Piccole storie oscure

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Tina Caramanico, racconti horror. Tra horror e noir, in queste piccole storie oscure (alcune assolutamente inedite, altre reduci da premi letterari e contest sul web) conoscerete vittime decisamente pericolose, morti che parlano, mostri apparentemente innocui e feroci assassini che ci somigliano forse troppo.

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TINA CARAMANICO       

PICCOLE STORIE OSCURE 

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Serie BIG‐C  Grandi Caratteri, lettura facilitata 

PICCOLE STORIE OSCURE

Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-608-0

Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

Questi racconti sono opere di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autrice. 

Qualsiasi analogia o riferimento a fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è da ritenersi puramente casuale. 

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SINGLE 

 

 

 

 

Ok, ho trovato parcheggio. Ora devo decidermi, alla svelta. 

Supermercato o negozio di mobili? Meglio  i mobili, non ho 

tempo da perdere. Poca scelta, va bene, ma non mi interes‐

sa:  quando  arrivo  a  questo  punto,  non  posso  più  andare 

tanto per  il sottile. Ce ne sono poche di donne sole, nel ne‐

gozio di mobili, è vero, ma se ne trovo una è già mia. È il mio 

segreto, non ho mai fallito una volta: si sentono a disagio, le 

singole, a girare da sole in mezzo a tutte quelle famiglie e a 

quei  fidanzati, e non dicono di no, mai. Dovrei scriverci un 

libro  per  sfigati:  “Come  trovare  una  donna  che  ci  sta  in 

mezz’ora. Un’ora col traffico”. 

 

Sono una scema. Ho trentotto anni, vivo sola in un mono‐

locale prossimo al cedimento strutturale, e vengo a pas‐

sare  il mio unico giorno  libero qua,  in questo maledetto 

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negozio di mobili. Ho bisogno di un tavolino, ok. E magari 

anche di un paio di tende nuove, un po’ meno deprimenti 

di quelle grigio  fumo  che affliggono da anni  le mie  fine‐

stre sempre sporche. A casa mia anche una meravigliosa 

giornata  di  primavera  diventa  l’anticamera  del  suicidio. 

Ma perché proprio qui? So benissimo cosa mi aspetta: so‐

no solo all’entrata, ho cercato fino ad ora di guardarmi in‐

torno il meno possibile, ma già mi è salito il solito groppo 

allo stomaco. 

 

Dentro.  Allontaniamoci  alla  svelta  dai  bambini.  Anche  se 

certe bimbette con le gonnelline corte… Ma non possiamo 

rischiare, a questo punto: le ragazzine lasciamole agli stupi‐

di, che vogliono finire  in galera. Andiamo al sodo. Su per le 

scale mobili. Coppiette, coppiette, famiglia. Niente, per ora. 

 

 

Passo  il più velocemente possibile davanti ai giochi per  i 

bambini, ma  lo  stesso  palline  e  vestitini  colorati,  al mio 

passaggio, si fondono in un unico violento sberleffo: “Noi 

siamo  il  futuro,  noi  siamo  la  vita,  e  chi  sei  tu?” 

Afferro rapidamente un metro di carta e una piccola mati‐

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ta (qui tutto è piccolo, tenero, fatto apposta per invoglia‐

