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Il mondo dei numerii numeri del mondo

piccola conferenza conFurio Honsell

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© maggio 2011 Scuola Bertolini Portogruaro Area della ricerca metodologico/didattica

Pubblicazione a cura di Daniele DazzanScelta dei materiali di approfondimento:

Daniele Dazzan, Daniela GrilloLe illustrazioni dei ragazzi sono state realizzate

sotto la guida di Mariagrazia Viterbo

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Piccole conferenze per grandi incontri

Non un “festival della fi losofi a” o della matematica in piccolo (e tuttavia non sono estranee le recenti sollecitazioni della Phi-losophy for children), ma un “festival” della scuola che incontra Grandi Maestri, disponibili a far circolare dentro la scuola stessa le loro idee e capaci di rivolgersi a un pubblico di ragazzi.

Una proposta culturale nata dentro la scuola, non preconfezio-nata all’esterno di essa: gli insegnanti restano i proponenti, i co-ordinatori, gli artefi ci dell’iniziativa, e mettono in circolo le loro competenze disciplinari e il loro impegno transdisciplinare per la ricostruzione della rete di relazioni che coinvolge il mondo della conoscenza.

La collocazione delle “Piccole conferenze” nel Teatro Comuna-le Luigi Russolo, reso disponibile dall’Amministrazione di Porto-gruaro, sottolinea la partecipazione convinta dell’istituzione pub-blica a un progetto di rivisitazione critica dei saperi tradizionali e di approfondimento dei nuovi saperi emergenti: il teatro della città si conferma teatro delle idee e luogo di incontro tra scuola e società civile.

La compartecipazione di una grande realtà produttiva del ter-ritorio al progetto si confi gura, infi ne, come ulteriore presenza signifi cativa nella positiva, sinergica “triangolazione” delle forze vive messe in gioco, tutte interessate alla crescita culturale e alla costruzione del benessere collettivo: il mondo della scuola, l’am-ministrazione pubblica, il mondo del lavoro e della produzione.

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Questo di oggi è già il quarto appuntamento del progetto “Piccole Conferenze” promosso dalla Scuola Bertolini. Nel primo abbiamo parlato di musica e cervello, nel secondo della storia del popolo armeno, nel terzo abbiamo incon-trato il nostro Risorgimento attraverso la scrittura di poeti e letterati... Oggi siamo qui a parlare di numeri, della mate-matica, e di tutto quello che i numeri rappresentano per noi dentro e fuori la scuola. Lo facciamo con un ospite d’ecce-zione: il professor Furio Honsell. Già rettore dell’Università di Udine, attualmente sindaco della stessa città, il professor Honsell è sicuramente noto a tutti per le sue simpatiche partecipazioni alla trasmissione “Che tempo che fa” di Fa-bio Fazio.

Perché i numeri?Perché attraverso questi nostri incontri cerchiamo di trat-

tare i vari temi che fanno parte delle discipline scolastiche, ma soprattutto gli aspetti delle varie discipline che mettono in luce la loro trasversalità, e quindi le loro implicazioni ai vari livelli della realtà.

I numeri non sono solo patrimonio della matematica. I numeri sono tutto quello che ci circonda... Il contare, il nu-merare... Da sempre questo mondo ha affascinato, creando certo anche ansie e paure, come in tanta parte degli studen-

Presentazionedi Daniela Giovanna Villotta, Dirigente scolastico

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ti che vedono la matematica come una materia da temere.Credo saranno molte le domande di oggi, e numerose

quelle che il professore susciterà con il suo intervento. Al-cune vengono molto spontanee: abbiamo sempre contato? tutti i popoli hanno il concetto di uno, due, tre, quattro...? un paio di scarpe e una coppia di pappagalli sono proprio la stessa cosa?

Ecco: sono quelle curiosità che spesso ci siamo posti, ma-gari casualmente, e che senz’altro si sono arricchite con il lavoro di preparazione per questo incontro: so infatti che i ragazzi delle undici terze classi delle nostre quattro sedi (Summaga, Lugugnana, Pascoli e Centrale) hanno lavora-to con i loro insegnanti in vista di questo appuntamento e continueranno poi a rielaborare le informazioni e i concetti che verranno oggi illustrati.

Do il mio benvenuto agli studenti del liceo “XXV aprile” che hanno accolto il nostro invito e sono presenti oggi in gran numero assieme ai loro insegnanti. Ringrazio i docenti della scuola che hanno lavorato e che ci seguono in questa iniziativa, i genitori che ci sostengono e tutto il pubblico che oggi ha voluto essere qui con noi. Credo di dovere tut-tavia un ringraziamento particolare ai due nostri sostenito-ri principali: l’Amministrazione Comunale, rappresentata oggi dall’assessore all’istruzione Prof. Ivo Simonella; e il Centro Commerciale Adriatico 2-Carrefour, rappresentato qui dal suo direttore, il dott. Fernando Di Dario, e dal suo presidente, il sig. Bolzicco.

Mi auguro che anche questo incontro provochi l’interes-se che hanno stimolato tutti gli altri: l’obiettivo che noi ci proponiamo con questa iniziativa - e mi piace ripetermi - è quello di contribuire a fare dei nostri ragazzi dei “cittadini dal palato raffi nato”, cioè dei cittadini che sappiano sceglie-re per sé, nella molteplicità di proposte che la nostra società offre, quello che vale ed è buono, e che nelle cose sappiano distinguere la buona dalla cattiva qualità.

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Salutodell’assessore all’istruzione dott. Ivo Simonella

Buongiorno ragazzi, buongiorno a tutti!Io vi porto naturalmente il saluto dell’amministrazione

comunale di Portogruaro e ringrazio tutti quelli che hanno lavorato per organizzare queste “Piccole Conferenze”. Ma in particolare ringrazio il Prof. Furio Honsell, che ha accet-tato di venire nella nostra città: sappiamo che un sindaco è solitamente molto impegnato, per cui è davvero grande il grazie che gli rivolgo per la sua disponibilità. Ormai il Prof. Honsell è quasi una presenza abituale a Portogruaro: l’ul-tima volta - lo voglio ricordare a tutti i ragazzi presenti - è venuto lo scorso autunno per ricordare il partigiano por-togruarese Mario Cesca, morto a Udine trucidato nel 1944.

Voglio dirvi due cose veloci.Questa è la quarta conferenza che organizziamo assieme

alla Scuola Bertolini in questo teatro; a maggio ne avrete un’altra, nel contesto delle iniziative per il centocinquante-simo anniversario dell’Unità d’Italia, alla quale penso sarà presente l’assessore alla cultura: prendo pertanto l’ultima occasione che ho di avervi tutti qui davanti per ricordar-vi che è il vostro ultimo anno di scuola media. È un anno importante, e questa è un’iniziativa che vi arricchisce ul-teriormente. Mi racomando: chiudete bene quest’anno. Mi auguro che le scelte che avete e che abbiamo fatto (anch’io

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sono genitore di un ragazzo di terza media) siano scelte giuste, importanti, che vi diano soddisfazione. Il prossimo anno inizierete la scuola superiore: lì inizia il percorso che vi porterà a fare delle scelte di indirizzo, che saranno deter-minanti per il vostro futuro: Datevi da fare in questo ultimo periodo di anno scolastico!

Con l’occasione saluto anche tutti gli insegnanti qui presenti, augurando anche a loro una buona conclusione dell’anno scolastico. Quando un anno fi nisce, si spera che quello dopo sia sempre meglio: purtroppo da un decennio a questa parte le speranze vengono puntualmnente delu-se. Tuttavia tutti quanti dobbiamo darci da fare, famiglie, scuola e istituzioni, per alimentare la scuola pubblica: e iniziative come questa dimostrano che la scuola pubblica è viva. Nei momenti di crisi i Paesi seri sostengono di più la scuola, poiché la cultura e la conoscenza sono indispensabi-li per superare le diffi coltà. In Italia così non è: auguriamoci che, assieme, si riesca a far capire che la cultura e che la scuola pubblica sono fondamentali.

Buona conferenza a tutti, dunque, e tanti auguri alla scuola pubblica.

Grazie.

Figura estratta da Harmonicorum Libri XII di Marin Mersenne del 1648

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Salutodel direttore del Centro Commerciale “Adriatico”.

Buongiorno a tutti voi.Io sono contento. Ma lo dico sul serio, perché una volta

tanto non parliamo - e non vuol essere una metafora la mia, Professore - di tre per due, di sottocosto o di promozioni!

Il Centro commerciale non è solo shopping. Questa è la dimostrazione pratica che il centro commerciale (assieme a Carrefour: qui parlo anche a nome del Presidente dell’as-sociazione che purtroppo è dovuto andar via) è soprattutto valorizzazione del territorio, è supporto, è cultura, è spet-tacolo. Io penso che questa sia un’occasione unica per tutti. Noi con le scuole siamo abituati a lavorare, e la Dirigente qui presente lo può confermare: penso infatti che questo sia un percorso d’obbligo per tutti noi.

È un’iniziativa per voi studenti, ma anche per chi ormai ha fi nito gli studi o comunque sta per terminarli. Approfi t-tate di questa circostanza, di questa opportunità che viene data attraverso l’Amministrazione comunale, la Scuola e gli insegnanti: anche perché - torno a ripetere - i primi par-tecipanti e protagonisti siete proprio voi.

Per cui: buona conferenza e buon ascolto.

Fernando Di DarioManager Société Des Centres Commerciaux Italia Servizi S.r.l.

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Professore di Informatica, padre di due fi gli, è nato a Genova nel 1958. Si è laureato in Matematica presso la Scuola Normale Superio-re di Pisa nel 1983. Ha lavorato presso il Dipartimento di Informati-ca dell’Università di Torino, presso la Edinburgh University e presso l’Università di Udine dove ha diretto il Centro di Calcolo e il Dipar-timento di Matematica e Informatica. Sempre a Udine è stato Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali e dal 2001 al 2008 è stato Rettore dell’Università. Dal 2001 al 2010 è stato presiden-te del Parco Scientifi co e Tecnologico di Udine ed è stato vicepresidente dell’Associazione nazionale per la promozione della ricerca europea. È presidente di “Giona”, associazione nazionale città in gioco, e dal 2010 anche vicepresidente della rete “Città sane”. Dal 2009 cura la rubrica “Matepratica” sul mensile Wired.

Dal 2008 è Sindaco del Comune di Udine per il centrosinistra. È stato professore presso la Stanford University e l’École Normale Supérieure di Parigi; responsabile di vari progetti scientifi ci dell’Unione Europea, è coordinatore di progetti di collaborazione con istituzioni scientifi che dell’India. È Membro dell’”editorial board” della rivista Mathematical Structures in Computer Science.

Autore di oltre 50 pubblicazioni scientifi che su teoria degli iperin-siemi non ben fondati, modelli e teorie del lambda calcolo, logical fra-meworks, lambda calcoli di oggetti, logiche dei programmi.

Nel 2007 ha pubblicato L’algoritmo del parcheggio sulla mate-matica nella vita quotidiana e nel 2009, con Giorgio T. Bagni, Curiosi-tà e divertimenti con i numeri.

Furio Honsell

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Avvioa cura di Daniele Dazzan

I numeri ci avvolgono (qualche volta ci perseguitano e mettono a dura prova la nostra memoria).

Siamo sommersi dai numeri.Noi stessi molto spesso diamo i numeri.Oppure altri li danno a noi: - Chiamami al cellulare. Ti

lascio il numero!Ce li danno perfi no in sogno, e allora il “morto che parla

fa 48...”.Qualche tempo fa si affermava con convinzione che “l’uno

è l’origine di tutte le cose...”Effettivamente, anche nella famosa poesia di Trilussa co-

stui si dava una certa importanza e, con falsa modestia...

- Conterò poco, è vero:- diceva l’Uno ar Zero -ma tu che vali? Gnente: propio gnente.Sia ne l’azzione come ner pensierorimani un coso voto e inconcrudente.Io, invece, se me metto a capofi lade cinque zeri tale e quale a te,lo sai quanto divento? Centomila.È questione de nummeri. A un dipressoè quello che succede ar dittatore

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che cresce de potenza e de valorepiù so’ li zeri che je vanno appresso.

Insomma: ci dicono che la matematica è importante, che è importante “giocare bene i propri numeri”; che chi “ha dei numeri” deve tirarli fuori...

Circola l’idea che non sia disdicevole “essere una perso-na quadrata” (ma qui entriamo nel territorio della geome-tria), mentre “essere un numero” può risultare divertente per gli altri, ma poco serio per chi lo è...

Poi: non c’è due senza tre!E per contare bisogna valere...Insomma la nostra comunicazione quotidiana gira in

continuazione attorno ai numeri, a numeri comuni - come una dozzina di uova - e a numeri speciali; a numeri interi e a numeri a pezzi; a pi greci e aurei, fratti e radicali, a con-getture e postulati...

Ogni politico, poi, ci inonda con le sue cifre sicuro con ciò di dare una parvenza di inoppugnabile verità a quanto di volta in volta va affermando...

Ci hanno anche insegnato che non è possibile imparare la matematica in quattro e quattr’otto...

Ma, a proposito di dare i numeri, tra coloro che li danno più di tutti ci sono forse i professori di matematica, come nello sketch video con il quale incominciamo questo appun-tamento con il prof. Honsell, e nel quale, sul fi lo di un ragio-namento in apparenza assolutamente rigoroso, si insinua il virus che provoca il corto circuito dell’umorismo.

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Il mondo dei numerii numeri del mondo

Buongiorno a tutti voi, è un privilegio per me essere qui a parlare, quindi innanzitutto vi dico buongiorno!

Userò il computer essenzialmente come lavagna. Il van-taggio è che con questa lavagna digitale... - vedete? - se devo cancellare, usare la gomma, poi non occorre che soffi gli inevitabili piccoli frammenti... quindi diciamo che è una lavagna che ha i suoi vantaggi!

Sono venuto qui certamente per parlarvi di matematica, ma anche per ascoltare le vostre domande. Non so come vi siate organizzati, e so che è diffi cile fare delle domande. Però sappiate che se voi fate una domanda mi fate molto contento. Al momento sono anche un po’ abbagliato, quindi non vedo il vostro volto, non vedo quanto seguiate e quan-to non vi divertiate. Pertanto, se ogni tanto mi fate qualche domanda, fate uno sforzo che certamente sarà prezioso per voi e per tutti...

Questo è il primo grande insegnamento: porsi delle do-mande. Quando qualcuno vi racconta qualcosa, cercate sem-pre di problematizzarlo: il divertente, la vera sfi da non è l’erudizione, non è la conoscenza, ma è la voglia di porsi dei problemi. Anche nella matematica le questioni risolte sono le meno divertenti, sono quelle che ormai hanno perso tutto il loro fascino. Cercate invece di essere sempre, come dire,

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curiosi! Ci vuole curiosità, ed è necessario porre domande.Questa mattina io sono andato al mercato... Voi direte: - Non ce ne importa granché!Sì: è vero, però io ho preso per voi questo cavolo. Certo

non immaginavo di essere così lontano da voi. Ma è un bel cavolo, dove si vedono tante spirali. Poi ho preso, lì vicino, anche due carciofi . Anche le foglie del carciofo sono a spi-rali. Sotto un albero ho invece raccolto una pigna: e anche qui si vedono tante spirali...

Uno come può comportarsi? Beh, potrebbe dire che non gliene importa nulla, potrebbe dire:

-Mamma mia che complicato, che confusione...! Oppure potrebbe incominciare a leggere una certa geometria den-tro queste cose.

Se andate a vedere con curiosità, e in qualche modo cer-cate di trovare un senso, scoprirete che c’è un ordine vera-mente molto molto preciso.

Quasi tutti questi frutti - ce ne sono anche altri, come per esempio la buccia dell’ananas - hanno tutti la loro ge-ometria. Ci sono delle eliche, delle spirali... Se li guardate dall’alto vedete appunto che le scaglie fanno tutte una sorta di spirale: in un senso, ma anche nell’altro. Cercate di con-tarle: scoprirete con vostra grande sorpresa, credo, che i nu-meri sono gli stessi qualunque cavolo prendiate o qualun-que carciofo abbiate tra le mani (è vero che a volte i carciofi sono un tantino rovinati, quindi qualche foglia si è perduta; così come qualche scaglia di pigna se n’è andata...).

Il numero di queste spirali è il medesimo in tutti queste diverse specie vegetali. E sapete quali sono questi numeri?

Sono dei numeri che appartengono ad una serie, nota come serie di Fibonacci, che viene generata nel modo che se-gue.

Si parte da due numeri, 1,1...; poi, per ottenere il terzo numero, si procede sommando i due precedenti: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21...

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Il mondo dei numeri - i numeri del mondo

Quasi sempre troverete che le spirali più verticali sono tredici, mentre quelle che invece vanno nell’altro senso, in senso antiorario, sono otto!

Ma come è possibile?Questi sono dei numeri che abbiamo trovato in oggetti

assolutamente naturali con la curiosità di riconoscere una forma, con la curiosità di andare poi a vedere e a contare. Vi invito, la prossima volta al mercato, sabato no, il sabato mattina voi poveretti dovete andare tutti a scuola. Però ma-gari, un giorno di vacanza, un giorno in cui non c’è scuola, andate al mercato o andate in un negozio... Mi è capitato spesso, al mercato.

- Scusi, dico al signore del banchetto ambulante, mi fa contare le spirali...?

La prima volta mi prese per matto. - Ma vada via! - Ma guardi che io sono il sindaco, sa? - Ah, beh, allora... A questo punto me lo concesse: ma sicuramente avrà

pensato che certi individui - i matematici - non sono sempre del tutto a posto...

Bene: i cavoli di Fibonacci sono un esempio di come la matematica sia presente nella realtà. C’è sempre un residuo matematico in tutte le cose, ed è estremamente divertente scoprirlo.

Ma voi mi direte: perchè la successione di Fibonacci?Beh, guardate, la successione di Fibonacci perchè questi

sono proprio i numeri che si presentano sotto i nostri occhi. Certamente la teoria che giustifi ca “perché” vengano fuori questi numeri e non altri è un po’ complessa: non è che ve la possa raccontare adesso. Inoltre, come tutte le teorie, non è conclusiva. C’è un ragionamento, e questo è un dato di fatto... Sull’interpretazione del perchè possiamo discutere a lungo, e tuttavia il perché dipende essenzialmente da quan-to dirò.

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Quando nel germoglio si formano tutte queste gemme (ma lo stesso vale anche per i petali: contateli!), ciascuna di queste vuole un po’ di spazio per se stessa, e spinge via le altre. Vi sono dunque delle secrezioni in qualche modo en-zimatiche, vi sono delle inevitabili mancanze di luce perché di volta in volta quel petalo o quella foglia o quell’infi ore-scenza oscurano l’altra... Alla fi ne si raggiunge un equili-brio che è quello che porta a far sì che ciascuna cacci via le altre quanto più è possibile.

Ebbene: questa disposizione uno alla fi ne può anche rap-presentarla matematicamente in un modello, e tale modello porta precisamente a questi numeri!

Nonostante i numeri del mondo siano anche numeri molto più grandi di questi, qui è anche curioso che abbia-mo a che fare con numeri piccoli, e tuttavia così frequenti.

Un’altra cosa da guardare, quando andate in giro, sono tutti gli oggetti, le cose che presentano delle spirali.

Per esempio le conchiglie. Ecco, qui ho portato due con-chiglie. Quando andate al mare, vi consiglio di farlo: passeg-giate romanticamente sul bagnasciuga ma prendete anche in mano una conchiglia, e oltre a dire “Che bella! “provate anche a chiedervi da che parte giri la sua “elica”.

In queste due conchiglie in un caso l’elica gira in senso destrorso, nell’altro in senso opposto! Quale orientamento avranno le spirali delle conchiglie delle nostre spiagge? Ve lo siete mai chiesto?

Cari ragazzi, purtroppo quasi tutte quelle che è possi-bile trovare nelle nostre spiagge girano in senso destrorso! Quest’altra, che gira in senso opposto, l’ho trovata in India...

Ecco: se qualcuno vi vuol vendere una conchiglia rispon-dete: “Guardi, gliela compro se me la dà con spirale destror-sa”. Anche il povero venditore mostrerà una certa diffi coltà...

Potete osservare lo stesso fenomeno se andate in campa-gna e guardate i rampicanti: ma come si avvolgono i ram-

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Il mondo dei numeri - i numeri del mondo

picanti, queste piante infestanti, attorno agli alberi? Alcune compiono spirali sempre in un senso, altre nell’altro, altre ancora sono piuttosto disordinate e girano da entrambe le parti.

Vedete: queste realtà del mercato (gli ortaggi, la frutta...), che sembravano assolutamente banali, al di là delle somme in euro che dobbiamo pagare per acquistarle, sono interes-santi per i segreti matematici che nascondono e che si pos-sono poi osservare anche nelle conchiglie o nel modo in cui le stesse piante crescono.

Il mercato per me è una fonte inesauribile di curiosità matematiche: stamattina ci sono andato presto, verso le set-te, prima di venir qui; e poi sono andato anche ad un’altra manifestazione, dei donatori di sangue..., insomma ho fatto varie cose prima di arrivare da voi.

Un altro problema assolutamente matematico che c’è al mercato è per esempio quello relativo alla disposizione più possibilmente compatta delle arance. Al mercato si posso-no notare delle meravigliose piramidi di arance, ma voi po-tete anche immaginarvi altra frutta: delle mele per esempio (adesso non è più stagione di arance!).

Anche qui c’è sotto una matematica sofi sticatissima. C’è un problema, che si pose già Keplero: dimostrare che

il modo per impacchettare le arance nel sistema più com-patto possibile è precisamente quello che usa qualunque ambulante al mercato.

In realtà Keplero non riuscì a dimostrarlo. Questo è un problema ancora aperto: è una congettura.

Il modo di impacchettare le arance più compatto possi-bile è quello che usano gli ambulanti: ma non siamo ancora riusciti a dimostrare che questo sia effettivamente sempre vero. La dimostrazione è estremamente diffi cile: noi ne possediamo una, ma è talmente complessa che ancora non siamo riusciti a verifi carne tutti i passaggi.

Quando dico “noi”, intendo “noi matematici”...

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Però io vi invito a chiedere un giorno, sempre a quel po-vero disgraziato di ambulante che avete preso di mira, di lasciarvi giocare con le sue arance, e di provare a disporle in modo tale da fare una di quelle pile. Vedrete che non c’è un unico modo per metterle: in realtà i modi, anche se sembra-no tutti uguali, sono di fatto infi niti (“infi niti”, ovviamente, se uno immagina di avere tanti strati...).

L’idea qual è?Uno dispone il primo strato di arance. Quelle dopo le

mette sugli incavi e forma degli esagoni. Al terzo strato le arance potranno essere disposte esattamente nella stessa posizione del primo strato:

oppure in una disposizione corrispondente a quella del se-condo strato in rapporto al primo:

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Questo non è solo un problema matematico profondis-simo, visto che se lo pose addirittura Keplero (che forse conoscete: è lui che ha formulato le leggi sulle orbite dei nostri pianeti). È un problema assolutamente quotidiano, assolutamente naturale, che il più umile dei venditori am-bulanti riesce a risolvere perfettamente, ma che noi mate-matici ancora non riusciamo a dimostrare con certezza.

Ecco, molta della matematica è così: brillante, immedia-ta, diffi cile, eppure sotto gli occhi di tutti.

Quindi riuscire a riconoscerla ci rende la realtà più in-teressante. Ed ecco un altro aspetto della matematica che spesso viene trascurato.

Il ricordo che molti hanno della matematica imparata a scuola – e non per colpa degli insegnanti, che a mio avviso sono degli eroi, quanto piuttosto dei programmi che obbli-gano gli insegnanti a fare sempre gli stessi tipi di procedu-re – è spesso un ricordo di cosa noiosa o astratta. Io vi ho dimostrato che astratta assolutamente non è: le conchiglie, le pigne, i cavoli, le arance...

Ma la matematica è anche certamente molto divertente!Qual è l’attività più vicina alla matematica?La matematica è un gioco, un gioco dell’intelletto, dove

appunto l’aspetto intellettuale è preponderante rispetto al gioco. Però ci sono altre dimensioni dove si trovano giochi intellettuali con predominanza dell’aspetto giocoso. Uno di questi è l’ironia, la dimensione della battuta di spirito.

Il momento cognitivo più vicino a quello dell’intuizione matematica, di quando uno afferra qualcosa, è l’esperienza – comune – della comprensione di una battuta di spirito.

Ragazzi: pensate alle vostre battute, alle vostre ironie. Cercate di capire i perché.

Una delle battute che a me piacciono in modo partico-lare, e che penso descriva bene questo tipo di fenomeno, è la frase che viene attribuita al grande politologo Nicolò Machiavelli.

Machiavelli infatti, che era molto cinico come politico

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- non diversamente purtroppo dai tanti politici di oggi –, diceva che “il fi ne giustifi ca i mezzi”. Non ha importanza dunque, quali mezzi si usino: se abbiamo in mente uno sco-po nobile, possiamo anche permetterci strumenti poco con-divisibili per raggiungerlo.

Di lì passava tuttavia un matematico e diceva: - Ma... se il fi ne giustifi ca i mezzi..., il rozzo no!

Bene: avete colto il gioco. E infatti il rozzo che cosa giustifi ca? Ma giustifi cherà, in-

vece dei mezzi, i terzi, o i quarti!...!E, sull’onda dell’ironia, un altro potrebbe dire non tanto

che “ride bene chi ride ultimo”, bensì che “ride ultimo chi... ci arriva dopo”!

Proprio la scuola mi fa venire in mente un’altra battuta di spirito.

Bene, in un certo istituto scolastico c’era un attaccapanni con un cartello che recitava: “Riservato ai professori”. Un brillante studente di matematica, passando di lì ci aggiunse un altro cartello: “Serve anche per i cappotti”!

Il gioco, l’ironia, sta proprio nel capovolgere quella che è la consuetudine, tenendo presente che dal gioco intellet-tuale si può appunto passare, a seconda di dove si mette il peso, proprio a quel tipo di spiazzamento... Molto di ciò che riguarda la matematica è legato alla capacità di sposta-re la prospettiva.

Per esempio un problema matematico per me illuminan-te è quello che riguarda la disposizione di quattro punti sulla terra in modo che siano equidistanti l’uno dall’altro.

Uno inizia e dice: - Il primo lo disponiamo qui, il secondo a una certa di-

stanza dal primo, il terzo lo collochiamo in modo da forma-re un triangolo equilatero...

Quando viene il momento di mettere il quarto punto le cose sembrano complicarsi. Come fare a mantenere l’equi-distanza da tutti gli altri? Se anche lo collocassimo al cen-tro, esso manterrebbe l’equidistanza rispetto ai precedenti

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punti, ma quest’ultimi tra di loro rimarrebbero più lontani!Bisogna pensare “diverso”: chi ha mai detto che i quattro

punti devono giacere sullo stesso piano? Se il quarto punto è il vertice di un tetraedro regolare verrà soddisfatta piena-mente la richiesta iniziale! Siamo andati nella terza dimen-sione: ma nessuno aveva detto di non andarci.

Questo pensiero laterale, questo fare “la mossa del ca-vallo”, questo andare avanti ma anche fare uno scarto di lato come appunto il cavallo negli scacchi, è un altro degli elementi del pensiero matematico: è il perseguire – come nell’ironia – la razionalità portata all’estremo.

Si può naturalmente fare anche la satira del matematico, di colui che si “riconduce sempre al caso precedente”, come nel famoso aneddoto della pastasciutta.

Un tale chiede, appunto, a un matematico come si faccia la pastasciutta, e il matematico risponde:

-Mah, prendo l’acqua, la faccio bollire, dopo ci metto il sale, ci metto la pasta..., e dopo un po’, dopo dieci minuti, la pasta è pronta e la scolo!

- Ma supponga di avere già la pentola d’acqua bollente: come procede in questo caso?

Il matematico allora risponde: - Beh, svuoto l’acqua bollente nel lavandino, e mi ricon-

duco al caso precedente!È chiaro che si può facilmente fare dell’ironia: però è

proprio questa iper-razionalità che molto spesso conduce allo “spiazzamento”.

Io, forse non lo vedete, ho una cravatta. A proposito: ci sono ottantaquattro modi diversi di farsi

il nodo della cravatta. Io ne uso uno particolare a seconda della giornata: oggi ho usato un nodo St. Andrew... Dipen-de anche dallo spessore che voglio dare al nodo... (All’ar-gomento si può collegare la teoria dei nodi, che a sua volta è legata alla teoria del linguaggio: uno può descrivere ogni nodo come una parola che... Insomma: la mattina, se uno si

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lasciasse andare alle curiosità matematiche, non uscirebbe più di casa! Ogni atto può essere letto matematicamente. Mi ricordo quella volta che portai mia fi glia, per la prima volta, dal dentista. Il dentista le raccomandava un’attenta pulizia quotidiana, dalla radice alla punta. Io volevo naturalmente aiutare le raccomandazioni del medico e partecipavo con solerte impegno, tanto che chiesi al dentista:

- Ma, scusi dottore, da quale arcata deve iniziare, da quella superiore o da quella inferiore?

– Ma..., non so..., è indifferente...! - Come? – ripresi, – le sta insegnando l’algoritmo per la-

varsi i denti e trascura da quale arcata deve iniziare? Si rischia di fi nire come l’asino di Buridano che, avendo

molta fame e trovandosi esattamente a metà tra due muc-chi di fi eno, alla fi ne, non sapendo scegliere da quale fosse meglio cominciare, morì!

- Comunque io vorrei sapere... ecco... lei comincia da sot-to o da sopra? Da quello inferiore? Anch’io!

L’algoritmo per lavarsi i denti: tutto è leggibile come una procedura. C’è un residuo matematico in tantissime cose. Anche se poi, effettivamente, io non voglio essere così am-bizioso da dire che tutto si può ridurre a matematica...

C’è sempre qualcosa che sfugge.

Ma parliamo ancora di numeri.Pensando a voi ragazzi e a quanto dovete studiare, mi vie-

ne in mente che in questo momento sono vivi più matematici di quanti ne siano esistiti in tutta la storia della matematica: cosa per la quale vi compatisco, e a causa della quale vi tocca studiare così tanto! Già i vostri genitori dovevano studiare meno matematica di voi. La popolazione era infatti meno numerosa: oggi siamo circa sei miliardi e novecento milio-ni. I demografi si interrogano sul giorno in cui diventeremo sette miliardi: qualcuno dice nell’agosto del 2011, altri in qualche giorno del 2012.

Ma proviamo pure a considerare quando è nato l’uomo.

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Il Sapiens sapiens comparve all’incirca due milioni e mez-zo di anni fa. A quell’epoca sono databili i primi utensili... Anch’io un giorno mi sono cimentato nel calcolo per verifi -care quanti uomini siano esistiti nel corso del tempo, quanti esemplari della nostra specie si siano avvicendati sulla terra.

