aveva strido ture la possibilità di trarre dalle campagne che la circondavano nessun vantaggio, perché i prodotti del suolo erano dei signori delle corti regie, marchesi, abati ecc. E per quanto libera, Alessandria era schiava dei feudatari e dell'imperatore signore delle corti regie.

Per riparare a questa strana situazione, i fondatori chiesero al papa la creazione di una diocesi di Alessandria a rischio di togliere le pievi alle diocesi circostanti, Pavia, Asti, Acqui, Tortona. Ed Ales-sandro III promise di dare il vescovo. Il vescovado doveva di -ventare la giustificazione, la base di un distretto, di un contado.

Ma sconcertati furono i vescovi delle diocesi a cui si toglievano le pievi date ad Alessandria, Aequi per Gamondio e Foro, Tortona per Marengo, Pavia per Rovereto, Asti per Oviglie e Quargnenro, Milano per Bergoglio ed anche i comuni si accorsero del danno economico che ne veniva loro.

Già alla riunione di Lodi del 3 maggio 1168 i consoli delle città leghiste avevano riconosciuto.che Alessandria era città di guerra e che per vivere doveva conquistare e perciò l'avevano esonerata dall'osservanza di quell'articolo della lega che invitava la città a non accettare nessun castello di signore appartenente a giurisdizione di altra città senza il consenso di questa.

La fondazione di Alessandria dovette sconcertare non poco l'assetto delle forze politiche della regione. I grandi comuni, Ge-nova, Asti, Tortona, Pavia, Vercelli, i grandi feudatari, i Monfer -rato, i Bosco, i Malaspina, i Biandrate, tutti dovettero valutare diver -samente il fatto nuovo.

I genovesi che avevano avuto legami commerciali con Gamon-dio, non esitarono a riprenderli quando i gamondiesi si portarono

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IL MARCHESE DI MGNFERRATO ED I COMUNI 247

a Rovoreto. Alla richiesta di aiuti venuta da Alessandri» i genovesi risposero non solo con le proteste di vera amicizia, ma versando mille soldi per l'opera di costruzione cittadina, mille altri promet-tendo per l'anno dopo.

Gli astigiani già nel 1169 acconsentirono a contrarre alleanza con « gli alessandrini che abitano sul Tanaro ». Così essi aderirono alla Lega Lombarda, cercando in essa difesa ed appoggio contro il marchese Guglielmo V ed il conte di Biandrate. L'accordo di Asti e di Alessandria tradiva però già l'esistenza di un problema destinato a diventare grave: impegnandosi d'ambo le parti ad esonerare i propri cittadini dai pedaggi, telonei, curadie, le due città riconoscevano che trovandosi ambedue collocate sul Tanaro, sulla grande via com-merciale di Francia, i loro interessi commerciali venivano ad interdi-pendere forzatamente. Era un preannuncio di guai futuri: per ora Asti, Alessandria, Tortona, Vercelli trovavano nella lotta contro un nemico comune la coincidenza degli interessi. E gli interessi non erano dimenticati: quasi a farsi pagare per l'alleanza, i vercellesi non esitarono ad approfittare del momento per ottenere dai milanesi l'esonero dal pedaggio al ponte del Ticino ed anzi da qualsiasi pedaggio e curadia in tutto il territorio milanese.

3. Il Marchese di Monferrato ed i comuni

Di fronte alla superiorità militare della Lega dei comuni, i partigiani di Federico, isolati, lasciati senza direzione e senza ap-poggi, dovettero cedere. Prima si decise Pavia: nell'estate del 1170 i suoi, rappresentanti si impegnarono verso la Lega a far guerra all'imperatore, se fosse ritornato in Italia, ed ai suoi partigiani.

Il marchese di Monferrato fu l'ultimo a cedere, ma dovette rassegnarsi. Come sul Tanaro egli era in lotta con gli astigiani, a nord del Po egli era in lotta con vercellesi ed eporedìesì. Gugliel -mo V teneva infatti — non sappiamo da quando — in feudo dal vescovo di Ivrea non poche terre della zona meridionale dell'episco-pato eporediese: Castagnetto, Chivasso, San Giorgio, Cuceglio, Ci-conio, Lusigliè, Verolengo. Altri possessi aveva ancora il marchese sulla sinistra del Po, tra Dora Bai tea e Sesia, di cui Trino era il centro principale. Questi possessi monferrini davano noia ai ver -cellesi che temevano l'avvicinarsi del marchese alla loro zona. La Lega Lombarda diede ai vercellesi la possibilità di temperare la prepo-

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lenza dell'avversario. Con un primo trattato (24 marzo 1170) Gu-glielmo V esonerò i vercellesi dal pagamento di qualsiasi pedaggio, curadia od altro tributo in tutti i suoi territori; con un secondo (7 aprile 1170) acconsentì che Trino e tutte le altre sue terre comprese tra Sesia, Po e Dora facessero atto di vicinanza con Ver-celli, come le altre terre dell'episcopato vercellese, per il pagamento del fodro.

Con Ivrea i rapporti del marchese di Moni:errato, dopo essere stati buoni, si erano guastati poco prima del 1170. Guglielmo V aveva costruito il castello di Castrussone sulla via che da Ivrea scende al Po, dandolo in feudo a suoi fedeli di Valenza con l'incarico di esigere un pedaggio sulle merci transitanti. Fu un grave danno per Ivrea i cui cittadini si videro colpiti nel fiorente commercio di mole da molino che dalla Valle d'Aosta venivano alle città ed agli abitati della pianura. Ne derivò una guerra aperta e gli eporediesi furono costretti a cercare aiuto nei vercellesi ed alleanza. Alleanza che sapeva di dipendenza perché Ivrea dovette dichiararsi vassalla di Vercelli per i due castelli di Bolengo e di Sant'Urbano, obbligandosi a giu-rare fedeltà ogni dieci anni. Nel 1171 Ivrea potè conchiudere pace con il marchese grazie alla mediazione del conte Guido del Canavese, ottenendo diminuzione del pedaggio per 400 carri di mole, promet-tendo e ricevendo promessa di sicurezza nel reciproco territorio; Ivrea però fece le riserve per i giuramenti che la legavano alla Lega Lombarda. Così Guglielmo V che aveva nell'età precedente predominato su Ivrea e su Vercelli vide il suo influsso decadere a nord del Po, sotto gli auspici deHa Lega Lombarda.

Probabilmente gli sforzi del marchese si concentravano in Val di Tanaro, contro la nemica Asti, che. era la più eccentrica delle aderenti alla Lega. Ma gli astigiani non erano però isolati. Appunto nel 1170 strinsero alleanza con .gli albesi con obbligo di aiutarsi recìprocamente. Gli albesi che nella seconda discesa di Federico erano parsi devoti all'impero, attorno a questo tempo aderirono anch'essi alla Lega e così anche Acqui, Oneri, Tortona, le quali due ultime nel 1170 erano collegate con Asti.

Il comune di Chieri era sorto poco prima. Nel 1168, appresa la fuga di Federico Baibarossa, i chieresi avevano distrutto il castello episcopale in cui il conte di Biandrate, il nuovo vassallo del vescovo, si era installato. I piccoli vassalli e livellari del luogo poterono ora — se non prima — riunirsi in comune ed il vescovo Carlo medi-tando sulla mina imperiale che coinvolgeva quella dei fedeli alPim-

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fi. MARCHESF. DI MONFERKATO ED I COMUNI 249

pero, si rassegnò a trattare con i suoi vassalli di Cbieri. Il 7 aprile 1168 comparve in Chieri ed accordò loro, con il consenso dei cano -nici e dei suoi vassalli la concessione di tutti i buoni usi che deve avere dice il documento una « bona terra » cioè beri comuni, pascoli, fitti. Alcuni mesi dopo i chieresi d'accordo con il vescovo incastel-larono Montosolo sulle colline fra Chieri e Torino e pattuirono die il castello fosse tenuto da! vescovo, il quale vi avrebbe avuto casa con solaio e con torre, mentre i chieresi vi avrebbero tenuto solo una casa piana per uso dei consoli loro; se ti vescovo avesse perduto in guerra il castello, i chieresi avrebbero dato k loro opera per riconquistarlo; Montosolo però non avrebbe dovuto essere dato in feudo a nessun conte, marchese od in castellania ad alcun cittadino se non chierese (24 agosto 1168).

Nel 1171 anche il marchese di Savona, Enrico il Guercio, del Vasto, una delle colonne dell'imperialismo nell'Italia occidentale, si rassegnò a giurare un accordo con gli astigiani: li avrebbe aiutati a conservare i loro possessi ed a ricuperarli se li avessero perduti, a far valere i loro giusti diritti; avrebbe limitato per gli astigiani il pedaggio di Savona a soli quattro denari, quello della Croce di ferro (Cosseria) a soli otto denari; avrebbe partecipato alle guerre di Asti per un mese ed in caso di guerra avrebbe preso dimora con dieci vassalli in città per un mese, ed in essa avrebbe comperato una casa del valore di mille soldi. Naturalmente ne! trattato non si poteva non parlare dell'impero: si convenne che il marchese Enrico dovesse aiutare gli astigiani ad ottenere ia grazia dell'imperatore e solo per espresso ordine imperiale avrebbe cessato dì aiutarli; con essi, sempre riservando la fedeltà all'impero, avrebbe rinnovato l'al-leanza ogni cinque anni.

Asti aveva adunque una posizione ambigua: in lotta con Gu-glielmo V aveva ricercato l'aiuto delia Lega, ma d'altra parte si teneva in buoni rapporti con gli Aleramici di Savona. Anche gli albesi erano in cordialità con Enrico il Guercio. Evidentemente asti-giani ed albesi avevano bisogno degii Aletamici e della Lega per con-servare libere le vie commerciali delle due parti. Così alla fine il solo veramente isolato era i! marchese di Moiiferrato e ben se ne accorse nel 1172 quando cento cavalieri dei comuni della Lega ven-nero a rincalzo di astigiani e di alessandrini, Guglielmo fu attaccato sotto il suo castello di Montebello, battuto e cacciato in fuga: « illum-que cum suis de campo turpiter in fugare verterunt per plus sex millibus » (19 giugno 1172).

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2>Q DA ALESSANDRIA A LEGNANO

Asti potè ora dettare le sue volontà al fiero marchese. Questi giurò di osservare i patti che avrebbero stabilito i consoli di Cre-mona, di Milano, di Piacenza. Ed i patti furono: Guglielmo V avrebbe dovuto consegnare agli astigiani, perché li distruggessero, i due castelli di Felizzano e di Corte Coinaro, rinunciando ai diritti datigli sui due luoghi dal diploma imperiale del 1164 in cui erano compresi, avrebbe restituito tutti i domini conquistati ai figli del marchese Ardizzone. Risolte queste due questioni fondamentali, il marchese doveva consegnare entro 15 giorni dalla intimazione fat-tagli il castello di Castrussone ai rappresentanti della Lega, e questa avrebbe conservato il castello sino a che fosse passato il pericolo dell'imperatore (dum timor predicti Frederici transierit); poi glie Io avrebbe restituito a condizione che vi rendesse giustizia a tutti i membri della Lega. Guglielmo V avrebbe consegnato come ostaggi un suo figlio ed i figli di sei suoi vassalli: li avrebbe riavuti entro Natale se avesse osservato i patti, ma li avrebbe di nuovo consegnati ad ogni richiesta della Lega, se vi fosse stato il timore dei tedeschi0 di qualche nemico della Lega stessa.

Guglielmo V si rassegnò e giurò. Ed anche i Biandrate si rasse-gnarono a iar pace con Asti e Chieri. Fu il conte Liberto, il figlio maggiore del conte Guido, vecchio ed ammalato forse, che giurò: non avrebbe sottoposto gli astigiani a nessun pedaggio e curadia tra Asti e Torino, avrebbe accettato il giudizio del vescovo d'Asti per le controversie relative ai suoi feudi di Stoerda e Porcile; per Chieri, il conte accettò di precisare quartto dovesse prelevare per la curadia, il pedaggio, il barino dei placiti, il, fodro imperiale; avrebbe difeso1 chieresi dal marchese di Monferrato e dall'imperatore; avrebbeloro reso giustizia per le terre che possedessero in Val di Masio;non avrebbe costruito più il castello in Chieri; i chieresi però gliavrebbero dovuto giurare fedeltà, sotto garanzia del vescovo di Torino, Neanche in questo caso la politica della Lega era del tuttoostile al sistema feudale ed ai legittimi signori: si voleva al piùmisurare, sistemare, moderare, toglier gli Sbusi, le prepotenze.

Certo si può dire che nel 1172 le città comunali avessero nel -l'Italia occidentale raggiunto una potenza nuova, grazie alla crisi cau-sata dalla politica inavveduta di Federico Barbarossa. In pochi anni i comuni avevano acquistato quasi il predominio sui grandi baroni feudali. Forse Ottone di Frisinga avrebbe potuto constatare che anche il marchese di Monf errato stava per essere sommerso dalla marea comunale.

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4. L'atteggiamento di Umberto III di Savoia

Di fronte a taJe situazione, come si comportava il Conte di Savoia? Notizie precise circa l'attuazione delle promesse imperiali del 1168 non abbiamo. Anche scarse sono le notizie circa la vita del conte Umberto III in questi anni. Nel settembre del 1170 compare a Susa, nel chiostro di Santa Maria, intento a fare una donazione alla chiesa di Oulx: iì documento è redatto « consilio et voluntate civium et aliorum bonorum meorum hominum Secu-siensium » e porta nella data un'indicazione che non appare nei documenti precedenti di Umberto III: « Regnante Frederico Ro-manorum imperatore semper augusto ». Attestazione quindi di rico-noscimento di Federico come vero imperatore, nonostante Io scisma e le scomuniche: la stessa indicazione ricompare in un documento comitale del dicembre dello stesso anno, a favore dell'abazia di Abbondanza.

Ma sostanzialmente che cosa potè ottenere Umberto III dal-l'imperatore? Si è imbarazzati a precisare. Nei giugno del 1172 il Conte di Savoia compariva insieme con il vescovo di Moriana presso Pinerolo, a Miradolo, e presenti i castellani suoi di Miradolo e di Avigliana e vari vassalli concedeva una salvaguardia alle abazie di Staffarda e di Casanova. Nel J175 il Conte si dice — nelle trattative con Enrico TI re d'Inghilterra — signore di Torino, di Cavoretto, di Collegno e dell'omaggio dei conti del Canavese. È da credere che si tratti di quanto avevagli concesso Federico Barbarossa?

La pagina delle relazioni sabaudo-inglesi di questi anni non è certo troppo chiara. Sappiamo che nel 1171 Umberto III inviò ad Enrico II l'abate di San Michele della Chiusa, Benedetto: doveva offrire in sposa per il principe Giovanni — il futuro Senza Terra — la figlia maggiore del Conte, Alice. Era il momento in cui pare dall'Italia partissero delle sollecitazioni ad Enrico II perché venisse a prendervi la corona regia in contrapposizione all'odiato Federico Barbarossa. Progetto che poteva portare a conseguenze importanti. Enrico II Plantageneto sposando Alienor di Poitiers ex consorte di Luigi VII, ripudiata dopo più di dieci anni di matrimonio per la comoda consanguineità, aveva ai suoi domini uniti quelli della moglie creando nella Francia meridionale un immenso patrimonio che po-teva prevalere sul regno di Luigi VII. L'ambizioso re franco-inglese che aveva un vero predominio in tutta l'Europa occidentale poteva desiderare di crearsi dei partigiani sulla via dell'Italia. Le trattative

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per tale matrimonio furono lunghe e non le conosciamo bene. L'abate della Chiusa ben conosceva la corte inglese dove era stato anni prima per incarico del marchese Guglielmo V, Con lui partì anche il marchese di Monferrato che si recò con alcuni vassalli sabaudi alla corte inglese: si potrebbe quasi pensare ad una ventata antitedesca sotto l'influsso dei trionfi della Lega Lombarda.

Il conte di Savoia per decidere Enrico II offrì molto: alla figlia Alice avrebbe lasciato tutti i suoi domini; Giovanni Senza Terra avrebbe così creato una dinastia anglo-angioina sulle Alpi. Il re d'Inghilterra se pure osservò dapprima che il conte Umberto non era ricco, apprezzò tutta l'importanza del progetto. L'accerchiamento della monarchia capetingia cui egli mirava, l'aspirazione alla monar-chia d'Italia approfittando delle lotte tra il re tedesco e le città ita-liane avrebbero avuto delle possibilità pratiche inaspettate. Già aveva collocato le figlie, in Sicilia, in Castiglia, in Sassonia. Nessuna mera-viglia se egli antepose il matrimonio con la principessa alpina a quello con la figlia di Manuele Coirmene

Sappiamo che Umberto III chiedeva al re d'Inghilterra aiuto contro i suoi nemici, Raimondo conte di Tolosa ed il fratello di costui, Alfonso reggente nella contea di Albon per la giovane con-tessa Beatrice. Erano dei partigiani di Federico Barbarossa. Nel feb-braio del 1173 Enrico II si avanzò da Bordeaux sino alFAlvernia ed a Montferrand accolse Alfonso II d'Aragona, Raimondo V di Tolosa, Gerardo eonte di Màcon, il conte del Genevese ed Um-berto III di Savoia, che i cronis^ inglesi dicono avesse con sé la figlia Alice. Il re fece riconciliare i principi discordi e li condusse con sé a Limoges.

Il matrimonio tra Alice di Savoia e -Giovanni d'Inghilterra fu combinato a Limoges e fu redatto l'atto solenne di impegno. Um -berto III qualora non avesse avuto eredi maschi avrebbe dato alla figlia ed allo sposo tutti i suoi domini. Se invece la Contea di Savoia fosse passata ad eredi maschi del Conte, tfuesti avrebbe dovuto dare ad Alice la seguente dote: la contea di Belley con i due castelli di Rossillon e di Pierrechatel, la valle della Novaiaise, Chambéry, Aix, Apremont, la Rochette, Montmajeur, La Chambre, i diritti che aveva nella contea di Grénoble; in Italia poi Torino, Cavoretto, Collegno, i diritti feudali dei conti del Canavese, i diritti su Castellamonte nel Canavese, in Val d'Aosta poi Chàtillon ed i diritti sul visconte d'Aosta.

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II re avrebbe versato al conte 5000 marchi d'argento in varie rate. Ma con tutti questi accordi e con tante minuzie concordate, in realtà nulla si fece. Alice di Savoia morì verso il 1178, però del suo matrimonio da vari anni non si parlava più. Quale scopo aveva avuto Umberto III con tali trattative? Possedeva egli veramente nel 1173 Torino, Cavoretto, Collegno o pensava solo a procurarsi i mezzi per fare valere i diritti riconosciutigli dall'imperatore?

Sulla situazione in Torino in questi anni abbiamo poche notizie, ma forse sufficienti per comprendere l'atteggiamento del Conte di Savoia. Era avvenuta un'importante mutazione nella sede episcopale di Torino.

Il vecchio vescovo imperialista Carlo era venuto a monte od almeno di lui non abbiamo più documenti dopo il febbraio 1169. Approfittando del rivolgimento politico causato dalla costituzione della léga, l'arcivescovo di Milano Caldino, che doveva ricostituire i quadri ortodossi della sua archidiocesi, mandò a Torino come ve-scovo il suo arciprete Milone di Cardano, uomo energico, con l'inca-rico di restaurare l'autorità sul clero e sui vassalli. Nel febbraio del 1170 Milone iniziava la sua opera e faceva chiara affermazione di autorità su Torino trattando con i signori di Reviglwsco per la custodia del castello di MontosolOj ed agiva circondato da tutti i consoli torinesi maggiori e minori. Lo stesso anno il vescovo Milone compariva solennemente a Rivoli e trattava con i signori di Alpi-gnano per la costruzione di una villa in questo luogo.

Nel 1172 negli accordi con un ramo dei signori di Piobesi, il vescovo appare in piena potenza, circondato da cospicui signori e vassalli, come i marchesi di Romagnano, i signori di Piossasco ed altri. E nel 1175 il vescovo ci compare installato in Torino « in palatio taurinensi » cioè nel palazzo imperiale datogli da Fede -rico nel diploma del 1159.

Che cosa aveva adunque ottenuto Umberto III! A qualche cosa, nel campo del diritto, ci fa pensare quel che leggiamo nel trattato che il comune di Torino stipulò nel 1176 con i marchesi ai Romagnano: i torinesi riservavano non solo l'imperatore ed i suoi messi, ma anche il Conte di Savoia ed i suoi messi. Adunque in Torino Umberto III era consideralo come autorità pubblica? Autorità nominale di conte? Certo non di più: che il Conte di Savoia sia veramente entrato in Torino e vi abbia esercitato autorità effettiva, è assai dubbio. Quando, come vedremo, nel 1185, il ve -scovo vorrà ritogliere al Conte di Savoia, tutto quanto aveva ricon-

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quistato, vedremo che si parlerà solo di Pianezza, di Rivalla, di Carignano, di Torretta, di qualche cosa che possedeva in Torino — una casa! —, di feudi dati al Conte dal vescovo, ma senza pre -cisazione. Era riuscito Federico a conciliare il Conte, il vescovo (il comune... no!) con ti sistema usato a Chieri, dell'infeudazione? Però, a Torino il Conte, il vescovo, il comune rimasero nella devo-zione all'impero, mentre tutta l'Italia se ne allontanava.

5- L'assedio di Messaniria

I veri rapporti tra il Conte di Savoia e l'imperatore apparvero nel 1174 quando, libero delle questioni tedesche, Federico Barba-rossa potè pensare all'Italia ed alla rivincita sui comuni.

Naturalmente anche ora la sola via accessibile per venire in Italia era quella della Savoia e del Cenisio. Nel settembre del 1174 attraversò i paesi savoiardi con un esercito di 8.000 uomini, dice un cronista milanese. Certo non erano tanti. Federico aveva ar -ruolato però in Borgogna alcune e ompagnie di quei Brabanzoni e Coterelli che da qualche anno funestavano quella regione al ser -vizio di signori imperiali per tormentare i partigiani di Alessan -dro III. II 29 settembre la popolazione di Susa vide ricom -parire, pronto alla vendetta, quegli che sei anni prima era stato costretto a non imperiale fuga. La vendetta fu nello stile di Fede rico: la popolazione susina fu risparmiata, ma espulsa dalla città e questa fu bruciata. La sola « Dòtnus Cemitis », la residenza sabauda, fu risparmiata; il cronista che cK.narra tale episodio, Goflredo di Viterbo, afferma di essere stato, dall'imperatore, messo a guardia del castello sabaudo contro i saccheggiatori. Un riguardo verso un temibile alleato adunque. Ma neppure Ora Umberto III accompa-gnava Federico Barbarossa e non presenziò la rovina della sua fedele Susa. Aveva fatto qualche tentativo per salvare la sua città?

Dopo l'incendio vendicativo arrivò l'imperatrice:Tunc regum genitrix venir regina Beatrix, Lesa prius gratis, nunc sìbi leta satis Gaudia regine sunt quas videf ipsa ruine: Hec decet in fine genti dare dona canme.

La distruzione di Susa era un ammonimento per le città italiane. Si preparavano di nuovo le tragedie di Tortona, di Crema, di Milano?

Per Torino e per Chieri, l'imperatore giunse alla metà dell'ot-tobre davanti ad Asti. Questa appariva strettamente legata alla Lega:

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L'ASSEDIO D'. ALESSANDRI* 2 5 j

da Zviilano e da Brescia erano venuti reparti di milizie per cooperare alla difesa. Si voleva evidentemente bloccare, nella valle del Tanaro l'avanzata tedesca. Ma gli astigiani non si sentirono di sostenere un assedio lungo che poteva terminare magari con una nuova rovina della città come trent'anni prima. Si affrettarono perciò a trattare, offrendo quello che a Federico sempre mancava: il denaro. E Fede-rico accettò ed accolse in grazia quei di Asti: « traditores et. nomine? modice fidei » li dice sprezzante un cronista piacentino.

Ed ora la vendetta tedesca doveva cadere più grave su Ales-sandria, la città la cui esistenza era una offesa all'onore dell'impero. Ai tedeschi giuntivi con Federico verso il 29 ottobre, si unirono tutti i marchesi e conti imperiali. Venne la fanteria pavese. Secondo il trattato del 1162, i genovesi dovettero mandare un reparto di balestrieri e di operai abili.

L'annunzio dell'incendio di Susa dovette secondo dice GoSredo da Viterbo terrorizzare gli alessandrini. Cercarono di placare l'impe-ratore (bonum patronum) con una offerta piena:

lolle tuutri poputum, Cesar, propriumque colonum; Eri tibi subicimus corpora, iura, soluro.

Riconoscevano cioè all'imperatore la piena autorità sui rustici, la padronanza delle terre ed i diritti.

Goffredo di Viterbo vorrebbe far ricadere sul marchese di Monferrato e sui principi la ripulsa, ma Federico era venuto in Italia per distruggere il covo dei ribelli, la dignità imperiale offesa, gii interessi di Pavia, dei marchesi di Monferrato e degli altri marchesi lesi, erano un rutto che chiedeva la eliminazione completa della città nuova usurpatrice. E Federico negava già ufficialmente che Alessandria esistesse: tutti i documenti emessi dalla curia imperiale durante l'assedio portano questa indicazione: « in obsidione Roboreti »: l'im-peratore voleva ristabilire la situazione di diritto precedente, rista -bilire le popolazioni nelle piccole ville centri delle corti imperiali.

« Debilis est, quinque vel sex capienda diebus ». Così si diceva attorno a Federico.

Ma la speranza di aver ragione degli alessandrini in pochi giorni, si dimostrò fallace: passarono cinque mesi e la città resisteva ancora eroicamente, mentre il campo imperiale si riempiva di malattie e molti soggiacevano al freddo ed alle privazioni. All'arrivo dell'im-peratore, da tutte le corti regie i rustici si erano precipitati in Alessandria con le loro cose e le loro bestie, rafforzando la difesa

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e contribuendo al vettovagliamento. Era una nuova popolazione che in buona parte non abbandonò pili Alessandria.

Fu questo nuovo afflusso di rustici dalle campagne che trasformò11primitivo carattere aristocratico della nuova città. Ora Alessandriaacquistò quel carattere tipico che doveva conservare per qualchesecolo, la divisione in quartieri corrispondenti ai vici di origine,Garnondio, Marengo, Rovereto, Bergoglio.

Non conosciamo gli echi dell'assedio di Alessandria nelle città della lega. Soccorsi non ne vennero, se non 150 fanti condotti da Piacenza da Anselmo Medici. Occorreva sorvegliare le mosse di Cri-stiano di Magonza che dopo l'assedio di Ancona era venuto nel Bolognese e nel febbraio 1175 assediava il castello di San Cassiano. Qui la difesa era sostenuta da forze della lega.

Solo nel marzo si potè pensare ad Alessandria. L'11 marzo partirono da Milano militi e fanti con il carroccio- per il raduno a Piacenza. La lentezza fu necessaria: i Brabanzoni in cerca di viveri si erano sparsi per le campagne.

L'esercito della lega si riunì a Piacenza ed al principio dell'aprile si trasportò a Tortona. L'imperatore dopo l'ultimo vano tentativo di entrare in Alessandria di sorpresa (la notte del sabato santo,12 aprile), non attese di essere attaccato dalla Lega nel suo campo:già la notte di Pasqua tolse il campo e marciò su Vogherà per lavia di Sale e di Castelnuovo, come volesse avviarsi a Pavia, ritornata all'amicizia tedesca. L'esercito leghista, saputa la marcia di Federico, si affrettò a sua volta a ritirarsi e da Tortona lungo il marginedell'Appannino si portò a Casteggio, sì da bloccare l'avanzata deitedeschi.

Il lunedì di Pasqua, 14 aprile, i due eserciti sì trovavano a poca distanza, separati da un piccolo corso d'acqua. Nessuno osò avanzarsi ed attaccare. Già quel "giorno dovettero avviarsi le prime conversazioni.

Di dove partirono? Probabilmente»dal campo di Federico: si aveva coscienza dell'impossibilità di venire a battaglia. Non vi era più il conte di Biandrate, il politico: forse vi pensarono il marchese di Savona Enrico Guercio ed il conte di Savoia, li martedì 15 aprile Federico improvvisamente mosse il campo e si avanzò sino a due miglia dai lombardi che temettero un attacco di sorpresa e corsero alle armi. Però Federico si convinse che non avrebbe potuto far nulla.

Fra il 1.5 ed il 16 si discusse e si venne ad una intesa, L'ac -cordo fu stipulato nel campo imperiale di Montebello; si stabilì una

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L'ASSEDIO DI ALESSANDRIA 2.57

tregua, durante la quale una commissione avrebbe concordato le ri-chieste delle parti in un trattato; l'imperatore avrebbe eletto tre arbi tri e tre la lega. Giurarono di osservare i patti le due parti. Per Ales-sandria si discusse 0 giorno dopo: i consoli di Pavia, il marchese di Monferrato giurarono di conservare la tregua verso le persone e le cose degli alessandrini. L'imperatore fece pace « osculo interve -niente » con i rappresentanti della Lega ed accettò la tregua di Ales-sandria. Per quanto riguardava Alessandria e per tutta la discordia fra lombardi e Federico, avrebbero deciso i sei arbitri; per i dissensi si sarebbe chiesta la decisione ai consoli di Cremona.

La tregua « illius loci queni Paleam vocant » sarebbe durata sino alla metà del giugno; per l'imperatore qui giurarono il mar -chese Enrico il Guercio di Savona ed il conte di Savoia Umberto III; se l'imperatore non avesse mantenuta la tregua i due principi si sarebbero portati a Vercelli prigionieri della Lega. Giurarono anche il conte Palatino Ottone ed il cancelliere senza però l'impegno per l'arresto. Gli arbitri poi si trovarono ed incominciarono per giurare che si sarebbero adoperati per la pace sulla base delle reciproche proposte.

La presenza del conte di Savoia al campo dell'imperatore stu-pisce. Dopo avere bruciato Susa così importante nelle aspirazioni marchionali del conte, Federico aveva di nuovo fatto atto di imperio a Torino avviandosi ad Alessandria. E dal campo in obsiiione Ro-boretì l'imperatore aveva sigillato un diploma a favore del vescovo di Belley. Antelmo — vecchio partigiano di Alessandro III — a cui concedeva « omnia regalia, omnem districtum et jurisdictionem civitatis et suarurn possessionum », salva solo la giustizia imperiale, questo diploma distruggeva qualsiasi autorità e diritto del conte di Savoia sul comitato di Belley. Il diploma è del 26 marzo 1175: Umberto III era già al campo imperiale? Come poteva sopportare simile affronto? È da pensare che egli fosse venuto, contro sua voglia, in seguito ad una formale intimazione di comparire per compiere il suo servizio feudale?

E dovette rassegnarsi. Per quanto riguardava Belley ed il ve-scovo Antelmo la lotta fu aspra e lunga. Ma ritorniamo alle trat -tative di Montebello,

Si sarebbe fatta la pace? Lo augurava quel monaco di Santa Giustina o di Rivalta in quella cantilena piena dì orgoglio per la vittoria che gli alessandrini avevano riportato sull'assalitore protervo. Anche l'umile poeta che si è proposto di cantare, per eternarne il

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ricordo, come la nobile Lombardia difenda dagli stranieri, le sue mura, le sue terre, il suo onore, si rivolge alla Divinità perché la sua impresa era audace e temeraria «: prò rei magnitudine et gravitate nimia » e gli occorreva l'aiuto dall'alto. La Lombardia, dice, è regione fertile, ricca di ogni genere di prodotti: « dvitates vix triginta, ca-stella sat contigua », ma la gente che vi abita « virtute atque viribus repleta est ingenio » non sopporta di essere « sub servili dominio ». La vogliono sottomettere re astutissimi, di qui quei dei Galli, di là quei dei Greci,

Lo stile del poeta si aka, acquista solennità, ricordando l'eroi-smo dei difensori di Alessandria.

Alter leoni similis iam fremit in Liguria Deducens securo hcmines plusquam vigintimillia Huic Papia iungitur — et Monferati marchio Et multi capitanei quos nominare nescio Dicentes Alexandriam die vincenda tetcio. Castellis atque manganis circumdant eam propere Nullus exire potutt nec intrare peraiisere. Sex mensibus sic permanet. nil portiere facere. Sic oppugnatur civiias quam Papienses Palearn Vocant set quam inveniunt et senciunt lapideam Quos incepisse peniter dicentes esse ferream. Viri qui intus valentes in armis et astutia Concreniaverunt bostium ciim viris edificia Et deduxerunt pluriraos de ipsis intra moenia. Set qui pugmibant dcfpris videntes ista fieri Atnissa gente m»ixima piccai cessere miseri. Quid facietnus? inquiunt,' ab hinc non sumus liberi. At Lombardia prepotens istis occurrit obviam Fugato Cajnzellario ut vindice! 'iiiiuriam Illatam suis sociis qui tenent Alexandriam.

La resistenza eli Alessandria di sei mesi dava ai diplomatici della lega l'energia per resistere alle pretese imperiali su una linea dalla quale non si poteva recedere.

Le proposte leghiste erano semplici: si desiderava la pace e la grazia dell'imperatore purché questi facesse la pace e la concordia con la chiesa romana e papa Alessandro; le città erano pronte a fare per l'imperatore quello che i loro avi avevano fatto per gli imperatori predecessori di Federico. Ora conservassero tutto ciò che possede-vano. Così il consolato, fodro e colta more civitatum Restituisse l'imperatore possessi e diritti a città, vescovadi, abazie; rinunciasse

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L'ASSEDIO 01 ALESSAN3R1A 259

alle offese: acconsentisse a che le città avessero e rifacessero castelli; Alexandria in suo statu perpetuo permanente; restituiti i possessi di Oberto di Foro e dei suoi convicini; l'imperatore abbia come i predecessori, il fodro regale, la consueta parata quando va a pren-dere la corona; abbia quieto e consueto transito e sufficiente mercato.

Delle trattative ini2iate con la concardia fatta a Montebello non abbiamo molte notizie. Nella concardia si stabiliva che gli arbitri dovessero procedere « visis litteris nùssis ab imperatore consulibus Creinone et litteris a consulibus civitatnm datis consulibus Creinone de pace et concordia ».

Noi conosciamo le proposte della « Societas Lombardie » ma non quelle dell'imperatore. Il progetto della Lega fu preparato dopo i contatti verbali avvenuti solo il 16 e 17 aprile. Non certo avevano potuto prepararlo i Rettori mentre si avanzavano contro Federico per combatterlo, ed anche la sua preparazione chiese tempo e di -scussioni fra i Rettori stessi. Quando fu pronto e venne comunicato agli arbitri, questi avrebbero dovuto secondo il libellato della Con-cordia confrontarlo con il progetto proposto dall'imperatore, togliere dall'uno e dall'altro tutta la parte che fosse giudicata « superflua et incongrua », unificare i due testi, aggiungere tutte quelle cose che « eis videantur necessaria et magis utilia et congrua ».

Ma l'imperatore se fece preparare un progetto, questo era certamente basato s>u quelle premesse e su quelle esigenze che ren-devano impossibile quel lavorìo di scelta e di unificazione a cui doveva rìdursi in base alla Concardia l'opera degli arbitri. Solo nel caso in cui vi fosse stato dissenso in aliquo, allora avrebbero dovuto intervenire collegialmente i consoli di Cremona. La procedura pre-vedeva per gli arbitri il limite del 15 maggio, per i consoli di Cre-mona solo quindici giorni, ma così non si oltrepassava il 30 maggio. Intervennero i Cremonesi? Scaduti i termini, la concordia di Mon-tebello non prevedeva altro. Così dopo il 30 maggio non si ebbero più rapporti fra i rappresentanti delle, due parti.

Mentre si apriva questa trattativa fra l'imperatore e la Lega, un'altra pure si iniziava fra l'imperatore ed il papa Alessandro 111. Essa era necessaria per dimostrare alla Lega che sì era pronti a quella pacificazione religiosa messa in testa al programma della Lega.

Federico invitò a venire presso di lui per trattare della pace, fra chiesa ed impero tre cardinali della corte di Alessandro III i cardinali vescovi d'Ostia, Ugo, di Porto, Bernardo, del titolo di

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260 DA AI.ESSANDRJA A LEGNANO

San Pietro in Vincoli, Guglielmo. I tre cardinali chiesero prima il consenso del papa, poi partirono per Pavia, però i cardinali Ugo e Guglielmo passarono prima a Lodi a conferire con i Rettori. I col -loqui con l'imperatore non approdarono a nulla. Federico espresse sì il desiderio della pacificazione, ma riaffermò le richieste che ave-vano già determinato il contrasto con Adriano IV. Egli disponeva di un antipapa pronto ai suoi desideri, come avrebbe potuto rinun-ciare a quell'arma? Le trattative erano come quelle con la lega del tutto fallaci e capziose. Federico Barbarossa aveva tentato di entrare ne! campo di Alessandro III per cercare di mettergli contro i cardi-nali ed isolare la lega.

Con abilità, contando sul sentimento di venerazione che si aveva per la tradizione imperiale, egli era riuscito ad uscire dall'imbarazzo in cui si era trovato il 13 aprile a Vogherà con l'esercito della lega schierato sulla sua via. Ora egli aveva riconquistato la libertà delle sue mosse, la possibilità di provvedere ad armarsi: ia primavera del 1176 avrebbe visto la sua offensiva piena e decisiva.

6. A Legnano

Rotte le trattative si ritornò alle armi. Era da attendersi un nuovo attacco ad Alessandna; l'amor proprio di Federico lo esigeva; accenni già vi erano e bisognava prepararsi.

Della fine del 1175 è un giuramento imposto a tutti i rettori della Lega. Si era decisa una taglia di militi e di fanti per la difesa di Alessandna ed una taglia di mille lire per ogni città, poi di 120 lire per il podestà di Alessandria Rodolfo di Concesa; si sarebbe preparata la spedizione a richiesta dei rettori di Milano, Brescia, Piacenza. Verona, per le spedizioni in su, a richiesta di Cremona, Bologna, Mantova, Parma, per le spedizioni in giù; e si precisava il carattere delle spedizioni se di militi o*di fanti o di fanti e militi; per Alessandria avrebbero dato militi della città e del contado, fanti solo della città a richiesta di Rodolfo di Concesa entro il 1" marzo e dopo finché fosse stato necessario.

Il 31 gennaio del 1176 a Piacenza si rinnovò il giuramento dei Rettori: Alessandria era inserita nell'elenco della Società, con l'obbligo dell'aiuto; Guidotto di Fontana di Piacenza e Descazato di Brescia aggiunsero che ciascuno doveva far giurare i suoi soci

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A LEGNANO 261

consoli e la ctedenza a volontà di Rodolfo dì Concesa podestà di Alessandria.

Per quanto era necessario per la difesa di Aiessaudria se vi fosse stata discordia fra i rettori, si giurò di essere dalla parte a cui avrebbe aderito Rodolfo; per la spedizione però si richiedeva che vi fosse l'accordo di tutti o della maggior parte.

h'animus di Federico decisamente ostile agli alessandrini lo portò a riconciliarsi invece ceri Tortona dimenticando di averla di-, strutta due volte; nel marzo del 1176 la riprese in grazia, confer-mandole i possessi e privilegi, con una sola condizione che non avrebbe accettato né in città né nel distretto alcuno degli uomini « qui de octo villis infrascriptis apud Palearn collecti sunt » ; se li avessero accolti, dovevano espellerli negli otto giorni da che fossero stati richiesti o dall'imperatore o dal marchese.

Così un privilegio già aveva concesso a Corno ed altri concesse ad altre città.

Gli occorreva riguadagnare le città della Lega per rifare l'eser-cito. Le milizie mercenarie raccolte in Borgogna si erano consumate nell'assedio di Alessandria e Federico si era trovato disarmato di fronte alle schiere portate in campo dalla Lega

Egli rimase con l'imperatrice a Pavia: raccogliere uomini e denaro urgeva. Ed a questo scopo cercò risolvere il conflitto fra Pisa e Genova con l'assegnazione ad ambedue della Sardegna; inter-venne in varie questioni locali; nei gennaio del 1176 era a Torino

La raccolta delle genti d'arme in Germania era affidata a prin-cipi fidati. Ora qui fu per Federico un grave colpo l'avvertimento mandatogli da Enrico il Leone duca di Sassonia ch'egli non sarebbe venuto in Italia. L'imperatore gli chiese un colloquio, lo fece venire a Chiavenna per convincerlo a non abbandonarlo: il duca fu reciso.

Dopo la Pasqua (4 aprile) le colonne tedesche si misero in marcia: le comandavano gli arcivescovi di Colonia, di Magdeburgo, di Treviri ed altri vescovi. Quanti erano? Un migliaio di cavalieri, dice sire Raoul.

Scesero in Lombardia per il Lucomagno- forse a Bellinzona trovarono l'imperatore che ne prese il comando. A Corno unì le milizie comasche fedeli e continuò la marcia su Pavia per unirsi alle genti pavesi, cremonesi ed a quelle dei marchesi.

Ma leggiamo la descrizione della battaglia nel libro detto di sir Raoul.

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262 DA ALESSANDRI* A LEGNANO

« II giorno 29 maggio 1176, sabato, i milanesi erano presso Legnano e con essi vi erano 50 cavalieri di Lodi, circa 300 cavalieri di Novara e di Vercelli, di Piacenza 200 circa e poi cavalieri di Brescia, di Verona, della marca; i fanti di Verona e di Brescia erano ancora in Milano, ma alcuni si erano già messi in marcia per rag-giungere l'esercito milanese.

Federico con tutti i comaschi e circa mille cavalieri tedeschi era accampato presso Cariate. Si diceva che erano 2000 che aveva fatto venire segretamente sì che nessuno in Lombardia lo aveva po-tuto sapere. Anzi si diceva che erano presso Bellìnzona e pareva una fola.

E volendo passare ed andare a Pavia nel pensiero che i Pavesi venissero incontro, i Milanesi gli si opposero con la sopradetta cavalleria fra Borsano e Busto Arsizio ed incominciò una grande battaglia. Federico mise in fuga i cavalieri che erano da una parte presso il carroccio, sì che tutti quasi i Bresciani e parte degli altri fuggirono verso Milano e così parte dei migliori milanesi. Gli altri stettero presso il carroccio con la fanteria milanese e virilmente combatterono. Da ultimo l'imperatore fu messo in fuga; i Comaschi vennero quasi tutti imprigionati. Dei tedeschi molti furono presi, uccisi e molti annegarono nel Ticino ».

I consoli di Milano annunziarono a Bologna ed alle altre città la vittoria riportata:

« Vi sia noto che noi abbiamo riportato un grande trionfo sui nemici. Degli uccisi, dei catturati, degli annegati il numero è infinito. Abbiamo lo scudo dell'imperatore, il suo vessillo, la sua croce, la sua lancia. Abbiamo trovato oro ed argento nei suoi bagagli e le spoglie che abbiamo preso sui nemici sono incalcolabili. Ma queste non le reputiamo soltanto nostre, ma comuni con il signor papa e con gli italiani ».

Della battaglia di Legnano e delle discussioni degli storici sono piene le storie italiane e tedesche.

Negli storici moderni tedeschi appare insistente l'osservazione che la vittoria di Legnano fu solo uno sfruttamento da patte italiana del grande contrasto tra Staufer e Welfen che aveva impedito all'impe-ratore di portare in campo maggiori forze. E questo può essere vero, ma a Legnano la Lega Lombarda schierò una piccola parte delle sue forze e queste non erano certo più numerose di quelle teutoniche.

A Legnano si ebbe una battaglia di incontro in cui non le grandi masse potevano valere ma il valore e la tecnica della lotta.

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A LEGNANO 263

E gli italiani, cavalieri e fanti asserragliati attorno al carroccio, si dimostrarono superiori al juror teutonicus.

La battaglia di Legnano, anzi di Milano, del 29 maggio 1176 fu un indiscusso trionfo militare della Ixga sull'imperatore, ina non chiarì la situazione politica. Nelle trattative di Venezia del luglio 1177 Federico potè mostrare quanta parte d'Italia lo seguisse. Nel -l'Italia occidentale soltanto Novara, Vercelli ed Alessandria erano rimaste con la Lega: Genova, Tortona, Asti, Alba, Acqui, Torino, Ivrea, Casale, Ventimiglia, Savona, Albenga, il Conte di Savoia, i conti di Biandrate, i marchesi di Monferrato, di Savona, i Mala-spina, i Canavese, i Lomello seguivano Federico Barbarossa. Le « partes Pedemontis » si conservavano il baluardo imperiale.

Per Alessandria giurò Oberto di Foro, mentre fra i Rettori della Lega sedeva un altro Rufino di Foro di Alessandria: fratello0 cugino di Oberto?

Le trattative con il papa, con il re di Sicilia, con Venezia per-misero all'imperatore di isolare la Lega Lombarda che si ritenne paga della tregua di sei anni. Federico con la pace aveva superato1 vincitori di Legnano.

Nell'estate del 1178 Federico Barbarossa ritornò in Germania. Prima però volle recarsi ad Arles a ricevere solennemente la corona regia di Borgogna. Era una affermazione di non voler demordere dalla sua posizione di diritto. Prima, nel giugno e luglio l'imperatore soggiornò a Torino, nel palazzo imperiale. Appunto a Torino prese Federico un provvedimento nei riguardi degli astigiani, sì da mo-strare come egli si sentisse sicuro della situazione italiana. Infatti tolse al comune di Asti il castello regio di Annone che gli aveva affidato nel 1159, che gli aveva ritolto nel 1167, ma che poi gli astigiani avevano rioccupato. Federico installò ad Annone un castel-lano tedesco e gli astigiani giurarono di non offenderlo, a patto però che l'imperatore non avrebbe mai dato il castello ad altri se non al castellano suo. Asti temeva di vedere installarsi ad Annone od il conte di Biandrate od il marchese di Monferrato. Ad Annone l'imperatore sottomise non solo tutto il territorio della valle, ma anche tutto quel territorio che si chiamava in quel tempo comitato di Serralunga — era questa località presso Baldichieri o presso Ses-sant? — Refrancore, Cerro, Musanza, Musanzola, Travazzola, Du-sino e forse anche Quattordio. Un territorio adunque cospicuo tale da inceppare le libere mosse degli astigiani.

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264 DA ALESSANDRI A 1LF.GNA.NO

Romualdo Salernitano ci sa dire che l'imperatore stette a To-rino —- in partibm Taurini — alquanto a lungo, occupato a discu-tere con i lombardi, ma che non potè « pacern prò velie suo com-ponere ». Quale atteggiamento avrà tenuto tra le due parti il inar chese di Monferrato?

Federico Barbarossa da Torino si avviò alla Val di Susa, ma anziché salire al Cenìsio, prese la via del Monginevro: scese a Briancon dove congedò il marchese di Monferrato e per Etnbrun raggiunse Arles. Due giorni dopo, la domenica 30 luglio, Federico e Beatrice furono solennemente incoronati dall'arcivescovo di Arles, ma forse Beatrice fu incoronata a Vienne, subito dopo in quello stesso viaggio.

7. Corrado di Monferrato e l'arcivescovo dì Magonza

I figli del marchese Guglielmo V e di Giulitta d'x\ustria, Gu-glielmo, Corrado, Bonifacio, Raineri erano cresciuti nella devozione verso l'imperatore e da quando erano stati onorati delle armi ed erano diventati come ora già si diceva milite* avevano secondato i! padre nelle guerre imperiali, attirandosi anch'essi gii odi delle popolazioni che li consideravano come istigatori o sfruttatori delle ambizioni di Federico Barbarossa, Brutta sorpresa era stata per Gu-glielmo V e per i suoi la comparsa di Alessandria che rompeva fatalmente i legami fra i domini dell'Acquisana e quelli del Mon-ferrato. Come si è visto, già nel 1169 Asti ed Alessandria si legano contro il marchese; si tentano accordi; ma nel 1172 il marchese è sconfitto a Montebello dai comuni; Asti chiede ostaggi, un membro della famiglia marchionale; la stessa contessa sì dice, od uno dei figli o lo stesso marchese. L'imperatore è lontano e le forze dei comuni — fanteria? —- sono in vantaggio sui cavalieri di Monferrato. Guglielmo ha come suo alleato il conte di Biandrate, ma anche questi ha problemi grossi, ha addosso «Novara e Vercelli.

In attesa di poter scendere di persona ad agitare quella davam Herculìs che ancora è convinto di poter usare, l'imperatore mandò in Italia l'arckancelìiere Cristiano arcivescovo di Magonza: l'ordine è di rimettere la pace, di imporsi.

Al fianco di Cristiano troviamo ora Corrado di Monferrato. Erano due i figli di Guglielmo V, che erano « milites ». Fu il se-condo Corrado che seguì Cristiano nella spedizione in Tuscia. Lo

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CORRAI» DI MONFERRATO E L'ARCIVESCOVO Di MAGONZA 2Ó5

vediamo a Siena nel marzo del 1172 ad un parlamento deU'arcican-celliere; quando Pisa è messa al bando, Corrado è presente. Quale funzione avesse non sappiamo: governatore come pensa il Ficker di qualche zona? o prolegato? Non sappiamo se fu all'assedio di Ancona del 1174. Non fu certo e non vi fu neanche il padre a Legnano. Però subito dopo, nelle trattative del 1176 Corrado è presso l'imperatore che lo incarica di giurare in anima sua per garan-tire la sicurezza dei legati di Alessandro HI che venivano al campo di Modena. Il fratello maggiore Guglielmo che doveva i.S sopran-nome di Lunga Spada a qualche impresa che noi non conosciamo era nel 1176 già lontano: l'aveva attratto la seduzione della corona di Gerusalemme: nell'ottobre sposava Sibilla di Angiò e nei primi mesi del 1177 chiudeva il suo romantico sogno. In Italia Gugliel -mo V, il marchio maior come era detto, poteva contare su Corrado ed anche su Bonifacio; troppo giovane, forse non ancora miles era Raineri.

Corrado ora seguiva l'imperatore. Il 16 marzo 1177 è a Cocco-rano teste ad un diploma per il vescovo di Vivières; il 1° agosto è col padre alla conclusione di un trattato con Verceiii, ma poi riparte per Venezia ed il 17 agosto assiste alla conferma dei trattati fra l'imperatore e Venezia. Ed appunto a Venezia il 22 agosto con-chiude un accordo interessante la sua famiglia. La sorella Agnese era andata sposa anni prima verso il 1167 al conte Guido Guerra IV, che pare l'avesse ora ripudiata: ora il 22 agosto Guido Guerra cede all'imperatore il castello di Poggibonsi perché io consegni a Corrado di Monferrato ed alla sorella e lo stesso giorno Corrado dichiara di ricevere dall'imperatore l'investitura del castello per conto della sorella. L'anno segeunte, il 6 maggio 1178 Agnese cedeva il castello al fratello Raineri a Mombello, e Raineri vendeva il castello per 4000 lire pavesi al comune di Siena. L'imperatore era dunque intervenuto a risolvere un conflitto famigliare che poteva portargli l'odio o dei Monferrato o dei Guerra.

Corrado continuò a rimanere a corte. A Venezia Federico aveva risolto con il papa il conflitto per il patrimonio papale, ma era ancora aperto il contrasto per l'eredità maiildina. Per ora l'impe-ratore incaricò l'arcivescovo Cristiano, che dopo essere stato il pro-tettore di Vittore IV, ora Io diventava di Alessandro III, di sor-vegliare sul pacifico ritorno del papa a Roma e di provvedere alla restituzione del patrimonio.

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A Viterbo il legato imperiale trovò gravi guai: la popolazione si dichiarò favorevole al papa vero, la nobiltà si schierò contro. Vi era con Cristiano anche il marchese Corrado, e non sappiamo perché. Ma certo vi furono contrasti assai gravi fra i due e portarono a vera lotta fra Cristiano e Corrado; questi ad un certo momento fu cattu rato e messo in ceppi. Può essere che l'arcivescovo abbia scoperto una cospirazione contro l'imperatore, la cui trama andava da Cor-rado all'imperatore di Costantìnopoli Manuele Comneno. Agiva nel-l'intrigo il malcontento della corte di Monferrato per essere stati delusi — alla conclusione finale — di tutte le speranze che avevano riposto in Federico Barbarossa? In realtà è il momento in cui fra i Monferrato e l'imperatore bizantino si discuteva per un progetto simpatico ed ambizioso: l'andata dell'ultimo dei figli di Guglielmo V a Costantìnopoli, Raineri, per sposare la figlia di Manuele Comneno. Dopo la corona di Gerusalemme ora nel Monferrato vi era il sogno della corona imperiale d'Oriente.

11 conflitto fra Corrado e l'arcivescovo terminò felicemente con un accordo: Corrado fu liberato, ma versò un riscatto di 12.000 iper-peri, consegna di ostaggi, giuramenti e non sappiamo che cosa d'altro.

Ed ora naturalmente Corrado pensò alla vendetta. Chiamò in aiuto dal Monferrato il fratello Bonifacio, altri suoi vassalli, amici come liberto di Biandrate; intensificò le relazioni con Manuele Comneno ed il fratello Raineri partì per Costantinopoli. Poi assoldò a Spoleto e nelle altre città della Marca bande di avventurieri ed il 29 settembre del 1179 assàìì l'arcivescovo che transitava con poca gente presso Camerino e lo catturò egli ed i suoi compagni. Ben legato secondo l'uso dei tempi e "sotto buona scorta Parcicancelliere dell'imperatore fu portato in Tuscia e chiuso nel castello di San Fla viano, poi in quello di Acquapendente che forse erano di spettanza del marchese. Ora Corrado giubilante per la buona preda, la affidò sii fratello Bonifacio ed egli partì per Costantinopoli,

L'imperatore apprese in Germania, dove era occupato nella lotta contro Enrico il Leone, l'infortunio ctel suo legato. Mandò a Gu-glielmo V proteste, suppliche, poi spedì un uomo di fiducia Heinrich von Diez a trattare. Del resto anche il marchese Guglielmo dovette pensare che dopo la soddisfazione era prudente non spingere la cosa ad una situazione pericolosa. Nel gennaio del 1180 si trattò per un accordo. A sua volta Cristiano dovette pagare Io stesso riscatto di Corrado: 12.000 iperperì; si impegnò a far restituire a Corrado ed a tutti i suoi coadiutori la grazia imperiale. Le trattative furono

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CORRADO 01 MONFERRATO E L'ARCIVESCOVO M MAGONZA 267

lunghe, dovendosi aspettare gii atti di adesione da parte dei perso-naggi della corte tedesca.

Entro il 1180 Cristiano potè riprendere la sua attività di legato. Federico gli conservò la fiducia e nel 1183 Io incaricò di appoggiare il papa Lucio III nella sua lotta contro i Romani. Corrado ritornò da Costantinopoli prima della rivoluzione in cui perì Raineri (1182) e lo troviamo nel 1183 con il fratello Bonifacio alle nozze della sorella Adelasia con li marchese di Saluzzo.

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CAPITOLO X

LA PACE DI COSTANZA E LA NUOVA POLITICA SVEVA NELL'ITALIA OCCIDENTALE

1. Nuovi e vecchi giudizi sulla politica di Federico Barba-rossa. - 2. La nuova Cesarea. - 3. L'imperatore tra feuda-tari, vescovi e comuni- 4. La questione di Torino e la rot-tura dell'imperatore con i! conte dì Savoia. - 5. La politica federiciana nella regione piemontese. - 6. La fine della inarca di Enrico il Guercio. - 7. I marchesi di Ponzone e di Bosco. 8. Le prime imprese di Enrico VI. - 9, II dissidio tra papa ed imperatore e le sue ripercussioni nell'Italia occidentale. 10. La riconciliazione tra Staufer e Savoia.

1. Nuovi e pecchi giudizi sulla politica di Federico Barbarossa

II trattato di Costanza del 25 giugno 1183 rappresenta nella storia dell'impero e dell'Italia^ tutta un punto di massima impoi-tanza, poiché fu quasi l'atto fondamentale del Regno italico in cui l'esistenza del Comune e l'organizzazione feudale dello stato parvero trovare conciliazione giuridica.

Un noto storico tedesco, il Below, in questi ultimi anni in cui in x'ari paesi — in Francia, in Germania — si fece la critica ai principi ed ai governi di epoche lontane circa il modo usato nel-l'interpretare le aspirazioni e nel secondare le necessità nazionali, a proposito della pace di Costanza parlò, di un fiasco della politica federiciana. Si potrebbe discutere circa il giudizio sommario. In ogni caso il fallimento di Federico Barbarosa riguarda solo la politica guerresca del periodo precedente, il periodo che si chiude a Legnano, La pace di Costanza fa già parte dell'opera di ricostruzione, della ripresa del programma imperiale.

Federico Rarbarossa era uomo troppo tenace per demordere dal suo proposito di ricondurre tutta la penisola alla dipendenza del governo imperiale. Ancora gli storici tedeschi discutono se gli impe-

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NUOVI E VECCHI GIUDIZI SULLA POLITICA DI FEDERICO SAFBAROSSA 269

ratori da Ottone I in poi abbiano operato saggiamente trascurando la funzione di civilizzare -— e di germanizzare- — gli slavi orientali, presi dall'incantesimo del mare caldo, del paese latino; Federico Bar barossa aveva già, nel secolo XII, coscienza di quanto al gerraane-skno fosse costato il ricostruire ed il conservare la conquista latina di Ottone I, il Sacro Romano Impero. Nel proclama ai principi tedeschi del 1167, già citato, egli scriveva: «Non enirn in nostra!» solummodo rediindat rebellio personali), quia, iugo dominationis no-stre proiecto, Teutonicorum imperiimi, quod multo labore rnultisque dispendiis ac plurimorum principum et illustrium virorum sangmne emptum et hactenus conservatum est, refutare et exterminare [Itali] conantur, dicentes: nolumus hunc regnare super nos, nec Teutonici amplius dominabuntur nostri ». Adunque la ribellione italiana non colpiva soltanto lui, ma tutta la nazione tedesca e per ciò non era tollerabile, come non era tollerabile il sentimento antitedesco che animava le popolazioni italiane. Piuttosto di sopportare la rovina dell'impero, Federico preferiva la morte in battaglia: « antequara nostris temporibus imperium destrui patiamur et in posterob nostros tante confusionis et iacture dispendia transirdttaaius, maluimus ho-nestam mortem inter hostes ». L'odio contro i tedeschi era in realtà nei secoli XI e XII diffuso considerevolmente in Italia e non man-cano le prove.

Ora come poterono gli italiani abbandonare quell'atteggiamento di netta ostilità all'imperatore ed accettare il trattato di Costanza? Dopo la battaglia di Legnano non si poteva più parlale di una tra dizionale devozione verso l'impero. La realtà è che Federico Bar-barossa riuscì a sgretolare il blocco italiano che l'aveva vinto a Le-gnano, sebbene soltanto i milanesi e pochi alleati fossero sul campo di battaglia. Alessandro III non combatteva per i comuni, ma solo per il riconoscimento della sua legittimità e fu pago quando l'impe-ratore rinunziò ad ogni idea dì scisma, si che tosto abbandonò i Lombardi che pure avevano combattuto « prò statu Ecclesie et liber-tate Italiae ». Il re di Sicilia a sua volta fu soddisfatto e pago del riconoscimento del regno normanno; e così i comuni rimasero soli e dovettero essere lieti del trattato di Costanza. La guerra così lunga e così grave aveva infatti pesato economicamente sulla situazione finanziaria dei comuni: la continuazione del conflitto sarebbe stata esiziale.

I preliminari di Piacenza del 30 aprile 1183 innalzati a solenne diploma concesso dalla maestà imperiale il 25 giugno 1183 alla « tini-

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270 LA PACE DI COSTANZA E LA NUOVA POLÌTICA SVEVA NELL'ITALIA OCC.

versitas fidelium imperii » cioè alle « civitatibùs locis et personis societatis » significavano per Federico Barbarossa il riconoscimento della suprema autorità imperiale, tua dentro vi si leggeva l'abban-dono della maggior parte del programma di Koncaglia. La desiderata amministrazione dei regalia delle città da tenersi da suoi fiduciarì non v'era più. I comuni avrebbero nominato i loro magistrati, sta -biliti i loro tributi, fatte le loro leggi, amministrata la giustìzia secondo le loro consueiudini, conservando solo l'appello al tribunale imperiale. I comuni avrebbero conservato i loro regalia, restituiti quelli abusivi. Le popolazioni avrebbero giurato fedeltà all'impera-tore, i consoli avrebbero avuto l'investitura dall'imperatore o da un suo messo o vescovo investito dell'ufficio comitale. All'impera-tore sarebbe spettato il fodro ogni qualvolta fosse disceso in Italia per l'incoronazione. Gli veniva assicurato un mercato sufficiente, acconciate le strade.