re al gioco mani infantili e grassocce) e scappo sulla scala 

mobile,  cercando  di  concentrarmi  sull’esposizione  degli 

articoli  in saldo che si trova  in basso, alla mia sinistra. Poi 

alzo gli occhi per un  istante e, patatrac,  li vedo, proprio 

davanti a me. Vedo (saranno i primi di una lunga serie qui 

dentro, lo so, e per questo mi do della scema tutte le vol‐

te che ci vengo) due futuri sposini: giovani, belli solo della 

loro  giovinezza  un  po’  avvilita  dalla  banalità  di  jeans  e 

magliette modeste,  che  si muovono  in mezzo  alla  calca 

con  un’assurda,  felice  leggerezza  e  guardano  gli  orribili 

mobili di compensato qua intorno come fossero gli arredi 

preziosi del castello delle  fate;  li accarezzano con un en‐

tusiasmo  incomprensibile a noi comuni mortali, come  se 

ne  scorgessero proprietà esclusive e  segrete,  che  solo  il 

loro amore consente di rilevare. E poi si baciano, si bacia‐

no tantissimo gli sposini in questo supermercato dei sogni 

e  della  rassicurazione:  sul  limitare  della  loro  nuova  vita, 

hanno bisogno di qualcosa di almeno apparentemente so‐

lido a cui trattenersi, per non volare via sul vento delle lo‐

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ro illusioni e dei loro desideri, e così si attaccano a cucine 

mal disegnate ma colorate, simpatiche, proprio come loro 

immaginano (ancora) sarà il futuro. 

 

Cucine:  difficile  trovare  una  donna  sola,  qui  alle  cucine.  È 

roba da sposini. Infatti niente. E però quella biondina in ros‐

so sarebbe proprio adatta. Mi perdo a fissarle il collo, bian‐

co, esile, con quei capelli lisci e fini da bambina. Poterli toc‐

care, e poi toccare la pelle, dolce. Attento, non ora, la bion‐

dina ha un  fidanzato,  riprendersi,  cercare, via. Divani: ma‐

gari qui sì, qualcosa si può trovare.  

Mi siedo un po’ e aspetto. 

Si  tengono  per mano,  gli  sposini,  e  passano  ridendo  e 

chiacchierando eccitati  tra  i  simboli di  tutta  la  loro pros‐

sima vita:  letti accoglienti e  lenzuola a  righe, per  lunghe 

mattinate domenicali  tra coccole e sesso; camerette per 

bambini, quelli  che  arriveranno, prima o poi, e  che  li  fa‐

ranno diventare  una  famigliola  felice  come  tante, qui  in 

giro.  Come  quella,  per  esempio: mamma  sui  trent’anni, 

capelli  rossicci e pelle  lentigginosa, bianchissima, con un 

pancione  portato  orgogliosamente  e  un  bambino  per 

mano, con gli stessi capelli rossi. Dietro, un po’ affannato, 

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il padre, che  spinge un passeggino viola con dentro una 

bella  bambina,  lentigginosa  e  semi  addormentata, mal‐

grado  il  rumore  e  la  confusione  intorno.  Gli  sposini  li 

guardano e pensano: “Beati loro! Fra non molto anche noi 

saremo  così”.  La  famigliola  guarda  gli  sposini  e  pensa: 

“Beati  loro! Non molto  tempo  fa anche noi eravamo co‐

sì”. Ma tutte e due  le categorie, sposini e famigliole, san‐

no che sono dove devono essere, a comprare cucine, di‐

vani, lettini e camerette: è questo che il mondo si aspetta 

da  loro, e  loro stanno facendo esattamente quello che si 

suppone debbano fare. A volte è eccitante, a volte è fati‐

coso, ma è giusto per loro essere quello che sono: felici, in 

fondo, nell’unico modo in cui ci è consentito essere felici, 

specchiandoci negli occhi degli altri. Noi siamo  la vita, noi 

siamo il futuro, e chi sei tu? 

 

Nervoso, sono troppo nervoso; devo avere ancora un po’ di 

pazienza, e non  fare  stronzate. Niente  fretta. Eccone una, 

mica male. Mica male. Si siede sul divano bianco, già la vedo 

sdraiarsi,  le  sciolgo  i capelli,  le  tocco  il collo, piano, piano. 

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No. Non  è  sola. Maledizione non  è  sola,  stavo per  fare un 

grosso  errore.  Attento,  attento,  non  avere  fretta. 