Naturalmente quello di “speciazione” è un concetto un po’ sfuggente: infatti ci sono alcuni che non lo capiscono.

Quando appunto mi dicono: - No, ma gli autoctoni... (anche nel mio consiglio comu-

nale qualcuno dell’opposizione parla di “riserve per gli au-toctoni...”).

Allora io rispondo: - Guardi che gli unici autoctoni, qui, sono solo i ciano-

batteri! Soltanto costoro erano presenti nel nostro pianeta due

miliardi e mezzo di anni fa: sono quelli che appunto hanno fatto la rivoluzione dell’ossigeno. Prima non c’era ossige-no nell’atmosfera. Due miliardi e mezzo di anni fa, inve-ce, ecco che alcune alghe incominciano a compiere la fo-tosintesi, con la relativa emissione di ossigeno. Risultato: intossicazione generale! L’ossigeno fu il primo grandissimo inquinante di questo pianeta e distrusse tutte le specie che c’erano prima. Per noi, naturalmente, fu invece piuttosto prezioso e determinante: è uno dei mattoni della nostra evoluzione.

Bene: quanti esseri umani hanno vissuto sul nostro pia-neta dagli albori della comparsa del Sapiens sapiens a oggi?

Me lo sono scritto per ricordarmelo oggi.Diecimila anni fa si stima che su questa terra ci fossero

un milione di ominidi. Il primo milione di uomini si rag-giunse nel 200 a.C., più o meno. Nell’anno 1000 c’erano tre-centodieci milioni di uomini. Il primo miliardo è stato rag-giunto nel 1804, ai tempi di Napoleone; il secondo del 1927; il terzo miliardo nel 1960; il quarto nel 1974; il quinto nel ’87; il sesto nel ’99 e il settimo, appunto tra il 2011 e il 2012.

Qui si pone il problema di come contare gli esseri umani.

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Se uno guarda bene, vede che gli esseri umani dall’inizio della loro storia, per lo meno nei conti che avevo fatto io, sono stati circa centodieci miliardi. Ora siamo più o meno sette: fate un po’ voi il conto se adesso, in questo istante, non viva molta parte delle persone che sono vissute in tutta la storia dell’umanità. Si concentra nell’oggi più del sei per cento di tutti gli uomini che sono vissuti nel nostro pianeta: va da sé che anche i matematici siano presenti nel mondo attuale con una percentuale analoga rispetto a tutti i mate-matici vissuti nel corso dei millenni!

Contare gli antenati è un problema matematico abba-stanza interessante, poiché se uno non tiene conto di quelli che sono i parenti comuni, o dei parenti che compaiono più volte nell’albero genealogico, chiaramente gli viene un nu-mero gigantesco: se tutti noi abbiamo due genitori diversi e poi quattro nonni diversi, il numero cresce sempre di più, in modo esponenziale. Ma se si tiene conto delle possibili “intersezioni” il numero si riduce assai.

Comunque, a proposito degli alberi genealogici - fatto assolutamente quotidiano - non so se voi sapete come si conta... Mi ricordo che in un concorso dovetti dichiarare di non avere, con i candidati, rapporti di parentela entro il settimo grado. Il calcolo avviene risalendo al “capostipite comune”, quindi discendendo fi no ad incontrare il parente in questione. Il numero dei segmenti determina il grado di parentela.

Nello schema B e C sono fratelli, quindi parenti di secon-

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do grado; D e F fi gli di fratelli (cugini “primi”), quindi pa-renti di quarto grado poiché è necessario risalire attraverso B fi no ad A (il nonno) e poi ridiscendere attraverso C...

Questo gioco sugli alberi genealogici è un gioco vera-mente divertente. Per esempio: chi è il suocero di mio co-gnato? Ve lo lascio come esercizietto per la domenica!

La mia cravatta reca tra l’altro l’immagine di una balena, poiché io sono anche presidente dell’Associazione italiana delle città in gioco, delle città, cioè, che gestiscono delle lu-doteche e pensano al gioco come strumento di integrazione sociale: noi abbiamo una ludoteca, un “ludobus” che va in giro a portare i giochi (giochi intelligenti e giochi meno in-telligenti, giochi di animazione, ecc.)...

Certamente il gioco è qualche cosa che porta tutti a su-perare molte barriere, promuove il ragionamento ed è, ap-punto, ciò che noi, come Comune, abbiamo usato in tante situazioni diffi cili. Il gioco aiuta a superare le barriere lin-guistiche, per esempio. In più il gioco ha quest’altro aspetto molto suggestivo: esso porta sempre alla condivisione di qualcosa, anche con l’avversario. C’è qualcosa che devi co-munque avere in comune anche con chi a priori dovresti combattere: sono le regole del gioco.

Inoltre, se anche uno si stanca di giocare a chi vince, si può sempre giocare nell’altra variante: a chi perde!

E qui si presenta quell’altro famoso problemino, che ora vi presento: quello dei due cavalieri.

Ormai stufi di gareggiare l’uno contro l’altro a vedere chi avesse il cavallo più veloce, i due cavalieri un giorno dissero:

–Beh, andiamo a vedere chi ha il cavallo più lento!- Attenti! Pronti..., via!Ovviamente nessuno si muoveva, nessuno voleva perde-

re. A quel punto arrivò il Presidente che spiegò loro come fare la gara. Essa venne regolarmente disputata, e natural-mente riuscirono a scoprire chi avesse il cavallo più lento!

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Anche questo lo lascio come problemino da risolvere con un po’ di pazienza!1

Ma, a proposito di numeri, s’è parlato prima del tre per due... Bene! Anche ciò che sembra un fatto ormai assoluta-mente scontato, può invece mostrarsi come una cosa estre-mamente interessante.

Ora, per esempio, vi insegno un modo per fare le molti-plicazioni, poi magari vi chiederò perché funziona.

Per esempio volete fare 8 per 8?Contate sulla mano: pollice, sei; indice, sette; medio, otto.

L’altro otto sul medio dell’altra mano. Congiungete i due medi. A questo punto il numero delle decine sono le dita fi no a quelle due che si toccano (comprese): tre da una parte e tre dall’altra, e cioè sei. Le unità sono il prodotto delle dita rima-nenti, quelle oltre i due medi che si toccano: due per due fa quattro. Sei decine e quattro unità fa sessantaquattro!

Funziona anche se prendete altri numeri. Prendete per esempio sei per nove. Il sei è il pollice, il nove l’anulare. Congiungete: le decine sono cinque; le dita restanti sono quattro da una parte e una dall’altra: quattro per uno fa quattro. Cinque decine e quattro unità è cinquantaquattro...

Ma ci sono altri modi. Tutti voi ne conoscete uno per fare le moltiplicazioni: è quello che vi hanno insegnato. Ma ce ne sono tantissimi. Per esempio quello che segue è un metodo indiano.

Volete dunque fare 91 per 88?Scrivete i due numeri uno sotto l’altro:

91 al cento → 988 al cento → 12

A questo punto si moltiplica 9 per 12:

1 Possibile soluzione: il primo cavaliere per far arrivare il suo caval-lo ultimo deve far sì che l’altro cavallo giunga per primo: sale dunque in groppa al cavallo del secondo cavaliere lanciandolo a tutta velocità. Rendendosi conto di questa mossa il secondo cavaliere monta sul ca-vallo dell’avversario cercando di raggiungerlo e superarlo.

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91 al cento → 988 al cento → 12 1 08

Quindi si sottrae 12 da 91, che fa 79 (oppure 9 da 88, che fa sempre 79: è la stessa cosa). Questo numero, aumentato del riporto scritto in piccolo, dà 80.

91 al cento → 988 al cento → 12 79 + 1 08 80 08

Il risultato è appunto 8008...Altri modi o metodi rapidi per fare le moltiplicazioni?Quello che segue, e che si può generalizzare a numeri

molto più grandi, può servire per fare le moltiplicazioni a mente. Tra l’altro questo metodo ha una storia veramente tragica: fu inventato da un prigioniero di un campo di con-centramento nazista, il quale, per non impazzire, si inventò questi algoritmi rapidi per moltiplicare tra loro i numeri. Per riuscire appunto a mantenere una certa lucidità eserci-tava il cervello in moltiplicazioni molto, molto lunghe.

Anch’io, certe volte, in consiglio comunale faccio così! (Naturalmente non è vero: è una pessima battuta. Dimenti-catela: me ne vergogno).

Dunque, se vogliamo fare 34 per 23, l’algoritmo è il se-guente:

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Descriviamo le “tappe” del procedimento:I. Moltiplichiamo le unità (4 e 3) ottenendo 12. Il 2 sarà l’ultima

cifra, l’1 dovrà essere sommato al risultato della prossima tappa;

II e III. Moltiplichiamo le decine di ciascun numero con le unità dell’altro numero: 4 per 2 = 8; 3 per 3 = 9; quindi sommiamo i pro-dotti aggiungendo il riporto precedente: 8 + 9 + 1 = 18. L’8 sarà la cifra delle decine, l’1 dovrà essere sommato al risultato della pros-sina tappa;

IV. Moltiplichiamo tra loro le decine: 3 per 2 = 6 e sommiamo il risultato al riporto precedente: 6 + 1 = 7. Il 7 sarà la prima cifra del numero fi nale, che è 782.

Ovviamente bisogna ricordarsi un po’ dei riporti...

Questo tipo di algoritmo che ho mostrato è in realtà un algoritmo che viene usato anche nei computer per fare del-le moltiplicazioni molto grandi, tra numeri con moltissime cifre. È infatti un modo per dimezzare il numero delle ope-razioni che si fanno. Certamente anche la procedura che voi conoscete è una procedura piuttosto effi ciente, però molto spesso viene presentata come l’unica possibile, e dunque può accadere di perderne il senso, o il fascino

E qui arriviamo, o torniamo, di nuovo a Fibonacci.Per quali motivi Fibonacci è noto nella storia della mate-

matica, oltre che per i numeri della sua sequenza?A proposito dei numeri di Fibonacci, è interessante osser-vare che se si procede nella sequenza e si eseguono i quo-zienti di due numeri successivi, si ottiene, via via sempre meglio approssimato, il numero di quella che è chiamata “sezione aurea”: 1 + radice di 5, fratto2.

BC: AB=AB: AC

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Questo “uno più radice di cinque fratto due” è ciò che, secondo anche l’estetica classica - l’estetica greca - rende gradevole un rettangolo. Se io disegno un rettangolo qual-siasi, esso può risultare troppo “schiacciato” o troppo “qua-drato”; se invece, nel rapporto tra i due lati, mi approssimo ai valori della sezione aurea, il rettangolo acquista dimen-sioni percepite come “belle” (BC: AB=AB: AC).

Ecco: stranamente questo numero “” (phi) è approssi-mato successivamente da due numeri consecutivi della se-rie di Fibonacci. In questo caso io avevo detto che le due spirali erano rispettivamente 13 e 8. Tredici ottavi è una buon approssimazione di 1 più radice di 5 fratto 2!

Tornando comunque al nostro problema: Fibonacci per-ché è famoso?

Se riuscirete a seguirmi in questo, penso che la mattinata non l’avrete sprecata e io potrò ritenermi soddisfatto.

Fibonacci ha tradotto per l’Occidente un trattato dall’ara-bo importandovi appunto i numeri indo-arabi2

Che cosa c’è dunque di importante nei numeri arabi ri-spetto ai numeri romani? Che cosa c’è di importante nella notazione dei numeri arabi tale da renderla migliore di altri sistemi?

Certamente con i numeri romani sarebbe stato molto diffi cile eseguire le moltiplicazioni di prima. Qualcuno, an-che lì nella poesia di Trilussa, avrà capito che ad un certo punto vien fuori questo zero: lo zero ha una importanza fondamentale. Per l’appunto furono gli Arabi a utilizzare per primi lo zero... In realtà non lo inventarono loro, ma gli Indiani: infatti un califfo, al-Mansūr, dopo aver fondato Baghdad (città tristemente famosa negli ultimi anni, ma che

2 «Novem fi gure indorum he sunt 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Cum his itaque novem fi guris, et cum hoc signo 0, quod arabice zephirum appellatur, scribitur quilibet numerus, ut inferius demonstratur.» «Le nove cifre degli indiani sono queste: 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Con queste nove cifre, e con questo simbolo: 0, che in arabo si chiama zephir, si può scrivere qualsia-si numero, come si vedrà più avanti.» (LEONARDO FIBONACCI, Liber abaci, inizio del primo capitolo).

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se in quel momento della storia non fosse esistita, forse oggi la nostra civiltà non ci sarebbe neppure), chiamò nella sua città3 tutti i sapienti dell’epoca – siamo più o meno nell’VIII secolo - tra cui anche dei matematici indiani, che portarono con sé lo zero.

Cosa c’è dunque di interessante nella notazione dei nu-meri indo-arabi, rispetto ai numeri romani?

La notazione dei numeri indo-arabi è una notazione “po-sizionale”: ciò che conta è la posizione della cifra...

Tra l’altro la stessa parola “cifra”, che deriva dall’arabo sifr, e a sua volta deriva dall’indiano sunya, vuol dire pro-prio “zero”. Nel Seicento i numeri non è che fossero stati del tutto digeriti, e lo stesso Shakespeare, quando viene il momento di dire che qualcosa è una nullità, dice “è una cifra”: “It’s the cypher”. La cifra è ancora lo zero!

Insomma: ciò che conta, qui, è la notazione posizionale; mentre i Romani usavano una notazione solo un po’ più evoluta di quella del bambino dell’età della pietra, quello della canzone dello Zecchino d’oro che si chiamava Gugù. Per scrivere duemilaundici il bambino dell’età della pietra doveva fare duemilaundici aste: pensate se avesse dovuto scolpirle sulla pietra (ecco il motivo delle cartelle pesanti anche nell’antichità preistorica!).

I Romani avrebbero scritto MMXI. (Questo tuttavia è un esempio che non va tanto bene, poiché anche i Romani in questo specifi co caso sarebbero riusciti a scrivere il numero con una quantità limitata di segni...). Ma supponete che do-vessero scrivere 3333: MMMCCCXXXIII.

Qui la differenza con i numeri indo-arabi è abbastanza 3 Durante il califfato di al-Ma’mun giunse a Baghdad il Siddantha,

un trattato di astronomia scritto da Brahmagupta circa un secolo prima. Al suo interno erano contenute le dieci cifre compreso lo zero, detto sunya, che signifi ca vuoto. Tradotto in arabo, sunya divenne sifr, che, tradotto in latino, diventò zephirum; in italiano, infi ne, si passò da zefi ro a zero. Da sifr, invece, deriva “cifra”. Alcuni secoli dopo il testo fu tra-dotto dall’arabo in latino e le cifre furono conosciute in tutto il mondo, e ribattezzate cifre arabe.

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evidente: da una parte si usa una notazione posizionale, dove è il posto della cifra che dà il valore; dall’altra si usa una notazione “additiva”: tutte le volte bisogna sommare MMM, CCC, ecc.

Cos’ha di buono questa notazione posizionale, perché è migliore?

Essa ha un pregio non indifferente, uno dei grandi pregi che la matematica condivide peraltro con le battute di spi-rito, la peggior battuta di spirito essendo infatti quella che non fi nisce più (quando uno racconta una barzelletta, deve farla breve, non può tirarla troppo in lungo!).

Bene: la cosa più straordinaria dei numeri indo-arabi è il fatto che essi costituiscono il modo più conciso per scrivere un numero!

Pensate: il povero Gugù avrebbe dovuto tracciare due-milaundici stanghette, o tremilatrecentotrentatré; il povero Caius Sempronius per scrivere 3333 avrebbe dovuto scolpi-re dodici simboli; il piccolo ragazzino indiano solo quattro!Già qui c’è una grandissima intuizione matematica. Forse alcuni di voi già conoscono questa funzione matematica...

Se io vi chiedo a bruciapelo: - Quante cifre occorrono per scrivere un numero? - Quattro? No: quattro sono le cifre che servono per scri-

vere 2011...- Dieci? No, no: ci sono numeri che non impiegano tutte

e dieci le cifre...

A proposito: quello che vi presento ora è un bel libro. Tra l’altro io sono anche membro dell’Oplepo, ossia l’Opi-

fi cio di letteratura potenziale, dove tutto sommato si gioca con la letteratura e la matematica.

Uno dei grandi dell’Oplepo, molto più grande, ovvia-mente, di me, fu Italo Calvino, che appunto era anche uno di questi che si divertono a giocare con i “vincoli forti”.

Si potrebbe pensare che i vincoli inducano a produrre della pessima letteratura: ma ciò non è vero! Anche Dante,

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tutto sommato, ha usato dei vincoli molto precisi: per esem-pio ha scritto tutta la Divina Commedia in endecasillabi...

Questo libro, dicevo, è l’opera di uno scrittore francese, che forse un giorno incontrerete, che si chiama Raymond Queneau e che scrisse dieci sonetti: dieci poesie, dunque, ciascuna delle quali si compone di quattordici versi. Prima e seconda strofa quattro versi, terza e quarta tre versi.

Cosa fece Raymond Quenau? Scrisse dieci sonetti tutti con le stesse rime (ABAB ABAB CCD CCD), e dette forma a un’idea particolare: tagliò ciascuna pagina in modo che ciascuna riga fosse separata dalle altre e potesse diventare uno dei versi di uno qualsiasi dei sonetti”

Alla fi ne: il libro si intitola Cent mille milliards de poèmes, Cento mila miliardi di poemi. Lui ne ha scritti dieci, ma l’uso delle... forbici ha prodotto un numero di poesie pari a dieci alla quattordicesima! (cento mila miliardi, appunto: un uno seguito da quattordici zeri).

Questo è un libro molto più facile da scrivere che da leg-gere: per leggerlo ci vorrebbe un tempo pari a tutta l’età dell’universo!

A proposito, sempre per parlare di numeri dell’universo: quanto viene stimata l’età della Terra? Sì, quattro miliardi e mezzo di anni. La vita è nata più o meno tre miliardi, tre miliardi e mezzo di anni fa.

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Qui siamo nell’ordine dei cento mila miliardi; anche se uno leggesse un sonetto all’ora, non potrebbe bastargli l’in-tera età della Terra per fi nire il libro (pensando che in un anno ci sono in media 8766 ore, cento mila miliardi diviso le ore dell’anno fanno circa undici miliardi e mezzo di anni).

Su questi grandi numeri ecco un altro gioco che aiuta a cogliere quest’aspetto: è il gioco delle venti domande, che forse un giorno avrete anche fatto. Si faceva quando si viag-giava in treno. Uno pensava a qualche cosa, che ne so alle “rotaie”...; l’altro aveva a disposizione venti domande, alle quali chi aveva pensato l’oggetto da identifi care doveva ri-spondere con un sì o con un no.

Voi credete che si possa sempre vincere oppure no? Sono venti domande...

Purtroppo... la risposta è sì: si può sempre vincere. Ma in un modo che dà un fastidio enorme, perché la prima do-manda che uno fa è:

- La parola cui hai pensato si trova nella prima metà di questo dizionario?

Se l’avversario dice di sì, la seconda metà viene esclusa dalla ricerca; se dice di no si prende in considerazione solo la seconda metà del dizionario!

La seconda domanda sarà analoga alla prima:- La parola che hai pensato è nella prima metà di que-

ste pagine? - Se dirà di no, si considererà soltanto il secon-do quarto, in caso contrario la parola si troverà nel primo quarto... E così si procede, sempre dividendo per due, in modo dicotomico.

Quante parole, con venti domande, sarò in grado di di-scriminare? Sono due alla ventesima potenza. Come prima avevo dieci sonetti di quattordici versi, con un numero di possibilità combinatorie di dieci alla quattordicesima, così dunque, alla fi ne, ho la possibilità di discriminare due soli elementi partendo da più di un milione di parole.

La domanda è: - Cari signori, quante sono le parole del vocabolario?

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Ecco un altro numero “del mondo”, del mondo dei nu-meri... Ne abbiamo già considerati diversi: il numero degli uomini vissuti sulla terra, l’età dell’Universo...

Questo è un altro numero davvero affascinante: il nume-ro delle parole.

- Quante sono le parole che voi conoscete? Dite che ce la facciamo con un milione? Quante ce ne saranno nel voca-bolario?

Guardate: anche l’Oxford Dictionary, venti volumi di quella che è stimata come una delle lingue più ricche di pa-role al mondo (con una miriade di termini scientifi ci) - l’in-glese - arriva più o meno a cinquecentomila parole...

Questa è la statistica: le settantacinque parole più usate vengono utilizzate nel quaranta per cento dei casi! Il novan-tanove per cento delle parole che noi usiamo sono meno di trentamila. Per leggere un giornale si stima che siano suffi -cienti alcune migliaia di parole. Più o meno il settanta per cento delle parole che noi usiamo sono soltanto milledue-cento. Naturalmente nella lettura di un giornale ci si può imbattere in alcune parole particolari, che dobbiamo capire dal contesto o che dobbiamo magari andare a guardare nel dizionario... Con un milione di possibilità, le venti doman-de sono ben più che suffi cienti per arrivare a stabilire l’og-getto misterioso del gioco.

Penso che questo sia un discorso molto profondo: il di-scorso della ”crescita esponenziale”...

Tante volte si sente dire questa parola... “Ieri c’erano quat-tro persone in via Roma, oggi ce ne sono quindici...: una cre-scita esponenziale!”

È chiaro che questo è un uso assolutamente sbagliato del termine. Una crescita è qualcosa che si “perpetua”. Se io vi cito solo alcuni numeri non potete pensare a una “cresci-ta” esponenziale! È però comunque una buona idea! An-che se come vedete quello che ci sta sotto, qui, non è tan-to l’ “esponenziale” quanto l’operazione inversa, l’anima dell’informatica (io tra l’altro sono anche un informatico),

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Il mondo dei numeri - i numeri del mondo

l’essenza dell’informatica. Ciò che l’informatico cerca è un modo conciso per fare le

cose, un modo che sia l’inverso della crescita esponenziale. La scoperta delle cifre indo-arabe è in tal senso una delle più grandi trovate dell’umanità: non ci sono modi più con-cisi per esprimere una quantità. Questo numero minimo è appunto l’inverso di una “funzione esponenziale”. In que-sto caso io userò una parola che forse avete sentito o forse no, e che comunque tutte le volte spaventa un po’ chi non è un matematico, fa tremare un po’ le vene ai polsi... Ma in realtà, se pensate che questa parola non indica altro che le cifre che vi servono per scrivere un numero, converrete che si tratta di qualcosa di assolutamente familiare: questo oggetto misterioso, l’inverso della crescita esponenziale, è la crescita logaritmica, è il logaritmo.

Tutto quello che fa un informatico quando cerca un algo-ritmo molto effi ciente, quando cerca una procedura valida, è riprodurre quello che era riuscito ai matematici arabi e in-diani mille-duemila anni fa: trovare un modo “compresso” per fare qualche cosa, “inventarsi” un logaritmo.

Questo logaritmo – che poi è anche l’anagramma di al-goritmo, ma che non c’entra assolutamente nulla con esso, poiché la parola ha tutt’altra origine 4 -, questo “dividere sempre per” due, è una procedura molto frequente in infor-matica e in matematica. Sotto sotto, non si fa altro che ripro-durre, cambiato il contesto, la notazione dei numeri arabi.

A questo punto sono le dodici, vi ho parlato di tante cose: non mi dispiacerebbe se qualcuno mi facesse qualche

4 Tornando a Bagdad, nell’ottavo secolo dopo Cristo, uno dei mate-matici era proprio Muhammad ibn Mūsa ‘l-Khwārizmī, il quale scrisse un libro sulla risoluzione delle equazioni di primo grado, che iniziava dicendo “al-djabr...”, che voleva dire “spostare”, e che, come potete ve-dere, dà origine alla parola “algebra”. Questo grande matematico arabo ci ha regalato ben due parole che fanno parte della nostra vita: una è “algoritmo”, dal suo nome, l’altra è “algebra”. Diffi cile, per un mate-matico di oggi, raggiungere lo stesso grado di “successo mediatico”!

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domanda. Anche perché me ne basta una, e poi... so tirare avanti!

Per esempio potrei porvi un problemino, un problemino che avevo posto a Briatore quando andavo da Fazio.

A Briatore ho chiesto: - Supponiamo che la sua automobile faccia i primi cento

giri a cento all’ora. Poi fi nalmente i meccanici scoprono un difetto e i secondi cento giri li faccia a trecento all’ora. Qual è la velocità media della macchina? Se ce n’è una che fa tutti i duecento giri a centosessanta, arriva prima o arriva dopo?

La cosa risulta anche abbastanza istruttiva per quelli che fanno le forti accelerazioni in città.

Ebbene: è meglio andare in bici senza vento che fare l’an-data in favore e il ritorno con il vento contrario: la macchina che arriva prima è quella che fa costantemente i centoses-santa giri all’ora5.

Sapete qual è il motivo? (tra l’altro, devo dire che Bria-tore mi seppe rispondere correttamente affermando subi-to che era meglio la seconda macchina). Il motivo è che voi andate veloci, ma per un periodo di tempo non pro-porzionato al periodo di tempo nel quale andate lenti. È per questo motivo che la cosa risulta istruttiva per tutti gli automobilisti: spesso costoro non pensano alla strada che devono fare, ma prima si imbottigliano e poi fanno delle forti accelerate. È del tutto inutile: è meglio scegliere una strada che permetta di mantenere la velocità media più alta anziché pensare di poter recuperare con sorpassi e sgommate!

Ma vi voglio sottoporre un altro problemino: di fi sica, questa volta. Supponete di avere un bicchiere d’acqua. Qui dentro, a un certo punto, ci mettete un cubetto di ghiaccio.

5 Per ottenere la velocità media bisogna calcolare la media armo-nica delle velocità, non la semplice media aritmetica, e la media ar-monica è il reciproco della media aritmetica dei reciproci. Quindi non 100+300 diviso due (che fa 200), ma il reciproco di 1/100 + 1/300 diviso due: 4/300 diviso 2 = 0,00666; il reciproco di 0,00666 è 1/0.00666 = 149, 99999...

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Come sapete, il ghiaccio, pesando di meno, galleggia fuo-riuscendo in parte dall’acqua6 (si parla spesso, infatti, della “punta dell’iceberg”!)

Dopo un po’ – fa caldo – il ghiaccio si scioglie. Anzi: no, fonde! (quando mi capitò di dirlo in tivu, immediatamente Mercalli mi prese in giro in tutta Italia: -Si scioglie lo zuc-chero, non il ghiaccio!)7.

Ebbene: la domanda è la seguente: il livello dell’acqua alla fi ne sarà salito, sceso, o rimarrà uguale?8

Si dice che Einstein stesso - Albert Einstein, il celebre fi -sico - avesse scritto un famoso articolo perché un giorno, quando sua moglie offrì il tè alle sue amiche, aveva osser-vato che quando si mescolava le foglioline andavano sul bordo e quando si smetteva di mescolare tornavano a di-sporsi al centro. L’occhio dello scienziato, anche di fronte a delle foglioline di tè sospese nell’infuso, non restava inerte ma si chiedeva se vi fosse una ragione per il loro compor-tamento.

6 “L’acqua solidifi cando aumenta di volume; ciò è dovuto al fatto che le molecole si dispongono stabilmente in un reticolo di cristalli secondo una struttura geometrica esagonale, nella quale gli spazi fra molecola e molecola sono maggiori di circa l’8,7% rispetto a quelli tra le molecole allo stato liquido. Quindi, se facessimo ghiacciare un litro d’acqua liquida (1000 cm3 = 1 dm3) otterremmo un blocco di ghiaccio dal volume di circa 1.087 cm3. Tale blocco potrebbe essere un parallelepipedo a base quadrata con lato di 10 cm e con altezza di cm 10,87. Se messo in acqua, tale bloc-co galleggerebbe emergendo dal livello dell’acqua per circa 9 millimetri”.(fonte: ALESSANDRO GELAGI in: http://www.vialattea.net/esperti/php/ri-sposta.php?num=9708 ).

7 Il passaggio dallo stato solido a quello liquido si defi nisce fusione. Lo scioglimento è piuttosto un fenomeno chimico: nello zucchero che si scioglie le molecole in qualche modo si legano per reazione chimica a quelle del liquido.

8 “I blocchetti di ghiaccio che galleggiano in un bicchiere d’acqua, sciogliendosi, non fanno sollevare ulteriormente il livello del liquido” (cfr.: risposta di MAURO CARTA, geologo, in http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta_printable.php?num=7750 ).

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Questi sono tutti grandi insegnamenti, e nel tè ci sono tanti aspetti interessanti: di dinamica dei fl uidi, di vischio-sità... E di altri problemi molto complessi, come quello dell’equazione della fl uidodinamica (che forse, però, non è il caso di affrontare qua: è una delle equazioni che non si riesce a risolvere, ragion per cui non si riescono a costruire nel modo migliore gli aerei!), e via dicendo....

Ma... c’è qualche domanda...?

I vortici che si formano sotto le ali di un aereo immortalati da ricercatori della Cornell University (toni invertiti). In: http://blog.ilmatemagico.com

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DOMANDE

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Domande

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MarcoVolevo chiederle se la matematica le è piaciuta da sem-

pre oppure è stato un innamoramento progressivo...

Sì. Devo dire che io sono sempre stato curioso di tutto: per quello ho fatto poi il sindaco! Fare il sindaco è in effetti “sterminato”...

Certamente il metodo che la matematica insegna è un metodo prezioso. Per me, comunque, fu forse più la curio-sità a spingermi verso la matematica. Poi ha infl uito il fatto che da ragazzo ho girato il mondo, nel senso che mio padre girava il mondo e io ero naturalmente al suo seguito. Ogni paio d’anni mi toccava cambiare città e lingua: l’unica cosa che sempre restava comprensibile era o la lingua di certi giochi – dove si trattava di eseguire il gioco, di compren-derne e applicarne le regole – o la lingua della matematica. Anche per questo motivo la matematica mi è sempre sem-brata più “universale” delle altre cose.

Quindi: sì. Mi è sempre piaciuta. Ma ci sono stati anche momenti della mia vita in cui m’ha stufato! Come dicevo prima, tutto ha un residuo matematico, e bisogna scoprirlo. Tuttavia non bisogna immaginare che tutto si riduca alla matematica. C’è sempre qualcosa che sfugge: anche alla matematica.

E comunque i problemi più belli sono i problemi aperti, non i problemi risolti. Fare ricerca, andare a investigare, è la vera emozione, non certo l’erudizione di chi si limita al puro sapere codifi cato. Nella matematica dovete applica-re certamente la curiosità e cercare il metodo (che poi è il metodo scientifi co, ma anche quello che prevede che i pro-blemi siano posti con chiarezza): queste cose sono molto preziose e molto divertenti, perché ti aiutano ad affrontare qualunque problema.