Ma ora Federico Barbarossa poteva riprendere i suoi progetti ambiziosi su tutta la penisola. Ed infatti egli senza esitare ricomincia a tessere la sua rete: discute con Guglielmo II di Sicilia per arrivare al desiderato matrimonio tra il proprio figlio ed erede Enrico, re dei Romani e futuro imperatore, e la zia ed erene del re Guglielmo, Costanza d'Altavilla; tratta con i papi successori di Alessandro III per l'annosa ed insoluta controversia della eredità della contessa Matilde; tratta con i comuni per ricuperare di fatto tutto quello che era ricuperabile per gli accordi di Costanza.

Federico I in realtà non si, era mai trovato di fronte a tutta l'Italia comunale ed anche a Costanza aveva stabilito accordi soltanto con un gruppo limitato di comuni, quello della Lega. Per conse-guenza ora l'impero si trovava in uria. condizione di grande van-taggio: aveva rapporti ben chiari e precisi con i comuni leghisti, con altri aveva legami di varia "importanza^ secondo le stipulazioni fatte in circostanze diverse e di diversa entità. Vi era adunque una gradazione di rapporti, una differenziazione nell'atteggiamento dei comuni che poteva essere vantaggiosamente sfruttata dall'imperatore per un nuovo tentativo di inquadrare i comuni e l'Italia intiera nel suo sistema politico.

Nei patti di Costanza l'imperatore aveva avuto cura di intro-durre una clausola importante: l'obbligo per i comuni aderenti alla Lega di difendere ed anche di aiutare l'autorità imperiale nel ricu-pero dei diritti patrimoniali che il fìsco aveva o pretendeva di avere in Italia. I comuni erano adunque stati presi in una grave insidia:

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LA NUOVA, CESAREA 271

erano alleati di Federico, erano impegnati ad aiutarlo in una ricerca che poteva diventare magari lesiva dei loro interessi, sotto pena di essere dichiarati inadempienti dei patti di Costanza. È veto che la parte più importante di questi patrimoni imperiali era rappresentata dalla eredità matildina, ma anche il resto dell'Italia superiore e cen-trale era costellata da siffatti nuclei importanti, anzittuto, economi-camente; ora erano destinati ad acquistare una grandissima impor-tanza politica e militare per i piani segreti di Federico Earbarossa.

E qualora fosse sorto un conflitto, chi avrebbe deciso tra Fede-rico e la Lega? E la Lega aveva la possibilità di conservarsi a lungo nella sua compattezza?

Ed i futuri imperatori si sarebbero considerati come legati dalla parola di Federico I? Enrico VI sì, ma i figli di Enrico VI?

Nel settembre del 1184 Federico Barbarossa verme in Italia per celebrare le nozze del figlio Enrico con Costanza e per discutere con il papa la questione matildina. Approfittò dell'occasione per fare una solenne cavalcata attraverso l'Italia superiore in segno di trion-fante sovranità: il 19 settembre i milanesi accolsero solennemente l'imperatore che due decenni prima aveva distrutto la loro città. Erano scomparse le tracce della rovina? Non ricordavano i milanesi le giornate di Lodi del marzo 1162? l'abbattimento fragoroso delle torri, delle mura, dei palazzi?

2. La nuova Cesarea

Sulla questione di Alessandria, Federico Barbarossa aveva len-tamente ceduto per quanto era sostanza, accontentandosi di una degna soddisfazione per il suo prestigio e per l'onore dell'impero.

Al programma massimo del 1174 di distruggere Alessandria e di ristabilire nella regione fra Tanaro e Bormida l'assetto territoriale anteriore alla ribellione della popolazione, egli aveva rinunciato, ma conservava l'intenzione di riordinare le cose a suo piacere. La Lega Lombarda avrebbe desiderato, a sua volta, salvare Alessandria, ma non intendeva farne una questione capitale. I lombardi avreb-bero preferito andar d'accordo con il Monferrato. Nel principio del 1176 quando Pavia e Tortona sì accordavano pacificamente, preve-devano ancora i due comuni che « ilìi. de Palea » dovessero per ordine dell'imperatore uscire « de Palea » entro la metà della qua-resima; nell'arbitrato cremonese per la pace tra l'imperatore ed i

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272 LA PACE DI COSTANZA E LA NUOVA POLITICA SVEVA NELL'ITALIA OCC.

comuni del giugno successivo si stabiliva « Et Alexandria ir» statu civitatis permaneat ». Negli accordi di Venezia del 1177 la questione fu passata sotto silenzio, ma erano presenti Oberto e Rufino di Foro.

I comuni parevano disinteressarsi di Alessandria; anche il papa,dopo la riconciliazione con l'imperatore? La pratica però della diocesi di Alessandria, e del vescovo aveva camminato. Era stato necessario procurarsi il consenso dell'arcivescovo di Milano, Caldino,tutto immerso nei fastidi di riorganizzare la sua sede e di descisma-tizzare le chiese di Lombardia. Poi nel 1176 l'arcivescovo Caldinomorì e vi fu il problema della successione.

Ma il 30 gennaio 1177 ad Anagni Alessandro III faceva bol-lare il privilegio per Alessanctria: dilectìs filiis clerìcis Alexandrine ecclesìe. I rappresentanti di Alessandria dovettero palpitare nel leg-gere quell'indirizzo. Poche parole diceva il papa: per la novità e per la necessità accadde che presente essendo il nunzio della chiesa di Milano, non essendovi stata nessuna elezione precedente, abbiamo provvisto a voi ed alla chiesa di nostra autorità. E perciò perché non possa esservi per questo a voi ed ai vostri successori pregiu-dizio, abbiamo giudicato di dover provvedere per l'autorità nostra apostolica, e questo non vi porti pregiudizio: morendo nell'avvenire il vescovo che ora è od un suo successore, abbiate libera elezione dei vescovi come per le altre chiese cattedrali soggette alla chiesa di Milano.

Così Alessandria ebbe, secondo le promesse di Benevento, dio-cesi e vescovo.

Toccò al nuovo vescovo eletto Ottone di organizzare la sua chiesa e ne riferiva poi al papa che il 18 luglio del 1178 dalla Tuscia gli rispondeva approvando le cariche canonicali, il prevosto, l'arci -prete, il cantore e le chiese: Gamondio, Marengo, Solerò, Bergoglio, Ovidio, Rovoreto, Foro.

Nel 1178 gli alessandrini si rivolsero al marchese di Monfer -rato per conchiudere la pace: probabilmente temevano che la Lega, regolate le sue vertenze con l'impero* si disinteressasse del caso spinoso di una città dichiarata in contrasto con l'onore dell'impero. Anche il marchese di Monferrato Guglielmo V pensò utile condurre a sé gli alessandrini isolati e bisognosi di aiuto,

II 13 giugno 1178 ad Appiano presso Quargnento i consolidi Alessandria si trovarono con il marchese Guglielmo; si convenneche gii alessandrini, provenienti da Gamondio, Marengo, Foro avrebbero giurato fedeltà al marchese, gli abitanti degli altri quattro

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LA NUOVA CESAREA 273

luoghi si riservavano di giurare fedeltà al loro legittimo signore. In tal modo gli alessandrini regolarizzavano la loro posizione giuri-dica, come persone, ma non come città. Riguardo poi alla loro orga-nizzazione cittadina, il marchese acconsentì a conservare pace con gli alessandrini, a proteggerne le persone e le proprietà, a riconoscrc l'assetto attuale di Alessandrìa, a cercare in ogni modo che l'impe -ratore a sua volta tutto ciò approvasse. In cambio gli alessandrini riconoscevano al marchese tutti i suoi diritti: la sua alta giurisdi -zione sulla città intera, il pedaggio, la curadia, il diritto ad avere un palazzo in città, il pedaggio del ponte, l'obbligo di un contin-gente militare alessandrino per l'esercito del marchese contro tutti i nemici suoi, esclusi però tre casi: che vi fosse guerra tra l'impe-ratore ed i Lombardi, che l'imperatore fosse in Lombardia, che nel-l'esercito monferrino vi fossero dei pavesi; inoltre non avrebbero stipulato alleanza con sudditi del marchese, senza il suo consenso, e neppure con Asti, Tortona e Pavia. Se l'imperatore non avesse riconosciuto la nuova città, gli alessandrini sarebbero rimasti tuttavia sotto la salvaguardia del marchese, quali suoi sudditi, ed il marchese come suoi vassalli li avrebbe aiutati.

L'accordo tra Alessandria e Guglielmo V non portò a nessun risultato, che appunto nel 1178 i rapporti tra il marchese e l'impe-ratore si guastarono gravemente quando Corrado, uno dei figli di Guglielmo V, fu catturato dal Legato imperiale Cristiano di Magonza.

Nei patti che Bonifacio di Monferrato impose nel 11.80 all'ar-civescovo per la liberazione fu inserita una clausola che riguardava anche Alessandria: il cancelliere s'impegnava ad ottenere dall'impe-ratore che Alessandria venisse distrutta o che non potesse avere il favore dell'imperatore o del figlio re Enrico « nisi per parabolani marchionis Montisferrati Guillelmi aut filiorum eius et quod a pote-state et dominio eorum non absolvatur ». Bonifacio voleva con questa clausola ambigua assicurare solo l'interesse della casa: Ales-sandria o doveva essere distrutta o doveva essere sotto la signoria marchionale. In pratica la clausola non servi a nulla.

Gli alessandrini non potendo contare sul marchese di Monfer-rato si rivolsero allora ai marchesi del Bosco, con i quali nel 1180 conchiusero un accordo, riconoscendo tutti i diritti che i marchesi pretendevano nella regione. Avrebbero infatti riconosciuto ai mar-chesi del Bosco il possesso delle braide e di tutte le terre dominicali coltivate che avevano sul luogo prima della costruzione della città, il possesso del quarto dei fitti; gli alessandrini tutti dai 14 ai 70 anni

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274 1.A PACE Di COSTANZA E LA NUOVA POLITICA SVEVA NEIXÌTAXIA OCC.

avrebbero giurato fedeltà ai marchesi ed 1 consoli avrebbero ogni anno rinnovato il giuramento di fedeltà. I marchesi avrebbero con-cesso in feudo agli alessandrini i castelli e le terre di Ponzano e di Marenzana, dove però ogni quattro anni avrebbero riscosso il fodro. Per quanto riguardava i diritti regali in Alessandria i marchesi non ne facevano donazione agli alessandrini; questi avrebbero con-tinuato a goderli, ma i marchesi non avrebbero perduto nessun diritto. Evidentemente era un accordo provvisorio: gli alessandrini promet-tevano di non fare accordi con Guglielmo di Monfeirato senza con-senso dei marchesi del Bosco. Così ì marchesi del Bosco aspiravano, pur riconoscendo l'esistenza di Alessandria, a farne un loro possesso.

Ma neppure gli accordi con i marchesi del Bosco diedero ad Alessandria la sicurezza. Brutto segno fu la soppressione della sede episcopale: il vescovo di Acqui rivendicò alla sua circoscrizione quella zona, sebbene ora vi fosse una città.

Alessandro III dovette intervenire: la tradizione della sede di Acqui doveva essere rispettata. Si poteva creare però una diocesi doppia con un solo vescovo e di applicare l'artificio il papa diede l'incarico spinoso all'arcivescovo di Milano, Algìsio di Pirovano. Una solenne lettera annunciò agli Alessandrini che la loro città avreb-be goduto pur sempre della sede episcopale ed avrebbe sempre avuto un vescovo che si occupasse delle loro anime. L'ordine del papa era di. trasferire in Alessandria il vescovo di Acqui con la sua sede. L'arcivescovo ricordava quale amore il papa aveva avuto per Ales-sandria e quante cure aveva dedicato ad essa. Il vescovo di Acqui trasferito in Alessandria « Alexandrinus vocetur episcopus ». Però avrebbe conservato « iura potestatemve aquensis ecclesie » ed avrebbe continuato a funzionare in essa con piena autorità. Di conseguenza il vescovo eletto ad Alessandria non doveva più essere riconosciuto. L'applicazione del decreto di Algisio trovò presto nuove difficoltà. Per ora gli alessandrini avevano da risolvere il problema più grave, quello di Federico Barbarossa.

Per avere un appoggio sicuro, nei* marzo del 1181 gli alessan-drini si rivolsero ai genovesi, ricordando i vecchi accordi dei gamon-diesi. E Genova acconsentì ad impegnarsi nella difesa di Alessandria per 29 anni: in caso di guerra Genova avrebbe inviato all'alleata 200 arcieri, 10 balestrieri, 3 maestri di legname ed un fabbro; Ales-sandria avrebbe, a richiesta, dato a Genova 50 milites e 200 fanti. Ai genovesi importava di ristabilire i vecchi impegni dei gamondiesi per i pedaggi.

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I.A NUOVA CESAREA 27}

Quando nella primavera del 118.3 si incominciò a preparare da parte della Lega le proposte da presentare al convegno di Pia-cenza, i rettori constatarono clic sulla questione di Alcssandria non era possibile venire ad una intesa. Le pretese imperiali non erano accettabili, né era possibile ottenere dall'imperatore l'abbandono di tutta una politica antialessandtina di tre lustri. Che sarebbe successo se si fosse dovuto discutere a Piacenza? Noi non sappiamo attra -verso quali trattative la questione dì Alessandria fu trasportata di-rettamente in corte dell'imperatore. A Norimberga convennero i rappresentanti della Lega, di Alessandria, e forse anche del papa.

E le discussioni ripresero sotto la sorveglianza dell'imperatore ostile sempre. Si riprese a discutere. Che sarebbe successo se l'accordo non fosse stato raggiunto? La rottura delle trattative? È da pensare che i rappresentanti della Lega fossero molto inquieti: erano pronti ad abbandonare Alessandria, ma sentivano che non lo dovevano fare.

Era possibile una via di uscita?Vi fu qualcuno che la trovò. Fu un giurista di quelli che fian-

cheggiavano i Legati della Lega od un ecclesiastico di curia inviato da Lucio III? Od un cavaliere dell'imperatore? Tralasciare la que-stione insolubile di Alessandria, creare un'altra città che rappresen-tasse la devozione all'impero. Scomparisse il nome di Alessandria, si chiamasse la città nuova Cesarea,

Soluzione fine che comportava una rinuncia dall'una come dal-l'altra parte. Era sacrificato il punto d'onore su cui tutto aveva parso incespicare.

Non sappiamo quanto si sia discusso attorno alla proposta che poteva essere nel comune sacrificio una conciliazione. Era necessaria per giungere alla pace. Qualsiasi altra soluzione era impossibile.

Federico l'accettò, ma la circondò di tutte quelle salvaguardie che dovevano far credere che la soluzione fosse per lui un trionfo. Per la Lega la soluzione voleva dire il solo modo di salvare onore-volmente Alessandria,

L'accordo fu fatto nel palazzo imperiale di Norimberga.Federico I il 14 marzo 1183 stabilì le condizioni alle quali

avrebbe ricevuto in grazia gli abitanti della città di Palea: i due ambasciatori della città le accettarono e furono ammessi a giurare fedeltà. Le condizioni erano queste.

L'imperatore avrebbe fondato una città, Cesarea,Gli uomini « de Cesarìa que posita est: super ripara Tanari »

si consegneranno nella podestà del signor imperatore in questo modo.

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276 LA PACE Dt COSTANZA E LA NUOVA POLITICA SVEVA NELL'ITALIA OCC.

Usciranno tutti, dalla città, uomini e donne e rimarranno fuori finché il nunzio dell'imperatore li ricondurrà in città e consegnerà loro la città per l'autorità dell'imperatore. L'imperatore fonda questa città (civitatem) con sette luoghi, Gamondio, Marengo, Bergoglio, Rovo-reto, Solerò,- Foro, Ovìglie e 40 famiglie di Quargnento. Le da il nome Cesarea. L'imperatore avrà il teloneo del ponte sul Tanaro, il pedaggio, la curadia e tutti i diritti regali. Fuori della città avrà diritti e possessi che ì marchesi giustamente tenevano dall'impero. Tutti i cittadini maschi dai 14 ai 70 anni giureranno fedeltà... faranno pace e guerra secondo gli ordini... ogni cinque anni rinnoveranno il giuramento. L'imperatore da a Cesarea lo stato di città (statum civitatis) a condizione che non tolga a nessuna città, a nessuna per-sona il suo diritto. L'imperatore darà ì consoli che giureranno di conservare la città per l'onore dell'impeto. Essi faranno giustizia e conserveranno le buone consuetudini e puniranno i misfatti... L'im-peratore terrà Cesarea ed i suoi abitanti nelle sue mani, nessun mar-chese avrà podestà o signoria nella città...

I cittadini accoglieranno con onore il nunzio dell'imperatoreche raccoglierà dentro la città i regali ed i diritti dell'imperatoree tutti i suoi diritti fuori della città. Il nunzio dell'imperatore darài salvacondotti per le terre e darà tutori ai pupilli e curerà e proteggerà i minori. Alla sua udienza avverranno gli appelli. I duellistabiliti avverranno davanti i consoli ed il nunzio. L'imperatorerimette loro tutte le offese e. rende loro la sua grazia.

Giurarono fedeltà all'imperatore i rappresentanti di Cesarea, maestro Anselmo di Cornano e Teobaldo Vasco, Per l'imperatore giurò il camerario Rodolfo; testimoni furono Federico duca di Svevia, Rodolfo protonotario imperiale, ed altri,. Di parte italiana cioè della Lega vi erano Filippo di Casale, Gerardo di Novara, Lanfranco di Corno, Siro Salimbene di Pavia,- Paltrinerio di Ossona, Pietro Biscot, Male Visca di Brescia, Piccomiglio di Velia.

Quando avvenne la solenne cerimonia della formale creazione di Cesarea? Certo quasi subito. Sulle rive del Tanaro vi fu ora non più Alessandria, ma Cesarea, ed il nuovo comune direttamente dipen-dente dall'impero aveva il vantaggio di non essere più legato alla grande feudalità della regione.

II camerario imperiale Rodolfo potè ora scendere in Italia edannunziare ai rappresentanti della Lega riuniti a Piacenza che laquestione di Alessandria era risolta per decisione dell'imperatore eche la Lega più non doveva occuparsene.

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L'IMPERATORE TRA FEUDATAM, VESCOVI E COMUNI 277

La sua dichiarazione fu che « Alexandria, Dei gratia, miseri-cordia imperialis benevolentiae civitas rernaneat et statura civitatis obtineat et ornni privilegio civitatum sodetatis gaudeat intra et extra, et earam consaetudinibus libere utatur ».

E la convenzione di Piacenza del 30 aprile ne prese atto. Con l'espressione intra et extra si rispondeva anche alla richiesta che quei di Alessandria potessero accedere alle terre delle vecchie corti regie, su cui Federico Barbarossa aveva affermato i suoi diritti.

Nel diploma solenne di Costanza che il 25 giugno 1183 chiuse il conflitto trentennale, Cesarea figurò fra le città che furono, dice l'imperatore, « in parte nostra » con Pavia, Crernona, Corno, Tor-tona, Asti, Genova, Alba. E gli abitanti di Cesarea tralasciarono di pagate al papa il censo promesso dagli abitanti di Alessandria?

Federico Barbarossa non nascose né allora, né mai, il dispiacere di non avere potuto distruggere Alessandria se non simbolicamente. Quando due anni dopo marciò su Cremona deciso a schiacciarla, uno dei gravi rimproveri era che essi avevano contribuito a fondare una città sorta, diceva, « contra honorem nostrum et imperii ».

3. L'imperatore Ira feudatari, vescovi e comuni

La ricomparsa di Federico Barbarossa provocò certo qualche inquietudine nei comuni: stupiva la grande e disinvolta attività del vecchio imperatore. Si incominciava appena ora a gustare la pace, il ritorno alle attività agrarie e mercantili senza tema di nuove spedi -zioni tedesche, di attacchi improvvisi di questo o quel barone devoto alPitnpero; appena ora sì ritornava ad utilizzare le strade commer-ciali delle Alpi o verso i porti per i commerci da tanto tempo distur-bati od interrotti. Ed ora?

Da Verona, dove nell'ottobre del 1184 ebbe lunghe ed infrut -tuose discussioni con papa Lucio III, il successore del grande Ales-sandro III, l'imperatore prese provvedimenti tali da rivelare le ten-denze della sua politica. Al. marchese Obizzo d'Este restituì l'auto-rità marchionale nella marca di Genova e nella marca di Milano, come i suoi predecessori della famiglia Obertenga: Obizzo doveva tenere come feudo imperiale tutto ciò che spettava all'impero. Così gli Obertenghi venivano rafforzati in tutti i territori in cui si esten -devano i loro possessi e feudi: grave preoccupazione per i non pochi comuni che avevano contatti con le due grandi casate principali in cui gli Obertenghi ora si dividevano, gli Este ed i Malaspina. Non

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278 LA PACE Dr COSTANZA E LA NOOVA POLITICA SVEVA NEH'ITALIA OCC

pochi diplomi degli stessi mesi rivelano altre tendenze di Federico Barbarossa: concessioni a piccoli comuni, conferme di possessi e diritti a vescovi; è facile pensare che lo spirito di questa attività fosse l'ostilità, od almeno la diffidenza, verso i grandi comuni: il pensiero di procurarsi altrove un appoggio che permettesse di sfug-gire all'obbligo di ricorrere ai comuni della Lega.

Nel gennaio del 1185 l'imperatore fece un soggiorno, che pareabbia avuto grande importanza, a Piacenza. Infatti in quegli stessigiorni i rettori della Lega Lombarda convenivano anch'essi in Piacenza e rinnovavano la Lega (21 gennaio 1185); dichiaravano chele città associate erano impegnate per trent'anni e che il giuramentopoteva essere ogni cinque anni rinnovato a richiesta dei rettori. È dapensare che l'imperatore abbia preso parte alla dieta della Lega?Si può esitare. Al «colloquiimi» della Lega del 21 gennaio 1185intervennero i rappresentanti di Brescia, Verona, Bologna, Novara,Padova, Treviso, Modena, Piacenza, Bergamo, Gravedona, Faenza,Milano, Parma. Mancavano i comuni occidentali: Vercelli, Ivrea,Torino, Alba, Asti, Cesarea, Tortona. Acqui; e mancava pureCremona. Con questa città le relazioni di Federico stavano perguastarsi gravemente. Appunto a Borgo San Donnino, negli ultimigiorni del gennaio 1185 l'imperatore iniziava un procedimento giudiziario contro i cremonesi per la questione controversa di Guastallae Luzzara. Anni prima, in un momento in cui Federico Barbarossasi trovava in gravi difficoltà, Cremona aveva ottenuto il riconoscimento delle sue pretese sui due Juoghi ed inoltre la proibizione dellaricostruzione di Crema. ;;.

Ora però l'imperatore preferì un accordo con l'antica nemica, Milano; iì trattato, conchiuso 1*11 febbraio 1185 a Reggio, impose ai milanesi l'obbligo di aiutare Federico nel conservare e nel ricu-perare tutti i possessi e diritti dell'impero in Lombardia ed in Ro-magna contro qualsiasi città o persona; l'imperatore aveva obbligo di salvaguardare i patti di Costanza e lo statuto della Lega Lom-barda; se l'imperatore avesse violati i* patti di Costanza, Milano non aveva obbligo di aiutarlo, doveva aiutarlo invece se la viola-zione fosse avvenuta per opera di qualche città. Inoltre le due parti contraenti si impegnavano a non fare alleanza speciale con città o principe di Ix>mbardia senza reciproco consenso.

In tal modo, con il pretesto di voler difendere la pace del lì.83, il comune milanese si impegnava assai verso l'imperatore, abbandonandogli praticamente la piena libertà di agire contro città

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LA QUESTIONE 31 TORINO E LA ROTTURA CON II. CONTE DI SAVOIA 279

e feudatari. Se non nella lettera, certo nello spirito, Milano violava i patti della Lega Lombarda e prima di ogni altra cosa, permetteva a Federico Barbarossa di attaccare, dopo averla isolata,, la nuova nemica: Cremona.

Pochi mesi dopo, infatti, sebbene i cremonesi cercassero di venire ad accordo, l'imperatore decise una grande spedizione mili -tare contro Cremona, Federico riuscì a formare un esercito con reparti comunali: Milanesi, Pavesi, Bergamaschi, Bresciani, Veronesi, No-varesi, Vercellesi, Parmigiani, Reggiani, Modenesi, Bolognesi, Faen-tini, Imolesi, Tortonesi, Alessandrini; tutta l'Italia comunale quasi marciò sotto le bandiere dell'impero contro i cremonesi.

Il 7 maggio 1185 Federico si accampò presso le rovine di Crema e diresse la riedificazione della città che nel 1160 aveva distratto con tanta crudeltà. L'imperatore rimase a custodire i Savori per un mese con tutto l'esercito italo-tedesco, sino a che la nuova Crema fu risorta; a cura di contadini piacentini e milanesi ivi rac-colti furono rinnovate mura e fossati; Federico concesse ai cremonesi solenni privilegi e solennemente ne investì i consoli. I comuni lom-bardi apparvero ossequienti collaboratori ed esecutori degli ordini di Federico, ma il dissidio con Cremona era l'annuncio di una nuova crepa tra Italia ed Tmpero.

Dopo la spedizione di Cremona, l'imperatore dovette recarsi incontro alla sposa del figlio, Costanza d'Altavilla, che stava risa -lendo Ja penisola con solenne corteo. Ma prima Federico si recò a visitare l'Italia occidentale: il 30 giugno era a Torino, nel palazzo imperiale presso le romane Torri Palatine.

4. La questione dì Torino e la rottura dell'imperatore con il Conte di Savoia

La questione di Torino era infatti aperta ed urgente quando Federico Barbarcssa nel giugno del 1183 arrivò a Torino. Si trat -tava di regolarne i rapporti con il Conte di Savoia, Umberto III. Dopo la pace di Costanza, l'imperatore non aveva più bisogno del-l'appoggio sabaudo; anzi questo non era più utile. Ora Federico Barbarossa aveva bisogno di assicurarsi il dominio della regione pede-montana e le comunicazioni attraverso le Alpi occidentali con il regno di Borgogna, intendendosi direttamente con le forze politiche locali, nello spirito dei patti di Costanza e della sua nuova politica ed italiana e borgognona.

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280 LA PACE DI COSTANZA E LA NUOVA POLITICA SVKVA NELL'ITALIA OCC.

Dopo la violenta punizione inflitta da Federico a Susa — uno dei centri principali dei domini sabaudi —: nel 1174, come rappre -saglia della ribellione di alcuni anni prima, il Conte di Savoia se non ruppe le relazioni con Federico Barbarossa, certo ebbe contatti molto prudenti. A prudenza pare anche inspirato l'atteggiamento àel Conte nelle trattative di Montebello fra l'imperatore e la Lega, A Venezia Umberto III non andò.

A Piacenza nell'atto del 30 aprile 1183 il Conte era stato com-preso fra quelli che lo dovevano giurare per l'imperatore, ma non ne abbiamo poi traccia e neppure al trattato di Costanza.

Quando nel 1178 l'imperatore si recò ad Arles per farsi inco-ronare re di Borgogna, fra i principi borgognoni accorsi a far corona al nuovo re incoronato non troviamo per nulla Umberto III di Savoia, E neppure alla solenne dieta del Cristo tenuta da Federico a Magonza, nella Pentecoste del 1184, il Conte di Savoia si presentò.

Federico Barbarossa seguiva infatti anche in Borgogna la politica di favorire i vescovi, riallacciandoli direttamente alla corona impe-riale e svincolandoli dai legami di dipendenza verso ì principi locali che tendevano a distruggere il potere temporale delle chiese ed a costruire sulle loro rovine la propria potenza. Era questa infatti la politica tradizionale dei Conti di Savoia. A Torino la situazione era imbarazzante. Federico I nel 1168 come abbiamo visto per poter ottenere il permesso di passare per il Moncenisio, essendogli stati chiusi dalla Lega Lombarda tutti gli altri passi alpini, aveva dovuto concedere ad Umberto ITI il riconoscimento dei suoi diritti su una certa quantità di terre della contea torinese. Ma l'autorità del Conte in Torino non si conciliava con quella del vescovo e dopo la pace di Costanza l'imperatore decise di favorire il vescovo a danno del Conte.

Le avvisaglie della nuova condotta di Federico si ebbero presto. Già nel marzo del 1184, il vescovo di Torino, Mi'one, uomo attivo, desideroso di riprendere la tradizione *del suo predecessore Carlo, si presentò in Milano al Cancelliere dell'impero e Legato imperiale, Goffredo di Helfenstein, e presentò vive lagnanze contro il Conte di Savoia perché teneva indebitamente il castello di Pianezza, pro-prietà della chiesa torinese. Dopo una triplice intimazione al Conte, il Cancelliere imperiale dichiarò la contumacia di Umberto III e procedette alla condanna; per suo ordine un giudice della curia impe-riale Arderico Bonacossa assegnò il castello di Pianezza al vescovo,

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.LA QUESTIONE DI TORINO E LA ROTTURA CON IL CONTE DI SAVOIA 281

riservando però al Conte di Savoia U diritto di presentarsi, soddi-sfare alla giustizia e render tonto entro un anno.

E questo era solo un inizio. Milone trovò presto altri motivi per lagnai si di Umberto III. Quando Federico Barbarossa scende in Italia, il vescovo di Torino con quello di Asti ed altri è assiduo alla corte imperiale. Nell'aprile del 118.5 durante il soggiorno impe-riale a Pavia, il vescovo Milone ripresentò nuove accuse contro il Conte di Savoia che pure era presente in corte. Ora pretendeva che il Conte gli restituisse il castello di A vigliarla, quello di Rivalta, metà di Carignano, il castello di. Torretta, quanto teneva in Torino e nel suo territorio ed in più la liquidazione in 700 lire seeusine dei danni che le genti sabaude avevano recato alla Chiesa di Torino, in Rivoli ed in Piobesi.

Il colpo era secco ed in tale materia era sempre difficile distin-guere il diritto dal torto. Le richieste di Milone ci mostrano però come la penetrazione sabauda nel territorio di Torino ed anche in città avesse avuto continuità e successo. Umberto III imbarazzato evidentemente dall'attacco del vescovo, rispose chiedendo un rinvio della discussione: ora stava, disse, per recarsi a Venezia in pelle -grinaggio a San Marco; se ne sarebbe parlato al ritorno.

Ma quando il Conte di Savoia ricomparve alla cotte imperiale, nel maggio, Federico era occupato nella ricostruzione di Crema; quindi un nuovo rinvio: si sarebbe esaminata la questione quando la corte imperiale si fosse portata, come era in programma, a Torino,

Alla fine del giugno, quando Federico Barbarossa arrivò a To-rino, il Conte non comparve, neppure quando gli vennero ripetute citazioni. Ed allora il Cancelliere imperiale riprese il processo e lo portò a termine dando ragione, si comprende, al vescovo. Umber-to III fu spogliato di tutti i feudi e di tutte le terre non di bene-ficio episcopale che aveva nel Torinese, sino alla somma di 700 lire seeusine (2 settembre 1185).

Ora il vescovo di Torino, bisognoso di aiuti contro il pericolo sabaudo, sarebbe stato un fedele, sicuro coadiutore della politica federiciana. Si ritornava così all'applicazione del diploma che Fede-rico aveva concesso nel 1159 al vescovo Carlo: il comune torinese doveva vivacchiare all'ombra del seggio episcopale, forza interna del-l'episcopio, non rivale, non ribelle. Le pretese dei Savoia erano risospinte dal. Po alla vallata di Susa, alla regione transalpina, dove l'imperatore poteva usare altre forze politiche per tenere immobili questi pericolosi Conti.

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282 LA PACE DI COSTANZA E LA NUOVA POLITICA SVEVA NELL'ITALIA OCC.

5. La politica federiciana nella regione piemontese

L'atteggiamento dell'imperatore Federico nella vertenza tra il Conte di Savoia ed il vescovo di Torino è chiarito dai non pochi diplomi che nel 1185 e nel 1186 Federico concesse a vescovi della attigua zona borgognona. Così nel novembre del 1185 l'imperatore diede al vescovo di Ginevra l'investitura per quanto teneva dell'im-pero e poiché il conte di Ginevra, con cui il vescovo era in contrasto per diritti feudali, dopo avere giurato di stare ai voleri imperiali, se ne era fuggito, Federico lo mise al bando dell'impero, prosciolse i suoi vassalli dal giuramento di fedeltà e diede i feudi confiscati al vescovo di Ginevra. Contemporaneamente al vescovo di Gap con-cedette che nessuno potesse senza il suo consenso acquistare feudi nella sua diocesi; contro le violenze dei signori del Valentinois concedette altri diplomi ai vescovi di Die e di Valence; ed all'ar -civescovo di Tarentasia il 10 maggio 1186 concedette un diploma in cui Io riconosceva come vassallo immediato dell'impero, distrug-gendo così senz'altro le pretese del Conte di Savoia di essere il signore feudale di quell'episcopio. Gli interessi dell'impero coinci-devano con quelli dell'episcopato: di fronte ai vescovi, i feudatari passavano qui sistematicamente in seconda linea. Per quali motivi? Federico voleva forse assicurarsi i punti strategicamente importanti per le comunicazioni con l'Italia?

Altri diplomi importanti" di Federico Barbarosa troviamo in riferimento alla regione pedemontana ed alla politica di pacificazione adottata verso i comuni locali. Giudicando una vertenza tra i mar -chesi di Gavi ed il comune di Tortoqa relativa alla strada di Va! Scrivia verso la costa ligure, Federico con diploma da Pavia ordinò ai feudatari di Gavi di restituire ai tortonesi le merci sequestrate e di permettere loro il libero transito in attesa di suoi provvedimenti definitivi. Da Torino il 30 giugno 1185 concedette al comune di Alba tutti i diritti regali spettanti all'impero in quella città, con il solo obbligo di pagare ogni anno alla camera imperiale trenta lire astesi a titolo di fodro. E tosto accordava ai consoli aibesi, secondo le disposizioni di Costanza, l'investitura « per beretam quam in sua tenebat manu ». Da Novara il 5 marzo 1186 concedette ai cittadini di Casale il diritto di reggersi con i consoli ed al nuovo comune concedette la giurisdizione cittadina. Con altro diploma confermava da Novara ai signori di Revigliasco i loro feudi, Fxl il 9 giugno 1186

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Li» POLITICA FEDERICIANA NELLA REGIONE PIEMONTESE 283

da Castelleone presso Cremona concedette al consolato di Asti il diritto di giurisdizione inferiore a dimostrare la sua soddisfazione per avere le milizie comunali d'Asti partecipato « tam viriliter quam fideliter » alla nuova spedizione contro Cremona sotto il comando dei consoli e dello stesso vescovo.

Federico Barbarossa concedeva con generosità a feudatari, a monasteri, a comuni, perché la sua autorità in Italia era in questo momento altissima, indiscussa. La severità della spedizione contro Cremona, l'energia dei provvedimenti presi in Tusda contro i comuni che, ad eccezione delle sole devotissime Pisa e Pistoia, si videro ritirare tutti i diritti regali usurpati nell'epoca precedente, l'essere riuscito a sposare al figlio Enrico l'erede del regno di Sicilia, tutto pareva attestare che finalmente la sovranità imperiale aveva trionfato in Italia, nonostante Legnano, nonostante Costanza. Ma le conces-sioni fatte ai vari comuni pedemontani mostrano come nell'Italia occidentale Federico I ritenesse utile appoggiarsi alle nuove organiz-zazioni cittadine per equilibrare la grande feudalità.

Per quanto riguarda il soggiorno di Federico Barbarossa in Pie-monte sappiamo che da Torino al principio del luglio 1185 raggiunse i! suo castello di Annone dove era il 3 ed il 4 luglio e dove sigillò un diploma a favore dei cittadini di Earga in Garfagnana ai quali confermò i beni, i diritti, le consuetudini che avevano avuto sin dai tempi della contessa Madide. Occorreva avere gents fedele nella Garfagnana importante come passo deU'Appennino; non poteva fi-darsi Federico del governatore che vi aveva collocato con il titolo di nunt'ms, il marchese obertengo, Guglielmo di Parodi.

Il 10 luglio 1185 l'imperatore era già a Piacenza avviato in Tuscia; ricomparve in Piemonte solo nel dicembre, a Gavi, castello imperiale ora, di dove l'8 dicembre sigillò un diploma a favore dei conti libertini di Tuscia che dichiarò sottoposti alle sole autorità imperiali. Poi si recò a Pavia a festeggiare il Natale con il figlio Enrico allora arrivato dalla Germania e con Costanza d'Altavilla: questi celebrarono le loro nozze il 27 gennaio del 1186, nella fedele Milano, con il maggiore sfarzo. Tre incoronazioni videro i milanesi in quel giorno: per Costanza la corona di Germania, per Enrico VI la corona d'Italia e Federico si fece incoronare ancora una volta. Ancora nel gennaio dello stesso anno pare abbia fatto Federico una gita a Torino: forse lo inquietava la vertenza tra il vescovo Milone ed Umberto III. Il vescovo di Torino era poi con l'imperatore nel marzo a Casale e firmava con piacere il diploma contro il conte di

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Ginevra, il malvagio anti-episcopaie congiunto del suo nemico sabaudo.Recatosi poi a Pavia ed a Milano, l'imperatore attese ad orga-

niz2are, nel maggio delio stesso anno, un esercito imperiale, ma formato di reparti comunali italiani, per assalire Cremona. E caval-cando a fianco del carroccio milanese comparve davanti all'ostinata città, che però ora temette per sé quello che altra volta aveva fatto a Crema ed a Milano e si sottomise. Federico pure, fatto saggio dalla esperienza, non pensò a distruggere la città vinta come aveva fatto trent'anni prima, e si accontentò di stabilire un certo equilibrio tra Milano e Cremona.

L'imperatore aveva ottenuto quanto si era proposto venendo in Italia: non vi era più nell'Italia superiore nessuna resistenza alia sua autorità. E finalmente dopo un soggiorno di due anni lasciò l'Italia: non doveva più rivedere la terra di tante lotte, di tante passioni. Presto le vicende di Siria lo dovevano spingere alla sua ultima, tra -gica impresa.

6. Enrico Guercio marchese di Savona

Così lo chiama Federico Barbarossa nel grande diploma che gli concesse nel 1162 il 10 giugno da Pavìa, posi destructìonem Me-diolani.

Enrico Guercio è della figliolanza del marchese Bonifacio il grande (è permesso chiamarlo,così?) quello che spicca maggiormente. Mentre i fratelli e cugini si allontanano e si fissano in punti eccen -trici dei domini aleramici, il marchese Enrico pare fedele alla zona centrale: lo troviamo nella valle della Bormida di Millesimo, nelle Langhe, a Savona, ad Albenga.

Il servizio feudale porta Enrico, Manfredi, Ugo Magno al seguito dell'imperatore, ma poi.Enrico è solo.

Governa consortilmente con i nipoti, i figli del marchese An-selmo, ma poi Guglielmo e Bonifacio ^si stabilirono ad Albenga e furono marchesi di Albenga, ma poi Albenga divenne sede difficile ed ecco Guglielmo sorvegliare il mare e la costa da Ceva, ed ecco sorgere il marchesato di Ceva, Bonifacio risalì più lontano nelle Langhe a Clavesana. Albenga voleva dire litigare con le tendenze popolari organizzate in comune.

Che cosa poteva conservare Enrico Guercio? Federico Barba-rossa nel suo diploma investiva « il diletto figlio nostro Enrico Guer -cio marchese dì Savona, per la fedeltà che sempre conservava per

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ENRICO GUERCIO MARCHESE DI SAVONA 285

l'impero, per i servizi preclari che a lui frequentemente rendeva, di tutto quello che il marchese Bonifacio suo padre aveva avuto nella città di Savona, nella marca, nel vescovato ed ir. tutto il distretto di detta città e della marca e nel castello, in mare, in terra, nei comuni, miniere, boschi, pascoli, fodri, banni ecc. ed in tutti i castelli che ora detto marchese ha ed avrà; concediamo piena podestà di costruire per l'utilità sua e dei suoi eredi, di distruggere il castello e !a torre che contro ia sua volontà furono fatte in tutta la marca della città di Savona e nel castello di Quigliano, di Segni, di Noli, di Pertica, di Pia, di Orca ed in tutte le curie di detti castelli che il marchese possiede o possederà ed in tutte le altre possessioni che possono derivare dai possessi del marchese Bonifacio ed ancora tutto l'onore ed i regali che a noi dovrebbero spettare, e poi tutti i pe-daggi ed i buoni usi, salvi solo i servizi che si debbono all'impero ».

Alla concessione assistevano numerosi principi e vescovi: così i vescovi di Asti, di Parma, di Acqui, di Tortona, poi il marchese di Monferrato, il marchese Makspina Guido di Biandrate e Guido di San Nazzaro ed altri ancora.

11 marchese era in lotta sulla Riviera con non pochi nemici. Nei suoi domini vi erano vassalli e borghesi che si agitavano per rendersi indipendenti. Aspro nemico aveva nel governo di Genova, desideroso di eliminare conti e marchesi e di dominare da solo tutta la costa. A Genova si era ostili agli Aleraraidi: il CarTaro esprimeva l'opinione del suo popolo dicendo che è uso dei marchesi cercar di rapire anzi che comportarsi giustamente. Ma la stessa opinione potevano avere gli altri dei Genovesi.

11 marchese Enrico per difendersi, giurò l'abitacolo di Genova nel 1148. Poi fece alleanza con Genova per combattere i conti di Ventimiglia che cercavano di sfuggire alla sua sovranità appoggian-dosi a Genova senza però voler sottostare. L'alleanza del marchese e di Genova si basò sul principio di dividere le conquiste per metà. Però nel 1152 i Genovesi si allearono con i Savonesi contro il marchese. Poi questi ebbe a combattere contro quei di Noli che gli si erano ribellati. Per pacificare le parti e mettere piede in Noli com-parvero i Genovesi; nel 1155 si ebbe una spedizione contro Noli di diversi marchesi.

Enrico fu fedele a Federico Barbarossa e lo sostenne in tutte le sue imprese: nelle relazioni con i Comuni e con la Lega il mar -chese fu sempre al fianco dell'imperatore sino al trattato di Co-stanza. Nel 1175 per la conclusione di un patto col conte di Por-

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calquier, l'imperatore incaricò il marchese di esprimere la sentenza già deliberata, ed egli si accontentò di approvarla.

Nel 1188 vediamo il marchese Enrico a Noli in compagnia dei figli Ottone ed Enrico. Nella chiesa di San Paragono il marchese Enrico che ha insieme la signora contessa sua moglie tratta con i consoli di Noli: gli uomini della terra avranno piena libertà di fare « omnia fortia » nel castello, nel borgo, nel paramuro, dove crede-ranno necessario. Si compongono i contrasti « de pinta, de mer-cato, de mólendinis »; il marchese li rimette, però il marchese si riserva il diritto della curadia nel mercato, nella porta, nella riva come è costume, ed i fitti, nel borgo e fuori ed il fodro ed il bando come è consuetudine. Ed i due figli approvano.

L'anno dopo padre e figli sono a Genova: il marchese Enrico giura l'abitacolo di Genova; abiterà a Genova tre mesi ogni anno; prenderà parte agli eserciti del comune fra Portovenere e Porto di Monaco. Anche i figli giurano la compagna, di Genova e la pre-sente e l'entratura e le altre di poi e giurano l'abitacolo « ambo quamdiu Marcham comunem habebitnus Saone ». Alle guerre di Genova uno dei due figli interverrà con 25 militi, senza soldo a spese comuni. Ed i consoli di Genova giurarono che non avrebbero mai portato via o tolte terre ai due marchesi, che non avrebbero costruito castelli nella marca di Savona, né mai aiutato nemici dei marchesi.

Nel 1186 a Noli viene il marchese di Savona Ottone per ven-dere al comune del luogo: Ottone giura per sé e per i figli. Il fratello non compare, viene invece nel 1188 a vendere ai consoli di Noli il fodro che gli uomini di Noli « universaliter dabatur » per 202 lire genovesi.

Nel 1190 Ottone ritorna a Noli per una permuta con la pre-vostura di Santa Maria di Fornelli. Ottone ora si dice « dominus Otto de Carreto, marchio Savonae ». All'atto era presente un fratello del marchese, Bonifacio che era monaco.

Nel 1192 il marchese Enrico figlio del fu marchese Enrico Guercio ritornò a Noli per vendere al comune di Noli metà del castello di Spigno e della curia e del distretto e metà di tutte le terre che sono nella curia di Spigno, eccettuata P« argenteria » di cui si riservava la quarta parte; inoltre vendette la quarta parte del pedaggio della porta di Noli ed ancora la quarta parte del diritto che si raccoglie in Noli « prò sexto boschi sive prò dirito ligna-

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I MARCHESI DI PONZONE E DI BOSCO 2 8 7

minis » che ivi si porta a vendere e tuttociò per lire 1427 e mezzo che gli vennero subito pagati.

La decadenza dei marchesi di Savona era consumata. Nel 1190 Ottone fu podestà di Genova col titolo di Marchese Del Carretto. Ora nel secolo XII la storia avrebbe registrato dei marchesi del Carretto in servizio presso l'imperatore ed altri principi.

7. I marchesi di "Pontone e di Bosco

Mentre Bonifacio del Vasto si allargava sui territori della marca arduinida, un altro Aleramico della linea anselmiana, Ugo figlio di Anselmo III organizzava il governo dei territori nella zona acquense nelle valli dell'Orba, della Stura, dell'alta Bormida e nella zona oltre Appennino sul mare da Albisola a Voleri quasi.

Alla sua morte — 1110-1115? — i suoi domin? andarono spartiti fra i tre figli e si formarono tre dinastie, di Albisola, di Ponzone, di Bosco. Distinzione assoluta no, che regnò fra i tre rami il principio della consorteria e del condominio in un certo senso.

Ad Albisola troviamo il figlio Guelfo. Vi domina dal suo castello la riviera. Ma troppo è vicino a Savona che è in pieno sviluppo ed esuberante di forze: nel 1122 è costretto a cedere alla chiesa di Savona il suo castello e terre, pago di riprendere il tutto in godimento. La cessione rappresentava una protezione.

Morì verso il 1130 lasciando una figlia sola Ferraria affidata alla madre Tederata. Gli appetiti sono vigili ed insistenti: nel 1137 Ferraria deve giurare ai consoli di Savona che non si sposerà senza il loro consenso. Ma ora interviene Genova: imposizione a Tederada di non vendere o cedere il dominio senza il consenso di Genova; poi Ferraria è costretta ad andarsi a stabilire a Genova: « et ero perpetua abitatrix urbis Ianue in laude ianuensium consulum ». Né sappiamo altro di lei. Ma sappiamo quel che avvenne del dominio di Ferraria: i cugini di Ponzone e di Bosco se ne impadronirono •sveltamente.

Ma un altro figlio del marchese Ugo aveva messo la sua stanza nel castello di Ponzone. Nido d'aquila: le sue rovine sono là a 600 m. d'altezza. Dominava la valle della Bormida e del suo affluente Erro. Controllava la strada dal mare alla valle del Tanaro ed il pedaggio era redditizio. I mercanti che andavano ad Acqui ed oltre

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si lagnavano della esosità degli agenti del marchese: « pedagiuni importabile auferebant ». Ma erano duri e fieri

Doivent bien faìre par raison Car ils sont Marquis de Pouzon.

Redditizi erano anche i passaggi della via del mare per Celle e Varazze. Qui in specie erano in condominio con i cugini di Bosco. La donazione a Tiglieto del 1131 ci mostra Anseltno ed Àleramo i due capostipiti a Varazze con la madre Agnese e la moglie di un altro Alberto.

Poi Anselmo cercherà un'altra residenza, all'estremità orientale della zona aleramica, a Bosco poco lungi dalla Bormida ma già non lontano neppure dalla Scrivia.

Ponzone e Bosco erano insidiati da Genova: buon pretesto per combatterli erano le violenze che loro si attribuivano per i pedaggi. Nel 1183 Milano e Tortona facendo alleanza intendevano far guerra ai castellani che rompevano le strade.

Già nel 1135 Aleramo II fu costretto a giurare la compagna di Genova riconoscendone la supremazia, ma anche Savona aveva le sue pretese e nel 1186 il marchese fece giurare ai suoi sudditi di Varazze, Celle, Albisola, Sassello, Ponzone che avrebbero difeso il comune di Savona.

Morto Aleramo II i suoi beni passano ai figli Ugo, Enrico, Giacomo, Pietro, I domini rimangono in consignoria. Ma ad Ugo succedono i figli Ponzio, Guglielmo, Enrico; così a Giacomo I suc-cede Pietro II ed a Pietro I "succede Giacomo IL Ciascuno tratta, fa guerre, fa paci, ma in conclusione si ricorre alla garanzia od al consenso dei consignori se vi ha da cedere o da vendere.

Poiché la vita anche per i marchesi era dura. Nel 1183 il mar-chese Enrico acquista a credito merci sotto la garanzia di suoi vas-salli; nel 1184 è Giacomo di-Ponzone che deve dare in pegno il pedaggio di Cortemiglia e quel che possiede alla Rocchetta.

Nel 1184 è Giacomo di Pietro chje a Genova prende in mutuo 333 lire genovesi e vende la sesta parte del castello di Albisola; e lo stesso nel 1188 da in pegno delle terre presso Varazze. E le prove della rovina finanziaria continuano. Nel 1201 è Ponzio mar-chese che vende la sua parte di Varazze a genovesi che si riservano di pagare in tre rate. Nel 1203 Enrico II marchese viene citato davanti al giudice di Genova per un debito che ha verso tale Ursa di Trucco e questa è autorizzata ad impadronirsi dei beni dell'in -solvente sino alla cifra.

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LE PRIME IMPRESE DI ENRICO VI 289

Anche dal comune di Acqui i Ponzone sono stretti. Nel 1192 : marchesi Enrico e Ponzio dichiarano al Consiglio di Acqui che già l'avo Aleramo e poi Ugo ed Enrico avevano investito i consoli di Acqui di tutti i loro beni ed anch'essi fanno la cessione e nel 1236 ad Acqui in pieno consiglio i rappresentanti dei tre rami dei mar-chesi giurano ai consoli di osservare gli impegni presi dai loro predecessori.

E già nel 1235 era venuto un messo del comune di Acqui ad intimare al marchese di presentarsi entro otto giorni davanti al podestà a fare « suutn sequimentum ».

Non diversamente avveniva nella famiglia marchionale di Bosco. Anche qui il moltipllcarsi delle linee determinò il frantumarsi dei domini.

Anselmo ebbe due figli, Guglielmo e Manfredo. A sua volta Manfredo ebbe due figli, Ottone e Guglielmo. Ad Ottone toccò la zona più orientale, a destra dell'Orba sino al fossato, si diceva, di Ruscarolo e di Cogolasco. Guglielmo ebbe le terre attorno a Pareto, a Belforte e poi la costa, ma a Celle vi era consignoria.

Il marchese Guglielmo ebbe a sua volta quattro figli; Anselmo, A2zone, Delfino, Ardoino. Spezzettamento disastroso dei domini. Ardoino del Bosco nel 1184 partì per la crociata. I suoi domini erano ancora in condominio con il fratello Delfino: fu necessario procedere al riconoscimento ed alla spartizione. Ma essi già avevano dato terre in pegno per un loro debito nel 1182 ed altre ne diedero l'anno dopo. Il marchese Ottone anch'esso per acquistare merci aveva ricorso alla garanzia di suoi vassalli; poi diedero in feudo con facoltà di riscatto quanto ancora avevano in Celle.

Il marchese Delfino nel 1198 giurava la compagna di Savona e faceva omaggio ai consoli del feudo della Stella.

Il patrimonio marchionale era destinato attraverso ai debiti a passare alle città e sopratutto ai gastaldi dei marchesi che riscatta -vano abilmente diritti e proprietà.

8. Le prime imprese di Enrico VI

Federico Barbarossa parti per la Germania nel giugno del 1186 e lasciò in Italia a continuare la sua opera ed a rassodare la potenza imperiale il figlio Enrico. Rimaneva ostile ed impavido in Verona il nuovo papa, Urbano III, successo nel novembre del 1185 a Lu-

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ciò III. Come dimostrò con il nome papale che assunse, Umberto Crivelli, arcivescovo di Milano, aveva una grande coscienza della dignità papale, della sua superiorità su tutte le autorità mondane, del diritto alla sottomissione dovutagli da tutti i principi: non era certamente l'uomo adatto a subire la vigorosa politica federiciana più di quanto avesse acconsentito il suo predecessore, tanto più ora, di fronte a] realizzarsi del matrimonio di Enrico e eli Costanza, matrimonio per il quale la situazione politica del papato non poteva non peggiorare.

Infatti se da prima si dichiarò disposto a trattare per la difficile questione dei beni matildini, presto le trattative si ruppero per l'impossibilità di un accordo, e neppure Federico riuscì ad ottenere da Urbano III il desiderato consenso perché incoronasse il figlio .suo collega nell'impero, li papa assunse un atteggiamento ostile al-l'imperatore, anzi vietò ai vescovi italiani di prendere parte alla spe-dizione federiciana contro Crernona, affermando che l'impero non aveva nessun diritto di imporre questo obbligo feudale e militare ai vescovi in Italia dove « nequaquam hactenus fuerit consueturn hanc servitutem imponete ». Questa azione del papa sui vescovi non poteva non influire anche sui comuni e presto Urbano III si sentì accusare di osteggiare la politica imperiale.

È probabile che all'atteggiamento assunto dal papa si colleghino le nuove agitazioni comunali sorte in Lombardia ed in Toscana. Così mentre ancora Federico attendeva alla repressione di Cfemona, il figlio Enrico era in Toscana per combattere contro i ribelli e per cassare poi nello stato romano per occuparlo come rappresaglia contro Urbano III. Nel maggio del 1186 fu colpita Lucca, che si vide togliere privilegi giurisdizionali prima goduti; poi Enrico assediò Siena, che non trovò appoggio in nessuna città toscana, neppure in Firenze. I senesi furono costretti ad arrendersi: la città fu privata di tutti i diritti regali, di tutta la giurisdizione, del diritto di batter monete, di stabilire e riscuotere pedaggi. Anche Orvieto se resistette energicamente all'assedio, dovette da ultimo cedere: successivamente tutte le città del Patrimonio di San Pietro furono occupate da En-rico VI; dovunque furono messi dei capitani imperiali ed applicate le disposizioni prese da Federico 1 negli anni precedenti per l'Italia superiore. Anche le Romagne vennero occupate, e dovunque furono rafforzate le vecchie forze politiche, feudo ed episcopio.

Urbano III tuttavia non cedeva. Non sappiamo quali progetti avesse l'energico papa. Intendeva ricorrere all'appoggio dei principi

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europei, al re d'Inghilterra, al re di Francia? Patrebbe. Infatti nel -l'autunno del 1186, il re Enrico cercò di bloccare in Verona il papa ed i cardinali: le vie alpine furono controllate perché nessuno potesse accedere alla curia papale; in Verona nessuno più potè entrare e neppure fu lecito agli ecclesiastici della curia di uscire di città. Anche i passaggi delle valli di Susa e di Aosta vennero bloccati mediante certo l'opera dei capitani. A queste misure di sbarramento si collegano i provvedimenti da Enrico VI presi nell'Italia occiden-tale, che appariva tutta devota, come si vide, all'autorità imperiale. Dei funzionari imperiali troviamo in vari punti importanti: a Gavi vi era come castellano Sigelfredo di Lautem, ad Annone vi era un castellano tedesco che fu cliiamato Tommaso di Annone; un Drushard di Kestenburg governava contemporaneamente Chieri ed Ivrea; anche a Torino vi era un ufficiale tedesco.

Nel 1187 poi Enrico Vi comperò da Manfredi II di Saluzzo la valle di Stura per 1750 marche di argento e venti marche d'oro: la valle di Stura era un passaggio importante tia l'Italia ed il regno d'Arles, e questo spiega perché Enrico VI la volesse comperare, non spiega invece perché il marchese di Saiuzzo volesse venderla. La spiegazione è da cercare nella difficoltà in cui il marchese si trovava di dominare la valle stessa. Già il padre suo Manfredi I aveva trovato opposizione in alcuni feudatari della valle che dipendevano proba-bilmente dai signori di Sarmatcrio, cresciuti a potenza ai tempi di Bonifacio del Vasto: sappiamo che nel 1163 un vassallo del mar -chese Ardizzone di Roccasparveru aveva tentalo di ribellarsi e di aderire ai nemici del marchese, i signori di Vinadio, Demonte, Aisonc, Sambuco, Bersezio che poi nel 1163 si pacificarono anch'essi con Manfredo I. I conflitti però non cessarono: lo prova il fatto che ne! 1185 feudatario di Roccasparvera era un vassallo di Manfredi II, Catalano di Barge, sostituito probabilmente ad Ardizzone ed alla sua famiglia che aveva persistito nella ribellione. Però anche Catalano nel 1185 era già a sua volta in contrasto con il marchese e tutti e due ricorrevano per tentare un accordo a Corrado marchese di Mon-ferrato. A questa situazione si collega !a cessione della Valle di Stura ad Enrico VI. Ma fu vendita o pegno?

Ancora era aperto il conflitto di Torino. Il 28 ottobre 1186 si era chiuso il processo contro Umberto III. In ossequio alla sen-tenza emessa dal cancelliere impeiiale, Markward von Anweiler, un ministeriale del re, aveva immesso il vescovo di Torino nel possesso

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del castello di Rivalla: tenendolo per mano gli aveva fatto varcare la porta, alla presenza di tutta la corte vescovile.

Ma il vecchio vassallo Ulrico di Rivaita che parteggiava per il conte era rientrato nel castello subito dopo! Il vescovo andò a chiedere ad Enrico VI alla dieta di Borgo San Donnino il suo inter-vento (aprile 1187).

Ancora nel 1187, nell'autunno, il Re dei Romani decise una spedizione contro Umberto III di Savoia che evidentemente non s'era curato troppo della sentenza lanciata nel 1185 contro di lui. Riunì Enrico VI un esercito tornito al solito dai comuni lombardi; da Pavia dove avvenne il concentramento —■- e di dove il 17 set-tembre prendeva sotto la sua protezione il comune d'Alba con tutti i suoi abitanti ed i suoi beni — per Torino, si avviò verso la Valle di Susa. Nell'ottobre, pare, pose l'assedio al castello di Avigliana, lo prese dopo quindici giorni e lo distrasse. Ma non osò risalire la valle. Infatti il 24 ottobre già era a Torino ed al principio del novembre a Milano. O prima o dopo la spedizione, Enrico VI lanciò contro il Conte di Savoia una solenne condanna: Umberto III era messo al bando dell'impero, dichiarato decaduto di tutti i suoi feudi e naturalmente i suoi sudditi erano secondo l'uso prosciolti dall'ob-bligo di fedeltà.

Così l'impero sfruttava in questo momento l'alleanza di Milano e delia Lega Lombarda; invece Papato e Savoia erano dall'altra parte.

9- 11 dissidio tra papa ed imperatore e le sue ripercussioni nel -l'Italia occidentale

Urbano III cercò ancora durante il 1187 di uscire dalla difficile situazione in cui si trovava, rassegnandosi a tentare di riconciliarsi con l'impero. Ancora una volta le trattative fallirono. Allora il co-mune di Verona non volle più assumersi l'onere di ospitare la curia papale e questa si trasportò nel settembre del 1187 a Ferrara, forse avviata a Venezia. Il papa Urbano III morì appunto in Ferrara nell'ottobre seguente. I cardinali decisero di accostarsi all'impero, dando la tiara ad un amico di Federico Barbarossa. il cancelliere di Santa Chiesa, Alberto, che si chiamò Gregorio Vili.