 

Quando sono qui ho sempre la netta sensazione di essere 

invisibile, di non esserci, al mondo. Se qualche sguardo si 

posa per caso su di me, vedo che cerca subito di comple‐

tarmi,  cerca  di  localizzare  nello  spazio  che mi  circonda 

l’altro pezzo di me: il marito, i figli. E quando non lo trova, 

c’è un attimo di  smarrimento, una  rapidissima domanda 

che solo io riesco a cogliere: “Chi sei tu? Che ci fai in que‐

sto negozio di mobili da sola? Non sei di qui, non stai dove 

dovresti  stare, non è questo  il  tuo posto nel mondo. Tu 

non hai un posto, qui e nel mondo.” 

 

Avanti,  saltiamo  le  camerette,  proviamo  ai  letti. Quella  è 

bellissima, davvero, Dio quanto è bella. Aspetta un momen‐

to, aspetta,  resisti. Sul  letto ah,  cosa  le  farei… non posso 

più trattenermi, ora vado, ci provo. Ma no, ma no, ma no. 

Neppure lei è sola, c’è quella vecchia che la chiama, maledi‐

zione. Maledizione. Basta, è una tortura, devo trovare una 

donna,  adesso.  Subito.  Se  no  farò  qualche  sbaglio,  farò  il 

pazzo, urlerò… Eccola. Eccola. È  lei. È sola. Non è giovanis‐

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sima, neppure  tanto bella, ma è davvero  sola. Bene. Cara, 

che  fortuna esserci  incontrati. Ora non  ti mollo più. Ti  se‐

guo, imparo a conoscerti. Uhm, da come muovi i fianchi non 

devi essere poi così male, a  letto. Poco curata, certo, ma a 

vestirti a dovere ci penserò  io, non ti preoccupare.  I capelli 

sono discreti, più che discreti,  lisci e  fini come piacciono a 

me, e un  taglio  come  si deve  te  lo  farò  io, dammi  tempo. 

 

Seguendo  la  scia  degli  altri  clienti,  sono  arrivata  quasi 

senza  accorgermene  alla  zona  dei  tavoli.  Finalmente  ho 

qualcosa di concreto da fare: cercare  il tavolino della mi‐

sura e del colore giusto, decidere se quello che preferisco 

(l’ho  già  visto  sul  catalogo, ma questi mobili  non  fanno 

mai  la  stessa  impressione,  dal  vero)  vale  il  suo  prezzo 

modesto, segnare  sul  fogliettino con  la matitina  il nome 

assurdo  e  impronunciabile  che  sicuramente  gli  avranno 

appioppato, e poi andare a ritirarmelo sugli scaffali, paga‐

re (la coda alla cassa è un altro momento doloroso e  ine‐

vitabile  di  confronto  con  il  resto  dell’umanità)  e  tornar‐

mene al più presto a casa. Ma poi alzo un attimo gli occhi 

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e  vedo  lui. Uno.  Solo.  Si  aggira  come me  alla  ricerca  di 

chissà che cosa. Ma sì, cercherà un tavolino anche  lui, vi‐

sto che è qui. È un uomo piacevole: magro ma muscoloso, 

portamento  deciso,  occhiali,  capelli  ormai  più  grigi  che 

neri,  vestito  con  gli  stessi  jeans  e  la  stessa maglietta  di 

quasi  tutti gli altri  clienti, me  compresa. Chissà  che  ci  fa 

qui, da solo. Faccio anch’io come tutti gli altri: cerco con 

lo  sguardo nei dintorni qualche donna  che  forse  si è at‐

tardata a provare un divano o un materasso e che ora  lo 

raggiungerà  un  po’  affannata,  con  la matitina  in mano, 

pronta  a  segnare  il  nome  impronunciabile  sul  foglietto 

che avrà  lui, nella tasca dei pantaloni. Ma non arriva nes‐

suna donna e nessun bambino a  tirarlo per  la maglietta. 