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- Come faranno a gestire il bocciodromo? Ecco uno dei problemi che in quanto sindaco dovrò a

breve affrontare... Quasi sempre io mi pongo davanti alle cose appunto come un matematico: “cerchiamo di inqua-drare bene il problema”.

E tuttavia, lo ripeto, c’è sempre un residuo matematico, ma non tutto è risolvibile con la matenatica.

Gli antichi indiani, i Veda, pensavano che in realtà il mondo stesso fosse solo un residuo, che l’intero universo fosse un residuo di quello che appunto la divinità non era riuscita a rappresentare.

La matematica è dunque molto importante, e tuttavia non bisogna mai idolatrare niente.

Prospettive numeroseMonica Pagotto, 3a h

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Domande

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CelesteC’è differenza tra la matematica e le altre scienze?

Certamente ogni disciplina ha le sue prerogative. Per esempio adesso si fanno molti studi di genetica e si parla spesso di codice genetico. Però se noi analizziamo il codice genetico, pensate a tutti questi progetti sul genoma, con uno spirito solamente matematico, alla fi ne tutte queste sfi lze di nucleotidi...

Una volta il tribunale di Udine mi chiese se potevo dare una valutazione, fare una perizia, se un programma infor-matico era stato copiato da un altro. E mi dettero il codice, che praticamente erano sfi lze di zero e uno... Ma come si fa a ricostruire il precorso?

Ecco: la biologia genomica in realtà usa come metodi, come algoritmi, procedure che sono invece da millenni uti-lizzate dagli studiosi che si occupano di lettura di testi anti-chi, e cioè dai fi lologi. Usa dunque algoritmi “fi lologici”. La matematica serve certamente per alcune cose ma non serve per altre. Ogni disciplina ha le sue specifi cità.

Prima vi mostravo, nella pigna, questo fatto matematico delle spirali e delle sequenze di Fibonacci. Ma poi come si fa a giustifi care che queste spirali siano così perfette: otto-tredici, otto in un verso e tredici nell’altro?

La matematica può aiutare a descrivere il problema in modo molto ma molto conciso, ma non può dare una spie-gazione. L’osservazione naturale, anche in fi sica, è fonda-mentale. La matematica aiuta a costruire i modelli. Se il mo-dello è adeguato o non è adeguato a descrivere il fenomeno non lo dice la matematica.

Essa è certamente presente, ed è indispensabile: certo oggi non si può più fare biologia, non si può fare nemmeno politica senza sapere la matematica!

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Prima si parlava di statistiche. Una volta mi dissero: - Guardi che come sindaco ha perso in popolarità: è sceso di dieci posizioni!

Prima avevo, che ne so, il 52 per cento di gradimento, poi ero andato al 51,5. Il giornale (peraltro il Sole24Ore, uno dei giornali più prestigiosi dal punto di vista proprio delle statistiche) aveva fatto tutta una graduatoria: prima risul-tavo poniamo al quarantesimo posto, poi ero scivolato al cinquantesimo...

Ma io ho detto: - Guardate, si tratta di un sondaggio effettuato su un

campione di seicento persone. Non signifi ca assolutamente nulla!

In questi tipi di sondaggio, infatti, se la distribuzione del-le risposte ha un andamento gaussiano 1, l’errore della stima rispetto al valore reale è pari a uno su radice di seicento, che corrisponde circa al 4%. Essere sceso di mezzo punto percentuale, con una possibilità di errore del 4% non è asso-lutamente signifi cativo. Il gradimento del 52% poteva essere in realtà già prima un gradimento del 48%, come del 56%...

Se andate a vedere (la cosa l’avevo fatta notare anche attraverso un articolo su una rivista che si chiama Wired), ora i sondaggi del Sole24Ore non danno più certi valori, che avrebbero come risultato solo quello di distribuire false cer-

1 Tale andamento prende il nome da Carl Friedrich Gauss, studioso tedesco del diciannovesimo secolo che è considerato “uno dei più gran-di matematici di tutti i tempi”. Fra i suoi molti studi c’è la defi nizione della “distribuzione gaussiana degli errori” (o “variabile casuale nor-male”) che si traduce grafi camente in una “curva a campana”.

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Domande

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tezze nei lettori.La matematica è indispensabile, anche nei sondaggi,

anche nella politica: ma bisogna capire il signifi cato dei numeri, riuscire a interpretarli. La matematica è diversa, certamente, da tutte le discipline, come ogni disciplina lo è dalle altre. Salvo che, se vogliamo fare dei modelli formali rigorosi, la matematica è indispensabile.

La prima cosa che feci quando mi candidai a sindaco, fu quella di andare a leggere come dovevano essere calcolate le preferenze per il consiglio comunale assegnate dagli elet-tori. C’è un metodo, che si chiama metodo Dont (un matema-tico belga del XVII secolo) che non è esattamente lo stesso metodo con il quale si assegnano le preferenze negli USA. Nel nostro sistema c’è implicitamente un piccolo premio di maggioranza. Insomma: la matematica come vedete è sem-pre indispensabile, anche per non farsi pigliare in giro. Però c’è una bella differenza tra disciplina e disciplina.

Studiare la matematica?Quando uno deve fare una scelta importante, come per

esempio decidere quale scuola superiore affrontare, o quale percorso universitario intraprendere, deve scegliere ciò che più gli piace.

Non si deve scegliere sulla base di una previsione di quale potrà essere l’occupazione, il lavoro, ecc. Tra l’altro anche lì c’è una certa variabilità

Se voi fate ciò che più vi piace, lì potete essere più creati-vi; e in questa nostra epoca c’è molto, molto bisogno di cre-atività e molto, molto bisogno di innovazione. Non esiste la panacea, l’uovo di colombo: bisogna soprattutto essere creativi: quindi il mio consiglio è di fare ciò che in fi n dei conti stimola di più; e non studiare le risposte ma studiare i problemi.

A quale problema vi piace pensare di più? Interrogatevi e poi fate quello che vi sembra più utile per approfondire questo vostro naturale senso di curiosità.

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AngeloCom’è che delle fi gure fi nite, come un triangolo equilate-

ro o un quadrato, celano al loro interno dimensioni “irra-zionali”, dunque “infi nite”, come l’altezza o la diagonale?

L’altezza del triangolo equilatero non è commensurabile con il lato, come del resto non sono commensurabili la dia-gonale e il lato del quadrato....

I Greci addirittura rimasero scioccati da questo fatto. I Pitagorici pensavano, partendo dalla musica, che tutto si potesse esprimere come rapporti di numeri interi. Poi quando, appunto, trovarono che la lunghezza di una diago-nale di un quadrato non si riusciva ad esprimere come un rapporto di numeri interi, poiché se il lato è 1 essa è radice di 2, per molto tempo non vollero nemmeno dirlo: la cosa faceva crollare la loro visione “perfetta” (ma semplicistica) del mondo.

Ma c’è di “peggio”! Questo è ancora un numero algebrico. Se si prende il

rapporto tra il raggio e la circonferenza – e qui parliamo appunto di pi greco – il rapporto non solo non è razionale, ma non è nemmeno algebrico: è addirittura un numero che si chiama “trascendente”, dove non c’è nessun modo per esprimerlo come soluzione di un’equazione algebrica!

La complessità si trova molto presto nella matematica, la domanda può solo dar seguito a risposte “descrittive”sullo stato delle cose. È così: l’altezza del triangolo equilatero e il suo lato sono entrambi fi niti, semplicemente non c’è rap-porto di misurabilità reciproco...

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Domande

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MarcelloÈ più facile, per un sindaco laureato in matematica, te-

nere in ordine i conti di un Comune?

Io penso che, come dicevo, la matematica sia un ottimo metodo. Per esempio quando voglio vedere se ho raggiun-to un obiettivo. Il numero dei posti degli asili nido della città di Udine sono suffi cienti oppure no? Allora vado a ve-dere quello che è lo standard europeo, e tale standard mi dice che il numero di posti dovrebbe essere attorno al 33% del numero dei bambini nella fascia da zero a tre anni. Nel mio caso sono circa duemila, duemiladuecento. Quest’an-no sono riuscito ad avere circa settecentocinquanta posti negli asili nido: dunque lo standard l’ho raggiunto...

In questo senso, cioè per misurare gli obiettivi, effettiva-mente la matematica è sicuramente utile!

Un altro mondo(rielab. grafi ca da Escher 1a G)

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PietroCome si può dire che la matematica è una scienza esatta

quando - vedi ad esempio nel fi lmato iniziale - si può in-fl uenzare la realtà con calcoli e ragionamenti “per assurdo” ?

Beh, vedi, nel fi lmato visto prima c’erano alcune consi-derazioni abbastanza sottili. Vale la pena di capire cosa ci stia sotto. L’ultima scena era soprattutto interessante, sul principio d’induzione: e io lo faccio sempre a lezione, all’Uni-versità. Faccio quasi l’esempio che avete visto: dimostro che tutti i numeri sono uguali, mentre lì si dimostrava che tutti gli uomini sono senza orecchie!

Dimostro che tutti i numeri sono uguali proprio per far vedere che in realtà è facile, se non si sottopongono a veri-fi ca le cose, illudersi di aver trovato “la soluzione”, mentre la dimostrazione in realtà è errata. Anche questo è un pro-fondo insegnamento della matematica.

Alla fi ne, chi dice che la dimostrazione è corretta? Si dice che la matematica è assoluta, è tutta verità... Ma chi dice che la dimostrazione è corretta?

Lo dicono soltanto degli altri matematici, degli altri uo-mini che sottopongono a verifi ca la dimostrazione, i quali, se non sono convinti, dicono:

– Ma no, scusa, qui non mi torna!Dunque c’è sempre una dimensione “sociologica” nella

matematica. Questo non vuol dire che le verità matemati-che siano infl uenzate dalla sociologia: questo vuol dire che per esempio il povero Robinson, che si trovava sull’isola da solo, non avrebbe potuto veramente fare matematica, per-ché magari avrebbe potuto illudersi di aver trovato una di-mostrazione, ma questa avrebbe potuto in realtà essere sba-gliata. Cosa che è capitata a tanti matematici fi no a quando altri non gliel’hanno fatto notare.

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Domande

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La matematica infl uenza o condiziona il mondo? In real-tà è il mondo che spesso condiziona la matematica.

Riconoscere che una dimostrazione è vera...Per esempio c’è questo premio di un milione di dollari

per chi risolve il problema che vi ho citato prima, quello della compattazione delle arance. E una dimostrazione c’è. Se nessuno entro cinque anni riuscirà a trovare un errore nella dimostrazione prodotta, il premio sarà aggiudicato.

Come si vede: comunque c’è un fatto sociale, sociologi-co. Cosa che si ritrova anche in tante altre dimensioni della fi losofi a: comunque c’è una condivisione sociale. Il matema-tico da solo non esiste, esiste solo all’interno di una comu-nità di altri matematici.

Tuttavia anche la matematica spesso infl uenza la real-tà: nella statistica, per esempio, come abbiamo visto prima; ma anche in altri campi. Un sindaco, un amministratore che deve presentare i propri bilanci, se ha avuto una diminu-zione in valore assoluto ma un incremento in percentuale cita l’incremento percentuale; se invece ha avuto un incre-mento in valore assoluto ma una diminuzione in percen-tuale, allora cita l’incremento registrato in assoluto!

In effetti non bisogna credere troppo a chi utilizza la ma-tematica soltanto come strumento per persuadere e condi-zionare gli altri.

Su questo, sui tentativi di manipolazione che vengono fatti con i numeri e con la statistica, ci sarebbe da parlare a lungo: ma forse bisognerebbe allora cominciare un’altra... conferenza!

Furio Honsell,Portogruaro, 9 aprile 2011

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MATERIALIdi approfondimento

testi scelti e proposti da Daniele Dazzan Daniela Grillo

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Parole sui numeri

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La notte dei numeridi Italo Calvino

Il mondo fi nanziario della metropoli è al centro del racconto di Calvino. Agli occhi incantati di un ragazzo si presenta l’aspetto notturno e misterioso degli uffi ci che costituiscono il cuore degli affari di una grossa impresa. È una specie di labirinto in fondo al quale pare di poter scoprire un pesante segreto. Tuttavia dietro l’apparente effi cienza, lo scrittore introduce elementi parados-sali che rivelano una realtà inaspettata.

«Mamma, posso andare a fare il giro dei cestini?» «Sì, bravo, prendi il sacco, va’!» Paolino prende il sacco

e va a fare il giro degli uffi ci per vuotare i cestini della carta straccia, il sacco è più grande di lui e Paolino se lo trascina dietro facendolo scivolare sul pavimento. Cammina piano per far durare il giro più a lungo che può: di tutta la serata è il momento migliore, per Paolino. Gli si aprono davanti saloni con fi le di macchine calcolatrici e di classifi catori tutti uguali, stanze con scrivanie autorevoli cariche di telefoni e citofoni e tastiere. Gli piace girarci da solo, fi no a immedesi-marsi in quelle suppellettili metalliche, in quegli spigoli ad angolo retto, fi no a dimenticare tutto il resto, e soprattutto non aver più negli orecchi il chiacchierio di sua madre e della signora Dirce.

La differenza tra la signora Dirce e la madre di Paolino è che la signora Dirce è molto compresa del fatto di far pu-lizia negli uffi ci della «Sbav», mentre la madre di Paolino

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Piccole conferenze per grandi incontri

non fa nessun conto se sta pulendo una ditta o una cucina o un retrobottega..., mette anche il naso nelle carte, prende una lettera, l’avvicina al naso perché è miope, e dice: «Di’, senta un po’, trecentomila dollari, dice qui... Lo sa quanto fa trecentomila dollari, signora Pensotti?...»

Più Paolino s’allontana da loro, e s’inoltra per gli uffi -ci deserti, più i suoi occhi rimpiccioliti dal sonno dilatano quell’orizzonte nudo e squadrato, e gli piace di pensarsi come una formica, un essere quasi invisibile che percorre una terra deserta e liscia di linoleum, tra lucide montagne tagliate a picco e sotto un cielo piatto e bianco. Allora gli prende sgomento: e per rincuorarsi va a rintracciare intor-no i segni della vita umana, sempre varia e disarmonica. Sotto il vetro d’un tavolo — certo d’un’impiegata — c’è una fotografi a di Marlon Brando; su un davanzale un’altra tiene un vasetto di bulbi di narciso; in un cestino c’è un giorna-le illustrato; in un altro un foglio di block-notes pieno di pupazzi a matita; lo sgabello d’una dattilografa odora di violetta, in un portacenere ci sono dei bicchierini di stagno-la di cioccolatini col liquore. Ecco, basta attaccarsi a questi particolari e lo sgomento di quel deserto geometrico scom-pare, ma Paolino se ne sente quasi umiliato, come per una sua viltà, perché è proprio quel che dà più sgomento che lui vuole e deve fare suo.

Una sala è piena di macchine. Adesso sono ferme, ma Paolino una volta le ha viste lavorare, con un continuo ron-zio e scattar su e giù di spessi fogli traforati, come d’elitre1 d’insetti; e un uomo in camice bianco da chirurgo che ma-novrava le macchine s’era fermato a parlare con Paolino. «Verrà il giorno in cui gli uffi ci andranno avanti solo cosi», gli aveva detto, «senza bisogno di nessuno, neppure di me».

Paolino era subito corso dalla signora Dirce. «Lo sa che cosa fabbricano, quelle macchine?» le aveva chiesto, spe-rando di coglierla in fallo; l’uomo col camice bianco gli

1 Simili alle membrane che ricoprono le ali..

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Materiali

aveva spiegato proprio allora che quelle macchine non fab-bricano niente, ma dirigono tutti gli affari della ditta; con-trollano i conti, sanno tutto quel che è successo e quel che deve succedere.

«Quelle lì?» aveva detto la signora Dirce, «quelle lì non servono nemmeno da trappole per i topi, ve lo dico io. Vo-lete saperne una? La rappresentanza di quelle macchine ce l’ha il cognato del commendator Pistagna, e così lui le ha fatte comprare alla ditta. Proprio così...»

Paolino aveva alzato le spalle: era chiaro una volta di più che la signora Dirce non capiva niente: non sapeva nem-meno che quelle macchine conoscono il passato e il futuro, e faranno funzionare gli uffi ci da soli, deserti e vuoti come ora di notte. Ora, tirandosi dietro il sacco della cartaccia, Paolino cerca d’immaginarsi come sarà, di concentrarsi in quell’idea, il più lontano possibile da sua madre e dalla si-gnora Dirce...

Paolino attraversa il salone del consiglio d’amministra-zione col tavolo di mogano, lucido da potercisi specchiare, e le poltrone di cuoia tutt’intorno.

Il grande salone della contabilità è diviso in tanti box2. Si sente un ticchettio, dal fondo. Ci dev’essere ancora qualcu-no che fa lo straordinario. Paolino gira da un box all’altro, ma è come un labirinto di anditi tutti uguali e il ticchettio sembra venga sempre da un posto diverso. Alla fi ne, nell’ul-timo box scopre, curvo su di una vecchia addizionatrice, un ragioniere allampanato3, in pullover, con una visiera di celluloide verde a metà d’un oblungo cranio calvo. Il ragio-niere per battere sui tasti alza i gomiti col movimento d’un uccello che sbatte le ali: pare proprio un grosso uccello ap-pollaiato lì, con quella visiera che sembra un becco. Paolino fa per vuotare il portacenere, ma il ragioniere sta fumando e posa la sigaretta sull’orlo proprio allora.

2 Recinti.3 Alto e magro.

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Piccole conferenze per grandi incontri

«Ciao», fa il ragioniere. «Buonasera», dice Paolino. «Che fai in giro a quest’ora?» Il ragioniere ha una lunga

faccia bianca, dalla pelle secca, come se non vedesse mai il sole.

«Vuoto i portacenere». «I ragazzi la notte devono dormire». «Sono con mia madre. Siamo quelli della pulizia. Comin-

ciamo adesso». «Fino a che ora ci state?» «Le dieci e mezzo, le undici. Alle volte poi facciamo lo

straordinario, alla mattina». «Il contrario di noialtri, lo straordinario alla mattina». «Si, ma solo una volta o due la settimana, quando si dà

la cera». «Invece io sempre, lo straordinario. Io non fi nirò mai». «Che cosa?» «Di far tornare i conti». «Non tornano?» «Mai». Fermo, impugnando la manovella dell’addizionatrice,

con l’occhio sullo stretto foglio che si srotola fi no a terra, il ragioniere sembra aspetti qualcosa dalla fi la di numeri che sale fuori dal rullo come sale il fumo della sigaretta tenuta stretta tra le labbra in un fi lo diritto davanti al suo occhio destro e incontra la visiera, devia, sale ancora fi no al globo della lampadina e s’annuvola sotto il paralume.

«Adesso glielo dico», pensa Paolino. E chiede: «Ma non ci sono le macchine elettroniche che fanno i calcoli da sole, scusi?»

Il ragioniere strizza l’occhio irritato dal fumo. «Tutti sba-gliati», dice.

Paolino ha posato lo straccio e la pattumiera e s’appog-gia al tavolo del ragioniere. «Sbagliano, quelle macchine?» L’uomo con la visiera scrolla il capo. «No, è da prima, è tutto

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sbagliato già da prima». S’alza, il pullover è troppo corto e la camicia gli fa uno sbuffo torno torno alla cintura. Prende la giacca dalla spalliera della sedia e se la mette. «Vieni con me». Paolino e il ragioniere camminano tra i box. II ragio-niere ha il passo lungo e Paolino deve trotterellargli dietro. Percorrono tutto il corridoio; arrivati in fondo il ragioniere solleva una tenda: c’è una scala a chiocciola che scende. C’è buio, ma il ragioniere sa dov’è un interruttore e accende una fi oca lampadina là sotto. Ora scendono per la scaletta a chiocciola, giù nei sotterranei della ditta. Nei sotterranei c’è una porticina chiusa con un catenaccio: il ragioniere ha la chiave, apre. Dentro non ci dev’essere impianto elettrico, perché il ragioniere accende un fi ammifero e a colpo sicu-ro trova lì una candela e l’accende. Paolino non distingue bene, ma capisce d’essere allo stretto, in una specie di cel-letta, e tutt’intorno, ammucchiati in pile che arrivano fi no al soffi tto, ci sono degli scartafacci, dei registri, carte polvero-se, ed è certo di li che promana quell’odore di muffa.

«Questi sono tutti i vecchi libri mastri4 della ditta», dice il ragioniere, «nei cent’anni della sua esistenza ». S’è issato5 a sedere in cima a uno sgabello, e apre un quaderno stretto e lungo, di su un alto banco inclinato a leggio. «Vedi? Questa è la calligrafi a di Annibale De Canis, il primo ragioniere della ditta, il ragioniere più diligente che ci sia mai stato: guarda come teneva i registri».

Paolino scorre con lo sguardo le colonne di numeri in bella calligrafi a oblunga, con piccoli svolazzi. «A te solo faccio vedere queste cose: gli altri non capirebbero. E qual-cuno bisogna pur che lo veda: io sono vecchio».

«Sì, signor ragioniere», fa Paolino, con un fi lo di voce. «Non c’è mai stato un ragioniere come Annibale De Ca-

nis», e l’uomo con la visiera verde sposta la candela, illu-minando, sopra una pila di registri, accanto a un vecchio

4 Registri usati dai commercianti per segnare le entrate e le uscite.5 Arrampicato.

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pallottoliere dalle stecche sgangherate, la fotografi a di un signore coi baffi e il pizzo, in posa accanto a un cane vol-pino. «Eppure, quest’uomo infallibile, questo genio, vedi, il 16 novembre 1884», e sfoglia le pagine del libro ma-stro, apre dove c’è per segno una penna d’oca rinsecchita, «ecco: qui, un errore, un grossolano errore di 410 lire in una somma». Al fondo della pagina, la cifra della somma è contornata da un fregaccio a matita rossa. «Nessuno se n’è mai accorto, io solo lo so, e sei la prima persona a cui lo dico: tientelo per te e non lo dimenticare! E poi, anche se lo andrai a dire in giro, sei un ragazzo e nessuno ti darà retta... Ma adesso sai che tutto è sbagliato. In tanti anni, quell’errore di quattrocentodieci lire sai quant’è diventa-to? Miliardi! Miliardi! Hanno un bel girare le macchine calcolatrici, i cervelli elettronici e tutto il resto! L’errore è al fondo, al fondo di tutti i loro numeri, e cresce, cresce, cresce!» Avevano richiuso lo stanzino, risalivano per la scaletta a chiocciola, ripercorrevano il corridoio. «La ditta è diventata grande, grandissima, con migliaia d’azionisti, centinaia di ditte consociate, rappresentanze estere a non fi nire, e tutti macinano soltanto cifre sbagliate, non c’è nul-la di vero in nessuno dei loro conti. Mezza città è costruita su questi sbagli, che dico mezza città: mezza nazione! E le esportazioni e le importazioni? Tutte sbagliate, tutto il mondo si porta dietro quest’errore, l’unico errore compiu-to in vita sua dal ragionier De Canis, quel maestro, quel gigante della contabilità, quel genio!»

L’uomo è andato all’attaccapanni e s’è messo il cappotto. Senza più la visiera verde, la sua faccia appare per un mo-mento ancora più slavata e triste, poi torna in ombra sotto l’ala del cappello calata sugli occhi. «E sai cosa ti dico?» fa, chinandosi, a voce bassa, «io sono sicuro che lui l’aveva fat-to apposta!»

Si alza, caccia le mani in tasca. «Noi due non ci siamo mai visti né conosciuti», dice a Paolino, tra i denti.

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Si volta, si dirige verso l’uscita con un’andatura che vo-lendo parere impettita riesce sbilenca, cantarellando: «La donna è mobile...»

ITALO CALVINO, La notte dei numeri,

in: I racconti. I. Gli idilli diffi cili,Einaudi, Torino 1958.

Il orticato (elaborazione grafi ca classe 1a G)

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Il prato infinitodi Italo Calvino

Problemi di metodo per farsi una rappresentazione veritiera della realtà. Palomar, dapprima in vacanza, poi in città ed infi ne immerso nei suoi silenzi, conduce per mano il lettore illustrandogli un nuovo metodo di approccio al mondo. Calvino dà a Palomar non la capacità di guardare, bensì la voglia di farlo. Ed è attraverso le sue osservazioni forzate fi no al più piccolo particolare che Calvino conduce il lettore verso aspetti diversi dell’esistenza: dalla più ba-nale delle cose, come il rifl esso del sole sul mare, sino ai più affascinanti misteri quali le iscrizioni tolteche a Tula in Messico...

Palomar ha una moglie ed una fi glia girovaga per il mondo, non ha molta familiarità con la specie umana, non sembra avere molti conoscenti e ha il vizio di non parlare; è insomma, un taciturno e un solitario, più portato alla rifl essione che allo scambio... Calvino riassume così la storia di Palomar: «Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato».

Intorno alla casa del signor Palomar c’è un prato. Non è quello un posto dove naturalmente ci dovrebbe essere un prato: dunque il prato è un oggetto artifi ciale, composto di oggetti naturali, cioè erbe. [...]

Certo, strappare un’erbaccia qua e una là non risolve nulla. Bisognerebbe procedere così, - egli pensa, - prendere un quadrato di prato, un metro per un metro, e ripulirlo fi n della più minuta presenza che non sia trifoglio, loglietto o dicondra. Poi passare a un altro quadrato. Oppure, no, fer-marsi su un quadrato campione.

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Contare quanti fi li d’erba ci sono, di quali specie, quanto fi tti e come distribuiti. In base a questo calcolo si arriverà a una conoscenza statistica del prato, stabilita la quale... Ma contare i fi li d’erba è inutile, non s’arriverà mai a saperne il numero. Un prato non ha confi ni netti, c’è un orlo dove l’erba cessa di crescere ma ancora qualche fi lo sparso ne spunta più in là, poi una zolla verde fi tta, poi una striscia più rada: fanno ancora parte del prato o no? Altrove il sot-tobosco entra nel prato: non si può dire cos’è prato e cos’è cespuglio.

[...] Poi ci sono le frazioni di fi li d’erba, troncati a metà, o rasi al suolo, o lacerati lungo le nervature, le foglioline che hanno perso un lobo... I decimali sommati non fanno un nu-mero intero, restano una minuta devastazione erbacea, in parte ancora vivente, in parte già poltiglia, alimento d’altre piante, humus... [...] Il prato è un insieme d’erbe, - così va impostato il problema, - che include un sottoinsieme d’erbe coltivate e un sottoinsieme d’erbe spontanee dette erbacce; un’intersezione dei due sottoinsiemi è costituita dalle erbe nate spontaneamente ma appartenenti alle specie coltivate e quindi indistinguibili da queste. I due sottoinsiemi a loro volta includono le varie specie, ognuna delle quali è un sot-toinsieme, o per meglio dire è un insieme che include il sot-toinsieme dei propri appartenenti che appartengono pure al prato e il sottoinsieme degli esterni al prato.

Soffi a il vento, volano i semi e i pollini, le relazioni tra gli insiemi si sconvolgono... Palomar è già passato a un altro corso di pensieri: è “il prato” ciò che noi vediamo oppu-re vediamo un’erba più un’erba più un’erba...? Quello che noi diciamo “vedere il prato” è solo un effetto dei nostri sensi approssimativi e grossolani; un insieme esiste solo in quanto formato da elementi distinti. Non è il caso di con-tarli, il numero non importa; quel che importa è afferrare in un solo colpo d’occhio le singole pianticelle una per una, nelle loro particolarità e differenze. E non solamente veder-le: pensarle. Invece di pensare “prato”, pensare quel gam-

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bo con due foglie di trifoglio, quella foglia lanceolata un po’ ingobbita, quel corimbo sottile... Palomar s’è distratto, non strappa più le erbacce, non pensa più al prato: pensa all’universo. Sta provando ad applicare all’universo tutto quello che ha pensato del prato. L’universo come cosmo re-golare e ordinato o come proliferazione caotica. L’universo forse fi nito ma innumerabile, instabile nei suoi confi ni, che apre entro di sé altri universi. L’universo, insieme di corpi celesti, nebulose, pulviscolo, campi di forze, intersezioni di campi, insiemi di insiemi...

ITALO CALVINO, Palomar,

Mondadori, Milano 1994.

Italo Calvino nasce il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, un villaggio vicino all’Avana, (Cuba), dove il padre dirige una stazione speri-mentale di agricoltura e una scuola d’agraria. Dal padre agronomo e dalla madre botanica riceve un’educazione rigorosamente laica.

Nel 1925 la famiglia Calvino ritorna in Italia, e si stabilisce a San Remo, nella Villa Meridiana che ospita la direzione della Stazione Sperimentale di Floricoltura, dove Calvino vive «fi no a vent’anni in un giardino pieno di piante rare ed esotiche».

Negli anni Cinquanta e Sessanta svolge le funzioni di dirigente nella casa editrice Einaudi e intensifi ca sempre più la sua attività culturale e il suo impegno nel dibattito politico-intellettuale, collaborando a numerose

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riviste. Inoltre si impone nel panorama letterario italiano, come il più ori-ginale tra i giovani scrittori, in seguito alla pubblicazione della raccolta dei Racconti (1958), e soprattutto del volume I nostri antenati (1960), che comprende la trilogia di romanzi fantastici e allegorici sull’uomo contem-poraneo: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), e Il cavaliere inesistente (1959).

In questi anni pubblica anche l’importante saggio Il midollo del leone (1955), e raccoglie e traduce Le fi abe Italiane che pubblica nel 1956, anno in cui i fatti di Ungheria provocano il suo distacco dal PCI e lo conducono progressivamente a rinunciare ad un diretto impegno politico.

Nel maggio 1986 presso Garzanti esce Sotto il sole giaguaro, il primo libro postumo di Calvino. Il volume raggruppa tre racconti: Il nome, il naso, Sotto il sole giaguaro e Un re in ascolto. Calvino intendeva scri-vere un testo dedicato ai cinque sensi. La morte gli impedì di completare i racconti dedicati alla vista e al tatto.

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Gli abitanti dell’isola volante sono uomini completamente assorbiti da cal-coli matematici e da problemi astronomici: per essi tutto il mondo, anche la bel-lezza, è defi nibile attraverso fi gure geometriche. Tutto si fa, a cominciare dalle misure per un abito, con strumenti e calcoli complicatissimi. Il paradosso è che i risultati non corrispondono affatto a simili sforzi e i prodotti fi niti sembrano eseguiti con estrema approssimazione. È un vanto di questi scienziati, infatti, quello di occuparsi di problemi puri, assolutamente non contaminati da cose pratiche che non riguardino l’armonia universale. Nessuna immaginazione, prima di Swift, aveva forse mostrato con maggiore chiarezza quanto lo studio e la scienza siano a volte lontani dalla vita.