Questi, sebbene dovesse attraversare il patrimonio matildino occupato da funzionari e presidi imperiali, da Ferrara si recò, per Bologna, Modena e Reggio, a Parma di dove si rivolse a Federico I

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IL "DISSIDIO TKA PAPA E0 IMPERATORE . 293

e ad Enrico VI in tono cordiale. Gregorio Vili si preoccupava infatti non tanto della vertenza patrimoniale con l'imperatore, quanto della rovina del regno di Gerusalemme avvenuta allora appunto, e della necessità di una nuova crociata. Ora si ebbe il ristabilimento dei buoni rapporti tra chiesa ed impero ed il papa potè riprendere la via di Roma. Giunto a Pisa, Gregorio Vili morì nel dicembre del 1187: al nuovo papa Clemente III toccò di conch.iude.re final-mente gli accordi con l'imperatore. Federico approvò l'accordo nel 1189 mentre era in procinto di partire per la crociata. Il papa riebbe il Patrimonio di San Pietro, ma dovette cedere a non poche impo-sizioni imperiali, sì da apparire sostanzialmente come il vinto.

Il iungo contrasto tra papato ed impero aveva però favorito la ripresa delle agitazioni nell'Italia superiore, dove il centro del mal-contento era naturalmente Cremona. Già nella seconda metà del 1186, sotto il governo di un podestà bresciano, Arderico di Saia, Cremona riuscì a conchiudere un'alleanza con Pavia- i pavesi pro-mettevano di aiutare i cremonesi se fossero venuti a guerra con i milanesi o con i piacentini (7 settembre 1186). II patto — in cai si faceva la riserva per la fedeltà all'impero — aveva valore per quarantanni. Anche Parma aderì all'accordo delle due vicine ci età e così si costituì un blocco antimilanese. La Lega Lombarda non poteva certo avere più alcuna vitalità: i due gruppi dovevano atti -rare a sé gli amici, gli interessati; il mondo comunale era spartito. Così Piacenza doveva inevitabilmente aderire a Milano; i marchesi Maìaspina invece aderirono alla Lega antimilanese. Nell'autunno del 1186 tra Piacenza ed il marchese Obero Maìaspina si combatteva animatamente: i Maìaspina abbatterono il castello di Trebucco presso Zavatarello, i piacentini lo ricostrussero e fortificarono; nel dicembre poi le milizie dei milanesi e piacentini risalirono la Val di Taro sino a Compiano e bruciarono alcuni villaggi dei Maìaspina.

Nell'aprile del 1187 Enrico VI, die veniva da una breve per-lustrazione nelle parti del Piemonte, dove aveva ad Asti fatto l'ac-cordo con Manfredo II di Salurzo per la Val di Stura, ed a Casale aveva concesso al prevosto d'Asti un diploma contro i sottrattoti dei feudi della sua chiesa, riunì a Borgo San Donnino una dieta per risolvere i contrasti tra i vari comuni. I piacentini pretendevano dai cremonesi Casteluuovo e Bocca d'Arda; i parmigiani chiedevano ai piacentini il riconoscimento dei loro diritti su Borgo San Donnino. La discussione davanti ad Enrico VI degenerò in una grande baruffa: cremonesi e parmigiani assalirono con le armi gli awersari comuni,

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sì che il Re dei Romani fu costretto a sua volta a ricorrere alle armi ed a cacciare di città i bollenti contendenti.

Un'altra controversia attirò nel 1187 l'attenzione di Enrico VI: il conflìtto tra Milano e Bergamo. Federico Barbarossa aveva tolto ai bergamaschi, per darli ai milanesi, la Gera d'Adda ed il corso della Semola. Ora i bergamaschi pretendevano la restituzione. Un conflitto adunque che minacciava l'esistenza della Lega Lombarda.

I milanesi presentarono la loro prolesta contro gli avversali durante un soggiorno di Enrico VI a Lodi nel novembre del 1187. Fu fissato un convegno delle due parti a Corno, ma i bergamaschi non intervennero ed in loro contumacia Enrico VI emise sentenza favore dei milanesi e solennemente vieta a Brescìa, a Verona, a Mantova, a Lodi di dare aiuto a Bergamo, sì che è da pensare che questo gruppo di città si atteggiasse a coailizione antimilanese,

II re Enrico si comportava ancora prudentemente tra i comuni per impedire questi raggruppamenti parziali. Così in Toscana ancora nei 1187. prima Firenze, poi Pisa e poi altre città riottennero, almeno in parte, la restituzione dei diritti loro ritirati nel 1185.

Alla fine del 1187 anche F.nrico VI attraverso le Alpi e raggiunse l'imperatore: in Italia rimase a sostituirlo il vicario ì imperiale Drushard di Kestenburg. Le relazioni reciproche dei comuni Ioni-bardi andarono peggiorando, sì che il papa Clemente III preoccupato dì ottenere in rutta Europa una situazione di tranquillità che permettesse ai principi ed ai feudatari di partecipare alla crociata che aveva bandito, si adoprò per riconciliare anche in Italia i conten-denti, Due cardinali, Pietro Dianìdi Santa Cecilia e Soffredo di Santa Maria in Via Lata, furono incaricati di ristabilire la pace in Lombardia. Ebbero subito un grande successo, la riconciliazione tra Genova e Pisa (7 luglio 1188) e poterono attendere con zelo ad altre vertenze. Anche Gerardo arcivescovo di Ravenna, nominato legato pontificio per la crociata, si adoprava allo stesso scopo.

Durante il 1188 la guerra tra Parma e Piacenza fu grave: al solilo quelli erano spalìeggiati dai marchesi Malaspina, questi dai milanesi; Pavia e Cremona erano alleate dei parmigiani. Sulla Riviera i piacentini avevano un alleato, il conte di Lavagna nemico dei Malaspina; anche Pontremoli ostile ai Malaspina era favorevole a Piacenza. Un tentativo di accordo era avvenuto nel 1187 per opera dei rettori della Lega Lombarda, riunitisi a Piacenza nel settembre per studiare la questione. Erano convenuti i rappresentanti di Milano, di Brescìa, Bergamo, Verona, Mantova, Bologna, Treviso, Vi-

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II. DISSIDIO TRA PAPA ED IMPERATORE 295

canza, Modena, Reggio, Novara, Vercelii. Ma durante le trattative, .Modena e Reggio si allearono con Parma e poi con Piacenza. Si interposero i due cardinali Legati, ma intanto si combatteva. Nel luglio del II58 i parmigiani con il marchese Moroello Malaspina entrarono in Vai di Taro, saccheggiarono e bruciarono i villaggi del Territorio piacentino. I piacentini li attaccarono e li respinsero, come narra la cantilena del cronista di Piacenza, Giovarmi Codagnello.

O quantam Jaudem nosfris, qaaarara quoque strigem Contulil ista dies ParrneuMbus! Undique cives Nostri letantur, congaudent et venerantur i-'actorem celi, qui conditor extitit evi: Parmense* vero tristantur cnm MumelJo.

Nel settembre del 1188 Creinona, Pavia, Reggio, Modena ed il marchese MoroelJo Malaspina ritornarono ad attaccare i piacentini che a loro voJra si vendicarono attaccando i parmigiani. Nel gennaio del 1189 i due cardinali riuscirono a ristabilire finalmente la pace; le varie parti prestarono giuramento ed i Malaspina vendettero a Piacenza i loro possessi di Val di Taro per 400 lire piacentine. T due cardinali si intromisero pure in altri conflitti comunali; tra Verona e Ferrara, tra Brescia e Pavia, poi nelle lotte dei partiti genovesi.

Cosi il papato approfittava dell'assenza di Federico I e di Enri -co VI per affermare la sua alta autorità nel mondo dei comuni.

Nelle regioni piemontesi a quanto pare regnava la pace. Il vec-chio marchese di Monferrato era partito, forse nei 1183, l'anno della pace, per la Siria, L'Oriente che certo l'aveva affascinato nella seconda crociata, aveva già portato via due figli a Guglielmo V: il maggiore, Guglielmo detto Lunga spada, eia diventato cognato del rr di Gerusalemme Baldovino IV nel 1176 e già l'anno seguente era morto; il più giovane, Raineri, aveva sposato Maria Commena figlia dell'imperatore Manueie I e con la sposa era perito nel 1182 nei torbidi di Costanrinopoli.

Guglielmo V si recò a Gerusalemme non per combattere gli mfedeli e neppure per pregare forse: intendeva aiutare il figlio po-stumo del suo primogenito e difenderne i diritti al regno ierosoli-mitano. Il giovane Baldovino fu infatti nel novembre del 1183 dallo zio Baldovino IV il Lebbroso proclamato collega nel regno col nome di Baldo vino V. Questi però morì già nel settembre nel 1186 ad Acri e gli successe Guido di Lusignano che aveva sposato Sibilla sorella di Baldovino IV.

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296 LA PACE DI COSTANZA E LA NUOVA POI.fTICA SVEVA NELL'ITALIA OCC.

La crisi del regno di Gerusalemme sorprese il marchese di Mon-ferrato laggiù: anch'egli ccmbatté alla battaglia di Hattin ed an-ch'esso cadde prigioniero del Saladino. L'anno seguente riebbe la libertà grazie all'intervento del figlio Corrado che,, partito di casa solo dopo il marzo 1186, dopo un nuovo breve ed avventuroso soggiorno a Costantinopoli aveva deciso di portarsi in Palestina. Corrado giunse in tempo per prendere parte attiva alla difesa delie ultime mine del regno e la sua difesa di Tiro fu davvero un'impresa gloriosa, ma anch'egli non doveva più come il padre, come i fratelli, rivedere la patria.

Il Monferraro rimase così affidato al marchese Bonifacio che doveva però a sua volta, pochi anni dopo, sentire l'attrazione del-l'Oriente.

10. La riconciliazione tra Slaufer e Savoia

Umberto III di Savoia, secondo l'obituario di San Giovanni di Moriana, morì il 4 marzo 1189 e fu sepolto ad Altacomba. Dei suoi ultimi rapporti con l'impero dopo il bando e la confisca, nulla sap-piamo. Enrico VI nell'estate del 1188 aveva fatto un giro in Bor-gogna e si era recato sino a Lìone, ma nulla sappiamo della sua attività nella regione e se ebbe contatti con il Conte dì Savoia.

Umberto III, che, a quanto pare, aveva così tranquillamente sfidato i fulmini imperiali, lasciava un erede minorenne, Toramaso. Quattro mogli aveva avuto Umberto III: Faidiva figlia de! conte di Tolosa Alfonso Giordano, poi Gertrude di Fiandra, quindi Cle-menza di Zahringen la moglie ripudiata di Enrico il Leone ed infine nel 1177 Beatrice figlia di Gerardo conte di Màcon da cui nacque nel 1178 circa quel figlio Tommaso che nascendo salvò la dinastia dallo spegnersi e la salvò poi di nuovo con la sua abilità politica.

Poiché Tommaso I era già maggiorenne nell'agosto del 1191 e non lo era ancora nel marzo del 1189, esso deve essere nato dopo il marzo 1175 e prima dell'agosto 1177. Il nome, probabilmente, tradisce una devozione speciale a Tommaso Becket arcivescovo di Canterbury assassinato da un cavaliere del re Enrico II PJantageneto il 29 dicembre 1170, e ben presto venerato non solo in Inghilterra ma anche in Francia, subito anzi dopo la morte, per le sue virtù taumaturgiche.

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LA RICONCILIAZIONE TRA STAOTE8 E SAVOIA 297

Come già era successo mezzo secolo prima per Umberto III, quando il padre suo Amedeo III era morto alla seconda crociata, anche per il nuovo Conte fu necessario organizzare una tutela e reg-genza: la composero la madre Beatrice di Màcoli con il vescovo di San Giovanni di Moriana ed il marchese Bonifacio di Monferrato che era cugino di Umberto III. Il marchese Bonifacio che nel gennaio ci compare a VercelH, si recò in Savoia alla morte del Conte: la sua presenza nel difficile momento, dati i rapporti con l'impero, era più che utile, era necessaria. Il 16 marzo ad Aiguebelle nella sua qualità dì tutore assistette ad un atto del giovane Conte a favore dell'ospi -zio del San Bernardo e vi diede autorità.

Soprattutto per risolvere la grave questione con l'impero, era necessario ai Savoia l'appoggio di Bonifacio di Monferrato. Fortuna-tamente, gli Staufer si trovavano in un momento imbarazzante, Fe-derico Barbarossa nella primavera del 1189 stava facendo gli ultimi preparativi per la crociata a Regensburg e l'il maggio saliva sulla nave che doveva portarlo per il Danubio a raggiungere l'esercito già in marcia. Enrico VI dopo avere assistito alla fine dell'aprile alla grande dieta in cui il padre gli aveva conferito solennemente il governo per il tempo della sua assenza, congedatosi da Federico, si era avviato verso la Borgogna; giunto a Basilea egli vi trovò il marchese di Monferrato che accompagnato dai due vescovi di San Giovanni di Moriana e di Aosta veniva ad intercedere per il nuovo Conte di Savoia.

Il Re dei Romani credette saggio assumere un atteggiamento prudente. Non abbiamo il diploma solenne che esso emanò per riti -rare i provvedimenti presi contro i Savoia, ma sappiamo che esso ricevette Tommaso I in grazia dell'impero e lo reintegrò nei suoi feudi e diritti. Però approfittò dell'occasione per costringere il Conte a rinunciare ad ogni diritto sul vescovado di Sfon ed infatti ancora da Basilea il 7 maggio 1189 Enrico VI investì il vescovo di Sion di tutti i diritti regali nel suo episcopato che venne a dipendere direttamente ed unicamente dall'autorità imperiale. Né bastò. Evi-dentemente per compiacere il vescovo di Aosta ed averlo favorevole, Tommaso I dovette, poco dopo, forse nel 1191, restituire alla sede augustana possessi e diritti che il vescovo pretendeva suoi: anche qui i Savoia erano adunque in ritirata. Così la vertenza con l'impero si chiudeva per i Savoia in completa perdita: era fallita tutta l'atti -vità di un secolo per sottomettere i tre vescovadi di Torino, di Tarentasia, di Sion.

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298 LA PACE DI C0STAN2A E LA NUOVA POLITICA SVEVA NELL'ITALIA OCC.

Non abbiamo nessun elemento per ammettere, eome spesso si è affermato, che Tommaso I accompagnasse il marchese Bonjfacio a Basilea. Il viaggio era un po' troppo lungo per un ragazzo. Il mar-chese al principio del giugno era di nuovo alla corte sabauda: il 12 giugno 1189 infatti assisteva « come tutore » ad un atto con cui il Conte concedeva alla chiesa di San Giovanni di Moriana quanto il padre suo aveva posseduto su una certa montagna e confermava le donazioni già fatte dai suoi predecessori.

Un viaggio che la tradizione dinastica imponeva invece al più presto al nuovo Conte era quello di Piemonte: occorreva riaffermare i diritti della Famiglia sul comitato e sulla marca di Torino. Tom-maso I attraversò quindi il Cenisio sotto la protezione del marchese di Monferrato e scortato da molti suoi vassalli. Il 15 giugno 1189 il conte di Savoia era già a Susa: nel chiostro di San Giusto, circon-dato da numerosi personaggi ecclesiastici e laici dei domini sabaudi dei due versanti alpini, l'abate di Breme, l'abate di Pinerolo, l'abate di Susa, l'abate di San Giusto, sigillò una salvaguardia a favore della Certosa di Losa, con il consiglio ed il consenso del suo tutore Bo-nifacto di Monf errato e della sua curia. Nel febbraio dell'anno se-guente nuovamente ricomparve il giovane principe a Susa e di nuovo poi nell'agosto del 1191: ora egli compariva munito di piena auto-rità, senza tutori: certo era uscito poco prima dalla minore età. Pure nel 1191 fece la solenne entrata nella valle di Aosta, per tenervi la tradizionale fournée giudiziaria.

Nel luglio del 1190 insieme con il marchese di Monferrato si recò il Conte di Savoia a Fulda alla corte di Enrico VI. Alla sua intercessione è da attribuire il diploma con cui il re Enrico il 30 giu-gno, a Liitzel presso Basilea, riceveva sotto la sua protezione l'abazia di S, Maria di Pinerolo, sottraendoìa ad ogni secolare podestà. Forse lo aveva portato il dovere di prestare l'omaggio al nuovo imperatore. Anche per Tommaso I però si ha l'impressione ch'egli non si sia mai confuso con gli altri vassalli imperiali nelle diete e nelle corti bandite da Enrico VI: sopra tutto la sicurezza delle sue valli alpine gli dava vivo il senso della dignità e della indipendenza.

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CAPITOLO XI

COMUNI E FEUDATARI IN PIEMONTE NELL'ETÀ DI ENRICO VI

1. La politica elei nuovo imperatore. - 2. L'espansione del comune di Asti ed i marchesi aleramici, - 3. La lotta di Asti con il marchese di Monferrato. - 4. La guerra attorno a Torino. - 5. Le relazioni di Vercelli e di Novara dopo la distruzione di Biandrate. - 6. Tortona e le vie commerciali tra il Po ed il mare.

l . L a politica del nuovo imperatore

La morte di Guglielmo II d'Altavilla avvenuta il 18 novembre 1189 aprì assai presto la questione della successione del regno di Sicilia. Enrico VI doveva preoccuparsi di difendere i diritti della sposa sua Costanza, che si considerava come legittima signora del regno siciLiano.

Ma i grandi signori siciliani, se non avrebbero avuto difficoltà a riconoscere i diritti di Costanza, la figlia postuma del grande Rog-gero II, non tardarono a mostrare ripugnanza a sottomettersi al principe tedesco che sarebbe stato il loro vero padrone. Perciò, d'accordo con il papa Clemente III, un gruppo numeroso di baroni elesse re il conte Tancredi di Lecce, figlio naturale di quel duca Roggero figlio del re Roggero II che era al padre premorto. Il nuovo re di Sicilia fu incoronato nella cattedrale di Palermo nel gennaio del 1190.

Che Enrico VI si rassegnasse a rinunciare al regno di Sicilia tanto desiderato, per cui aveva sposato Costanza più vecchia di lui di dieci anni, era cosa davvero inconcepibile. L'Italia meridionale era da tre secoli l'aspirazione degli imperatori del sacro romano impero, e sassoni e franconi e svevi: come rinunciarvi ora che ave-

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300 COMUNI E FEUDATARI IN PIEMONTE NELL'ETÀ DI ENRICO VI

vano davvero dei diritti da far valere? Già nella primavera del 1190 il maresciallo imperiale Enrico di Kalden, dalla Romagna ove si tro-vava, entrò nel Regno con un piccolo corpo di truppe tedesche; si spinse sin nelle Puglie, ma nell'estate i calori e le malattie più che la resistenza armata ebbero ragione dell'invasione tedesca.

Giunse intanto la notizia della tragica morte di Federico I avvenuta il 10 giugno 1190 nelle acque del Salef in Cilicia. Enrico VI vide ora ingrandire l'importanza della sua progettata spedizione in Italia: assumere la corona imperiale in Roma, liberare dall'usurpa-tore il regno di Sicilia e farsi incoronare in Palermo, formarono ora un programma unico. L'Italia era destinata a diventare un sicuro dominio degli Staufer. Legnano era un vago ricordo.

Il 6 gennaio del 1191 il nuovo imperatore scendeva dal Bren-nero a Bolzano: il 18 dello stesso mese teneva dieta a Lodi. Attorno ad Enrico VI si radunarono vescovi, feudatari, rappresentanti di comuni. Dopo tre anni di assenza dall'Italia, aveva ora l'imperatore da risolvere non poche vertenze, non pochi contrasti di comuni e di feudi. Dal Piemonte erano accorsi a Lodi il marchese di Monfer-rato, Bonifacio, il conte di Biandrate, Raineri, i vescovi di Asti e di Novara: così anche le questioni del Piemonte furono presentate ad Enrico VI.

Le linee direttive dell'atteggiamento di Enrico VI in tutte que-ste vertenze dell'Italia superiore non potevano non essere precise: appoggiare sì i vecchi e sicuri fedeli dell'impero, ma cercare di paci-ficare le parti, riconciliare i comuni, eliminare le cause di conflitti armati. In questo modo egli avrebbe potuto assicurarsi la possibilità di attingere alle forze militari e finanziarie del mondo comunale per provvedere ai bisogni delle spedizioni a Roma ed in Sicilia; Cle-mente III e Tancredi non avrebbero potuto sperare di trovare ap-poggi nell'Italia settentrionale.

Praticamente però, l'azione esercitata da Enrico VI nelle que-stioni comunali fu tale da mettere a repentaglio l'auspicata pace. L'imperatore parve prima rimanere fedele al gruppo Milano-Piacen-za, ma bisognoso, per la spedizione a Roma, di denaro, fu costretto ad accettare le offerte dei piacentini ed a dar loro in pegno Borgo San Donnino e Bargone per due mila lire piacentine, e di conse-guenza dovette sacrificare le aspirazioni dei parmigiani che diventa-rono freddi, anzi ostili. I rapporti di Enrico con il comune di Pia-cenza acquistarono il carattere di formale alleanza, stipulata appunto a Lodi; i piacentini si impegnarono ad aiutarlo nel ricuperare1 tutti

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LA POLITICA DEL NUOVO IMPERATORE 301

i diritti e possessi dell'eredità matildina. Anche i comuni di Lodi e di Corno ottennero in questo momento grandi concessioni da En-rico VI: il primo comune ebbe confermati tutti i suoi privilegi: il secondo ottenne la concessione di tutti i diritti regali sull'intero episcopato comense, compresivi anche Gravedona e Doraaso. Ma certo tali decisioni provocarono il malcontento di Milano. Si allon-tanava adunque Enrico VI dalla politica seguita dal padre suo, degli accordi con Milano? Vi era a temere?

E se ne ebbero prove maggiori, quando da Lodi, iniziando il viaggio verso Roma, l'imperatore e la consorte Costanza si arresta-rono a Cremona, proprio la città che aveva pochi anni prima attirato le ire del Barbarossa.

Già nel 1190 Enrico VI aveva mostrato viva simpatia per i cremonesi. I suoi rappresentanti in Italia, il maresciallo Heinrich von Kalden e Drushard von Kestenburg avevano ordinato ai cremo-nesi di abbandonare la costruzione di un castello e di attenersi alle prescrizioni anteriori di Federico Barbarossa, perché non fosse la cosa motivo di contrasto con i vicini comuni rivali. I cremonesi avevano ricorso in appello ad Enrico VI. Questi accolse con cordialità gli ambasciatori del comune ed accettò le loro spiegazioni: ritirò il divieto dei suoi funzionari che avevano agito sapendo che era sua volontà « totam Lombardiam in bona pace conservare », ma scrisse ai cremonesi pregandoli affinchè « de intuitu nostri et prò bono pacis » abbandonassero la costruzione del castello, osservando « Vos igitur ea que vobis expediunt, in hoc negotio prudenti consilio agere potestis ». Si ritornava adunque alla prima politica di Federico Bar-barossa: quella che aveva sacrificato Crema ai cremonesi! Ora nel suo soggiorno in Cremona, Enrico VI acconsentì alle richieste fat-tegli per il diritto di battere moneta.

Continuò quindi il viaggio verso Roma; ad ogni tappa comuni e feudatari chiedevano ed ottenevano concessioni nuove o conferma delle vecchie. Bologna ebbe il diritto di zecca, Ferrara, il ritiro del bando in cui era stata messa da Federico Barbarossa, Obizzo d'Este riebbe la contea di Rovigo, Rambaldo conte di Treviso riebbe la conferma del suo comitato. E naturalmente le concessioni non erano gratuite.

Dall'Emilia, per Prato e Lucca, Enrico VI si portò a Pisa, avendo bisogno di intendersi con questo comune per averne in aiuto la flotta nella spedizione di Sicilia. Già nel settembre del 1190 aveva confermato i privilegi del comune pisano e promesso piena franchigia

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iiTA DI ENRICO VI

doganale nell'isola; ora (1" marzo 1191) riconfermò il diploma con-cesso ai pisani nel 1162 da Federigo Barbarosas per la guerra contro i genovesi e promise loro la terza parte del tesoro dei re normanni come premio dell'aiuto che da essi si riprometteva: la flotta pisana però avrebbe preso il mare solo quando l'esercito imperiale fosse comparso nel Regno. Tali accordi con Pisa non impedirono che Enrico VI inviasse a Genova ambasciatori a chiedere anche la loro alleanza ed a promettere « multa maximaque ». Da Genova non si aderì subito: si accontentarono di inviare a loro volta ambasciatori che vedessero un po' che cosa promettesse l'imperatore. Solo alla fine del maggio, quando già era accampato presso Napoli, Enrico VI sigillò un solenne diploma a favore dei genovesi: confermava le vecchie consuetudini, i vecchi privilegi, i diritti sulla marca e sul comitato, inoltre concedeva il possesso di Monaco, del castello di Gavi ed in Sicilia prometteva Siracusa e la Val di Noto (30 mag-gio 1191).

La marcia su Napoli era incominciata felicemente. La incoro-nazione imperiale era avvenuta il 15 aprile: il nuovo papa Cele-stino III, successo pochi giorni prima a Clemente III, vi si era rassegnato, dì malavoglia però. La coppia imperiale si era fermata pochi giorni a Roma dopo la solenne cerimonia in San Pietro: il 29 aprile già Enrico VI e Costanza con forte nerbo di truppa attra-versavano il Garigliano. Ma Napoli oppose una vivace resistenza; la flotta pisana fu sconfitta da quella siciliana; l'esercito tedesco nei calori estivi si riempi di ammalati ed Enrico VI anch'esso ammalato dovette togliere l'assedio già il 24 agosto e ritirarsi rapidamente verso il nord; peggio poi successe a Costanza, che essendosi spostata auda-cemente sino a Salerno, venne fatta prigioniera dalla popolazione e consegnata ai re Tancredi. La flotta genovese partita da Genova solo alla metà dell'agosto, giunse nel golfo di Napoli dopo il disastro dell'esercito tedesco e riprese allora subito la via del ritorno.

Quando nell'ottobre ricomparve nell'Italia superiore, Enrico VI trovò il mondo comunale in subbuglio. Treviso era in lotta con Feltre e Belluno; Faenza con i conti Guerra, Ferrara con Mantova, Piacenza con Parma, Verceìli con Novara, Brescia con Bergamo, Milano con Cremona, Asti con il marchese di Monferrato, il vescovo di Torino con i grandi feudatari della regione.

Infatti, mentre Enrico VI era sotto Napoli, una coalizione di comuni si era formata contro la fazione milanese: vi erano Cremona, Parma, Pavia, Lodi, Moderna, Bologna, Ferrara, Reggio, Bergamo.

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LA POUTrCA DEL NUOVO IMPERATORE

303

La lotta più aspra si combatte tra Bergamo e Brescia; un esercito di cremaschi e di altri collegati accorse ad attaccare i bresciani, mentre milanesi e piacentini si avanzavano a saccheggiare il terri-torio di Bergamo. I cremonesi il 7 luglio 1191 vennero sconfitti in grande battaglia a Ponte sull'Oglio; terribili furono le perdite, molti i prigionieri, molti gli annegati nel fiume. Quella giornata fu per molto tempo ricordata nella regione: « la giornata della Malamorre ».

Ma al ritorno da Napoli, Enrico VI, anziché insistere in una politica di prudenza e di pacificazione, diede alla sua condotta un carattere ancora più accentuato di simpatia per Cremona e per i comuni che ad essa facevano capo. Proclamò la pace tra Brescia, Cremona e Bergamo ed impose ai bresciani la liberazione dei cre -monesi catturati alla « Malamorte ». Poi, segretamente si accordò a Pavia con i rappresentanti di Cremona: avrebbe loro abbandonato Crema e la cosidetta « Insula Fulcherii », riservandosi di rendere pubblicamente nota la concessione appena le condizioni politiche lo permettessero; allora avrebbe immesso il comune amico nel possesso di Crema e di tutti i luoghi elencati enll'accordo, dandone solenne investitura. La pubblicazione dell'accordo doveva avvenire entro due anni « aut antea si prospera domino imperatori successerint ». Evi-dentemente occorreva che Enrico VI trionfasse in Sicilia: solo allora avrebbe potuto imporre la sua volontà ai comuni del gruppo mila -nese. In compenso di tale concessione Cremona versava al depau-perato tesoro imperiale tremila lire imperiali; se Enrico VI « morte praeventus » non avesse potuto fare ia consegna, avrebbe dovuto versare la somma di lire mille ed intanto dava in pegno ai cremonesi Guastalla e Luzzara (25 novembre 1191).

Volle però l'imperatore organizzare nell'Italia superiore un blocco di comuni capace di resistere a Milano ed ai suoi aderenti. Il 24 settembre il marchese di Monferrato si trovò con i rappre-sentanti di Pavia, di Cremona e di Bergamo nel castello dì Breme e combinò un accordo difensivo contro qualsiasi assalitore, ma l'ac-cenno esplicito a Milano mostra quale fosse il programma dell'ac-cordo. Al patto avrebbero potuto anche aderire Corno e Lodi prima della fine dell'anno. Infatti l'accordo definitivo del marchese con i cinque comuni fu fatto nel dicembre dello stesso anno a Milano, nei giorni in cui in Milano eravi Enrico VI e certamente sotto la sua direzione. L'imperatore voleva adunque veramente appoggiare alla potenza dei grandi feudatari .... (due righe ommesse)

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304 COMUNI E FEUDATARI IN PIEMONTE NELL'ETÀ DI ENRICO VI

accordi con Genova, facendo molte promesse; a Milano riconciliava vercellesi e novaresi; preparava la pace tra bresciani e cremonesi, rinnovava l'alleanza con Comò, estendendo a quel comune i diritti dati dalla pace di Costanza ai comuni della Lega, concedeva al co-mune di Pavia non solo il diritto di eleggere liberamente i consoli, la giurisdizione inferiore, il libero commercio in tutta Italia, ma anche le rive del Ticino ed i ponti su questo fiume tra Pombia e Pavia, ed elencava le 98 terre che dovevano essere sottoposte a Pavia, comprendendovi Vigevano (7-8 dicembre 1191). E questo aveva ca-rattere antimilanese: considerava adunque Enrico VI come il suo peggior nemico quello che era stato per alcuni anni il baluardo del padre? Come si lega questo fatto con le vicende di Napoli dei mesi precedenti? Non abbiamo di ciò notizia. Erano presenti gli arci-vescovi di Milano e dì Ravenna, i vescovi di Vercelli e di Novara, il conte di Biandrate e tutta la corte.

2, L'espansione del comune di Asti ed i marchesi deramici

La regione pedemontana appariva, come si è visto, all'inizio del regno di Enrico VI del tutto pacifica ed ossequiente all'autorità imperiale. Per quanto non sia facile precisare, l'impressione è che i patti di Costanza venissero interpretati nel modo più rigido. I due castellani tedeschi di Annone e di Gavi erano i veri dominatori del Piemonte: pur non disponendo di armati, controllavano, sindaca-vano, giudicavano nelle vertenze. Ed essi erano coadiuvati energica-mente dai capi delle grandi famiglie feudali, gli Aleramici, i Mala-spina; cosi pure a nord del Po il feudalismo si conservava fedele con i conti di Biandrate, i conti del Canavese, i marchesi di Roma-gnano. Ma soprattutto energici assertori della sovranità imperiale erano i vescovi che ci appaiono sempre pronti alle chiamate ed agli ordini dell'imperatore.

La pace stabilita a Costanza giovò assai alla prosperità ed allo sviluppo politico ed economico dei comuni subalpini; specialmente il comune d'Asti, data la posizione geografica in Val di Tanaro all'in-crocio di notevoli vie commerciali, si trovava nelle condizioni di trarre grande profitto dalla situazione politica. I mercanti astigiani nella seconda metà del secolo XII appaiono attivi così nei mercati e nelle fiere della Francia, come nei porti Liguri, specie a Genova ed a Savona, La pace imperiale non era però sufficiente a proteggere

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L'ESPANSIONE DEL COMUNE DI ASTI ED I MARCHESI ALERAMICI 305

gli interessi del commercio astigiano. Qualunque valle dell'Appen-nino volessero risalire per giungere al mare, essi urtavano contro questa o quella stirpe dei marchesi aleramick i domini del vescovo d'Asti soltanto sino ad un certo punto potevano giovare. Dovun-que controlli, pedaggi, impedimenti fastidiosi, se non gravi, per il commercio.

Attorno al 1190 pare che l'attenzione degli astigiani si concen-trasse soprattutto sopra un dominio aleramico che si avanzava sul Tanaro, fin quasi alle porte di Asti: il comitato di Loreto, compreso tra il Tanaro ed il Belbo. Quando compare per la prima volta questo comitato? Solo nel 1065 la contessa Berta di Torino, consorte del margravio aleramico Tete, comprese in una donazione alla Chiesa d'Asti la corte di Loreto e la corte di Castagnole insieme con quelle di Montaldo e di Rocca di Flesio: tuttavia nelle diverse liste suc-cessive dei possessi della chiesa d'Asti queste corti non figurano. Più tardi il castello di Loreto ritornò nelle mani degli aleramici: in esso abitava Bonifacio del Vasto quando fece testamento nel 1125. Poi si parla di « comitatus Loreti », così come negli atti episcopali astigiani del secolo XII si parla di « comitatus qui dicitur Serre-longe », di « comitatus et receptus Pollenzii », di « Caprile cum suo comitatu », espressioni circa il cui valore molto vi sarebbe a discutere.

Nel 1149 il comitato di Loreto appare spartito tra i figli di Bonifacio del Vasto: il marchese Ottone detto il Bovaro possedeva almeno metà del comitato se appunto in quell'anno, in conseguenza ad avvenimenti che ignoriamo, forse una guerra come si disse, il marchese Ottone cedette al comune d'Asti una metà del castello, della villa e del territorio di Loreto, riprendendo però detta metà in feudo a determinate condizioni. Ottone del Vasto avrebbe infatti pagato fodro in Asti per il comitato di Loreto, per venti lire; avrebbe combattuto con Asti e per Asti con quattro cavalieri per tre mesi; avrebbe concesso piena franchigia per gli astigiani dai pedaggi di tutto il suo dominio e la stessa franchigia avrebbe ottenuto dal fratello suo Enrico marchese di Savona. Per quanto riguardava il feudo di Loreto, se il marchese Ottone fosse morto senza figlio, gli sarebbe successo nelle stesse condizioni il fratello Enrico, se no, Ugo, se no, Guglielmo.

II marchese Ottone aveva anche altri possessi: così aveva ancora dei possessi in Sezzè, per i quali non aveva obblighi verso Asti; così lo troviamo negli anni 1140-1155 negli accordi con Genova insieme con i fratelli Manfredi ed Enrico, con i quali aveva forse anche dei

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306 COMUNI E FEUDATARI IN PIEMONTE NELL'ETÀ DI ENRICO VI

beni non divisi. Se Ottone il Bovaro possedesse tutta la contea di Loreto o no, è cosa da discutere: ma forse è da pensare di no. Loreto era stato la sede del padre Bonifacio del Vasto e come Ottone aveva diritti di compartecipazione su altre zone della marca, così anche i fratelli suoi dovettero avere parte del comitato di Loreto. È più probabile che in uno di quegli acconciamenti che si dovettero fare, le due metà del comitato di Loreto siano toccate ad Ottone il Bovaro ed a Bonifacio di Cortemilia e che alla morte di Bonifacio, verso il 1188, gli eredi degli altri fratelli Manfredo di Saluzzo, Anselmo di Ceva, Enrico di Savona, Guglielmo di Busca abbiano diviso la sua metà, venendo così ad avere un ottavo del comitato. Come sia andato diviso l'insieme dei domini di Bonifacio di Corte-milia ignoriamo: tracce però della spartizione avvenutane tra le altre quattro branche aleramiche esistenti, Saluzzo, Ceva, Savona, Busca, non mancano.

Bonifacio marchese di Cortemilia aveva però ereditato dal fra-tello Ottone il Bovaro —-morto verso il 1188 — la sua metà del comitato di Loreto e per questo non potè non rinnovare con il comune di Asti gli impegni feudali del fratello. Contrasti con il comune astigiano per Loreto pare non siano mancati: è da tenere presente una notizia dataci da Guglielmo Ventura — che dice di avere attinto « ex antiquis scripturis » di un attacco e della presa di Castagnole avvenuta li 6 febbraio 1177. Comunque siano andate le cose, è certo che alla morte di Bonifacio, quella metà del comitato di Loreto legata dall'obbligo feudale verso Asti, passò per eredità al nipote di Bonifacio, Manfredi Lancia, del ramo dei marchesi di Busca. Ed ora la proprietà del comitato di Loreto fu così ripartita: Manfredi Lancia possedeva 8/16 del comitato, per l'eredità dello zio Ottone il Bovaro ed 1/16 per l'eredità dello zio di Bonifacio di Cortemilia; il fratello suo Berengario aveva pure 1/16, Manfredi di Saluzzo aveva 2/16, i marchesi di Savona, Enrico ed Ottone del Vasto, avevano 2/16, i marchesi di Ceva pure 2/16, tutte particelle dell'eredità di Bonifacio di Cortemilia. Di fronte al comune di Asti il principale rappresentante della stirpe aleramica era adunque il marchese Manfredi Lancia di Busca, che pare avesse abbandonato Busca al fratello Berengario ed avesse per sé tenuto la zona di Do-gliani e delle Langhe.

La figura di Manfredi Lancia ci è ben nota attraverso i famosi ironici versi scagliatigli contro da un trovatore provenzale, Peire Vidal. Così, ad un dipresso, gli diceva il poeta:

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L'ESPANSIONE DEL COMUNE DI ASTI ED I MARCHESI ALERAMICI 307

Lancia Marchese, povertà e miseria — Vi procurano dolore e mala vita, — E siete come il cieco che piscia sulla via, — Poiché ha perduto la vergogna ed il senno; — Più sovente vendete castelli e possessi — Che non venda una vecchia galline e capponi, — E se anche foste libero, ora siete servo senza dubbio.

È vero che il marchese Lancia che era abile anche lui a fare coblas e sirventes e causas, aveva scagliato versi feroci contro il Vidal, per porre in ridicolo la sua sciocca ambizione e la vanità ridicola usata nello sposare una greca che sì diceva nipote del basi -leus, nientedimeno, di Costantinopoli.

E così gli aveva detto:

Imperatore abbiamo di tal maniera — Che non ha senno, né sapere, né memoria: — Un uomo più briaco non si sedette mai in trono, — Né più vile non portò scudo e lancia, — Né più fiacco non calzò speroni, — Né più dappoco non fece versi e canzoni, — Nulla è da meno, non più che pietra, non lancia, — Una spada voglio che pel capo lo ferisca, — Dardi d'acciaio voglio che gli buchino la pancia, — Chiodi voglio che gli cavino gli occhi. — Poi gli darem del vino, invece di onore, — Un vecchio cappello di scarlatto senza cordoni — E sua lancia sarà un lungo bastone. — Poi potrà andar sicuro di qua in Francia.

Ma i sarcasmi di Peire Vidal erano forse più amari: colpivano l'angoscioso decadere di questo feudatario discendente da così illustre progenie e costretto a vendere i castelli degli avi per pagare i debiti contratti con i mercanti di Asti e di Alba.

Manfredi di Busca, soprannominato Lancia, non sappiamo per-ché, forse per differenziarlo dal cugino Manfredi di Saluzzo, già nel 1168 vendeva una terra presso Dogliani, nel cui castello egli abitava, a certi suoi vassalli di Gorzegno avendone in cambio del buon danaro. Nel 1180 impegnava, se non vendeva, i suoi diritti sul castello di Busca a Manfredi marchese di Saluzzo e nel 1187 allo stesso impi-gnorava per 1150 lire genovesi il castello di Dogliani. Di altri con-tratti di mutuo fatti da Manfredi Lancia abbiamo traccia: nel 1187 aveva preso a mutuo da alcuni albesi ben 1033 lire genovesi, dando in pegno i suoi diritti su Loreto; nel 1191 vendeva dei boschi nel territorio di Cortemilia a lui passati per l'eredità dello zio Bonifacio.

Il morso di Peire Vidal, di vendere castelli più facilmente che non faccia di polli e di capponi una contadina, era dunque giusti-ficato. Ma forse Manfredi Lancia era vittima solo di una scarsezza di redditi per la povertà della parte spettatagli, ed in genere era un esempio della crisi economica del feudalismo piemontese in questa fine di secolo, mentre il rialzo dei prezzi causato dallo svilupparsi

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della vita commerciale deprezzava i censi fissi delle terre feudali e costringeva i feudatari ad indebitarsi od a vendere quando mancas-sero di altri redditi, come stipendi imperiali e rapine di mercanti.

L'assenza dall'Italia di Federico Barbarossa e del figlio Enri -co VI, poi la scomparsa luttuosa del primo e la disgraziata spedi-zione di Enrico VI nell'Italia meridionale resero possibile al comune d'Asti tra il 1190 ed il 1191 una vigorosa affermazione di fronte alle dinastie aleramiche. Può essere che la spartizione delle terre del marchese di Cortemilia, Bonifario, poco prima scomparso, abbia portato a contrasti gravi, a vere guerre, di cui non abbiamo notizie precise; ma l'entità della vittoria degli astigiani appare dai trattati che in quegli anni seppero imporre ai loro avversati.

Nel 1190 Guglielmo marchese di Ceva cedette ad Asti i due castelli di Montezemolo e di Murialdo a lui toccati per la successione del marchese di Cortemilia, e li riprese in feudo dal comune. Ma in realtà Asti ed il marchese stringevano una vera alleanza: il marchese di Ceva prendeva impegno di difendere gli astigiani in tutti i suoi domini, di esentarli da qualsiasi pedaggio od altro tributo, ottenendo loro analoga concessione da parte dei suoi consorti; non avrebbe fatto accordi, per vendita o per cessione, con i suoi consanguinei per le terre dell'eredità del marchese di Cortemilia senza consenso dei consoli d'Asti; avrebbe comperato una casa in Asti del valore di cento lire ed avrebbe pagato fodro per lire trecento; in tempo di pace avrebbe dovuto abitare in Asti per due mesi all'anno con due cavalieri, ed in tempi di guerra con dieci cavalieri. Se gli astigiani avessero radunato l'esercito, il marchese vi avrebbe partecipato con dieci cavalieri e duecento fanti per un mese a sue spese. A sua volta gli astigiani avrebbero dovuto aiutarlo contro tutti i suoi ne-mici, aiutarlo a ricuperate le terre che avesse perso, assistendolo con venti cavalieri e duecento fanti.L'anno seguente (12 maggio 1191) fu il marchese di Savona, Enrico del Vasto, quello che venne ad accordi con Asti. Cedette al comune e riebbe in feudo tutto quanto aveva avuto dalla successione di Bonifacio di Cortemilia, ed in Cortemiglìa ed altrove e specialmente il sedicesimo del comitato di Loreto e di Castagnole e così pure quello che possedeva in Lequio. Anche Enrico del Vasto o di Carretto, come ora si incominciava a chiamare, strinse patti di -- _-.„ ;i «vM-nune astigiano: sarebbe diventato cittadino, com-

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L'ESPANSIONE DEL COMUNE m «.. __

mesi ogni anno con due cavalieri e tre arcieri a cavallo. Uguali obblighi avevano verso di lui gli astigiani, non avrebbero pagato però tributi e pedaggi nel territorio del marchese, se non 'à vecchio pedaggio della vecchia via, per Savona si capisce.

Pochi giorni dopo anche il marchese di Saluzzo, Manfredi TI, venne ad accordi con Asti: cedette al comune tutti i diritti che aveva in Romanisio (vecchia corte episcopale che sorgeva tra Stura e Grana a pochi chilometri dal luogo dove poi sorse Fossano) in Castiglione, in Saluzzo, riavendoli però in feudo, con l'obbligo anche di far giu-rare il patto dalia consorte sua, la contessa Adelasia, e da tutti i suoi vassalli e rustici dei tre luoghi, che avrebbero dovuto pagare ogni anno il fodro al comune d'Asti.

Anche il marchese di Saluzzo stipulò un trattato con Asti: si obbligò a non imporre ai cittadini e sudditi del comune nessun pedaggio od altri tributi se non il vecchio e consueto pedaggio; ad aiutare il comune nelle sue guerre con dieci cavalieri e dieci arcieri a cavallo, esclusi però i conflitti eventuali con il marchese di Mon-ferrato. Analoghi impegni prendevano gli astigiani di aiutare Man-fredi II. Qualche accenno ai motivi di conflitto qui troviamo: il marchese doveva restituire ad un cittadino di Asti, il prezzo del riscatto imposto, doveva pagare i suoi debiti verso gli astigiani se-condo la sentenza dei consoli d'Asti; doveva liberare gli astigiani imprigionati, doveva consegnare Solere ai consoli perché potessero mettere d'accordo il Marchese ed i castellani, così doveva restituire ai castellani di Manzano, di Sarmatorio e di Monfakone tutti i feudi ed allodi che possedevano un mese prima che incominciasse la guerra.Si può dunque pensare che Asti ad un tempo si fosse trovata in lotta con i marchesi di Saluzzo, di Ceva, di Savona. Per quanto riguardava gli Aleramici di Ceva e di Savona il conflitto concerneva l'eredità di Bonifacìo di Cortemilìa. Aveva questi stipulato patti con Asti che noi non conosciamo? Probabilmente sì, e perciò Asti pre-tendeva di essere indennizzato dai suoi eredi. Ma il conflitto più grave era, pare, quello con Manfredi II di Saluzzo, e probabilmente la questione era quella dei signori di Sarmatorio, alleati di Asti, che avevano combattuto contro il marchese ostacolando le sue aspirazioni sui Solere, su "Verzuolo ed avevano protetto i vassalli, i signori di Saluzzo, minacciati dal marchese. Corollari del trattato di maggio furono due accordi conchiusi il 1° giugno ed il 23 ottobre dello stesso anno da Manfredi II con i signori di Sarmatorio. In tal modo il comune astigiano salvò i signori di Sarmatorio e tutti i loro diritti

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e poteva dire di aver conseguito una notevole vittoria. Le tre dinastie avevano dovuto subire i suoi patti, acconsentire alla sua alleanza che sapeva di protezione e di predominio. Ora Asti era riuscita a ren-derli vassalli per qualche parte dei loro domini e ad esonerare i propri mercanti dai pedaggi cosi di Val di Stura, verso la Francia, come di Val Tanaro ed affluenti, verso il mare di Genova,

3. La lotta di Asti con il marchese di Monferrato

Bonifacio di Monferrato non pare essersi intromesso nel con-flitto di Asti con gli aleramici del Vasto: ma la riserva di Man -fredo II che escludeva il dover aiutare Asti contro il marchese di Monferrato ci prova che questi era in rotta con il comune,

II marchese Bonifacio, sebbene il fratello Corrado morisse solo nel 1192, e non troppo prima anche il padre Guglielmo VI, tutti e due nella lontana Siria, già dal 1188 era rimasto solo nel governo del marchesato di Monferrato. Ha probabilità l'ipotesi che forse nascesse attorno al 1150 ed è probabile anche ch'egli sposasse, prima del 1179 una figlia di un marchese del Bosco: il figlio Guglielmo era già maggiorenne nel 1191. Valoroso, abile e generoso lo descrive più di un trovatore capitato in questi anni nei castelli del Monferrato.

Peire Vidal così elogiava il marchese Bonifacio:

Tanto bene hanno detto del Marchese — Dei giullari vagabondi e chiacchie -roni, — Ma tutti sono veritieri — Che io non so cosa dirne di più: — Peto sua è Valenza (suo è il valore) — Dove il buon pregio nasce ed incomincia — E vi rinnova il valore — E ne fa dire vera lode.

Famosa è l'epistola che Rambaut de Vaquekaz indirizzava in questi anni al marchese per rammentargli le imprese romanzesche di gioventù insieme intraprese:

Signor marchese, io non voglio tutte ricordarvi — Le giovanili imprese, che prima imprendemmo a fare, — Perché temo che ci si potrebbe imputare male — A noi che gli altri dovremmo ammaestrare; — E tuttavìa i fatti furono cosi illustri —• Che ad un giovane non potrebbero riuscir meglio; — Perché il primo punto per un giovane nobile è scegliere — Quel che voglia: se gran pregio procurarsi o rinunciarvi.

Cosi faceste voi, signore, che voleste tanto alzare — La vostra valentia fin dal principio — Che voi e me faceste dappertutto elogiare, — Voi come signore e me come baccelliere.

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LA LOTTA DI ASTI CON IL MARCHESE DI MONFERRATO 311

E poiché è duro perdere e respingere — Signore, un amico, che si deve tener caro, — Voglio raccontarvi l'amicizia nostra e rinfrescare — L'im-presa che facemmo per Saldina di Mar — Che la togliemmo al marchese, a cena, — Al Malaspina della più alta loggia; — E poi la deste a Ponset d'An-guiler — Che moriva nel letto, per amore di lei. — E ricordatevi di Aimo-netto il giullare —• Quando a Montaldo venne ad annunciare — Che Gia-comina In volevano condurre — In Sardegna, per maritarla suo malgrado. — E voi steste un po' a sospirare — E vi r icordaste come essa vi diede un bacio, — Congedandosi, quando vi pregò tanto dolcemente — Che dal suo zio la voleste difendere, — Che le voleva a torto portar via l 'eredità. —• E voi faceste cinque scudieri salire a cavallo — (Fu il meglio che voi sapeste fare) — E cavalcammo, dopo la cena, nella notte, — Voi, Guidotto ed Ugo-netto del Far — E Bertaldo, che bene ci seppe guidare; — Ed io stesso, che non voglio dimenticarmi, — Io la tolsi al porto, mentre l'imbarcavano. — Ed il grido si levò per terra e per mare, — E ci inseguirono pedoni e cava -lieri; — Grande fu l'incalzo, e noi ci sforzavam d'andare — E credevamo già di essere sfuggiti a tanta gente, — Quando quelli di Pisa ci vennero ad assalire.

E quando noi vedemmo davanti a noi passare — Tanti cavalieri, un cavalcar così serrato — E tanti usberghi e tanti begli elmi splendenti, — Tante bandiere al vento ondeggiare — Ci nascondemmo, tra Albenga e Finale; — Di qui udimmo da più parti risuonare — Corni, trombe e tanti segnali gri -dare: — Se avemmo paura, non occorre chiederci.

Due giorni stemmo senza bere e mangiare; — Quando venne il terzo, che credemmo di poter andare, — Noi incontrammo, al passo di Bellostare, — Dodici ladroni che eran 1! per rubare — E non potevam consiglio prendere né dare, — Perché a cavallo non si poteva attaccare. — Ed io a piedi con essi m'azzuffai — E fui ferito di lancia al collaretto — Ma io ne ferii tre o quattro, mi pare — Sì che tutti costrinsi a voltar il dosso; -— E Bertaldo ed Ugonetto del Far — Mi videro ferito e vennero ad aiutarmi — E poiché fummo in tre, facemmo il passo sgombro — Dei ladroni, sì che voi poteste passare — Con sicurezza. E dovreste ricordarvi — Quando noi desinammo allegramente, senza molto mangiare! — Solo con del pane, senza bere e senza lavarci.

Alla sera venimmo presso il signor Guercio a Poggio Carreto — Che ci fece tal festa e tanto ci volle onorare — Che persin la figlia sua donna Aigleta dal ridente viso — Se aveste voluto, avrebbe messo a letto con voi. — Voi al mattino, come signore e gran barone — Voleste l'ospite ben guiderdonare— Che a suo figlio deste da sposare Giacomina — E le faceste ricuperar tuttoil comitato — Di Ventimiglia, che doveva toccare — A Giacomina per lamorte del fratello suo — Malgrado dello zio che aveva pensato sbalzamela.— Poscia voleste Aigleta maritare — E la deste a Guido da MonteiI Ademar.

E se io volessi tutte dire e contare — Le onorate imprese che vi ho visto compiere, o signore, — Ci potrebbe ad ambedue venir la noia — A me del dire, a voi dell'ascoltare. — Più di cento donzelle vi ho visto maritare — A conti, a marchesi, a baroni d'alto lignaggio — Che disgraziate sarebbero state

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e non avrebbero saputo che fare — Che con nessuna, la giovinezza vi fece peccare.

Cento cavalieri vi ho visto arricchire — E cento altri distruggere e cacciare, — I buoni sollevare, i falsi, ì cattivi abbassare. — Nessun lusingatore non vi piacque mai. — Tante vedove, tanti orfani consigliare —■ E tanti meschini vi ho visto soccorrere — Che in Paradiso vi dovrebbero condurre, ■— Se per mercé alcun uomo dove entrarci — Che con mercé voleste sempre reg-gere, — Che mai a nessun uomo, degno di ottener mercé — Se ve la chiese, non la sapeste negare — E se alcun vuoi dire e contare il vero -— Alessandro vi lasciò la sua liberalità — E l'ardire Rolando ed i dodici pari — Ed il prode Berardo galanterìa ed il genti! parlare. •— Nella vostra corte dominano tutti i bei portamenti -— Doni e dortneamenti, bel vestire e belle armi — Trombe e giochi e viole e canti...

Bella figura di cavaliere ci addita nel marchese Bonifacio il suo non disinteressato cantore: ma Bonifacio di Monferrato per difen-dere il suo stato dovette essere e fu come prode guerriero così abile politico.

Il conflitto con Asti pare essere sorto per verità già intorno al 1186 ed essersi imperniato sopra la questione dei marchesi d'Incisa. Già si è visto come fossero comparsi in Piemonte dopo il 1160 i due figli del tragico Bonifacio d'Incisa, il primogenito di Bonifacio del Vasto, e come forse con l'aiuto dell'imperatore riuscissero a ricuperare i domini paterni: Alberto ed Enrico erano ancora in vita, il primo verso il 1188, il secondo verso il 1186. Piccolo era il loro dominio, schiacciato tra Asti ed il più potente marchese di Monferrato.

Alberto d'Incisa tra il 1187 ed il 1188 cedette al marchese Bonifacio il castello di Montaldo — quello di cui parla Rarnbaldo di Vaqueiraz? — ed il marchese di Monferrato si affrettò a farsi riconoscere il nuovo possesso da Enrico VI, ma probabilmente ridiede il castello in feudo all'Incisa. All'espansione monferrina si oppose Asti, forse in nome di diritti prima assunti verso di esso dagli Incisa stessi. II marchese Bonifacio — costretto con le armi? — dovette comparire in Asti e rinunciare a tutti i diritti che aveva su Montaldo (26 agosto 1188).

La questione non fini lì. L'anno seguente, Alberto II d'Incisa, successo al padre Alberto I, catturò « instinctu diabolico » due amba-sciatori genovesi che andavano Oltremonti, ai re di Francia e d'In-ghilterra, per l'imminente Crociata e li volle costringere a pagare il riscatto. Alla notizia, Genova, Asti ed Alessandria prepararono una spedizione contro l'oltracotante barone che dovette, per evitar di peggio, restituire i suoi prigionieri. E chi ne trasse profitto fu

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LA. LOTTA DI ASTI CON IL MARCHESE 01 MONFERRATO 313

ora Àsti: già nel 1190 Alberto II ed i suoi fratelli Guglielmo, Manfredo... le sorelle... la madre, la contessa Domicella, come tutrice dei figli ancora minori, cedevano al comune d'Asti i castelli di Mon-taldo e della Rocchetta, riavendoli in feudo.

Ma ora toccò al marchese Bonifacio di protestare: si rivolse ad Enrico VI alla sua venuta in Italia nel 1191 ed accusò gli Incisa di essere « publici aggressores viarum », di essere incorsi nel delitto di tradimento per avere violato non sappiamo quali obblighi presi verso di lui e poiché gli Incisa non si presentarono a discolparsi davanti l'imperatore, questi da Bologna, 1*11 febbraio 1191 li mise al bando dell'impero ed assegnò tutti i loro domini, allodiali e feu-dali, al marchese di Monferrato, ordinando ai vassalli degli Incisa di giurar fedeltà al nuovo signore entro un mese. La mossa era abile: il marchese rafforzava sul Belbo le proprie posizioni e veniva ad impacciare il movimento di espansione di Asti che mirava a ficcarsi in mezzo tra le dinastie aleramiche di Savona e quelle di Monfer-rato e di Bosco.

Un'altra vertenza pure era aperta: quella di Montiglio, i cui signori se nel 1186 avevano giurato assoluta sottomissione al mar-chese Bonifacio, più tardi avevano subito l'influsso di Asti e ne ave-vano riconosciuto la sovranità, sperando evidentemente che la signo-ria del comune fosse più leggera di quella del marchese.

Scoppiato il contrasto per gli Incisa, Bonifacio di Monferrato, forte dell'appoggio imperiale, occupò per diritto feudale Montiglio. Gli astigiani intrapresero allora una cavalcata, ma furono sotto il castello sconfitti e molti furono fatti prigionieri (19 giugno 1191). Quasi contemporaneamente le genti monferrine attaccavano il luogo di Malamorte (oggi Belveglio) presso Mombercelli e se ne impa-dronivano.

Gli astigiani furono costretti a versare 2000 lire per il riscatto dei loro moki cittadini prigionieri, se pur non erano questi davvero 2000, come dice un cronista posteriore. Fu utile al comune avere preso come podestà quel marchese di Ceva con cui solo l'anno prima si era concordato: Guglielmo di Ceva assunse infatti l'incarico di trattare, si trovò con il marchese di Monferrato a Castellalfero e combinò una tregua sino a San Martino del 1192; i prigionieri d'Asti sarebbero stati liberati (25 agosto 1191).

Al fatto d'armi di Montiglio avevano preso parte con gli asti-giani anche dei rinforzi alessandrini. Vi era dunque già rottura tra Alessandria ed il marchese Bonifacio: come aveva potuto il comune

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venir meno all'impegno del 1183 di tenere per amici tutti gli amici dell'impero? E pure ancora nel settembre del 1191 Alessandria appa-riva in buoni rapporti con Tommaso di Annone, il castellano impe-riale; questi cedeva al comune di Cesarea — così ufficialmente ancora si chiamava Alessandria — la metà del pedaggio di Basaluzzo che teneva per l'impero.

Tra Asti ed Alessandria vi era coincidenza di interessi: l'ac -cordo per assicurarsi il dominio della vallata del Tanaro, per con-trastare agli sforzi che il marchese faceva a sud del fiume. Già nel 1190 i due comuni strinsero un convenzione per la questione di Masio, Vecchia corte dell'episcopato astigiano, posto sul Tanaro ed importante per il pedaggio che pagavano le navi sul fiume, già alla metà del secolo XII Masio era organizzato in comune a cui parte -cipavano milites et pedites, vassalli vescovili, rustici e nel 1152 conchiudeva accordi con il maggior comune di Asti.

Ma se nel 1190 gli astigiani acconsentirono che quei di Masio stipulassero patti anche con Alessandria, è da pensare che questo avvenisse per il timore che l'espansione alessandrina portasse a peg-gio. Così i consoli di Masio promisero che avrebbero aiutato ed Asti e Cesarea contro qualsiasi nemico, esclusi i signori loro, che avreb-bero fatto esercito, oste, cavalcata, fossato, così per l'una come per l'altra città, pagando fodro ed in Asti ed in Alessandria, esentando gli abitanti dell'uno e dell'altra città del pedaggio deUe navi. E le due città promettevano di considerare quei di Masio come loro cit-tadini. Atto importante adunque: in questo modo i due comuni rendevano difficili le comunicazioni del marchese di Monferrato con i suoi possessi a sud del Tanaro.

Bonifacio I, dopo la vittoria su Asti volle armarsi anche contro l'altro comune. Così Enrico VI, per ricompensare il marchese del -l'aiuto accordato ai comuni lombardi, l'8 dicembre del 1191 gli concedeva un diploma di riconferma del possesso di Gamondio, di Marengo, di Foro con tutti i diritti feudali e con tutti i diritti regali, come già nel 1164 aveva concesso Federico Barbarossa a Gugliel-mo V. Non era dunque una concessione nuova, ma era l'affermazione che né imperatore né marchese intendevano abbandonare i loro di -ritti, era l'affermazione che tutt'attorno ad Alessandria vi era la giu-risdizione marchionale sulle antiche corti che continuavano a vivere, libere da Alessandria.

Ma un brutto regalo faceva l'imperatore al Piemonte associando il Monferrato al blocco antimilanese! Legava infatti le vertenze di

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LA GUERRA ATTORNO A TORINO 315

Lombardia a quelle del Piemonte, associava gli interessi di Asti con quelli di Milano. Anziché verso la pacificazione, si andava verso una conflagrazione più vasta e più grave.