Resta solo, come sono sola io, a girare tra i tavolini. Forse 

è separato e deve comprare  i mobili per  il suo nuovo pic‐

colo  appartamento,  dove  vivrà  da  solo  per  poco.  Forse 

non si è mai sposato, come non mi sono mai sposata  io, 

perché…  chissà  perché.  Continuo  a  fissarlo,  non  posso 

farne a meno. E la mia maledetta fantasia parte in quarta. 

Comincia a farmi i soliti brutti scherzi. 

 

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Ai  tavoli, ecco dove voleva arrivare  la mia piccolina. Uhm, 

un tavolo è un mobile proprio sexy, per chi sa cos’è il sesso. 

E noi due  lo sappiamo bene, vero cara? Noi sappiamo bene 

cosa  farci  su  quel  tavolino  che  sceglieremo  insieme,  che 

comprerai,  e  che  io, da  gentiluomo,  ti  aiuterò  a montare. 

 

Quasi  senza  accorgermene  cammino  verso  di  lui,  e  mi 

rendo  conto  che  anche  lui  mi  sta  guardando. 

 

Bene, mi hai già notato. 

 

Forse l’ho fissato troppo a lungo, ignorando i mobili che si 

suppone io sia qui a selezionare, e si starà chiedendo per‐

ché, cosa vuole questa seccatrice. 

 

Mi stai guardando, ti piaccio eh? 

 

Ma poi vedo  che non mi  sta osservando  con  irritazione, 

piuttosto con interesse. 

 

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Non aspettavi che me, dillo.  

Bambino mio, non sai che cosa ti riserva il futuro. Davvero 

non lo immagini. 

 

Non credo ai miei occhi, è stato perfino più facile del previ‐

sto. 

 

Lui continua a guardarmi e  io continuo a fissarlo e, se ho 

visto bene, ecco, sì, mi ha proprio sorriso. Ci siamo. Caro, 

oggi per te è un grande giorno, finalmente arriva la donna 

del destino. 

 

Eccola, si avvicina, mentre io le sorrido come uno stupido e 

resto immobile, col cuore in gola, vicino al tavolo Brmestck 

color ciliegio, 100X180.  

 

Bravo, bravo, fermati lì: quel tavolino è perfetto. Il sangue 

è bellissimo, sul legno color ciliegio. 

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IO TI CONOSCO 

 

 

 

 

Ore 11.35 

La  signora  Lucy  Anderson,  di  anni  quarantasette,  viene 

legata al lettino e preparata all’iniezione letale. Indossa la 

speciale  tuta blu e piange silenziosamente, mentre gli a‐

genti  la  sistemano  in  posizione  e  le  scoprono  il  braccio 

destro.  Finito  il  suo  lavoro,  la  squadra  esce.  Allora  una 

bambina  molto  piccola,  bionda,  entra  saltellando  nella 

stanza e  si avvicina alla barella. Cerca di  toccare  il  volto 

della donna, ma  la signora Anderson si gira per sfuggirle, 

ed  emette  un  grido  soffocato.  La  bambina  si  arrampica 

sulla scaletta e sul  lettino e accosta  la bocca all’orecchio 

della condannata. 

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Madre,  io ti conosco. Perché dal tuo sangue più oscuro  fui 

generata e perché, per me ancora non nata, il ritmo del tuo 

cuore  è  stato  voce  misteriosa  di  ogni  alterità,  musica 

dell’universo. 

 

 

Ore 11.42 

Viene  aperta  la  tenda  che  nascondeva  la  condannata  al 

pubblico.  In prima fila a destra ci sono  l’avvocato di Lucy 

Anderson,  la  sorella, Anne Anderson,  e  il  reverendo Mi‐

chael,  che  muove  le  labbra  pregando.  A  sinistra  c’è  la 

bambina bionda con i codini che punta l’indice verso il ve‐

tro e canta a squarciagola.  