L’isola dei matematicidi Jonathan Swift

Mi rivoltai, e scorsi, fra me ed il sole, un ampio corpo opaco, che procedeva verso l’isola: sembrava stesse all’al-tezza di due miglia, e tenne nascosto il sole per sei o sette minuti. L’aria, però, non diventò più fredda, né il cielo più oscuro, che se mi fossi trovato all’ombra di una montagna. Via via che s’avvicinava al posto in cui mi trovavo, si pale-sava1 una massa solida col fondo spianato, liscio, e somma-mente luccicante per il rifl esso del mare sottostante. Stavo sopra l’altura a circa duecento jarde2 dalla spiaggia, e vidi che quella vasta mole scendeva giù quasi allo stesso mio li-

1 Si manifestava.2 Misura inglese di lunghezza: equivale a 91 centimetri.

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vello, e alla distanza di meno d’un miglio inglese3. Col can-nocchiale potetti chiaramente vedere che parecchia gente ne saliva e scendeva i lati del pendio, ma cosa mai facesse non mi fu dato discernere4.

Il naturale istinto della propria conservazione destò in me una intima gioia, e subito apersi l’animo alla speranza che questo avventuroso caso avrebbe, in un modo o nell’al-tro, offerto il mezzo di tirarmi fuori dal desolato posto e dal-la disperata situazione in cui mi trovavo. Al tempo stesso, il lettore non si può fi gurare la mia stupefazione nel vedere viaggiare per l’aria un’isola abitata da uomini che, come sembrava, eran capaci di sollevarla, abbassarla, regolarne il corso a loro piacimento. Subito dopo, essa si avvicinò, ond’io potei vederne i fi anchi cinti di parecchie serie di cor-ridoi e scalinate, a certi dati intervalli, per poter discendere da uno in altro corridoio. Nella più bassa di queste gallerie, vidi alcuni uomini che pescavano con certe lunghe canne, ed altri che stavano a guardare. Agitai il mio berretto, ché il mio cappello era da un pezzo affatto logoro, e il mio fazzo-letto verso l’isola; e, quando essa mi fu più vicina, chiamai e gridai a voce spiegata; poi, guardando vigile, scorsi una folla addensarsi dal lato che era più a portata della mia vi-sta. Poiché l’uno mi additava all’altro, capii che mi aveva-no scoperto, sebbene non rispondessero ai miei urli gioiosi. Quattro o cinque uomini correndo si misero a salir le scale in tutta fretta, fi nché giunsero in cima all’isola e disparve-ro. Evidentemente erano stati mandati a chiedere ordini a qualche persona autorevole circa il caso che si presentava.

Intanto, altra gente sopravveniva, ed in meno di mezzo-ra l’isola fu messa in moto e sollevata in guisa che la galleria più bassa venne a trovarsi a cento jarde dall’altezza in cui stavo e allo stesso mio livello.

Assunsi, allora, gli atteggiamenti più supplichevoli, e 3 Equivale a 1609 metri.4 Distinguere.

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parlai nel tono più umile, ma non ebbi nessuna risposta. Quelli più vicini che mi stavano di faccia sembravano,

dalla foggia5 del vestire, persone ragguardevoli. Parlavano fra loro con serietà, volgendo spesso lo sguardo a me. Uno di essi, infi ne, mi rivolse la parola in un idioma6 chiaro, gen-tile, dolce, che suonava quasi come l’italiano.

Mi fecero segno di scendere giù dalla roccia e di recarmi al lido, ciò che io naturalmente m’affrettai a fare.

L’isola volante, allora, sollevatasi all’altezza necessaria, si librò in modo da avere il margine a perpendicolo sopra di me. Dalla più bassa delle sue gallerie venne mollata una catena, all’ultimo anello della quale era stato assicurato un sedile. Su questo mi accomodai tenendomi ben fermo, e le carrucole pensarono poi a tirarmi su.

Appena misi piede nell’isola mi vidi circondato da una folla, e quelli che mi stavano più vicino apparivano di elet-to grado sociale. Mi stavano a guardare con segni di grande meraviglia; né io mancai di ripagarli della stessa moneta perché, davvero, non avevo mai visto prima una razza di mortali così strana per forma, abito, aspetto. Tenevano il capo chinato o a destra o a sinistra; un occhio rovesciato guardava in dentro, e l’altro era rivolto in su verso lo ze-nit. I vestiti che indossavano erano fregiati di disegni rap-presentanti il sole, la luna, le stelle, i quali bellamente si intrecciavano con fi gure di violini, fl auti, arpe, trombe, chitarre, clavicembali, e di molti altri strumenti musicali ignoti all’Europa. C’erano poi qua e là parecchi uomini in livrea, evidentemente dei servi, i quali portavano in mano una piccola verga in cima alla quale era legata, a mo’ di fl agello, una vescica gonfi a, contenente una certa quantità di piselli secchi o di ciottolini, secondo venni poi a sapere. Con queste vesciche essi, di quando in quando, percoteva-no le bocche e gli orecchi dei signori cui stavano d’appres-

5 Modo.6 Linguaggio, parlata.

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so; e, naturalmente, non seppi in sulle prime darmi ragione di questo strano costume. Sembra che l’intelletto di quella gente si raccolga nella speculazione7 con tale e tanta intensi-tà, che per farli parlare, o dare retta all’interlocutore, occor-reva svegliarli mediante lo stimolo esterno d’una leggera percossa sull’organo della parola o dell’udito. Ecco perché chi ha danaro abbastanza prende sempre al suo servizio un fl agellatore, che essi chiamano climenole, né mai escon di casa o fanno una visita senza di lui. Compito di questo at-tendente è che, quando due o più persone si trovano insie-me, egli deve gentilmente picchiare con la vescica la bocca di chi vuol parlare, e l’orecchio destro di colui o di coloro ai quali chi parla si rivolge. Il fl agellatore, inoltre, è tenuto a vigilare con ogni diligenza il padrone quando va fuori a passeggio, e a percuotere leggermente, in caso di bisogno, gli occhi di lui che, sprofondato sempre nella meditazione, corre pericolo evidente di piombare giù in un precipizio, o di dare della testa in un palo o di investire per la strada gli altri, o restare investito e scaraventato nel canale.

Era necessario informare di tanto il lettore, altrimenti, come io allora, egli ora non potrebbe darsi ragione del pro-cedere di coloro che mi conducevano su per le scale in cima all’isola, e di là alla reggia. Mentre salivamo, spesso dimen-ticavano che cosa stavano facendo, e mi piantavano in asso fi nché i fl agellatori non venivano a destare la loro memoria. Sembravano, infatti, indifferenti alla vista del mio aspetto e del mio vestito forestiero, e alle esclamazioni di stupore dei popolani che non avevano la mente raccolta come loro.

Finalmente entrammo nella reggia, e procedemmo nel salone delle udienze, dove vive il Re seduto sul trono, e, dall’uno e dall’altro lato di questo, i grandi dignitari8 pre-stanti servizio. Dinnanzi al trono c’era una grossa tavola piena di globi, di sfere e di strumenti matematici d’ogni

7 Indagine attraverso la rifl essione e il pensiero.8 Chi ricopre una carica di grado elevato.

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genere. Sua Maestà non s’avvide né punto né poco di noi, sebbene si facesse un chiasso rispettabile, quando entram-mo, dalle persone di corte accorse da ogni parte della reg-gia. Gli è che era tutto assorto in un problema e ci toccò aspettare almeno un’ora, prima che riuscisse a risolverlo. Un paggio a destra e uno a sinistra di Sua Maestà stavano in piedi con in mano i fl agelli, e appena videro che Sua Ma-està non aveva più nulla da fare uno di loro gentilmente gli percosse la bocca, e l’altro l’orecchio destro. Egli, allo-ra, si scosse come uno destato d’improvviso, e volgendo lo sguardo a me e alla gente che mi faceva corona si risovven-ne9 del caso che ci aveva lì condotti, e del quale era stato dianzi informato. Pronunziò alcune parole, e, immediata-mente, un giovanotto con in mano un fl agello si accostò a me e mi colpì gentilmente l’orecchio destro. Come meglio potetti, gli feci capire a segni che per me quello strumento non occorreva; ciò che, poi venni a sapere, diede a Sua Ma-està e all’intera corte un’idea bassissima delle mie facoltà intellettuali. Il Re, da quel che mi fu dato congetturare10, mi rivolse parecchie domande, alle quali risposi in tutte le lingue che conoscevo. Accortisi che né capivo né pote-vo farmi capire, mi condussero, per ordine del Sovrano, in una camera della reggia (quel principe si segnala fra tutti i suoi predecessori per l’ospitalità largita ai forestieri), dove due domestici avevano avuto ordine di accudirmi. Fu ser-vito un pranzo, e quattro personaggi di grado elevato, che ricordo d’aver visto molto prossimi all’augusta11 persona, mi fecero l’onore di tenermi compagnia a tavola. Avemmo due portate, ciascuna di tre pietanze. Nella prima ci fu una spalla d’agnello tagliata in forma di triangolo equilatero, un pezzo di manzo in forma d’un rombo, ed un bodino

9 Si ricordò di nuovo.10 Pensare, capire.11 Nobile

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arieggiante una cicloide12. La seconda portata consistette in due anatre legate insieme in modo da raffi gurare un violi-no; salsicce e bodini che si sarebbero detti fl auti e oboe13, e del petto di vitello che pareva proprio un’arpa. I domestici ci tagliarono il pane in tanti coni, cilindri, parallelogram-mi, ed altre fi gure geometriche.

JONATHAN SWIFT,I viaggi di Gulliver

12 Linea curva descritta da un punto di una circonferenza che roto-li su di una retta.

13 Strumenti musicali della famiglia dei legni.

Considerato il massimo scrittore inglese del suo tempo ed uno dei più grandi scrittori satirici mai esistiti, fi glio di genitori inglesi stabilitisi in Ir-landa, Jonathan Swift, nasce il 30 novembre 1667 a Dublino. Perde il padre prima della nascita. La madre fa ritorno in Inghilterra nel 1673. Jonathan viene lasciato a Dublino presso alcuni parenti, cre-scendo in condizioni non dissimili a quelle di un orfano. Durante l'infanzia studia a Kilkenny, poi a Dublino, presso il Trinity College. Nel 1679 dietro consiglio della madre si reca in Inghilterra. Lavora

come segretario di sir William Temple: nella sua casa conosce Esther John-son (Stella), alla quale rimarrà legato per tutta la vita e che forse sposò in segreto.

Per raggiungere l'indipendenza economica prende gli ordini religiosi nel 1694: l'anno seguente viene nominato parroco di Kilroot, in Irlanda, vive però prevalentemente a Londra dove partecipa alla vita politica reli-giosa e letteraria e frequenta i circoli politici più importanti. Grazie al suo estro Jonathan Swift diviene una delle persone più infl uenti della città. Tra il 1710 e il 1714 è consigliere del governo Tory appoggiandolo con libelli ed articoli dalle pagine dell'Examiner, che lo stesso Swift diresse, e attraverso lo Scriblerus Club, di cui facevano parte i suoi pochissimi amici: Pope, Gay, Harley, Arbuthnot.

Con la caduta del governo, Jonathan Swift torna in Irlanda avendo ot-tenuto il ruolo di decano della Chiesa di St. Patrick a Dublino. In questo

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periodo di permanenza nell'isola denuncia le vessazioni a cui il popolo ir-landese (che egli peraltro disprezza) è sottoposto da parte degli inglesi e del governo locale, diventando una specie di eroe nazionale. Dopo la morte delle persone a lui più care i suoi disturbi mentali si acuiscono sempre di più fi no a portarlo alla morte, avvenuta il 19 ottobre 1745.

Lascia il suo patrimonio ai poveri e ne destina una parte alla fondazione di un manicomio. Nel 1704 escono anonimi, riuniti in un unico volume, i primi scritti. Una relazione sulla battaglia tra libri antichi e moderni è un intervento a favore degli antichi nella controversia sugli scrittori mo-derni e antichi. Un discorso sull'attività meccanica dello spirito è una satira contro gli stati mistici, ridotti a manifestazioni patologiche. Brillan-tissima è Racconto di una botte, parodia delle varie chiese cristiane.

Postumi uscirono anche le feroci Istruzioni ai servi e Il diario d Stella (1766-1768): quest'ultimo comprende 65 lettere scritte a Stella tra il 1710 e il 1713, una delle opere più straordinarie di Swift, per la descrizione della vita londinese e per la tenerezza e giocosità espresse nel "little language", il linguaggio swiftiano infantile e cifrato dei passi più affettuosi.

Del 1726 è il suo capolavoro e romanzo più famoso I viaggi di Gulliver. Il titolo intero era Travels into several remote nations of the world in four parts by Lemuel Gulliver ecc.. La storia è quella del medico Lemuel Gulliver, che naufraga con la nave mercantile su cui era imbarcato. Si ri-trova sull'isola di Lilliput dove tutto, a cominciare dagli abitanti, è grande la quindicesima parte delle persone e degli oggetti che conosciamo. Nella seconda parte Gulliver visita Brobdingnag dove il rapporto è rovesciato: lui diventa il trastullo della fi glia del re che lo tiene tra i suoi giocattoli. Nella terza parte Gulliver visita Laputa e il continente che ha come capitale Lagado: la satira si rivolge contro fi losofi storici e inventori. Nell'isola di Glubdubdrib Gulliver evoca le ombre dei grandi dell'antichità e dalle loro risposte ne scopre i vizi e le meschinità. Presso gli Struldrug immortali si accorge che la massima infelicità degli uomini sarebbe la prospettiva di non porre mai fi ne al tedio di vivere. Nella quarta e ultima parte la virtuosa semplicità dei cavalli Houyhnhnms è messa in contrasto con la nauseabon-da brutalità degli Yahoo, bestie dall'aspetto umano.

Non esiste in tutta la letteratura occidentale una condanna del genere umano paragonabile a quella espressa in questo libro. Swift è riuscito a dare a quest'opera un assoluto equilibrio d'insieme. Il suo aggressivo signifi cato allegorico è accessibile a chi vuole intenderlo, tuttavia non danneggia nè il giudizio sulle suggestive costruzioni fantastiche dell'autore, nè la capacità immaginativa del lettore. Di qui l'apparente ironia per cui la più crudele ed elaborata satira contro il genere umano abbia avuto fortuna come libro di amena lettura, e sia diventata, con gli opportuni tagli, un classico per l'infanzia.

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Nummeridi Trilussa

“Con un linguaggio arguto, appena increspato dal dialetto borghese, Tri-lussa ha commentato circa cinquant’anni di cronaca romana e italiana, dall’età giolittiana agli anni del fascismo e a quelli del dopoguerra. La corruzione dei politici, il fanatismo dei gerarchi, gli intrallazzi dei potenti sono alcuni dei suoi bersagli preferiti. Ma la satira politica e sociale, condotta d’altronde con un certo scetticismo qualunquistico, non è l’unico motivo ispiratore della poesia trilussiana: frequenti sono i momenti di crepuscolare malinconia, la rifl essione sconsolata, qua e là corretta dai guizzi dell’ironia, sugli amori che appassisco-no, sulla solitudine che rende amara e vuota la vecchiaia (i modelli sono, in questo caso, Lorenzo Stecchetti e Guido Gozzano).

La chiave di accesso e di lettura della satira del Trilussa si trovò nelle favo-le. Come gli altri favolisti, anche lui insegnò o suggerì: ma la sua morale non fu mai generica e vaga, bensì legata ai commenti, quasi in tempo reale, dei fatti della vita. Non si accontentò della felice trovata fi nale, perseguì il gusto del divertimento per se stesso già durante la stesura del testo e ovviamente anche del lettore a cui il prodotto veniva indirizzato [...]”.

Quella che segue è, appunto, quasi una favola alla Fedro, dove l’uno e lo zero - nummeri - prendono il posto della volpe, del corvo, dell’asino, della rana o del bue... È l’Uno che parla: e naturalmente prende di mira chi gli appare inferiore. Il corto circuito dell’ultima quartina, come al solito in Trilussa, è di una visionarietà sorprendente: amara e vera quant’altre mai.

Nummeri

- Conterò poco, è vero:- diceva l’Uno ar Zero -

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Piccole conferenze per grandi incontri

ma tu che vali? Gnente: propio gnente.Sia ne l’azzione come ner pensiero

rimani un coso voto e inconcrudente.Io, invece, se me metto a capofi la

de cinque zeri tale e quale a te,lo sai quanto divento? Centomila.

È questione de nummeri. A un dipressoè quello che succede ar dittatoreche cresce de potenza e de valore

più so’ li zeri che je vanno appresso.

Carlo Alberto Salustri, più conosciuto con lo pseudonimo di Tri-lussa - anagramma del cognome - (Roma, 26 ottobre 1871 – Roma, 21 dicembre 1950), è un poeta italiano noto in particolare per le composizioni in dialetto romanesco.

Dopo un’infanzia poverissima (a tre anni era rimasto orfano del padre), compì studi irregolari ed esordì giovanissimo (1887), con poesiole romanesche, sul Rugantino di Luigi Zanazzo; più tardi scrisse anche per il Don Chisciotte, il Capitan Fracassa, Il Mes-saggero e Il Travaso delle idee.

Di carattere manierato, provinciale e madrigalesco è il primo vo-lume di versi, Le Stelle de Roma (1889) che si attirò gli strali di Filippo Chiappini, vecchio amico di famiglia e poeta romanesco di un certo valore; poi la sua vena, prevalentemente satirica, andò via via affi nandosi, trovando la misura più congeniale nel bozzetto di

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costume e nella favola moraleggiante di ascendenza esopiana: Qua-ranta sonetti (1895), Favole romanesche (1900), Caffè concer-to (1901), Er serrajo (1903), Ommini e bestie (1908), Le storie (1915), Lupi e agnelli (1919), Le cose (1922), La gente (1927) e molte altre, tra le quali la famosa La vispa Teresa del 1917 conti-nuazione ironica della celeberrima La farfalletta del milanese Luigi Sailer:

C’è un’ape che se posasu un bottone di rosa:lo succhia e se ne va…

Tutto sommato, la felicitàè una piccola cosa.

(TRILUSSA, Felicità)

Ben presto le sue opere lo resero un personaggio popolarissimo, ma durante la sua vita fu sempre assillato da problemi economici, mantenendosi con i proventi editoriali e le collaborazioni giornali-stiche; era anche un effi cace dicitore dei suoi versi, e come lettore di poesia fece lunghe tournée in Italia e all’estero.

Sulla scia del successo iniziò a frequentare i “salotti” nel ruolo di poeta-commentatore del fatto del giorno. Durante il Ventennio evitò di prendere la tessera del Partito fascista, ma preferì defi nirsi un ‘non fascista’ piuttosto che un antifascista.

Pur facendo satira politica, i suoi rapporti con il regime furono sempre sereni e improntati a reciproco rispetto.

Nel 1922 la Mondadori iniziò la pubblicazione di tutte le raccol-te. Sempre nel 1922 lo scrittore entra in Arcadia con lo pseudonimo di Tibrindo Plateo, che fu anche quello del Belli.

Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi nominò Trilussa senatore a vita il primo dicembre 1950, venti giorni prima che mo-risse; già da tempo malato, e presago della fi ne imminente, ma con immutata ironia, il poeta commentò: “M’hanno nominato senatore a morte”.

La raccolta di Tutte le poesie uscì postuma, nel 1951, a cura di Pietro Pancrazi, e con disegni dell’autore.

(cfr. la voce “Trilussa”in Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Trilussa)

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Spesso la matematica popola gli incubi degli scolari: lo stesso accade al bambino, descritto da Colette e protagonista de L’Enfant et les sortilèges di Ravel, che brontola davanti ai suoi compiti di scuola e viene punito dalla madre per la sua pigrizia.

L’Enfant et les sortilèges è un’opera in due parti, composta da Maurice Ravel fra il 1919 ed il 1925, in collaborazione con Colette che scrisse il li-bretto intitolato inizialmente Divertissement pour ma fi lle. Si tratta della seconda ed ultima opera lirica di Ravel, dopo L’Heure espagnole (1907).

ArgomentoUn bambino viene castigato dalla mamma perché non ha fi nito i compiti.

Quando la mamma esce scoppia una piccola crisi di furore: il bimbo si sfoga distruggendo tut to quanto gli capita sotto mano, rompendo tazza e teiera, gettando per aria i libri, ti rando la coda al gatto. Infi ne, esausto, si abban-dona sulla poltrona. Iniziano allora i sortilegi: la pendola, la teiera e la tazza di porcellana protestano e meditano vendet ta, il fuoco lo minaccia. Ad un tratto il bimbo è colto dalla paura; la principessa delle fate, uscita dalle pagine strappate del libro, cerca di consolarlo, ma è solo un breve momento ed essa, d’incanto, svani sce. In suo luogo entra un vecchietto che impersona l’aritmetica: frastornai il bimbo recitando una lunga serie di orribili pro-blemi. Ma intanto si alza la luna: il gatto e la gatta si abbandonano ad un duetto d’a more.

Inseguendoli il bambino giunge in giardi no, dove piante ed animali gli muovono severi rimproveri per gli alberi scorticati, le libellule crocifi sse, le rane e i pipistrelli tormentati. Nella frenesia suscitata dei rimproveri uno scoiattolo cade da un albe ro e il bimbo prontamente lo cura; fra le bestie nasce un felice stupore ed un’inat tesa solidarietà: il bimbo viene perdonato e accompagnato a casa, dalla mamma.

L’aritmeticadi Colette/Ravel

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Piccole conferenze per grandi incontri

“Subito, giusto a proposito, le cifre di un libro di matematica, «ma-liziose e smorfi ose», cominciano ad animarsi, annunciate da un tremolo in fortissimo. [...] la temporalità meccanica dei numeri si impone come un incubo ancor più inquietante: sulla scena appare un «vecchietto gob-bo, adunco, barbuto, vestito di numeri», evidente incarnazione di un arcigno professore di aritmetica. Su un ritmo ossessivamente regolare egli recita dei «problemi in briciole», danzando sinistramente attorno al bambino, e gli propone senza pausa dei calcoli impossibili ed errati. Egli rappresenta quindi un’altra mostruosità: non il fi ne dell’insegnamento ma l’enumerazione pura, il cui scopo è solo quello di turbare la mente di un fanciullo; rappresenta altresì la razionalità apparente, la quale è tanto ostentata quanto violenta, in ogni caso al di fuori di ogni discussione e di ogni critica, nonché di ogni buon senso. Infatti il bambino non è lontano dall’impazzire, poiché si rende conto della falsità di quei calcoli: «Sette per nove trentatré?» - si chiede stupefatto e sconcertato, ma senza ottene-re una risposta razionale e soddisfacente. Le armonie cromatiche e la scala discendente fi nale sul pedale in più-che-fortissimo sottolineano questo stato psicologico del protagonista [...]”1.

1 CARLO MIGLIACCIO, L’odissea musicale nella fi losofi a di Vladimir Jankélévitch. La scena è proposta in You Tube al seguente indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=8zCI6k3JQrk

L’ENFANT(Il se penche, et cherche parmi les feuillets épars la fi n du conte de Fées, mais en vain... Il cher che...)

Rien... Tous ceux-ci sont des livres arides, D’amères et sèches leçons.

(Il les pousse du pied, mais de petites voix aigres sortent d’entre les pages, qui se soulèvent et lais sent voir les malicieuses et grimaçantes petites fi gures des chiffres. D’un grand album, plié en forme de toit, sort un petit vieillard bossu, cro chu,

IL BAMBINO(Si china e cerca fra i fogli sparsi la fi ne della fi aba, ma invano... Cerca...)

Nulla... Tutti questi sono libri aridi, Lezioni sterili e amare.

(Li spinge con il piede. Ma piccole voci stridule escono dalle pagine, che si sollevano e lasciano intravedere i piccoli visi dei numeri, maliziosi e pieni di smorfi e. Da un grande album piegato a forma di tetto esce un vecchietto gobbo, nasuto e barbuto,

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barbu, vêtu de chiffres, coiffé d’un , cein turé d’un mètre de couturière et armé d’une équerre. Il tient un livre de bois qui claque en me sure, et il marche à tout petits pas dansés, en ré citant des bribes de problèmes.)

LE PETIT VIEILLARD

Deux robinets coulent dans un réservoir! Deux trains omnibus quittent une gareA vingt minutes d’intervalle,Valle, valle, valle!Une paysanne,Zanne, zanne, zanne,Porte tous ses oeufs au mar-ché!Un marchand d’étoffe,Toffe, toffe, toffeA vendu six mètres de drap!

(Il aperçoit l’Enfant et se dirige vers lui de plus malveillante manière.)

L’ENFANT(affolé)Mon Dieu! C’est l’Arithmétique!

LE PETIT VIEILLARD (aquiesçant)Tique, tique, tique!

(Il danse autour de l’Enfant, en multipliant les passes maléfi ques, et chante en fausset.)

Quatre et quat’ dix-huit, Onze et six vingt-cinq, Sept fois neuf trente-trois.

vestito di numeri, con un per cap-pello, un metro per cintura e armato d’una squadra. Porta un libro di legno che sbatte a tempo e cammina a piccoli passi danzanti, reci tando dei frammenti di problemi.)

IL VECCHIETTO

Due rubinetti versano in unavasca! Due treni lasciano una stazione

A venti minuti d’intervallo,Vallo, vallo, vallo!Una contadina,Dina, dina, dina,Porta tutte le sue uova al mercato! Un mercante di stoffa,Toffa, toffa, toffa,Ha venduto sei metri di tela!

(Scorge il Bambino e si dirige verso di lui nel più malevolo dei modi.)

IL BAMBINO(impaurito)Mio Dio! È l’Aritmetica!

IL VECCHIETTO (acquiescente) Tica, tica, tica!

(Danza attorno al Bambino, molti-plicando i passi malefi ci, e canta in falsetto:)

Quattro e quattro diciotto, Undici e sei venticinque, Sette volte nove trentatré.

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Piccole conferenze per grandi incontri

IL BAMBINO(affascinato, ripete)Sette volte nove trentatre?

IL CORO DEI NUMERI(sollevando i fogli e strillando) Sette volte nove trentatre?

IL BAMBINO(decisamente esagerando) Tre volte nove quattrocento!

IL VECCHIETTO(si bilancia per seguire il movimento del giro tondo)Millimetro, Centimetro, Decimetro, Decametro, Ettometro, Kilometro, Miriametro, Bisogna farlo! Che tarlo!Milioni,Bilioni,Trilioni,Che fannulloni!

I NUMERI(trascinando il Bambino nella loro danza)Tre volte nove trentatre!Due volte sei ventisette!Quattro e sette cinquantanove! Due volte sei trentuno!Cinque volte cinque quarantatre! Sette e quattro cinquantacinque!

(Girotondo folle, dove il Bambino,

L’ENFANT(fasciné, répétant)Sept fois neuf trente-trois?

LE CIREUR DES CHIFFRES(soulevant les feuillets et piaillant) Sept fois neuf trente-trois?

L’ENFANT(exagérant résolument) Trois fois neuf quat’ cent!

LE PETIT VIEILLARD(il se balance, pour prendre le mou-vement de la ronde)Millimètre, Centimètre, Décimètre, Décamètre, Hectomètre, Kilomètre, Myriamètre, Faut t’y mettre Quelle fêtre! Des millions, Des billions, Des trillions, Et des frac-cillions!

LES CHIFFRES(entraînant l’Enfant dans leur danse)Trois fois neuf trent’ trois! Deux fois six vingt-sept! Quatre et sept cinquante-neuf! Deux fois six trente-et-un! Cinq fois cinq quarante-trois! Sept et quat’ cinquante-cinq!

(Ronde folle, où l’Enfant, entraîné,

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harcelé, tom be, étourdi, tout de son long. Le Petit Vieillard et le choeur s’éloignent.)

(Presque parlé.)Quatre et quat’ dix-huit! Onze et six vingt-cinq!

(L’Enfant se relève péniblement sur son séant. La lune est levée, elle éclaire la pièce. Le Chat noir sort lentement de dessous le fauteuil. Il s’é tire, baille et fait sa toilette. L’En-fant ne le voit pas d’abord et s’étend, harassé, la tête sur un coussin de pieds. Le Chat joue et roule une balle de laine. Il arrive auprès de l’Enfant, et veut jouer avec la tête blonde comme avec une pelote.)

L’ENFANT

Oh! Ma tête! ma tête!

stordito, cade tutto lungo e disteso. Il Vecchietto e il coro si allontana-no.)

(Quasi parlato.)Quattro e quattro diciotto! Undici e sei venticinque!

(Il Bambino si rimette faticosa-mente a sedere. Si è levata la luna e rischiara tutta la stanza. Il Gatto nero esce lentamente da sotto la poltrona. Si stiracchia, sbadiglia e fa la toeletta. Dappri ma il Bambino non lo vede e si stende, spossato, con la testa su di uno sgabello. Il Gatto gioca rincorrendo una palla di lana. Arriva vicino al Bambino e vuole giocare con la testa bionda co me con un gomitolo.)

IL BAMBINO

Oh! La mia testa! La mia testa!

Scena da L’Enfant et les sortilèges di Ravelnell’allestimento del 3 marzo 2011 alla Bayerische Staatsoper

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I numeri della matematica

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Dalla natura al numerodi John D. Barrow

Noi troviamo un tipo indù, arabo, classico, occidentale di pensiero matema-tico e quindi anche di numero; espressione, ogni tipo, di qualcosa di intrinseco e di unico; ognuno simbolo di una validità anche scientifi camente ben circo-scritta[...]. Per cui esiste più di una matematica.

OSWALD SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente.

Lineamenti di una morfologia della Storia mondiale (1918-22. Parte prima, cap. I, par. 3.

[trad. it. Guanda, Parma 19913, p. 99].

Il fatto che la matematica funzioni in maniera così ac-curata, universale e utile le permette di assisterci in mille modi diversi nella nostra vita di tutti i giorni. Tutti i mar-chingegni meccanici ed elettronici che ci circondano sono stati costruiti sulla base di precise indicazioni matematiche, e il buon rendimento scolastico dei nostri fi gli in matemati-ca viene ritenuto di vitale importanza perché apre loro una serie di opportunità. Alla luce di tutto questo sembra fon-damentale comprendere che cosa è la matematica e perché funziona. Perché, se si tratta di una delle tante costruzioni umane soggette ad errore, abbiamo bisogno di sapere dove può sbagliare.

Nello studio della natura di qualsiasi oggetto è sempre un buon principio quello di andare a vederne le origini, cer-

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cheremo perciò di capire quali siano le radici del pensiero matematico. Se esaminiamo brevemente le origini dei siste-mi di numerazione usati dall’uomo, avremo un’idea della provenienza delle idee matematiche e della relativa facilità con cui furono concepite.