4. La guerra attorno a Torino

II vescovo di Torino, Milone di Cardano, aveva adunque trion-fato sul Conte di Savoia, grazie ai bandi ed alle armi imperiali. Nel 1188 gli successe nella sede di Torino un personaggio canave-sano e certamente imperialista, Ardoino di Valperga. La situazione della signoria vescovile pareva ottima: Rivoli, Pianezza erano nelle sue mani; anche Chieri e Tortona erano sottomesse. Tuttavia quando Tommaso I di Savoia si fu riconciliato con l'impero ed incominciò a comparire in Val di Susa ed in Val d'Aosta, quanti mordevano il freno per la potenza del vescovo, si sentirono incoraggiati ad agi -tarsi: l'attrazione sabauda si fece di nuovo sentire sino a Torino.

E le conseguenze si ebbero presto: se i vecchi vassalli di Rivoli erano stati cacciati da Milone di Cardano, il suo successore nel 1190 credette opportuno venire ad un accordo; restituì loro i beni che avevano avuto il giorno in cui erano usciti di Rivoli, ma con l'im -pegno che non potessero passare più di una notte in Rivoli, ma solo potessero venirvi le loro donne con i bifolchi per lavori campestri. Più tenaci nell'opposizione al vescovo apparivano i signori del con-sortile di Piossasco che pretendevano diritti su Rivoli e su Piobesi; ma più grave ancora era il contrasto creato dall'insofferenza della signoria episcopale che dimostrava ora il comune di Testona.

In Torino invece il vescovo appare in relazioni corrette con il comune che naturalmente traeva il maggior vantaggio dal conser -varsi della signoria episcopale e forse i comunella ed i vassalli delle regioni più che al vescovo, pensavano al peso del comune torinese. Ardoino di Valperga era in buoni rapporti con l'impero: nel 1191 venne a Torino il castellano di Annone, Tommaso, che si diceva « totius taurinensis episcopatus Legatus », per riscuotere dal vescovo Ardoino il fodro per tutta la sua signoria. Secondo i patti, solo a Chieri i consoli poterono versare direttamente il fodro.

Dopo il fallimento dell'impresa imperiale di Napoli, le agita-zioni nella regione torinese si fecero vivaci: ad un determinato momento il vescovo Ardoino cadde prigioniero dei Piossasco. Ma anche in Torino si ebbe irrequietudine ed insofferenza dell'autorità episcopale.

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Soltanto nel luglio del 1193 parve ristabilirsi la pace e ne pagò ora le spese la signoria episcopale. Infatti il vescovo concedette ai

consoli di Torino il diritto di poter usare in guerra dei castelli episcopali di Testona, di Rivoli, di Montosolo e di tutti gli altri suoi; esentò tutti i cittadini torinesi dal pagamento dei pedaggi e di altri tributi a Testona. In compenso il comune di Torino inden-nizzò i signori della Rovere ed i signori di Piossasco perché rinun-ciassero a favore del vescovo per i diritti che avevano quelli in Pio-besi, questi in Testona. Così il comune di Torino riusciva a met -tere le mani sui castelli del vescovo ed a stabilire delle proprie basi nel territorio. Dopo questo primo accordo fu possibile un trat-tato più importante tra il vescovo ed i signori di Piossasco: questi abbandonarono al vescovo tutti i diritti in Testona, ebbero invece in cambio come feudo il castello di Piobesi con certe restrizioni e limiti; inoltre rinunciarono a discutere i loro diritti su Rivoli, rin-viando la questione di quindici anni. La pacificazione fu fatta alla presenza di Tommaso di Annone e con la sua approvazione: appa-

rentemente la signoria episcopale torinese era intatta, ma le conces-sioni fatte alle varie parti erano ben notevoli ed indicavano che la

trasformazione dell'assetto politico locale non era lontano.

5. Le relazioni di Vercelli e di Novara dopo la distruzione di Biandrate

La distruzione di Biandrate per opera dei vercellesi e dei nova-resi nel 1168 iniziò una fase nuova nella storia della regione e dei due comuni. Come si giungesse alla distruzione ignoriamo; era ini-ziativa vercellese o novarese? Ancora nel 1167 i conti di Biandrate rinnovavano la carta di costituzione dei comune locale: come questo si colleghi con l'avvenimento dell'anno seguente ci sfugge. È da credere che i milanesi fossero costretti ad abbandonare il conte di Biandrate col quale avevano avuto per tanto tempo rapporti ottimi, cordialissimi, all'odio dei novaresi e dei vercellesi.

E contro i conti di Biandrate non si combatteva in omaggio ad ideologie. Essi dovevano avere seminato ampiamente l'odio nelle popolazioni rustiche delle loro terre. Li stringeva infatti la necessità del servizio militare per l'imperatore, del tributo, di qui necessa-«;«mpntp nroveniva la loro durezza. Di Guido conosciamo la risposta

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banni di Villanova: poiché un Signore già percepiva la terza pane dei banni di metà della villa, egli rispose: « è per questo che io pretendo la terza parte dei banni dell'altra metà ». Peggiori furono i figli: il maggiore Uberto che era a capo della consorteria, chiamato per una sua peculiarità fisica « il marchese dal naso d'argento » alla osservazione che le sue pretese in un processo erano troppe e che egli aveva torto, rispose: « Lo so, ma mi è più caro aver torto che ragione ».

Dopo la distruzione, i due comuni vennero a grave lotta per il possesso del territorio conquistato, Pare che i vercellesi si fossero stabiliti in Biandrate con grave disappunto dei novaresi. Scomparso il vecchio ed illustre Guido di Biandrate, i figli suoi Uberto, Gu-glielmo, Lanfranco, Raineri, Ottone, per non tener conto dell'altro figlio Guido l'intruso arcivescovo di Ravenna, furono presto spinti a dividere i possessi aviti. Come sìa avvenuta questa divisione è quanto ignoriamo: alla tregua di Venezia del 1177 figurano ancora complessivamente: « Cornites de Biandrate cum omni terra sua quam tenent ». Nel 1179 Ottone agisce per proprio conto stipulando un accordo con il comune di Vercelli: avrebbe assunto il cittadinatico del comune, per sé e per quaranta suoi vassalli, avrebbe pagato fodrc per dieci mila lire pavesi personalmente e l'avrebbe fatto pagare pure da tutti i suoi sudditi come cittadini di Vercelli; avrebbe tenuto come feudo del comune il castello di Mongrando e quello che aveva in Candelo, in Arborio, in Albano e tutto quello che teneva sulla destra della Sesia; per i possedimenti di Val Sesia avrebbe parte -cipato alle guerre del comune e senza consenso dei consoli non avrebbe fatto conquiste da Romagnano in su in Val Sesia e non vi avrebbe costruito castelli. Ottone di Biandrate ratificò l'infeudazione di Mon-grando solo nel 1182; nel 1190 appare ancora legato a Vercelli.

Novara e Vercelli rimasero in aperto contrasto per la questione di Biandrate dopo la pace di Costanza. Nel 1187 dovette Enrico VI, da Lodi, imporre una tregua ai due comuni che lottavano aperta -mente; l'anno dopo la Lega Lombarda cercò di intromettersi: ì ret-tori si riunirono in Vercelli ed imposero una tregua tra le due parti sino alla Pasqua del 1189. Enrico VI aveva affidato il giudizio della controversia ai suoi rappresentanti di Piemonte, i castellani di Gavi e di Annone. Fu una questione difficile: le due parti si palleggiavano le responsabilità di aver rotto la tregua. Gli arbitri dopo essersi visti a Vercelli, a Saluggia, a Breme, a Milano, giudicarono nell'aprile del 1190: dichiararono colpevoli di rottura di tregua ì vercellesi e li

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condannarono a pagare la multa: essi avevano contro la tregua fatto una scorreria sino a Romagnano devastando le campagne e distrug-gendo un ponte sulla Sesia, Fu ristabilita la tregua, ma subito rinac-que il conflitto perché le due parti si contendevano l'omaggio dei signori di Gattinara. Questa volta la sentenza fu favorevole a Ver-celli. Nel dicembre del 1191 l'imperatore si rioccupò, a Milano, della controversia novaro-vercellese: impose che tutti i cittadini delle città dai 14 ai 70 anni gli giurassero di conservare la pace in per-petuo, lasciando ai due vescovi locali di decidere in quel che sarebbe stato loro possibile; le altre questioni sarebbero state deferite al tribunale imperiale.

Soltanto nel 1194 Vercelli e Novara si misero d'accordo. Il 25 maggio 1194 i due podestà si trovarono alla chiesa di Casalino e decisero non solo di far la pace, ma anche di al -learsi per combattere i comuni nemici; e fu deciso che Bian-drate dovesse rimanere distrutto, né potesse mai essere rico -struito né dagli uni né dagli altri; così i conti di Biandrate non avrebbero potuto essere accettati come cittadini né di Novara né di Vercelli e neppure gli abitanti di Biandrate, esclusi quelli che già avessero giurato nel passato il cittadinatico o nell'uno o nell'altro luogo; i due comuni avrebbero in comune riscosso il fodro e gli altri tributi delle terre appartenenti alla giurisdizione biandratense; i novaresi avrebbero avuto per sé Casaleggio e Galgarengo, i ver-cellesi, Casalvolone; solo di comune accordo avrebbero potuto co-struire un ponte sulla Sesia. Cosi i due comuni rientravano nella pace, ma a danno dei conti e della città di Biandrate condannata a scomparire definitivamente, I due comuni misero nei loro statuti uno speciale capitolo « De tenendo destructo Biandrate ». La disgre-gazione dei domini aveva impedito evidentemente ai conti di Bian-drate di reagire e poi i buoni accordi di Federico Barbarossa con la Lega e specie con Milano lasciarono disarmati i conti, i quali erano rappresentati solo da Uberto e da Raineri; questi cercarono ora in Enrico VI un difensore.

Desideroso di non alienarsi né vercellesi né novaresi, Enrico VI cercò di indennizzare Uberto e Raineri di Biandrate in qualche modo. Al secondo concesse l'investitura di una città che era in mano dei funzionari imperiali: Ivrea. Giuridicamente Pautorità dell'impero su Ivrea era ben defendibile. Infatti il vescovo di Ivrea non poteva sostenere di avere mai avuto autorità comitale in città e quindi non poteva arrogarsi il diritto di investire i consoli del comune, secondo

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LE RELAZIONI DI VERCELLI E DI NO VARA

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l'articolo Vili del trattato di Costanza. Federigo Barbarossa aveva stabilito in Ivrea come podestà e vicario Drushard di Kestenburg: a costui toccò ora di investire Raineri di Biandrate del suo nuovo feudo di Ivrea. Il conte potè bensì installarsi nel castello d'Ivrea, a San Maurizio, ma si trovò di fronte l'ostilità del vescovo e del comune, tutti e due desiderosi del vecchio stato di cose: la finta autorità comitale del vescovo e l'apparente dipendenza del comune dal vescovo. La città si rifiutò di riconoscere il nuovo signore. Si venne a guerra tra il conte di Biandrate e gli eporediesi. Il comune di Vercelli, che fin dal 1170 aveva costretto gli eporediesi a rico-noscere la sua egemonia, non tardò ad intervenire con lo scopo evidente di far naufragare la signoria del conte Raineri su Ivrea. Una tregua fu accettata dalle parti, ma poi gli eporediesi si lamen-tarono che il conte l'avesse rotta; nel novembre del 1192 i consoli di Vercelli nuovamente intervennero e rifecero la tregua. Raineri giurò e così pure il fratello suo con i figli; e dall'altra parte i consoli ed il vescovo di Ivrea: tutti erano convenuti sulla spianata davanti al castello di San Maurizio.

Poco prima però i consoli di Ivrea si erano assicurati l'appoggio di Vercelli giurando l'omaggio per i due castelli di Sant'Urbano e di Bolengo, secondo gli impegni contratti nel 1169.

Una fase inaspettata della lotta tra eporediesi ed il conte di Biandrate si ebbe nel 1193: durante l'assenza di Enrico VI dal -l'Italia, il conte Raineri fece il passo falso di accettare l'intervento dei giudici imperiali di Pavia a cui l'imperatore aveva affidato la causa. La sua richiesta era semplice: « chiedo ai consoli ed ai citta -dini di Ivrea di restituirmi la fedeltà che prima prestavano e dove-vano prestare all'impero ».

Spiegarono i suoi rappresentanti che per ordine dell'imperatore, il conte era stato immesso in possesso di Ivrea, del castello, della giurisdizione e di tutto ciò che l'imperatore possedeva, avendogli il tutto dato in feudo. Da parte del comune si negò che il conte avesse tale diritto; l'imperatore non poteva avere fatto detta con-cessione e se l'avesse fatto, dicevano « concessionem de iure non valere » perché quella fedeltà gli eporediesi la dovevano all'impe-ratore « ratione corone et imperii» e del resto prima l'imperatore aveva concesso il comitato al vescovo di Ivrea al quale prestavano fedeltà. Ribatterono i procuratori del Biandrate affermando il buon diritto dell'imperatore di alienare, di trasferire domini, mostrando che in questo caso l'imperatore ed il conte avevano fatto un cambia

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ecc. Ma sebbene fossero venuti a Pavia per sostenere 3a propria causa i due fratelli Raineri ed liberto di Biandrate, i giudici assol-sero gli eporediesi dalle richieste comitali, sebbene non ci sia detto in base a quale ragionamento. È probabile che Vercelli e Novara i cui rappresentanti apparvero anche a Pavia in quell'occasione, inter -venissero attivamente: ma era ben strano che gli eporediesi osassero parlare di comitato episcopale.

Il conte Raineri rimase però in possesso del castello di Ivrea.Ma nel 1194, dopo l'accordo dei vercellesi e novaresi per Biandrate,gli eporediesi colsero l'occasione favorevole per liberarsi del pericoloche immineva dalla collina di San Maurizio: assalirono il castelloe se ne impadronirono; allora o più tardi poi lo distrassero. E questoepisodio che in qualche modo rappresenta la liberazione di Ivreadalla dominazione feudale è verisimile che sia il nucleo fondamentaledella leggenda che visse per secoli nel « Carnevale d'Ivrea ». Raineridi Biandrate ricorse allora ad Enrico VI e questa volta furono messial bando dell'impero i protervi eporediesi. Però già nel luglio del1195 essi riuscirono a riconciliarsi con l'impero e ad ottenere diessere tolti dal bando. I Biandrate furono indennizzati non sappiamoin qual modo, però non rimisero più piede in Ivrea.

L'indipendenza di Ivrea era però assai dubbia. Il predominio di Vercelli la investiva da ogni parte. Numerosi sono gli atti che ci rivelano il passaggio dei signori grandi e piccoli della regione al vassallaggio di Vercelli. Nel 1199 vi sono dei consorti di Montaldo e di Settimo Vittone che prestano giuramento di assicurare la strada per i mercanti di Vercelli e di difenderli loro e le loro case; nel 1194 facendo i trattati suddetti con Novara, Vercelli riservò l'ac-cordo con Ivrea, purché gli eporediesi non assalissero i novaresi...

6. Tor tona e le vie commerciali tra il Po ed il mare

Tortona era risorta contemporaneamente a Milano e già nel 1176, prima ancora di Legnano, Federico Barbarossa aveva accon-sentito a riprenderla in grazia, come è detto nel solenne diploma imperiale, « per interpositam personam » cioè per mezzo di un suo rappresentante: aveva promesso che non l'avrebbe più distrutta, ma anzi l'avrebbe difesa. Il privilegio del 1176 distruggeva completa-mente tutte le disposizioni del privilegio che Federico aveva con-cesso nel 1164 ai pavesi a danno dei tortonesi quando aveva prò-

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TORTONA E LE VIE COMMERCIALI TRA IL PO ED IL MARE 321

messo a quelli che non avrebbe in eterno permesso la ricostruzione della nemica città. Pavia dovette quindi riconciliarsi con Tortona forse già nel 1176. Dal 1176 il comune tortonese, riconosciuto solennemente dall'imperatore con il diritto di avere consoli e non pochi diritti regali, potè ricostruire la sua autorità su tutto il comi-tato episcopale.

Tuttavia, se i privilegi e le concessioni fatte a danno del comune e della chiesa terdonense al comune di Pavia, al marchese di Mon-ferrato, ai marchesi del Bosco e forse ad altri vennero da Federico annullate, la disgregazione durata un ventennio fu di grave discapito per la vita del comune stesso. Il feudalismo svìluppossi in questo frattempo nella regione con grande vivacità ed ora occorreva ridurlo ai legami non più con il vescovo, ma con il comune.

Fortunatamente per Tortona, i marchesi obertenghi Malaspina già nel 1174 avevano fatto un'alleanza con il comune, sebbene que -sto fosse ancora in rotta con l'imperatore. Opizzone Malaspina con i figli promise di difendere i tortonesi in tutto il loro episcopato e comitato, e per tutto il proprio dominio; i consoli del comune promisero di dare al marchese in città un mulino, una casa, un forno, una vigna; avrebbero difeso il marchese e tutti i sudditi suoi ed in specie il pedaggio che possedeva nella città e che avrebbe potuto far esigere se voleva a Serravalle Scrivia; avrebbero sempre considerato il marchese come un membro della Lega Lombarda.

Con i marchesi di Gavi i tortonesi si accordarono solo nel 1185 e l'accordo, vedremo, fu molto importante per le questioni commer-ciali. Della riconquista del comitato abbiamo tracce notevoli. Nel 1172 un gruppo di consorti di Volpedo e Montemarsino rimisero ad Oberto vescovo e conte di Tortona « ac tocius terre preses » ed ai consoli del comune il Monte della Forca, detto Monlegale, adatto per un castello e villa e fortificazioni che essi avrebbero costruito e tenuto in feudo dal vescovo e dal comune. Gli interessi dei due enti in questo momento si confondevano ancora. Nel 1178 furono i signori dì Montaldo a chiedere il consenso di costruire un castello in onore di San Marziano e ad utilità del comune, dal quale lo avrebbero tenuto in feudo. Più tardi si sottomise Ospinello di Ar-quata per il casteEo di Montilario, poi i signori di Montemarsino, poi i signori di Grondona. La città non era tranquilla che due gruppi famigliari la riempivano dei loro litigi: erano la fazione degli Anfossi e degli Accattapane e dei Bussetì e quella dei Pastorelli, Corogli e Pescemasnati. Nel 1184, dopo una battaglia in cui qualcuno fu

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ucciso ed altri feriti, intervenne come paciere il comune di Pavia: gli Anfossi ed i loro aderenti furono espulsi dalla città e dal terri-torio con divieto di ritornarvi per sei anni ed altri provvedimenti furono presi per ristabilire la pace interna.

Se sia durata molto tempo la concordia tra Pavia e Tortona ignoriamo. La posizione di Tortona sulle comunicazioni tra la Lom-bardia e la Riviera Ligure metteva i due comuni piuttosto nella necessità di ritornare a quel contrasto che già abbiamo visto nella prima metà del secolo XII. Ci fa pensare che così sia di nuovo avvenuto, osservando che già nel 1185 i consoli di Tortona giura-vano ai milanesi di proteggere il loro commercio — uomini, bestie, vetturali — transitante per la strada di Tortona da Ponte Perio a Crenna o per la strada di-Val Scrivia per tutto il territorio del comune. Anche negli anni seguenti Tortona continuò ad essere nelle

stesse relazioni politiche: amicizia con Milano, discordia con Pavia e con l'alleato pavese, il marchese di Monferrato. Ce lo prova l'ac-

cordo tra Novi e Tortona del 1192: i consoli novesi si impegnavano ad aiutare il comune di Tortona contro qualsiasi nemico, ma dichia-ravano che non avrebbero partecipato ad attacchi contro il marchese di Monferrato, come a questo avrebbero impedito di combattere «da

Novi contro Tortona; se però a combattere i tortonesi fossero stati i vassalli del marchese e questi non avesse partecipato al fatto d'armi, i novaresi sarebbero intervenuti a favore di Tortona. Da questo

documento appare che i novesi avevano giurato tempo prima l'abi-tacolo di Tortona, ma che d'altra parte erano legati da obblighi di vassallaggio verso il marchese di Monferrato. Ora nel 1192 i novesi furono liberati da questo legame del cktadinatico, ma si impegna-rono ugualmente a pagare fodro a Tortona, a mandarvi uomini per

la costruzione dei fossati ed a parteciparvi alle cavalcate.Per quanto riguarda le relazioni di Tortona con Genova solo

nel 1197 troviamo traccia di un nuovo accordo politico-militare per assicurare d'accordo la pace sulla via da Genova al Po. L'accordo del 1197 fu conchiuso per ventinove anni; obbligo reciproco di di-fendere uomini e merci sulla strada, di rendere giustizia ai mercanti danneggiati, di aiutarsi contro i nemici; i tortonesi si impegnavano a non imporre nuovi pedaggi sui genovesi, a dar loro piena libertà di commercio dei grani. Vi erano pare contrasti per certi boschi tra gli uomini di Serravalle — distretto tortonese — e quelli di Gavi — distretto genovese; — per questi la decisione sarebbe stata data ad arbitri. Per altre discordie tra quei di Serravalle e di Precipiano

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da una parte e gli uomini di Gavi e di Voltaggio avrebbero deciso i castellani locali.

La pace non durò che pochi mesi: nel 1198 la questione di Gavi si presentò gravissima e determinò lo scompiglio in tutta la regione.

Nel 1191 i genovesi avevano chiesto all'imperatore Enrico VI che ne sollecitava l'intervento in Sicilia la cessione del castello di Gavi e l'ottennero. Nel diploma imperiale si dice appunto: « Con-cedimus eis in feodo castrum Gavii cuoi pertinentiis ». Sappiamo che Enrico VI aveva in sue mani il castello di Gavi; ma non sap-piamo come o lui o Federico I lo avessero avuto dai marchesi. In realtà dai documenti seriori della questione pare che i marchesi avessero dato all'imperatore solo il torrione (domignonum Gavi). Ma i genovesi misero tosto le mani su tutto il castello ed anche sul pedaggio, sul quale nel 1195 appaiono d'accordo con i marchesi per la divisione. I marchesi di Gavi si divisero: Guglielmo accettò il fatto compiuto per il castello, anzi donò al comune di Genova una casa che egli aveva ricevuto in dono dall'imperatore: i fratelli invece protestarono. Guido mise la sua sede a Tassaria, in un ca -stello da lui costruito su un monte presso Gavi. Nel 1198, morto cioè Enrico VI, il marchese Guido cercò di riconquistare Gavi con una sorpresa notturna. Si procurò a ciò l'aiuto dei marchesi di Pa-rodi, dei Malaspina e dei tortonesi che intendevano respingere i genovesi oltre il giogo.

Il tentativo fallì. I genovesi svelti salvarono Gavi e poi anda-rono al contrattacco: assediarono e distrussero il castello di Tassaria, poi sconfissero e respinsero l'esercito tortonese di Serravalle. Così la coalizione antigenovese andò a rotoli.

I marchesi di Parodi furono costretti a cedere il loro castello; Guglielmo marchese di Gavi abbandonò a sua volta tutti i diritti che potevano spettargli sui castelli di Gavi, Montemarsino, Gron-dona, Pozzolo, Gatorba, Montilario ed altri ancora che si trovavano nel territorio tortonese; i marchesi Malaspina, Alberto di Opizzone e Guglielmo di Moroello, a loro volta si rassegnarono a venire a pace con Genova giurando fedeltà, promettendo di prender parte alle guerre che i genovesi combattessero tra i monti, da Parodi a Gavi, sino a! mare, con 15 cavalieri e 200 arcieri; per riguardo ai torto-nesi, se i marchesi come alleati di Genova avessero dovuto com-battere contro di essi e quindi non avessero più potuto raccogliere

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il loro pedaggio di Tortona, avrebbero potuto esigerlo a Gavi, a Voltaggio od anche alle porte della stessa Genova.

Anche i tortonesi acconsentirono a venire a pace e se ne fecero arbitri i pavesi, escludendo però dall'arbitrato i marchesi di Gavi e di Parodii. La pace fu conchiusa nel marzo del 1199 alle condizioni già stabilite nel 1197, in più i tortonesi dovettero rinunciare ad ogni diritto su Gavi e su Parodi e promettere di non aiutare i marchesi contro Genova, cedere ai genovesi ogni diritto sul castello di Montaldo e su tutte le ville oltre la Scrivia verso Gavi, ed infine che non avrebbero costruito o comperato nessun castello oltre la Scrivia verso Genova. Così l'influsso politico di Genova venne ad essere rafforzato a settentrione dei Giovi sì da minacciare i comuni della pianura.

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CAPITOLO XII

LE LOTTE COMUNALI IN PIEMONTE DOPO IL 1194

1. Nuove lotte tra Asti ed i marchesi aleramici, - 2, Laripresa della politica imperiale in Italia. - 3. La situazionedopo la conquista sveva in Sicilia. - 4. La reazione antiim-

perìale in Piemonte dopo la motte di Enrico VI.

1. Nuove lotte tra Asti ed i marchesi aleramici

Non sappiamo se la tregua del 1191 tra Asti ed il marchese di Monferrato sia durata veramente sino all'Ognissanti del 1192 o se già sia stata violata prima. Certo d'ambo le parti si andavano cercando alleati ed amici per accrescere le forze in previsione di un nuovo conflitto. Alessandria si rassicurò l'amicizia dei signori di Sannazzaro, di Rivalta Bormida, di Rocca d'Orba, di Belmonte e sopratutto quella di Genova. Naturalmente il trattato con Genova era il più importante: gli alessandrini ottenevano l'esonero da ogni pedaggio per l'accesso al porto dì Genova, in cambio promettevano di difendere i genovesi ed il loro possesso di Gavi.

A sua volta anche Asti ridusse a vassalli i signori di Montarla, conchiuse un'alleanza con i signori di Bra. Così pure Bonifacio di Monferrato regolò i suoi rapporti con i marchesi di Busca: il mar-chese Berengario, il fratello maggiore di Manfredi Lancia cedette al marchese di Monferrato la sua parte (1/16) del comitato di Loreto e la metà di Cossano, dichiarandosi suo vassallo. Il comune astigiano che poco prima, nel 1188, aveva ottenuto dallo stesso mar-chese Berengario la metà di San Stefano Belbo, si trovava ora ad urtare sul Belbo con un nuovo possesso di Bonifacio di Monferrato. Questi si era pure procurato un alleato importante in Alba, la rivale di Asti nei commerci e nella espansione in Val di Tanaro.

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326 LE LOTTE COMUNALI IN PIEMONTE DOPO IL 1194

L'antica amicizia tra Asti ed Alba che abbiamo riscontrato verso il 1170 si era attenuata con lo sviluppo dei commerci dei due co-muni. Un esempio tipico dei contrasti tra Asti ed Alba si ebbe nel 1181: una carovana di mercanti albesi provenienti dalla Francia venne bloccata in Racconigi dagli astigiani. Intervenne allora il mar-chese di Saluzzo, Manfredo I, che con il pretesto di salvare le mer-canzie degli albesi dalle unghie astigiane le fece trasportare a Saluzzo ... per riaverle gli albesi dovettero pagare trecento lire e trecento soldi astesi.

Adunque tra Asti ed Alba vi era già rottura: è vero che d'altra parte il comune di Alba continuava ad essere nelle migliori relazioni con il vescovo d'Asti, come dimostrano gli accordi relativi al castello di Monticelìo del 1187 e del 1190: il castello tolto al vescovo fu riconquistato dagli albesi e da essi tenuto come feudo episcopale. Nel 1191 il marchese di Savona stipulando accordi con Asti, avver-tiva che non intendeva dover combattere contro il comune d'Alba, alleato del marchese di Monferrato; così nel 1192 trattando con i signori di Montaldo, gli astigiani dichiaravano loro nemici il mar-chese di Monferrato, il marchese di Saluzzo, il marchese di Busca, i conti di Biandrate, il comune d'Alba.

Asti opponeva un blocco considerevole di alleati: il comune di Alessandria, il comune di Chieri, il vescovo di Torino, Manfredi Lancia marchese di Busca, i conti di Cocconato, i marchesi d'Incisa, i signori di Bra e vari altri signori minori. Alleati sicuri. Aìessandria, per difenderrsi, non poteva non essere con Asti, il vescovo di Torino trovava in Asti appoggio non tanto contro il marchese di Monfer-rato, quanto contro il Conte di Savoia, cugino, alleato, protetto dal marchese; gli Incisa, i Cocconato, i Di Bra trovavano preferibile la signoria astigiana ai legami verso il marchese di Monferrato.

Nulla sappiamo della guerra, se si svolse e come si svolse: già nell'aprile del 1193 dopo trattative che dovettero essere lunghe, Asti ed il marchese Bonifacio conchiudevano un nuovo accordo. Il mar-chese abbandonava la Rocchetta al comune, disinteressandosene per sempre; acconsentiva che la sua vertenza con gli Incisa fosse sotto-posta al giudizio di Moroello Malaspina e di Guglielmo di Parodi; avrebbe tenuto Felizzano come feudo del comune; avrebbe operato con Asti la restituzione reciproca di quanto possedevano in Mom-bercelli ed in Malamorte, avrebbe restituito Cocconato a quel conte, avrebbe indotti i feudatari di Montiglio e di Murisengo alle dipen-denze del comune d'Asti; avrebbe restituito quanto aveva avuto per

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NUOVE LOTTE TRA ASTI ED I MARCHESI ALERAMICI 327

il riscatto loro dei prigionieri astigiani ed alessandrini, avrebbe pa-gato i debiti contratti in Asti, abbandonato ad Asti il pedaggio che prelevava sulla sua strada (forse a Felizzano) sino a liquidazione completa di tutti questi impegni finanziari, poi il pedaggio sarebbe stato del marchese per 3/4, di Asti per 1/4. La pace fu pattuita TU aprile nei campi tra Tonco e Frinco e fu giurata due giorni dopo ad Annone davanti a quel castellano imperiale.

La pace del tutto sfavorevole dimostra che le sorti delle armi erano state sfavorevoli al marchese. In nessuna questione Bonifacio pare riuscire ad imporsi al comune astigiano. E la presenza del podestà di Alessandria al trattato di Tonco dimostra anche che Alessandria aveva partecipato alla vittoria delle armi. Da parte asti-giana troviamo due sole promesse: quella di rimettere tutti i danni ed ingiurie agli alleati del marchese, Alba, Biandrate, Saluzzo, e quella di far pagare dai cittadini i debiti verso sudditi del marchese. Ma non altro. L'esecuzione della pace non fu del resto facile, nac-quero infatti tali controversie per l'applicazione di non sappiamo qauli clausole, che fu necessario affidarne lo studio e la decisione a Tommaso di Annone, quale arbitro.

Quali i motivi della sconfitta? Molto probabilmente il mar-chese di Monferrato fu costretto a cedere davanti ad Asti dallo scoppio delle ostilità tra i comuni di Lombardia. I patti che Boni-facio aveva accettato nel 1191 lo costringevano ad un intervento in difesa della parte imperiale: le controversie con i comuni del Tanaro dovevano diminuire di importanza di fronte al bisogno di difendere gli interessi maggiori, dell'impero. Infatti, nel maggio appunto del 1193, Milano fu contemporaneamente attaccata da milizie pavesi, lodigiane, cremonesi, mantovane, bergamasche, comasche e tutto il suo territorio fu desolato. I milanesi però, non tardarono ad avere rinforzi da Brescia, da Parma, da Novara, da Vercelli sì da poter fronteggiare gli avversari.

L'esercito della coalizione imperiale si era raccolto presso Lodi e qui comparve in campo come capo e come rappresentante del-l'impero, il marchese di Monferrato, I milanesi si avanzarono su Lodi e costrinsero il nemico a retrocedere, infliggendogli notevoli perdite al passaggio dell'Adda (30 maggio -1° giugno 1193). Ma appena due settimane dopo un nuovo attacco si delineò nel Lodi-giano; nuovamente i milanesi accorsero a respingere il nemico; poi nell'estate si continuò a combattere e nel settembre milanesi e pia-centini respinsero pur con gravi perdite un nuovo attacco dei lodigiani.

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_ wut COMUNALI IN PIEMONTE DOPO IL 1194

La situazione di Milano non era facile, sebbene riuscisse con le armi a respingere gli attacchi dei nemici. Questi il 26 giugno avevano rinnovato la loro lega antimilanese, con un altro atto stipu-lato in Pavia, e con l'intervento del marchese di Monferrato: per abbattere Milano ora si era deciso di bloccarla economicamente chiu-dendo ai suoi mercanti tutte le strade; ai milanesi sarebbe stato vietato di accedere a Genova ed agli altri porti liguri; cosi pure sarebbe stato loro impedito di comunicare con la Francia attraverso i valichi alpini. In questo blocco commerciale di Milano, il marchese di Monferrato aveva una parte importante, ma forse non decisiva. Tortona poteva tenere aperta ai milanesi la via di Genova; e Novara e Vercelli facilitavano la via al San Bernardo ed al Cenisio.

Certo tutti questi avvenimenti distolsero l'attenzione del mar-chese da quanto succedeva in Piemonte. Bonifacio aveva per essi trascurato i suoi alleati: aveva forse pensato che essi potessero con-tinuare a lottare contro Asti con le sole loro forze!

Calcolo sbagliato in ogni modo: mentre Bonifacio di Monfer-rato era in Lombardia, un esercito astigiano sotto il podestà Giacomo Stretti si avanzava fin sotto Saluzzo ed imponeva la sua volontà al marchese Manfredi IL Ed infatti questi già il 26 maggio 1193 compariva nel campo degli astigiani, presso Streppo sulla Varaita (in territorio di Saviglianoj a fare atto di sottomissione. Furono ri -confermati i patti del 1191; Manfredi II giurò fedeltà perpetua al comune per Saluzzo, Romanisio e Castiglione e promise che avrebbe rispettato per le sue vertenze con Asti quanto avessero deciso quattro arbitri. Il podestà di Asti lo investì solennemente dei tre feudi, ma ebbe cura di prenderne personalmente possesso, assistendo al formale innalzamento del vessillo del comune sulla torre di Saluzzo. Anche Adelasia di Monferrato, consorte del marchese Manfredi, dovette rassegnarsi a cedere al comune vincitore tutti i diritti che per causa della dote poteva avere in Saluzzo: il rigido podestà non intendeva ritirarsi prima di avere stabilito ben bene l'autorità di Asti nella regione,

L'esercito astigiano infatti rimase a Streppo accampato ed il 21 giugno Manfredi II ritornò « in Astensi exercitu sub papilione potestatis Astensis prope Varaytam » per prosciogliere i signori di Romanisio da ogni legame feudale verso di lui e per far loro giurare fedeltà ad Asti, Intanto gli arbitri avevano regolato le varie vertenze ancora pendenti: gli astigiani avrebbero aiutato e difeso il marchese di Saluzzo come proprio cittadino; il marchese in cambio non si

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iA RIPRESA DELLA POLITICA IMPERIALE IN ITALIA 329

sarebbe interessato dei signori di Sarmatorio; gli acquisti che o il marchese o il comune facessero in Bra sarebbero stati proprietà comune; il marchese avrebbe pagato fodro in Asti per 500 lire. Anche il comune di Alba cedeva in quel medesimo tempo di fronte alla potenza di Asti. Infatti nel giugno del 1193 i consoli d'Alba accettarono un trattato di concordia, unità e perpetua ami-cizia con Asti: i due popoli sarebbero stati per l'avvenire concitta-dini ed amici, sicché avrebbero fruito degli stessi diritti, anche com-merciali, alle stesse condizioni, si sarebbero a vicenda aiutati con eserciti e cavalcate; avrebbero diviso egualmente le conquiste, sì che in Val di Tanaro da Govone e da Castagnole verso oriente le con-quiste fossero di Asti, attorno ad Alba invece per un circuito di quattro miglia, di Alba; le altre conquiste fossero per un quarto albesi e per tre quarti" astigiane; gli astigiani non conquistassero terre del vescovato d'Alba e gli albesi non conquistassero quelle del ve-scovato di Asti e Puna città non ricevesse i banditi dell'altra città. Con tale accordo Alba diventava certo non tanto alleata di Asti, quanto piuttosto sua soggetta e politicamente ed economicamente, Asti dominava ora veramente a sud del Po, dal Tanaro alle Alpi.

2. La ripresa della politica imperiale in Italia

Rientrato in Germania già alla fine del tragico 1191, per due anni l'imperatore fu tutto occupato nelle questioni politiche tedesche. Alle cose d'Italia provvedevano come potevano i suoi vicari; vita grassa facevano quei suoi capitani e presidi che aveva lasciato in varie città e castelli dell'Italia meridionale. Enrico VI però rifiutò energicamente ogni offerta di mediazione che papa Celestino III fece ed attendeva con impazienza il momento di poter ridiscendere nella penisola e riprendere l'offensiva. A nulla servi il tentativo di un'in -tesa che il re Tancredi fece liberando generosamente l'imperatrice Costanza.

In correlazione con le intenzioni di Enrico VI per l'Italia è da giudicare il viaggio in Germania di Bonifacio di Monferrato nel-l'estate del 1193. Probabilmente doveva riferire sulla situazione del-l'Italia superiore, inevitabile base di qualsiasi operazione militare contro il regno normanno.

L'imperatore poteva constatare oramai che la sua politica lombarda di appoggiarsi soltanto al eruDoo mmn™»» ----

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330 LE LOTTE COMUNAU IN PIEMONTE DOPO IL 1194

milanese fosse fallita, tuttavia non accennò a mutarla. Così diede a Bonifacio di Monferrato una prova capitale della sua benevolenza concedendogli in feudo la sua nemica, la città di Alessandria. II diploma di infeudazione fu sigillato il 4 dicembre 1193 a Gelnhau-sen. Cesarea che Federico I aveva dichiarato nel 1183 diretta dipen-denza dell'impero, ora era qualificata « opidum nostrum » e veniva ad avere un signore feudale nella persona del marchese nemico: come ora avrebbero potuto gli alessandrini resistere agli ordini impe-riali di sottomettersi a chi nella loro città rappresentava l'impero? Nel dicembre del 1193 i vicari imperiali d'Italia ebbero ordine da

Enrico VI di trattare con i vari comuni di Lombardia per stabilire una pacificazione. L'imperatore evidentemente considerava ora la sua

discesa in Italia come cosa vkinissiraa. E così nel gennaio del 1194 troviamo Drushard di Kestenburg a Vercelli intento a trattare con i

rappresentanti dei comuni per ottenere la promessa che nelle loro controversie sarebbero stati agli ordini che Enrico VI, o lo stesso Drushard in nome dell'imperatore, avrebbe dato: il 12 gennaio giurarono i rappresentanti di Pavia, di Cremona, di Lodi, di Ber-gamo, di Corno, di Parma, del marchese di Monferrato, del mar -chese Monroello Malaspina, di Milano, di Piacenza, Novara, Cesarea (Alessandria), Brescia, Crema, Asti, Pontremoli, Gravedona, Do-

maso, Chiavenna.Già il 14 gennaio il Legato imperiale proclamò la tregua tra

i comuni: i mercanti delle varie città potessero viaggiare liberamente con le loro merci: per i grani rimanessero le disposizioni dei vari comuni, ma chi volesse trasportare grano da città a città lo facesse liberamente; si liberassero i prigionieri; grave ammenda colpisse chi violasse la tregua. Quattro mesi dopo, il 20 aprile, Drushard di Kestenburg trasformò la tregua in pace definita, Parma ed i marchesi Monroello ed Alberto Malaspina sfuggirono alla pace e contro di essi fu lanciata sentenza di bando.

Ma alla tregua ed alla pace aderirono ed il marchese di Mon-ferrato ed i suoi due comuni nemici Asti ed Alessandria, cosi sulle rive del Tanaro ora la pace doveva essere sicura.

Nella primavera del 1194, Bonifacio di Monferrato, dopo avere assistito alle ultime trattative tra Enrico VI ed il suo malcapitato prigioniero, Riccardo Cuor di Leone, ed alla liberazione di quest'ul-timo, ritornò in Italia.

Il marchese precedeva di poco lo stesso imperatore che con l'esercito destinato alla spedizione di Sicilia, per Coirà e lo Spluga

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Lk RIPRESA DELLA POLITICA IMPERIALE IN ITALIA 331

scese a Chiavenna, insieme con la imperatrice Costanza ed il fratello Filippo, ed arrivò a Milano già il 23 maggio. Oramai la situazione nel regno sicUiano era stata dal destino volta completa-mente in favore di Costanza d'Altavilla e del suo imperiai consorte. Infatti il re Tancredi era morto il 20 febbraio precedente mentre attendeva a respingere un attacco di truppe tedesche discese nel -l'Abruzzo sotto la guida di Berthold di Kiinsberg. Pochi giorni prima era pure scomparso il principe ereditario Roggero. Fu ora incoro-nato re il più giovane figlio di Tancredi, Guglielmo III, per il quale assunse il governo la madre. Enrico VI avrebbe quindi trovato di fronte a sé una ben magra resistenza,

Bonifacio di Monferrato si fermò nei suoi stati poche setti-mane: già il 3 giugno raggiungeva Enrico VI a Piacenza, poi mentre l'esercito imperiale si metteva in marcia verso il sud, l'imperatore ed il marchese si recavano a Genova per procurarsi l'appoggio di quel comune; così pochi giorni dopo iniziavano allo stesso scopo trattative con Pisa. Quindi Enrico VI raggiunse l'esercito; il mar-chese Bonifacio invece si imbarcava sulla flotta genovese di cui assumeva il comando, quale Legato imperiale, insieme con il podestà Uberto di Olevano.

Sebbene così poco si fosse arrestato il marchese Bonifacio nel suo Monferrato, pure i preparativi militari che dovette compiere per l'imminente spedizione e poi più ancora l'annuncio dell'arrivo di Enrico VI con un esercito formidabile, inquietarono assai i comuni pedemontani. Questo stato di inquietudine ci è segnalato dai prov-vedimenti presi dai vari comuni. Il 9 maggio 1194 Asti e Vercelli si allearono e firmarono un trattato contro il marchese: alleanza per cinquantanni ; se il marchese avesse rotto il trattato conchiuso con una delle due città, determinando la guerra, l'altra città avrebbe dovuto entro quattordici giorni partecipare anch'essa al conflitto; la guerra sarebbe stata condotta d'accordo, ed i due comuni avrebbero dovuto raccogliere le loro genti in determinate località; il trattato sarebbe stato riconfermato ogni dieci anni. Pochi giorni dopo anche Vercelli e Novara venivano ad accordi: apparentemente il trattato era diretto contro i conti di Biandrate, ma in realtà mirava anche il loro protettore, il marchese di Monferrato (25 maggio 1194). Nel luglio Asti e Chieri si univano in alleanza, prendendo impegno di non fare pace separata per guerra iniziata di comune accordo. Il comune di Chieri affermava così praticamente la sua indipendenza dal vescovo di Torino e dai conti di Biandrate.

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332 LE LOTTE COMUNALI IN PIEMONTE DOPO IL 1194

I rapporti tra Asti ed il marchese di Monferrato nel 1194 si collegavano con la vecchia questione spinosa del comitato di Loreto. Un documento dell'8 maggio di quell'anno ci presenta la nuova situa-zione della questione. Tre rappresentanti del comune astigiano si presentavano in quel giorno a Bonifacio di Monferrato ed a Man-fredi Lancia marchese di Busca che si trovavano insieme a Casta-gnole oltre Tanaro ed ai due marchesi presentavano una diffida circa quanto stavano combinando. Era presente pure il castellano impe-riale di Annone, Tommaso. Da parte astigiana si avvertiva il mar-chese Bonifacio che metà del castello e comitato di Loreto appar-

teneva al comune per la cessione fatta da Ottone il Bovaro nel 1149 e per la riconferma del 1188 del suo erede Bonifacio di Cortemilia; si

guardasse bene dal comperare quindi quello che era già per buon diritto proprietà del comune. Analoga diffida fu fatta al marchese Manfredi Lancia: non vendesse, non cedesse quello che egli teneva solo a titolo di feudo d'Asti. Alla diffida i due marchesi risposero che non si trattava nei loro accordi di terre appartenenti ad Asti;

Manfredi Lancia affermò che intendeva cedere al marchese Boni -facio un suo allodio. E probabilmente tra i due si doveva discutere di quella parte (1/16) che Manfredi Lancia possedeva in proprio come sua quota della divisione fatta della metà di Loreto che Boni-facio di Cortemilia aveva lasciato ai nipoti. Ma forse non si trattava soltanto di quello: non è da escludere che il marchese Bonifacio utilizzando forse qualche somma di denaro avuta alla corte di En-rico VI non intendesse trattare con Manfredi Lancia sempre biso-gnoso di denaro, come ci dice Peire Vidal, per qualche cessione di Loreto anche in danno del comune d'Asti. Questo però vigilava per impedire che improvvisamente il marchese di Monferrato diven-

tasse conte di Loreto.Ad una riorganizzazione delle forze locali antiastigiane ci ripor-

tano alcuni documenti del 1193 e del 1194: così nell'agosto di quest'ultimo anno, due baroni aleramici, il marchese Guglielmo di Ceva ed il fratello Bonifacio marchese di Clavesana, stringevano alleanza con il comune di Alba: infatti si dichiaravano cittadini del comune, promettevano di comperare casa in città, promettevano e reciprocamente esigevano l'aiuto di dieci cavalieri e di duecento fanti, in caso di guerra.

Lo stesso giorno anche Manfredi II di Saluzzo si accordava con Alba e si dichiarava cittadino del comune, giurando di pagare

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LA SITUAZIONE DOPO LA CONQUISTA SVEVA DI SICILIA 33>

i tributi del comune come altro cittadino, per 400 lire astesi e di avere in Alba una casa per 100 lire; maggiori impegni, e militari, come i suoi consanguinei di Ceva, non si arrischiava a contrarre, dati i suoi legami feudali con Asti.

Il passaggio di Enrico VI dava qualche animo ai nemici di Asti: è vero che l'imperatore cercò di compiere l'opera di pacifica-zione iniziata da Drushard di Kestenburg nei mesi precedenti: nei maggio Drushard aveva ottenuto dai cremonesi l'adesione alla pace di Vercelli, Ora le due parti liberarono i prigionieri per ordine di Enrico VI; solo Piacenza ed i Malaspina rifiutarono.

3. La situazione dopo la conquista sveva di Sicilia

La spedizione imperiale in Sicilia fu vittoriosa. La flotta geno-vese si unì davanti a Pisa con quella pisana: ne assunse il comando supremo Markward di Anweiler. Gaeta si arrese senza resistenza, poi si arrese anche Napoli (23 agosto). Allora la flotta si avviò sen-z'altro verso Messina (1° settembre). I messinesi avevano già inviato ambasciatori a rendere omaggio ad Enrico VI ed ora riconobbero subito il nuovo re.

Intanto l'imperatore discendeva con l'esercito: nessuna resi-stenza; dovunque premura per riconoscere il nuovo padrone; tuttavia per vendicarsi dei guai della precedente spedizione, Enrico VI fece saccheggiare Nocera e Salerno, ma soprattutto Salerno rea di avere catturato tre anni prima Costanza d'Altavilla fu crudelmente trat-tata: i cittadini uccisi o cacciati in carcere od in esilio, i beni degli abitanti e delle chiese divisi come bottino. Amalfi allora si affrettò ad abbandonare l'idea di resistere e così tutte le città di tetraferma si piegarono.

Solo alla fine dell'ottobre Enrico VI potè giungere a Messina dove la flotta genovese-pisana da quasi due mesi attendeva. Indugio fastidioso che favorì il prorompere delle lotte tra genovesi e pisani; tra le due parti si combattè come fra nemici e Bonifacio di Mon-ferrato vi prese parte insieme con i genovesi e Rambaldo di Va-queiraz elogiandolo poi gli diceva:

A Messina vi copersi con lo scudo — Nella battaglia a voi venni in quel momento — Che essi vi scagliavano nel petto e nel volto — Dardi e quadretti, saette e tronconi di lancia.

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334 LE LOTTE COMUNALI IN PIEMONTE DOPO IL 1194

La conquista della Sicilia richiese poche settimane. Già il 20 novembre Enrico VI entrò trionfalmente in Palermo ed il giorno di Natale si faceva incoronare re nella cattedrale normanna con la corona di Roggero II. Ad accrescere il trionfo di Enrico VI gli giunse poco dopo la lieta notizia che la consorte Costanza arrestatasi perché gravida a lesi, nella marca d'Ancona, ivi aveva partorito il 26 dicembre un figlio maschio. II nuovo virgulto degli Staufer per ricordare l'avo paterno e l'avo materno insieme fu chiamato Rog-gero Federico.

Il marchese di Monferrato rimase al fianco dell'imperatore du-rante tutto il soggiorno di Sicilia. Non sappiamo nulla di preciso delle sue imprese, essendo molto confuso l'accenno di Rambaldo di Vaqueiraz:

E quando prendeste Randaccio e Paterno —• Roccella- e Termini, Lentini ed Aidone — Piazza, Palermo e Caltagirone, — Fui io dei primi, lo videro molti buoni baroni...

Da Palermo il marchese Bonifacio seguì poi Enrico VI nel suo viaggio attraverso le provincie continentali: l'imperatore giunse a Bari, dove a Pasqua (2 aprile 1195) tenne solenne dieta, presente pure l'imperatrice Costanza, venuta con il figliolino a prendere pos-sesso del regno normanno che era in verità tutto suo. Poscia, En-rico VI, lasciato la consorte a reggere in nome suo il regno risalì nell'Italia superiore. L'imperatore il 1° giugno era a Milano e poi per Comò ritornava in Germania; il marchese Bonifacio soltanto a Comò se ne separò.

Prima di lasciare la Lombardia, secondo la promessa fatta anni prima ai cremonesi, l'imperatore concedette loro — in Corno, pre-sente il marchese di Monferrato ed i rappresentanti di Pavia, di Lodi, di Bergamo — l'investitura di Crema e dell'Insula Fulcherii (6 giugno 1195).

La conquista del regno di Sicilia pareva dare infatti ad Enrico VI l'assoluta garanzia che ogni ulteriore opposizione al suo dominio in Italia era oramai vana. Il maggiore storico tedesco di Enrico VI, il Toeche, esaminando i progetti grandiosi che in questo momento il grande figlio di Federico Barbarossa veniva meditando, i suoi piani cioè di sottomettere a sé l'impero bizantino, di riprendere la Crociata in Siria, di piegare alla sua volontà il papato romano, osserva che nel 1195 il gruppo dei comuni lombardi che faceva capo a Milano, nella resistenza al marchese di Monferrato ed a

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LA SITUAZIONE DOPO LA CONQUISTA SVEVA DI SICILIA 335

Cremona, apparivano come gli ultimi difensori della libertà italiana. Ed in realtà nel 1195 la situazione italiana era appunto questa; Milano ed i pochi comuni che ad esso aderivano erano per Enrico VI l'ultimo ostacolo da superare per raggiungere la mèta: stabilire l'au-torità degli Staufer su tutta la penisola. Questo adunque era il pro-gramma immediato, urgente, della politica imperiale, abbattere Mi-lano. La caduta di Milano avrebbe costretto gli astigiani a ritor -nare alla sottomissione, come quattro decenni prima con Federico Barbarossa.

Vero è che gli astigiani si comportavano verso l'impero con molta prudenza, cercando di distinguere tra impero e Monferrato. Il castellano dì Annone e nunzio imperiale, Tommaso, era pur sem-pre rispettato, se pure con molta diffidenza: nel 1195-1196 lo ve-diamo esercitare la sua piena autorità a Torino, ad Alba, ad Ivrea. La tranquillità pare regnare in Piemonte, mentre in Lombardia già nell'estate del 1195, appena partito Enrico VI, si combatte di nuovo tra milanesi e cremonesi. Infatti appena i cremonesi furono in pos-sesso del diploma imperiale, subito cercarono di far valere i loro diritti di signoria su Crema. Tosto si opposero Milano e Brescia che portarono aiuti ai cremaschi. II 13 luglio un rappresentante imperiale lanciava il bando contro le città nemiche. Ma gli echi del diploma imperiale a favore di Cremona furono più gravi. Milano e Brescia, anziché accasciarsi, il 30 aprile arditamente riunivano a Borgo San Donnino i rappresentanti di dodici città e nuovamente giuravano i patti della Lega Lombarda. La Lega anticremonese di-ventava così anti-imperiale e lanciava il grido di all'arme in tutta l'Italia. I cremonesi accettarono la sfida ed arditamente combatte-rono nel settembre ad Albera, ma furono sconfitti dai milanesi.

Il grido di all'armi! della Lega Lombarda diventava allora poe-sia patriottica in un sirventese di Pietro de la Caravana.

Poiché così cantava sulla fine del 1195 od il principio del 1196 Pietro de la Caravana:

Di fare un sirventese — È mio proposito, così — Che possa dirlo — Presto e breve. — II nostro imperatore — Raduna gran gente:

Lombardi ben guardatevi — Che presto non siale — Peggio che schiavi — Se non state saldi!

Di prendere i suoi doni — Non siate cupidi, — Per farvi contendere — — Non sarà avaro di mezzi; — Se poi vi fa imprigionare — il suo avere vi sarà amaro.

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336 LE LOTTE COMUNALI IN PIEMONTE DOPO IL 1194

Lombardi ben guardatevi,'

Di Pugik ricordatevi — Dei valenti baroni; — Che essi non hanno nulla più che loro possa togliere — Fuori che le case; — Badate che non avvenga — Altrettanto di voi!

Lombardi ben guardatevi/

La gente d'AUemagna — Non vogliate amare, — Ed in loro compagnia — Non vi piaccia vivere, — Perché il mio cuore si dispiace — Per il loro modo brutale.

Lombardi ben guardatevi!

Ranocchie sembrano — Quando dicono: broder, guaz; (fratello, lo paga!) — Latrano, quando s'adunano, — Come cani arrabbiati. — Non vogliate che vengano! — Da voi allontanateli!

Lombardi ben guardatevi!

Dio protegga la Lombardia, ■— Bologna e Milano — Ed i loro, alleati — Bre-scia e Mantovani — Che nessun di essi sia servo — Ed i buoni Marchigiani.

Lombardi ben guardatevi!

Sentimenti di nobile fierezza; ammonimenti inspirati a dignità nazionale.

E Peire Vidal a sua volta ammoniva:

. . .E poiché Milano è alto e sovrano, — Ben vorrei pace tra essi ed i Pavesi— E che questa Lombardia fosse difesa — Dai vili ribaldi e dai malvagi sche-rani. — Lombardi, ricordatevi come Puglia fu conquistata, — Come donne e valenti baroni — Fossero messi nelle mani dei garzoni! — E di voi fanno fra di sé peggio: divisamente.

La ricostruzione della Lega Lombarda, la sconfitta di Cremona ristabilirono il prestigio di Milano in tutta l'Italia superiore. Un'al-leata importante trovò ora subito Milano in Genova piena d'ira per il rifiuto sdegnoso di Enrico VI di mantenere le promesse fatte prima della conquista della Sicilia.

Di fronte alla minacciosa situazione si affrettò l'imperatore ad intervenire in soccorso di Cremona e degli altri comuni fedeli. In attesa di intervenire personalmente, nell'autunno del 1195 mandò lettere a tutti i comuni perché rispettassero la tregua che avrebbe proclamato il suo Legato in Italia: egli alla sua venuta nella penisola avrebbe regolato la pace. Secondo le sue disposizioni, il vescovo Corrado di Hildesheim, Cancelliere dell'impero e Legato per tutta , l'Italia, il 20 gennaio seguente, stando nella chiesa di Borgo San Don-

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LA SITUA2I0NE DOPO LA CONQUISTA SVEVA DI SICILIA 337

nino, alla presenza dell'arcivescovo di Milano e dei vescovi di Ver-celli, di Parma, di Novara, di Bergamo, di Bobbio, e di vari giudici e castellani imperiali, tra cui Tommaso di Annone, proclamò una tregua, intimando ai cremonesi, ai milanesi, ai cremaschi di atte-nervisi, sino a trenta giorni dopo l'arrivo in Italia dell'imperatore; qualora un comune violasse la tregua, gli altri comuni non avrebbero dovuto dare né consiglio né aiuto alla parte violatrice; si liberassero i prigionieri, le strade fossero sicure; l'imperatore od i suoi rappre-sentanti avrebbero regolato ogni controversia.

Enrico VI scese in Italia solo nel luglio del 1196. Poiché veniva dopo aver visitato in Franca Contea il fratello minore Ottone conte di Borgogna, questa volta attraversò lo stato sabaudo. Vide in tale occasione il giovane Conte di Savoia?

Il 25 luglio 1196 l'imperatore era a Torino: lo accolse il po-destà imperiale Tommaso di Annone. Questi aveva nel novembre precedente impetrato da Enrico VI la concessione della quarta parte del pedaggio torinese; forse ora ottenne in feudo lo stesso palazzo imperiale di Torino: miravano questi atti a radicare in Torino il fido Tommaso di Annone, sì da creare in Torino una dinastia di feudatari tedeschi, tra vescovo e comune.

Dopo avere da Torino sigillato diplomi a favore degli arcive-scovi di Tarentasia e di Vienne, che forse lo avevano ossequiato nel viaggio di Borgogna ed ottenutone promesse, l'imperatore pro-seguì il suo viaggio. Il 9 agosto era a Milano, il 23 seguente a Pavia. Quivi infatti il 15 settembre 1196 sigillava un diploma a favore del vescovo di Torino Ardoino di Valperga: riconfermava le concessioni già fatte da Federico I al vescovo suo predecessore, Milone, dichia-rava nulli i contratti di feudi della chiesa torinese, fossero vendite od impignoramenti, con il diritto di avocare quei feudi alla chiesa stessa se i legittimi feudatari non avessero provvisto a riscattare i feudi stessi. Enrico VI intendeva rafforzare il vescovo di Torino contro tutti quelli che avevano in qualche modo messo le mani sui feudi episcopali: forse non tanto i Savoia quanto le grandi famiglie feudali della regione, come i Piossasco, i Biandrate, ecc.

Contemporaneamente l'imperatore a richiesta del vescovo di Torino, Ardoino, prendeva sotto la sua protezione la nuova certosa di Losa, sorta in Val di Susa, come si è visto, pochi anni prima, sotto gli auspici del Conte di Savoia; concedeva ai certosini vari privilegi ed inviava ordine al comune di Torino di proteggere e difendere i monaci, liberandoli da ogni pedaggio. E la stessa con-

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338 LE LOTTE COMUNALI IN PIEMONTE DOPO IL 1194

cessione faceva il vescovo Ardoino, per quanto riguardava il suo pedaggio di Rivoli. Si cercava adunque di far risalire l'influsso di Torino su nella Valle di Susa, servendosi della nuova certosa.

Quale azione abbia esercitato di persona l'imperatore nelle con-troversie dei comuni lombardi ignoriamo. Evidentemente i comuni nemici tacquero in sua presenza. La questione di Crema rimase ancora insoluta. Fu regolata invece, non sappiamo se per influsso di Enrico VI, ma è probabile, la vertenza di Milano e di Comò per Gravedona e Domaso che furono assegnate al distretto comasco con un accordo tra le due città (16 settembre 1196). Se però nell'agosto del 1196 Enrico VI soggiornò per alcuni giorni in Milano, i rap-porti suoi con i milanesi non dovevano essere pessimi. Od almeno i milanesi credettero opportuno essere modesti.

Da Pavia, l'imperatore prese la via dell'Italia meridionale. Il 21 settembre era già a Fornovo ed ora forse lo lasciarono il mar -chese di Monferrato, il conte di Biandrate, il marchese di Parodi ed altri feudatari dell'Italia occidentale. Enrico VI continuò lenta -mente il viaggio verso Palermo: solo nel febbraio attraversava lo stretto di Messina e nell'isola doveva pochi mesi dopo venire a morte (28 settembre 1197). Aveva appena 32 anni: lasciava incompiuti i grandi progetti sognati.

4. La reazione antiimpenale in Piemonte dopo la morte di ìLnrica VI

La notizia della morte dell'imperatore svevo non tardò a dif-fondersi per tutta la penisola. Sentimenti di dolore e di timore negli imperiali, sentimenti di sollievo, di gioia anzi negli avversari. Il trono è vacante, l'erede di Enrico VI è un bambino di tre anni: scom-parso il pericolo dell'egemonia sveva su tutta la penisola, scomparso il pericolo dell'umiliazione del papato.

Asti ed Alessandria si misero alla testa del movimento anti-imperiale.