Madre,  io ti conosco. Mi hai tenuta nascosta per vent’anni, 

coperta, negata, custodita, morta e non silenziosa, dentro 

una culla di legno di cedro, dentro l’utero assurdo di un ar‐

madio. 

 

 

Ore 11.45 

Nella stanza entra l’infermiera a inserire la flebo che serve 

per tenere la vena aperta e pronta a ricevere i farmaci le‐

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tali.  La  signora  Anderson  sembra  seguire  con  gli  occhi 

qualche ombra in movimento, suda, si agita come può sul 

lettino e urla: “Basta, basta. Ti prego vai via, voglio stare 

sola!”. L’infermiera, finito il suo lavoro, si affretta a uscire, 

e tuttavia Lucy non si calma, continua a implorare di esse‐

re lasciata a se stessa. 

Sono morta a tre anni, soffocata dalla tua paura, dalla disi‐

stima, percossa da una rabbia sepolta troppo a lungo, figlia 

di altre violenze, di altri giorni. Sono morta a tre anni, tu mi 

hai uccisa. 

 

 

Ore 11.50 

Il medico  prepara  e  controlla  il  corretto  funzionamento 

delle  tre  siringhe  che devono  iniettare  a  Lucy Anderson 

l’anestetico,  il miorilassante che  la soffocherà e  il cloruro 

di potassio che  fermerà  il suo cuore.  Intanto  la bambina 

bionda, con un vestitino  rosso,  sale  su una  sedia e  salta 

giù, sale su una sedia e salta giù… 

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Ti ho chiamato, madre, per vent’anni. Nemmeno una notte 

di silenzio ti ho concesso. Dietro al tuo  letto, nell’armadio, 

cantavo filastrocche, giocavo i giorni che mi avete tolto. 

 

 

Ore 11.59 

Il direttore riceve  la telefonata che autorizza  l’inizio della 

procedura.  I  due  volontari  si  preparano  a  premere  con‐

temporaneamente  il  pulsante  che metterà  in  azione  la 

macchina e spingerà  i farmaci nel tubo e nella vena della 

condannata. La signora Anderson non si agita e non pian‐

ge più. La bambina bionda si è sdraiata sopra di  lei, le ac‐

carezza  i  capelli  e  canticchia  una  filastrocca  sorridendo. 

Lucy Anderson  sorride a  sua volta, guardando davanti a 

sé. 

Quando è venuta da noi  la polizia, difendevi  l’armadio e  io 

gridavo: madre, ti prego,  fammi uscire. Devo nascere, ora, 

per morire. 

Il pubblico guarda con  il  fiato sospeso  l’orologio appeso 

alla  parete,  proprio  dietro  la  barella.  La  lancetta  dei  se‐

condi gira sempre più inesorabile. La sorella della signora 

Anderson fa “ciao” con  la mano, ma Lucy non guarda ol‐

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tre il vetro. Continua a guardare davanti a sé, e a sorride‐

re. 

 

 

Ore 12.05 

La procedura è stata correttamente eseguita.  

Madre,  io ti conosco. Perché dal tuo sangue più oscuro  fui 

generata e perché, per me ancora non nata, il ritmo del tuo 

cuore  è  stato  voce  misteriosa  di  ogni  alterità,  musica 

dell’universo. 

Il medico costata il decesso della detenuta. 

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COMPAGNI DI SCUOLA 

 

 

 

 

È  ottobre, ma  le  serate  sono  ancora  limpide  e  tiepide, 

quest’anno. Non era così quando andavamo a scuola: mi 

ricordo che portavo già il cappotto e i maglioni pesanti, di 

questi tempi. 

Nella strada davanti alla villetta della Chiara Marani ci so‐

no  parecchie macchine  parcheggiate  e  anche  lo  spazio 

davanti al  suo garage è pieno: ci  siamo proprio  tutti, mi 

sa.  