Gli esseri umani, e persino certi animali, sembrano pos-sedere un senso naturale del numero che permette loro di sentire la presenza o l’assenza di piccole quantità. Noi sappiamo che se lanciamo un rapido sguardo a un’imma-gine che contiene un certo numero di oggetti e la quantità si aggira attorno alle cinque unità, siamo in grado di sapere immediatamente quanti sono, mentre se sono di più siamo costretti a contarli. C’è una storiella divertente a questo pro-posito. Un contadino cercava di sparare a un corvo che con-tinuava a tornare su una torre situata sulla sua proprietà e a mangiare il suo grano: appena il contadino arrivava vicino alla torre con il suo fucile, l’uccello volava via, ma appena si allontanava, il corvo ritornava. Frustrato nei suoi tentativi di liberarsi del ladruncolo, il contadino aguzzò l’ingegno e decise di ingannare il corvo costringendolo a tornare alla torre mentre lui era ancora lì. Si recò alla torre con un amico e l’uccello si allontanò; più tardi l’amico andò via e il con-tadino rimase, ma il corvo non tornò. Il contadino provò a ripetere il trucco portando con sé due amici che si allonta-narono uno dopo l’altro: niente da fare. Tentò con tre amici: ancora niente. Provò allora ad andare alla torre con quattro amici, che anche questa volta si allontanarono uno a uno. Ma stavolta il corvo ritornò e il contadino riuscì a sparar-gli. Il senso del numero del corvo gli permetteva di tenere il conto della quantità solo fi no a quattro, poi si confondeva e aveva solo la vaga sensazione che fossero in molti.

Anche osservando le società umane più primitive trovia-mo esempi di un senso del numero estremamente sempli-fi cato. Esistono diversi casi di tribù africane, sudamerica-ne ed australiane nelle cui lingue esistono solo i concetti

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di «uno», «due» e «molti». Questa limitazione ai numeri più piccoli ha lasciato tracce anche in molte lingue euro-pee, nelle quali esistono aggettivi per indicare «primo» e «secondo» che sono etimologicamente distinti dalle parole uno e due, mentre «terzo», «quarto», «quinto», «sesto» e così via sono chiaramente legati ai numeri tre, quattro, cin-que e sei. Ciò implica che le parole che esprimono i numeri uno due sono molto più vecchie e rifl ettono una concezio-ne più primitiva e più limitata del contare. Inoltre trovia-mo nella maggior parte delle lingue europee una tendenza ad usare parole specifi che per descrivere la stessa piccola quantità di oggetti diversi. Perciò in inglese, ad esempio, esistono diverse parole per indicare oggetti che si trovano generalmente in «coppia» e l’uso di queste parole è stretta-mente collegato all’identità degli oggetti in questione. Di-ciamo normalmente: un paio di scarpe, un duetto musicale, una coppia di fagiani. Questo ci dimostra la mancanza di qualsiasi nozione astratta di numero allo stadio iniziale del-lo sviluppo umano. In molte tribù primitive la stessa ten-denza si ritrova molto amplifi cata. Esiste più di una parola per tutti i numeri in uso, e si utilizzano parole diverse per indicare tre pesci, tre canoe, tre persone, tre pietre, tre lan-ce, mentre non viene evidenziato il fattore comune, cioè che si tratti di tre oggetti.

È possibile contare anche senza avere alcun senso del numero, ma semplicemente operando un riscontro. Se un pastore tiene nella borsa una serie di pietre, una per ciascu-na delle sue pecore, alla fi ne del giorno può controllare che tutte le pecore siano presenti tirando fuori dalla borsa una pietra per ogni pecora che vede entrare nell’ovile. Se non ha più pietre dopo il passaggio dell’ultima pecora, signifi ca che sono rientrate tutte e stanno al sicuro. Un interessante esempio dell’uso di questo sistema è stato scoperto durante alcuni scavi archeologici fatti a Nuzi, un’antica città meso-potamica, oggi in Iraq. È stato ritrovato un piccolo conteni-

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tore di argilla con la seguente iscrizione: Totale pecore e capre: 21 pecore che hanno fi gliato 6 agnelli femmina8 montoni adulti 4 agnelli maschio 6 capre 1 caprone 2 capretti per un totale di 48 animali. Molto più tardi il sigillo del

contenitore fu rotto e all’interno furono trovate 48 palline di argilla. Durante un’altra spedizione nella stessa regio-ne l’archeologo che aveva trovato il contenitore di argilla scoprì che molti contadini analfabeti incaricati di vendere al mercato gli animali del loro padrone portavano ancora con sé, insieme a una lista scritta degli animali, piccoli og-getti che servivano per contare. A questo punto la funzione del contenitore e delle palline apparve chiara. Il padrone o il suo fattore affi davano a qualcuno un certo quantitativo di animali; le informazioni venivano scritte all’esterno per chi sapeva leggerle, ma a benefi cio dei pastori analfabeti veniva inserita all’ interno una pallina per ciascun animale, di modo che potessero accertarsi che fossero tutti presenti facendo un riscontro.

Questa è la forma più antica che si conosca di senso del numero. La testimonianza più remota di questo sistema di numerazione si ritrova su un osso del perone di babbui-no rinvenuto nelle montagne dello Swaziland e risalente al 35.000 avanti Cristo. Presenta 29 tacche e probabilmente si tratta di un’arma su cui il cacciatore segnava gli animali uccisi. In Cecoslovacchia, a Vestonice, è stato ritrovato un osso di lupo, lungo circa 18 centimetri e risalente all’incir-ca al 30.000 avanti Cristo; esso mostra una linea composta da 25 tacche, poi due segni più grandi, seguiti da altre 30 tacche, e presenta tracce di divisione delle tacche in gruppi

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John David Barrow (Londra, 29 novembre 1952) è un cosmologo inglese, professore di matematica a Cambridge.

Laureatosi in Scienze Matematiche all’Universi-tà di Durham, ha conseguito il dottorato in astrofi si-ca alla Oxford University nel 1977, specializzandosi quindi a Berkeley. Autore di centinaia di articoli e di decine di saggi tradotti in ventotto lingue è conside-rato uno dei maggiori esperti al mondo della moderna ricerca cosmologica.

Vicino alle tesi di Roger Penrose e Paul Davies riguardo al rapporto tra universo e coscienza, Barrow ha esplorato a fondo alcune delle questioni più spigolose della cosmologia contemporanea contribuendo a sfatare molti tabù degli scienziati in questo campo: il concetto di infi nito, la “Teoria del Tutto”, il destino dell’universo e la sua origine, i particolari rapporti nu-merici che stanno alla base del cosmo e della vita umana. Circa quest’ulti-mo punto, Barrow, con il suo fondamentale lavoro Il principio antropico, ne ha realizzato la prima completa teorizzazione, e sempre più spesso se ne discute in fi losofi a e teologia.

Nel 2006 è stato insignito del “Premio Templeton” per “i suoi scritti sulla relazione tra la vita e l’universo, e sulla natura della consapevolezza umana [che] ha prodotto nuove prospettive sulle questioni centrali riguar-do alla scienza e alla religione”.

Per il teatro ha scritto lo spettacolo Infi nities (2002) che ha esordito al Teatro Piccolo di Milano, poi a Valencia, conseguendo il “Premio teatrale Ubu 2002” come spettacolo dell’anno.

[Fonte: WIKIPEDIA, John David Barrow]

di cinque (forse da collegare con il numero delle dita della mano). La cosa interessante è che questo oggetto è stato ri-trovato accanto alla scultura in avorio di una testa femmini-le, che testimonia l’esistenza di una cultura più sviluppata di quella dei cacciatori e dei raccoglitori. [...]

JOHN D. BARROW,Perché il mondo è matematico?

Laterza, Bari 1992.

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Intervista a un matematicodi Piergiorgio Odifreddi

Incontriamo Piergiorgio Odifreddi in una tiepida giornata d’autunno nella sua casa di Torino, che si trova in un bel quartiere del tardo Ottocento, tra il ponte sul fi ume e la collina. Parliamo del mestiere del matematico seduti in un salotto luminoso, dove spiccano un pianoforte e numerosi oggetti d’arte orientale. Forse ispirato dal vicino Po, Odifreddi parla come un fi ume in piena e si ferma raramente, solo per riprendere fi ato. ln pochi secondi riesce a dire infi nite cose, argute e ricche di stimoli. Durante una pausa di quest’intervista visitiamo anche lo studio, dove Odifreddi passa le sue giornate a scrivere e me-ditare: dal pavimento al soffi tto le pareti sono completamente ricoperte di libri di tutti i generi, dalla matematica alla fantascienza, passando per la politica, la fi losofi a, la narrativa e la biologia. Letture, musica e Oriente sembrano essere gli interessi predominanti di questo matematico impertinente ed eclettico.

I primi anni di formazioneQuando, come e per quali motivi ha scelto di studiare mate-

matica?Credo di essermi accorto che mi piaceva la matemati-

ca abbastanza tardi, alle superiori. E credo ci sia anche un motivo preciso per questa non-precocità, che magari può interessare a quelli che sono soliti guardare alla matematica con una smorfi a, anziché con un sorriso.

Come ha evidenziato lo scienziato cognitivo americano Howard Gardner nella sua teoria delle intelligenze, esisto-no almeno otto o nove tipi diversi di intelligenza. Questo è molto interessante, prima di tutto perché mostra che l’in-

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telligenza non è un monolito: cioè, non è vero che o si è o non si è intelligenti, in assoluto. Si può essere intelligenti in un certo senso e magari defi cienti - oppure semplicemente normali - in tanti altri. Quella musicale, ad esempio, è il tipo di intelligenza che si sviluppa per prima. Tutti abbiamo in mente l’immagine di Mozart al pianoforte, che a quattro anni compone le prime sonate; i bambini spesso fanno così, si divertono a giocare con i tasti, perché in quell’attività vie-ne coinvolta anche la sensibilità tattile, oltre all’orecchio.

Di tutte le intelligenze, quella di tipo matematico è inve-ce l’ultima a svilupparsi: non prima dei tredici - quattordici anni. Ciò signifi ca che anche coloro che poi, come me, di-venteranno matematici professionisti, fi no a tredici - quat-tordici anni ancora non sanno che avranno questa “voca-zione”.

Naturalmente questo crea un problema per l’insegna-mento, perché, a meno di voler decidere di iniziare ad an-dare a scuola a quattordici anni, da bambini ci troviamo a vivere un dramma: per otto anni veniamo sottoposti all’in-segnamento della matematica, anche senza averne ancora sviluppato - se mai la svilupperemo - l’attitudine. Terribile, no? È un po’ come costringere un bambino a camminare quando ancora non si sono formati i muscoli. Oppure a par-lare a tre mesi. Ciò vuol dire che, da un lato, bisognerà ac-cettare l’idea che non si può far violenza a un bambino, vo-lendogli far imparare cose per le quali non è ancora pronto. E, dall’altro lato, occorrerà ripensare completamente l’inse-gnamento della matematica ai bambini e agli adolescenti.

E lei, a che età ha scoperto di essere “pronto” per lo studio della matematica

Credo di essere stato per l’appunto “normale”, nel sen-so che alle medie, benché non mi dispiacesse troppo fare i compiti con i numeri, neppure ci trovavo un gusto partico-lare. Solo più tardi, a metà delle superiori, mi sono accorto

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che effettivamente, come si dice, “andavo bene” in mate-matica. Però non avevo affatto deciso di fare il matematico. Anzi...

Da bambino avevo deciso di fare... il papa. Sono anda-to in seminario, con grande scandalo dei miei genitori, che avrebbero preferito un’altra carriera. Ma io ho insistito. Poi, fortunatamente, è venuto a salvarmi il Concilio Vaticano l che, con la sua apertura al mondo, mi ha fatto capire che i papi italiani avrebbero avuto vita dura.

Se avessi insistito con quella carriera, mi sarebbe andata malissimo. Anzitutto, gli ultimi due papi sono stati stra-nieri. E poi, come se non bastasse, le profezie di Malachia prevedono solo 112 papi in tutto, di cui quello attuale è il penultimo: ne manca soltanto un altro, dopo di che la Chie-sa dovrebbe chiudere baracca e burattini, a Dio piacendo.

Per farla breve, non aveva più senso voler diventare papa. Quindi in seminario ho fatto solo la quinta elementa-re e le tre medie, abbastanza per fare il pieno di messe e di latino, e poi sono uscito. A quel punto di messe non volevo più sentir nemmeno parlare e non sono più entrato in una chiesa, se non per motivi turistici. E di latino, idem: così ho scelto una scuola dove non ce ne fosse neppure l’ombra e sono andato a fi nire all’istituto tecnico per geometri... Lì poi ho cominciato ad accostarmi alle varie materie tecniche e mi sono accorto che - guarda un po’ - la matematica mi piaceva.

La scelta dell’universitàE in quale momento ha deciso che sarebbe diventato un mate-

matico?Solo dopo avere preso il diploma. Mi ricordo che

nell’estate della maturità, quando già pensavo di iscrivermi a ingegneria, mi capitò sotto mano un libro acquistato sulle bancarelle. La cosa buffa è che non mi ricordo esattamente quale libro fosse, però era certamente uno di due, entram-

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bi di Bertrand Russell: l’Introduzione alla fi losofi a matematica oppure la Storia della fi losofi a occidentale. Credo comunque che fosse il primo. Il quale, nonostante il titolo reboante, era un libro in cui Russell parlava in sostanza di ciò che lui intendeva per fi losofi a della matematica. Parlava dei fon-damenti della matematica, cioè: che cosa sono i numeri, che cos’è l’infi nito, quali metodi si usano per dimostrare un te-orema...

Non so quanto ne capii, a una prima lettura, ma sono passati trentacinque anni e ancora ricordo l’impressione profonda lasciata in me da alcune frasi, come quella in cui si diceva che scegliere di procedere adottando un nuovo assioma1 nella matematica aveva “molti vantaggi: gli stessi del furto nei confronti del lavoro onesto”. Nel senso che ru-bare è certo utile, però se sei una persona onesta non lo fai...

Stimolato da quel libro, quell’estate cambiai idea quasi improvvisamente e decisi che avrei fatto matematica. Così non solo non diventerò papa, ma neppure sono diventato ingegnere, e non me ne sono mai pentito.

Che cosa si aspettava di trovare in un corso di laurea in mate-matica?

A dire il vero, non ero del tutto consapevole. Ad esempio, dovevo fare un esame di algebra e credevo bene o male di conoscerla già dalla scuola. Immaginavo che dopo le equa-zioni di secondo grado ci sarebbero state quelle di terzo. E poi di quarto, quinto, sesto grado... non sapevo quando ci si sarebbe fermati. Non avevo la minima idea, ad esempio, del fatto che esistesse un’algebra astratta: che si potessero studiare strutture che non erano costituite dei soliti numeri, bensì di oggetti astratti e applicabili a svariati campi. Ad esempio, i numeri reali sui quali facciamo le quattro ope-razioni sono solo uno dei tanti ambiti nei quali si possono

1 Assioma: affermazione che è superfl uo dimostrare perché di per sé evidente e indiscutibile.

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fare operazioni simili: come i numeri interi da 0 a 12, che costituiscono l’aritmetica dell’orologio.

Per quanto riguarda l’analisi, poi, in teoria non avrei neppure dovuto sapere che cosa fosse, perché gli istituti per geometri, almeno all’epoca, non l’avevano in program-ma. Tuttavia, già dalla quarta superiore mi ero messo a stu-diarla per conto mio: usavo la mia paghetta (che mio padre non mi dava, ma che mi guadagnavo andando a disegnare da un geometra), per prendere lezioni di analisi da un pro-fessore di liceo. Il quale naturalmente ne era molto stupito, e diceva: “Ma perché vieni a lezione? Voi geometri questa materia non la dovete studiare!“. In genere un professore dà lezioni private al ragazzo un po’ tonto che non riesce a seguire il programma: gli pareva strano avere a che fare con uno che voleva studiare quella materia “per diverti-mento”[...].

PIERGIORGIO ODIFREDDI,Idee per diventare matematico.

Strumenti razionali per la comprensione del mondo,Zanivchelli, Bologna 2005, pagg. 6-11.

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Che cos’è la matematicadi Piergiorgio Odifreddi

Senza la matematica non ci sarebbero le previsioni del tempo o i piloti auto-matici degli aerei. Tuttavia la matematica non serve solo per capire la scienza e la tecnologia. Secondo Piergiorgio Odifreddi, essa offre un modello di raziona-lità, che ci aiuta a evitare le trappole del pensiero confuso e illogico che spesso predomina nel mondo moderno. In questo libro l'autore racconta il percorso che lo ha portato ad amare la matematica, dal periodo passato in seminario, quando sognava di diventare papa, alla scelta dell'università, fi no alla carriera di ricercatore. Odifreddi spiega come si fa a: capire la matematica, che spesso è ostica anche per chi ne ha fatto il proprio mestiere, e come essa sia uno «sport da giovani», nel quale si dà il meglio di sé prima dei quarant'anni.

Piergiorgio Odifreddi è professore ordinario di matematica all'Università di Torino. Il suo campo di ricerca è la logica matematica e in particolare la teoria della calcolabilità. Svolge, inoltre, un'intensa attività di divulgazione scientifi ca, esplorando le connessioni fra la matematica e le scienze umane.

Che cos’è la matematica

La matematica e il matematico hanno origini mitologiche, almeno come termini: sembra infatti che essi siano stati in-trodotti nientemeno che da Pitagora, un personaggio a metà tra il santone e il semidio, al nome del quale è legato il più famoso teorema della storia. Entrambe le parole traggono la loro origine comune da màthema, che signifi cava “apprendi-mento” o “studio”: la matematica era dunque la materia di studio per eccellenza, e il matematico era l’apprendista, cioè

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colui che studiava sotto la guida del maestro.

L’abitudine di Pitagora, poi ereditata dai grandi pensa-tori di tutti i tempi, era infatti di insegnare cose diverse, e in maniera diversa, a pubblici diversi. Ai curiosi, che oggi chiameremmo il pubblico dei media (giornali, radio, tele-visione e computer), e che alla greca si chiamavano invece acusmatici, “uditori”, era rivolto l’insegnamento essoterico, “esterno”: cioè, le opere di divulgazione. Agli apprendisti, che oggi sarebbero (o dovrebbero essere) gli studenti delle superiori e delle università, che alla greca si chiamavano appunto matematici, veniva invece impartito un insegna-mento esoterico, “interno” o “riservato”: quello, cioè, dei li-bri di testo o degli appunti.

Oggi l’aggettivo “esoterico” fa venire in mente, più che la matematica, un sapere magico tramandato da qualche setta di lunatici. Ma i pitagorici erano, in parte, anche questo: un’associazione segreta che non voleva affatto divulgare le proprie conoscenze, meno che mai quelle che potevano mettere in imbarazzo la reputazione della scuola. La qua-le era fondata su quella che oggi chiameremmo aritmetica, cioè, l’arte di contare o enumerare.

Fin dai suoi inizi, infatti, la matematica ebbe come uno dei due soggetti principali di studio gli arithmói i “numeri”, che misurano la quantità delle cose: 2, 3, 4 ecc. Non l’1, che per i greci era l’unità di misura, e che fu considerato come un numero alla stregua di tutti gli altri soltanto nel III seco-lo a.C., dallo stoico Crisippo da Soli. E meno che mai lo 0, che fu scoperto, o inventato, solamente nella seconda metà del primo millennio d.C. in India da una parte e nell’Ame-rica precolombiana dall’altra, e non fu adottato in Europa che nel Medioevo avanzato.

Tutti i grandi popoli dell’antichità usarono i numeri in maniera utilitaristica, per far di conto: cosa che naturalmen-te si fa ancor oggi dovunque, ogni volta che si paga la spesa

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alla cassa, si presenta la dichiarazione dei redditi o si stila un bilancio aziendale. Ma col passare del tempo la pratica con le quattro operazioni (addizione, sottrazione, moltipli-cazione e divisione) attrasse l’attenzione sui numeri stessi, e alcuni ragionieri si mutarono in matematici: cessarono cioè di vedere nei numeri dei semplici mezzi di calcolo, e incominciarono a considerarli come oggetti di studio. Ciò non deve stupire: in fondo è successo lo stesso nel secolo scorso con le automobili, che da semplici mezzi di trasporto sono diventate simboli di prestigio sociale e feticci cui tri-butare adorazione.

Furono gli egizi e i babilonesi dapprima, e i greci poi, a iniziare uno studio sistematico del mondo dei numeri, e a scoprire la sua vita indipendente e la sua autonoma real-tà. Ad esempio, classifi cando i numeri in pari e dispari, e vedendo in questa dicotomia una metafora della divisione del genere umano in maschi e femmine, o del mondo etico in cose buone e cattive. O classifi cando i numeri in primi e composti, scorgendo in essi gli analoghi matematici degli atomi e dei composti fi sici, e dimostrando uno dei primi importanti risultati della matematica antica: il fatto, cioè, che i numeri primi sono infi niti.

Naturalmente, allora come ora, era diffi cile immaginare i numeri. I pitagorici scoprirono che un modo per farlo era di raffi gurarsi le unità come puntini e i numeri come confi gu-razioni regolari di puntini (ad esempio 3 come un triangolo e 4 come un quadrato). Da queste confi gurazioni deriva-no nomi che vengono utilizzati ancora ai nostri giorni: ad esempio, i numeri triangolari (1, 3, 6, 10,...), o quadrati (1, 4, 9, 16,...),o cubi (1, 8, 27, 64, .. .). In tal modo si riuscì a trovare un collegamento fra l’aritmetica e il secondo dei principali soggetti di studio della matematica: la geometria.

Come dimostra il suo nome, che signifi ca “misura della terra”, anche la geometria nacque per motivi utilitaristici,

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legati questa volta alla divisione degli appezzamenti ter-rieri e agricoli. Ma, come già per i numeri, anche le forme geometriche divennero in seguito oggetto di attenzione per se stesse: in questo caso, col vantaggio di poter essere dise-gnate da un lato, e giudicate esteticamente dall’altro, secon-do i canoni dell’arte del tempo. Tra le fi gure che affascina-rono la sensibilità degli antichi ci furono i poligoni regolari e il cerchio nel piano, e i poliedri regolari e la sfera nello spazio. E uno dei risultati più importanti della matematica greca fu la scoperta che, mentre i poligoni regolari sono infi niti, i po-liedri regolari sono solo cinque (cubo, tetraedro, ottaedro, dodecaedro, icosaedro), il primo dei quali prende il nome dal “dado”, e gli altri quattro dal numero delle loro facce (quattro, otto, dodici, venti).

Due dei famosi teoremi che abbiamo citato coinvolgono la nozione di infi nito: una parola di origine latina che signi-fi ca “non fi nito”, e che è ricalcata sull’analogo termine gre-co àpeiron, “non limitato” o “non determinato”. In ogni caso si tratta di un concetto negativo che, già dal nome, tradisce il disagio intellettuale col quale esso fu accolto. E il disagio divenne un vero e proprio scandalo quando i pitagorici si accorsero che la presenza dell’infi nito distruggeva la loro fede nell’onnipotenza del numero intero: esistevano infatti rapporti geometrici, ad esempio quello tra la diagonale e il lato del quadrato, che non si potevano esprimere mediante rapporti fra numeri interi, ed erano dunque letteralmente irrazionali, nel senso di “non rapportabili”.

Lo choc fu talmente grande, che si decise di mantenere la scoperta rigorosamente segreta. E si narra che quando Ippaso di Metaponto osò invece renderla pubblica, gli fu dapprima eretta una tomba in vita, e poi fu invocato l’aiu-to di Zeus perché lo facesse perire in naufragio: cosa che, puntualmente, avvenne. Questo non fu, comunque, l’unico caso in cui la matematica si rivelò essere un’attività perico-

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losa: nel Cinquecento, ad esempio, ci fu una famosa disputa su chi avesse trovato per primo una certa formula (quella per la soluzione dell’equazione di terzo grado), e i matema-tici coinvolti (Gerolamo Cardano, Niccolò Tartaglia e Lu-dovico Ferrari) si lanciarono pubblici Cartelli di matematica di sfi da, chiamando la piazza a giudicare la contesa, che fi nì con la fuga ingloriosa di Tartaglia e la perdita del lavoro di docente.

Per tornare all’infi nito, esso fu bandito dalla matematica greca. E soltanto alla fi ne dell’Ottocento Georg Cantor ri-uscì a creare una teoria degli insiemi che rendesse conto dei paradossi insiti nella nozione di infi nito, e che oggi costitu-isce il terzo soggetto principale della matematica moderna, insieme all’aritmetica e alla geometria, e alle mutazioni e ibridazioni che nel corso dei secoli queste due discipline hanno generato: dalla teoria dei numeri, all’analisi, dall’alge-bra alla topologia.

Col passare dei secoli gli oggetti della matematica sono infatti gradualmente cambiati. Ai numeri interi e alle li-gure disegnabili semplicemente con riga e compasso, che costituivano il fulcro dell’attenzione dei greci, si sono via via affi ancati oggetti sempre più astratti: dai numeri reali e complessi, resi necessari dalla scoperta degli irrazionali da un lato, e dalla formula per la soluzione dell’equazione di terzo grado dall’altro, a fi gure come la curva di Peano, che riempie l’intero piano, o il nastro di Möbius, che ha una sola faccia e un solo bordo.

La caratteristica comune di tutti questi oggetti è quella che aveva già isolato Platone nella sua teoria delle idee, sti-molato dalla domanda: “Che cosa sono gli oggetti mate-matici?”. La sua risposta, valida allora e (ancor più) ora, fu che gli enti della matematica sono astrazioni del pensiero, e fanno parte di un mondo ideale. Ma ideale non signifi ca irreale: semplicemente, il mondo delle idee è una semplifi ca-

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zione del mondo reale, che ritiene alcune sue caratteristiche primarie e ne rimuove altre secondarie, in modo da consen-tire lo studio isolato di aspetti signifi cativi della realtà [...].

PIERGIORGIO ODIFREDDI,Idee per diventare matematico.

Strumenti razionali per la comprensione del mondo,Zanichelli, Bologna 2005, pagg. 84-89.

Il Nastro di Möbius

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Piergiorgio OdifreddiNato a Cuneo il 13 luglio 1950, si è laureato in matematica a Torino

nel 1973 e si è specializzato presso l'Università dell'Illinois nel 1978-79 e all'Università della California nel 1982-83.

È stato Visiting Professor di logica matematica presso le Università di: Novosibirsk (Unione Sovietíca) nel 1982 e 1983; Melbourne (Australia) nel 1989; Pechino (Cina) nel 1992 e 1995 e Nanchino (Cina) nel 1998.

Dal 1983 è Professore Associato presso l'Università di Torino e dal 1985 Visiting Professor presso l'Università di Cornell, New York.

Il suo lavoro scientifi co riguarda la logica matematica, in particolare la teoria della calcolabilità, che studia potenzialità e limitazioni dei calco-latori.

Nel 1989 Piergiorgio Odifreddi ha pubblicato il primo volume di Clas-sical Recursion Theory: the theory of functions and sets of natural numbers, nel 1999 il secondo volume ed Il Vangelo secondo la scienza.

Nel 1990 ha curato Logic and Computer Science e nel 2000 La ma-tematica del Novecento: dagli insiemi alla complessità ed Il compu-ter di Dio: pensieri di un matematico impertinente.

Il lavoro divulgativo di Piergiorgio Odifreddi esplora le connessioni fra la matematica e le scienze umane, dalla letteratura alla pittura, dalla musi-ca agli scacchi e sta portando la scienza su vari media, forte di uno spirito acuto e brillante e di una cultura vastissima.

Giornalista e collaboratore de "La Repubblica", "La Stampa", delle riviste "Tuttoscienze", "Scienza Nuova"," Le Scienze", "Sapere", "La Rivista dei Libri", Piergiorgio Odifreddi partecipa anche a trasmissioni radiofoniche e televisive.

Ha vinto il Premio Galileo 1998 per la divulgazione scientifi ca ed è organizzatore, con Michele Emmer, degli incontri annuali Matematica e cultura di Venezia.

I saggi scientifi ci di Piergiorgio Odifreddi sono stati spesso in testa alle classifi che di vendita, diventando veri e propri best sellers come i volumi Dalla Galilea a Galileo, Labirinti dello spirito, Divertimento geome-trico (2003), Il diavolo in cattedra (Einaudi, 2003), Zichicche (Dedalo, 2003), Le menzogne di Ulisse...

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“Il libro che viene oggi presentato (Il gene della matematica, Longane-si) può essere affi ancato a quelli di S. Dehaene, Il pallino della matematica (come sono fi ni gli editori italiani a inventarsi titoli di richiamo; il libro di Dehaene è tutto dedicato a dimostrare che il cosiddetto “pallino” non esiste), e di B. Butterworth, Intelligenza matematica, a costituire una trilogia di in-dagini su quello che si può indurre dalle conoscenze attuali sul cervello relati-vamente alle capacità matematiche umane. Ma mentre gli altri due si limitano a discutere le risultanze delle ultime ricerche neurofi siologiche (e al massimo etnologiche, in Butterworth) sulla capacità innata di riconoscimento e mani-polazione di quantità piccole, in gran parte comune agli animali superiori, Devlin affronta il problema molto più diffi cile e problematico, e importante (soprattutto per la didattica), dell’innesto e della crescita della matematica simbolica sulla base delle capacità cerebrali matematiche che sono sostanzial-mente analogiche.

Nella sua analisi gioca un ruolo fondamentale la discussione della crescita progressiva del cervello nel corso dell’evoluzione umana; in particolare, visto che la matematica che conosciamo è troppo recente per risentire dell’evoluzio-ne biologica, un elemento decisivo appare essere la nascita del linguaggio, in seguito alla crescita dimensionale del cervello (soprattutto della corteccia fron-tale) in un periodo che va da 200.000 a 75.000 anni fa. La lunga e approfondita discussione di Devlin, che costituisce la parte centrale dell’esposizione, è un importante contributo al problema della nascita del linguaggio; la sua tesi è che per la matematica non sono necessarie altre capacità di quelle che permettono il linguaggio; l’argomento centrale è che con il linguaggio evoluto si è resa possibile agli umani una forma di pensiero astratto superiore, che egli chiama off-line: la capacità non solo di descrivere fatti elementari, anche già articolati nelle affermazioni soggetto-predicato che coinvolgono nomi comuni, astratti, ma la possibilità ulteriore di immaginare e descrivere situazioni di fantasia. Il

Pensare la matematicadi Keith Devlin

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vantaggio evolutivo connesso a questa capacità è quello della pianifi cazione, che richiede di inventare scenari possibili (se le cose esistessero), e di sviluppare logicamente le conseguenze delle ipotesi immaginate.