Appena la notizia della morte di Enrico VI arrivò ad Asti, si prese una decisione solenne per affermare la propria indipendenza: la riconquista del castello di Annone. Per Asti non poteva esservi tranquillità finché ad Annone vi fosse un presidio tedesco. Il 29 novembre il podestà con il consiglio deliberava su questioni cittadine stando « in obsidione Noni ». Il 4 dicembre Annone si arrese. Il castellano Tommaso era lontano, forse presso il marchese di Monfer-

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LA REAZIONE ANTIIMPERIALE IN PIEMONTE 339

rato; il comune di Annone si affrettò a venire a patti con gli asti -giani, ottenendo che la castellana Elena potesse liberamente partir-sene con i figli e soprattutto ottenendo il riconoscimento di tutti gli usi e libertà del luogo. Pochi giorni dopo il comune d'Asti faceva solenne decreto di tenere in perpetuo e di non mai alienare il castello di Annone e tutte le sue dipendenze e tutto il comitato di Serra-lunga e Musanza, Musanzola, Travezzola, Dusino, Refrancore, Cerro, Foresto, tutti i possessi cioè che i tedeschi avevano riunito ad Annone,

II baluardo svevo nella Valle del Tanaro era scomparso. Anche Alessandria proclamò la sua indipendenza abbandonando definitiva-mente il nome di Cesarea: rivendicava la sua origine anti-imperiale.

Bonifacio di Monferrato fu invece colpito in pieno dalla scom-parsa dell'imperatore e protettore: ora la lotta con Asti e con Ales-sandria si presentava difficile, pericolosa.

I diritti che i diplomi imperiali gli avevano dato su di Ales-sandria minacciavano di rimanere vani, se Bonifacio non fosse riu-scito a rompere il blocco dei due comuni, anzi per dominare Ales-sandria occorreva prima abbattere Asti. E con quest'ultimo comune le relazioni non erano migliorate: la questione del comitato di Loreto si era inviperita assai di più. I sospetti degli astigiani che il mar -chese di Monferrato volesse installarsi davvero a Loreto avevano avuto una grande conferma.

Di ritorno dall'aver accompagnato Enrico VI sino a Fornovo nel suo ultimo viaggio d'Italia, nell'autunno del 1196, il marchese Bonifacio si era trovato il 3 novembre di quell'anno a Dogliani presso Manfredi Lancia e con lui aveva conchiuso un importante trattato; l'acquisto cioè di tutta la terra che Manfredi Lancia pos-sedeva in Lombardia: il castello di Dogliani, la metà del comitato di Loreto e di San Stefano e di Cossano e della Rocchetti e di Favrie e tutta l'altra terra, escluso Bossolasco, Niella, Recisio, Boves; il prezzo era fissato in 5000 oncie d'oro. Manfredi Lancia avrebbe riavuto tutti questi domini in feudo dal marchese di Monferrato, al quale, alla sua morte, le terre sarebbero ritornate. All'accordo erano presenti Manfredi marchese di Saluzzo, Ottone marchese del Carretto come per dare maggiore importanza all'accordo e forse anche per dare maggiore carattere di ostilità ad Asti.

Aveva veramente Bonifacio versato il denaro od era un acquisto fittizio ? Molto probabilmente il contratto del 3 novembre 1196 rego-lava una situazione finanziaria già preesistente. Manfredi Lancia do-vette introitare assai poco del denaro pattuito, sia che fosse già

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340 LE LOTTE COMUNALI IN PIEMONTE DOPO It 1194

debitore del marchese Bonifacio o che questi si impegnasse a rego-lare debiti di Manfredi Lancia. Ma ora il marchese di Monferrato appariva come predominante a Loreto: dopo aver acquistato nel 1192 la parte di Berengario di Busca, ne acquistava quella di Man-fredi Lancia e praticamente si 'avviava ad eliminare i diritti di Asti sul comitato di Loreto. Manfredi Lancia ora alle proteste astigiane poteva rispondere di essere vassallo del marchese di Monferrato: Asti era soppiantata. Morto Manfredi Lancia, unico proprietario sarebbe stato il marchese. Giustamente lo storico di Manfredi Lancia, il Merkel, richiamò l'attenzione sopra qualche documento degli anni precedenti in cui Manfredi Lancia si intitola conte di Loreto, oltreché marchese di Busca, quasi per affermare solennemente la sua posi-zione di diritto di fronte ad Asti che voleva trattarlo come un vassallo.

Assai probabilmente però Bonifacio di Monferrato si era assicurato l'appoggio di Enrico VI, perché quando gli Astigiani protestarono,

ebbero come risposta il rinvio della questione al rappresentante imperiale in Piemonte, Tommaso di Annone. Fu nominata una

commissione arbitrale: Tommaso di Annone, il prevosto di Asti, Elemosina (che fa l'impressione di essere un partigiano del marchese di Monferrato). Manfredi marchese di Saluzzo, e quattro cittadini

d'Alba: amici d'Asti, questi, o del marchese?Ma la questione di Manfredi Lancia e di Loreto fu solo una delle tante questioni che gli arbitri dovettero esaminare; il marchese Bonifacio presentò una cospicua serie di richieste, e gravi. Chiedeva il riconoscimento dei suoi diritti al possesso della quarta parte di Asti, cioè i diritti che Berta di Torino, la sorella minore della con -tessa Adelaide aveva portato agli Aleramici per mezzo del suo ma-trimonio con il marchese Tete; poi i feudi di Santa Maria che il comune d'Asti aveva acquistato da individui, che il marchese diceva suoi vassalli, presso il fiume Versa; chiedeva poi i castelli della Rocchetta, di Montaldo, di Vigliano, di Corte Comaro, di Malamorte. A loro volta i consoli d'Asti pretendevano i castelli di Feliz-zano, di Vignale, le terre degli eredi del marchese Ardizzone sulla destra e sulla sinistra del Po, la loro parte di Mombercelli, il comitato di Loreto, le somme che il marchese doveva ai cittadini d'Asti, e poi quei certi riscatti del 1191 che aveva promesso di restituire, ma che non aveva restituito.

Gli arbitri emisero un giudizio che sostanzialmente era a favore del marchese. Certo ordinavano che gli astigiani tenessero e la quarta parte della loro città che il marchese pretendeva ed i feudi pure

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LA REAZIONE ANTIIMPERIALE IN PIEMONTE 341

richiesti, ma queste richieste evidentemente miravano solo a proteg-gere le vere esigenze di Bonifacio. Infatti per la loro città, come per la Rocchetta e per Montaldo, gli astigiani dovevano rispettare i diritti, cioè la « iustitia » del marchese. Per il castello di Vigliano, gli astigiani dovevano tenerlo in feudo dal marchese; a Malamorte, Mombercelli, Corte Comaro i diritti di ambedue le parti dovevano essere rispettati; per Felizzano, invece, il marchese l'avrebbe tenuto in feudo da Asti; Vignale e le terre del marchese Ardizzone erano assegnate al marchese Bonifacio, fatta riserva per i diritti feudali di Àsti; per Loreto, gli astigiani avrebbero dovuto aspettare a far valere i loro diritti quando quel castello e comitato fossero vera-mente passati al marchese di Monferrato in proprietà. Ed il lodo conchiudeva stabilendo che il marchese Bonifacio pagasse le somme dei riscatti del 1191 con le entrate del pedaggio di Mombaruzzo; si facesse cittadino di Asti; avesse in città casa e pagasse fodro per mille lire; tra il marchese ed il comune vi fosse obbligo reciproco di aiuto (11 febbraio 1197).

Gli astigiani non dovevano essere troppo soddisfatti della solu-zione: avere il marchese come cittadino, ed aspettare a discutere la questione dt Loreto, che, morto Manfredo Lancia, il marchese di Monferrato si installasse come padrone a Loreto! Né poteva gar -bare l'impegno che, se una parte avesse violato il lodo, dovesse essere combattuta ed i patti fossero annullati, mentre sino a che la pace fosse stata conservata, nessuna delle parti potesse muovere querela all'altra!

Quello stesso giorno, 11 febbraio 1197, la stessa commissione arbitrale decideva su un'altra questione, quella dei rapporti tra il marchese di Monferrato ed il comune d'Alba: il marchese sarebbe diventato cittadino albese; avrebbe avuto in questa città casa, pa-gando fodro per cinquecento lire; marchese e comune si sarebbero prestati aiuto e difesa reciproca contro gli aggressori. Ed anche questo atto come 0 precedente aveva avuto come testimoni Oberto conte di Biandrate, Manfredo Lancia, Guglielmo marchese del Bosco.

Il trattato tra il marchese ed il comune d'Alba appare pieno di significato. Alle relazioni con Asti si contrapponevano quelle con Alba. Evidentemente si voleva sottrarre Alba alla dipendenza verso Asti in cui l'aveva collocata il trattato del 1194; il marchese di Monferrato avrebbe potuto disporre di Alba contro Asti e dominare le due città ad un tempo. Si era adunque in piena politica di aggi-ramento di Asti.

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342 LE LOTTE COMUNALI IN PIEMONTE DOPO IL 1194

Due giorni dopo, proprio il 19 febbraio 1197, compariva in Alba il marchese di Ceva Anselmo detto il molle, e concedeva l'in-vestitura della parte del comitato di Loreto a lui toccata per l'eredità di Bonifacio di Cortemilia, cioè 1/8, per lire 190 astesi a Lan-franco Niello, cittadino d'Alba. Chi era l'acquirente? Lanfranco Niello era uno dei membri della commissione arbitrale tra Asti ed il mar-chese di Monferrato. Cosi ora Manfredi Lancia di Busca e Bonifacio di Monferrato erano presenti non solo come testimoni, ma anche come garanti per l'acquirente. Il contratto era quindi destinato ad , assicurare la posizione del marchese a Loreto.

Né basta: appena un mese dopo, il 19 marzo, il marchese Manfredi Lancia regolava con lo stesso Lanfranco Niello ed alcuni altri albesi suoi creditori, i suoi debiti che salivano a 1033 lire genovesi: prometteva di pagare con le 700 oncie d'oro che l'impe -ratore Enrico VI gli aveva promesso in dono; uno dei creditori si sarebbe interessato per introitare dall'imperatore detta somma; se il denaro non fosse stato introitato, il marchese avrebbe dato in pegno ai creditori la metà del castello di Castagnole e del comitato di Loreto, oltre a quella parte che aveva già dato in pegno a Lan-franco Niello, cioè 1/16.

Ma d'altra parte il povero Manfredo Lancia aveva già dato in pegno ad altri tre creditori i proventi di Loreto, sì che se egli fosse riuscito a soddisfare questi primi creditori, Lanfranco Niello ed i suoi colleghi avrebbero avuto il fodro del comitato di Loreto, metà per pagamento del debito, metà per godimento del feudo. Che se i creditori avessero voluto, Manfredi Lancia avrebbe dovuto loro consegnare i castelli; egli li avrebbe difesi, avrebbe loro fatto pre -stare fedeltà dagli abitanti e di tutto era garante Bonifacio di Mon-ferrato. Certo Manfredi Lancia era carico di debiti, ma non v'è dubbio che il marchese di Monferrato dirigesse tutti questi accordi per rendere impossibile qualsiasi azione astigiana su Loreto. Così la tragedia finanziaria del competitore poetico di Peire Vidal diven-tava campo di contrasti in tutta la Valle del Tanaro.

Ed in piena rovina, Manfredi Lancia il 1" novembre di quello stesso anno, stando a Pontestura, ospite del marchese di Monferrato, stabiliva uno statuto per le popolazioni rurali del suo comitato di Loreto, regolando i censi ed i diritti che si riservava ed in cambio i contadini gli promettevano di non fare nessuna congiura contro di lui e di non recarsi ad abitare altrove senza il suo consenso. Ed

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LA REAZIONE ANTHMPERIALE IN PIEMONTE 343

anche questa volta Bonifacio di Monferrato, come supremo signore, garantiva gli impegni delle due parti.

La questione di Loreto rendeva adunque inevitabile un con-flitto tra Asti ed il marchese Bonifacio. Ed infatti il 30 ottobre 1197, — non ancora era arrivato l'annuncio della motre di Enrico VI, — le due repubbliche anti-imperiali del Tanaro riconfermavano la loro vecchia alleanza del 1169 contro il marchese di Monferrato e contro il conte di Biandrate.

Asti dichiarava ora suoi alleati gli albesi, i vercellesi, i chieresi, i tortonesi, il vescovo di Torino, i signori di Rivalta, di Moncucco, di Cocconato, i comuni di Romanisio, di Savigliano, di Masio, i mar-chesi di Saluzzo, di Ceva, d'Incisa, i signori di Bra, i genovesi, i milanesi; Alessandria a sua volta dichiarava i comuni di Masio, di Cassine, di Gavi, i marchesi del Bosco, di Gavi, d'Incisa, e poi Genova, Milano.

Morto Enrico VI, la potenza del blocco Asti-Alessandria do-veva automaticamente apparire maggiore. Avrebbe ora Bonifacio di Monferrato tentato di spezzare questa cerchia di elementi ostili? Avrebbe saputo infondere nuova vita in una coalizione dei marchesi aleramici?

La risposta all'azione offensiva di Asti su Annone, fu un atto di Bonifazio di un mese dopo. Il 6 dicembre egli era a Cortemilia con il giovane figlio Guglielmo e concedeva al nipote Bonifazio di Saluzzo, figlio di quel marchese Manfredi II, come feudo le sue terre di Val di Stura: Roccasparvera, Gajola, Maiola, Ritana, Val-loriate, San Benedetto, Deraonte, Aisone, Vinadio, Sambuco, Ponte Bernardo, Pietraporzia, Bersezio, inoltre i castelli di Vignolo, di Roc-cavione, di Caraglio ed ancora i suoi allodi Marcenasco e di Dogliani.

La Valle di Stura che nel 1187 era passata dal marchese di Saluzzo ad Enrico VI, appariva dieci anni dopo proprietà del mar-chese di Monferrato. Quando l'aveva ottenuta? Era stata una con-cessione in compenso dell'aiuto dato nella spedizione di Sicilia? Ora Bonifacio di Monferrato se ne serviva per assicurarsi, evidentemente, l'amicizia ed i buoni servizi del cognato e del nipote dì Saluzzo. Non si può essere in dubbio: si pensava a concentrare le forze alera-miche contro il nemico, contro Asti.

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CAPITOLO XIII

HIE WELF! HIE WAIBLING!

1, La situazione nella regioni rodanica alla fine del secolo XII. - 2. Feudatari e vescovi in Borgogna. - 3. I conti di Albori ed i conti del Genevese. - 4. L'ascesa dei conti di Kyburg e dei conti di Habsburg. - 5. Lo scisma impe -riale in Borgogna. - 6. Tornmaso di Savoia in Val d'Aosta. -7. Midons de Savoia. - 8. La guerra nel Vaud.

1. La situazione nella regione roàanica alla fine del secolo XII

II figlio e successore di Federico Barbarossa, nel suo breve periodo di dominio (1190-1197) mostrò tale ambizione di conquiste, di espansione, che non possiamo credere ch'egli trascurasse e si disinteressasse del regno di Borgogna. Ma che cosa doveva essere la Borgogna nei piani di dominio di Enrico VI? Sicuro è che, come Federico Barbarossa fu costretto dalla travagliata sua polìtica italiana ad occuparsi solo saltuariamente dei possessi rodanici, così Enrico VI fu trattenuto dall'imporre energicamente la sua autorità nel vecchio regno burgundico dalTaffollarsi di grandi progetti nella sua mente; prima la conquista del regno di Sicilia, poi i progetti di crociata, di conquista di Costantinopoli.

Uno scrittore inglese della fine del secolo XII, Gervasio di Tillbury, poco tempo dopo la morte di Enrico VI, osservava con un senso di stupore come i principi tedeschi non attribuissero alla questione del regno di Borgogna, o come allora si incominciava a dire, del regno di Arles, quell'importanza che in realtà aveva: gli imperatori avrebbero dovuto, prima di ogni altra cosa, rinsaldare la loro autorità in una regione così ricca e così importante, in una regione che comandava tante strade d'accesso al regno di Francia da un lato, al regno d'Italia dall'altro e che tanto facilmente per

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LA SITUAZIONE NELLA REGIONE RODANICA ALLA FINE DEL SEC. XII 345

la Saóne ed il Rodano aveva a disposizione porti così atri alle grandi spedizioni nel Mediterraneo, sì da avvicinarsi senza difficoltà all'Italia meridionale, alle isole mediterranee, all'Africa, alla Siria. E Gervasio di Tillbury insisteva sul carattere mite delle popolazioni provenzali, desiderose di un governo giusto e buono: evidentemente egli faceva un confronto con le popolazioni italiane, così ostili a quanto sapeva di tedesco.

Invece la politica degli Staufer aveva continuato, senza penti-mento) senza indecisione, quella dei Franconi e dei Sassoni: la mèta di tutti gli sforzi era stata la conquista della penisola, la sottomis-sione dell'Italia comunale e dell'Italia meridionale, Enrico VI venne a morte quando il trionfo pareva sicuro, ed il trionfo svaniva. Tanta attività consumata in Italia aveva invece favorito lo svolgersi delle autonomie borgognoni e provenzali, aveva permesso che l'influsso del regno di Francia incominciasse a penetrare nelle valli della Saòne e del Rodano.

Gli Staufer avevano conquistato in Borgogna una roccaforte nella così detta Franca Contea; Federico Barbarossa aveva appunto sposato l'ereditiera di quella Contea. Quando nel 1185 Beatrice, « la bionda imperatrice », era morta, la Contea di Borgogna era, per decisione sua o di Federico I, passata ad uno dei figli, Ottone. Principe irniente fu giudicato, sì che pare Enrico VI non avesse molta fiducia nel fratello e che non lo secondasse e non lo spingesse ad una politica di espansione.

Nel 11,93 l'imperatore Enrico VI come è noto abbandonò la politica paterna di accordi con la Francia e si riconciliò invece con Riccardo Cuor di Leone d'Inghilterra, liberandolo dalla prigionia in cui era stato cacciato, al suo ritorno dalla Siria, dal duca d'Austria. Enrico VI in quell'occasione se lo liberò, si fece pagare un altissimo riscatto, poi convenne di dargli in feudo l'intero regno di Borgogna. Astuta .idea: se fosse stata realizzata avrebbe creato un duraturo dissidio franco-inglese e nello stesso tempo avrebbe messo il re d'Inghilterra nella necessità di dipendere-strettamente, per la lotta con la Francia, dall'imperatore tedésco.

Il progetto però svanì subito: Riccardo Cuor di Leone ripartì per i suoi stati ed Enrico VI ebbe occasione di attraversare la Borgogna solo nel 1196 venendo in Italia e dovette lasciare che quei territori continuassero a vivere in autonomia, sì da svolgere un processo di progressivo allontanamento dall'impero e di accosta-mento alla Francia.

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346 HIE WELF! HIE WAIBLTNG!

2. Feudatari e vescovi in Borgogna

Nel secolo XII il regno di Borgogna, come già fu detto, venne ad essere denominato regno di Arles e di Vienne, denominazione che trascurava del tutto la regione compresa tra il Giura, il corso il Reno e delPAar, che pure era stata parte cospicua del regno nei secoli X e XI, quando il re di Borgogna veniva chiamato « Alaman-norum et Provinciae rex ».Infatti il regno dei Rodolfingi, alla fine del secolo X, era con tenuto

in limiti irregolari: da Basilea, che era il punto più setten trionale, il confine raggiungeva, attraversando la Porta Burgundica, Belfort e

Vesoul, quindi passava sulla Saòne e la seguiva, tortuosamente però, sì da lasciare alla contea di Chàlon (Francia regia) un

territorio sulla riva sinistra del fiume, mentre invece a più riprese si estendeva sulla destra dello Saòne e del Rodano per girare attorno alla

contea di Lione (Borgogna) alla contea del Forez, alla contea di Viviers per scendere poi al mare lungo il Rodano. A sud il confine era

il mare, ad oriente la linea delle Alpi, deviando però in modo da comprendere la contea di Aosta e da scendere sulla Dora Baltea sino

a Pont-Saint Martin; quindi ritornato sullo spartiacque, correva sino al Gottardo, donde saliva al nord lungo l 'Aar ed i l Reno.

Comprendeva adunque le seguenti regioni: l'attuale Svizzera occi -dentale, la Franca Contea di Borgogna, il comitato di Ginevra, il Vallese, il Vaud, il Chablais, il Faucigny, la Savoia e la Bresse, il Lionese, il Delfinato, il Vivarais, la Provenza, la Valle d'Aosta.

Nel regno di Borgogna apparivano perciò due regioni distinte: quella con direzione nord-sud, tra la Saòne ed il Giura e poi tra il

Rodano e le Alpi; quella con direzione ovest-est, tra il Giura e le Alpi Centrali. Nulla dunque di organico era risultato dall'unione tra

la Borgogna Viennese e la Borgogna iurana in seguito all'accordo di Rodolfo II di Borgogna e di Ugo d'Italia: le popolazioni erano

tedesche, francesi, italiane, senza nessun chiaro e deciso carattere di nazionalità.

Sotto la dinastia dei Rodolfingi (888-1032) il feudalismo bor-gognone si era sviluppato vivacemente, portando alla creazione di vari principati ecclesiastici e di comitati laici: l'unione del regno di Borgogna al sacro romano impero, sotto Corrado II il Salico, doveva proteggere sempre più lo sviluppo di questi organismi regionali e la tendenza alla formazione di veri principati

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FEUDATARI E VESCOVI IN BORGOGNA 3 4 7

Verso la metà del secolo XI, l'autorità imperiale in Borgogna parve oscillare in seguito alla inevitabile prolungata lontananza degli imperatori del regno; all'imperatore Enrico III il cappellano Wip-pone dava nel Tetralogia chiari ammonimenti: « quando il padrone è spesso assente, la fedeltà dei nuovi sudditi è esposta ad on -deggiare ».

Un tentativo di dominare la regione burgundica fu fatto nei primi tempi del regno di Enrico IV con la creazione del rettorato di Borgogna, specie di vicereame che comprendeva la regione tra il Giura e le Alpi. Tenne dapprima il rettorato quel Rodolfo di Rheinfelden duca di Svevia, che diventò cognato di Enrico IV spo-sando Adelaide di Savoia, la sorella dell'imperatrice Berta, e figlia minore di Adelaide di Torino e di Ottone di Savoia.

Poi i due cognati si azzuffarono — sorto il conflitto tra impero e papato — per il regno di Germania: Rodolfo perì nel 1080 nella battaglia dell'Elster ed il figlio Bertoldo a sua volta scomparve negli anni seguenti. L'imperatore trionfante assegnò il ducato di Svevia agli Staufer, fedeli suoi partigiani, invece i possessi di Rheinfelden e della Svizzera occidentale passarono, morto Bertoldo di Svevia, ai parenti, conti di Zahringen.

Verso il 1092 Bertoldo di Zahringen ottenne dal partito antien-riciano, a cui aderiva, il ducato di Svevia in opposizione agli Staufer, ma non lo potè conservare e si sostenne soltanto sulla sinistra del Reno, mentre sulla destra del fiume, nella vera Svevia si rafforza-vano gli Staufer. Poi Zàhringer e Staufer si riconciliarono: gli Zàhringer conservarono come possesso Zurigo con il titolo ducale e si dissero duchi di Zahringen. Vicino ad essi si era formata la potenza dei conti di Lenzbourg: quando questi scomparvero poi nella seconda metà del secolo XII, i loro possessi passarono agli Zahringer.

Gli Zàhringer tendevano evidentemente a creare un vasto stato tra le Alpi, il Giura ed il Reno, agguantando cioè tutta la Borgogna rodolfingia primitiva. Nella prima metà del secolo XII, sotto Lota-rio III, parve che la fortuna li assistesse. Infatti, essendo morto nel 1127 Guglielmo conte di Borgogna, l'imperatore rifiutò di rico-noscere come erede il cugino del defunto, Rinaldo, che si era impa-dronito della contea senza preoccuparsi di chiedere l'investitura e gli oppose Corrado figlio di Bertoldo di Zahringen, con il titolo di Rettore delle due Borgogne, cisiurana e transiurana.

Ne nacque un conflitto senza netta decisione: in Borgogna

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rimase quel conte Rinaldo, in lotta però con un congiunto, Gugliel -mo conte di Mlcon; gli Zahringer rimasero col solo rettorato della Borgogna orientale. Appunto la figlia di Rinaldo della Franca Contea di Borgogna, Beatrice, erede del dominio paterno nel 1148, fu la sposa di Federico Barbarossa.

II regno di Borgogna formava adunque solo teoricamente nel secolo XII una unità politica nell'alone del sacro romano impero: in pratica era completamente disgregato. Ne prendeva atto, con ama-rezza, Lotario di Supplimburgo nel 1136; scrivendo ai vassalli di Borgogna perché partecipassero alla sua spedizione in Italia, diceva di aver più volte reclamato il tributo del loro omaggio e della loro sottoxnisisone: « voi non avete tenuto conto, indicando così in modo indegno il vostro disprezzo per la nostra suprema autorità ».

Decadenza completa adunque dell'autorità imperiale così in Borgogna, come in Italia ed in Germania: la lotta delle investiture, ben si comprende, aveva avuto grande parte in questo importante fenomeno storico.

Le tendenze autonomiste della regione burgundo-alpina sono rappresentate nel secolo XII con prudenza ma con fermezza dalla politica dei Conti di Savoia.

I Conti di Savoia avevano i loro domini in una zona importante, ma difficile: nella zona di sutura delle due Borgogne, esposti quindi alle pressioni che potevano venire dal nord-est e dal sud-ovest. Le-gati contemporaneamente alla casa imperiale di Franconia ed alla casa ducale di Svevia-Rheinfelden non avevano i Savoia potuto trarre — durante la lotta delle investiture — grande profitto dalle paren-tele, per il dissidio tra Enrico IV e Rodolfo.

Molto probabilmente Amedeo III fu in contrasto con gli impe-ratori Lotario e Corrado IV e con Federico I, per le questioni bor-gognoni prima ancora che per il comitato e la marca di Torino: solo Umberto III si dovette accostare agli Zahringer verso il 1164 sposando Clemenza sorella del duca Bertoldo IV (1152-1186), ripu-diata poco prima dal suo primo marito Enrico il Leone duca di Sassonia,

Umberto III di Savoia infatti era stato gravemente danneg-giato quando Federico Barbarossa, sposata Beatrice di Borgogna ed accostatosi quindi alla famiglia dei conti di Franca Contea e di Mdcon, aveva creduto necessario indennizzare gli Zahringer del do-ver rinunciare definitivamente al rettorato di Borgogna ed ai terri -tori ad occidente della Giura, cedendo loro l'awocazia dei tre

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I CONTI DI ALBON ED I CONTI DEL GENEVESE

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vescovadi di Losanna, Ginevra, Sion. La posizione di fatto e di diritto che i Savoia avevano da un secolo e più nel Vallese venne ad essere danneggiata. Infatti Amedeo III di Savoia nel 1116 si qualificava « comes et abbas » di San Maurizio ed i signori di Sail-lon e di Conthey erano già nel secolo XII vassalli di Savoia. Tut-tavia Bertoldo di Zàhringer non riuscì a conservare se non Pavvo-cazia del vescovato di Losanna; per Ginevra dovette cedere al conte locale e per Sion cedette invece ad Umberto III di Savoia, forse appunto in occasione del matrimonio della sorella Clemenza. In tal modo il Conte di Savoia potè conservare le sue posizioni nel Val lese, sebbene fosse sempre in condizione di inferiorità rispetto ai potenti Zàhringer.

3. I conti di Albon ed i conti del Genevese

Degni di essere esaminati sono i legami dei Savoia con alcune dinastie feudali della regione.

A sud i Conti di Savoia erano in contatto con i conti d'Albon: le due famiglie avevano possessi addentellantisi nelle diocesi di Vienne e di Grenoble. Anche le origini della dinastia d'Albon pre -sentano dubbi, incertezze come quelle della casa di Savoia. Nell'età di Umberto I Biancamano la casa d'Albon era rappresentata da un Guigo conte, nei documenti dopo 0 1029; in un documento del 1050 è detto principe della regione del Graisivaudan. II più recente ,studioso delle origini di questa dinastia, il De Manteyer, crede di poter affermare che la famiglia dei Guigoni — poiché tipico della famiglia è tale nome — fosse nel secolo X la famiglia dei vicari della dinastia comitale che dominava allora il Viennese, sulla riva destra del Rodano. Un « domnus Guigo » nel 934 faceva una donazione all'abazia di Cluny, di terre site nel paese d'Annonay e preci -samente nella villa di Vion: il De Manteyer lo chiama Guigo di Vion. La sua famiglia avrebbe acquistato potenza ed influsso nella regione via via che forniva i vescovi alle sedi di Grenoble, di Vienne, e persino di Valence.

Solo nella prima metà del secolo XI, Guigo VI (?), quello che in qualche carta si dice « ego Guigo comes qui nomine vocor Senex » sarebbe diventato conte di Albon, smembramento del comitato di Vienne, per opera dell'arcivescovo Burcardo ed altre terre con la metà di Grenoble avrebbe ricevuto poi dal vescovo Mallein ancora

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prima del 1050. Guido VI, il vecchio, il figlio Guigo VII il grasso (Guigo pinguis) sono ricordati da diversi documenti nella metà del secolo senza che sia individuata la loro situazione politica; solo Guigo Vili nel 1079 è detto « oppidi Albionis cornes ». E questo Guigo Vili nella curiosa ricostruzione — storica? — del De Man-teyer, avrebbe sposato, grazie all'abilità di Sant'Anselmo d'Aosta arcivescovo di Canterbury una Mahaut « regina de natione Angliae » che Io stesso erudito è convinto debba essere stata una figlia di Edgardo, quel principe anglo-sassone cugino di Edoardo il confes-sore, re d'Inghilterra prima della conquista di Guglielmo di Nor-mandia. In questo modo il De Manteyer spiegherebbe come uno dei ■figli di Guigo Vili e di Mahaut oltre al nome famigliare di Guigo ricevesse anche quello di Delfino per ricordare uno zio materno forse di Mahaut, Delfino conte di Cumberland.

La sola cosa certa è che Guigo IX — numerando secondo la cronologia del De Manteyer — ebbe anche il nome di Delfino e che da lui j conti d'Albon assunsero il secondo nome di Delfino che più tardi diventò soprannome e poi titolo dei principi ed infine diede il nome di Delfinato alla regione stessa. Nel secolo XII al titolo di conte d'Alban spesso venne sostituito in diplomi ufficiali quello di conte di Grenoble ed anche quello di conte di Vienne,Non sappiamo quali rapporti abbiano avuto i Conti di Savoia ed i conti d'Albon al principio del secolo XI e se vi sia stata quell'unità di interesse di cui parla il De Manteyer. Non sappiamo neppure l'orìgine dei possedimenti che i conti d'Albon già prima della metà del secolo XI ebbero in Val di Susa, al di qua del Monginevro. Qualche cosa di meno vago sappiamo solo per il secolo XII: Amedeo III di Savoia sposò in seconde nozze Matilde figlia di Guigo Vili, ma nel 1142 Amedeo III ed il cognato Guigo IX Delfino erano in guerra e l'ultimo moriva appunto in quell'anno in battaglia a La Buissière presso Mommegliano. Da' questo momento i Savoia e gli Albon sono in lotta: lotta che divenne più netta, quando i Savoia si affermarono sul versante italiano delle Alpi.

Il dissidio tra Savoia ed Albon molto probabilmente si collegò alla metà del secolo XII con quello tra Savoia ed impero Federico Barbarossa non sposò Beatrice di Borgogna nipote di Clemenza di Borgogna consorte di Guigo IX Delfino? Certo l'imperatore ebbe buoni rapporti con i conti d'Albon: già nel 1155 il nipote dell'im-peratrice Guigo X Delfino venne a Torino a rendere omaggio a Federico I e ne ottenne la conferma, dal campo di Rivarolo, di tutti

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I CONTI DI ALBON ED I CONTI DEL GENEVESE

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i diritti e privilegi che i suoi predecessori tenevano dall'impero ed in più ebbe l'autorizzazione di battere moneta a Cesana, in Val di Susa, a pochi passi dalla zecca sabauda appunto di Susa. Lo stesso giorno Bertoldo IV di Zahringen gli cedette tutti i diritti che pote-vano spettargli come rettore di Borgogna sulla città di Vienne, pro-mettendogli aiuto contro il suo nemico, Guglielmo conte di Màcon.

I rapporti di Umberto III di Savoia con la casa d'Albon nonpaiono essere migliorati, quando Guigo X Delfino venne a mortenel 1162. Egli lasciò solo una figlia Beatrice che fu sposata, ancoragiovanetta, ad Alberico Taillefer di Provenza, figlio di Raimondo Vdi foiosa. Raimondo V ne approfittò per chiamarsi egli stesso signoredella contea di Grenoble: Umberto III tentò di sfruttare l'occasioneper raggiungere non sappiamo quali aspirazioni territoriali nel territorio di Grenoble e ne derivò una guerra fastidiosa che si protrassesino al 1173 quando Enrico II d'Inghilterra conciliò le parti nelcolloquio di Montferrand. Così Umberto III s'accordò con il contedi Màcon di cui era caduto anni prima prigioniero sì da dover pagareil riscatto per riavere la libertà. Pacificatosi con il conte di Màcon,il Conte di Savoia ne sposò in quarte nozze la figlia Beatrice, ediventò in questo modo cugino dell'imperatore Federico Barbarossa.

Con i conti d'Albon vera pace i Savoia non riuscirono a stabi -lire. Beatrice d'Albon, perduto il primo marito Alberico nel 1183, sposò subito Ugo III duca di Borgogna che si disse anch'esso conte d'Albon; morto nel 1192 anche questo secondo marito, Beatrice d'Albon sposò ora Ugo di Coligny. Dal matrimonio di Beatrice e di Ugo III era nato un figlio maschio, Andrea Delfino, che doveva continuare la serie dei conti d'Albon.

Ugualmente importanti furono per i Savoia le relazioni con un'altra famiglia limitrofa: i conti del Genevese. Mentre i conti d'Albon rimasero nemici e capitanarono l'opposizione ai Savoia, i conti del Genevese lentamente entrarono nella sfera d'influenza sa-bauda e si lasciarono più tardi, nel secolo XIV, assorbire.

II comitato di Ginevra (comitatus Gebennensis) corrispondevaalla diocesi ginevrina, circa. Si estendeva dall'estremità settentrionaledella Savoia e della diocesi di Grenoble sino a quella di Losanna;comprendeva H Genevese propriamente detto, 0 Faucigny, il Gex,il paese degli Equestri (Nyon). Al di là si estendeva il comitato diVaud (comitatus Waldensis) che comprendeva parte della diocesi diLausanne. I conti di Ginevra erano anche essi, nel secolo X, soltantoufficiali comitali; anche per essi il regno di Rodolfo III di Borgogna

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fu favorevole sì che negli anni seguenti, ancora vivo Corrado di Salico, compaiono con il titolo comitale. Il conte di Ginevra (nel-l'uso si dice conte del Genevese) era ad un tempo anche conte del Vaud, ma la sua autorità comprendeva soltanto il territorio circo-stante le due città.

In Ginevra ed in Losanna dominavano rispettivamente i due vescovi che però avevano affidato l'avvocazia della loro chiesa, cioè la cura e la difesa giuridica del loro potere, al conte. Vi erano quindi dei legami complessi tra vescovo e conte: se il conte come avvocato della chiesa era dì questa vassallo, era però per la sua autorità comitale dipendente direttamente dall'imperatore. Anche per Ginevra e per Losanna le relazioni di parentela tra vescovi e conti dovettero essere nel secolo XI strettissime, e questo naturalmente favorì lo sviluppo della potenza dei conti a danno di quella dei vescovi. Così al principio del secolo XII Aimone conte del Genevese ed il vescovo di Ginevra Guido erano fratelli: il primo ottenne dal secondo l'infeudazione di molti dòmini della chiesa; ne nacque sotto un vescovo successivo un'aspra contesa che terminò nel 1124 con una sentenza dell'arcivescovo di Vienne in nome dello stesso papa Callisto II. Sentenza che però non eliminò la complessità dei rap-

porti feudali: il placito di Seyssel riconobbe al vescovo la signoria sulla città di Ginevra, ma il conte conservò certi diritti anche in città e nelle terre ecclesiastiche. Così i signori di Faucigny, di Gex, di Ternier, di Chaumont erano vassalli del conte, ma tenevano feudi

anche dal vescovo.Nuove controversie si ebbero alla metà del secolo XII tra il

vescovo Ardizzone ed il conte Amedeo. L'imperatore Federico I nel 1153 emanò un diploma a favore del vescovo di Ginevra a cui riconobbe tutti i possessi e tutti i diritti affermati; un nuovo accordo tra vescovo e conte si ebbe verso il 1156 sulla base del placito di Seyssel. I vescovi di Losanna si lagnavano anch'essi del conte del Genevese: non solo a Ginevra dava noia la residenza comitale di Annecy, a Losanna quella di Moudon, ma i conti non soddisfatti avevano costruito per i loro diritti di avvocato un castello così in Ginevra come in Losanna.

Dopo la meta del secolo XII la situazione divenne più difficile per la comparsa in scena degli Zahringer. Bertoldo IV di Zahringen nel 1152 ebbe da Federico Barbarossa il rettorato della Borgogna cis- e transpadano. Dopo il matrimonio di Federico con Beatrice di Macon dovette lasciare il rettorato ed ottenere da Federico I l'awo-

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t'ASCESA DEI CONTI DI KYBURG E DEI CONTI DI HABSBURG 353

cazia imperiale nei tre vescovadi di Losanna, Ginevra, Sion. Nel 1157 fondò la città di Friburgo che fosse la capitale del suo nuovo stato. Poi dovette cedere l'avvocazia di Sion al Conte di Savoia, cosi dovette abbandonare quella ginevrina ad Amedeo I conte del Genevese assistendolo con le armi per imporlo al vescovo. Questi non ricorse solo al papa ma anche all'imperatore e Federico nel 1162 acconsentì ad annullare così la concessione da lui fatta a Ber-toldo IV, come la cessione da quest'ultimo fatta al conte Amedeo; il vescovo fu ristabilito nella sua autorità e nei suoi diritti. Ancora nel 1162 il vescovo Ardizzone ed il conte Amedeo I vennero ad un pacifico accordo. Il contrasto rinacque verso il 1180 essendo conte del Genevese Guglielmo I figlio del conte Amedeo e vescovo ancora il vecchio Ardizzone. Una sentenza arbitrale nel 1184 fu favorevole al vescovo, ma non eliminò il conflitto: nel 1186 i reclami dei due vescovi di Losanna e di Ginevra fecero sì che Federico Barbarossa condannasse il conte Guglielmo in contumacia, lo met-tesse al bando dell'impero e lo dichiarasse decaduto da tutti i feudi (Casale, 1-2 marzo 1186).

La sentenza imperiale però non pare potesse essere applicata, se il vescovo qualche mese dopo preferì venire ad un accordo con il conte, rimasto indifferente nel possesso de: due comitati. Soltanto nel 1190 Guglielmo I, avendo partecipato ad una coalizione di signori borgognoni contro Bertoldo V di Zàhringen, fu, dopo la sconfitta di Payerne, spogliato dei feudi dal vincitore: il duca assegnò i due comitati di Vaud e del Genevese al fratello minore di Guglielmo I, Amedeo signore di Gex. Però la sfortuna durò poco: nel 1195 Gu-glielmo I era di nuovo reintegrato nei suoi diritti e feudi che lasciò poi al figlio primogenito Umberto. Il conte del Genevese lasciò numerosi figli: oltre ad Umberto, conosciamo Guglielmo, Amedeo, Aimone e due figlie di cui una (Beatrice) andò sposa a Tommaso I di Savoia e l'altra Agata — se veramente è esistita — ad Enrico marchese di Carretto-Savona.

4. L'ascesa dei conti di Kyburg e dei conti di Habsburg

La dinastia degli Zahringer si avviò alla scomparsa solo nel secondo decennio del secolo XIII. Il duca Bertoldo IV (1152-1186), nonostante i contrasti momentanei con Federico I, era stato della politica imperiale vigoroso sostenitore. Nella regione svizzera la sua

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autorità era appoggiata a fortezze importanti come Murten, Yverdon, Moudon, a nuove costruzioni cittadine come Friburgo e rimase sicura anche quando gli succedette il figlio Bertoldo V (1186-1218) che vinse i signorotti della regione pieni di velleità di scuoterne il do-minio. Nel 1191 il nuovo duca fondò la città di Berna.Dopo la morte di Enrico VI, alcuni principi tedeschi offrirono a Bertoldo V la corona di Germania: egli la rifiutò. Non avendo figli maschi, la sua successione spettava alle due figlie: Agnese sposò Egone conte di Urach (nella Selva Nera), Anna sposò Ulrico di Kyburg e quando nel 1218 Bertoldo V morì, il conte di Urach prese quanto gli Zàhringer possedevano nel Breisgau e nella Selva Nera, Ulrico III di Kyburg ebbe i feudi ed allodi a sud del Reno, cioè i territori di Rheinfelden e l'avvocazia nell'episcopato di Losanna. I Kyburg erano apparsi nella storia della regione renana al principio del secolo XI. Il primo conosciuto è un Werner che possedeva il castello di Kyburg tra Zurigo e Sciaffusa; dopo aver militato con il duca Ernesto di Svevia contro l'imperatore Corrado II, morendo nel 1030 lasciò i propri beni ad una linea laterale della famiglia, stabilita presso Oberwinterthur e questa famiglia terminò verso il 1080 con una donna che sposando un Hartmann di Dil-lingen gli portò in dote i beni aviti.

Questa seconda dinastia dei Dillìngen conti di Kyburg crebbe di potenza nella Svizzera nord-orientale; anche per essi la scomparsa dei Lenzburg, specie il ramo di Baden, nel 1172, fu proficuo, avendo diviso l'eredità con gli Habsbourg. l Dillingen di Kyburg possede-vano i cantoni di Zurigo e di Aargau (Kyburg, Baden, Zug, Aarau, Lenzburg) dove costrussero o ricostrussero non poche città come Diesenhofen, Winterthur, Frauenfeld, Zug, Aarau. Morto Bertoldo di Zahringen, Ulrico di Kyburg ebbe una discreta estensione di territori in zona borgognona.

Parallelamente ai Kyburg erano sorti nella regione svizzera gli Habsburg. Il loro castello famoso, Habichtsburg o castello dell'av-voltoio, fu costrutto da un Werner vescovo di Strasburgo verso il 1020 sulla punta più alta di quella cresta del Giura che accompagna la riva destra dell'Aar da Lenzburg a Windisch. II castello doveva dominare le strade commerciali che provenendo da Basilea e dalla Svizzera occidentale si uniscono ad Olten, ribiforcandosi di nuovo dopo Brugg, verso la Svizzera orientale e verso il lago dei Quattro Cantoni. La famiglia del vescovo di Werner che da secoli aveva domini in Alsazta si chiamò ora signori di Habsburg: possedeva

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__ per motivi matrimoniali — il territorio compreso tra la Reusse l'Aar, territorio ancora oggi detto Eigen e che ha forma di trian-golo, appoggiandosi ai tre castelli di Habsburg, Brunnegg, Wildegg.

Alla metà del secolo XIII un Werner di Habsburg appare come Landgraf nell'Alta Alsazia; aveva anche l'avvocazia di un grande monastero alsaziano, Murbach, che possedeva terre nello Zurighese e nelPAargau: centro di questo dominio immenso —- 16 corti — era la chiesa di Lucerna. Anche gli Habsburg parteciparono alla eredità dei Lenzburg, specie nei territori di Schwytz e di Unter-walden che già sotto i Lenzburg formavano probabilmente una unità territoriale distinta da quella di Zurigo; poi nel 1218 parteciparono alla spartizione dei beni degli Zàhringer, almeno per qualche parte.

Così i Savoia dovevano svolgere la loro politica borgognona, combattendo o gareggiando con dei pericolosi vicini: i conti d'Albon, i conti del Genevese, i conti di Kyburg, i conti di Habsburg.

5. Lo scisma imperiale in Borgogna

La successione di Enrico VI determinò l'inizio di un grande conflitto nell'impero. La discendenza diretta del defunto imperatore era rappresentata dal giovanissimo Ruggero Federico, che nel 1198, morta la madre sua Costanza, ne ereditava il regno di Sicilia.

Enrico VI aveva fatto proclamare il figlio Re dei Romani già nel 1196, ma la tenera età impediva a Ruggero Federico di essere preso in considerazione per la successione al padre nel regno tedesco e nell'impero. Come rappresentante della casa sveva si affermò invece il più giovane dei figli di Federico Barbarossa, Filippo di Staufen, che contava alla morte del fratello appena 21 anni. Filippo aveva avuto dal fratello imperatore nel 1195 come feudo il ducato di Tuscia ed i territori matildini; poi nel 1196 era successo nel ducato di Svevia all'altro fratello Corrado allora venuto a morte. La notizia della scomparsa di Enrico VI raggiunse Filippo in Italia, a Monte-fiascone in via per la Sicilia; l'imperatore lo aveva chiamato volendo inviare sotto la sua protezione il figlio Federico in Germania per farlo proclamare ed incoronare re. Da Montefiascone tosto Filippo si decise ad affrettare il ritorno in Germania. Sebbene egli pensasse di dover tutelare i diritti del giovane nipote Ruggero Federico, il duca di Svevia dovette, per impedire ai nemici della casa Hohen-staufen di riuscire nel loro intento, accettare la corona regia: ad Hagenau, nel Natale ancora del 1197 una assemblea di fedeli alla

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casa sveva lo proclamò candidato al trono; venne eletto solenne-mente a Muhlhausen presso Erfurt l'8 marzo 1198.

Ma intanto gli avversar! degli Staufer si agitavano in Westfalia e sul basso Reno in cerca di un candidato da opporre a Filippo.

Successivamente rifiutarono la candidatura antisveva il duca di Sas-sonia Bernardo e Bertoldo duca di Zahringen; nel febbraio del 1198 in una riunione tenuta a Colonia fu messa avanti la candidatura di Ottone di Brunswick, figlio di Enrico il Leone e nipote di Ric-cardo Cuot di Leone. Dal re d'Inghilterra il giovane Ottone aveva ottenuto non pochi feudi; la contea di Jorck, quella di La Marche e quella di Poitou; ora ebbe un energico appoggio per la designa-zione regia. Ottone di Brunswick fu eletto a Colonia il 9 giugno 1198 e già il 12 luglio veniva incoronato ad Aquisgrana; invece Filippo di Svevia fu incoronato a Magonza solo l'8 settembre 1198. La Germania si divise patteggiando per l'uno o per l'altro principe

ed anche i monarchi europei si divisero: gli uni, come il re d'Inghilterra ed il conte di Fiandra, tennero per Ottone di Brun-swick; il re di Francia Filippo Augusto, fedele all'amicizia paterna

per gli Svevi, riconobbe Filippo di Hohenstaufen.Il partito ghibellino aveva la maggior parte dei suoi adepti nella

Germania meridionale. Anche in Borgogna si ebbe la divisione. Il fratello di Filippo, Ottone di Svevia, non era mai stato e neppure ora fu tranquillo nella sua Franca Contea: non pochi feudatari come Amedeo di Montbéliard, Ulrico di Ferrette gli facevano aspra oppo-sizione, così pure lo combatteva l'altro ramo della casa comitale di Borgogna, rappresentato da Stefano d'Auxonne e dai nipoti di que-sto, Guglielmo di Màcon e Gaucher di Salins. Questi feudatari erano naturalmente nemici di Filippo e furono per il Guelfo.

Filippo di Svevia tuttavia fu riconosciuto dai grandi prelati di Borgogna come Amedeo arcivescovo di Besancon ed Aimone arci-vescovo di Tarentasia; fu appunto quest'ultimo quegli che andò a Magonza ad incoronare lo svevo. Pare poi che Filippo di Svevia abbia cercato di assicurarsi la regione burgundica: nel 1198 si ricon-ciliò con Bertoldo V di Zahringen; nel 1200, essendo morto il fra-tello Ottone, si recò a,.Besancon, riconfermò la contea di Borgogna alla vedova del fratello, Margherita di Blois ed alla figlia Beatrice e fece rappresaglie contro i feudatari che raccoltisi attorno a Stefano d Auxonne pensavano di spartirsi la Franca Contea.

Tra i due rivali che dimostravano di non avere né l'uno né 1 altro la forza per imporsi, si arrogò abilmente il diritto di decidere

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della maggiore o minore legittimità e legalità il grande papa, salito al seggio apostolico nel 1198, Innocenzo III. Questi però mostrò uno speciale favore per Ottone di Brunswick e per lui si dichiarò nel 1201. Gli arcivescovi di Tarentasia e di Besanc.on che avevano secondato l'impresa di Filippo di Svevia ebbero il papale biasimo.

Il conflitto, come è noto, non terminò: anzi, Filippo vide negli anni seguenti aumentare il numero dei suoi partigiani. Nel 1205 alla sua corte di Spira tra i molti nuovi postulanti comparvero dalla Borgogna i vescovi di Belley e di Valence, il conte di Màcon; nel 1207 a Filippo oramai trionfante si presentarono a Basilea altri prin-cipi borgognoni: Stefano d'Auxerre, Riccardo di Montbéliard, Gau-chier di Salins e Tommaso I di Savoia.

Era questo il primo contatto, pare, del Conte di Savoia con l'imperatore svevo. D'altra parte, i buoni rapporti che con Filippo aveva Bonifacio di Monferrato e poi l'atteggiamento del clero borgo-gnone tutto favorevole a Filippo fanno pensare che Tommaso I di Savoia se non aveva negli anni precedenti affermato apertamente sentimenti di devozione alla dinastia Hohenstaufen, non aveva certo militato in alcun modo nel campo di Ottone di Brunswick. Nulla però di preciso si può affermare.

6. Tommaso di Savoia in Val d'Aosta

Tommaso I, come già il padre, usa nei suoi documenti il titolo di Conte di Mauriana: Comes Maurianensis. Di solito però è chia-mato come il padre il Conte di Savoia; anzi prima che finisca il regno di Tommaso, il titolo tradizionale di Conte di Moriana viene abbandonato. Nell'uso comune della fine del secolo XII e poi del secolo XIII già si usa il termine di Savoia per indicare il complesso di domini sabaudi. Gelosamente invece viene conservato l'altro ap-pellativo di Italìae Marchio, che voleva dire, e come poi prevalse, in Italia Marchio. Già fu detto tutto il valore che la dinastia attri-buiva al titolo.

Il Conte di Savoia era già stato riconosciuto da Federico I e da Enrico VI come principe dell'impero: la condanna di bando era stata inflitta, dice Enrico VI « per iustam principum imperii senten-tiam et parium suorum ». E non poche sono le testimonianze che Umberto III era detto ai suoi tempi principe. Così come principe dell'impero egli dipendeva soltanto dall'imperatore; i legami con

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vescovi, con altri signori, con comuni sono parziali, locali e non intaccano la caratteristica indipendenza dei Conti di Savoia. Quali sono i domini che formano lo stato sabaudo? Quando Tommaso I saliva al potere essi si dividevano in due gruppi: il gruppo alpino-burgundìco ed il gruppo italiano.

II gruppo burgundico comprendeva le contee di Savoia, di Belley, di Moriana, di Tarentasia, del Chiablese vecchio, di Aosta, ed in più le proprietà nel Sermorens, nel Viennese, nel Lionese, nel Genevese, nel Chiablese nuovo, nel Vaud.

II gruppo italiano comprendeva la Valle di Susa sino ad Àvi-gliana, e qualche possesso non bene organizzato tra le Alpi Cozie ed il corso del Po, come Miradolo, i diritti non bene precisati su Pinerolo.

La lotta con l'impero aveva infatti voluto dire gravi perdite per Umberto III: «perduti nel Torinese vari castelli ritornati al vescovado di Torino, perduti oltre le Alpi i diritti sui vescovadi di Sion, di Tarentasia, di Beliey. Al nuovo Conte la ripresa del terreno perduto e l'avanzata.

La fisionomia politica del giovane conte Tommaso non appare certo perspicua: per moki anni ben scarsi sono i documenti che ci permettano di seguire Tommaso I di Savoia e di intravederne le intenzioni, l'attività, la politica.

Sebbene non sia possibile ricostruire le linee della sua azione politica, è utile seguire Tommaso I attraverso alla documentazione della sua attività per questi anni.

Così, come già si accennò sopra, il 7 agosto del 1191 il giovane Conte era a Susa e nel giardino dell'abazia di San Giusto faceva donazione ai certosini di Santa Maria di Losa di quanto egli pos-sedeva in questa località, esonerando inoltre i monaci e le loro case da ogni obbligo di pedaggio. La certosa di Losa era stata fondata poco prima in una regione sopra Gravere, a circa 1200 m. di altezza, a poca distanza da Susa; Tommaso I aveva appunto nel 1189 fatto una donazione ai monaci fondatori: il suo primo atto politico in Italia.

Pure nel 1191 il Conte di Savoia ci appare a Thonon nel Nuovo Chiablese: circondato dai vescovi di San Giovanni di Mo-riana, di Sion, di Aosta, dagli abati di Agauno e di Abbondanza e da molti vassalli sovrintende alla soluzione di un conflitto di giuxi-sdmone tra Nantelmo vescovo di Ginevra e Pietro prevosto del Gran S. Bernardo. Ed ancora nello stesso anno, in compagnia del

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marchese di Monferrato, il conte Tommaso fu ad Aosta. Per assi -curarsi la fedeltà del vescovo, si rassegnò a cedere anche qui come aveva ceduto davanti ad Enrico VI. Anzitutto confermò a favore del vescovo augustano quelle disposizioni che nel 1147 aveva preso l'avo suo Amedeo III: l'interdizione a tutti gli ufficiali e dipendenti di esercitare il tradizionale diritto degli spolia del vescovato alla morte del vescovo. Ma inoltre U Conte di Savoia restituì al vescovo d'Aosta quei possessi e quei diritti della chiesa che evidentemente erano stati avocati a sé dal padre suo Umberto III. Il vescovo Gual-berto si affrettò allora a rivolgersi al papa Celestino III annuncian-dogli la restituzione (la terza parte delle taglie, un censo nel borgo ecc.) e chiedendogli la solenne conferma.

Ad un soggiorno di Tommaso I ad Aosta od a quello o ad uno del 1191 posteriore solo di qualche anno, non però di troppi, è da attribuire la concessione di una carta di franchigia ad Aosta. Il Conte di Savoia « considerando le calamità, le oppressioni, le violenze apportate », per consiglio del vescovo Gualberto e dei suoi baroni, metteva « la città di Aosta » in stato di franchigia {libertas), sì che né lui né i suoi successori avrebbero stabilito taglie od esazioni non accettate (talias vel exactiones invitas); avrebbe protetto le chiese e i beni del vescovo e del clero da ogni molestia; donava un terreno attorno la città, dal ponte romano (pons lapideus) della Baltea sino al ponte di San Genesio. Se alcuno entro i limiti fissati avesse usato violenza o ferito o percosso, doveva compensare la persona lesa a giudizio di un ufficiale del conte e soddisfare il signore dell'abitante leso; se avesse ucciso, avesse i beni confiscati. Per tale franchigia, gli abitanti di Aosta promettevano di essere fedeli al Conte; avrebbero pagato ogni anno al Conte ed al vescovo un tributo secondo l'ampiezza delle loro case. Altre disposizioni della carta riguardavano il mercato, i pedaggi, la giustizia, il transito dei pelle-grini e dei mercanti. Il Conte dichiarava di prendere sotto la sua protezione le persone e le proprietà degli ecclesiastici, dei cittadini e dei borghigiani e ne faceva giuramento; e lo stesso giuramento prestavano i « cives et burgenses ».

La carta di franchigia accordata ad Aosta attesta che oltre all'autorità del vescovo e dei baroni, l'autorità del Conte si era radi-cata in città, rivolgendosi direttamente ai cittadini senza preoccu-parsi dei rapporti feudali. Era evidentemente l'influsso della vita comunale così attiva a poche decine di chilometri più a sud, ad Ivrea.

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Qualche altro documento analogo troveremo presto nella attività di Tommaso I.

Dopo il 1191 non troviamo traccia del conte Tommaso di Sa-voia sino al 1194. Il 23 gennaio di quell'anno egli era in Val di Susa a Sant'Ambrogio, di dove sigillava una catta di franchigia a favore dell'abazia di Staff arda.

Del 1196 abbiamo un documento importante: l'accordo con l'abate di Saint Rambert per il castello di Corniilon nella contea di Belley. L'abate, signore di Corniilon, cedeva il castello in feudo al Conte che prestava come vassallo giuramento di rispettare i diritti che l'abate si riservava e di difenderlo, lui e l'abazia. Anzi i vescovi di Grenoble e di San Giovanni di Moriana presenti all'atto, si impe-gnarono a colpire d'interdetto il Conte ed i suoi domini se fosse venuto meno agli obblighi. Documento tipico che mostra come avve-nisse nella pratica il rovesciamento delle posizioni delle due parti: se l'abate per diritto era il signore feudale del Conte, nella pratica ora diventava il protetto del suo vassallo più potente di lui; Pinfeu-

dazione era il riconoscimento di non larvato spodestamene.Altri atti riguardanti cose religiose probabilmente nascondevano interessi del Conte. Così se nel 1195 intervenne in un contrasto sorto tra i canonici di San Giovanni di Moriana ed i suoi ufficiali circa

certe donazioni dai suoi predecessori fatte a quella chiesa, non dovette certo Tommaso I abbandonare i suoi interessi e così pure la

donazione di certe terre presso il castello di Chillon all'abazia di Hautcrét fatta pure nel 1195 riaffermava l'obbligo dei monaci di

corrispondergli ogni anno un terzo del vino prodotto in quelle vigne. Nel maggio 1197 il Conte di Savoia compare in Val di Susa, a

Rivalta, a poca distanza adunque da Torino: concede una carta di protezione alla casa religiosa del Cenisio, poi un'altra alla prevo-stura

di Lombriasco, a cui concede l'esonero dai suoi pedaggi in Miradolo, Perosa, Pinerolo. Così anche alla certosa di Losa fece il

Conte una nuova donazione di una valle limitrofa.Nel gennaio del 1198 il conte Tommaso ricompare di nuovo

a Susa. Questo soggiorno del Conte di Savoia ih Piemonte è con-trassegnato dalla concessione di due carte di franchigia comunale. La prima è a favore dì Susa (26 febbraio 1198); la seconda è per Miradolo (14 marzo).

La concessione per Susa si collegava ad altra concessione fatta alla preziosa città da Amedeo III che è noto aver concesso pure carte di franchigia ad altri luoghi di Val Susina, come ad Avigliana

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nel 1139 ed a Giaveno nel 1146. All'approvazione delle consuetu-dini locali Tommaso I faceva seguire alcune consuetudini dell'am-ministrazione comitale: « usus secusiensium talis est; usus noster talis est ». A qualche concessione imperiale di immunità per i sud-diti del Conte a noi non giunta si collega certo un importante privi -legio concesso ai mercanti italiani e ricordato nella Carta susina del 1198 : « Liberalitas nostra est quousque ad mare calabricum nullum transìtum vel usum reddere debemus; hac de causa fuit omnibus italicis datum, ut nullum transitum huc veniendo reddant; in re-deundo mediam partem transitus ». La carta fu giurata solennemente in Susa nelle mani dell'abate di San Giusto dal Conte, dalla Contessa e da vari personaggi della corte che nella carta sono detti « consi-liarii et barones », alla presenza di molti testimoni e del popolo di Susa; si aveva adunque coscienza dell'importanza di quelle che sono dette « institutiones et convenciones ».

Altro carattere ha la Carta libertatis che Tommaso I concesse « cum bona concordia atque conventu » agli uomini di Miradolo, di cui autorizzava l'aumento « usque ad trescentos focos crescentes » ed anche di più, ad arbitrio del Conte; stabiliva quanto ciascun fuoco dovesse pagare: due solidi, un fascio di fieno ed un fascio di paglia, con divieto di esigere di più e con il condono per chi nulla posse -desse: «et qui non habuerint, in pace maneant »; seguivano poche altre norme per il mercato. Gli uomini di Miradolo avevano solo l'obbligo di giurare fedeltà al castellano per il Conte, promettendo di aiutarlo e difenderlo secondo le loro capacità. Vi è da supporre che tale mitezza del Conte verso i rustici di Mirandolo avesse un significato ed un fine politico.