Suono  e  sono  un  po’  imbarazzata.  Come  sarà  rivedersi 

dopo  più  di  vent’anni?  Saremo  diventati  grassi,  brutti, 

vecchi? Mi riconosceranno ancora?  

«Ciao, Penelope! Come stai tesoro? Ma sai che non sei af‐

fatto cambiata!». 

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Sorrido con riconoscenza e abbraccio Chiara; in un attimo 

vengo sommersa da decine di quarantenni un po’ bolsi e a 

volte calvi, che conservano però miracolosamente tutti la 

faccia  diciottenne  dei miei  compagni  di  classe  del  liceo. 

Quasi mi commuovo, avevo paura di questo momento e 

invece no,  in fondo è bello ritrovarsi. Malgrado tutto. Ho 

rinnegato il mio passato, ho voluto dimenticare il brutto e 

il bello di quegli anni. E ora qui, in mezzo a questi che do‐

po vent’anni non sono affatto degli sconosciuti, mi sciol‐

go e lascio riaffiorare con violenza i ricordi e i sentimenti. 

Torno indietro nel tempo: neppure io sono cambiata. 

Chiara ha una bella  casa,  colorata, non  troppo ordinata: 

anche  lei è rimasta quella di allora, generosa, estroversa. 

L’idea di questo raduno è stata sua, è  lei che ha avuto  la 

costanza  di  ricercare  tutti,  convincere  gli  indecisi,  orga‐

nizzare. Ed eccoci qui.  

Seduti sul divano marrone, un po’ sformato ma comodo, 

beviamo l’aperitivo che ha preparato Chiara e ci perdiamo 

in discorsi che oscillano continuamente tra il presente e il 

passato: ma tu che fai adesso, ma ti ricordi, dove abiti, che 

figura quella volta, sei sposata, figli? E la gita a Roma! 

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Rido di qualsiasi cosa, anche a sproposito, e mi guardo in‐

torno. Ci sono tutti davvero. Quasi tutti. Anche Giulio, Fe‐

derica, Andrea e  Francesco.  Incrocio qualche  sguardo di 

troppo, con loro. Ma è normale, erano i miei migliori ami‐

ci, ed è tanto che non ci parliamo più. Non sappiamo più 

niente  l’uno dell’altro:  cosa  siamo diventati,  cosa  ci è  ri‐

masto di quei tempi?  

Giulio a un certo punto si alza, va a prendere una mancia‐

ta di patatine sul tavolo e poi viene da me, mi si siede di 

fianco e mi mette una mano attorno alle spalle: «Penelo‐

pe. Madonna, non mi sembra vero. Sono così contento di 

rivederti», e mi dà un bacio sulla guancia.  

«Anch’io Giulio, anch’io sono contenta» vorrei rispondere, 

ma  poi mi  sale  un  groppo  in  gola,  inquietudine mista  a 

commozione, e devo tacere. Appoggio la testa sulla spalla 

di Giulio, così,  solo per un attimo. Noto che Federica mi 

guarda fissa, ma appena provo  io a cercarle gli occhi, ab‐

bassa di colpo lo sguardo.  

«Ci  siamo proprio  tutti, eh? Un applauso alla Marani che 

dopo vent’anni è riuscita nell’impresa di farci incontrare di 

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nuovo!». «Sì! Brava!». Tutti gridano e applaudono Chiara, 

che si ferma solo un momento, arrossisce e poi riprende a 

girare vorticosamente tra noi,  il tavolo e  la cucina, distri‐

buendo sorrisi, bevande e stuzzichini. 