Sulla base di questa tesi, e come elemento di conferma, Devlin presenta una visione della matematica dove prevale la costruzione e la comunicazione di storie, non essenzialmente diverse dalle telenovele e dallo scambio di pettego-lezzi, relative a mondi formati da personaggi che sono questa volta gli oggetti astratti matematici, i quali sono gli schemi, i pattern, che si incontrano in tutte le trattazioni matematiche” (Gabriele Lolli).

Sono circa trent’anni che mi occupo di matematica e da almeno cinque cerco di capire in che modo il mio cervel-lo, e quello degli altri matematici, riesca a fare matemati-ca. Per molti motivi questa è una domanda interessante e inconsueta. Il motivo più interessante riguarda il tempo. L’evoluzione ha avuto luogo attraverso centinaia, miglia-ia e milioni di anni, mentre la matematica è molto recen-te. I numeri hanno diecimila anni e la maggior parte della matematica ha, al massimo, duemila anni. Questo tempo è troppo breve perché possano avvenire grandi cambiamenti nel cervello umano. Quindi, quando facciamo matemati-ca, quando i nostri cervelli pensano in modo matematico, dobbiamo necessariamente usare delle abilità mentali che sono state acquisite centinaia di migliaia di anni prima che la matematica venisse inventata. E la domanda che mi sono posto, quando ho scritto Il Gene delle Matematica è la se-guente: “Come hanno fatto i nostri antenati ad acquisire il pensiero matematico?” Ho impiegato parecchi anni per ri-uscire a trovare una spiegazione convincente: quella che ho pubblicato nel libro Il Gene delle Matematica, edito in Italia da Longanesi.

Non sostengo che ci sia un gene particolare che ci con-sente di fare matematica, quindi se voi non siete capaci di fare matematica, non potete trovare la scusa che non posse-dete quel gene.

Quello che voglio dire, è invece che siamo nati con l’abi-lità matematica, e questa è in noi, e aspetta soltanto di emergere. Il pensiero matematico è un’abilità innata, che

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abbiamo fi n dalla nascita. Le domande specifi che che mi pongo sull’abilità matematica sono le seguenti. Come ha fatto il cervello umano ad acquisirla? Quando, in termini di evoluzione, il cervello ha acquisito questa abilità? E quale vantaggio può aver dato questa abilità ai nostri antenati, nella selezione naturale?

Come per qualunque altra spiegazione riguardante l’e-voluzione, non possiamo essere sicuri che io abbia dato la spiegazione corretta. Comunque, sappiamo molto sull’evo-luzione umana e culturale, e sulla psicologia della matema-tica, e questo restringe e delimita in modo preciso qualsiasi possibile spiegazione. Quindi la mia versione potrà essere difettosa in qualche punto, anche se sono piuttosto fi ducio-so che possa essere vera.

Vediamo meglio qual è l’idea che descrivo nel libro. L’abilità matematica non è un’unica abilità, ma è piutto-sto un’insieme di molte abilità. Quindi il primo passo della mia analisi è stato quello di suddividere questa abilità nelle molte abilità, diverse e individuali, che la componevano. Poi, mi sono chiesto che cosa sia stato in termini storici e di evoluzione a portare i nostri antenati all’acquisizione di tali abilità? Quando sono state acquisite? E come e quando si sono collegate fra loro queste singole abilità per darci la matematica? E’ un po’ come fare una torta, prima ho raccol-to tutti gli ingredienti, poi ho spiegato come mescolarli per fare la torta. Ma devo dire che sono molto più bravo come matematico che come cuoco.

Ho elencato nove diverse capacità mentali. Alcune sono connesse tra di loro, altre sono invece separate. Innanzitut-to, vi elencherò semplicemente quali sono queste capacità, poi ne illustrerò alcune più in dettaglio.

Numero 1: il senso del numero. Numero 2: l’abilità nu-merica. Numero 3: l’abilità di ragionare sullo spazio che ci circonda. Numero 4: il senso di causa ed effetto. Numero 5: l’abilità di costruire e seguire una catena causale di fatti o

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di avvenimenti. Numero 6: l’abilità algoritmica (un esempio di algoritmo è l’insieme delle regole che si devono seguire per moltiplicare fra loro due numeri). Numero 7: l’abilità di gestire concetti astratti. Numero 8: l’abilità di ragionare in modo logico. Numero 9: l’abilità di ragionare sulle relazioni.

Quelle che seguono sono le domande che ci dobbiamo fare su queste nove capacità.

Domanda numero uno: quando si sono evolute queste nove capacità mentali?

Domanda numero due: quale valore, in termini di soprav-vivenza, offrivano ai nostri antenati?

Domanda numero tre: che cosa le ha unite per dare l’abilità del pensiero matematico?

Ci sono volute molte pagine nel libro per dare le rispo-ste, ma nel mio intervento esporrò soltanto le idee chiave di quella lunga spiegazione.

La prima delle nove capacità è il senso del numero. Questo ha quasi niente a che fare con i numeri, ma signifi ca sem-plicemente avere la capacità di capire che insiemi di oggetti possono avere misure diverse. Ci sono quattro persone sul palcoscenico. Io non so quante persone ci siano qui in sala, ma so che voi siete sicuramente più numerosi di quelli che sono qui con me sul palco. Non ci vogliono i numeri per ca-pire che voi siete più numerosi di noi. Il senso del numero non richiede i numeri, e molti animali possiedono questa capacità.

Ci sono molti motivi per cui può essere utile per un ani-male avere questo senso del numero. Ad esempio, per un piccolo gruppo di animali, è importante sapere se un altro gruppo di animali che li sta minacciando è più grande o più piccolo del loro. Oppure per un animale che vive mangian-do frutta, ha senso individuare e arrampicarsi sull’albero che ha più frutti.

Il senso del numero si trova anche nei bambini molto piccoli. E’ facile verifi carlo direttamente. Se qualcuno di voi

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ha un fratellino di due o tre anni, può provare a mettergli di fronte due mucchietti di caramelle, uno piccolo e l’altro più grande, e vedere quale dei due sceglie il bambino. Sicu-ramente sceglierà il mucchietto più grande. Il bambino non ha bisogno di contare le caramelle per capire quale dei due mucchietti ne contiene di più.

Ma per i bambini, il senso del numero è ancora più sor-prendente.

Nel 1992, nella sua tesi di dottorato al MIT in Massachus-sets, Stati Uniti, Karen Wynn è arrivato a risultati che han-no stupito gli psicologi e imatematici di tutto il mondo. Ha dimostrato che i bambini piccoli, in questo caso di cinque o sei mesi, non soltanto hanno il senso del numero, ma sanno che 1 più 1 fa 2, che 3 meno 2 fa 1 e conoscono tutta l’arit-metica, l’addizione e la sottrazione, per i numeri 1, 2 e 3. In seguito, altri psicologi hanno dimostrato che i neonati di due giorni possiedono la stessa abilità.

La domanda interessante è: “Come facciamo a sapere questo?” Sembrerebbe impossibile sottoporre un neonato di due giorni a una verifi ca matematica, invece lo è. Ka-ren Wynn ha incominciato con il sistemare dei bambini di cinque mesi davanti a un teatrino delle marionette. Il pal-coscenico era nascosto da uno schermo. Il bambino vedeva una mano che entrava di lato, con un pupazzo in mano. La mano nascondeva il pupazzo dietro lo schermo. Poi il bambino vedeva un’altra mano con un altro pupazzo. In tal modo aveva visto l’azione di 1 più 1. Poi lo schermo si abbassava e il bambino vedeva 2 pupazzi e pensava, “OK”. Subito dopo, il bambino vedeva 2 pupazzi ma, prima di ab-bassare lo schermo, un’assistente aggiungeva un altro pu-pazzo, oppure ne toglieva uno. Ora quando si abbassava lo schermo, il bambino vedeva 3 pupazzi oppure 1 e si dimo-strava sorpreso. Qualcosa non andava per il verso giusto! Il bambino aveva visto 1 più 1. Sapeva che la risposta doveva essere 2. E quindi era sorpreso quando vedeva una risposta

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sbagliata. Con questo metodo ed altri simili, gli psicologi hanno dimostrato che i bambini piccoli, persino all’età di due giorni, hanno il senso del numero e conoscono l’arit-metica per i numeri 1, 2 e 3. Quindi, come dicevamo, è pos-sibile fare una verifi ca matematica anche con i bambini più piccoli.

Adesso vediamo la seconda delle nove capacità, l’abilità numerica. Questo sì che richiede i numeri. Per quanto ne possiamo sapere, soltanto gli esseri umani hanno questa abilità, tranne alcuni casi molto limitati di altri essere viven-ti. Gli scimpanzé e le grandi scimmie dimostrano una certa conoscenza dei numeri. Infatti, se si pone uno scimpanzé di fronte al teatrino delle marionette e gli si fanno vedere le stesse cose, questo si comporta un po’ come il bambino pic-colo, proposto da Karen Wynn. Ma con altri animali questo non è così evidente come con gli esseri umani. Gli animali che sembrano avere il miglior senso del numero, oltre agli esseri umani, sono gli uccelli.

Per quanto ne possiamo sapere, e abbiamo molte prove, i numeri in sé dipendono dal linguaggio. Chiunque abbia imparato una lingua straniera sa che, anche quando la parla correntemente, risulta diffi cile capire il numero telefonico comunicato da una persona. Infatti, quando parliamo una lingua straniera e sentiamo un numero, automaticamente lo traduciamo o nella nostra lingua oppure nei simboli 1, 2, 3 ecc.

Alcuni anni fa, lo psicologo cognitivo francese Stanislas Dehaene ha fatto uno studio, al MIT, con una serie di test a persone bilingui russo-inglesi, sulla loro conoscenza dei numeri e ha verifi cato che una persona ricorda i numeri nel-la lingua in cui li ha imparati. Quindi sembra che i numeri siano essenzialmente parti del linguaggio, anche se sono parti molto speciali. Nel mio libro parlo a lungo dell’abilità numerica, ma oggi mi devo limitare a quest’unica semplice spiegazione.

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Un’altra delle nove capacità è l’abilità di ragionare sul-lo spazio che ci circonda. Qualunque creatura che si muova deve possedere questa abilità. Se la mia abilità di ragiona-re sullo spazio che mi circonda fosse errata, potrei fare tre passi avanti dal punto in cui mi trovo in questo momento e cascherei giù dal palco.

Un’altra della nove capacità è l’abilità di ragionare sulle relazioni, e ce ne sono di diversi tipi. Un tipo di rapporto è quello di una cosa sopra l’altra. Oppure di una persona alla sinistra dell’altra. Ci sono anche i rapporti tra e sulle perso-ne. E questi rapporti tra persone sono molto più complicati degli altri tipi di rapporto che emergono in matematica.

Forse due delle operazioni mentali più diffi cili sono quel-la dell’utilizzo del linguaggio per capire i rapporti familiari e per capire i rapporti tra le persone. Questi rapporti, come dicevo, sono molto più complicati di quelli matematici. I nostri antenati hanno acquisito questa abilità di ragionare sui rapporti per diverse ragioni. Una di queste è il fatto che la comprensione dei rapporti umani rappresenta il modo in cui l’evoluzione ha portato gli esseri umani a collaborare. Non siamo gli animali più grandi e più veloci, né quelli con le unghie o le zanne più affi late, e non abbiamo neanche un guscio robusto che ci protegga. Abbiamo però un cervel-lo, che usiamo per pensare, per tenerci lontano dai pericoli, per programmare il nostro futuro e per collaborare con i nostri simili. Ed è questa collaborazione che viene suppor-tata dall’abilità di capire i rapporti umani. Se ti conosco, forse sono disposto a collaborare con te. Se mio fratello co-nosce tuo cugino, forse sono disposto a collaborare con te.

La capacità di cui vogliamo ora parlare è quella di gestire i concetti astratti. Tutti sanno, immagino, che la matematica è diffi cile. Perché? Lo è l’abilità di ragionare sullo spazio che ci circonda? No, questo lo sappiamo fare tutti. Il senso del numero? No. L’abilità numerica? No, abbiamo dimo-strato che la possedevamo già all’età di due giorni.

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Se pensate alle nove abilità che ho enunciato, quella chia-ve, la più complicata, è l’abilità nel gestire i concetti astratti. Il motivo per cui questa è diffi cile è piuttosto ovvio. Il cer-vello umano si è evoluto nel giro di centinaia di migliaia di anni per arrivare a pensare al mondo fi sico, agli animali nel mondo e, più recentemente, agli altri esseri umani. Il nostro cervello fa queste cose da centinaia di migliaia di anni ed è diventato piuttosto bravo nel farle. Abbiamo inventato i numeri soltanto diecimila anni fa. Il resto della matema-tica ha soltanto 2500 anni. Tutti i concetti astratti, come i numeri, o gli altri concetti astratti della matematica, sono cose molto recenti, sulle quali il nostro cervello ha appena iniziato a pensare. Il cervello trova diffi coltà perché non si è sviluppato per pensare a questo genere di cose.

Purtroppo per le persone che devono fare un corso di matematica, e a loro questo non piace o addirittura le spa-venta, proprio questa capacità di gestire i concetti astratti, che il cervello trova così diffi cile, risulta la capacità chiave. Nel libro dimostro che è l’equivalente della capacità per la lingua. Questa dimostrazione è lunga e complicata e alcune persone non sono d’accordo sulle mie conclusioni. Ma io penso che siano loro a sbagliare!

La mia ipotesi è che il passo cruciale nello sviluppo dell’abilità matematica sia stato quello di gestire concetti sempre più astratti, non perché la matematica richieda un ragionamento più complicato. Naturalmente, alcuni con-cetti matematici sono complicati. Ma molte cose nella vita sono complicate, dai fi lm ai romanzi, al teatro, alla musica e all’arte.

Come disciplina, se volete capire cos’è la matematica e come viene percepita da un matematico, dovreste pensarla come una specie di versione non reale, immaginaria di certe cose nel mondo reale. Per esempio, se guardo alla mia de-stra vedo una fi nestra, che ha una forma più o meno tonda. Se guardassi il cerchio della fi nestra da vicino, con la lente

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di ingrandimento, vedrei che il contorno non è una curva perfettamente liscia. Se misurassi il diametro in direzioni diverse troverei che è diverso in ogni direzione. Non è un cerchio perfetto. Ma ha un colore, è nero, ha una tempera-tura, è freddo, ha una superfi cie, liscia. Questo cerchio ha molte caratteristiche.

Come matematico, nella mia mente ho un’interpretazio-ne immaginaria del cerchio: un cerchio matematico. Per al-cuni versi, è molto noioso questo cerchio matematico, non ha colore, temperatura o superfi cie ma è un cerchio perfet-to, il diametro è uguale in tutte le direzioni. Nella matema-tica, per esempio in geometria, i matematici studiano inter-pretazioni idealizzate, immaginarie, di cerchi che esistono nel mondo reale.

Qualche volta mi piace descrivere la matematica come la scienza dei modelli. Il matematico osserva le cose nel mon-do intorno a sé e poi ne estrae delle idealizzazioni astratte e pensa a queste idealizzazioni. Quel mondo matematico esiste soltanto nella mente umana, ma viene dal mondo in cui viviamo.

Nel caso del cerchio, soltanto noi possiamo vedere il mo-dello che ne abbiamo estratto. Alcuni modelli li sentiamo con le nostre orecchie. Molti possiamo vederli soltanto con la nostra mente. Per esempio, se uscite e guardate in su, potreste vedere un aeroplano. I vostri occhi non possono vedere le forze che lo tengono su, ma con le equazioni ma-tematiche, la vostra mente può vedere tali forze. La mate-matica rende visibile ciò che è invisibile.

Come facciamo a fare questo con la matematica? Pren-diamo delle capacità mentali, sviluppate per muoversi nel mondo fi sico e sociale, e le applichiamo al ragionamento su questo fi nto mondo astratto creato dalla nostra mente.

Notate che continuo ad usare la parola “immaginare” e la parola “creare”. La maggior parte delle persone pensa che la matematica sia il ragionamento, passo dopo passo. Non

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è così. Il più delle volte la matematica è creatività e fantasia. La cosa diffi cile sarà poi quella di decidere se la propria cre-atività e fantasia abbia fatto cose utili oppure futili?

Se un regista fa un fi lm, ci sono due modi diversi per de-cidere se il regista ha fatto un buon lavoro. Secondo il modo europeo devono esserci molte persone che dicono che è un buon fi lm. Secondo il modo americano il fi lm deve aver in-cassato tre milioni di dollari nel primo weekend!

Un fi sico che sviluppa una teoria fi sica, usando la pro-pria fantasia e la propria creatività, controlla se la teoria è giusta, facendo un esperimento in laboratorio. Il matemati-co controlla se la propria fantasia e creatività hanno prodot-to qualcosa di buono scrivendo una prova logica, per con-trollare se è corretta o no. Il pensiero logico controlla se è giusta o no, quindi scrivere una prova logica è come andare a vedere il fi lm. La creatività sta nel fare il fi lm, ma anche nel pensare a idee matematiche. Quindi la matematica non è soltanto una materia creativa, è la materia più creativa della storia umana.

La storia della matematica o quella degli esseri umani, ci ha portato a sviluppare questa abilità. Se credete nella spie-gazione che ho dato nel libro e che oggi ho descritto, sapete qual è il segreto del fare matematica.

Un matematico è qualcuno che vede la matematica come fosse una telenovela. Se non mi credete, fate questo espe-rimento. Nella biblioteca dell’università, scegliete un libro di matematica ed apritelo a caso. Vedrete della matemati-ca. Quanti oggetti sono in discussione? Quanti rapporti tra questi oggetti sono importanti per l’argomento? Quant’è complicata la rete di rapporti tra loro? Quant’è complicata la deduzione logica? Prendete nota delle risposte. Poi guar-date la prima telenovela che vi capita in TV. Fate le stesse domande. Quanti personaggi? Quanti rapporti esistono fra loro? Quant’è complessa la rete di rapporti? Quant’è com-plicata la trama? In tutte e quattro le categorie, la telenovela

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è molto più complicata della matematica. Perché non abbia-mo diffi coltà a seguire una telenovela, ma la matematica, che dovrebbe esser più semplice, sembra invece così diffi -cile? Se non vi siete addormentati fi nora dovreste conosce-re la riposta. Le telenovela sono delle interpretazioni fi nte del mondo reale, la matematica è un’interpretazione fi nta di parti del mondo reale: ma i personaggi della telenovela sono molto simili a voi e a me, tranne che sono più steriliz-zati e, almeno nel mio caso, più giovani!

La telenovela tratta la vita, i rapporti umani, la matema-tica tratta invece di pure astrazioni. Nella telenovela ma-tematica i personaggi non sono persone, ma sono oggetti della matematica, cose come numeri, fi gure geometriche, vettori, spazi topologici, funzioni analitiche ecc. E i fatti, i rapporti, nella telenovela matematica non sono nascite, morti, matrimoni, storie d’amore e rapporti di affari, ma sono fatti matematici e rapporti tra oggetti matematici. Og-getti che non avete mai visto, toccato o sentito. I fatti mate-matici sono cose come: Gli oggetti A e B sono uguali? Qual è il rapporto tra X e Y? Trovate un oggetto X con la proprietà P. Risolvete l’equazione in X. Tutti gli oggetti di tipo D hanno la proprietà P. Quanti oggetti di tipo Z ci sono?

Ora, se non vi piace la matematica, questo sembra già molto noioso. Ma immaginate che A, B, X e Y siano perso-naggi, con tutti i loro rapporti, di una telenovela. Quello che abbiamo sono gli elementi fondamentali di una trama. La telenovela ha dei personaggi, dei rapporti e una trama. e anche la matematica ha dei personaggi, dei rapporti e una trama. Ci sono però due differenze, nella telenovela i per-sonaggi, i rapporti e la trama sono molto complicati mentre nella matematica sono molto semplici. Ma nella telenovela i personaggi, i rapporti e la trama ci sono familiari, fanno parte della nostra vita quotidiana, mentre nella matematica dobbiamo crearci nella nostra mente tutto un cast di per-sonaggi, dobbiamo avere presenti tutte le loro proprietà e

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dobbiamo tenere tutto presente, mentre seguiamo la trama nella nostra mente. E’ un po’ come seguire la telenovela senza accendere il video della TV.

Il cervello di un matematico non è diverso dal cervel-lo di qualsiasi altra persona. Semplicemente, i matematici sono delle persone che hanno trovato il modo di usare il cervello per pensare a questi oggetti nuovi ed astratti. I ma-tematici pensano agli oggetti matematici e ai loro rapporti usando le stesse facoltà mentali che altri usano per pensare allo spazio fi sico e alle altre persone, oppure per guardare una telenovela.

Naturalmente, non sto dicendo che la matematica sia facile. E non sto dicendo che tutti possano essere bravi in matematica. Tutti avranno invece abilità diverse.

Per esempio, io ho un paio di gambe, posso usarle per camminare e per correre abbastanza velocemente. Non potrei mai gareggiare nella fi nale dei 1500 metri, ai giochi olimpici. Anche se mi allenassi per molti mesi, non riuscirei mai ad arrivare a gareggiare nei giochi olimpici. Ma quan-do uso le mie gambe per correre, sto facendo la stessa azio-ne del fi nalista dei giochi olimpici.

Ed è la stessa cosa con la matematica: tutti hanno un cer-vello e questo cervello può fare una certa quantità di ma-tematica, nello stesso modo in cui le vostre gambe possono camminare o correre. Forse non diventerete mai dei mate-matici famosi e non correrete nella fi nale dei 1500 metri ai giochi olimpici, ma soltanto perché non potete vincere una medaglia d’oro, questa non signifi ca che non dovete fare esercizi, correre e magari partecipare ad altre gare. Potrete divertirvi lo stesso con l’atletica, senza vincere le olimpiadi. E la stessa cosa vale per la matematica. Grazie.

KEITH DEVLIN, Conferenza tenuta il 17 Settembre 2002, al Politecnico di Torino per

Polymath, nell’ambito del ciclo La matematica e... lo studente. Traduzione di Maria Jack

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Keith J. Devlin è un vero polymath1, dovrebbe essere il primo so-cio onorario del sito, se è prevista questa fi gura. Ha dato e continua a dare contributi importanti sia nella ricerca sia nella divulgazione.

Ha conseguito il dottorato in matematica nel 1971 presso l’Uni-versità di Bristol, nel settore della teoria degli insiemi - sono ricer-che molto diffi cili e affascinanti quelle dell’attuale teoria degli insie-mi, veri e propri esperimenti mentali di coraggiose estrapolazioni verso infi niti sempre più grandi e per studiare le conseguenze della loro esistenza sulla matematica concreta e per affi nare l’intuizione dell’infi nito (secondo un suggerimento che risale a Gödel).

Alcuni suoi libri ed esposizioni relative agli argomenti studiati in quegli anni sono presenti in tutte le biblioteche universitarie del mondo (in particolare Constructibility, Springer, 1984).

Negli anni Ottanta Devlin è stato una delle vittime della Thachter, ha perso il posto con la motivazione che le sue ricerche non si rivolgevano a questioni utili. A differenza dei minatori, l’emigrazione negli Stati Uniti è stata per lui, e forse per noi, una fortuna. Ha continuato sì ad interessarsi di logica, sia pure in una direzione diversa: sotto l’infl uenza di Jon K. Barwise, che lo aveva invitato come ricercatore al Centro di studi sul linguaggio CSLI di Stanford (lo stesso centro che ora dirige, dopo la morte prematura di Barwise) si è dedicato all’impegnativo (e per ora purtroppo poco più che tentative, a tentoni) argomento di una fondazione di una nuova

1 L’indirizzo del sito è il seguente: http://areeweb.polito.it/didattica/polymath/index.htm

“Il Progetto Polymath intende offrire l’occasione di un incontro e di un confronto per una nuova matematica nella scuola. Vuole contribuire a dif-fondere un’immagine della matematica meno fredda e meno antipatica di quella che si trova fra gli studenti e in generale nell’opinione pubblica [...]”

L’introduzione al testo di Keith J. Devlin e il profi lo conclusivo, di Ga-briele Lolli, sono tratti dal sito medesimo.

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logica dell’informazione. Ma soprattutto, avendo poi ottenuto un posto in una università che non aveva un programma di dottorato (questa è una nostra congettura, non sappiamo quale sia la causa e quale l’effetto), ha colto l’occasione di dare maggiore sfogo ad un’at-tività di science writer multimediale per cui aveva già manifestato interesse e spiccate attitudini mentre viveva in Gran Bretagna.

Ivi era stata un grande successo la sua rubrica periodica di ma-tematica Micromaths sul “Manchester Guardian”, così come un famoso documentario televisivo A Mathematical Mystery Tour per la BBC. Ora continua la sua collaborazione con la televisione ed ha aggiunto una rubrica sul “Los Angeles Time”.

Frutto di questa attività di divulgazione sono diversi libri di cui alcuni tradotti in italiano (Matematica - La nuova età dell’oro, Dove va la matematica, Addio Cartesio, Il linguaggio della matematica, Il gene della matematica).

Devlin ha anche ripetutamente messo le sue capacità organizza-tive ed espositive al servizio della comunità, ad esempio dirigendo dal 1991 per alcuni anni l’importante rubrica Computers and Ma-thematics sulle Notices dell’American Mathematical Society, e dirigendo per qualche tempo la rivista Focus della Mathematical Association of America.

Gabriele Lolli

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Pagine da “L’istinto matematico”. di Keith Devlin

Ci sono almeno due tipi di matematica, quella che viene coltivata dagli spe-cialisti e quella istintiva di cui si servono cani e gatti, gufi e castori, ragni e ara-goste. L’uomo dovrebbe essere da meno degli altri animali? La maggior parte di noi se la cava egregiamente con numeri e fi gure in molte questioni pratiche, ma guai a dire che si tratta di matematica perché ciò evoca immediatamente lo spettro della disciplina che ci ha tormentato sui banchi di scuola. Invece che da arcigni professori, dovremmo imparare da tutti quegli animali che “sanno fare matematica” a escogitare trucchi e a scoprire strategie per migliorare le nostre capacità innate. Allora numeri e fi gure non ci appariranno più come un castigo divino ma come un’occasione di intelligente divertimento.

La mente dei neonati

Nel 1992 una giovane ricercatrice americana di nome Ka-ren Wynn fece un annuncio destinato a sbalordire gli psi-cologi infantili di tutto il mondo. Sosteneva di aver accerta-to che i bambini di quattro mesi sono in grado di eseguire semplici operazioni di addizione e sottrazione. In seguito, altri sperimentatori mostrarono che operazioni del genere sono alla portata dei neonati con due soli giorni di vita!

Come era arrivata Wynn al suo risultato? Dopotutto, a quattro mesi i bambini non sanno ancora parlare. Come possiamo dunque scoprire se capiscono che 1 + 1 = 2, tanto per prendere una delle operazioni che Wynn riteneva sa-pessero fare? E, comunque, come era riuscita a porre la do-

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manda in modo tale che i bambini comprendessero quello che stava chiedendo loro?

Prima di raccontare come Wynn fosse riuscita a risolvere questi problemi, devo chiarire esattamente che cosa soste-neva di avere scoperto. Tanto per cominciare, non riteneva che i suoi soggetti possedessero un concetto consapevole di numero. Come sanno tutti i genitori, ai bambini piccoli i numeri 1, 2, 3, ecc. vanno insegnati e, prima che ciò possa accadere, essi devono aver imparato a utilizzare il linguag-gio. Cosa che un bambino di quattro mesi non sa fare. Ecco che cosa sosteneva invece Wynn:

1. I bambini che aveva studiato potevano distinguere fra un oggetto, una coppia di oggetti e un insieme di più di due oggetti.

2. Sapevano che, aggiungendo l’uno all‘altro due oggetti separati, l’insieme risultante contiene esattamente due og-getti, e non uno o tre.

3. Sapevano che prendendo, per esempio, due oggetti e togliendone uno, ne resta esattamente uno; non si rimane senza oggetti o con due oggetti.

Per descrivere queste capacità un adulto direbbe che:1. I bambini esaminati conoscevano la differenza fra i

numeri 1 e 2 e la differenza fra 2 e qualsiasi numero mag-giore di 2.

2. Sapevano anche che, per esempio, 1 + 1 = 2 e che 1 + 1 non è uguale a 1 o 3.

3. Sapevano anche che, per esempio, 2 – 1 = 1 e che 2 – 1 non è uguale a 0 o 2.

Evidentemente, per esprimere tali capacità in questo modo è necessario essere in grado di comprendere i nu-meri, perlomeno i numeri 0, 1, 2 e 3. Ora, tutte le evidenze scientifi che in nostro possesso sul modo in cui il cervello umano tratta i numeri ci indicano che la nostra capacità di operare con i numeri viene solo dopo che ciascuno di noi

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ha imparato le parole che indicano i numeri “uno”, “due”, “tre”, e così via. (Alcuni lavori con gli scimpanzé e con altri primati mostrano che, a questo scopo, imparare i simboli per i numeri “1”, “2”, “3” funziona altrettanto bene. Il pun-to è che, per l’acquisizione del concetto di numero, sembra necessario possedere prima una parola o un simbolo che si riferisca a tale concetto).

A rigore, dunque, la tesi di Wynn riguardava in realtà il concetto di numerosità – termine con il quale intendo il senso del numero, e in particolare il senso della grandezza di un insieme - e non quello di “numeri”. Wynn affermava che i bambini molto piccoli possiedono un senso affi dabile della grandezza di un piccolo insieme di oggetti. Ma ciò non diminuì la sorpresa provocata dal suo annuncio. Dopotut-to, chiunque sa che i bambini di quattro mesi non sono in grado di usare le parole che indicano i numeri. La maggior parte degli esperti ipotizzava che un senso del concetto di numerosità si sviluppasse solo dopo che il bambino ave-va imparato a contare. Wynn, invece, sosteneva che viene prima la consapevolezza del numero. Di conseguenza, o nasciamo con questo senso del numero o lo acquisiamo au-tomaticamente, al massimo, entro qualche settimana dalla nascita. (Come vedremo, ricerche successive hanno mostra-to che, se non siamo nati con il senso del numero, lo acqui-siamo, al massimo, entro pochi giorni dalla nascita.)

[...]Ma c’è dell’altro. [Altre ricerche indicano] che tutti noi,

quando avevamo solo quattro giorni, eravamo già in grado di distinguere fra insiemi di due e tre oggetti che vedeva-mo. [...]. Ora, diventando adulti, abbiamo sviluppato quel senso di numerosità a un livello più astratto: abbiamo un senso astratto dell’esser-due e dell’esser-tre1 che trascende

1 In inglese vengono utilizzate le parole twoness e threeness. In ita-liano sono state rese con dille perifrasi per evitare il termine “dualità”, che in matematica ha un signifi cato tecnico.