Sarebbe forse spinto pensare che Tommaso I con le concessioni statutarie ad Aosta, a Susa, a Miradolo, mirasse a dimostrare alle città comunali della pianura padana la possibilità di conciliare le autonomie cittadine con la sua autorità comitale? Certo, che il pro-blema torinese fosse presente alla mente del Conte di Savoia è provato dal comparire presso di lui in questi suoi quasi annui viaggi nella valle della Dora Riparia e sul Po, di personaggi appartenenti alla vita prettamente torinese, come un Umberto di Romagnano, come un Ardizzone di Piossasco, un nemico del vescovo torinese Ardoino.

L'azione politica di Tommaso I in questi anni dovette essere notevole. Lo prova il fatto che nel 1198 il comune d'Ivrea facendo accordi con il marchese di Monferrato promise di aiutarlo contro

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di tutti, ma escludeva l'imperatore ed il Conte di Savoia. Tommaso I si era quindi accordato con il comune di Ivrea, con il quale il padre suo nel 1180 era ancora in lotta. Così, poco dopo, nel 1200, i signori di Bard, vassalli di Savoia, giurando il cittadinatico d'Ivrea, fecero riserve per i loro obblighi feudali verso il Conte, loro signore, con il quale nel 1180 erano invece in rotta. Si ha quindi l'impressio-ne che Tommaso I si sia imposto energicamente nella Valle della Dora Baltea.

Certo si tratta di documenti sparsi, di accenni vaghi. Non vi è la conquista audace, la grande espansione. Ma dovunque si trova qualche cosa che viene fissata, qualche pietra che viene cementata, qualche elemento la cui importanza apparirà nei decenni, nei secoli successivi. Quello che ora sembra vago, non consistente, non impor-tante, apparirà allora improvvisamente elemento di un tutto, di un disegno vasto, di una costruzione solida.

La storia della Dinastia Sabauda è intessuta di grandi sforzi e di lunghe pazienze.

7. Midons de Savoia

Molto si è discusso sul matrimonio e sulla sposa di' Tommaso I di Savoia. Che il Conte si fosse sposato due volte fu affermato, per risolvere ogni difficoltà, dal Guichenon, ma dal Wurstemberger in poi tutti gli storici ammettono che una sola volta si sia sposato il Conte di Savoia e precisamente con la figlia del conte del Genevese Guglielmo I. Ma come essa si sia chiamata, se Beatrice se Marghe-rita, se Nicola, è per molto tempo stato dubbio. Che si chiamasse Beatrice fu affermato dalla solenne autorità del Pingone, e fu creduto un errore nato da un equivoco, dall'aver confuso la consorte di Umberto III con la consorte di Tommaso I.

Alcuni documenti suoi portano la sigla Nos, che fu variamentesvolta, da alcuni in B da altri in Mar; però non è da accettare1'opinione di chi, basandosi, in verità, sulla cronaca di Alberico delle

Tre Fontane che la chiama Margherita de Fusceneis, vorrebbe fare della consorte di Tommaso I una figlia del sire di Faucigny.

Le chroniques de Savoie affermano che la consorte di Tommaso I si chiamava Beatrice ed era la figlia del conte di Ginevra.

Troppo precise sono le prove che la contessa Beatrice apparteneva alla casa dei conti del Genevese: non solo i documenti che la dicono

"filia comitis Gebennarum", ma una lettera di Gugliel-

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mo II del Genevese che dice suo nipote Amedeo IV di Savoia.E che diremo della romanzesca storia delle chroniques de Sa-

voye? Il re di Francia, Filippo Augusto, intendeva sposare la figlia del conte del Genevese, ma Tommaso I di Savoia, che amava la bella Beatrice, non perse tempo e la rapì. In realtà Filippo Au-gusto era rimasto vedovo nel 1190 di Elisabetta di Hainault; nel 1193 sposò Ingeburga di Danimarca, ma la ripudiò subito dopo nel 1195 e nel giugno del 1196 sposò Agnese figlia del duca di Merania, grande famiglia principesca tedesca del partito svevo. Ma queste tarde cronache sabaude risalgono probabilmente ad un cronista in-glese dell'epoca, Guglielmo di Newburgh: questi raccontando il fatto, accenna solo che la sposa desiderata dal re di Francia era figlia di un principe dell'impero che però non nomina. Sarà esatta l'identi -ficazione dei personaggi di questo romanzetto nel conte Tommaso di Savoia e nella contessa Baetrice, proposta senza discussione dalle cbroniques de Savoyeì

È probabile però che Tommaso di Savoia si sia sposato verso il 1195; il primo documento che ricorda la contessa di Savoia vicino a Tommaso I è la carta di franchigia accordata a Susa il 25 febbraio 1198.

Un documento importante per la storia di Beatrice sposa di Tommaso I potrebbe essere ed è il famoso poemetto di Rambaldo di Vaqueiraz, Le Carros, il carroccio; credo infatti assurda l'idea dì chi vorrebbe riferire il poemetto alla quarta sposa di Umberto III.

Le Carros: poemetto tutto grazia, tutto gioia, tutto riso. Il Piemonte guerriero scompare; non si combatte più per i pedaggi, per le frazioni di castello; non sono più comuni e marchesi che combattono; si combatte per la bellezza ed è il Piemonte femminino che giocondamente riduce in scherzo le scene drammatiche delle guerre dell'epoca.

Perfiida, mala guerra — Qui vogliono incominciare — le donne di questa terra — E le città contraffare: — In piano od in serra — Pensano di costruire una città turrita — Perché tanto si innalza l'onore — Di colei che sotterra '— II loro pregio, ed il proprio tien caro, — Di colei che è il fine — Sopra tutte le migliori, — Donna Beatrice; perché tanto è loro superiore, — Che contro a lei faran su tutte le bandiere — E la guerra e fuoco e fumo e polverio.

La città sì prepara —■ E fanno muri e fossati: — Dame, senza appello — Vi vengon da tutti i lati — Sì che pregio loro costa — E gioventù e beltà. — E penso che la figlia del Marchese — fae avrà dura giostra — Perché na conquistato in pace — Ogni bene ed ogni buon costume cortese; — E

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poiché è prode e franca e di buona stirpe — Cosi non starà più in pace di suo padre — Ché è tornato a trar la lancia e di balestra.

Dame di Versiglia - voglion venire nell 'oste, - Sebelina e Giuglia — E donna Enrichetta tosto; - La madre e la figlia - D'Incisa, ad ogni costo;- Poi viene da Lenta donna Agnese — E da Ventimiglia donna Guglielmadi nascosto. - Presto la città sarà sorta, - Dal Canavese viene una grancompagnia - E pur dalla Toscana, e le dame di Romagna, _ E donna Torna-sina e la dama di Soragna, - Inglese e Garisenda e Palmiera e donna Aldice- E donna Adda e donna Berlenda - E donna Agnese e donna Eloisa -Vogliono che loro renda la giovinezza donna Beatrice; - Se no, le dame diPonzone le chiederanno emenda; - E là dalle parti del Moncenisio - La cittàspinge Contessina. - Che ora guerreggi colei che è tanto buona e bella -e nove l lo .

Maria da Sarda - E la da di San Giorgio - Berta e la Bastarda - Mandano tutto il loro sforzo: - Che nessuna giovane lombarda - Non se ne resti,di qui, ai confini! - Ed io so che a donna Beatrice piace - Perché la loro retroguardia - Non può essere tanto forte - Da abbattere il suo pregio verace - Dànno i loro segnali, cavalcano con grangioia: - Han fatto la città e le hanno dato nome Troia ' Podestà fanno Madonna di Savoia.

La c i t t à s i van t a d i f a r e o s t e , ne l l ' a r r i ngo ; - E suona l a c ampana ed i l vecch io comune v i ene ; - E d i ce pe r m i l l an t e r i a che c i a scuno s i avanz i ; - Po i d i ce che l a be l l a Bea t r i c e è sov rana - D i c i ò che i l comune t enne s ì che ne è tutto vergognato e sconfitto.

Le trombe suonano e la Podestà grida: - "Domandiamole beltà e cortesia, pregio e gioventù!" - E tutte gridano: "Così sia fatto".

La città si vuota e muovono il lor carrocio; - Il vecchio comune assale - E gettano sul loro dosso corazze di Troia con che copron le ossa; - Giubbe,archi e turcassi hanno - E non temono pioggia o mal tempo che faccia loro male. - Oramai vedremo di grandi prove. - Da tutte le parti cominciano a combattere - Donna Beatrice pensano di abbattere dal pregio, - Ma a nulla vale, anche se fossero, per una, quattro. Per fendere i mur i f anno congegn i e cas te l l i - E t endere ca tapu l t e , cagne e manganelli - Accendere fuoco greco e far volare quadrella - In giù spezzare i m u r i c o n a r i e t i ; - N o n p e r t a n t o E s s a v u o l r e n d e r e i l

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s u o c o r p o g e n - t i le e bel lo , fa t to di bel le fa t tezze. - Tut te gr idano: "Aiuto! Alla barr icata!" l'una all'altra. - La terza tiene la fionda, e traggono tutte le macchine all'in-giro. - Donna Beatrice e salta in sella e va a guarnirsi di pregio, - Né usbergo né giubba non vuole e va a colpire; - Colei con cui si affronta è certa di morire — E giunge ed abbatte vicino e lontano; - Ha fatto molti scon t r i , s ì c h e f a p a r t i r e l ' o s t e . - P o i s p r o n a t a n t o c h e r o m p e i l c a r r o c c i o ,- T a n t e n e h a p r e s e e d a b b a t t u t e e d u c c i s e - C h e i l v e c c h i o c o m u n e s i smarrisce e si sconforta, - Sì che a Troia lo rinchiude, dentro la porta.

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LA GUERRA NEL VAUD 365

Donna Beatrice, ben mi piace che siate scampata — Alle vecchie, che il vostro gentil corpo porta — Pregio e gioventù, ed ha ucciso la vostra prodezza. Bel cavaliere, LI vostro amore mi conforta, — Mi dona gioia, ed allegria mi concede. — Quando altra gente si smarrisce e si sconforta.

Giocondo scherzo poetico, ricco di allusioni personali, che a noi per la maggior parte sfuggono del tutto. Madonna di Savoia che raduna tutte le gentildonne di Piemonte e di mezza Italia per contrastare il vanto della giovinezza, della bellezza, della virtù a Donna Beatrice, la figlia del marchese di Monferrato, è certamente all'alba del secolo XIII Beatrice la figlia del conte di Ginevra, come Donna Beatrice è la figlia del marchese Bonifacio. Anche nella poesia Savoia e Monferrato apparivano già in contrasto.

Una bella corona di figli presto circondò Midons de Savoia. Dieci figli: Amedeo, Umberto, Aimone, Guglielmo, Tommaso, Pie-tro, Bonifacio, Filippo, Beatrice, Margherita. Ebbe ancora tempo « Midons de Savoia » di occuparsi della gaia scienza dei trovatori e dei complimenti di Rambaldo di Vaqueiraz?

8. La guerra nel Vaud

Anche per i primi anni del secolo XIII ci è appena possibile mettere in rilievo i pochi documenti a noi giunti dell'attività di Tommaso I di Savoia: la politica si intravede se pur non chiara -mente. Analogo all'atto del 1196 per Cornillon è un atto del 1200 con l'abate di Cluny per la « domus » o priorato di Ynirnont nel comitato di Belley, che l'avo suo Umberto II aveva beneficato con donazione di terre; ora il Conte l'ebbe dall'abate di Cluny in com-menda e casa ed abitanti, affinchè « sub eius defensione et tuitione optatae pacis solatium invenirent ». Ora Tommaso I stabilì il censo annuo che gli abitanti di Ynimont dovevano pagargli e l'obbligo, per il priorato, dell'albergarla per il Conte e per i suoi ufficiali; si impegnò per parte sua a non costruire nel territorio di Ynimont altro castello senza l'accordo con l'abate, mentre gli abitanti avreb-bero dovuto giurargli fedeltà. Così l'autorità comitale praticamente sostituiva a Ynimont quella abaziale ed avrebbe impedito che gli abitanti del luogo venissero ulteriormente afflitti « malorum vicino-rum oppressionibus et angustiis ».

È da rilevare pure un documento del 1203: il Conte di Savoia stando a Thonon dichiarava di riconoscere che la villa di Saint-Gingolph era proprietà dell'abazia di Abbondanza, ma affermava

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anche di avete diritto alla albergarla per un giorno ed una notte e per tre uomini ogni anno. Notevole pure l'atto del 1207 con cui il Conte di Savoia dopo avere confermato all'abazia di Aulps le donazioni dell'avo Umberto II, si dichiarava « defensor » dell'abazia stessa. La potenza comitale continuava evidentemente ad appoggiarsi a quella delle chiese e delle abazie, pur atteggiandosi a protettrice. Traccia sicura del soggiorno di Tommaso I ad Aosta nell'aprile del 1206 è la concessione a Bosone visconte d'Aosta in aumento del suo feudo del castello di Villa di Challant alle condizioni feudali consuetudinarie della valle: in realtà era la concessione di poter costruire il castello.Forse del 1206 è uno statuto concesso da Tommaso I ad Aosta e che

nel cartulario del vescovado augustano è intitolato « Scriptum de libertate civitatis ». La carta non è in realtà datata, ma è probabile che essa appartenga al soggiorno che il Conte fece ad Aosta nel 1206. Il Conte « ne de cetero status civitatis Auguste revocetur in

dubium » con il consiglio dei suoi baroni, a richiesta dei « mi-ìites » e dei « probi homines » che si associarono con giuramento « con

i nostri uomini cittadini di Aosta », stabilì che i forinseci militi, clienti e rustici che giurarono con i cittadini di Aosta fossero

ugualmente come questi sotto la sua protezione e difesa; così pure stabilì per quelli che in avvenire si fossero uniti ai cittadini e per il

clero regolare e secolare; inoltre il Conte dichiarò le pene che avrebbero colpito chi avesse ai suddetti portato offesa o leso il vescovato od i diritti del comitato o quelli che avessero fatto il suddetto giuramento. Questa nuova franchigia comitale mirava a proteggere più nettamente la formazione del nucleo borghese augu-stano contro le violenze della classe feudale: « quicumque miles contra iuramentum istud venerit, in quingentis solidis condempne-

tur ». Le esigenze della vita non sfuggivano a Tommaso I.Una data importante nella vita del Conte di Savoia è quella

della sua comparsa alla corte di Filippo di Svevia a Basilea nel 1207. Egli ottenne dal Re dei Romani la conferma dei feudi aviti, inoltre per dimostrargli il suo sincero affetto e per dargli « utilitatis et honoris augmentum » Filippo di Svevia gli concesse in feudo le ville di Chieri e di Testona in Piemonte ed il castello di Moudon, nel Vaud (1° giugno 1207). Prescindendo per ora dalla questione di Chieri e di Testona, ci giova studiare il valore della concessione feudale di Moudon.

Il diploma di Filippo per Tommaso di Savoia è sottoscritto,

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LA GUERRA NEL VAUD 367

in segno dì adesione, da alcuni baroni borgognoni comparsi in quel momento a Basilea alla corte del Principe svevo che stava per trion-fare: l'arcivescovo di Besancon, il conte di Màcon, il sire di Salins, il sire di Montbéliard, il conte di Ferrette, il conte di Habsburg ed altri baroni tedeschi: non figura invece Bertoldo V di Zahringen che pure era in quel momento alla corte imperiale, sì che è legittimo il sospetto che tra il Conte di Savoia ed il duca di Zahringen vi fossero dissensi, ed appunto per il castello di Moudon.

La crisi imperiale avvenuta dopo la morte di Enrico VI aveva probabilmente reso possibile a Tommaso I qualche passo avanti nelle regioni circostanti al lago dì Ginevra. Probabilmente aveva praticamente ricuperato l'avvocazia sulla chiesa di Sion toltagli da Enrico VI nel 1189; il matrimonio con una dama del Genevese gli aveva dato diritti dotali nel comitato di Losanna. Come poteva altrimenti Tommaso di Savoia avere pretese sul castello di Moudon, posizione centrale, dominante tutto il paese di Vaud? Per il castello dì Moudon, nel diploma così si esprime Filippo di Svevia: « Scien-dum quoque est quod memoratus consanguineus noster Comes Sa-baudie castrum Melduni a nobis recepit in feudo, et nos fmaliter promisimus, in ipso castro et in omnibus pertinentiis eius, eum ma-nutenere et contra omnes homines defensare ». Parrebbe adunque che Moudon non fosse ancora nelle mani del Conte di Savoia.

Si è cercato di indagare l'origine del nuovo possesso sabaudo: Tommaso di Savoia nel contrasto tra Filippo di Svevia ed Ottone di Brunswick avrebbe favorito il contendente guelfo, mentre il duca di Zahringen avrebbe favorito lo svevo; un'azione militare di Ber -toldo V come rettore di Borgogna avrebbe avuto la possibilità di svolgersi contro il Conte di Savoia col pretesto di difendere la causa sveva; ed ecco la guerra; l'attacco contro Tommaso I, la presa del castello sabaudo di Blonay, la battaglia tra il duca ed il Conte a Chillon; la cattura del duca, Pìncoronamento della vittoria sabauda con la conquista di Moudon.

La ricerca storica moderna nell'indagare questo punto della storia sabauda ha però subito l'influsso del racconto romanzesco delle Chroniques de Savoye, poiché il Canard svolgendo un accenno discreto del Wùrstenberger, ed osservando come le Chroniques erro-neamente attribuiscono a Pietro II l'impresa del Vaud, credette di poter riportare a Tommaso I non solo il merito dell'impresa di Moudon ma anche molti particolari che le Chroniques ci forniscono. In realtà, sapendo che le Chroniques de Savoye sono fantasiose elu-

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cubrazioni e ricami del Cabaret su ed attorno a pochi accenni sicuri fornitigli dai documenti dell'archivio comitale, pare ingiustificato attribuire, quanto le Chroniques ci dicono per il Vaud, tanto a Pietro II quanto a Tommaso I.

Noi abbiamo quindi a nostra disposizione soltanto le scarse notizie dateci da qualche documento sincrono e non è facile coor -dinarle e trame un racconto chiaro e sicuro. Sappiamo che un nobile tedesco morì « in obsidione Blonay »; una lettera di Roggero vescovo di Losanna è data a Vevey nel 1203 « tempore ilio quo castrum de Blonay captum fuit »; quello stesso vescovo, dicono certe note storiche dell'episcopio lausanense, « multas substinuit guerras prò libertate ecclesie et fecit castrum de Lucens quod tamen per guerram fuit combustum, et refecit turrem de Ripa quam Thomas comes Sa-baudie diruerat »: e poi ancora, della rovina di certe terre si dice, senza precisare quando, che avvenne « per guerram ducis Bertoldi et Thome comitis de Sabaudia ».

Che il conflitto sia sorto in conseguenza della contesa imperiale tra Filippo ed Ottone non è provato, anzi vi sono argomenti per poter affermare che Tommaso era favorevole anch'esso al principe svevo. Filippo infatti era riconosciuto Re dei Romani ad Aosta nel 1199; a Tommaso I non conveniva mettersi in urto con l'arcivescovo di Tarentasia partigiano dello svevo; inoltre se la Lega dei comuni lombardi a cui aderiva l'antisabauda Torino era antisveva e favore-vole ad Ottone, era inevitabile che il Conte di Savoia fosse favo-revole a Filippo.

Dai documenti sopra accennati pare risultare che la guerra si svolse tra il Conte di Savoia da una parte ed il vescovo di Losanna ed il duca di Zahringen dall'altra. È da ammettere che questi sia entrato nel conflitto come difensore del vescovo di Losanna. Quale il motivo del conflitto? Assai probabilmente come già fu accennato, fu la sposa del Genevese quella che portò a Tommaso di Savoia dei diritti su Moudon. Infatti nella definitiva pacificazione e solu-zione della vertenza del 1219 si stabilì che il Conte di Savoia avrebbe tenuto in feudo dal vescovo di Losanna « quaecumque tenuerant antea in feudo » dallo stesso vescovo, i conti del Genevese. Poiché adunque non si può ammettere, dati i' cordiali rapporti di parentela tra Tommaso di Savoia ed il cognato suo Umberto del Genevese, che questi diritti feudali siano stati da parte sabauda strappati con la violenza, è da pensare che solo con il matrimonio Tommaso di Savoia sia riuscito ad avere pretese nel Vaud, a Moudon.

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Quali erano i diritti del conte del Genevese a Moudon? Il pos -sesso di questo castello aveva già determinato lotte gravi durante il secolo XII tra il vescovo di Losanna ed il conte del Genevese quale conte pure del Vaud. Sappiamo che negli anni 1150-1155 il conte Amedeo I si era impadronito del castello cacciandone il vescovo Amedeo (t 1159), sì che questo prelato aveva così riferito ai fedeli suoi: « abstract!, lesi, dilacerati, castro Milduno exivimus, anima nostra erepta de laqueo Mildunensium; posteritas tua, Mil-dune, perpetue obpropria domini maledicto addicta est; fundata es, munitio diaboli, in iniustitia ». E Moudon continuò — fu detto bene — ad essere il punto di contrasto dì tutti i pretendenti alla supremazia del comitato di Vaud. Il vescovo trovò appoggio nel duca di Zahringen; ora il conte del Genevese trovò, più che un difensore, un sostituto nel Conte di Savoia. Un accordo però tra vescovo e conte del Genevese era poi avvenuto: ce lo dice il ricordato accordo del 1219. Il conte del Genevese era il custode del castello per la chiesa di Losanna e lo teneva in feudo, prestando omaggio e fedeltà al vescovo.

Si può comprendere che la sostituzione del Conte di Savoia al conte del Genevese nella signoria di Moudon abbia provocato le proteste e l'opposizione del vescovo e l'intervento poi, come protet -tore del vescovo ed avvocato della chiesa di Losanna, del duca di Zahringen. Ma questa opposizione aperta da parte del duca Ber -toldo V mi pare debba essere conseguenza del diploma di Filippo di Svevia: questi poteva acconsentire alle richieste di Tommaso I se si trattava solo del riconoscimento di accordi tra il Conte di Savoia ed il conte del Genevese; non avrebbe acconsentito di fronte ad un potente, profondo dissenso tra Tommaso I e Bertoldo V.

Solo dopo il 1207 dovette quindi Tommaso di Savoia stabilirsi a Moudon. Attorno al 1203 egli dovette avere un conflitto con il vescovo di Losanna per Blonay e per altre terre e forse egli dovette avere la peggio; dopo il diploma imperiale del 1207 si ebbe l'occu-pazione sabauda di Moudon e l'azione ostile del duca di Zahringen. Tra i due principi non vi era più ora il legame rappresentato dalla comune devozione a Filippo di Svevia.

Infatti, il disgraziato imperatore era scomparso improvvisamen-te, quando più pareva sicuro il suo trionfo: il 21 giugno 1208, tro-vandosi nel castello di Bamberga, cadde vittima del pugnale di un nemico personale, il conte palatino di Baviera, Ottone di Wittelsbach.

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Delle vicende del Conte di Savoia abbiamo, appunto per il 1208 o per il 1209, una notizia interessante. In un documento a

favore dell'abazia di Aillon (manca però la data!) il conte Tommaso I dispone perché all'abazia non sia dato danno durante l'assenza che egli farà « volentes ad Dei servitium apud Albigenses iter incipere ac perficere », Nel novembre del 1209 per verità, il papa Innocen-zo III fece appello a molti principi della regione burgundica fra cui il Conte di Savoia, perché accorressero alla guerra contro gli eretici di Provenza. Ma già nel luglio del 1208, alla presa di Béziers sap-piamo che fu presente Guglielmo del Genevese, cognato di Tom-maso I; perciò è probabile che anche Tommaso di Savoia avesse deciso di recarsi alla Crociata contro gli eretici insieme con il con-giunto. Ma poi probabilmente il Conte di Savoia non partì. Perché? Forse fu la notizia dell'assassinio di Filippo di Svevia quello che lo

trattenne?Dei conflitti nei paesi borgognoni dopo la morte del principe

svevo abbiamo qualche notizia, non precisa però. Filippo di Svevia, poco prima di morire, aveva combinato il matrimonio tra la nipote Beatrice di Borgogna ed Ottone duca di Merania; contro il nuovo

conte di Borgogna ripresero la lotta Stefano conte di Auxonne ed i suoi alleati. Si collega anche a questo indirizzo degli avvenimenti

borgognoni il conflitto già accennato tra Bertoldo V di Zahringen ed il Conte di Savoia; forse è un episodio di questa guerra com-battutasi un po' dovunque nei paesi che circondano il lago di Gi-

nevra la sconfitta che — secondo notizie non troppo sicure però — i Vallesani avrebbero inflitto al duca Bertoldo V al passo di Grimsel.

Soli dati sicuri sono questi: quasi contemporaneamente si con-chiusero la pace tra Ottone di Merania e Stefano di Auxonne (11 ottobre 1211) e quella tra Tommaso di Savoia e Bertoldo di Zahringen (19 ottobre 1211). È difficile non ammettere un legame

tra i due fatti.La pace Savoia-Zahringer fu conchiusa all'abazia di Hautcrét,

ma non sappiamo quali siano state le clausole. Certo il Conte di Savoia conservò il castello di Moudon e vi ebbe ora presidio e castellano, sì che il Vaud fu d'ora in poi sotto l'influsso dei Conti di Savoia. Però solo nel 1219 il vescovo di Losanna si rassegnò a riconoscere il possesso'sabaudo di Moudon: l'anno prima era scom-parso infatti Bertoldo V di Zahringen ed il vescovo doveva fatal-mente rivolgersi al Conte di Savoia.

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CAPITOLO XIV

LA FORMAZIONE DI NUOVE TERRE E COMUNI IN PIEMONTE

1, Gli echi della questione imperiale nelle vicende politiche italiane. - 2. L'occupazione astigiana di Loreto e l'origine di Costigliole. - 3, Le origini di Cuneo. - 4. Lo sviluppo del comune d'Alba alla fine del secolo XII. - 5. Le origini di Savigliano. - 6. Le origini di Mondovì o Monteregale. - 7. Le origini del comune di Pinerolo. - 8. La formazione del comune di Biella. - 9. Vescovi e comune ad Acqui. - 10. L'abbadessa di San Felice a Villanova (d'Asti). - 11. Comu-nità rurali. - 12. Vicinie valsesiane. - 13. I vicini di Cannob-bio. - 14. La partecipanza dei boschi di Trino. - 15. Ri-cetti e motte.

1. Gli echi della questione imperiale nelle vicende politiche italiane

La morte di Enrico VI determinò in tutta l'Italia una viva rea-zione contro la dominazione tedesca. Il ferreo sistema che il defunto imperatore aveva imposto, il peso dei diritti fiscali e politici avevano dovunque irritato comuni, vescovi, feudatari.

Già lo stesso Filippo di Svevia quando giunse a Montefiascone si trovò di fronte ad una regione in piena sollevazione appena si sparse improvvisa la notizia della morte di Enrico VI. Ci si parla di uccisioni di suoi seguaci e delle difficoltà trovate nel ritornare in Germania. Persino l'imperatrice vedova Costanza, tosto che assunse u governo del regno, secondo le disposizioni testamentarie di En-rico VI, per sé e per il figlio Roggero Federico, si affrettò a licen -ziare dalla corte e dagli uffici i tedeschi chiamativi dall'imperatore. Così appariva essa stessa promotrice del movimento nazionale italiano.

In Toscana 1*11 novembre si firmava l'atto di costituzione della Lega di San Genesio (San Miniato): Lucca, Firenze, Siena, San Mi-niato, poi Prato, Poggibonsi, Viterbo, Perugia, Arezzo si collegarono

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CAPITOLO XXIII

LA DOMINAZIONE DI FEDERICO IIIN PIEMONTE

1. La situazione del marchese di Monferrato e le sue relazioni con i comuni di Vercelli e di Ivrea. - 2. Asti tra feudatari e comuni. - 3. Il riconoscimento dell'esistenza di Mondovl e di Cuneo. - 4. L'attività di Genova verso il Piemonte. -5. La battaglia di Cortenuova. - 6. Trasformazione della politica di Vercelli. - 7. Federico II a Torino, - 8. I Fratelli di Savoia a Brescia.

1. La situazione del marchese di Monferrato e le sue relazioni con i comuni di Vercelli e di Ivrea

Nella primavera del 1232, dopo la vittoria di Chivasso, di fronte al pericolo di un conflitto aperto con l'imperatore, i mila-nesi pensarono ad assicurarsi meglio della situazione piemontese, cercando di intendersi con Bonifacio II di Monferrato, così da tenerlo stretto a sé ed alla Lega ed impedirgli di riaccostarsi a Federico II.

I milanesi acconsentirono quindi alla restituzione del castello e della villa di Chivasso, ma a condizioni assai aspre, senza del resto preoccuparsi dei loro alleati di Vercelli con i quali avevano spartito, come si è visto, la conquista. Il trattato con Bonifacio II deve essere della fine dell'aprile del 1232. Il marchese di Monferrato dovette acconsentire a cedere tutti i suoi domini al comune di Milano per riaverli poi come feudo del comune di cui sarebbe stato per l'avvenire un vassallo, legato da giuramento, sotto la minaccia di essere dichiarato fedifrago, spergiuro, spogliato del feudo, se avesse voluto ricuperare l'indipendenza. E per tenerlo stretto dalla parte degli interessi, i milanesi costrinsero H marchese a comperare in Milano case per il valore di 1000 lire, terre nel territorio milanese,

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LA SITUAZIONE DEL MARCHESE DI MONFERRATO...

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tra Adda e Ticino, per la cospicua somma di lire 10.000. Per fare tali acquisti Bonifacio II avrebbe dovuto impiegare i proventi del pedaggio di Chivasso, che sarebbe stato quindi sotto il controllo di un funzionario milanese sino al compimento della operazione.

La restituzione di Chivasso doveva subire però ancora altre condizioni: le fortificazioni del luogo sarebbero state abbattute né mai più avrebbero potuto essere ricostruite; per ogni futuro contrasto con i comuni vicini — Alessandria, Vercelli, Torino — arbitri sareb -bero stati i milanesi; questi avrebbero avuto libertà di transito per i territori marchionali, mentre a richiesta di Milano, il marchese avrebbe dovuto vietare il passo a chi gli fosse stato indicato, inoltre Bonifacio dichiarava di rinunciare a qualsiasi pretesa di risarcimento di danni dai vari comuni che avevano partecipato all'assedio di Chivasso e si impegnava ad ottenere dal marchese di Saluzzo la liberazione di quei milanesi od altri leghisti che erano stati catturati nel Cuneese l'anno prima.

A quale condizione era ridotto Bonifacio II ! Le glorie dei grandi avi, Guglielmo V, Corrado, Bonifacio I, erano cadute nel fango. Ma nel 1232 a Bonifacio II non era possibile nessuna altra via: l'imperatore era lontano e disarmato di fronte alla Lega potentissima; il partito imperiale nell'Italia occidentale era depresso, II marchese aveva compiuto l'errore di accettare i legami con la Lega negli anni precedenti; ora Federico II doveva avere massima diffidenza per quel marchese aleramico troppo pronto ad accordarsi con i comuni.

Male assai rimasero i vercellesi quando seppero del voltafaccia di Milano. E lo seppero in maio modo, poiché il 6 maggio di quel-l'anno 1232 il marchese si presentò alle porte di Chivasso accom-pagnato da ambasciatori milanesi e da circa 300 armati. I milanesi comunicarono l'accordo, ma non riuscirono naturalmente a convincere i vercellesi perché si ritirassero dalla loro conquista. I milanesi ricor-sero allora alla violenza e ruppero le porte della villa per immettervi il loro illustre vassallo; il podestà vercellese si ritirò protestando nel castello e quando venne anche di là espulso non gli restò che avviarsi con i suoi, mortificato, in patria: « tristis et dolens recessit ».

Le proteste di Vercelli arrivarono a Milano, ma con quale frutto ormai? Se si fossero per ripicco ritirati dalla Lega avrebbero fatto il gioco di Bonifacio di Monferrato.

Già la ricomparsa del marchese a Chivasso servì a rinvigorire tutti i nemici di Vercelli nella regione canavesana e novarese. Il com-promesso di Padova servì a Milano per giustificare un'energica azione

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632 LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE

per la pace nelle due regioni, imponendosi ai vari comuni contrastanti perché accettassero il suo arbitrato.

Così il 15 giugno 1232 il podestà di Milano, Sebastiano Vento, pronunciò il lodo per tutte le controversie tra Vercelli e Novara ed i loro aderenti comunali e feudali. Furono dichiarati compensati reciprocamente i danni di guerra e furono restituiti i prigionieri. Vennero riconfermati i patti del 1223 per i ponti sulla Sesia, per il luogo di Biandrate, per i conti di Biandrate, per i signori di Castello; venne però stabilito che i vercellesi non potessero aiutare né i Bian-drate né i Castello negli eventuali loro -tentativi di sottrarsi agli impegni verso Novara.

Nuovamente si stabilì che i vercellesi dovessero liberare da ogni vincolo di cittadinanza il comune di Pallanza e così facessero pure a loro volta i novaresi per gli Avogadro signori di Casalvolone; in cambio accordassero i novaresi piena amnistia ai Biandrate ed a Pallanza come i vercellesi a quei di Casalvolone ed ai castellani del Canavese. Per questi anzi fu stabilito che i vercellesi non facessero loro alcun danno e contro di essi non facessero alcuna « federazione o società » con i rustici del Canavese; ma li dovessero rispettare nei loro diritti. Così pure Novara non facesse più nell'avvenire alcun accordo o lega con il comune d'Ivrea, con il conte Pietro di Masino e con i vari consortili del Canavese, sciogliendo entro un mese i legami che ora aveva e non dando loro aiuto contro Vercelli. Per quanto riguardava il commercio, i due comuni dovevano trattarsi nei pedaggi con la stessa misura; per l'ordinamento delle vie commerciali d'ac-cesso ai paesi d'Oltremonti avrebbe deciso arbitralmente il comune di Milano.

Il lodo fu accettato, al momento della pubblicazione, dalle rap-presentanze dei due comuni. Ma a Vercelli, quando si ebbe sotto gli occhi il testo, in Credenza incominciarono le proteste: si temeva di dover abbandonare le posizioni già conquistate nel Canavese e di dovere lasciare indipendenti gli Avogadro di Casalvolone. Si protestò a Milano; si rifiutò la restituzione dei prigionieri.

Nell'agosto dello stesso anno vercellesi e novaresi erano di nuovo in armi, accampati gli uni contro gli altri presso Borgo Vercelli. Il podestà di Milano si affrettò a studiare i reclami dei vercellesi ed il 3 agosto portò ai campi dei belligeranti le decisioni della credenza milanese: si ammetteva che Vercelli potesse aiutare Ivrea contro i castellani del Canavese per costringerli ad osservare i patti, che potesse rivendicare contro questi castellani i diritti già acquisiti; per

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ASTI TRA FEUDATARI E COMUNI 633

quanto riguardava i signori di Casalvolone, l'amnistia non voleva dire che essi potessero abitare ed avere autorità in Casalvolone se il comune di Vercelli non lo acconsentisse.

Ed ora si venne alla pace: si restituirono i prigionieri, si liqui-darono le rispettive spese per la loro custodia.

Nei mesi seguenti il comune di Vercelli cercò di riaffermare la sua autorità nel Canavese. Nell'ottobre venne ad accordo con i signori di Casalvolone; poi, nel novembre, intimò al suo vassallo, Pietro conte di Masino, di armarsi e di iniziare la guerra agli uomini del Canavese « cum igne et sanguine », vietando loro ed alle loro mercanzie il transito per le strade del suo feudo.

Questo atteggiamento energico contribuì a pacificare la regione. Nel dicembre ancora di quell'anno i conti di San Martino, di Castel-novo, i signori di Mercenasco, di Arundello, di Strambino, di Casti-glione si accordarono con il comune di Ivrea, promettendo di attenersi ai patti del 1228 e di esortare gli altri consortili feudali del Canavese a venire anch'essi ad accordi. Vercelli mandò ora ambasciatori ad Ivrea ed ottenne che i consortili canavesani si accordassero per man-tenere i patti eporedio-vercellesi e comperassero casa in Vercelli sì da essere con il comune legati, pur non sottomettendosi alla giurisdizione vercellese e conservando gli obblighi che avevano, alcuni almeno, verso il marchese di Monferrato. Così nell'aprile del 1233 anche i conti di San Giorgio, di Valperga, di Castellamonte, i signori di Agliè, di Montalenghe, di Candia vennero a pace con Ivrea e quindi con Vercelli, attraverso alla mediazione di Ottone e di Guido di Biandrate, del conte di Masino e dell'abate di Lucedio. Ora finalmente il Cana-vese fu tranquillo: tranquilla Ivrea, tranquilla la feudalità sotto l'ege-monia vercellese.

Tra Vercelli e Novara invece ricomparvero presto i guai: i vercellesi pur dopo la pace avevano fatto bottino a danno dei nova-resi; questi pretendevano imporre al pedaggio del ponte sul Ticino, un tributo doppio di quello che gli altri pagavano. Contrasti quindi e pace assai dubbia.

2. Asti tra feudatarì e comuni

L'intervento di Federico a favore di Asti contro l'Alessandria con il diploma dato ad Aquileja nell'aprile del 1232 Aw-**~ minare in Val di Tanarn "«- -•

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634 LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE

L'imperatore, annullando il lodo milanese per la pacificazione tra i due comuni, veniva ad impedire che gli astigiani si lasciassero tra -scinare alla lega come era successo del marchese di Monferrato.

Anche il comune d'Alba era in rottura con Asti e per conse-guenza nel 1232 e 1233 era di nuovo in buoni rapporti di amicizia e di alleanza con gli alessandrini. Asti appariva adunque quasi com-pletamente circondata da aderenti della Lega; amici suoi erano solo a nord il Conte di Savoia ed il comune di Chìeri, verso sud i marchesi aleramici di Carretto. Nel 1232 lo stato di guerra tra Asti ed Alba appare da varie condanne gravi inflitte dal podestà di Alba ad alcuni ribelli partigiani di Asti già cacciati di città: Oggero e Sismondo Censoldì fecero scorrerie nel territorio albese, a Manzano ed altrove, facendo bottino di bestiame.

Al principio del 1233 il marchese di Monferrato venne ad accordi con gli albesi per un'azione contro il comune nemico. Nel febbraio Bonifacio II si trovò con il podestà d'Alba e si misero d'accordo su le varie questioni che era necessario risolvere. Il mar -chese cedette ad Alba tutti i diritti che aveva ancora nei castelli di Monforte e di Novello e nei due contadi, ordinando che quanti avevano obbligo di vassallaggio verso di lui, lo avessero ora verso il comune d'Alba. In questo modo egli veniva a rafforzare la posi -zione di Alba verso i marchesi di Carretto rimasti fedeli all'imperatore e specialmente verso il marchese Giacomo figlio di Enrico II e Grata-paglia di Clery, il marito di una figlia dello stesso Enrico II, che dopo essere diventati vassalli del comune nel 1224 appunto per altre terre feudali di Monforte, erano venuti a lotta con il comune stesso, dal quale si consideravano invece come indipendenti per i feudi che tenevano dal marchese di Monferrato.

Un grosso guaio era poi quello della torre di Monforte appar-tenente al marchese di Monferrato, da lui affidata ai marchesi di Carretto ed ora distrutta durante la lotta dagli albesi. Questi ora ottennero dal marchese Bonifacio il diritto di chiedere ai marchesi di Carretto lire mille per indennizzo della torre che essi stessi avevano distrutto! E come garante della concessione Bonifacio II dava agli albesi il marchese di Saluzzo Manfredi III.

Il marchese di Monferrato si impegnava poi a fare conservare la pace dai marchesi di Carretto sino all'aprile; non riuscendo in questa avrebbe anch'esso fatto guerra ai Carretto con gli albesi. E fino a che durasse la guerra con Asti e con i Carretto gli albesi avrebbero potuto circolare liberamente per Dogliani, per le terre del marchese

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ASTI TRA FEUDATÀRI E COMUNI 635

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di Busca, dei signori di Revello, sì da comunicare facilmente con Alessandria. II marchese Bonifacio si impegnava poi ad aiutare gli albesi contro gli astigiani con fanti e cavalli, in cambio chiedeva agli albesi che si adoprassero a riconciliarlo, mediante il loro arbitrato, con gli alessandrini dai quali voleva però quel giuramento di fedeltà che avevano prestato al padre suo.

Una curiosa eco di questioni orientali nella vita piemontese è data da una clausola del trattato: gli albesi si impegnavano ad aiutare Bonifacio II nell'impedite alla regina di Cipro, Alice di Champagne, il passaggio verso Oltremonti ed anche i cuneesi ed i saviglianesi avrebbero dovuto operare nello stesso modo, a meno che il marchese non decidesse di doverle aprire il passo. La regina Alice era la madre dell'attuale re di Cipro Enrico che aveva sposato nel 1229 appunto una sorella di Bonifacio II, Alice anch'essa di nome, che era motta pochi mesi prima. Quali i motivi dell'ostilità del marchese verso la madre del cognato? Ce lo spiega un documento genovese. Poiché la regina Alice andava in Francia per rivendicare la contea di Champagne contro il nipote Teobaldo, questi aveva inviato ambasciatori ai prin-cipi italiani perché non lasciassero passare la nemica: così i marchesi di Ceva strinsero appunto nel gennaio del 1233 un regolare trattato con l'ambasciatore del conte di Provenza: come ricompensa avrebbero avuto 300 lire genovesi, che sarebbero diventate mille se fossero riusciti a catturare la regina. Questa nel gennaio di quell'anno arrivò a Genova, ma ripartì quasi subito,, non sappiamo per quale via.

Ma ritornando alla guerra non pare che essa si svolgesse favo-revolmente per la coalizione anti-astigiana: già nel maggio successivo tra Alba ed Asti vi erano delle trattative di pace e gli astigiani assu-mevano l'atteggiamento di vincitori; infatti il podestà di Alba conse-gnava al suo collega di Asti i castelli di Neviglie e di Novello che sarebbero stati restituiti solo quando fosse stato giudicato delle ver-tenze esistenti tra i due comuni.

Una regione in cui Asti doveva sforzarsi di conservare il suo influsso a qualunque costo era quella dell'alto Piemonte, tra Tanaro e Stura. Sotto gli auspici della Lega Lombarda e di Milano erano risorti con carattere antiastigiano i comuni di Cuneo e di Mondovì e si era rafforzato quello di Savigliano. Dopo la scorreria milanese del 1230 continuarono certamente i conflitti tra i nuovi comuni ed i gruppi feudali avversi. Asti legata ai Savoia, ai Saluzzo, ai Carretto, non poteva certamente dirsi soddisfatta della risurrezione dei comuni, ma doveva cercare di ricondurli al suo predominio. Cuneo e Savigliano

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erano nel 1233 alleati con Alba, e forse anche Mondovl: ci si parla infatti di spedizioni militari appunto nel 1233, verso quest'ul -timo luogo.

La spedizione milanese aveva messo la regione in subbuglio. I nuovi comuni attiravano a sé le popolazioni rurali, desiderose di

sfuggire, andando ad abitate in città, ai molti, gravosi obblighi feudali. La classe feudale costretta a combattere, a difendersi, diventava sem-pre più pesante. Di qui l'agitazione degli elementi rurali che già abbiamo riscontrato al principio del secolo. Ed i signori protestano, osservano che pur andando a respirare l'aria di città, quell'aria che secondo un detto tedesco dell'epoca rendeva liberi, i loro rustici non hanno il diritto di sfuggire al pagamento delle imposizioni feudali. Protestano pure gli ecclesiastici delle chiese, gli abati e più alto di tutti il vescovo di Asti: si protesta di volere il rispetto delle libertà ecclesiastiche che erano poi semplicemente l'esonero dal fodro e dalle varie imposizioni fiscali che i nuovi comuni a tutti imponevano per le

necessità della loro organizzazione e difesa. E verso il 1231 il vescovo d'Asti colpì per questo di scomunica il comune di Cuneo.

3. Il riconoscimento dell'esistenza di Mondavi e di Cuneo

A differenza del marchese di Saluzzo, il vescovo di Asti si ras-segnò però assai presto alla rinascita di Mondovì e cercò almeno di salvarvi — appoggiato dal comune — quel che poteva salvare. Nell'ottobre del 1233 i consiglieri del nuovo comune monregalese per mezzo di un vassallo ricchissimo della sede d'Asti, il Bressano, vennero a patti con il vescovo. Gli riconobbero tutti i diritti, i redditi, gli onori che aveva prima a Vico Vecchio, osservando tutto quanto usavano fare per il vescovo precedente Guido e conservando tutte le consue-tudini. Al vescovo sarebbe spettato di diritto la podesteria di Mon-dovì, quando la popolazione avesse voluto avere il podestà, e fin d'ora gli si fissava come stipendio la somma di lire 300 genovesi. Gli si fissavano pure i proventi annui: per ogni coppia di buoi posseduti avrebbe avuto una mina di grano ed una di spelta; ogni mercante munito di cavalcatura avrebbe pagato all'anno dodici denari, se senza cavallo, la metà, ogni lavorante, quattro denari. Gli si sarebbe costruita una casa di legno decente ed in luogo onorevole. Sul mercato avrebbe riscosso 12 denari per banco messo fuori dei portici sulla piazza. Dei banni, un terzo sarebbe andato al vescovo, un terzo al

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IL RICONOSCIMENTO DELI 'ESISTENZA 01 MON0OVÌ E DI CUNEO 637

podestà, un terzo al comune. La popolazione avrebbe dovuto andare ai molirti ed ai forni del vescovo; altri non si sarebbero potuti usare, II comune gli avrebbe pagato la somma di lire 1400 genovesi, ai termini che si sarebbero stabiliti. Gli avrebbero dato inoltre i diritti che prima avevano riconosciuto ai loro signori, i redditi, le succes-sioni. Gli avrebbero giurato fedeltà come a signore, come prima in Vico Vecchio. Gli avrebbero dato a sua volontà, il castello di Vico, il castello di Montaldo, il castello della Torre, nei quali castelli il vescovo avrebbe dovuto però mettere gente tale da non far del male alla popolazione di Mondo vi.

In cambio chiedevano al vescovo ed al capitolo di Asti il rico-noscimento perpetuo del luogo, poi la restituzione del documento con cui si erano impegnati venti anni prima a non abitare a Mondovl, poi la garanzia circa il buon contegno verso di loro dei vassalli della chiesa di Asti posti tra Stura e Tanaro e dei comuni dei vari luo-ghi vicini.

Il comune di Mondovì era dunque riconosciuto dal vescovo di Asti nella sua esistenza, sebbene fosse ancora legato al vescovato da vari notevoli legami: non indipendenza, ma larga autonomia rap-presentata più che da altro dai tributi per i quali più tardi ancora si sarebbe dovuto di nuovo discutere. Per ora i monregalesi potevano essere soddisfatti: avevano ottenuto più che non potessero desiderare.

Attraverso all'azione monregalese fu possibile al comune di Asti di ristabilire il suo influsso nella regione: prima fece accettare una tregua, poi nel 1233 impose un compromesso e quindi il suo lodo. Questo atto del 6 gennaio 1234 ci mostra quali erano le forze con-tendenti: da una parte il marchese di Saluzzo, i marchesi di Ceva, di Busca, i castellani dei consortili di Breo, di Carassone, Morozzo, i castellani del consortile di Sarmatorio, Manzano e Monfalcone, i signori di Caraglio, l'abate di San Pietro di Savigliano, altri feudatari grandi e piccoli ancora; dall'altra parte i tre comuni alleati, di Cuneo, di Savigliano, di Mondovì, l'abate di San Dalmazzo.

Il lodo del podestà di Asti stabilì che i marchesi, castellani, abati avessero a conservare tutti i diritti che avevano sui loro uomini e possessi prima della costruzione di Cuneo e di Mondovì, escluso però il fodro; i nuovi, e vecchi, comuni non avrebbero dovuto ricevere in abitanti uomini e vassalli dei marchesi e dei castellani che non vi abitassero già al momento del compromesso. Così i comuni nuovi non avrebbero potuto fare alleanza, unione giurata, lega con i vassalli del vescovo di Àsti dei marchesi e di tutti i castellani senza consenso

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dei rispettivi signori; se avessero fatto accordi dopo il compromesso, li dovessero rendere nulli; non potessero aiutare i vassalli ed i sudditi dei marchesi e castellani contro i loro signori, non dovessero dare noia ai vassalli e sudditi stessi; per le successioni ereditarie dei loro uomini, dovessero marchesi e castellani continuare a godere i diritti del passato.

Riguardo a Mondovì, venivano sanzionati gli accordi presi dal comune stesso con il vescovo d'Asti per mezzo del signor Bressano di Vico e di Giacomo di Bagnasco; si ripeteva per il vescovo l'obbligo di restituire ai monregalesi la carta dell'impegno di non venire da Vico a Mondovì. Però si stabiliva che quegli uomini di Carassone che non erano andati come gli altri ad abitare al Monte, non potessero più andarvi; dovevano rimanere a Carassone e non essere ricevuti come abitatori a Mondovì od altrove. Il vescovo d'Asti ottenne invece una clausola di protezione per tutte le chiese della sua giurisdizione, che avrebbero potuto godere delle consuete libertà e che i comuni nuovi non avrebbero potuto alle chiese ed al loro clero imporre alcun fodro od altro tributo.

Riguardo a Cuneo, fu stabilito che il comune dovesse restituire al marchese di Saluzzo la Val di Stura integralmente con tutti i possessi, terre, ville che gli avevano tolto, riservati i diritti di pro -prietà degli uomini di Cuneo; il marchese avrebbe potuto, fuori di Cuneo (extra locum Cunei), fabbricare e costruire a sua volontà, senza impedimento dei tre nuovi comuni. Il vescovo d'Asti fu invitato a ritirare la scomunica contro Cuneo, come già. pare si era detto nel compromesso. E poiché i marchesi e castellani, gli abati, il vescovo d'Asti durante la guerra avevano fatto man bassa sui feudi appar -tenenti agli abitanti dei tre comuni, fu stabilito l'obbligo della restitu -zione integrale sì che quanti avevano obblighi di vassallaggio potes -sero rendere i loro servizi feudali. Per quanto concerneva gli abitanti di Cuneo, il lodo stabilì che i cuneesi dovessero costringere gli uomini di Chiusa, che solo dopo il compromesso si erano stanziati a Cuneo, a ritornarsene alla loro villa. Gli uomini di Borgo San Dalmazzo abitanti in Cuneo dovevano pagare al vescovo d'Asti ed al marchese di Saluzzo una somma annua a titolo di fitto e di albergarla secondo i vecchi obblighi; rispettati fossero i patti corsi tra il comune di Cuneo e gli uomini di Caraglio; i cuneesi, ed in loro mancanza Bressano di Vico, pagassero ai marchesi di Ceva una somma dovuta per alcuni prigionieri che erano a Ceva ed a Mulassano.

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IL RICONOSCIMENTO DELL'ESISTENZA DI MONDOVÌ E DI CUNEO 6 3 9

Cuneo e Savigliano dovevano rispettare gli uomini di Romanismo, né riceverli come abitatori senza consenso del comune di Asti. L'abate di San Pietro di Savigliano ed i castellani del consortile di Manzano, Sarmatorio e Monfalcone dovevano conservare tutti i loro domini, possessi, forni, mulini, mercati e diritti consortili di ogni genere, come erano usi avere prima che incominciasse la guerra, in Savigliano, Genola, Solere, Marene e tutte le altre ville loro, poste fra la Stura e Savigliano, ed in esse ville costruire a loro volontà senza contrasto da parte dei Saviglianesi; il comune saviglianese non avrebbe potuto prendere alcun provvedimento statutario od altro diretto ad ostaco-lare o togliere i diritti consortili dei suddetti castellani sì che questi potevano fare come avevano consuetudine prima della lotta, pace e guerra, esercito e cavalcata; i saviglianesi che erano uomini dei castel-lani del consortile suddetto o dell'abate e che prima davano per le vendite delle terre il terzo del prezzo, d'ora innanzi dessero il quarto e permettessero ai castellani di Cavallermaggiore di godere liberamente dei diritti loro su tale terra come prima della guerra. Il marchese di Busca fu autorizzato ad edificare a sua volontà nella sua terra di Monasterolo senza contrasto dei saviglianesi o d'altri che non fosse il comune di Asti. Il lodo conteneva ancora l'obbligo dei comuni di ristabilire nei loro beni e diritti quanti erano usciti dalle loro città per aderire alla parte dei marchesi e castellani; le cose prese dalle parti nel tempo della tregua, si restituissero reciproca-mente; così si restituissero i prigionieri fatti, pagando le spese del loro mantenimento; per le controversie e dubbi fosse sempre arbitro il comune di Asti.

Pace adunque questa che salvaguardava da una parte l'esistenza dei nuovi comuni, ma che rispettava gli interessi economici e giuridici della classe feudale anche nell'interno dei comuni. Per tal via gli astigiani cercavano di tenersi amici ed i comuni ed i feudatari ostaco-lando l'intromissione della Lega e delle due nemiche limitrofe Alba ed Alessandria, nel nome dell'imperatore e nell'interesse proprio. Nella nuova situazione constatata dal lodo del 6 gennaio del 1234 il primo vinto era il vescovo di Asti che il 4 aprile del 1233 era stato costretto dal comune a cedergli solennemente i diritti di pace e di guerra, di esercito, di cavalcata, di soccorso e di ridotto sopra tutti i vassalli, gli uomini e la terra che questi e quelli tenevano dalla Chiesa di Asti. E nell'agosto successivo gli uomini di Morozzo, che era terra appartenente al vescovo ma che già formava comune, facevano il loro cittadinatico ad Asti, con il consenso dei loro signori, cioè del vescovo

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d'Asti e dei vassalli suoi del luogo. La signorìa feudale del vescovo era quindi in disgregazione. Né il comune d'Asti si accontentava di togliere i diritti militari alla Chiesa, ma mirava anche ad una presa di possesso nel campo economico. Già sulla fine del 1231 il comune nominava una commissione di sedici cittadini nobili per procedere alla registrazione dei beni e dei fitti dovuti alla chiesa astense. Era una ventata davvero di antiguelfismo economico.

Mondovì e Cuneo dovevano dunque il riconoscimento del loro diritto ad esistere ad un atto ufficiale del podestà di Asti che rap-presentava la maestà imperiale. Non erano però ancora città, non avevano vescovo, non diocesi. Il vescovo di Asti, qui dominava, e lo avrebbe impedito per evitare concorrenti!

Sulle relazioni di Asti con Alessandria non abbiamo dopo il 1233 notizie precise. Ad Alba durante il 1233 comparve un personaggio im-portante del partito guelfo, il francescano fra Enrico di Padova, per fare inserire negli statuti comunali i capitoli contro gli eretici, l'usura ed i giochi d'azzardo. I signori di Monforte vennero invitati a prestar fedeltà al comune solo nel novembre del 1233, secondo gli accordi presi con il marchese di Monferrato, e nel febbraio seguente anche i rustici furono chiamati al loro dovere. Nell'aprile ancora del 1234 il comune di Alba accettava la pace con Asti, ma respingeva le clausole riguardanti Novello e Monchiero in cui erano evidentemente favoriti i marchesi di Carretto. Ed il nuovo podestà era un genovese; di nuovo ritornava Guglielmo Embriaco.

Nella zona dove era il più grave dissidio con Alessandria, la regione tra Bormida e Belbo, nel maggio del 1235 gli astigiani otten -nero dei vantaggi con la sottomissione dei Catena comproprietari di Malamorte, ma anche gli alessandrini si radicarono nella regione. Il loro centro nuovo era Nizza su un contrafforte all'incontro del torrente Nizza con il Belbo. Quivi in questi anni andarono riunendosi gli uomini di Lanerio, di Calamandrana, di Garbazola, di Quinziano, di Lintiliano, di Belmonte, sotto la signoria di Alessandria, mentre i signori del consortile di Canelli e di Calamandrana rimanevano legati ad Asti.

Un'altra villa nuova o rinnovata era Bistagno. Il vescovo di Acqui di tanti possessi aveva conservato Bistagno: nel 1253 trasportò il suo popolo su una altura,

Ancora nel 1235 gli astigiani riuscivano a stabilirsi — definitiva-mente essi speravano — sul Po, costringendo gli abitanti di Carignano a giurare il cittadinatico nel loro comune, obbligandosi a pagare fodro

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L'ATTIVITÀ DI GENOVA VERSO IL PIEMONTE 641

ad Àsti per 1000 lire, a fare pace, guerra e cavalcata, soccorso e ridotto per gli astigiani contro di tutti, riservando solo il Conte di Savoia ed i loro feudatari, a non fare né pace né guerra senza il consenso del comune d'Asti. Per l'avvenire gli abitanti di Carignano avrebbero preso il podestà in Asti, avrebbero entro l'ottobre — il trat-tato è del 20 maggio — costruito un ponte sul Po e l'avrebbero a loro spese mantenuto, con piena libertà per gli astigiani di passarvi, a piedi, a cavallo, con carri. In tal modo quell'accesso al Po che si erano fatti assicurare da Tommaso I di Savoia nel 1224, ora si garantivano, rendendo sottomesso lo stesso comune di Carignano.

4. L'attività di Genova verso il Piemonte

Riconciliatisi con l'imperatore, sen2a rompere del resto i buoni rapporti con Milano e con la Lega, i genovesi ebbero tra il 1232 ed il 1235 a lottare in vari punti del loro dominio.

Sulla Riviera di ponente nel 1232 i rustici di Val di Oneglia e di Valle Arroscia erano in ribellione ai loro signori, il vescovo di Albenga ed i marchesi di Clavesana, che si rivolsero per aiuto al comune geno-vese. Bonifacio III di Clavesana ed i fratelli suoi si adattarono di mal animo ad un accordo con i più potenti genovesi, che furono ben lieti di avere un pretesto per installarsi nella regione.

Dapprima però Genova inviò solo dei commissari per riunire in armi contro i rustici i nobili vassalli della Riviera. I rustici misero in fuga le milizie mandate su nelle valli ed imbaldanziti « accensi spiritu stultitie et furoris » discesero al mare assalendo e bruciando castelli non solo marchionali ma anche genovesi. Questa volta da Genova si presero severi provvedimenti: per mare si portarono milizie ad Oneglia ed a Porto Mautizio; si assalì e si prese il castello di Bestagno, presso Pontedassio, poi altri luoghi delle vallate; in Oneglia si mise ora un podestà genovese, presidi si misero a Pieve di Teco ed in altri luoghi fortificati. Così i marchesi di Clavesana passarono sotto la sovranità di Genova.

Anche oltre Appennino continuavano le ostilità con Alessandria e con Tortona. Gli alessandrini ancora sempre pensavano a Capriata: nel giugno del 1232 nuovamente attaccarono ivi e rovinarono le campagne. I genovesi, è vero, erano in buoni rapporti con i milanesi: anche nel giugno dello stesso 1232 il loro podestà milanese Pagano di Pietrasanta si recò a Milano certo non per questioni personali, come afferma premuroso il cronista ufficiale genovese.

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Mal capitò però al podestà che per via, tra Vogherà e Pavia, venne assalito da una banda di pavesi, trattato « contumeliose » ma poi lasciato proseguire. Infatti Genova, Tortona, Pavia, Milano erano pur sempre legate in vario modo alla questione della strada dal Po al mare e nella questione poco o nulla valevano le ideologie guelfe e ghibelline, I genovesi erano per la strada in dissidio con i tortonesi ed i pavesi, pur essendo fedeli tutti all'imperatore, invece erano uniti da buoni accordi ai milanesi.