«Manca solo Alex» dice Giulio a mezza voce e poi si blocca 

subito,  come  se  quella  frase  gli  fosse  venuta  fuori  suo 

malgrado. Si guarda intorno un po’ spaventato, sperando 

che nessuno ci abbia fatto caso. Invece l’abbiamo sentito 

tutti, e di colpo scende un silenzio forse triste, forse solo 

imbarazzato. Chiara sospira: «Povero Alex» e  tutti  la  imi‐

tano:  povero,  sì,  che  disgrazia  tremenda,  quando  ci  pen‐

so…  Federica  è  impallidita,  guarda  Giulio  e  guarda me 

senza dire nulla. Andrea, che è seduto vicino a  lei,  la ab‐

braccia  come  per  consolarla,  o  per  trattenerla.  Capisco 

che  stanno  ancora  insieme,  come  ai  tempi  della  scuola; 

anzi, credo siano sposati, portano entrambi la fede al dito. 

Francesco,  che  era  seduto  su  una  sedia  dall’altra  parte 

della sala e chiacchierava con un gruppo di ex‐compagni, 

si alza e si avvicina con strana decisione a Giulio e a me; gi‐

ra attorno al divano, si ferma  in piedi alle nostre spalle e, 

non appena finisce  la commemorazione di Alex e  la con‐

versazione  ricomincia, prende Giulio per un braccio e gli 

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sussurra qualcosa nell’orecchio. Giulio si alza: «Andiamo in 

giardino  a  fumarci  una  sigaretta» mi  dice,  e  io  li  seguo 

fuori.  

«Ma che ti è saltato in testa?» sussurra Francesco a Giulio, 

tenendolo per  la maglia e puntandogli addosso  la fronte, 

minaccioso. Giulio fa di no, cerca di divincolarsi: «Ti giuro, 

non  l’ho fatto apposta. Mi è venuto così, all’improvviso». 

Francesco diventa ancora più rabbioso, prende Giulio per 

le spalle, lo scuote. Alza di poco la voce, perché non vuole 

che da dentro lo sentano, ma parla a scatti, con violenza: 

«Ma allora sei scemo, eh? Che vuol dire che non l’hai fatto 

apposta? Quel nome non  lo voglio sentire, mai più. Chiu‐

so, finito. Mi sono spiegato?». 

Mi faccio avanti. Non mi hanno ancora vista, la mia voce li 

fa  sobbalzare: «Basta Francesco,  lascialo  stare. Ha detto 

che non l’ha fatto apposta, chiudetela qui per favore». Mi 

insinuo tra di  loro e  li separo, ma ancora si guardano con 

cattiveria e dolore. 

Escono  anche Andrea  e  Federica:  «Che  succede? Perché 

siete venuti tutti qua fuori?». 

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«Questo stronzo ha sentito  il nome di Alex e se  l’è  fatta 

sotto» borbotta Giulio passandosi una mano sulla testa. 

«Tu sei lo stronzo, che non riesci a tenere la bocca chiusa 

nemmeno per un quarto d’ora! Il povero Alex, manca solo 

lui… Cristo!» sbotta Francesco e sta per rimettergli le ma‐

ni addosso, ma Andrea lo abbraccia e cerca di calmarlo: 

«Dài, su, non litigate per così poco. Venite qua, fumiamoci 

una sigaretta per davvero». Ci guida verso alcune sedie di 

plastica che sono  rimaste  in giardino, sul prato. Ci sedia‐

mo e Federica  fa passare un pacchetto di sigarette e un 

accendino.  Francesco  accetta,  io  no:  «Non  fumo  più  da 

dieci anni». «Nemmeno io» aggiunge Giulio. 

«Bravi,  avete  smesso  di  avvelenarvi  con  queste  vigliac‐

che» approva Andrea mentre se ne accende una, e aspira 

la prima boccata con palese soddisfazione. 

«Federica, Andrea:  state  ancora  insieme? Vi  siete  sposa‐

ti?». 

Federica accenna di sì, sorridendo: «Eh, alla fine me la so‐

no presa  in casa, questa palla al piede. E chi se ne  libera 

più,  ormai?».  Ridiamo  tutti  e  Andrea  finge  di  allungarle 

uno  schiaffo, per  farla  tacere, mentre  sorride  anche  lui, 

soddisfatto e intenerito. 

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