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ogni particolare insieme di cose esistenti nel mondo. Per esempio, sappiamo riconoscere un’analogia fra un insieme di due mele, di due punti su una pagina, di due elefanti in una gabbia, di due colpi di tamburo e di due aerei nel cielo. L’esser-due che tutti questi insiemi hanno in comune è un senso del numero altamente astratto. A dire il vero, il nostro senso astratto dell’esser-due, esser-tre, ecc. è ciò da cui prende avvio la matematica. Quando abbiamo acquisi-to questo profondo senso del numero?

Di certo, il nostro senso dell’esser-due e dell’esser-tre ri-sale a quando avevamo sei-otto mesi [...].

In un esperimento ingegnoso un altro studioso, Starkey, faceva sedere i suoi soggetti - bambini dai sei agli otto mesi d’età - di fronte a due proiettori di diapositive disposti fi an-co a fi anco e videoregistrava poi le loro facce per determina-re quale proiettore li interessasse di più in ogni istante. I due proiettori mostravano contemporaneamente immagi-ni di un insieme di due o tre oggetti, disposti a caso. Uno mostra-va un’immagine di due oggetti, l’altro un’immagine di tre. Talvolta, era il proiettore a sinistra a mostrare due oggetti e quello a destra tre; tal altra, la situazione era invertita.

Nel momento in cui venivano mostrate le due immagi-ni, un altoparlante collocato fra i due proiettori diffondeva una sequenza di due o tre colpi di tamburo. Quando inizia-va l’esperimento, il bimbo prestava attenzione a entrambe le immagini. Poiché l’immagine con tre oggetti era visiva-mente più comples-sa di quella con due, non deve stupire che egli passasse un po’ più di tempo a guardare l’immagi-ne con tre oggetti.

Tuttavia, dopo questi primi tentativi, una volta che il bambino si era abituato alla procedura, cominciava a emer-gere uno schema di comportamento molto interessante. Il soggetto passava molto più tempo a guardare l’immagine in cui il numero di oggetti era lo stesso del numero di colpi di tamburo. Quando venivano suonati due colpi di tambu-

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ro, il bambino guardava più a lungo l’immagine con due oggetti. Quando ne venivano suonati tre, prestava maggio-re attenzione all’immagine con tre oggetti.

Che cosa stava succedendo? Starkey non intendeva di-mostrare che i suoi soggetti possedessero un senso consa-pevole del numero. Molto probabilmente, ciò che si osser-vava era una risposta neuronale congenita, tale per cui i due colpi di tamburo innescavano un certo percorso di atti-vità neuronale che rendeva il cervello più ricettivo rispetto a una scena visiva che mostrava lo stesso numero di og-getti: due; lo stesso nel caso di tre oggetti. Ma tale risposta costituisce senz’altro un precursore del senso del numero astratto che sviluppiamo da grandi.

Molti credono che la matematica sia diffi cile, se non im-possibile, da padroneggiare. Nel suo best seller del 1989, Gli snumerati,2 il matematico John Allen Paulos ha catalo-gato i molti modi in cui persone per il resto intelligenti e di successo commettono errori con i numeri. Eppure, sembra proprio - come abbiamo visto - che si nasca tutti con capa-cità matematiche naturali. Le perdiamo, per qualche moti-vo, crescendo? Le lezioni di matematica impartite a scuola riescono, per un motivo o per un altro, a scacciarle dalla nostra mente? Possiamo riprendercele? E, domanda anco-ra più stimolante, se i neonati hanno capacità matematiche congenite, anche altri animali possono “fare della matema-tica”, cioè compiere operazioni matematiche?

Iniziai a pensare a queste e ad altre domande men-tre stavo svolgendo ricerche per il mio libro Il gene della matematica,3 e rimasi sorpreso dalle risposte trovate. Forse, il fatto più sorprendente è che, invece di una forma di pen-

2 JOHN ALLEN PAULOS, Gli snumerati: impariamo a far di conto per fare i conti con il mondo, tr. it. CDE, Milano 1990.

3 KEITH DEVLIN, Il gene della matematica, tr. it. Longanesi, Milano 2002. Il libro fornisce una risposta alle seguenti domande: come è riuscito il cervello ad acquisire l’attitudine a fare matematica? Quando? E quale vantaggio evolutivo ha conferito questa capacità alla nostra specie?

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siero insolita che gli uomini hanno sviluppato e che solo relativamente in pochi padroneggiano, la matematica è tut-ta intorno a noi, e talvolta viene fatta da esseri viventi cui, in genere, non attribuiamo una grande capacità intellettiva.

[...]

Genio al lavoro(elaborazione grafi ca classe 1a H)

Che cos’è la matematica

Se siete come la maggior parte delle persone, sarà ov-vio per voi che cosa signifi chi fare matematica. Anche se la richiesta di dare una defi nizione precisa della matematica potrebbe mettervi in diffi coltà, un’idea generale di quello che la materia comprende l’avete: numeri, aritmetica, alge-bra, equazioni, geometria, problemi su treni che accelera-no o rallentano, dimostrazioni di teoremi, ecc. Non avreste dunque diffi coltà a dire se siete bravi (di solito la risposta è “No”, o forse “Non molto”) o se vi piace (di nuovo, i “No” sono solitamente in maggioranza, anche se le persone che rispondono “Sì” sono molte più di quanto non si pensi ge-neralmente).

Ma questa diffusa opinione sulla matematica è piuttosto riduttiva e non particolarmente rappresentativa della ma-teria nel suo complesso. In particolare, benché molti degli

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Domande

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esempi che presenterò abbiano a che fare con calcoli nu-merici, sarebbe fuorviante pensare automaticamente che la matematica abbia a che fare soltanto — o per lo più — con numeri. I numeri sono solo una parte di un particolare tipo di matematica, e anzi i calcoli aritmetici non sono certo ciò con cui la maggior parte dei matematici passa il grosso del proprio tempo. Né la matematica naturale degli esseri non umani è ristretta ai numeri e all’aritmetica. La matematica è fatta di pattern4. La vita stessa è fatta di pattern.

I numeri sono nati quando i nostri antenati hanno capito che insiemi, per esempio, di tre buoi, tre lance e tre donne avevano qualcosa in comune: l’esser-tre. Il pattern utilizza-to in questo caso è quello della numerosità: la grandezza o taglia dell’insieme. I numeri sono gli oggetti inventati per descrivere questi pattern: il numero 1 descrive il pattern dell’esser-uno, il numero 2 quello dell’esser-due, e così via.

Una volta che si abbiano dei numeri, si possono indivi-duare pattern fra quei numeri, per esempio 2 + 3 = 5: è così che nasce l’aritmetica. I pattern di forma, importanti per de-terminare a chi appartenga un appezzamento di terra o per costruire edifi ci, danno invece origine alla geometria, parola derivante dall’espressione greca che signifi ca “misura della terra”. Combinando i pattern di forma con i pattern nume-rici si ottiene la trigonometria.

Nel Seicento, Isaac Newton in Inghilterra e Gottfried Lei-bniz in Germania inventarono, indipendentemente l’uno

4 La parola pattern, in inglese, è ricca di signifi cati, in particola-re quando si riferisce ad ambiti matematici. Come scrive Douglas Hofstadter (autore del noto Gödel, Escher, Bach), “è una delle parole più diffi cili da tradurre in qualsiasi lingua”. A seconda del contesto, può voler dire: “forma”, “struttura”, “regolarità”, “disposizione”, “distri-buzione”, “ordine”, “regola”, “schema”, “modello”, “disegno”, “confi -gurazione” e anche “sistema”. Indica un motivo di fondo che informa di sé una serie di fenomeni. Per rispettare la ricchezza di connotazioni del termine si è scelto di mantenere la parola inglese, in taluni casi af-fi ancandola a un’eventuale espressione italiana che si avvicini al senso più appropriato nel contesto.

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dall’altro, il calcolo infi nitesimale, lo studio dei pattern del moto e della variazione continui. Prima del calcolo infi ni-tesimale la matematica si era per lo più limitata allo studio dei pattern statici: conteggi, misurazioni e descrizione di forme. Con l’introduzione di tecniche per gestire moto e variazione, i matematici sono riusciti a studiare il moto dei pianeti e la caduta dei gravi sulla Terra, il funzionamento delle macchine, il fl usso dei liquidi, l’espansione dei gas, le forze fi siche come il magnetismo e l’elettricità, il volo, la crescita delle piante e degli animali, la diffusione delle epi-demie, la fl uttuazione dei profi tti, e così via.

Poco prima del periodo in cui Newton e Leibniz inven-tavano il calcolo infi nitesimale, i matematici francesi Pierre de Fermat (1601-1665) e Blaise Pascal (1623-1662) si scam-biavano una serie di lettere nelle quali delineavano i fon-damenti di quella branca della matematica nota come teo-ria delle probabilità, la quale studia i pattern che emergono quando un evento casuale “si ripete” molte volte: per esem-pio, lanciando una moneta o dei dadi. (Peraltro, la ragione della loro opera consisteva esclusivamente nel desiderio dei loro ricchi mecenati di migliorare le proprie prestazioni sui tavoli da gioco di tutta Europa.)

La tecnologia informatica di oggi si è sviluppata a partire dallo studio dei pattern del pensiero logico, la branca della matematica nota come logica formale.

Una distinzione importante per comprendere libri come questo è la differenza fra i concetti matematici e la notazione che utilizziamo per esprimerli. Oggi, la maggior parte dei li-bri di matematica è piena di simboli. Ma la notazione mate-matica non è la matematica, esattamente come la notazione musicale non è la musica. Una pagina di musica rappresenta un pezzo musicale, ma la musica è ciò che si ascolta quando le note stampate sulla pagina vengono cantate o suonate da uno strumento musicale. Lo stesso vale per la matematica: i simboli stampati sulla pagina sono solo una rappresentazio-

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ne della matematica. Se vengono letti da qualcuno che ha studiato matematica, essi diventano vivi - la matematica, in-somma, vive e respira nella mente di chi legge.

Senza i suoi molti simboli, gran parte della matemati-ca, semplicemente, non esisterebbe. Il riconoscimento dei concetti astratti e lo sviluppo di un linguaggio appropria-to per descriverli sono effettivamente i due lati della stessa medaglia. Per esempio, l’uso della cifra “7” per denotare il numero sette implica che l’esser-sette viene riconosciuto come entità a sé stante. Avere i simboli consente di pensare al concetto e di lavorarci su.

Questo aspetto linguistico o concettuale della matematica è spesso trascurato, soprattutto nella nostra odierna cultura, che mette invece l’accento sugli aspetti procedurali e compu-tazionali della matematica. Anzi, si sente spesso lamentare il fatto che matematica sarebbe molto più semplice e piacevole se non fosse per tutta quella notazione astratta, che è un po’ come dire che Shakespeare sarebbe molto più semplice da capire se solo fosse scritto in un inglese più semplice.

Quando si va oltre i simboli, la matematica - la scienza che studia i pattern - si riduce a un modo di osservare il mondo: sia esso il mondo fi sico, biologico e sociologico che abitia-mo, oppure quello interiore delle nostre menti e dei nostri pensieri. Finora, il più grande successo dei matematici è sta-to indubbiamente raggiunto nel campo della fi sica. L’astro-nomo italiano Galileo Galilei (1564-1642) disse (lo sto un po’ parafrasando): “Il grande libro della natura può essere letto solo da coloro i quali conoscono la lingua in cui è scritto. E questa lingua è quella della matematica”. Nell’epoca at-tuale, dominata dall’informazione, dalla comunicazione e dal calcolo, sono davvero pochi gli aspetti della nostra vita che non siano infl uenzati dalla matematica. I pattern astratti sono anzi la vera essenza del pensiero, della comunicazione, del calcolo, della società e della vita stessa [...].

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Gli architetti della natura. Gli animali che sanno co-struire con la matematica

[...] Concentriamo la nostra attenzione sulla capacità di costruire. Chiunque abbia costruito una casa o l’abbia am-pliata, sa che la prima cosa da fare è stendere i progetti - di-segni in scala precisi, che indichino a chi costruisce come procedere. Per elaborare progetti di costruzione accurati, bisogna conoscere i fondamenti della trigonometria - come determinare la misura dei lati e degli angoli di un triango-lo - e questo vale anche per i lavori di edifi cazione. Senza la precisione assicurata dalla trigonometria, il risultato del progetto di costruzione di una casa potrebbe facilmente tra-sformarsi in un disastro.

Ma gli umani non sono gli unici esseri viventi a erigere edifi ci. Se parliamo di eleganza geometrica, fra le costruzio-ni realizzate dagli animali nessuna può eguagliare la splen-dida struttura a prismi esagonali del favo (fi gura 1). Le api creano questi capolavori dell’architettura per conservarci il miele che producono.

Figura 1. Il Favo. La precisione e l’effi cacia con la quale le api costrui-scono questo deposito accontenterebbero qualsiasi ingegnere civile.

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Fin dai tempi di Pappo, geometra greco del IV seco-lo d.C., sono stati in molti a sospettare che la struttura a prismi esagonali (composti da sei facce) del favo fosse il prodotto non tanto di un senso innato della bellezza ge-ometrica, quanto piuttosto di un’ennesima manifestazione dell’effi cienza della natura. L’opinione comune era che il pattern esagonale ripetuto, visibile nell’immagine in sezio-ne del favo, fosse i1 tipo di architettura che utilizzava la minima quantità di cera possibile per costruire le pareti.

Fu sempre Pappo a suggerire quest’ipotesi, che divenne poi nota come “congettura dell’alveare”, in un saggio su quella che lui chiamava “sagacia delle api”. L’ipotesi ha re-sistito a tutti i tentativi di dimostrazione fi no al 1999, quan-do il matematico Thomas Hales, dell’Università del Michi-gan, annunciò di essere riuscito a risolvere il rompicapo.

È stato solo grazie all’avvento delle tecniche di ripresa ravvicinata che gli scienziati hanno compreso come le api costruiscano i loro depositi per il miele. Si tratta di un’im-presa di alta ingegneria. Le giovani api operaie secernono scaglie di cera calda, ognuna grande all’incirca quanto una capocchia di spillo. Nel contempo, altre api prelevano le scaglie appena secrete e le dispongono con cura a formare delle camere (o celle) cilindriche verticali a sei facce. Ogni parete di cera è spessa meno di un decimo di millimetro, con una tolleranza di soli due millesimi di millimetro. Ognuna delle sei pareti ha la stessa larghezza, e le pareti si incontrano con un angolo di 120 gradi esatti, producendo una sezione trasversale che i matematici chiamano “esago-no regolare”, una delle “fi gure perfette” della matematica.

Perché mai le api scelgono proprio la sezione trasversale esagonale? Perché non costruiscono celle triangolari, o qua-drate, o di qualche altra forma? E perché, soprattutto, le cel-le hanno pareti dritte? In fi n dei conti, la cera calda si presta bene a essere modellata per creare pareti curve. Sebbene il favo sia un oggetto tridimensionale, dato che le singole celle

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hanno tutte forma cilindrica, l’area totale delle pareti di cera dipende solo dalla forma e dalla grandezza della sezione trasversale delle celle. In questo caso, pertanto, il problema matematico riguarda la geometria bidimensionale, quella che si studia a scuola: si tratta di trovare la forma bidimen-sionale che, ripetuta all’infi nito, può coprire una grande area piatta (per le api, un intero favo; per i matematici, un intero piano bidimensionale) e per la quale la lunghezza totale di tutti i perimetri delle celle sia il minimo, con il risultato che l’area totale delle pareti del favo è la più piccola possibile.

I matematici hanno facilmente dimostrato alcuni fatti. Per esempio, ci sono solamente tre tipi di poligoni regolari che possono essere giustapposti in modo da coprire intera-mente un piano: i triangoli equilateri, i quadrati e gli esago-ni regolari. (Un poligono regolare è una fi gura geometrica avente tutti i lati diritti e della stessa lunghezza e tutti gli angoli della stessa ampiezza.) Qualsiasi altro poligono re-golare lascerebbe spazi vuoti. Dei tre poligoni regolari che coprono interamente il piano, i quadrati hanno un perime-tro totale inferiore rispetto ai triangoli, e gli esagoni minore di quello dei quadrati.

Gli esagoni regolari (quelli con tutti i lati uguali e tutti gli angoli di 120 gradi) hanno un perimetro più piccolo rispetto agli esagoni irregolari, un fatto noto da secoli. Ma se si am-mettono combinazioni di poligoni di tutti i tipi, oppure con lati che non sono linee rette, le cose si fanno un po’ più com-plicate. Su questo caso generale si sapeva poco fi no al 1943, quando un matematico ungherese di nome Lâszló Fejes Tóth utilizzò un argomento ingegnoso per dimostrare che il pattern a esagoni regolari produce effettivamente il più piccolo perimetro totale rispetto a tutti i pattern ricavabili dalla combinazione di poligoni con lati rettilinei (fi gura 2).

Ma che cosa succederebbe se i lati potessero essere cur-vati? Tòth pensava che la struttura a esagoni regolari fosse ancora la più effi cace, ma non aveva modo di dimostrarlo.

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Figura 2. I matematici hanno dimostrato che la sezione trasversale che usa la minore quantità di cera per immagazzinare un dato volume di

miele è un pattern ripetuto di esagoni regolari.

In ogni singola cella del favo, se una parete presen-ta un rigonfi amento è possibile immagazzinare più miele di quanto lo sarebbe se la parete fosse diritta, a parità di superfi cie delle pareti. Così, cella per cella, le pareti rigon-fi e rappresentano un modo migliore di immagazzinare il miele. Ma quando le varie celle formano un tutto unico, un rigonfi amento sulla parete di una cella signifi ca meno spa-zio per il miele nella cella adiacente. La questione è: ci può essere un intero favo di celle con rigonfi amenti nel quale l’incremento complessivo in effi cacia dei rigonfi amenti ver-so l’esterno pesi più del decremento complessivo dovuto ai rigonfi amenti verso l’interno? Se esistesse una disposi-zione capace di soddisfare queste condizioni, la congettura dell’alveare di Pappo sarebbe falsa.

Intuitivamente, i rigonfi amenti verso l’esterno dovreb-bero bilanciare esattamente quelli verso l’interno, ed è pro-prio per questo che Töth pensava che lo schema esagonale fosse il migliore. Tuttavia, come è stato osservato dai mate-matici che hanno studiato a fondo il problema, le cose non sono così semplici come potrebbe sembrare. Nondimeno, questo è esattamente ciò che Thomas Hales del Michigan dimostrò nel 1999: i rigonfi amenti si annullano a vicenda. A Hales servirono diciannove pagine di complicati svol-gimenti matematici per sviluppare la sua dimostrazione. I

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matematici di tutto il mondo furono entusiasti di questo nuovo risultato. Quanto alle api, a modo loro questo teore-ma l’avevano sempre saputo.

Bene, se avete fatto a pugni con la matematica al liceo, potreste meravigliarvi che animaletti così semplici come le api riescano a risolvere problemi matematici che hanno richiesto un simile sforzo da parte di matematici di profes-sione. Quello che gli scienziati trovavano diffi cile da pro-vare era che il favo avesse davvero la forma più effi cace. È vero, le api non fanno che costruire il favo. Ma il teorema di Hales dimostra che, fra tutte le diverse architetture che avrebbero potuto scegliere, la struttura usata è la più effi ca-ce; di fatto, quindi, è lo stesso processo evolutivo dell’ape a dimostrare, in modo naturale, il risultato.

In ogni caso, a prescindere dalla questione dell’effi cacia della forma a esagoni ripetuti, l’incredibile precisione con la quale le api costruiscono i favi sta a indicare che sono geometri e ingegneri naturali di altissimo livello.

Come accade per la formica del deserto tunisino e per gli uccelli e i pesci migratori, centinaia di migliaia di anni di evoluzione hanno prodotto un essere vivente che gli istinti naturali rendono una perfetta macchina da costruzione, in grado di pianifi care, calcolare, misurare e realizzare. Cer-to, anche gli esseri umani sanno fare tutto questo - anzi, lo sanno fare con una precisione ben superiore a quella delle api. Ma non per istinto, bensì soltanto con l’uso esplicito e consapevole di una matematica alquanto sofi sticata [...].

KEITH DEVLIN,L’istinto matematico,

Raffaello Cortina, Milano 2004.

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La matematica della Fortuna e i suoi limitidi Hans Magnus Enzensberger

La rifl essione su scienza e letteratura accompagna da lunghi anni il lavoro di Hans Magnus Enzensberger. È lui a sostenere che in una buona poesia, cosí come in una formula, il grado di concentrazione è molto alto: c’è una certa eco-nomia, che ha ridotto tutto all’essenziale. Ma c’è anche altro, in entrambi i casi: il fatto che né una poesia, né una formula, siano autoesplicative. Per intenderle bisogna possedere una chiave di interpretazione, che deve per forza essere lin-guistica. E il linguaggio procede per analogie, similitudini, metafore, immagini. Basta cercare l’etimologia dei termini scientifi ci, dietro ai quali si nascondono meravigliose metafore. Ma questo signifi ca anche che la scienza ha un’enorme produttività poetica: lo sapeva bene Coleridge, che andava a lezione di chimica “per arricchire la propria riserva di metafore”. C’è una radice comune nella produttività del nostro cervello: una specie di grammatica universale, nel senso di Chomsky. E c’è anche una comune capacità di invenzione linguistica, che si manifesta al meglio nella poesia e nella matematica, che sono le più sviluppate e raffi nate attività umane. Enzensberger ha inoltre dedicato gran parte del suo lavoro ai bambini e ai ragazzi. Autore del libro di matematica per bambini, Il mago dei numeri (Einaudi, 1997), in cui un diavoletto dai mille giochi di pre-stigio conduce Roberto, un ragazzino che odia la matematica perché insegnata male da un professore antipatico, alla scoperta del paese incantato dei numeri. E il mondo della matematica diventa fantasioso come una fi aba.(Piergiorgio Odifreddi)

Incertezza, sempre incertezza! Solo i morti non corrono più rischi. L’umanità, per quanto si voglia risalire all’indie-tro con la memoria, ha sempre inventato pratiche per far

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fronte alle vicissitudini apparentemente imprevedibili della sua esistenza. Nessuna società antica se l’è mai cavata sen-za sciamani, indovini, maghi, astrologi e sacerdoti. Oracoli, amuleti, formule apotropaiche hanno sempre fatto parte delle indispensabili tecniche per interpretare e infl uenzare le sorti della collettività e del singolo. E ancor oggi, com’è noto, tutti questi mezzi godono di grande popolarità.

Fra le divinità antiche vi furono la Tyche dei Greci e la Fortuna dei Romani: a loro bisognava rivolgersi per carpire un briciolo di fortuna. Ma naturalmente, quelle capricciose divinità non erano competenti in materia di salvezza eter-na: solo delle occasioni che la vita terrena concede o nega. E anche lì, bisogna saper scegliere il momento giusto.

Il dio Kairòs in un bassorilievo del I sec. a.C. della Chiesa di San Nicola in Croazia.

E il rapporto con il tempo era incarnato da un dio o dè-mone particolarmente piccolo: Kairós. Nella mitologia gre-ca, Kairós è il fi glio minore di Zeus e si riconosce facilmente dall’acconciatura. Chi cerca di ghermirlo da dietro, resta con un pugno di mosche in mano, perché Kairós ha la nuca rasata. Bisogna afferrarlo da davanti, dal ciuffo, per coglie-re l’istante fortunato.

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Naturalmente, la modernità non ha voluto accontentarsi di questi metodi antichissimi e sperimentati. Al contrario, il pensiero scientifi co era ben deciso a fare piazza pulita di quelle che defi niva superstizioni. Al posto dell’irrazionale doveva entrare il calcolo: un progetto, questo, che si pre-fi ggeva niente di meno che razionalizzare la fortuna. Non si doveva più parlare di destino, ma del suo grado zero, diciamo della sua manifestazione all’osso: il caso.

Sul fronte più avanzato di quell’offensiva troviamo i ma-tematici. Nel 1663 fu pubblicato De ludo aleae, un trattato di Girolamo Cardano sul gioco dei dadi: fu l’inizio della storia della teoria della probabilità. Il dotto rinascimentale, nati-vo di Pavia, era un appassionato del gioco d’azzardo, e nel suo libro, oltre ai calcoli matematici, offriva anche consigli ai bari e agli imbroglioni. E forse non è un caso (sebbene il senso del suo trattato fosse proprio quello di provare ad aggirare il caso).

In epoche successive, anche altri campioni del calcolo delle probabilità – come Pascal, Fermat, Huygens e Ber-nouilli – sono stati affascinati dalle scommesse e dal gioco d’azzardo. Ma di quest’ultimo erano già divenuti schiavi gli dèi dell’Olimpo: a quanto pare, i tre fratelli Zeus, Posi-done e Ade si spartirono il mondo proprio con questo si-stema, cosicché a Zeus toccò il cielo, a Posidone il mare e a Ade gli inferi. Del resto la parola «calcolo» deriva dal latino calculus, cioè «pietruzza». In origine, difatti, sassolini bian-chi e neri venivano usati come oracoli e talismani, oppure per ricordare gli eventi fausti o infausti. In seguito i sasso-lini furono utilizzati per emettere verdetti di condanna o di assoluzione, e solo alla fi ne della loro carriera sono fi niti sulle nostre scacchiere.

A quanto pare la teoria classica è riuscita a calcolare in modo esatto alla virgola l’esito probabile di un lancio di dadi o di monete. Non soltanto quest’ultimo presuppone monete e dadi ideali, come non ne esistono nel mondo rea-

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le, ma poiché il calcolo sottostà anche alla legge dei grandi numeri, soltanto se l’esperimento viene ripetuto all’infi nito si arriva al valore-limite della probabilità che si è calcolato. Purtroppo, però, nessuno siede all’infi nito al tavolo da gio-co, anche perché la vita umana è già abbastanza breve.

Naturalmente, i matematici dell’era moderna non si sono fermati alle conclusioni dei classici. Le loro eroiche fatiche hanno affi nato sempre più la teoria classica fi no ai nostri giorni. Ciò facendo hanno scoperto varie cose sorprenden-ti, e ben presto si è visto che dietro il problema del caso si nascondono tranelli e ghiribizzi metafi sici. Non è questa la sede adatta per avventurarsi nelle sottigliezze degli assiomi di Kolmogorov o delle simulazioni del metodo Monte Car-lo. Ma già la semplice domanda «testa o croce?», «rosso o nero?» può mettere a dura prova il buonsenso.

Poniamo che stiate giocando alla roulette, e che la palli-na si fermi 20 o 30 volte su una casella rossa. Una serie del genere non vi sembra estremamente improbabile? Non vi prudono le mani dalla voglia di puntare sul nero, perché vi fi gurate che a ogni nuovo lancio le probabilità che esca il nero aumentino? Errore! Ogni nuovo lancio della pallina è indifferente rispetto a tutti quelli che l’hanno preceduto. Ma aspettate: la vostra situazione si presenta ancora peggiore. Secondo la legge dei grandi numeri, infatti, il rapporto fra i lanci con esito nero e quelli con esito rosso si avvicina tanto più alla parità – 50 a 50 – quanto più a lungo si gioca. Ma i risultati effettivi possono anche deviare fortemente da que-sta regola. Ad esempio, su 100 lanci, se nei primi 60 è uscito 60 volte il rosso, nei rimanenti 40 lanci le probabilità che esca il rosso diminuiscono del 50 per cento di 40, quindi del 20 per cento e non del 50 per cento. Quanto più a lungo si gioca, tanto più improbabile è il pareggio fra rosso e nero! Perciò, se vi foste fi dati del vostro intuito, alla lunga sareste andati in rovina.

Per questi e altri motivi falliscono anche i vari sistemi

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con il cui aiuto molti giocatori d’azzardo sperano di gioca-re un tiro al caso. Spesso questi trucchi infallibili vengono offerti su Internet. Mi ricordano la famosa inserzione in cui qualcuno prometteva, dietro invio di 5 dollari, un metodo sicuro per diventare ricchi velocemente e senza rischi. La ricetta proposta dall’inventore era questa: «Fate come me». Di sicuro, nel gioco d’azzardo, c’è una cosa sola: che alla lunga vince sempre il banco. Anche le varie lotterie ridistri-buiscono soltanto la metà circa delle puntate: l’altra metà la intascano gli organizzatori.

Non si servono altrettanto generosamente le banche e gli agenti che partecipano a un altro gioco, quello delle specu-lazioni in Borsa: ma anche qui, indipendentemente dal fatto che le quotazioni salgano o scendano, si applicano costi di transazione e provvigioni; e anche qui i più elaborati meto-di di analisi tecnica possono indurre in errore. Sembra che certi operatori di mercato preferiscano addirittura affi darsi ai loro astrologi piuttosto che ai loro analisti. Altri ancora lasciano che a decidere sia la donna di servizio.

Quali insidie si celino nel concetto di caso lo dimostra anche la diffi coltà di formalizzarlo. Molti sforzi sono stati dedicati a generare una serie numerica puramente casuale. A tal fi ne ogni computer contiene un apposito software, il cosiddetto «generatore di numeri random». Ma purtroppo, a una più attenta osservazione si nota che nessun calcolato-re è in grado di generare una simile serie, perché questa è più complessa del suo stesso programma. Perciò il compu-ter non è in grado di rispondere al quesito se un dato elenco di numeri sia casuale (il che peraltro dimostra la validità del famoso detto di Kurt Gödel, secondo cui è impossibile dimostrare la mancanza di contraddizioni logiche di un si-stema all’interno dello stesso sistema).

Con questi e altri trabocchetti deve fare i conti chi si affi -da alla sorella povera della teoria delle probabilità: la stati-stica. Di questo servizievole fantasma si dice, non del tutto

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a torto, che intrattenga una certa complicità con la menzo-gna. Di ciò, naturalmente, hanno meno colpe le teorie da osteria della prassi senza scrupoli. Tutto ha inizio già dai dati statistici grezzi. Per esempio, nel prodotto sociale lor-do rientrano anche i costi di tutte le riparazioni e le terapie: di conseguenza, questa bella cifra di riferimento aumen-ta incessantemente a ogni incidente, ogni malattia e ogni delitto che capita. E ancora: la disoccupazione, per motivi politici, si misura con metodi diversi – e di regola estre-mamente ingannevoli – da un paese all’altro. Secondo una defi nizione della Commissione Europea, è da considerarsi povero chi guadagna meno della metà del reddito medio degli abitanti del suo paese. Il che signifi ca, naturalmente, che la povertà è destinata a vita eterna, perché anche se il reddito medio annuo pro capite salisse a 2 milioni, anche i semplici milionari sarebbero considerati dei miserabili. Per contro, si può escludere con certezza pressoché assoluta un tasso di crescita del 200 per cento: ma ciò serve ben poco a chi deve campare con 1 dollaro, massimo 3, al mese.