La questione di Arquata era pur sempre aperta tra Genova e Tortona. In contrasto con la Lega Lombarda, i tortonesi inviarono nel dicembre del 1231 i loro rappresentanti alla dieta imperiale di Ravenna e Federico II per ricompensare la loro fedeltà concedette al comune di Tortona la strada per Genova con tutti i diritti su di essa, che tradizionalmente già possedevano, È vero che l'imperatore cercò subito dopo — nei primi mesi del 1232 — di venire incontro agli interessi genovesi e di conciliarli con quelli di Tortona, poiché con un altro diploma dichiarò che i genovesi quando fossero tornati alla devozione per l'impero avrebbero potuto anch'essi usare libera-mente della strada di Tortona. Ma come conciliare le due città? Nel 1228 si era rinviata la questione di Arquata al giudizio di una commissione arbitrale mista, presieduta da milanesi, che si sarebbe riunita dopo quattro anni, nel 1232. Dati i dissidi tra i vari comuni, nel 1232 non si fece nulla: ma i milanesi acconsentirono poi alle richieste dei genovesi di riunire la commissione per il lodo. Alla fine quasi dell'anno, nel dicembre, comparvero a Milano due rap-presentanti di Tortona, uno come arbitro eletto dal comune, l'altro come procuratore dello stesso comune, ad osservare che l'arbitrato non poteva avere luogo: come potevano gli arbitri mettersi d'ac-cordo? I tortonesi amici dei pavesi erano in inimicizia con i milanesi, quelli fedeli all'imperatore, questi ribelli. I milanesi respinsero queste obiezioni e decisero che i loro rappresentanti esaminassero la questione anche solo con i delegati di Genova se i tortonesi rifiutavano di

intervenire.Ma da Tortona con abili artifici si riuscì a tirare avanti la

discussione per diversi mesi. Comprendevano i tortonesi che tra Genova e Milano vi era un segreto accordo contro di essi, che Milano per avere Genova nella Lega era pronto a decidere a suo favore nella questione di Arquata.

Tra il 1233 ed il 1234 i rapporti peggiorarono: i genovesi ebbero a combattere contro i tortonesi spalleggiati dai pavesi. Nel dicembre

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LA BATTAGLIA DI CORTENUOVA 6 4 ^

del 1232 il comune di Tortona comperò da Bonifacio II marchese di Moni"errato il castello di Novi, per 5700 lire pavesi: il castello fu rafforzato con una torre che fu inaugurata solennemente « in onore dell'imperatore, dei comuni di Tortona e di Pavia e di tutti gli amici ». Nel 1234 i signori di Montalto allegramente predavano le merci dei comuni lombardi avviate a Genova per la via di Gavi.

Solo nel 1235 si incominciò a discutere di pace e nuovamente si ricorse ad arbitri: ne fu regolata tutta la questione della via per Gavi e Serravalle con l'impegno dei due comuni di garantire, ciascuno per un tratto, la sicurezza dei viaggiatori e delle merci.

5. La battaglia di Cortenuova

II lodo papale del 1233 non piacque né ad una parte né all'altra.I rettori della Lega sollevarono mille obiezioni; per parte sua

l'imperatore ufficialmente ringraziò Gregorio IX della sua premura per la pace, ma nella corrispondenza privata mostrò apertamente la sua delusione.

Durante il 1233 ed il 1234 Federico II rimase a lungo nei regno di Sicilia occupato nel reprimere movimenti ed in tante cure della riorganizzazione del regno. In Lombardia la Lega era padrona del campo. Quando il re dei Romani Enrico VII incominciò ad organizzare a sua volta una ribellione contro il padre, i comuni della Lega Lom-barda non esitarono a prestare ascolto alle lusinghe dell'audace prin-cipe! gli ambasciatori di Enrico VII, Anselmo di Justingen e Walter di Thaunberg, rispettivamente suoi marescalco e cappellano, vennero accolti, uditi: nel dicembre del 1234 i rettori della Lega, a. nome di tutti i comuni aderenti, e anche del marchese di Monferrato, giurarono fedeltà ad Enrico VII; promisero che non avrebbero partecipato a nessuna azione contro di lui, anzi che secondo la loro possibilità si sarebbero opposti, ed avrebbero difeso il suo stato ed il suo onore. Però con la riserva che non avrebbero dovuto versare tributi né inviare fanti e cavalli al suo servizio fuori d'Italia; il re Enrico ed i principi tedeschi avrebbero dovuto aiutare la Lega contro i nemici che essa aveva in Lombardia « vel alibi ». Si ricordavano solo i comuni di Cremona e di Pavia, ma il pensiero dei contraenti andava senza dubbio a Federico II, il grande nemico comune. Si era ottimisti a Milano in quel 17 dicembre 1234 in cui si firmò l'accordo: già si prevedeva che Enrico VII riuscisse a soppiantare il padre nell'impero e che Lega ed impero fossero amici ed alleati.

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Nell'aprile del 1235 l'imperatore decise di porre fine alle mene del figlio. Lasciò il Regno conducendo con sé il figlio Corrado, natogli sette anni prima da quella Iolanda di Brienne che subito dopo era scomparsa. Federico II voleva sostituire evidentemente Corrado al ribelle Enrico.

Non volendo, data l'urgenza del viaggio, avere guai con la Lega Lombarda, giunto a Rimini, si imbarcò ed andò a sbarcare ad Aquileia,

di dove per la marca austriaca comparve improvvisamente in Baviera. Il suo arrivo fu sufficiente per far cadere qualsiasi opposizione,

Enrico VII rimasto solo corse a Wimphe a cercare perdono ai piedi del padre. Questi rinviò ogni decisione alla dieta di Worms. Quivi giunto, venne accolto alle porte della città da dodici vescovi; Fede-rico li guardò, vide che fra di essi vi era il vescovo Landolfo e gli ordinò di allontanarsi dalla sua presenza. Il figlio fu ora arrestato per le sue nuove disobbedienze, mentre si preparava a .fuggire; fu chiuso nel castello di Heidelberg, poi in quello di Alerheim presso Nordlingen. Federico II intanto il 15 luglio accoglieva la sua nuova sposa Isabella Plantageneto, sorella di Enrico III d'Inghilterra, e

celebrava appunto in Worms le sue nozze.Nell'agosto successivo, tenne una grande dieta in Magonza: quasi

tutti i principi tedeschi vi furono presenti: l'imperatore diede dispo-sizioni per il riordinamento della Germania, annunzio la destituzione del figlio ribelle.

Nel gennaio del 1236 il principe Enrico partì sotto la custodia di due vescovi per il castello di Puglia dove aveva a vivere in per-petua prigionia. Il trasporto fu affidato al marchese Manfredi Lancia Spiacevole incarico.

Fiero del suo rapido ed apparentemente completo trionfo, Fede-rico II pensò che fosse possibile venire a capo anche della opposizione italiana. Ancora da Magonza, l'imperatore scrisse al papa in proposito. Gregorio IX aveva inviato poco prima un suo messo in Germania, latore di solenni lettere rivolte a tutti i principi, perché esortassero Federico II a non preoccuparsi più della questione della Lega affidata ormai all'arbitrato papale, ed a pensare invece alla Terra Santa.

L'imperatore rispose che avrebbe lasciato la questione lombarda all'arbitrato del papa, perché fosse risolta per il Natale; altrimenti nell'aprile seguente, secondo l'intesa presa con i principi, sarebbe disceso in Italia con due eserciti, l'uno per la via di Basilea e del San Bernardo, l'altro per la via di Augusta e del Brennero.

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LA BATTAGLIA DI CORTENUOVA 645

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Gregorio IX riprese la sua politica di rinvii, di indugii; ai rettori della Lega fece ordinare che comparissero davanti a lui il 1° dicembre; a Federico II chiese una proroga delle sue decisioni belliche.

Fu certo la notizia delle intenzioni di Federico II quella che determinò la riconferma della Lega Lombarda: il 5 novembre i rettori si trovavano a Ferrara ad accogliere l'adesione di quella città alla Lega, ed in quell'occasione stabilivano per i ferraresi solo l'obbligo di impe-dire il passaggio per il loro territorio dei « Teutonici e dei loro fautori » avviati ai danni della Lega; due giorni dopo i podestà delle varie città leghiste, tra cui le città piemontesi di Novara e di Ales-sandria, confermavano la Lega stessa. Assai presto tale rinnovazione della Lega arrivò alle orecchie di Federico che ne scrisse al papa lagnandosene e manifestando la speranza che la cosa non avesse carattere offensivo contro di lui. Gregorio IX rispose evasivamente, ma ammettendo che i Lombardi avessero provvisto a cautelarsi contro pericoli futuri, per timore della potenza imperiale.

Nel marzo la controversia continuava. Federico II aveva ceduto alle sollecitazioni papali, aveva rinviato la spedizione ed invece accet-tando di prendere parte alla discussione della vertenza aveva inviato a Viterbo presso il papa il Gran Maestro dell'Ordine teutonico. Hermann von Salza si trovò il giorno fissato, ma i rappresentanti della Lega non comparvero; arrivarono solo quando il rappresentante im-periale impazientito se ne partì. Nuovamente Gregorio IX sollecitò Federico II a rinviare il Salza, ammonendolo a non dare un tristissimo esempio con una azione militare contro i Lombardi (27 marzo 1236).

Poco dopo, nell'aprile, comparvero a Verona 500 cavalieri te-deschi e 100 balestrieri: avevano incarico di custodire la città ed impedire che la Lega vi risvegliasse il partito guelfo per poi chiudere le Chiuse dell'Adige. Federico II intanto diramava una lettera enci-clica a tutti i fedeli dell'impero annunziando la sua intenzione di ridurre l'Italia, da ogni parte circondata dalle sue forze, all'ossequio ed alla unità imperiale; nel prossimo estate sarebbe disceso in Italia per tre cose: sradicare l'eresia, ristabilire i diritti della chiesa e dell'impero, ricondurre la pace; poi avrebbe potuto con il comune consiglio dei tedeschi e degli italiani pensare alla Terra Santa. E dava ordine che tutti si trovassero alla solenne dieta che avrebbe tenuto presso Piacenza; sarebbe partito da Augusta il 24 giugno, sarebbe stato a Piacenza il 25 luglio.

A tale notizia il papa si affrettò ad inviare il cardinale vescovo di Palestrina in Lombardia per promuovere l'accordo; il 10 giugno lo

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annunziava all'imperatore e lo pregava di inviargli il Gran Maestro teutonico. Federico II però scrivendo al re di Francia Luigi IX si diceva stanco degli italiani: « al diritto si antepone la violenza; nella giustizia trionfa il capriccio; alcuni popoli d'Italia si sforzano di disprezzare lo scettro dell'impero ed immemori anche del proprio vantaggio cercano il piacere di una certa vaga libertà »; intendeva quindi reprimere la troppo durevole ribellione. E contemporaneamente scriveva severamente al papa: « L'Italia è mia proprietà per eredità; abbandonare quello che è nostro per cercare l'altrui sarebbe enorme, specialmente perché l'insolenzà degli italiani e specie dei milanesi mi

colpì con gravi ingiurie, lasciando la riverenza a me dovuta ». E conti-nuava dicendo che dovendo come cristiano debellare i nemici della croce, doveva, prima di andare a combattere con i Saraceni, distruggere

la zizzania dell'eresia nelle città italiane, specie in Milano.Solo però alla fine del luglio, Federico II lasciò il campo di

Augusta per l'Italia. Aveva con sé tremila cavalieri. Il 12 agosto era a Trento dove fu accolto da molti suoi partìgiani, con a capo i due fratelli Ezzelino ed Alberico di Romano; il 16 era già a Verona, accolto onorevolmente dalla fazione dei Montecchi dominanti in città. Si fermò due settimane presso Vacaldo poi traversò il Mincio avviato a Cremona. La Lega aveva riunito un esercito di milanesi, bresciani, bolognesi, mantovani a Nigrizolo nel bresciano per vietare il passaggio dell'imperatore, ma i leghisti vennero impediti di muoversi dalla comparsa di un esercito di parmigiani, di cremonesi, di modenesi, di reggiani, avanzatisi incontro a Federico II.

Questi unì le proprie truppe a quelle dei comuni fedeli ed attaccò Mantova: ne devastò le campagne, poi passò a minacciare Brescia devastandone pure il territorio. Intendeva intimidire la Lega e ridurla ad accettare la pace. Riuscì almeno a far paura ai berga -maschi sì che abbandonarono la Lega e si umiliarono all'imperatore. Stette quindi Federico II quasi tutto il mese di ottobre in Cremona, poi chiamato da Ezzelino, corse con la sua cavalleria a Vicenza e riuscì a prenderla il primo novembre devastandola e bruciandola. Poi occupò Cittadella, Castelfranco, Treviso, ma qui dovette interrompere la sua conquista per accorrere in Germania a soffocare la ribellione del duca d'Austria. Traversò le Alpi per Cividale del Friuli e le Alpi di Carinzia ed andò a stabilirsi a Vienna. La sollevazione del duca fu presto soffocata, ma Federico dovette occuparsi della riorganizzazione della Germania; vi fece riconoscere come nuovo Re dei Romani il figlio Corrado e lo lasciò alla protezione dell'arcivescovo di Magonza.

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TRASFORMAZIONE DELLA POLITICA DI VERCELLI 6 4 7

Solo nel settembre del 1237 Federico II fu libero e potè ridi-scendere in Italia: fin dal principio dell'anno aveva annunciato la sua intenzione di condurvi tante truppe si da soffocare ogni pretesa di indipendenza. Trattative di accordo? Sì, ancora si studia Grego-rio IX di offrire la sua mediazione, ma Federico II non ha più fiducia in lui ed i Lombardi non pensano più che l'intervento papale possa offrire loro sufficientemente riparo. Alle armi si pensa da una parte come dall'altra come alla sola soluzione.

E Federico II è deciso a colpire. Deve dimostrare che l'impera-tore ha ancora la spada in pugno. Forse era arrivato anche a lui il com-pianto di Sir Blacaz che Sordello aveva scritto nei mesi precedenti, invitando i principi a cibarsi del cuore dell'eroico cavaliere e primo di tutti l'imperatore:

Mangi per primo del cuore perché ne ha gran bisogno — L'imperatore di Roma se vuole vincere — Con la forza i milanesi i quaii tengono lui per vinto — Ed egli vive diseredato malgrado i suoi tedeschi...

Il 1° ottobre assedia Goito, sottomette Mantova, poi il 22 occu-pa Montechiari ed isola Brescia; con tutte le forze dì cui dispone attra-versa l'Oglio e distrugge il 27 novembre a Cortenuova presso Berga-mo l'esercito leghista comandato dal podestà di Milano, il veneziano Pietro Tiepolo: 6000 morti, 4000 prigionieri. Grande trionfo che Federico annunzia con frasi eccelse al popolo di Roma inviandogli il carroccio di Milano da conservare nel Campidoglio. Ora egli spera che la protervia della Lega sia per sempre distrutta.

6. Trasformazione della polìtica di Ver celli

Ai milanesi ed ai bresciani che chiedevano pace Federico rispose intimando la sottomissione assoluta. Sottomise nel novembre Lodi, poi si avanzò nella Lombardia occidentale, recandosi a festeg-giare l'inizio del 1238 a Pavia. Da due anni egli desiderava rista-bilire il contatto con i fedeli pavesi, ma già nel 1236 i milanesi ed i piacentini avevano manovrato in modo da impedire all'imperatore di avvicinarsi a Pavia. Ora Federico riuscì a recarvisi, poi da Pavia si portò a Vercelli.

Il comune di Vercelli dopo lunghe tradizioni guelfe accettò con piacere la comparsa di Federico IL Sebbene le sue milizie avessero combattuto nell'esercito leghista a Cortenuova, i sentimenti e gli inte-ressi della città erano già per il ghibellinismo.

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648 LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE

I vercellesi se, anni prima, erano stati costretti a restituire al vescovo l'importante terra di Casale, non avevano però rinunciato al -l'ambizioso progetto di impadronirsi della giurisdizione episcopale e di liberarsi dalla sudditanza verso il vescovo. Verso il 1234 nuovi guai si ebbero tra il vescovo ed il comune. Quando il francescano fra

Enrico da Padova venne a Verceìli per imporre l'inserzione negli statuti delle leggi per gli eretici, e I'« ecclesiastica libertà », il comune stabilì

alcune nuove costituzioni che il vescovo Ugo e poi il papa Gregorio IX dichiararono inique perché sottraevano indebitamente diritti e giuri-

sdizioni e uomini al vescovo ed alla chiesa, esigendo fodri e banni, aggravando la chiesa con esazioni indebite. Il vescovo Uguccione pri-ma protestò, poi colpì di interdetto e poi di scomunica il podestà che aveva giurato salendo in carica di fare rispettare lo statuto nuovo.

Gregorio IX a cui il vescovo ricorse lamentandosi, (30 aprile 1235) confermò la scomunica e non si preoccupò delle proteste che

venivano pure presentate dai procuratori del comune subito accorsi alla curia pontificia; tosto diede ordine al vescovo di Novara di far

pubblicare la scomunica.Analoga controversia si era avuta poco prima anche ad Ivrea.

Quivi infatti, il vescovo Oberto, mentre pretendeva di aver diritto al titolo ed alla dignità di conte che nessuno dei suoi predecessori aveva portato, protestava contro certi statuti del comune lesivi delle fran-chigie ed immunità ecclesiastiche. Anche ad Ivrea si ebbero per tale questione durante il 1234 intervento di delegati apostolici, sentenza contraria al comune, minacce di interdetti e di scomuniche, sino a che nel 1236 gli eporediesi si piegarono. Più tenaci invece furono i ver-cellesi.

A Verceìli si decise di continuare inalterati nella via iniziata. Nel dicembre del 1235 il vescovo Ugo venne a morte; il successore Giacomo di Carnario venne ufficialmente ignorato e nessuno pensò che il comune dovesse chiedergli la tradizionale investitura. La vacanza della sede episcopale venne invece sfruttata per creare dei fatti compiuti. Nel gennaio del 1236 due cospicue famiglie di Casale, i Grassi ed i Cane, furono ammessi a giurare il cittadinatico in Verceìli: si sottoponevano in tal modo alla giurisdizione del comune domina-tore, si obbligavano a pagare fodro ed a comperare casa in Verceìli, a mettere a disposizione del comune il terreno in Casale, sufficiente per costruire « bomim palatium et bona turris » o nel castello o presso il fossato o presso la piazza. Accettandoli come cittadini vercellesi, il podestà e la credenza dichiararono che li avrebbero difesi nel caso

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THASFORMAZIONE DELLA POLITICA DI VEKCELLI 6 4 9

in cui il vescovo od il suo podestà casalese li colpissero con banno o con altra condanna.

Ancora nel gennaio del 1236 vennero a Vercelli a giurare il rit-tadinatico molti casaiesi « qui omnes dicuntur illi de Curiis de loco Casalis »: identici furono gli impegni dalle due parti con in più però l'obbligo dell'aiuto reciproco in guerra, della costruzione di una torre in Casale da parte dei nuovi cittadini a spese del comune di Vercelli che avrebbe perciò pagato 100 lire pavesi, dell'azione promessa dai vercellesi per l'intervento presso il comune di Casale — dipendenza episcopale — sì che restituisse i banni pagati dai casaiesi « de Curiis » per le loro lotte con altre famiglie.

Si trattava adunque della ribellione al comune di Casale ed al vescovo di un gruppo cospicuo di famiglie casaiesi legate dal vincolo di vassallaggio oltre che di sudditanza al vescovo; esse diventavano direttamente parte del comune di Vercelli. Erano le famiglie che formavano la consorteria dei Corti.

Aveva quindi dell'ironia la clausola di tali atti per riservare ogni diritto e ragione del vescovo e la libertà ecclesiastica. La signoria epi-scopale vercellese minacciava di scomparire rapidamente.

Il nuovo vescovo Giacomo di Carnario dovette correre ai ripari, se già nel marzo il comune di Vercelli faceva intimare al podestà di Casale di non imporre fodro o recar danno ai cittadini vercellesi sta-biliti in Casale: era un bel modo per indicare i casaiesi che avevano rotto con il vescovo! Il podestà di Casale rispose osservando che egli aveva ordine di esigere il fodro da tutti quanti avevano terre e che non poteva venir meno al suo giuramento e poiché gii ambasciatori vercel-lesi si riferivano ai patti del 1198, i casaiesi risposero che avrebbero riferito al vescovo.

Il comune di Vercelli continuò nel suo atteggiamento: nel no-vembre del 1236 fu proclamato che se alcun castellano o nobile o cit-tadino della città o dell'episcopato vercellese rifiutasse di consegnare al podestà il suo castello o la sua terra o la sua casa, dovesse essere messo al bando; il suo castello sarebbe stato distrutto, i suoi rustici sarebbero stati dichiarati liberi ed il luogo sarebbe stato affrancato. E con tale deliberazione così estesa si veniva a comprendere anche tutti i vassalli del vescovo.

E questa politica era ora rappresentata da un podestà milanese, Ottone di Mandello. L'anno prima vi era stato un dissidio tra Ver-celli e Milano: i vercellesi avevano preso come podestà il conte Rufino di Lomello, mentre i milanesi appoggiati da una minoranza del Consiglio di

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650 LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE

Vercelli volevano imporre come podestà il loro cittadino Resonato di Pozzo Bonello. I vercellesi avevano resistito, ma nel 1236, di fronte alla minaccia imperiale, dovettero cedere. Ed in mezzo ai provvedi-menti di guerra (ordine al podestà di Paciliano di rinnovare i patti giurati, ordine ai signori di Torcello e di Cuniolo di consegnare i ca-stelli alle guardie vercellesi, ordine ai castellani del Canavese di giu-rare entro otto giorni l'osservanza dei patti con i comuni di Ivrea e di Vercelli) il podestà milanese curava lo svolgersi della politica ghibel-lina del comune.

Nei primi mesi del 1237 tutti gli sforzi furono fatti dalle auto-rità ecclesiastiche per ricondurre all'ovile gli audaci vercellesi, Lo stesso arcivescovo di Milano con il cardinale Legato ed i vescovi di Ivrea e di Torino si portarono a Vercelli a sollecitare gli uomini del comune. Il podestà Ottone di Mandello rispose « protervamente » che né poteva mostrar loro il codice degli statuti come essi volevano, né poteva venir meno all'obbligo di applicare gli statuti] Allora l'arci-vescovo di Milano lanciò l'interdetto contro la città e scomunicò il po-destà ed i credenzieri; il papa approvò ed ordinò per conto suo al ve-scovo di Novara di provvedere a che la città interdetta venisse isolata: rotte le relazioni commerciali, vietato di prendere in Vercelli podestà o giudici, vietato di andare ai mercati di Vercelli; vietato di andare alle scuole vercellesi.I vercellesi non recedettero dal loro programma: anche le nuove esortazioni del cardinal legato Ottone di San Nicolo e dei vescovi di Novara e di Torino furono inutili. Il vescovo di Novara lanciò una nuova scomunica contro quanti conservassero relazioni con i vercellesi. Questi frattanto attendevano a nuovi atti di autorità nei domini del vescovo, occupando castelli ed armandoli al servizio del comune, co-stringendo i vassalli e gli uomini del vescovo a giurare fedeltà al co-mune; molti nuovi cittadinatici furono fatti; si occuparono i castelli di Andorno e di Chiavassa, fu messo l'assedio al castello di Biella. Ora intervenne nuovamente il papa: il 3 settembre 1237 ordinava al vescovo di Novara di intimare al podestà vercellese di sottomettersi entro due mesi, con la minaccia di gravi pene ecclesiastiche per i responsabili sino alla terza generazione. I vercellesi risposero con una più grave deliberazione: se alcuno avesse osato impetrar lettere dal papa, il comune gli potesse fare tutto il male possibile. Ed ora la situazione era favorevole per l'adesione aperta all'impero: i rappre-sentanti di Vercelli si recarono a Pavia a fare atto di omaggio a Fede-rico II e questi l'8 gennaio 1238 concedette alla città il suo perdono

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FEDERICO II A TORINO 6 ' 1

e la sua grazia: Pii febbraio seguente l'imperatore entrava nella sua « fedele » Vercelli.

7. Federico li a Torino

Da Vercelli, Federico II si recò ad Ivrea, poi a Torino, ma non vi si fermò ancora. Si recò invece a Cuneo, ad Alba, solo nell'a-prile ritornò a Torino. La situazione piemontese lo interessava assai e molto se ne occupò. Bisognava infatti rialzare le sorti dei partigiani dell'impero: negli anni precedenti il guelfismo aveva quasi prevalso.

Nel maggio del 1236 Alessandria, Mondovì, Cuneo, Savigliano, Bene, Busca erano riuniti in una lega per la comune difesa: anzi Cu-neo e Savigliano apparivano uniti sotto lo stesso podestà Pagano del Pozzo, Né la comparsa dell'imperatore nell'estate era stata suffi -ciente a dare coraggio ai partigiani dell'impero: sulla fine dell'anno gli abitanti di Romanisio e di altri villaggi come Genola, Levaldigi, Villamairana e Sarma torio in odio ai loro feudatari, castellani del con-sorzio di Sarmatorio, Manzano e Monfalcone, si riunirono in un centro nuovo, Fossano, località non del resto disabitata e rappresen-tante un antico fondo romano, il fundus Faustianus. Era naturalmente questo in contrasto con l'influsso di Asti imperiale: gli organizzatori del nuovo centro erano evidentemente i comuni di Alessandria e di Cuneo, Appoggiati da Alessandria che formava il legame sicuro con la Lega Lombarda, i cuneesi miravano a dominare tutta la regione tra Stura e Tanaro: nel 1236 qualche documento accenna a loro tenta-tivi su Morozzo.

Fedeli all'impero si conservavano il Conte di Savoia ed il mar-chese di Saluzzo e ad essi si collegavano i nemici della Lega guelfa. Attorno a Manfredi III quando nel castello di Dogliani accordò un'inve-stitura a Roddino nell'albese (gennaio 1235) vi erano i Morozzo. Nel giugno Manfredi III investiva Pietro Inganna di Barge del feudo suo di Barge, Fontanile, Roncaglia: lo assistevano Enrico marchese di Busca e Bonifacio di Piossasco. Più tardi nel novembre Manfredi III si recava egli stesso a Vigone a ricevere da Amedeo IV la nuova inve-stitura dei feudi che i marchesi tenevano secondo i patti del 1223 dai Savoia (Barge, Fontanile, Roncaglia, Busca, Scarnaggi).

Nel dicembre il Conte di Savoia si trovò a Chivasso con i due suoi generi Manfredo III e Bonifacio II, nella circostanza della effet-tuazione del matrimonio del marchese di Monferrato con Margherita

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652 LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE

di Savoia. Bonifacio II dovette concedere a titolo di accrescimento di dote alla sposa i castelli di Pianezza, Ciriè, Caselle, Mathi, ma Ame -deo IV si impegnò a fare donazione ai due generi di Susa, Avigliana, Cavour, Vigone, Miradolo e di quanto aveva in Lombardia dal Cenisio a Barge, qualora egli non lasciasse figli legittimi maschi; se però egli avesse ad avere un figlio maschio erede, la donazione doveva essere nulla. Questo atto fu certamente strappato al Conte di Savoia dai due marchesi, avendo saputo degli atti di Amedeo IV a favore del fratello Tommaso: si voleva costringere il Conte a riconoscere eredi, in parte almeno, le due figlie sue.

Nonostante i loro rapporti di parentela, il Conte di Savoia ed il marchese di Monferrato militavano in campo diverso. Amedeo IV si trovò nel 1235 riavvicinato all'imperatore quando questi ebbe spo-sato Isabella Plantageneto sorella di Enrico III che era ora nipote dei fratelli di Savoia per la moglie Alienor di Provenza. Appunto nel 1235 Guglielmo di Savoia vescovo eletto di Valenza visitò in Germania l'im-peratore e gli fece presente il desiderio del fratello Amedeo IV di

ricevere dalle sue mani il cingolo della cavalleria. Federico II rinviò la cosa a tempo opportuno, ma nella primavera del 1236 il Conte di

Savoia nuovamente inviò ambasciatori all'imperatore ad attestargli la sua fedeltà e devozione. Federico gli rispose ringraziandolo ed assicu-randolo che era pronto a ricompensarlo con benefizi della sua devo-zione, simile a quella che il conte Tommaso I aveva dimostrato per l'impero: alla sua venuta in Lombardia Io avrebbe accolto alla corte. Degli avvenimenti del 1237 in Piemonte non abbiamo molte notizie.

Asti probabilmente aveva cercato di avvicinarsi alla Lega Lombarda: ce lo fa pensare il vedere che il marchese di Monf errato il 9 marzo

1237 entrava in Asti e presenti il conte Oberto di Biandrate ed altri visconti si faceva dare dal vescovo l'investitura delle terre che

tenevano i marchesi dalla chiesa di Asti, cioè Camino, Pontestura e parte di San Salvatore; così nell'ottobre dello stesso anno, lo stesso

marchese concedeva un salvacondotto a tutti gli scolari avviati ad Asti « causa studii et propter studium ». Nessuno li doveva offendere per

rappresaglia od altro ed il marchese citava i milanesi, vercellesi, nova-resi, lodigiani, ultramontani. Del resto durante il 1237 il nuovo vescovo

di Asti, Uberto, con grande energia aveva imposto a tutti i suoi vassalli il riconoscimento dei loro feudi, ricevendone la fedeltà ed il con-

segnamento dei beni.Anche il podestà d'Asti, che però, è da rilevare, era un cremo-

nese, dovette comparire davanti al vescovo, giurare fedeltà e promet-

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FEDERICO II A TORINO 653

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tergli aiuto contro tutti i nemici, sì che nel medesimo giorno (16 ago-sto 1237) il vescovo chiedeva a quel podestà di aiutarlo contro gli uomini di Cuneo che avevano costretto gli uomini di Morozzo ad abbandonare il loro luogo ed a recarsi ad abitare nella loro città.

Anche sulla Riviera il guelfismo aveva nel 1237 la prevalenza. A Genova quando si dovette designare il nuovo podestà, la maggioranza fu per un milanese, Paolo di Soresina, e questi ebbe l'invito; succe-deva ad un lodigiano, Oldrado Grosso, sì che le idee dominanti erano già favorevoli alla Lega. Ed in realtà i genovesi erano di nuovo in lotta con i tortonesi ed i pavesi che appunto in principio di quell'anno avevano in odio a Genova riedificato Arquata con palizzate e fosse. Il podestà di Genova era accorso tosto oltre il Giogo con delle milizie, ma sebbene i due accampamenti nemici fossero ad appena un miglio di distanza, né da una parte né dall'altra si era osato attaccare. I tortonesi e pavesi poi si ritirarono, ed i genovesi si erano accontentati di costruire un castello a Monte Gavilione. Anche per queste vertenze con i comuni imperiali d'oltre Appennino, i genovesi inclinavano aper-tamente verso la Lega Lombarda.

La comparsa dell'imperatore nell'Italia occidentale era necessaria adunque per schiacciare la parte guelfa. E presto feudatari e comuni andarono a gara a mettersi sotto la protezione di Federico II; quelli che erano guelfi si trasformarono in ghibellini. Dove passa l'imperatore lascia diplomi a dimostrazione della sua benevolenza e della sovranità imperiale riconosciuta. E dovunque egli colloca al governo delle città dei suoi ufficiali, perché la vittoria di Cortenuova gli fa credere di es-sere vicino al trionfo assoluto.

Ad Ivrea Federico II arrivò da Vercelli verso il 12-13 febbraio: subito dopo (15 febbraio) il governo compare nelle mani di un capi-tano imperiale, Rinaldo Vasco d'Altessano. Da Torino prende con solenne diploma sotto la sua protezione l'abazia di Santa Maria di Pinerolo di cui riconosce i diritti e privilegi, conferma i beni. Da Cuneo concede vari diplomi ai comuni che ieri ancora erano guelfi, Cuneo, Savigliano, Mondovì, Chieri; li prende sotto la sua protezione, accetta la giustificazione dei guai loro recati dai vicini che volevano dominare su di essi; concede il misto e mero imperio, i pedaggi; approva i buoni usi tradizionali, consente che per le cause civili e criminali abbiano a rivolgersi solo alla sua curia od a quella dei suoi legati e capitani incaricati del governo del luogo. E così a Torino già il 2 febbraio, ad Asti il 7, compare un signor Vinciguerra vicario e capitano dell'imperatore a « Papìa superius ».

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654 LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE

Da Cuneo per Alba ritornò l'imperatore a Torino nel marzo e vi si fermò quasi tutto aprile. Corte solenne: a lui sono venuti amici

caldi ed amici tiepidi; anche nemici. Federico II accoglie tutti: Boni-facio II di Monferrato convinto che dopo Cortenuova la Lega sia spacciata ed egli sia sicuro di poter fare l'imperialista; Manfredi III di Saluzzo, Guido conte di Biandrate, i marchesi di Clavesana, il mar-chese Obizzo Malaspina, i marchesi Tommaso e Berengario di Roma-gnano ed il conte Amedeo IV di Savoia. Ma arrivano anche molti vescovi, specie dai paesi del regno di Arles: gli arcivescovi di Vienne, di Embrun, i vescovi di Grenoble, di Gap... e da Torino l'imperatore attende con cura alle questioni di Borgogna: numerosi diplomi per

quei paesi vengono ora sigillati.Così Federico II da Torino attende alla situazione della Riviera,

perché il contegno di Genova lo preoccupa: nell'aprile scoppia contro i genovesi la ribellione a Savona, ad Albenga, a Portomaurizio, a Ventimiglia.

Nello stesso tempo l'imperatore sostituisce il Vinciguerra nell'ufficio di vicario generale « a Papia superius » con il suo più « dilectus fidelis » Manfredi II Lancia, Al nuovo vicario spettava l'incarico di sistemare le forze politiche locali nei quadri della organiz-zazione imperiale: il Piemonte è appunto la regione in cui Federico II doveva fare la sua esperienza di organizzazione militare centralizzata al di sopra del feudo e del comune.

8. I Fratelli di Savoia a Brescia

Durante il soggiorno in Piemonte, l'imperatore decise di convocare tutti i suoi fedeli d'Italia, di Borgogna, di Germania, a Verona per il 1° maggio onde preparare il colpo decisivo ai due comuni ribelli e protervi, Brescia e Milano. Il Conte di Savoia, i marchesi di Monferrato e di Saluzzo, il conte di Albon, il conte di Provenza promisero il loro intervento od almeno l'invio di loro gente. Il con -vegno di maggio subì in realtà un ritardo, che da Torino Federico II si recò solo nel maggio a Pavia, e poi a Cremona circondato da tutti i baroni che gli avevano fatto corona in Piemonte. Solo il Conte di Savoia, Amedeo IV, non seguì l'imperatore, ma forse, data la promessa di trovarsi all'assedio di Milano o di Brescia, ritornò in Savoia a preparare le sue genti d'arme.

Frattanto Manfredi II Lancia lavorava per organizzare la lotta contro il guelfismo in Piemonte e Liguria. Ai primi dell'aprile Savona,

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I FRATELLI DI SAVOIA. A BRESCIA 655

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Albenga, Ventirniglia si sollevavano, cacciavano i castellani genovesi e chiedevano l'intervento del vicario imperiale. Questi non potè impe-dire che i genovesi reprimessero l'insurrezione a Ventimiglia e rioc-cupassero l'isola Gallinaria; tuttavia già il 20 aprile era a Savona e vi metteva un suo vicario per la lotta inevitabile contro Genova; contro quanti nella Riviera rifiutavano di riconoscere la sua autorità, lanciava il bando. Cosi si ammonivano quanti erano fedeli a Genova, se questa non si decidesse a riaffermare i suoi esitanti legami con l'impero. Federico II se ne preoccupò ed inviò ambasciatori a Genova a chiedere il giuramento di fedeltà; protestarono i genovesi contro gli atti del vicario imperiale a Savona che aveva messo a bando i loro fedeli sudditi di Noli, sì che l'imperatore si affrettò a comunicare che avrebbe fatto togliere il bando purché quei di Noli ritornassero alla devozione.

Da Savona il marchese Manfredi Lancia ritornava in Piemonte ed organizzava, forse da Asti, una spedizione contro Alessandria tenace nella sua adesione alla Lega Lombarda. Milizie astigiane, tortonesi, pa-vesi, vercellesi, novaresi e monferrine sotto il comando del vicario impe-riale attaccarono Alessandria; ne rovinarono per quasi tre settimane le campagne, ma non poterono nulla contro la città. Federico II rin-graziò i comuni che avevano preso parte alle operazioni contro Ales-sandria e li esortò a prepararsi alla distruzione di Milano « que dicitur caput nequitie ».

Nel luglio, dai comuni fedeli all'impero partirono le milizie desti-nate all'esercito di Federico II. Cosi vediamo il vescovo di Asti raccogliere gli uomini d'arme che dovevano provvedere tutti i suoi vassalli. Anche questa volta il marchese Manfredi Lancia prese il comando delle genti appartenenti alla sua circoscrizione: a Torino rimase a rappresentarlo Filippo di Citro, conestabile di Capua e capi-tano di Torino e di Moncalieri.

Già alla Pentecoste (23 maggio) Federico II era a Verona per accogliere le genti d'arme tedesche. Il suo progetto era di attaccare prima Brescia sì da isolare completamente Milano contro la quale avrebbe da ultimo volto le armi.

Solo al principio dell'agosto l'esercito imperiale compariva sotto le mura di Brescia. Contemporaneamente quasi (6 agosto 1238) Gre-gorio IX spediva in Lombardia come Legato pontificio e con pieni poteri il suddiacono suo Gregorio di Montelongo: così se in apparenza il papa pareva voler procurare la fine della lotta tra l'imperatore ed i comuni leghisti, in pratica questi stavano per avere nel Legato un

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sagace consigliere ed un abile capitano nella guerra contro Federico II. Certo questi comprese subito che il Legato pontificio sarebbe stato l'organizzatore di un'aspra lotta.

Amedeo IV di Savoia venne all'assedio con il fratello Guglielmo, l'Eletto di Valenza. Il Conte prima di lasciare la Savoia, il 13 luglio ad Aiguebelle, quindi poco prima di attraversare il Cenisio, aveva di nuovo fatto testamento, Dichiarò suo erede universale il fratello Tommaso: se questi fosse mancato senza eredi, lo avrebbe sostituito Filippo, e così a questo, Pietro, Faceva il Conte obbligo ai suoi eredi di pagare i debiti ch'egli lasciasse ed anche quelli del padre suo, che erano ancora da pagare. L'erede doveva prendere impegno verso la

contessa madre, l'arcivescovo di Tarantasia, ed i due fratelli Guglielmo e Bonifacio, i vescovi Eletti di Valenza e di Belley; occorrendo, per pagare

i debiti, si doveva vendere il castello di Avigliana all'imperatore. Il conte di Provenza, sebbene di mala voglia, non potè dir di no alle

sollecitazioni di Federico II che gli aveva portato come esempio da imitare la sollecitudine del cognato suo, il Conte di Savoia, e del

marchese di Monferrato: venne a Brescia con 100 cavalieri. Era uomo coraggioso, il marito della fine Beatrice di Savoia? Federico II nella sua lettera lo motteggia chiaramente: a questo proposito e significativa è la tenzone di Raimondo Berengario con il trovatore Bertrando

d'Alamannon.Dice il poeta:

« Signor conte, vi prego di dirmi •— Che cosa vi proponete circa la palizzata, — Se la prendiamo o no con la forza; — Veggo per voi, in tal faccenda, dell'onore e del vantaggio, — Sol che vi ci mettiate per pri -mo, — Perché, attraverso la buca per cui sarete passato, — Entreranno poi senza esitazione i vostri compagni ».

Risponde il Conte:

« Bertrando, credo che ben conosciate — Che in fatto di armi io sono abbastanza istruito — Per sapere prendere la decisione più vantaggiosa; — Pur-ché voi mi siate alle calcagna, — Io darò l'assalto a mano armata, — Dopo che avrò veduto entrati i cremonesi, — Se il portinaio non dirà di no ».

Dal regno di Borgogna vennero pure il conte di Tolosa, il conte di Albon con 100 cavalieri; Guglielmo di Savoia vescovo Eletto di Valenza attese per via i 100 cavalieri guasconi che per ordine del re d'Inghilterra il senescallo di Guascogna Enrico di Trubleville doveva condurre da Bordeaux all'imperatore, Anche il conte di Guines con-dusse cavalieri francesi e fiamminghi: Federico II infatti si era rivolto così al cognato Enrico III, come all'alleato Luigi IX, come ai re di

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Castiglia e d'Ungheria che pure gli inviarono dei drappelli di cavalieri. L'accampamento imperiale sotto Brescia aveva davvero un carattere internazionale.

In marcia per Brescia H vicario Manfredi Lancia, Guglielmo di Savoia, il Senescalco del Delfino si scontrarono a Busseto con l'eser-cito piacentino pure in via per Brescia e lo sgominavano facendo 400 prigionieri.

Gli sforzi di Federico II non riuscirono a nulla. I bresciani resi-stettero impavidi a tutti gli attacchi e dopo due mesi, gli imperiali si ritirarono stanchi su Cremona (9 ottobre).

Il disastro di Brescia segnò l'inizio del decadere dell'influsso imperiale in Piemonte, nonostante tutta l'attività sviluppata dagli ufficiali di Manfredi II Lancia. Anche i Principi di Savoia accennarono ad allontanarsi da Federico II. L'attività imperiale in Piemonte aveva infatti una tendenza anti-sabauda. Il progetto di Federico II di siste-mare feudi e comuni nei quadri di una organizzazione centralizzata non era conforme agli interessi sabaudi: era più vantaggiosa per i piccoli feudi, per i piccoli comuni, per i vescovi che trovavano protezione nei vicari imperiali.

Nel campo di Brescia avvenne poi un vero raffreddamento perso-nale tra l'imperatore ed i due principi sabaudi intervenutivi, Ame-deo IV e Guglielmo; questi, come diremo, vide Federico II decidere una questione importante, quella del vescovato di Liegi, contro le sue aspirazioni.

Fu spesso attribuita al soggiorno sotto Brescia la concessione imperiale a favore di Amedeo IV di un diploma erigente il Chablais in ducato. Ma un diploma siffatto non esistette mai. Dopo avere raccolto l'eredità del fratello Aimone che si era chiamato solo « domi-nus Chablasii », il Conte di Savoia non si disse mai « dux Chablasii », come sarebbe successo se tale titolo avesse ottenuto con diploma imperiale. Ancora nel 1247 dando le franchigie al comune di Rivoli, Amedeo IV si diceva « Comes Sabaudie, in Italia marchio, de Cha-blasio insuper tenens ducatum ». Espressione vaga, indeterminata: da una parte Amedeo IV vi si affermava come erede dei diritti dei duchi di Zahringen, che anch'essi si erano detti duchi di un ducato che non esisteva, dall'altro si elevava a superiore, a sovrano, dei signori feudali del Chiablese, cioè dell'antico pago Caputlaci estendentesi attorno alla parte orientale del Lago di Ginevra, da Vevey su sino a parte della valle del Rodano. Solo in un documento privato del 1252 comparirà il titolo di duca; cioè Guglielmo conte di Ginevra scrivendo al nipote

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65S LA DOMINAZIONE DI FEDERICO II IN PIEMONTE

Amedeo IV userà questa espressione « Amedeo corniti Sabaudie et duci in Chablays et marchioni in Italia », espressione che voleva dire anch'essa che il Conte di Savoia, nel Chiablese, era il signore. Nel 1263, se fosse attendibile l'affermazione di Filiberto Pingone, Riccardo di Cornovaglia avrebbe conferito a Pietro II di Savoia, mediante i tre vessilli, il vicariato perpetuo dell'impero, il comitato di Savoia ed i ducati del Chiablese e di Aosta. Ma sicuramente anche questo diploma è un falso.

Gli avvenimenti dell'anno seguente 1239 determinarono meglio il distacco di Amedeo IV dal partito imperiale. Sentiva molto l'influsso dei fratelli Guglielmo e Pietro decisamente favorevoli al papa e rea-giva anche all'influsso dei due generi i marchesi di Saluzzo e di Monferrato che rimanevano fedelissimi all'imperatore. Quando nel marzo del 1239 Gregorio IX scomunicò Federico II, il Conte di Savoia chiese al papa se egli era ancora tenuto a conservar la .fedeltà all'im -peratore. Il papa gli rispose il 16 settembre dichiarandogli che, data la scomunica, l'obbedienza non poteva più essere conservata.

Frattanto il Conte di Savoia veniva anche a contrasto con Boni-facio II e con Manfredi III. Si trattava ancora della questione grave della successione: i due marchesi volevano riconosciuto per le proprie consorti il diritto di successione al conte Amedeo ancora sempre senza figli maschi. Sebbene i due principi marciassero d'accordo ed avessero le identiche aspirazioni, è da pensare che abilmente concor-dassero la parte che ciascuno doveva compiere. Infatti il 12 febbraio 1239 da Chivasso Bonifacio II si impegnava verso un ambasciatore venuto da Saluzzo a tenere fedeltà a quanto pronunciasse Manfredi III nella sua vertenza con 0 Conte di Savoia. Questi venne allora visitato ad Avigliana da Bonifacio II e da Manfredi III e cedendo alle loro sollecitazioni il 13 marzo 1239 rilasciò un documento che ài due pareva sufficiente: il Conte dava alle due figlie un aumento di dote; perciò accordava ai due marchesi tutta la terra sua che aveva in Lombardia dal Palo di Bonizone sulla vetta del Cenisio sino a Barge, stabilendo che a ciascuno toccasse « prò dimidia prò indiviso ». Quale significato dava Amedeo IV alla espressione « la terra sua? ». Com-prendeva le terre date in feudo al fratello Tommaso?

Però il Conte l'anno seguente, il 2 novembre 1240, stando a Susa, riconfermava il suo precedente testamento a favore del fratello Tommaso, usando la frase di donazione « inter vivos » irrevocabile nel caso ch'egli morisse senza figlio maschio e precisando che gli lasciava il comitato di Savoia ed il marchesato d'Italia, a condizione

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I FRATELLI DI SAVOIA A BRESCIA 659

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che pagasse tutti i debiti del padre Tommaso I e del fratello Umberto.La questione non terminò lì, quindi. I due marchesi volevano

impedire al suocero di sfuggire, agli impegni accettati, per mezzo dei testamenti a favore del fratello. Pare anzi che essendo venuta la contessa Margherita di Monferrato alla corte paterna, Amedeo IV le impedisse di ritornare al consorte. Nel 1241 nuovamente Amedeo IV dovette accettare la proposta insidiosa di compromettere le sue dif-ferenze con Bonifacio II di Monferrato, nel marchese Manfredi di Saluzzo, sebbene questi fosse « partialis nomine uxoris sue in dieta causa ». E Manfredi III il 19 marzo di quell'anno pronunciò, in Avigliana, la sua sentenza: tutti i vassalli e uomini che il Conte di Savoia aveva in Lombardia od altrove (vel alibi) dal Palo di Bonizone sino a Barge dovevano prestare atto di fedeltà al marchese di Monfer-rato ed a lui stesso, Manfredi, entro otto giorni, a titolo di aumento della dote delle loro consorti; il Conte doveva perciò ordinare ai suoi uomini e vassalli di prestare tale omaggio entro il limite fissato e specialmente doveva curare che la fedeltà la prestassero il castellano di Susa, il castellano di Avigliana, i signori di Piossasco. Inoltre Amedeo IV doveva restituire a Bonifacio II la consorte Margherita, facendola accompagnare od in terre del marchese od almeno in terre del conte d'Albon, cognato del marchese di Monferrato, pure entro otto giorni.

Il Conte di Savoia accettò la sentenza e promise di osservarne le prescrizioni. La soddisfazione dei due marchesi doveva però avere poca durata. Scomparsa verso il 1241 la consorte di Amedeo IV, Anna d'Albon, il Conte di Savoia si affrettò nel dicembre del 1243 a sposare Cecilia di Baux, da cui nacque nel 1244 il sospirato erede maschio, Bonifacio di Savoia. Le speranze di Bonifacio II e di Man-fredi di metter le mani sull'eredità sabauda furono deluse del tutto.

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CAPITOLO XXIV

PAPATO ED IMPERO

IN PIEMONTE

1. La situazione politica nell'Italia settentrionale dopo la sco-munica del 1239. - 2. Il vicariato imperiale di Piemonte. - 3. L'azione politica di Genova attraverso l'Appennino. - 4. La propaganda politica papale in Piemonte. - 5. Il prezzo del ritomo di Vercelli alla chiesa. - 6. Lotte tra guelfi e ghibellini a Vercelli. 7. La fondazione di Cherasco. - 8. La risurrezione di Biandrate. - 9. Novara ed i marchesi di Rotnagnano.

1. La situazione politica nell'Italia settentrionale dopo la scomunica del 1239

II disastro di Brescia non solo riempì di gioia i comuni ostili all'imperatore, ma fece ritornare la speranza nell'animo del vecchio Gregorio IX. Ora questi si decise ad affrontare la più aspra lotta per abbattere il fiero e tenace nemico.

La scomunica del 20 marzo 1239 riposava per verità su basi assai deboli: l'affermazione che Federico seguisse una politica nemica della chiesa, che rifiutasse di soddisfare alle insistenti proteste sol -levate dal suo contegno verso la chiesa e verso il clero, era per il papa un pretesto solo per mascherare l'intenzione sua di gettare tutto il peso della sua autorità e delle scomuniche sul piattello della bilancia, nella disperata lotta tra imperatore e comuni. Come Ales-sandro III, anche papa Gregorio IX non poteva correre il rischio di veder cadere la causa dei comuni; la chiesa romana si sarebbe trovata isolata, esposta ai più gravi pericoli.

Chiesa e comuni si allearono adunque decisi a combattere ed a vincere. Poiché nel settembre del 1238 i genovesi ruppero con Fede-rico II e glx rifiutarono quella dichiarazione di assoluta devozione che egli esigeva, il Legato pontificio abilmente trattò per una conciliazione

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LA SITUAZIONE POLITICA NELL'ITALIA SETTENTRIONALE... 661

di Genova e di Venezia ai danni dell'imperatore. Potè così Gre-gorio IX far firmare al Laterano, alla stessa sua presenza, il 30 no-vembre 1238, ai rappresentanti delle due potenti oligarchie marinare, un trattato di alleanza e di reciproco aiuto contro Federico II; poi lo stesso Gregorio IX nel luglio e nel settembre del 1239, offrendo loro la speranza di conquistare il regno di Sicilia, si alleò con vene-ziani e genovesi, mentre si univa pur con precisi patti a Milano ed a Piacenza con l'impegno reciproco di non conchiudere pace se non d'accordo. Ed intanto i francescani eccitavano le popolazioni contro l'imperatore che il papa additava nelle sue bolle feroci come la bestia dell'Anticristo; gli scritti violenti, polemici che Federico II opponeva a sua difesa non riuscivano ad arrivare alle popolazioni, a procurargli simpatie e partigiani.

Che anzi, li perdeva. Dovunque la causa imperiale era in re-gresso: Azzo VII di Este, Alberico da Romano, i signori di Camino abbandonarono nel 1239 Federico. La scomunica del 1239 lo aveva colpito mentre si trovava a Padova: preparava un attacco a Milano; i suoi seguaci erano irritati persino contro di lui, accusandolo di fiacchezza.

Guglielmo Figueira, che pure era ghibellino e fiero nemico di Roma papale, rimproverava l'imperatore di essere troppo fiacco e diceva nel principio del 1239:

Per fare un sirventese — Non ho bisogno che altri mi insegni, -— Che ben conosco l'arte ed il modo — Di dir e male e bene; — Tante ne ho viste ed apprese, — Di un ricco e potente vile — Che io non posso più tacer -mi! — E potrei io fare altrimenti? — Ho gran dispiacere — Di dover -cantare di lui.

— Ma l'ira mi forza e mi costringe — A farmi cantore — Del nostroimperatore — Che annulla ed estingue il pregio — E che, per quanto può,si sforza — Di rendersi disonorato. — Per ciò mi sembra — Che troppo alungo regni, — Infatti troppo le sue opere — Sono vergognose a volerle riferire.

— I più fini conoscitori — Biasimano il suo modo di fare — Ma io nonlo voglio biasimare — Bensì lo dico — Signore vile e querimonioso, — Cupidoed avaro — E tale che non ha punto — Vergogna o timore — Di nessunamalefatta — Che possa dire o fare.

— I nobili baroni d'oltremare — Lo hanno ben conosciuto — Quandosi studiò, la zizzania — Di seminar fra di loro; — Egli volle togliere — Alsignor di Beiruth — Ed agli altri i loro beni, — Ma non potette venirne acapo — Che Dio, per la grazia sua — Gli si mise contro.

— Ora fa appello che lo si aiuti — Da tutte le parti, — Perché passatoquesto marzo — Vuoi mostrare il suo scudo — A Milano; ma io non locredo — Che sia tanto audace — Da osare di trarsi avanti, — Sebben lo abbiapromesso, — Perché è vile e codardo — E debole nel guerreggiare.

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662 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE

— E pensa di sottomettere i Lombardi — Tutti ai suo comando; — Maperché va a caccia — Per boschi e per campi — Con cani e con leopardi? —E perché si conduce seco l'elefante? — È ben folle l'imperatore — E scioccoed imbelle — Se quel che va fantasticando — Crede di trarre a fine.

— Non trarrà, per San Giovanni — Quest'anno a capo — Ciò che pensao die millanta; — Così vi assicuro e vi manifesto. — Dunque, a che pensatanto? — Una cosa pensa ed un'altea cosa fa. — E chi pensa da sciocco — Siprocura il suo danno — E finisce male — Sebben potrebbe liberarsene.

— A Manfredi Lancia mando a dire — Perché egli conosce e sa — Qualche cosa delle faccende sue,

II trovatore era dunque pessimista. Ed in realtà il tentativo di assediare Milano nell'autunno del 1239 fallì. Il 16 settembre l'impe-ratore riunì le milizie tedesche, cremonesi, lodigiane, bergamasche, mantovane, pavesi, tortonesi, vercellesi, novaresi, astesi, torinesi, le genti del marchese di Monferrato, il marchese Malaspina, genti venute dalla Toscana, dalle Marche, dalle Puglie, e si avariò a Lodi e poi nel territorio di Milano.

Vedendo che era impossibile attaccar Milano con speranza di successo, nell'ottobre Federico rivolse le truppe a distruggere il ponte che i piacentini avevano costruito sul Po per comunicare facilmente con i milanesi. Le forze imperiali attaccarono da ambo le parti le fortificazioni del ponte, ma non riuscirono né a conquistarlo né a danneggiare il ponte. Federico si ritirò a Lodi, poi a Crernona, e quindi si recò a svernare a Pisa. Le condizioni d'animo dell'imperatore non potevano essere troppo liete.

L'azione del Legato pontificio durante il 1239 aveva intaccato gravemente le posizioni di Federico II nell'Italia superiore, minaccian-dolo nelle sue relazioni con i paesi germanici e con il mare ad un tempo. I tentativi dell'imperatore di rompere il cerchio di inimicizie creategli da Gregorio di Montelargo non riuscirono: inutili furono gli sforzi per ricuperare Treviso, Bologna, Ravenna. Il Legato ponti-ficio aveva inalberato la bandiera papale con la croce e le somme chiavi: bando di crociata contro l'antico imperatore.

Il 1240 fu un anno di violenta lotta. L'imperatore discese nel ducato di Spoleto e poi nel Patrimonio sì da occupare attorno a Roma posizioni avanzate come Orte, Viterbo, ma nel nord la lotta era alterna, Federico riuscì ad avere Alessandria, invece Ferrara e Faenza passarono ai guelfi ed ogni sforzo per riprendere quest'ultima città pareva vano. Ora Guglielmo Figueira, ridiventato partigiano del-l'imperatore, forse per motivi personali (or mi è mestieri di pormi al suo servigio, perché niuno ricompensa più largamente di lui...)

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IL VICARIATO IMPERIALE DI PIEMONTE 663

lo esaltava in un nuovo sirventese, mentre invece Ugo di San Gire incoraggiava con un sirventese i difensori di Faenza, augurando una spedizione francese o leghista nelle Puglie per colpire a morte la potenza di Federico II.

Nell'agosto del 1240 il papa convocò un concilio generale per la Pasqua dell'anno seguente. L'imperatore rispose rifiutando la tregua chiesta da Gregorio IX per la durata del concilio e vietando a tutti quelli che volessero recarvisi, di attraversare i suoi stati. E poiché la flotta genovese si incaricò di trasportare ad Ostia i prelati francesi e spagnoli che erano fermi a Genova, la flotta imperiale, costituita da navi siciliane, pisane e savonesi, assalì quella genovese tra le isole Giglio e Montecristo e si impadronì del maggior numero delle galee onuste di pellegrini. Buona preda: vi erano tre cardinali legati, gli ambasciatori di Milano, di Brescia, di Piacenza, di Genova, l'arcive-scovo di Milano, alcuni prelati francesi.

Ed intanto i milanesi venivano battuti presso Pavia, la Romagna veniva tutta occupata, Faenza si arrendeva (14 aprile); gli imperiali arrivavano a Terni, a Tivoli e minacciavano Roma.

Il 22 agosto 1241, mentre Federico II era sotto le mura della Città Eterna, il vecchio Gregorio IX cedette più al dolore della sconfitta che al peso della vecchiaia. Avrebbe dunque questa volta l'imperatore strappato la vittoria tanto bramata?

2. Il Vicariato imperiale di Piemonte

Alla testa del vicariato imperiale di Piemonte nel 1239-1240 vi era ancora il marchese Manfredi II Lancia. Quale era il programma di questa organizzazione militare imperiale? Feudatari e comuni dovevano essere rigidamente contenuti nelle maglie della organizzazione, se si deve conchiudere in base ad ordini e disposizioni del vicario imperiale di cui abbiamo notizia. Al podestà di Vercellì diede ordine di cassare la disposizione statutaria presa dal suo prede-cessore, il podestà milanese, Ottone di Mandello, contro gli uomini di Tricerro, poi gli impose di togliere il monopolio del sale da lui stabilito.

In altri casi, pare che il marchese Manfredi Lancia svolgesse una politica di favore per i piccoli comuni. Così da Acqui concedette al comune di Chieri un nuovo privilegio, che chiunque volesse, potesse trasferirsi ad abitare in quella città, purché non fossero, vii-

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664 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE

latti, angarii ascripticìi vel cerniti cioè servi della gleba; ordinava pure che i chierici non venissero sottoposti a nuovi pedaggi, che il comune potesse obbligare a pagare il fodro quanti vi erano tenuti (18 feb -braio 1239).

A Torino, l'autorità imperiale pare cercasse di nuovo di concentrare gli elementi feudali della zona attorno al comune. Il vescovo era

fedelissimo all'imperatore: sebbene Federico II fosse scomunicato, nel 1239 e nel 1240 il vescovo di Torino stette a lungo alla corte

imperiale. Il comune era governato dal capitano imperiale. Nel giugno dei 1239 l'importante consortile dei signori di Piossasco, alla preserva del capitano imperiale Gionata di Luco, venne ad accordi definitivi con il comune torinese: a questo cedette la proprietà del castello e del luogo di Beinasco, riprendendolo però in feudo: promettevano come vassalli di fare pace e guerra per il comune, di non ricevere in

cittadini né uomini di Torino, né di Collegno, né di Grugliasco, né di altre terre della giurisdizione torinese; così il comune di Torino non doveva ricevere in abitanti nessuno di Beinasco. Inoltre i signori di Piossasco non dovevano in Torino parteggiare per nessuno dei partiti del comune; non dovevano accogliere nei loro domini alcun bandito

del comune; dovevano invece tenere e custodire la grande strada di Torino, cioè la strada romea di Val Dora, vietando che i mercanti tenuti a transitarvi ed a pagare pedaggio in Torino se ne liberassero passando per le loro terre. Naturalmente nel trattato vi era l'impegno

di salvare la fedeltà all'imperatore.Anche la nuova terra di Moncalieri ricevette le grazie imperiali.

Poiché nelle città fedeli all'autorità i redditi andavano alla Camera imperiale, ad istanza di quel comune Federico II gli concedette la metà dei proventi ricavati o da ricavare nel 1238, per pagare i debiti della collettività. La concessione rimase senza effetto ed allora i monca-lieresi ricorsero di nuovo a Federico II. Questi nel febbraio del 1239 da Padova scrisse al marchese Manfredi II Lancia ordinandogli di costringere quei di Moncalieri a pagare la metà dei proventi del 1239, componendo invece con soddisfazione loro per i proventi del 1238. Ed il vicario imperiale trasmise l'ordine imperiale con l'avvertimento che doveva essere eseguito scrupolosamente. Gionata di Luco nel 1239-1240 era ad un tempo capitano imperiale così a Torino come a Moncalieri.

Capitani imperiali sono ricordati in questi anni per varie città del Piemonte. Così a Casale vi era nel 1240 come capitano e podestà Bonifacio di San Nazario. Ad Ivrea dal 1238 si seguono nella capita-

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IL VICARIATO IMPERIALE DI PIEMONTE 665

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neria del comune, Rinaldo Vasco, poi Guglielmo Sivoletti, poi Simone di Maguelonne; il vescovo pretendeva ch'essi lo aiutassero nel suo programma di imporsi al comune e quindi i rapporti divennero al-quanto difficili.

A Vercelli dal 1238 si susseguirono dei podestà imperiali. Come fossero i rapporti con il vescovo non sappiamo, ma certo è difficile che il papa ed il vescovo di Novara abbiano, dopo il passaggio del comune al partito imperiale, acconsentito ad assolvere i vercellesi dalle scomuniche e dagli interdetti. Certo, l'autorità imperiale rimase salda. Nel maggio del 1239 in tutti i centri della giurisdizione episco-pale, a Santhià, a Biella, e dovunque, Manfredi Lancia fece raccogliere gli uomini per una sua spedizione contro Alessandria. Verso il 1240 II comune di Vercelli sotto l'impulso del vicario imperiale stabilì che per i debiti dei cittadini e sudditi verso cittadini dei comuni leghisti, si seguissero le norme stabilite da Federico II, che cioè si pagassero agli ufficiali imperiali e che non si ammettesse nessun reclamo ulteriore da parte dei veri creditori.

Ed in quello stesso anno, il podestà imperiale Giliolo Guiberto, adunata la credenza, concedeva al vicario imperiale Manfredi Lancia una casa in città, con la condizione che fosse immune da ogni tributo: il marchese Lancia ebbe così riconosciuto il diritto di cittadinanza.

Era però ovvio che l'attenzione di Manfredi Lancia si rivolgesse con maggiore interesse alle regioni a sud del Tanaro, alle regioni dove i suoi avi avevano dominato. Le sue origini ed i suoi interessi lo portavano ad affiatarsi con le vere dinastie aleramiche, e specialmente con Bonifacio II di Monferrato. Questi appunto nel 1239 fu assicu-rato da Federico II alla sua causa con importanti concessioni: il di-ploma del 31 agosto 1239 da Pizsighettone gli riconfermava tutti i feudi imperiali ed in più i diritti che l'imperatore aveva per il testa-mento, a suo favore, di Demetrio re di Salonicco e per l'eredità della consorte Ioianda di Brienne, la cui madre era stata appunto Maria di Monferrato, figlia di Corrado re di Gerusalemme.

II comune che maggiormente attirava le aire sospettose di Manfredi Lancia era il nemico della sua famiglia, Asti. Ma come fare, se gli astigiani si comportavano come fedelissimi all'imperatore?

Nel 1239 era podestà di Asti un certo signor Sturbarboto che non è detto però podestà imperiale, e così non è sicuro se i suoi successori Enrico Granono e Guido Marazzi di San Nazzaro fossero di nomina imperiale.

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666 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE

Ad Alba invece è detto podestà imperiale quelTUgolino de' Rossi che governava nel 1241. Anche ad Acqui nel 1240 vi era come capitano imperiale Opizzone di Revello a cui Manfredi Lancia scriveva a favore di un cittadino acquese, dal comune privato di certi diritti. NeE'estremo angolo sud-ovest del Piemonte continuavano intanto le lotte tra feudatari e comuni. Così nel febbraio del 1240 il comune di Cuneo strinse lega con il comunello di Dronero: la lega era apertamente diretta contro il marchese di Saluzzo.

Infatti gli uomini di Dronero assumevano questi obblighi: dove-vano difendere secondo le loro forze il comune di Cuneo, contro chiunque ed in ogni luogo, far per esso esercito e cavalcata a proprie spese, dar ricetto agli uomini di Cuneo, scegliere tra i cuneesi i propri podestà od altri rettori, esonerarli da ogni pedaggio; combattere contro il territorio, le ville ed i castelli del marchese di Saluzzo, come avrebbero fatto i cuneesi, non deponendo, senza il loro consenso, le armi, e dividendo il bottino ugualmente che gli alleati « miles prò milite, pedes prò pedi te »; solo una riserva facevano quei di Dronero, di non essere obbligati ad assalire le terre dei marchesi di Busca, Enrico ed Oddone (figli di Guglielmo II, e cugini dei Lancia) né quelle dei signori di Montemale e di Arpiasco.A loro volta i cuneesi assumevano gli stessi obblighi ed in più dichiaravano che se gli uomini di Villamairana non avessero voluto sottomettersi ai droneresi, essi li avrebbero costretti con la forza. I cuneesi però si riservano i loro impegni che già abbiamo trovati negli anni precedenti con i comuni di Savigliano e di Monteregale. Ed infatti, già nel marzo dello stesso anno, Cuneo, Monteregale, Alba, Fossano, Bene, Savigliano, stipularono una alleanza di guerra: nessuno dei comuni collegati poteva far guerra ad alcuno senza il consenso degli alleati; per le guerre da sostenere, Alba avrebbe dato un terzo delle milizie ed avrebbe avuto un terzo del lucro; gli altri comuni avrebbero partecipato per gli altri due terzi, da dividere tra di essi. Il trattato contiene ancora alcune clausole interessanti: i vari comuni contraenti non avrebbero potuto accettare come cittadino alcun marchese o castellano; i due luoghi di Genola e di Levaldigi, che erano contesi da Savigliano e da Fossano, dovevano spettare a Savigliano e nessun comune poteva riceverne gli uomini come proprii abitanti; però avevano il diritto, collettivamente, di decidere del possesso dei due luoghi, indipendentemente dalla volontà dì Fossano e di Savigliano. I patti vennero giurati, con riserva per i precetti dell'imperatore e del vicario imperiale.

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IL VICARIATO IMPERIALE DI PIEMONTE 667

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Non diremo che nelle clausole sucitate si riveli un carattere de-mocratico, una tendenza antiaristocratica dei comuni: il divieto di accettare i marchesi e castellani in cittadini era un semplice atto prudenziale per vietarsi reciprocamente la possibilità di appoggiarsi e di sfruttare le forze dei marchesi di Saluzzo, o di Ceva o di Busca-La lega del 1240 era infatti come antisaluzzese cosi antiastigiana. Certo questo carattere non potevasi enunciare apertamente, essendo così il marchese Manfredi III come gli astigiani di parte imperiale, ma il trovare Alba a capo della coalizione è prova sufficiente di tale orientamento della lega.

È molto probabile che tale lega si formasse con l'approvazione e con l'appoggio del vicario imperiale. Manfredi Lancia, qualche prova di ostilità ad Asti, la diede presto: nel gennaio del 1240 concedette, ad esempio, Blonee, terra dell'antico avito comitato di Loreto, ad un suo fidato alessandrino, Giacomo Lanzavecchia. Tale atto forse poteva essere considerato come una palmare violazione dei diritti di proprietà che il comune di Asti aveva sul comitato di Loreto per l'acquisto fattone trenta anni prima dal vecchio marchese Manfredo I Lancia. La politica di riconquista imperiale poteva fino ad un certo punto coincidere con la politica di riconquista famigliare. Quel Lanzavecchia probabilmente faceva parte di quella fazione ghibellina che Manfredi Lancia accudiva in Alessandria per averla in appoggio nella rioccu-pazione della città.

Ed infatti, nel maggio del 1240, riunite le milizie dei comuni fedeli, il vicario imperiale le condusse contro Alessandria. L'11 maggio i pavesi avevano inflitto presso Campomorto sull'Olona una grave sconfitta ai milanesi guidati da Gregorio di Montelongo ed ora gli alessandrini dovettero disperare e pensare che non avrebbero più potuto avere soccorsi. Appena il vicario imperiale giunse a Bassignana, gli alessandrini si decisero alla conversione. Il comune passò dai guelfi ai ghibellini, cosa molto facile, poiché in tutti questi comuni la politica era opera di piccole minoranze aristocratiche. I nuovi dirigenti dichia-rarono di sottomettersi, consegnarono Montecastello e proclamarono il marchese Lancia podestà cittadino. Il vicario imperiale Manfredi Lancia andò allora a stabilirsi in Alessandria, facendone centro della sua attività.

La defezione di Alessandria irritò vivamente la parte guelfa e specialmente Genova che rimaneva scoperta dal nord, anzi bloccata dal nuovo gruppo imperiale Asti, Alessandria, Monferrato, Tortona. Federico II fu invece pieno di gioia: ringraziò i comuni che avevano

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partecipato all'impresa così felicemente risoltasi; annunzio solenne-mente a tutti i sudditi la sottomissione di Alessandria avvenuta per opera del fedele marchese Lancia, manifestò la sua gratitudine verso gli alessandrini, perdonando loro le ingiurie, ricevendoli sotto la sua protezione, confermando tutte le concessioni e promesse del suo vi -cario (luglio 1240).

Manfredi Lancia ad Alessandria faceva costruire un convento per i Domenicani per dimostrar loro la sua simpatia e scriveva al Provinciale di Lombardia perché presto ne prendesse possesso e vi mandasse dei frati.

Il trionfo di Alessandria aveva tosto delle ripercussioni in altri settori pieni di interesse per Manfredi Lancia: così nel 1240 appunto

riuscì a ricuperare il castello di Bene che il padre suo aveva ceduto al vescovo d'Asti. Questo suo successo personale e famigliare dipendeva

in parte anche dalla insurrezione avvenuta a Monteregale contro il vescovo d'Asti — il signore feudale del comune — appunto tra il

1239 ed il 1240. Infatti gli impegni presi nel 1233 per ottenere che il vescovo riconoscesse l'esistenza del comune, erano stati presto

violati dagli uomini di Mondovì; il vescovo fu spogliato di tutti i diritti che prima gli avevano riconosciuto: avevano ora vietato a lui ed

ai vassalli del suo seguito di prendere dimora nelle case di Monte-regale, gli avevano tolto i castelli e le ville di Roburent, di Torre. A capo di questa attività antivescovile era Bressano, quegli stesso che

nel 1233 aveva contribuito a conciliare vescovo e monregalesi. L'agitazione da Mondovì si diffuse tutt'attorno: Sant'Albano e Piozzo furono occupati dai monregalesi; Bene fu occupato dal marchese

Manfredi Lancia.A tale sistematica spogliazione il vescovo d'Asti rispose scomu-

nicando Bressano ed i suoi consiglieri, sottoponendo ad interdetto tutti i luoghi ribelli.

Appoggiati dalle autorità imperiali, i comuni cercavano di sgre-tolare la potenza dei vescovi quanto più era possibile.

Così ad Alba, gli uomini del comune trovarono la possibilità di liquidare quella partita con il loro vescovo che era fallita quarant'anni prima, ai tempi di Innocenzo III. Il 25 ottobre del 1240 il marchese Manfredi Lancia era ad Alba appunto e solennemente investiva quei podestà Sarlo di Drua del comitato e della giurisdizione dei luoghi di Diano, Roddi, Rodello, Verduno, che formavano il vecchio patri-monio della chiesa albese. Di opposizione episcopale non sì parla; Manfredi Lancia compie l'atto stando appunto nel castello del vescovo,

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per il quale solo si inserisce nell'atto una vaga riserva: « salvi i diritti del vescovo d'Alba ». L'investitura concessa ora dal vicario imperiale al comune comportava il diritto di imporre nelle terre ex-vescovili esercito, cavalcata, fodro, banni, le contribuzioni necessarie per pagare le spese che il comune doveva fare in servizio dell'imperatore.

A Mondovì, quasi non si parla del vescovo nel lodo arbitrale che nell'agosto del 1240 il famoso Bressano, il figlio suo Anselmo e due altri prescelti, diedero nelle vertenze tra i signori di Morozzo ed i comuni di Cuneo e di Monteregale. Le decisioni arbitrali corri-spondono nello spirito al lodo del podestà di Asti del 1234 tra i nuovi comuni ed i marchesi e castellani: i nuovi comuni infatti non potevano non inchinarsi alla trama di diritti e di interessi economici su cui riposava tutta la vita dell'epoca: i legami che dominavano erano quelli feudali di vassalli a signori, di uomini rustici a proprietari.

Così i signori di Morozzo dovevano conservare decime, debiti, fitti, successioni loro dovuti dagli uomini rustici, così come l'abate di San Dalmazzo ed altri feudatari abitanti in Cuneo li avevano dai loro uomini abitanti in Cuneo e come altri signori ed il vescovo d'Asti dagli abitanti di Mondovì; avrebbero conservato il diritto d'alpatico per le loro montagne come l'avevano avuto sino alla venuta di Fede-rico II in Piemonte, ma non dovevano imporlo agli abitanti di Cuneo e di Mondovì; avrebbero avuto dai loro uomini parte dei banni e delle date come l'avevano l'abate di San Dalmazzo e gli altri signori abitanti al Monteregale sui loro uomini; non avrebbero pagato fodro, presto, colletta né a Cuneo né al Monte.

Seguono nel lodo altre decisioni importanti: gli uomini che erano ancora nei castelli di Morozzo al momento del compromesso tra i signori ed i comuni contrastanti non avrebbero potuto essere costretti ad abitare né in Cuneo né in Mondovì e neppure avrebbero potuto abitare nel Villar vecchio fuori dei castelli di Morozzo; dovevano invece pagare fodro e banni e missioni e fare esercito e cavalcata e rendere ragione e soddisfare a tutte le altre condizioni come gli uomini di Santa Margarita e di Rocca de' Baldi. I signori di Morozzo non dovevano riaccogliere come abitatori nei loro castelli di Morozzo quelli che se ne fossero partiti per diventare abitatori di Cuneo e del Monte. Questi due comuni avrebbero dato ai signori di Morozzo « prò honore » cioè per il servizio feudale che avevano reso loro, 40 lire genovesi ciascuno; i signori a loro volta avrebbero dovuto fare esercito e cavalcata, pace e guerra, ridotto e milizia per i due comuni così come gli altri abitatori; in ciascuna città avrebbero dovuto

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tenere una casa in cui venissero poi a trascorrere le feste del Natale, della Pasqua, della Pentecoste. Se poi alcuno dei signori avesse voluto portarsi ad abitare con la famiglia in uno o nell'altro dei due comuni avrebbe dovuto essere provvisto dal comune stesso di una casa conveniente.

Il lodo del signor Bressano mostra adunque i legami vari, stret-tissimi che vi erano tra feudo e comune, gli addentellati dell'una vita con l'altra. I feudatari difendevano a stento la loro indipendenza dai comuni pieni di vita e di brame, come questi rientravano pur sempre nei quadri della vita economica feudale.

Sulla fine del 1240 o nel principio del 1241 il marchese Manfredi Lancia lasciò l'ufficio di vicario imperiale « a Papia superius » per assumere quello analogo « a Papia inferius » cioè il vicariato di Lombardia e di Emilia dove Federico II aveva bisogno di un uomo abile, capace di fronteggiare la grave situazione formatavisi.

Nel Piemonte invece tutti erano ghibellini: Pavia, Alessandria, Tortona, Asti, Alba, Cuneo, Mondovì, Savigliano, Vercelli, Novara, Ivrea, Torino, Chieri; le varie dinastie marchionali pure erano devote. Solo la dinastia sabauda si presentava ambigua.

A Manfredo Lancia successe nel vicariato di Piemonte Marino da Eboli. Però nell'estate del 1241 Manfredi Lancia, lasciato il vica-riato di Emilia per la venuta di re Enzo in qualità di Legato generale, ritornò in Piemonte come collaboratore e consigliere, pare, del gio-vane re.

3. L'azione politica di Genova attraverso l'Appennino

Attraverso a vive lotte interne, si era andato determinando in Genova il prevalere delle tendenze anti-imperiali guelfe. Gli inte -ressi commerciali in Sicilia e nel Levante latino passarono del tutto in secondo piano. La pretesa di Federico II di costringere in una certa dipendenza la potente oligarchia marinara genovese apparve più ostica alla luce della politica che l'imperatore seguiva nelle due Riviere, diretta a favorire i savonesi, gli albengani e tutti i gruppi desiderosi di una autonomia locale, ed a favorire pure le pretese feudali delle varie dinastie marchionali aleramiche ed obertenghe.

Di qui la necessità per Genova di abbandonare l'imperatore e di passare anzi alla più decisa e rude opposizione, perché il piano combinato tra genovesi e veneziani di spartirsi come feudi pontina i

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L'AZIONE POLITICA DI GENOVA ATTRAVERSO L'APPENNINO 6 7 1

porti delia Sicilia e dell'Italia meridionale poteva solo attuarsi con la rovina completa di Federico IL

In Genova però non tutti diventarono guelfi: un gruppo di importanti famiglie rimase fedele a Federico II e nel 1239 uscirono di città occupando castelli vari suU'Appennino. Formavano la fazione detta dei Mascarati: ne facevano parte i Doria, gli Spinola, i De Mari. Rampini si dicevano i partigiani della chiesa.

Durante il 1239 si ebbe un tentativo offensivo dei fedeli del-l'impero su Genova. Un esercito formato di savonesi e di albengani, di acquesi e di albesi, chiamati a raccolta dai marchesi aleramici, si avanzò su Varazze: vennero però presto fermati e respinti dal com-parire di cavalleria genovese, evidentemente formata da squadre mercenarie o provviste da sudditi feudali.

A sua volta il comune di Genova si adoprò per ricuperare punti importanti sulla Riviera: Albisola, Cervo, Diano, Oneglia vennero rioccupati; si combattè, per il possesso di Porto Maurizio, a Capo Sant'Ampelio contro i ventimigliesi nemici di Genova. L'azione del comune in senso guelfo veniva ostacolata dal persistere delle tendenze ghibelline. Il gruppo dei fuorusciti sentendosi debole non esitò a ricorrere per aiuto ai tortonesi ed ai pavesi invitandoli ad accorrere in loro aiuto a Genova. Nulla per ora ottennero: i guelfi invece imprecavano ai « perfidi » alessandrini che avevano rinnegato la rive-renza per la chiesa romana, accogliendo il vicario imperiale, e ne trassero motivo per stipulare un'alleanza con Milano e con Piacenza, aderendo quindi alla Lega Lombarda.

Nel 1240 i genovesi riuscirono a sottomettere del tutto la Riviera di Ponente, fatta eccezione di Savona e di Albenga. Nel novembre arrivò a soccorrere gli imperiali, a mal partito, il marchese Lancia con molte forze raccolte nei comuni piemontesi e prese ad assediare il castello di Pietra che il vescovo d'Albenga suo proprietario aveva messo nelle mani dei genovesi. Anche Giacomo marchese di Carretto venne con i suoi vassalli e rustici da Finale in soccorso del vicario, sollevando le proteste dei genovesi che lo accusarono di violare gli obblighi contratti con il loro comune.

Arrivarono allora delle milizie piacentine e milanesi in soccorso di Genova: il campo leghista fu messo a Varazze e la lotta si concentrò attorno a Savona. Anche gli imperiali fecero arrivare da Alessandria dei rinforzi quando nel gennaio del 1241 riarse la lotta; così pure i genovesi vennero minacciati sulla Riviera di levante da parte del capitano imperiale della Lunigiana, il marchese Oberto Palla-vicino.

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672 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE

Ma Federico II continuava a sperare in una rivoluzione interna in Genova che sbalzasse i guelfi dal potere: nel marzo del 1241, mentre era all'assedio di Faenza, l'imperatore scriveva a due capi dei fuoru-sciti, Federico Grillo e Giovanni Striggiaporco, accampatisi a Vol-taggio, perché si adoperassero a tale scopo.

Delle nuove operazioni militari di Riviera, direttamente miranti a Genova, fu incaricato il nuovo vicario imperiale di Piemonte, Marino da Eboli, che nel luglio si avviò ai Giovi con tutte le milizie comu-nali e feudali piemontesi; Alessandria, Tortona, Vercelli, Novara, Asti, Alba, Acqui, Cassine, con quelle dei marchesi aleramici e quelle pavesi.

Dopo avere preso d'assalto il castello di Gavi, Marino da Eboli scese in Polcevera, arrivò sino al mare e costrusse una bastia a Capo di Faro proprio sotto Genova. Intanto Oberto Pallavicino risaliva di nuovo dalla Lunigiana. La flotta imperiale che aveva distrutto all'isola Giglio quella genovese comparve nell'agosto davanti al porto di Genova. L'ammiraglio di Federico II era un genovese fuoruscito Ansaldo de Mari, successo a sua volta nell'ufficio ad un altro genovese Nicolino Spinola: Ansaldo doveva riprendere i legami con i simpatiz-zanti ghibellini dell'interno di Genova per far ritornare la repubblica aU'obbedienza verso Federico IL

Frattanto le navi imperiali facevano scorrerie lungo la costa ecollaboravano con Savona, con Finale e con Albenga per impadronirsidi Noli. Fu un bratto momento per Genova quando parve assediatada tutte le parti: sul mare la flotta siciliana e pisana, sulla Riviera dilevante il Pallavicino ed i Malaspina con grande quantità di gentedi Lunigiana e di Toscana, decisi, così dicevano, a portarsi sul Bisagno,in Val di Polcevera e sulla marina, le milizie comunali di Piemonteed i Mascarati genovesi sotto il vicario imperiale. :

Ma la stretta minacciata svanì: il Pallavicino giunto a Monte-rosso, ripiegò a Vernazza di fronte alla resistenza; Marino da Eboli indietreggiò con le sue genti a Savona e si consolò dello scacco assediando il castello di Segni.

Nel 1242 si riprese a combattere: tutti gli sforzi del Piemonte imperiale di nuovo si rivolsero a Genova. Un capo dei fuorusciti, Guglielmo Spinola, accampato sull'Appennino in Val di Scrivia, aveva sollecitato Federico II per una nuova spedizione su Genova, ma prima che gli imperiali arrivassero, furono pronti i genovesi sotto il loro podestà; rioccuparono Busalla, Savignone, Ronco e costrinsero gli Spi-nola a ritirarsi su Tortona.

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LA PROPAGANDA POLITICA PAPALE IN PIEMONTE 673

Guerra adunque, ma intanto si trattava. I genovesi erano inquieti di questi continui attacchi del Piemonte alle due Riviere e pensarono di sfruttare un certo senso di stanchezza del marchese di Monferrato e degli altri dinasti aleramici per gli sforzi di uomini e di denaro che loro causava il servizio imperiale. Offrirono quindi loro del denaro ed ottennero che Bonifacio II, Manfredi marchese di Carretto, Giorgio e Manuele marchesi di Ceva accettassero di passare al partito leghista. Quanto diedero i genovesi? Il loro cronista ufficiale dice « non modica quantitas » di denaro; il cronista piacentino precisa: 30.000 lire imperiali.

Nel gennaio del 1243 i marchesi, così comperati, acconsentirono a venire in Genova a giurare la nuova alleanza nelle mani di un rappresentante del legato pontificio, Gregorio di Montelongo, che era stato incaricato da Gregorio IX di organizzare contro Federico II la lotta nell'Italia superiore.

Il podestà di Genova con gran corteo si recò ad incontrare i marchesi a Stella sopra Savona e poi nel maggior consiglio del comune si compì la cerimonia del giuramento con la massima solennità: i marchesi « letanter et cum reverentia se dederunt », perché forse la parola d'ordine dovette essere che tutti credessero alla spontaneità della decisione.

Bonifacio II ora si atteggiò a purissimo difensore della chiesa. Compunto all'eccesso si mostra in una lettera scritta nei primi mesi del 1243 al legato pontificio Gregorio di Montelongo: « saniorem partem elegimus et ad matrem sanctamque Ecclesiam recurrimus humi-liter... », Imprecava ai « filii Belial » cioè re Enzo ed il marchese Lancia; si diceva disposto a lavorare perché i suoi amici di Parma preparassero la rivolta della città all'impero. Ma il rappresentante pa-pale accoglieva come sincere tali professioni?

4. La propaganda politica papale in Piemonte

II passaggio delle tre dinastie aleramiche alla parte guelfa indebolì gravemente il prestigio imperiale in Piemonte ed anche la potenza di cui i vicari imperiali disponevano nella regione.

Quasi contemporaneamente l'influsso guelfo riconquistava Ver-celli e silenziosamente ne operava il distacco dall'impero.

Che l'impero vincesse o che vincesse la chiesa, era in realtà per i vercellesi cosa di secondaria importanza: per essi la cosa precipua

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era la soluzione della loro questione con il vescovo, era l'incamera -mento dei beni e dei diritti feudali del vescovado. Vi si pensava costantemente, a Vercellì. Fino a che la potenza imperiale era forte, si poteva pensare a raggiungere lo scopo con l'appoggio di Federico II : ancora nel 1242 si inserì negli Statuti comunali l'obbligo per i futuri podestà di riunire all'inizio del loro reggimento la credenza per esa-minare il problema « de habenda iurisdictione ab imperatore, vel alio modo ». Si voleva sostituire tra Sesia e Dora, tra le Alpi ed il Po qualsiasi altra giurisdizione.

In Vercelli si era andato formando un po' di malcontento contro gli imperiali: i guelfi erano rappresentati dal consortile degli Avogadro e protestavano contro le prepotenze dei ghibellini capitanati da Pietro Bicchieri, il nipote precisamente del cardinale Guala Bicchieri. Si era malcontenti perché con il diploma del 1239 Federico II aveva con-cesso al marchese Bonifacio II il ponte di Cuniolo ledendo gli interessi vercellesi e perché l'abate di Sant'Andrea grande patrono della chiesa alienava le tetre dell'abazia senza nessun riguardo al carattere dei beni e del resto si diceva che Pietro Bicchieri si era arricchito « con i beni ecclesiastici ».

Lungo il 1242 si pensò in Vercelli che fosse più facile raggiun-gere lo scopo con l'appoggio della Lega Lombarda e della curia ro-mana. La sede vescovile era vacante, perché Giacomo di Carnario, ritiratosi a Santhià in segno di protesta contro la politica di annessione che il comune seguiva, vi era morto nel febbraio del 1241 e nessuno aveva potuto essergli sostituito. Non era quindi giunto il momento di contrattare con i guelfi della Lega e della curia chiedendo il sacri-ficio del vescovato in compenso dell'abbandono dell'impero? Al più, si poteva, raggiunto l'intento, ritornare dopo qualche tempo e con pru -denza alla parte imperiale per farsi confermare dall'impero la conces-sione papale. Politica finissima, da colorire con abilità.

All'inizio del 1243 la trama era in corso già da tempo. Scaduto il podestà imperiale, non si elesse più altro podestà per non dovere ricorrere al vicario. Il governo del comune fu assunto dai consoli delle due società cittadine di Sant'Eusebio e di Santo Stefano: due di essi, Ruffino Avogadro ed Ardizzone di Biandrate, furono poi dichiarati podestà. Ed ora furono presi diversi provvedimenti un po' misteriosi: i consoli delle due società ebbero l'incarico di provvedere alla difesa della città con pieni poteri; i podestà avrebbero dovuto provvedere alle spese dichiarate necessarie dai consoli e sarebbero stati protetti contro qualsiasi banno, multa, pena imposta dall'imperatore; i consoli

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LA PROPAGANDA POLITICA PAPALE IN PIEMONTE 675

attuali delle società avrebbero conservato i poteri ora loro dati, anche quando fossero scaduti ed avessero dovuto essere sostituiti, con il diritto anche di circolare armati in città e fuori, provvedendo sempre alla difesa delle mura, delle torri, conservando piena autorità su rutti i dipendenti. Erano adunque le due società cittadine il centro della azione ed antivescovile ed anti-imperiale.

Durante il gennaio ed il febbraio si svolsero le trattative segrete tra il comune di Vercelli ed il Legato pontificio, Gregorio di Monte-longo che aveva la sua sede ancora sempre a Milano. Ad esse partecipò attivamente il marchese di Monferrato che si recò appositamente a Milano per discutere con il Legato sebbene i genovesi lo attendessero per la lotta contro Savona.

Ai primi di marzo comparve in Vercelli un delegato di Gregorio di Montelongo, per affrettare le trattative: era accompagnato da ambasciatori milanesi. Nelle riunioni della credenza vercellese di quei giorni vennero formulate le richieste del comune: provvedesse il Legato a che il capitolo rappresentante, in assenza del vescovo, della chiesa cedesse al comune la giurisdizione episcopale su tutto il terri-torio, che la cessione fosse approvata dall'arcivescovo di Milano, dal vescovo di Vercelli che ora venisse eletto, dai cardinali della curia romana e dal futuro papa; questi avrebbe anche dovuto con solenne bolla approvare i capitoli statutari fatti dal comune per vietare ai cittadini di ricorrere alla curia.

Altri punti delle richieste avevano carattere strettamente poli-tico: se papa e Milano avessero fatto pace con l'imperatore, il comune di Vercelli avrebbe dovuto essere incluso nel trattato così come gli altri comuni lombardi; i vercellesi avrebbero dovuto riconoscere di nuovo i debiti verso cittadini di comuni leghisti, con un trattamento speciale però per le somme che erano state introitate dagli ufficiali imperiali. Clausole speciali riguardavano i prigionieri; iniziata la guerra da parte dei vercellesi, i milanesi avrebbero messo a disposizione loro 500 cavalieri ed avrebbero poi dovuto intervenire a difesa del terri-torio vercellese con fanti e cavalli.

E, misura di somma prudenza, si chiedeva che il Legato ponti-ficio venisse a Vercelli solo se e quando le trattative fossero a tal punto che non vi fosse più altro a fare se non stringere l'accordo.

Sarebbe difficile dire se il desiderio di fare l'accordo fosse di più nei vercellesi od in Gregorio di Montelongo. Il 15 marzo questi si trovava ad Angera ad esaminare, insieme con il marchese di Monfer-rato, il conte di Biandrate ed il podestà di Milano, le richieste di

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Vercelii. Esse vennero accettate; si avvertirono i rappresentanti di Vercelii che il Legato ed il podestà milanese sarebbero venuti in città a perfezionare gli accordi e gli ambasciatori vercellesi diedero loro l'autorizzazione per il viaggio.

Prima però che il Legato potesse entrare in Vercelii, occorreva che venissero ritirate la scomunica e l'interdetto in cui i vercellesi

erano incorsi per avere aderito all'imperatore scomunicato. Giunto ad Arborio il 28 marzo, Gtegorio di Montelongo diede a due suoi cap-pellani i pieni poteri per assolvere i vercellesi; questi a loro volta nominarono un procuratore per giurare « super animas eorum et cuiuslibet vercellensis » di stare agli ordini del Legato. Per cooperare alla pratica, il marchese di Monferrato potè subito entrare in Vercelii

ed ai primi dell'aprile anche il Legato arrivò.

5. Il prezzo del ritorno di Vercelii alla Chiesa

Già i l 6 aprile Gregorio di Montelongo, raccolti at torno a sé tutti i canonici nel palazzo episcopale, espose loro che si trattava dell'interesse generale della Chiesa romana e propose che si affidassero a lui e gli concedessero il consenso sul fatto che il comune di Vercelii esigeva la giurisdizione degli uomini del vescovo. I poveri canonici, stretti dal Legato e minacciati certo dal partito al potere, udito il parere naturalmente favorevole dell'arcivescovo di Milano, si rasse-gnarono ad affidare al Legato la decisione circa le richieste del comune, a patto di avere una debita compensazione. Rimane certo aperto ancora il problema se essi avessero, essendo vacante la sede vescovile, l'autorità per dare tale incarico al Legato e se questi avesse autorità per decidere in materia.

In pochi giorni tutto fu fatto. I vercellesi ebbero cura, prima però di conchiudere gli accordi definitivi, di assicurarsi che il Legato avesse poteri a ciò e si fecero rilasciare copia della bolla con cui Gregorio IX lo aveva nominato Legato a latere « cum piene Lega-tionis officio ».

Ed ora, il 21 aprile, Gregorio di Montelongo intervenne alla riunione della credenza. Assolse il comune e la città universalmente e particolarmente da ogni obbligo di fedeltà verso Federico II e li prosciolse da ogni vincolo di scomunica. Quindi consegnò, secondo la procedura concordata, alle autorità vercellesi, quattro dichiarazioni impegnative dei suoi poteri di Legato: riceveva il comune vercellese

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IL PREZZO DEL RITORNO DI VERCELLI ALLA CHIESA 677

sotto la difesa e protezione della chiesa, prometteva che avrebbe fatto tutto il possibile perché la curia romana non facesse pace o tregua con l'imperatore senza includervi il comune di Vercelli; si impegnava ad ottenere dal papa due privilegi, l'uno che il comune di Vercelli non potesse essere scomunicato se non per legittima causa e dopo verifica da parte di una commissione di periti, l'altro, che nessun vercellese potesse essere tratto fuori dal territorio di Vercelli da qualsiasi auto-rità religiosa o secolare e sottoposto a processo in base a lettere pontificie; prometteva che avrebbe indotto l'abate di San Silano di Romagnano a riconciliarsi con i vercellesi per i danni subiti nella guerra del 1225.

Il giorno dopo il Legato proclamò le sue decisioni circa la giu-risdizione vescovile di Vercelli: ricordava come la chiesa romana ed anche la chiesa locale avessero bisogno dell'aiuto del comune vercel-lese; allo scopo quindi che il comune fosse portato più facilmente ad accordare tale aiuto, dichiarava di vendere, a nome del capitolo che in lui aveva fatto il compromesso, la giurisdizione episcopale ai consoli della società di Sant'Eusebio riceventi a nome del comune, per lire 9000 pavesi: l'oggetto di vendita era la giurisdizione che il vescovo di Vercelli aveva sui castelli, luoghi, ville spettanti al detto vescovado al di qua del Po, sul luogo di Casale al di là del Po; riguardava le cause civili e criminali, fodri, banni, cavalcate, eserciti; in genere si abbracciavano tutte le terre esistenti tra Po, Dora, Sesia. Negli altri castelli e luoghi che il vescovado possedeva sulla destra del Po, i ver-cellesi non avrebbero nulla per tale atto acquistato. Il Legato promet-teva che avrebbe fatto confermare la cessione dal futuro vescovo di Vercelli, dal papa e dai cardinali. I canonici vercellesi a loro volta ratificarono la cessione ed il Legato nominò il procuratore che doveva immettere i procuratori del comune in possesso delle terre cedute.

Ed ora Vercelli sicura di essere padrona della tanto bramata giu-risdizione stipulò alleanza con il marchese di Monferrato e con i comuni della Lega. La conversione di Vercelli al guelfismo leghista determinò anche un analogo movimento del comune di Novara. Ma se i novaresi si decisero, questo fu solo in conseguenza del molto denaro profuso dal comune di Vercelli, desideroso di non avere da riaprire il vecchio capitolo delle lotte con quel comune. Anche i conti di Bian-drate si affrettarono ad aderire alla Lega in seguito a certe promesse finanziarie.

Così solo il denaro aveva potuto determinare nella regione pie-montese il trionfo, parziale almeno, della causa papale. Quasi subito

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678 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE

i vercellesi imposero il fodro a tutti i sudditi abitanti tra Po, Dora, Sesia; affermazione di sovranità da un lato, operazione finanziaria red-ditizia, dall'altro.

6. Lotte fra guelfi e ghibellini a Ver celli

II passaggio di Vercelli alla Lega dopo il tradimento, così poteva essere detto, dei grandi feudatari, i marchesi di Monferrato, di Ceva, di Saluzzo, i conti di Biandrate, colpì gravemente il prestigio dell'imperatore nell'Italia settentrionale.

Tuttavia né Federico II né i suoi funzionari avevano motivo per disperare. In Vercelli il partito imperiale era ancora potente: faceva capo alla famiglia Bicchieri, e Pietro Bicchieri, nipote del famoso car -dinale Guala Bicchieri, morto alcuni anni prima dopo aver costruito la grande basilica di Sant'Andrea, disponeva di grandi aderenze e di cospicue ricchezze.I capi guelfi avevano però preso le loro precauzioni: fatto l'accordo

con Milano, scelsero subito come podestà il milanese Guglielmo di Soresina ed un presidio di 500 o 600 milanesi venne a stanziarsi in

Vercelli. Ed i ghibellini per il momento o fuggirono o tacquero. Pietro Bicchieri fu mandato ambasciatore a Milano, ma per la via egli si

fermò e fuggì poi in Val Sesia; forse aveva ragione di non volere andare a Milano: la missione poteva essere un pretesto per fermarlo

come ostaggio essendo ben note le sue idee. Dalla Val Sesia l'attività del Bicchieri si intonò con quella degli ufficiali imperiali di Ivrea e del

Canavese, sì che riuscì ad impadronirsi di non pochi castelli dell'agro vercellese, San Germano, Alice, Viverone, Roppolo, Azeglio, su cui in

parte aveva dei diritti, e li fortificò d'accordo con i conti di Cavaglià, con i conti di Masino, con il comune eporediese, A Vercelli

naturalmente ora lo si colpì di bando, si sequestrarono i suoi beni, si dichiararono liberi e franchi i suoi contadini; il suo palazzo in città venne distratto; per rappresaglia contro Ivrea, Piverone fu dichiarato

pertinenza tutta vercellese e gli si conferì completa immunità e libertà. I ghibellini di città sottoposti a dura sorveglianza, alla chetichella

abbandonarono Vercelli, rifugiandosi nei loro castelli; cosa notevole, tra di essi molti erano ecclesiastici, canonici, monaci, persino gli abati di

Santo Stefano e di Sant'Andrea che non esitarono a mettere le loro proprietà e castelli a disposizione degli imperiali.

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LA FONDAZIONE DI CHERASCO 679

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II comune diventato guelfo, tutto affannato per le vendette con-tro i ghibellini scriveva al papa accusando l'abate di Sant'Andrea di avere donato alla moglie del Marchese Lancia un carro di vino del valore di sei lire e di avere fatto altri doni all'imperatore, al Vicario e ad altri. Quale pena bisognava infliggere?

Fu appunto l'abate di Sant'Andrea quegli che inviò sollecitazioni a re Enzo a Pavia perché venisse a combattere i guelfi. Nel luglio il giovane principe ed il marchese Manfredi Lancia lasciarono il lodi-giano in cui avevano combattuto con i milanesi ed assalirono Ver-celli; dal Piemonte sopraggiunse anche Tommaso di Savoia conte di Fiandra a cui pure erano arrivate sollecitazioni dell'abate di Sant'An-drea. La difesa però dei presidio milanese fece fallire il tentativo degli imperiali; i mdesardi vercellesi — così si chiamavano i fuorusciti — ritornarono ai loro castelli dell'alto vercellese, mentre re Enzo ed il marchese Lancia entravano nel Monferrato. Ed appunto nel luglio del 1243 i guelfi di Vercelli per sgretolare la potenza dei loro nemici profughi, dichiararono l'affrancamento di tutti i rustici. Si proclamò che i rustici erano troppo aggravati da fodri, banni, angarie, paran-garie, estorsioni infinite, per il che erano resi « imbecilliores ad onera civitatis subeunda et substinenda ». Ma se si proclamò la libertà e la franchigia dei contadini, questo si fece solo per colpire economica-mente l'elemento ecclesiastico e feudale fedele all'impero e per ren-dere i rustici atti a pagare i tributi comunali.

Il comune di Asti dovette sentire assai il pericolo di avere il suo confinante, il marchese di Monferrato, di nuovo nel campo guelfo. È probabile perciò che le sue tendenze imperiali si siano cabriate pre-sto, pur non decidendosi a passare anch'esso alla Lega, finché Alessan-dria da una parte ed Alba dall'altra ancora aderivano all'impero.

7. La fondazione di Cherasco

Dopo la spedizione autunnale in Monferrato, re Enzo ri -tornò in Lombardia; invece Manfredi Lancia rimase in Piemonte, in appoggio al gruppo dei comuni imperiali diretto da Alba. Ed il 12 novembre 1243 il marchese Lancia insieme con il podestà d'Alba, Sarlo di Drua, procedette in nome dell'imperatore alla fondazione di una nuova villa sul così detto Pian Carrasco dominante la vallata del Tanaro, alla sua confluenza con la Stura.

Così sorse Cherasco.

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680 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE

L'atto notarile fatto redigere dal marchese Lancia per ricordare la fondazione, dice che la villa fu fondata a richiesta dei popolani di

Bra, i quali dicevano che in Bra non potevano più abitare a causa delle ingiurie che ogni giorno recavano loro i signori del luogo ed il mar-chese di Monferrato, e perché questi attendevano a congiurare in danno dell'impero. Un mese dopo, il 13 dicembre, Sarlo di Drua si accordava con i signori di Manzano che cedevano ad Alba la castel-lania stessa di Manzano e di Cervere con le ville di Costungaresca, Meane, Trefoglieto, Ripalta, Villata, e si obbligavano a costruire case nella villa nuova sul piano di Cherasco, ad abitarvi, a difenderla. In compenso Sarlo di Drua si impegnava a far cedere loro le carte dei debiti che avevano verso alcuni albesi ed a sborsare in più 800 lire, a condizione che appena sborsata tale somma, cedessero la torre del castello di Manzano perché fosse custodita dagli albesi per quattro anni; se durante questo tempo, risultasse che il comune di Cherasco non poteva durare, essi avrebbero riavuto la torre, se no, dopo quattro anni, questa torre sarebbe stata consegnata al comune d'Alba. Il da-naro liquido di cui disponevano gli albesi con i loro commerci sempre più aveva ragione degli eredi del già potente consortile di Manzano,

costretti ad indebitarsi ed a vendere.L'intenzione era adunque del tutto antimonferrina, ma che la

nuova costruzione passasse sotto la protezione di Alba non era cosa da fare molto piacere agli astigiani. Si ha l'impressione che in questo momento la politica astigiana tacesse nella incertezza di trovare una via sicura.

Fin d'ora essa si preparava una prudente adesione al guelfi-smo: nel giugno del 1244 tra Asti ed Alba si combatteva poi aperta-mente e certo ora gli astigiani come i loro clienti i moncalieresi non erano più nel campo imperiale.

Forse lontana eco del passaggio degli Aleramici al partito della Lega Lombarda è l'accordo che nel febbraio del 1244 Enrico mar-chese di Busca stabilì con il comune di Cuneo: cedette al comune il possesso della casa e del castello che i cuneesi si erano edificati in Busca; si obbligò con giuramento ad abitare Cuneo; dichiarò di tenere in feudo dal comune quel che possedeva a Dronero, Vallamairana, Montemale ed infatti ricevette dal podestà di Cuneo la regolare inve-stitura dei beni. Così il podestà del comunello nato pur ieri aveva come vassallo un discendente dei gloriosi Aleramici.

Nel gennaio del 1243 il capo del consortile di Carassone, si ras-segnava a giurare l'abitacolo di Mondovì, tenendovi casa; dalla Bastia

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LA RISURREZIONE DI BIANDRATE

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non avrebbe fatto offesa al comune monregalese ed il comune Io avreb-be difeso o avrebbe costretto i suoi rustici a riconoscere i suoi diritti. Il comune di Mondovì era imperiale ed i signori di Carassone proba-bilmente avevano seguito gli Aleramici nel campo guelfo.

8. La risurrezione di Biandrate

Novaresi e Vercellesi avevano distrutto la fortezza, il borgo, ma i Biandratesi non si erano piegati ai divieti, alle minacce. Erano ritor-nati, avevano cercato di rifare le loro case. Nel 1190 i loro consoli scrivevano su un documento « actum in villa des trucia Blanderati iuxta portam sancti Laurentii ».

Nel 1199 i due comuni presero provvedimenti draconiani: di -vieto di stabilirsi non solo in Biandrate, ma neanche nelle campagne: 39 famiglie furono trasportate a Novara 35 a Vercelli. Ma molti rifiutarono.

Il 23 giugno 1216 nel prato dietro la chiesa di San Pietro si radunarono 54 capi famiglia biandratesi ed in nome di Dio, dei Conti e del comune crearono una società o Lega giurando di aiutarsi e di difendersi a vicenda.

Crearono il comune per 10 anni; ogni anno a San Giovanni si sarebbe rinnovata la consularia. Era una decisione che doveva provo-care l'opposizione dei due Comuni. Solo il 27 ottobre 1242 si ebbe la conclusione nella chiesa di San Colombano di Biandrate, presente la credenza del comune che era però ancora disperso nelle varie bor-gate, i conti di Biandrate, i rappresentanti di VerceUi e di Novara si ebbe un lodo pacificatore, I Conti poterono investire il Comune di tutti i diritti che avevano nella « iustitia » di Biandrate, Vicolungo, Tosagno, Caselbertrame, Porto della Pieve, Borgo Vecchio, Borgo Nuovo, Porta Casale, Biscaretto ed in tutto la curia di Biandrate vil-laggi e cantoni; dovevano concedere l'investitura di tutte le baraggie e comunalità. Il Comune avrebbe giurato fedeltà, fatto oste, pagato fodro, eletto podestà, consoli, avrebbero avuto giurisdizione civile e criminale; non avrebbero potuto fare Società congiure, monopoli.

9. Novara ed i marchesi di Romagnano

Come questo ramo laterale degli Ardoinidi di Torino occupasse far la fine del sec. X ed il principio del XI la regione di Romagnano già fu detto. È probabile che l'acquisto dipendesse dallo sfacelo

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682 PAPATO ED IMPERO IN PIEMONTE

della Marca anscarica. I primi che si stabilirono a Romagnano furono Bosone e Guido figli di Ardoino figlio a sua volta di Ardoino nipote di Ardoino il Glabro. I due Marchesi ebbero un diploma da Corrado II nel 1026. La famiglia doveva però contemporaneamente amministrare i domini più occidentali, attorno a Carignano.

Anche essi sentirono presto l'influsso di Novara: già nel 1190 sono alleati del comune. Durante la prima metà del secolo XIII i Romagnano si avviano alla rovina: li stringe la crisi finanziaria. Nel 1224 Ardizzone conchiude con Novara un contratto di cessione di metà del castello di Romagnano e di metà di quello di Grignasco con le loro castellanie per liquidare un debito di 450 lire imperiali; si riserva di riscattare le terre entro otto anni.

Ma i Marchesi oramai sono divisi in vari rami e la loro vita è un continuo vendere, impegnare terre. Già nel 1198 i Consoli ed i vicini di Romagnano si sottomettevano al Comune di Novara impegnandosi a pagare il fodro, a consegnare i loro beni; a collaborare nella difesa di Novara. I Marchesi conservavano il castello, ma Pautorità loro sfug -giva. Il marchese Guido nel 1201 offre di farsi cittadino di Novara se saranno rispettate le sue proprietà. Anche i Marchesi che sono a Carignano sono costretti a vendere a chiese, ad abazie, a principi. Ardizzone nel 1247 vende a Tommaso di Savoia la sua parte di Carignano.

Nel 1264 la signora Gillia moglie di Belengero di Romagnano farà fare un'intimazione da parte del Comune di Novara ai Marchesi per la restituzione della dote.

L'espansione del comune di Novara sul Lago Maggiore avveniva contemporaneamente a danno dei feudatari regi del Lago.

Come i domini dei Marchesi di Romagnano chiudevano lo svi-luppo del comune di Novara verso la valle del Toce, così sul Lago si stendevano infatti ampiamente i domini dei Barbavara da Castello. Avevano attraversato senza troppi danni la crisi della Lega Lombarda, da Enrico VI nel 1196 e poi da Ottone IV avevano avuto il riconosci-mento dei loro domini. La loro potenza aveva incominciato ad incri -narsi quando si erano divisi in tre rami, i Crollamonte, i Cavalcaseli, i Barbavara; era nella natura delle cose che anche i domini si spar -tissero: i Crollamonte tennero i possessi della bassa Ossola, i Cavalca-selle ebbero Omegna, Crusinallo, i Barbavara conservarono il nucleo centrale, Pailanza, Intra, la Valle Intrasca. Il Vergante da Baveno ad Arona la riva occidentale cioè del Lago era sotto la giurisdizione dell'arcivescovado di Milano.

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NOVARA ED I MARCHESI DI R0MAGNANO

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Non sappiamo se ancora conservassero l'impronta tedesca del-l'origine o se già si fossero, sotto la protezione imperiale, italianizzati. Contro la minaccia novarese i Da Castello cercarono appoggi in Vercelli: nel 1190 i Signori giurarono di combattere con i Vercellesi i comuni nemici. Ma Vercelli era troppo lontana e nel 1202 i Crolla-monte, i Barbavara si impegnarono a far pace e guerra a volontà del podestà di Novara. Appoggiati da Ottone IV cercarono di liberarsi dagli impegni, ma sconfitti nel 1221 cedettero a Novara i loro castelli di Valle Infrasca e della costa del Lago. Nel 1222 i Novaresi compe-rarono il borgo di Omegna dei Signori di Crusinallo e la pianura dello Strona; i Signori giurarono di farsi cittadini di Novara.

Però la lotta non era terminata. I Vercellesi desiderosi di mettere piede nella valle superiore dell'Ossola offrirono aiuto contro Novara II centro della lotta antinovarese era Pallanza, anche le vkinie mon-tane erano antinovaresi.

Il trattato tra Novara e Vercelli del 1223 costrinse i Vercellesi ad abbandonare la partita ed a prosciogliere Pallanza e le varie comu-nità da ogni obbligo.

Intervennero però in questo momento i Milanesi. L'arcivescovo ambrosiano accolse sotto la sua protezione i Da Castello ed i loro sudditi.

Novara rispose creando ad Intra ed a Mergozzo dei borghi rifu-gio dando loro il « jus burgense ».

Dopo la guerra fra Novara e Vercelli i Signori da Castello perdet-tero ogni importanza. I Novaresi assorbirono lentamente tutti i loro domini. Anche i Da Castello dalla crisi finanziaria della feudalità furono costretti a mutui, a vendite: nel 1291 un Martino di Castello vendeva a Bonifacio di Challant vescovo di Sion un centinaio di suoi servi di Pastrisano in Val di Vedrò.

Un problema annoso che infastidiva Novara era quello di Gal-liate dove diritti della chiesa di Milano, su chiesa e castello, contra-stavano ad analoghe posizioni della chiesa di Novara. Solo fra il 1210 ed il 1220 attraverso a vari arbitrati il dissidio fu composto: i Galliatesi avrebbero fatto pace e guerra per Novara ed avrebbero prestato al Comune giuramento di fedeltà. Rimaneva solo ancora 1 antica devozione per l'arcivescovado ambrosiano come ancora si conservava il rito di Sant'Ambrogio.

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CAPITOLO XXV

INNOCENZO IV E FEDERICO II

1. I progressi della dominazione sabauda in Piemonte - 2. La sottomissione di Pinerolo ai Savoia - 3. La ripresa sabauda in Val d'Aosta - 4. La rottura definitiva tra Federico II e Innocenzo IV - 5. Innocenzo IV in Piemonte - 6. Il sog-giorno di Federico II a Torino - 7. La fine del consortile dei Biandrate

1. I progressi della dominazione sabauda in Piemonte

La trasformazione della situazione politica piemontese tra il 1242 ed il 1243 favorì le aspirazioni dei Principi Sabaudi verso nuove conquiste. Seguendo l'esempio dei fratelli minori, Amedeo IV pareva ora compreso nella cerchia dei partigiani del papato: qualsiasi mossa in avanti poteva essere considerata come un vantaggio recato alla causa guelfa, come un danno agli imperiali.

Già verso il 1239 abbiamo da parte sabauda indizi di movimento. Se è vero che la villa di Villafranca presso il Po, a poca distanza da Cavour e da Vigone, ebbe origine già prima della fine del secolo XII per opera probabilmente dei signori di Verzuolo, ai quali ancora appar -teneva la terra nel 1235, negli anni seguenti, per via che non si può precisare, Villafranca passò nelle mani di Tommaso di Savoia, che la fece rifugio per i rustici delle terre del marchese di Saluzzo e dei vari consortili feudali della regione. Solo però nel 1243 abbiamo la prova sicura della dominazione sabauda a Villafranca: un Opizzone dei consignori di Revello giurava nell'agosto di quell'anno in Vigone a Tommaso di Savoia di essergli fedele e di costruire casa in Villa-franca e riceveva dal principe per questo 200 lire susine.

Nel 1241 il conte Amedeo IV confermava al monastero di Staf-farda i beni provenienti da una donazione fatta ancora nel secolo pre-

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I PROGRESSI DELLA DOMINAZIONE SABAUDA IN PIEMONTE 685

cedente da Guglielmo di Luserna, famiglia feudale che ora sentiva la superiorità dei Savoia. Né, pur durante l'assenza a cui Io costringeva il suo matrimonio con la contessa di Fiandra, Tommaso di Savoia tra-scurava attraverso ai suoi castellani di seguire gli avvenimenti in Pie-monte. Nel 1240 Amedeo IV e Tommaso fecero acquisto, dai signori del luogo, di metà del castello di Cumiana per 33.000 soldi susini {1650 lire): il contratto fu fatto in Avigliana ed il castellano di questo luogo fattosi consegnare in nome di Amedeo IV il castello, ne accordò subito, secondo i patti, l'investitura all'abate di San Giusto di Susa che rappresentava il conte di Fiandra.

Nel giugno del 1243 Giovanni dì Fontanile cedette a Tom-maso di Savoia per 40 lire la terza parte della decima di Vigone. Lo stesso anno e mese, Amedeo IV stando in Carignano, alla presen-za dei pari di curia e di molti illustri personaggi che gli servivano quali testimoni — il fratello Tommaso conte di Fiandra, Berengario e Tommaso marchesi di Romagnano, Alberto di Luserna, Nicolo di Ber-nezzo, Bertolotto di Revigliasco — investì Ottone di Scalenghe figlio del fu Gualfredo Folgore del feudo paterno, cioè di metà della parte che Bonifacio di Piossasco detto Percivalle aveva comune con lui nel castello e nella villa di Piossasco.

Nell'agosto del 1243 diversi documenti mostrano i progressi e le conquiste dei Savoia. Il 31 agosto in Vigone si presenta a Tom-maso di Savoia il marchese Giovanni di Romagnano e per sé e per i consorti giura fedeltà e presta omaggio per il feudo che da lui tiene, cioè metà di Virle ed altre terre; poi Ottone di Scalenghe detto Fol-gore cede al principe i 3/4 del castello e villa di Scalenghe, ricevendo il tutto da lui in feudo, con obbligo di fare per lui pace e guerra, eser-cito e cavalcata, ed il principe si impegna a non accogliere nei suoi domini nessun uomo del nuovo vassallo.

Ed ancora: a Tommaso vengono per giurar fedeltà i signori di Bricherasio, che mettono il loro castello a disposizione del principe; poi Uberto e Robaldo di Bagnolo, poi altri loro consignori.

Come tanti omaggi da parte del riottoso mondo feudale pede-montano? Sono i mesi in cui re Enzo e Manfredi Lancia attaccano Vercelli, in cui Tommaso richiesto d'aiuto dai ghibellini vercellesi acconsente ad un intervento che dura però poco. Per questi suoi legami con i ghibellini, contro il legato, questi gli cacciò addosso una sco-munica sì che Tommaso si affrettò a scrivere a Roma al nuovo papa per assicurare che la sua alleanza con Enzo non era diretta contro la chiesa ed i suoi fedeli, ma solo contro alcuni nemici proprii per ven-

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686 INNOCENZO IV E FEDERICO II

dicare certe offese ricevute. Anche Amedeo IV scrisse protestandosi figlio devoto della chiesa e chiedendo l'assoluzione della scomunica, ma egli pensava ad ottenere soddisfazione dei torti sofferti.

Ed in realtà Amedeo IV e Tommaso avevano approfittato del mo-mento critico per dare addosso alla feudalità pedemontana non so-stenuta e difesa né dall'imperatore né dal papa. A Torino dopo il 1240 continuarono a tenere il governo del comune i capitani o podestà imperiali. Il vescovo Uguccione Gagnola persistette nei rapporti cor-diali con la corte imperiale, che visitò ripetutamente e nel 1248 e nel 1249, anno in cui venne a morte.

Già nell'aprile si era sparsa a Torino la voce del suo decesso, sì che i due avvocati della chiesa torinese, Corrado e Manfredo di Moncucco, stabilitisi nel castello di Rivoli, prestarono davanti a notaio solenne giuramento di custodire quel castello in onore della chiesa e del comune di Torino, e di renderlo poi solo al futuro vescovo di Torino. Fatto che mostra una certa incertezza, anzi una crisi nel gruppo comunale torinese circa la sua politica: abbandonati dai ver-cellesi passati decisamente al guelfismo, e dagli astigiani se non ancora guelfi, certo non più davvero ghibellini, i torinesi si trovavano imba-razzati trovando nel campo imperiale Tommaso di Savoia, nel campo guelfo altri Savoia.

Ma i torinesi, imperiali si dichiaravano, e come tali sfrutta -vano la protezione di Federico II. Questi quando nel 1244 o nel principio del 1245 prese provvedimenti fieri contro i vercellesi e loro proibì che tenessero le vecchie fiere di Ognissanti e di Sant'Eusebio, assegnò dette fiere alla fedele Torino.

2. La sottomissione di Pinerolo ai Savoia

Tale ambiguità tra papa ed impero permetteva ai Savoia di affermare nella regione una egemonia quasi indiscutibile. La conse-guenza più grave fu la decisione presa dall'abate di Santa Maria di Pinerolo nel febbraio del 1243 di cedere ad Amedeo IV ed al fra -tello Tommaso tutti i diritti sul luogo e sugli uomini di Pinerolo. Come era finita la ricerca dei diritti di Savoia su Pinerolo, stabilita dal trattato di pace del 1235? Non abbiamo documenti che ci informino. Ora invece l'abate di Santa Maria abbandonò in feudo ai Savoia tutti i diritti ed i domini che l'abazia aveva avuto in Pinerolo e sugli uomini del luogo, tutte le fedeltà e gli omaggi, conservando solo per

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LA SOTTOMISSIONE DI PINEROLO AI SAVOIA 687

sé metà dei forni, dei mulini, il diritto di colpire di banno quei che tenessero terre dall'abazia, per ricuperare i debiti e gli affitti. Come indennizzo, i Savoia fecero all'abate alcune concessioni: che l'aba-zia potesse servirsi dei boschi di Miradolo, che godesse del libero transito per tutto il comitato per i suoi greggi, che dopo avere otte-nuto dai pinerolesi il giuramento di fedeltà per i Savoia, si sarebbe loro imposto l'obbligo di rispettare tutti i diritti dell'abazia. Lo stesso giorno l'abate comunicò ufficialmente ai pinerolesi di avere fatto al Conte di Savoia tale cessione di omaggio e di fedeltà, ed ordinò loro di obbedire al nuovo signore. Ma i pinerolesi, legati da una tradi-zione di quasi mezzo secolo ai torinesi, nella ostilità ai Savoia, temen-do per l'autonomia del loro comune, resistettero agli ordini dell'abate.

Anche i monaci dell'abazia protestarono contro ù loro abate, dipingendolo al legato pontificio Gregorio di Montelongo, quale simo-niaco, spergiuro, dedito ad una vita dissoluta, dilapidatore e dissipa-tore dei beni del monastero, che vendeva in onta ai suoi giuramenti e doveri di abate. II Legato incaricò di fare una ispezione l'abate di San Benigno di Fruttuaria; purtroppo non conosciamo la sua rela -zione. Si ebbe per conseguenza un'azione sabauda energica contro il comune ribelle al vecchio ed al nuovo signore.

Nel maggio del 1244 le genti sabaude — i borgognoni, come erano comunemente detti — minacciarono da Cumiana l'attacco di Pinerolo. Si combattè tutt'attorno alla cittadina: le milizie sabaude espugnarono Poggio Oddone, l'attuale Perosa, e fecero prigionieri non pochi pinerolesi. Il comunello aveva chiamato a combattere dei clienti mercenari, forse provvisti da Torino.

In soccorso di Pinerolo accorsero torinesi e moncalieresi ed alla Marsaglia, nella pianura tra Cumiana e Pinerolo, si combatte una fiera lotta che venne poi chiamata il « proelium Borgognonorum »? Chi vinse? Certo è che nel giugno successivo l'abate di Santa Macia ed il podestà di Pinerolo a nome degli uomini del comune convenivano con i rap-presentanti dei principi sabaudi, l'abate di Susa e Quaglia di Gorzano, per la sottomissione di Pinerolo al signore sabaudo del Piemonte, Tommaso conte di Fiandra.

Nell'accordo (13 giugno 1244) sì faceva riferimento alla « pax vetus » cioè al trattato del 1235 che doveva essere rispettato in per-petuo: si stabiliva ora che il principe Tommaso di Savoia non potesse esigere in Pinerolo qualsiasi tassa sui matrimoni e sulle successioni; che si liberassero i pinerolesi catturati a Poggio Oddone ed in cambio i sudditi sabaudi chiusi nelle carceri di Pinerolo.

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