Si è detto che in questo modo possono sorgere errori molto grossolani. Ma onestamente, chi saprebbe spiegare su due piedi che cosa si intende quando si parla di “valore medio”? Si tratta della media aritmetica, del valore media-no o del valore modale? Finché questo non è chiaro, da un calcolo statistico si potrebbe trarre la conclusione che le for-niture idriche funzionano a perfezione anche quando metà della popolazione affoga e l’altra metà muore di sete.

Naturalmente, errori così marchiani di interpretazione possono succedere soltanto a un pubblico inesperto e cre-dulone, mentre lo statistico scaltro ne è immune. E là dove c’è in ballo un sacco di soldi, ad esempio nella matematica delle assicurazioni, il calcolo delle probabilità è stato speri-mentato a fondo. Anche qui vale il detto che alla fi ne vince sempre il banco. E qui torna in gioco la legge dei grandi numeri di Bernouilli. Quanti più clienti l’assicuratore ha nel

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suo portafoglio, tanto meno deve temere le perdite; là dove i rischi sono particolarmente grandi essi vengono distribu-iti su spalle ancor più larghe grazie alle riassicurazioni. Il conto sale proprio perché alla società di assicurazioni può essere del tutto indifferente se la casa dell’assicurato pren-de fuoco o se egli stesso muore.

Ma questa non è la prospettiva dell’interessato, che si rapporta al rischio in tutt’altro modo. Da una parte è affl it-to da tutte le preoccupazioni possibili e immaginabili. In quanto investitore, oscilla continuamente fra rabbia e avi-dità, istinto gregario e avversione al rischio, e non di rado la conseguenza è che prende le sue decisioni in modo del tut-to irrazionale, proprio perché cerca di proteggersi da ogni rischio concepibile. Il che, si capisce, conviene molto non soltanto alle assicurazioni, ma anche allo zelo dei politici.

D’altro canto, però, in ogni pusillanime si nasconde an-che un avventuriero. Perché dove il rischio sembra esclu-so, è in agguato la noia. E allora, ecco il prode capuffi cio che corre a rotta di collo in sella alla sua mountain bike, il praticante della cassa di risparmio che si diverte a fare surf sui binari del tram, l’insegnante di economia dome-stica che pratica il bungee-jumping e il vicepreside che deve a ogni costo fare la traversata del Sahara, dove viene preso in ostaggio da una banda di rapitori: così per una volta va anche lui in tv, dopo che questo o quel ministro si è adoprato per il suo rilascio. In questo caso, il costo – sotto forma di un riscatto di svariati milioni – se lo accolla il contribuente.

Ma non occorre prendere in considerazione casi così estremi per capire quanto poco il nostro comportamento sia determinato dal calcolo del rischio. Chi contrae un ma-trimonio d’amore non si preoccupa certo del fatto che le sue probabilità di trovare l’unico partner “giusto” sono piut-tosto limitate. Ponendo (con grossolana approssimazione) che i possibili candidati siano un miliardo, le probabilità di

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incontrarlo si calcolano così:

n. dei casi favorevoli per A =1

n. dei casi possibili = 1.000.000.000p(A)=

il che tuttavia non ha ancora impedito a nessuno di corre-re un rischio così enorme. Uomini e donne che aspirano al matrimonio si aggrappano imperterriti alla convinzione di aver azzeccato l’unica scelta possibile.

Ecco fi no a che punto è precaria la nostra fortuna. A quanto pare, ha perfettamente ragione Pierre Basieux,

quando scrive – nel suo libro Abenteuer Mathematik1 – che il calcolo delle probabilità è una branca della matematica al-trettanto precisa della geometria, dell’algebra o dell’analisi. Ma poi Basieux prosegue: “Non bisogna tuttavia confonde-re il calcolo delle probabilità con le conclusioni che si pos-sono trarre dall’applicazione del modello probabilistico al mondo in cui viviamo. Così come è impossibile dimostrare un assioma, è impossibile anche dimostrare che le probabi-lità esistano al di fuori della mente matematica”.

In conclusione, non mi sembra che la scienza abbia ot-tenuto il pieno successo del suo progetto, perseguito con tenacia, di scacciare Fortuna dalla nostra vita. Ciò dipende forse dal fatto che noi umani dobbiamo la nostra stessa esi-stenza a una lunga catena di eventi estremamente improba-bili. La nostra fortuna – e la nostra sfortuna – sfugge dun-que ai portentosi calcoli che abbiamo escogitato nel corso dei secoli, e non ci rimane altro che la possibilità di afferrare ogni tanto Kairós per il ciuffo.

HANS MAGNUS ENZENSBERGER,intervento al Festival della Matematica di Roma, 13 marzo 2008.

(in: http://areeweb.polito.it/didattica/polymath/htmlS/Interventi/DOCUMENT/Enzensberger/Enzensberger.htm ).

1 “Avventura matematica”

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A commento dell’intervento di Enzensberger, riproponiamo qui un’altra celeberrima poesia di Trilussa1, La statistica.

Nella cultura popolare, specialmente a Roma e dintorni, le opere di Trilus-sa sono diventate fonti di massime e detti, ma nessuno di questi ha superato come diffusione e notorietà quello dei “polli di Trilussa”, diventati celebri a livello matematico, e non solo, come la più proverbiale osservazione a propo-sito delle medie statistiche. Di fatto il componimento di Trilussa non fa altro che affermare che se qualcuno mangia due polli, e qualcun altro no, in media hanno mangiato un pollo a testa, anche se di fatto sappiamo che uno non l’ha mangiato. La scelta del pollo va inserita nel contesto storico, in quanto ai tempi di Trilussa mangiare pollo era considerata “una cosa da ricchi”, ma anche se oggi in Italia la situazione è diversa il signifi cato del ragionamento umoristico non cambia.

La statisticaSai ched'è la statistica? È na' cosa

che serve pe fa un conto in generalede la gente che nasce, che sta male,

che more, che va in carcere e che spósa.Ma pè me la statistica curiosaè dove c'entra la percentuale,

pè via che, lì, la media è sempre egualepuro co' la persona bisognosa.

Me spiego: da li conti che se fannoseconno le statistiche d'adesso

risurta che te tocca un pollo all'anno:e, se nun entra nelle spese tue,t'entra ne la statistica lo stesso

perch'è c'è un antro che ne magna due.

Con questa poesia Trilussa anticipa un tema che è diventato assai attuale con la diffusione dell’informazione statistica per fi ni di promozione politica, economica e non solo. Come infatti sosteneva Darrell Huff nel suo Mentire con le statistiche (How to Lie with Statistics) spesso il numero statistico, magari privo di informazioni dettagliate, può essere interpretato in modi di-

1 Su Trilussa, cfr. pag. 79 e segg.

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Hans Magnus Enzensberger, “poeta, fi losofo, saggista, giornali-sta, inviato speciale, traduttore poliglotta, critico letterario, analista sociale e militante politico – come lo ha defi nito Piergiorgio Odifred-di introducendo una sua intervista - oltre che autore di capolavori quali il romanzo La breve estate dell'anarchia (Feltrinelli, 1978) e il poema La fi ne del Titanic (Einaudi, 1990)”. E’ l’ autore del best seller Il mago dei numeri, (Einaudi, 1997), in cui un diavoletto dai mille giochi di prestigio conduce Roberto, un ragazzino che odia la matematica perché insegnata male da un professore antipatico, alla scoperta del paese incantato dei numeri. E il mondo della matemati-ca diventa fantasioso come una fi aba.

versi a seconda dei dati correlati. Così la media è un dato spesso poco signifi ca-tivo o addirittura fuorviante se non si sa esattamente su quale base è calcolata e con quali criteri è defi nita: e questa imprecisione, a volte, può essere voluta, con lo scopo intenzionale di ingannare. Casi del genere hanno portato con il tempo a modifi che sull’uso di dati statistici, ad esempio per misurare il reddito medio di una certa nazione, che può risultare elevato grazie alla presenza di pochi individui multimiliardari a fronte di una massa di persone sotto la soglia di povertà. La scienza statistica, peraltro, dispone di strumenti che permettono di tenere conto di questa variabilità, come il Coeffi ciente di Gini. Tuttavia (al di là dell’eventuale uso strumentale della media statistica) il tema del “pollo di Trilussa” esemplifi ca bene la sovrapposizione che si fa a livello popolare tra la statistica in generale (che contiene tra l’altro delle misure di dispersione) e la media statistica, che è una misurazione tanto nota ed esaltata da essere spesso confusa con la statistica stessa. (Tratto dalla voce TRILUSSA, in Wikipedia).

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Curiosità matematichedi Albrecht Beutelspacher

Che cos’è il Grand Hotel di Hilbert?Nell’infi nito sono possibili tante cose, molte più che nel

fi nito. Nell’infi nito è possibile tutto ciò che non è condanna-to a fallire sin dal principio. Una meravigliosa illustrazione di questo concetto è l’hotel con infi nite stanze immaginato da David Hilbert.

In un hotel con un numero fi nito di stanze, dunque un normale albergo, può accadere che tutte le stanze siano oc-cupate. In tal caso non c’è posto per un nuovo ospite.

Nell’infi nito le cose vanno in tutt’altro modo. Immaginia-mo un albergo, il «Grand Hotel di Hilbert », che abbia infi -nite stanze, numerate a partire da 1: 1, 2, 3, ... Ogni stanza è occupata da un ospite. A un certo punto arriva un nuovo ospite che chiede una camera. «Nessun problema» dice il giovane alla reception. «Attenda un attimo ». Il giovane pre-ga l’ospite che occupa la stanza numero 1 di trasferirsi nella 2, l’ospite della 2 di trasferirsi nella 3, l’ospite della 3 di tra-sferirsi nella 4, e così via. Alla fi ne ogni ospite ha una stan-za e la stanza numero 1 è libera, sicché il nuovo ospite può alloggiare lì. In termini matematici, questo fenomeno si può esprimere in modo sintetico con l’equazione ∞ + 1 = ∞.

Chiaramente con lo stesso metodo può trovare posto anche un altro ospite, anzi, una qualsiasi quantità fi nita di

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ospiti. Dunque valgono anche le equazioni ∞ + 2 = ∞, ∞ + 3 = ∞ ecc.

Ora però, incredibilmente, alla porta dell’albergo si pre-senta una quantità infi nita (numerabile) di nuovi ospiti. Anche in questo caso il giovane alla reception ha un’idea: egli prega l’ospite che occupa la stanza numero 1 di tra-sferirsi nella 2, l’ospite della 2 di trasferirsi nella 4, l’ospite della 3 di trasferirsi nella 6, e così via; in tal modo sono oc-cupate solo le camere pari, e gli infi niti nuovi arrivati pos-sono prendere alloggio nelle stanze dispari. L’equazione corrispondente è ∞ + ∞ = ∞.

C’è un’altra versione che mi piace ancor di più: è possibi-le moltiplicare non solo le possibilità di alloggio ma anche il denaro! Immaginate un numero infi nito di persone: nu-mero 1, numero 2, numero 3 ecc. Queste persone sono tutte in fi la una dietro l’altra, e ognuna ha un euro in mano. Voi siete davanti alla fi la con la mano aperta. La prima vi dà il suo euro ma subito ne riceve un altro dalla persona die-tro di lui. Questa riceve a sua volta un euro dalla persona dietro, e così via. In questo modo tutti hanno un euro, ma anche voi ne avete uno! (Qui vale ∞ - ∞ = ∞.) Ovviamente proseguite il gioco: allungate la mano e ricevete un secondo euro, e continuando di questo passo diventate ricchi sfon-dati senza che nessuno abbia meno soldi: un autentico mi-racolo dell’infi nito.

Le conoscenze matematiche si scoprono o siinventano?

Per molti secoli tale questione non si è posta. Il compito degli scienziati era quello di fare delle scoperte: i geogra-fi scoprivano terre sconosciute, i biologi cercavano nuove specie animali e vegetali, i chimici scoprivano nuovi com-posti. E i matematici scoprivano nuovi oggetti e le loro pro-prietà nei campi della geometria e dei numeri.

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Tuttavia, com’era chiaro già allora, gli oggetti matema-tici sono qualcosa di speciale che non si può toccare con mano né porre in uno zoo o in un museo. Si tratta di oggetti mentali; oggetti del pensiero e dell’immaginazione.

Questa concezione delle entità matematiche viene de-fi nita «visione platonica». Per il fi losofo Platone (427-347 a.C.) la matematica era di straordinaria importanza poiché era la testimonianza principale a favore della sua idea che dietro a ogni oggetto percepito dai sensi ve ne fosse uno ideale. In matematica questo è evidente: disegniamo una circonferenza nella sabbia, sulla carta, oppure ne osservia-mo la raffi gurazione sullo schermo, ma le proposizioni ma-tematiche riguardano la circonferenza « ideale », non il sol-co nella sabbia né la traccia di grafi te sulla carta, né i pixel sullo schermo.

Il punto cruciale però è la convinzione di Platone che gli oggetti ideali rappresentino il più alto livello di realtà. Tutte le percezioni dei nostri sensi, ovvero tutto ciò che vediamo, sentiamo, tastiamo, odoriamo o gustiamo, è per Platone solo una copia sbiadita dell’oggetto ideale corrispondente.

Per un platonico è evidente che le proprietà matematiche vengono scoperte, dal momento che l’oggetto ideale esiste già nell’« iperuranio» platonico.

La matematica moderna ha invece una visione diame-tralmente opposta. Nella sua «concezione formale », la ma-tematica è un gioco. Ciò non signifi ca che tutto sia permes-so, o addirittura che nulla conti. Al contrario, in un gioco ci sono delle regole - e nient’altro. Si può fare solo quello che è consentito dalle regole. In matematica, le regole del gioco sono gli assiomi; questi stabiliscono il modo in cui si può operare con i concetti fondamentali. Oltre alle regole del gioco non esiste una realtà «più alta» retrostante.

I libri di testo di matematica sono strutturati così. In bre-ve, la matematica è un gioco inventato dagli uomini. La ma-tematica viene inventata.

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È come nel gioco degli scacchi: le regole stabiliscono come muovere i pezzi ma non dicono né che cosa sia un «re» né quale «signifi cato» abbia una mossa.

Se chiedessimo a un matematico una dichiarazione uf-fi ciale sulla questione formalismo contro platonismo, quello probabilmente replicherebbe con una sfumatura di indi-gnazione: «Nella nostra scienza tutto è alla luce del sole! Ci sono gli assiomi, ci sono le regole e nient’altro. Noi ci atteniamo alle regole del gioco».

In privato però molti matematici hanno sensazioni com-pletamente diverse. Nel loro lavoro «sentono» gli oggetti matematici, anzi, sostengono addirittura di percepirli quasi fi sicamente. A prescindere dal fatto che siano in cerca di una dimostrazione dell’infi nità dei numeri primi gemelli, o che studino sistemi di insiemi la cui cardinalità sia mag-giore di quella dei numeri reali, o che esaminino confi gura-zioni speciali di rette nello spazio a cinque dimensioni, essi sentono sempre la presenza degli oggetti della loro ricerca, o comunque ci credono, visto che del platonismo non vi è alcuna prova tranne la ferma convinzione di molti mate-matici.

Il matematico P.J. Davis descrive la situazione in modo effi cace: «Il tipico matematico è platonico nei giorni feriali e formalista di domenica ».

Gli extraterrestri possono capire la nostra matematica?

La possibile esistenza di vita extraterrestre è una que-stione molto dibattuta. Se poi l’eventuale vita extraterrestre sia anche intelligente o addirittura possieda un tipo di in-telligenza che noi siamo in grado di percepire come tale, è tutta un’altra faccenda.

Come potremmo capire, in linea di massima, che abbia-mo a che fare con esseri intelligenti? Possiamo comunicare

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con gli extraterrestri? E in caso affermativo, su quale argo-mento? Di certo la cultura, lo sport e la politica non sono temi in comune. Né Johann Sebastian Bach né Madonna, né Muhammad Ali né Bobby Fisher, né la Dichiarazione d’indipendenza americana né la Seconda guerra mondiale dovrebbero essere noti agli extraterrestri. E temo che nean-che scienze come la fi losofi a, la psicologia e la teologia sia-no campi nei quali è possibile stabilire una comunicazione.

Chimica, fi sica e tecnica in linea di principio sarebbero materie più adatte, se potessimo mostrare qualcosa agli alieni. Ma anche in questo caso per comprenderci dovrem-mo basarci su una qualche costruzione linguistica.

La matematica potrebbe funzionare. Anzi, probabilmente la matematica è l’unica cosa che funzionerebbe. Perché? Per-ché la matematica ha una grande indipendenza dal linguag-gio e perché è universalmente valida. Poiché le leggi della logica - si presume - valgono dappertutto, la matematica sviluppata in un altro punto dell’universo - si presume - non sarà in contraddizione con la nostra. Ovviamente è ipotiz-zabile che gli extraterrestri abbiano esplorato un’altra mate-matica, ovvero altri campi matematici, ma è inimmaginabile che una cultura altamente sviluppata sul piano tecnologico non conosca i numeri, benché ciò naturalmente non si possa escludere.

Dunque comunicheremmo con gli extraterrestri con i nu-meri e parleremmo di numeri. Faremmo loro un test d’in-telligenza: manderemmo un paio di righe e attenderemmo con ansia di vedere come ci rispondono.

Potrebbe andare così: noi inviamo i numeri 2, 3, 5, 7, per esempio trasmettendo prima due segnali, poi, dopo una pausa, tre segnali, poi cinque e poi sette: bip-bip, bip-bip-bip, bip-bip-bip-bip-bip, bip-bip-bip-bip-bip-bip-bip.

Se gli extraterrestri rispondono con undici e tredici se-gnali, saremo certi di aver comunicato su una cosa che ab-biamo in comune, cioè i numeri primi.

In breve: se esseri extraterrestri intelligenti osservano il

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nostro pianeta, la matematica è uno dei pochi fenomeni che potrebbero comprendere.

ALBRECHT BEUTELSPACHER,Matematica.

Tutto quello che avreste voluto sapere. 101 domande e risposte,Ponte alle Grazie, Milano 2011.

Albrecht Beutelspacher, nato nel 1950, dal 1988 è professore di geo-metria e di matematica discreta all'Università di Giessen. Ha fondato e dirige il Mathematikum, il primo museo matematico interattivo del mon-do. Il «divulgatore entusiasta e instancabile» di cose matematiche, come lo chiama la Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha ottenuto numerosi premi per questo suo ruolo, fra cui il Communicator-Preis della Stifterverband für die Deutsche Wissenschaft (Fondazione per la Scienza Tedesca), il Deutscher IQ-Preis e lo Hessischer Kulturpreis. In Italia ha pubblicato con Ponte alle Grazie Matematica da tasca (2002), Le meraviglie della matematica (2008) e Piega e spiega la matematica (con Marcus Wa-gner, 2009).

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“ La cucina è uno dei posti dove meno ci si aspetterebbe di trovare la mate-matica, fatta eccezione forse per qualche dato numerico nelle ricette: «Quattro uova, due cucchiai di farina», o tutt’al più quando dalle dosi per quattro perso-ne si devono calcolare quelle per tre o sette. Al di là di questo sembrerebbe che la matematica non abbia diritto di cittadinanza: la cucina è il luogo dei profumi e dei sapori, e non c’è posto per numeri o formule. Ma a guardare meglio, dietro i frullati e le fritture emergono altri meccanismi, che un occhio esercitato rie-sce a cogliere e a portare alla luce. Meccanismi che regolano il funzionamento e la struttura di oggetti e fenomeni quotidiani, e che celano al loro interno una grande quantità di matematica spesso tutt’altro che elementare. Perché le salsicce cuociono più in fretta dell’arrosto? Qual è la forma migliore per un boiler? Cosa hanno in comune il getto d’acqua che esce da un rubinetto e un ingorgo stradale?[...] ” .1

Nell’ultimo capitolo del libro di Enrico Giusti si parte dall’espansione delle focacce nel forno per ragionare sulle superfi ci con le massime estensioni...

- Secondo me, ci hai messo troppo lievito.Quando Pinotto pronunciò queste parole, Gianni aveva

appena tirato fuori dal forno la sua razione quotidiana di pane, o meglio di focaccine, che avevano da tempo preso il posto del pane alla tavola lei due amici.

- Ormai a comperare il pane non ci si può più fi dare, era

1 Cfr. quarta di copertina del testo di ENRICO GIUSTI, La matematica in cucina, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

Focaccia per panedi Enrico Giusti

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solito osservare. Non si sa con quale acqua è impastato, il lievito, quasi sempre è lievito di birra, e la pasta viene fatta lievitare a tappe for iate; la cottura poi, è fatta in forni in-dustriali. Già il giorno dopo, na che dico, poche ore dopo, acquista un sapore di stantio, ed è quasi immangiabile. Si trova, come no?, qualcosa di ancora decente, ma parte che uno deve avere tanto tempo per cercarlo e deve essere fi cco per poterselo permettere, per un verso o per l’altro c’è sem-pre qualcosa che non va. No, no, se uno vuole mangiare il pane buono, leve farselo da sé.

E così, forte di queste convinzioni - Gianni si sa, quanto a mangiare era piuttosto fanatico; vi ricordate le storie per l’insalata e il affè? - aveva deciso di cuocersi il proprio pane. Anzi, di percorrere da sé tutto il processo di panifi cazione, dall’impasto della farina che doveva essere fatto utilizzan-do esclusivamente acqua di fonte, a stessa che usava per bere e per cucinare) fi no alla cottura fi nale, per la quale si sarebbe anche comprato un piccolo forno a legna casalin-go se Pinotto, temendo di essere costantemente affumica-to, ion si fosse opposto decisamente. Quanto al lievito poi, usava solo quello che produceva in proprio, mettendo ogni volta da parte un po’ dell’impasto, che mescolava alla pasta del giorno successivo, lasciandola poi lievitare pian piano, coperta con un panno di lana.

Questa della lievitazione era sempre stata una fonte di discus sione tra i due amici, con Pinotto che si lamentava costantemen te dell’eccessiva quantità di caverne - così le chiamava, non senza qualche ragione - che caratterizzava-no il pane casalingo.

- Il pane deve essere compatto - diceva - e senza tutte quelle bolle che sembra una gruviera. Perché altrimenti quando ci spalmi la marmellata è più quella che cade in terra che quella che mangi.

Su questo punto, come per la verità su tanti altri che

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riguarda vano il cibo e la cucina, Gianni era irremovibile. Le sue focaccine dovevano essere soffi ci e leggere, e se Pinotto voleva roba solida e compatta, non aveva che da andare al supermercato e comprarsi il pane di segale tedesco cot-to alcuni mesi prima. Col che la discus sione si chiudeva, dato che Pinotto in ogni caso preferiva le focac cine calde che Gianni preparava coscienziosamente ogni mattina per l’intera giornata.

Come si diceva, la preparazione delle focacce era una sorta di rito. In primo luogo, la farina veniva impastata con acqua di fonte (Gianni era capace di sobbarcarsi anche una mezz’ora di macchina per andare a rifornirsi di acqua a una fonte che considerava pura, portando poi fi no a casa la provvista per tre o quattro giorni) e alla pasta veniva ag-giunta una porzione abbondante di lievito, messa da parte il giorno prima. La quantità di lievito, che sembrava ecces-siva a Pinotto, non era soggetta a patteggiamenti. A questo punto la massa veniva lasciata a lievitare per qualche ora, ben coperta da un panno di lana, in modo che la sua tem-peratura non fosse né troppo alta, perché avrebbe lievitato troppo in fretta, né troppo bassa, che avrebbe impedito una buona lievitazione. Una volta con clusa questa fase, la pasta veniva ridotta a uno strato alto un centi metro un centime-tro e mezzo, e da questo venivano ritagliati dei cerchi tutti rigorosamente uguali, per i quali Gianni si serviva di un bicchiere a bocca larga. La pasta che avanzava veniva la-sciata da parte, e serviva da lievito per il giorno successivo. Questa operazione, dobbiamo dirlo a onor del vero, aveva suscitato l’approvazione meravigliata di Pinotto, perché Gianni ritagliava i cerchi di pasta in modo da lasciare il minor residuo possibile, ossia nella disposizio ne esagonale che abbiamo avuto occasione di esaminare parlando degli spaghetti. Pinotto attribuiva questa inopinata raffi natezza matematica dell’amico a una sorta di istinto, un po’ come le api, che costruiscono le loro cellette esagonali senza riga né

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compasso. Le focaccine venivano poi disposte con lo stesso disegno su una teglia, e venivano passate in forno fi nché cominciavano a imbion dire in superfi cie. A questo punto, venivano tolte dalla teglia e ri poste tra due panni di lana, perché mantenessero la loro freschezza per tutto il giorno.

Quella mattina però qualcosa era andato storto, vuoi che il forno fosse troppo caldo, vuoi che Gianni fosse stato di-stratto dalla sor veglianza dall’ascolto di una musica parti-colarmente suadente, vuoi per chissà quale combinazione di eventi. Per Pinotto, comunque, la causa non poteva esse-re che una:

- Secondo me - disse - ci hai messo troppo lievito.Come che sia, di certo le focacce non erano venute trop-

po bene; anzi non erano venute affatto bene, dato che si erano tutte attaccate le une alle altre, come si può vedere dalla fotografi a che Pinotto si era affrettato a prendere, a futura memoria. I lettori potranno giu dicare da loro se il disappunto dei due nostri eroi fosse eccessivo. In ogni caso, Gianni si apprestava già a buttare tutto nel bidone della spazzatura quando venne fermato da uno dei soliti gridi di Pinotto:

- Fermo! che fai?- Butto nella spazzatura. Non vorrai mica mangiare que-

ste schi fezze?- Ma chi parla di mangiare? possibile che non veda mai

altro?Non so se mai, ma stavolta effetti-

vamente Gianni non vedeva altro; o meglio, vedeva una specie di pavi-mentazione a esagoni, questo sì, ma non la trovava particolarmente ecci-tante, specie in relazione con le focac-cine. Ma Pinotto, una volta che aveva affer rato l’osso, qui materializzato in

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un’infornata di focaccine venu te male, non lo lasciava così facilmente. Per cui continuò alla sua maniera, girando per un po’ intorno al punto prima di piazzare il suo affondo.

- Il meccanismo con cui si formano questi esagoni è piut-tosto in teressante - disse aspettando che Gianni, incuriosito dall’osserva zione, cadesse nella trappola e chiedesse spiega-zioni. Ma poiché stavolta la domanda tardava a venire, conti-nuò da solo - e c’entra un sacco di matematica di alta qualità.

- Nelle focaccine?- Beh, non nelle focaccine in quanto tali, ma nelle forme

che assumono. Naturalmente la situazione reale, quella con un numero considerevole di focaccine, è piuttosto compli-cata, e per capire più facilmente è meglio cominciare da un caso semplice.

- Due pezzi? - suggerì Gianni, a cui sembrava di aver preso la situazione assolutamente più elementare.

- Tutto sommato, comincerei da uno. Prendiamo uno dei tuoi cerchi di pasta, quelli tagliati col bicchiere, e mettiamo-lo a cuocere nel forno. Che succede?

- Cosa vuoi che succeda? non succede niente. La focacci-na si cuo ce rimanendo bella tonda.

- Giusto, ma non è che non succeda nulla, come dici tu. Perché anche se resta sempre di forma circolare, mentre cuoce cresce.

- Bella forza, questo perché continua a lievitare.- E infatti il lievito spinge in tutte le direzioni con la me-

desima intensità, almeno se la pasta è omogenea e se la for-ma iniziale era ragionevolmente circolare...

- Vuoi forse insinuare che non sono capace di impastare la farina o di tagliare la pasta?

- ... e dunque - continuò Pinotto ignorando l’interruzione - la focaccia si espande uniformemente in ogni direzione. E fi n qui non credo ci sia nulla da obiettare. Adesso compli-chiamo un po’ la situa zione mettendo a cuocere due focac-cine. Come prima, mentre cuoce la pasta continua a cresce-

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re, sempre mantenendo la forma circola re. Almeno fi nché c’è abbastanza spazio, e le focaccine non si toc cano. Se però le metti troppo vicine, o se ci metti troppo lievito...

Ancora una volta Gianni non resisté alla tentazione di interloqui re; aveva appena incominciato a dire «io non met-to le focaccine troppo vicine», ma si fermò di botto quando vide Pinotto che indi cava con lo sguardo la teglia da cui tutto era cominciato e muoven do le labbra senza emettere suono diceva «troppo lievito».

- Se però, come dicevo, ci metti troppo lievito, allora a un certo punto le due focacce cominciano a toccarsi e si spingono l’una con tro l’altra. Da questo momento in poi, la parte con cui si toccano di venta una linea retta, mentre il resto del bordo continua a espander si secondo una circon-ferenza, così.

E qui Pinotto fece una semplice fi gura, che non ci è dif-fi cile ri produrre. Il tempo necessario a portare a termine il disegno, ben ché piuttosto breve, diede modo a Gianni di riordinare le idee e gli permise di chiedere:

- C’è una ragione semplice per affermare che si toccano lungo una linea retta?

- In un certo senso sì, o meglio, manca una ragione per sostenere che le cose possano andare altrimenti. Secondo te, che motivo ci sarebbe perché la linea di separazione pieghi più verso sinistra che verso destra? o viceversa, che vada a destra invece che a sinistra? o che proceda a zigzag, un po’ a destra e un po’ a sinistra della retta che abbiamo disegnata?

- Se ho capito bene, stai invocando íl principio di ragion suffi ciente.

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- Se vuoi, certo. Purché si sia coscienti che questo argo-mento non è una dimostrazione, ma solo un ragionamento plausibile. D’al tra parte una dimostrazione potrebbe essere piuttosto diffi cile; non credo che nemmeno esista una teoria matematica delle pizzette.

- Dunque niente matematica delle focaccine.- Sì e no, perché se sulle focaccine ben poco si può dire, ci

sono dei fenomeni simili molto ben studiati in matematica. Uno di que sti sono le bolle di sapone. Ti sarai certamente accorto, quando lavi i piatti, che il detersivo forma delle bolle che a volte prendono la stessa forma delle pizzette; beninteso pizzette tridimensionali.

Ora, fra tutte le faccende domestiche che Gianni e Pi-notto do vevano sbrigare tutti i giorni, quella che amava-no di meno era lavare i piatti. Un’avversione che avevano maturato già da adolescen ti, quando erano stati costretti a cimentarsi con i doveri domestici, contribuendo al buon andamento della vita familiare. Da questa loro repulsio-ne derivava una serie di regole strettissime che ognuno dei due doveva rispettare, con turni rigorosi ed eccezioni punti gliosamente elencate. Ognuno doveva curare i piatti per un giorno a turno: dopo la colazione e il pranzo i piatti venivano sciacquati sommariamente e lasciati nell’acqua-io, e dopo la cena venivano lavati insieme alle pentole e alle posate. I giorni in cui c’era qualche invitato venivano conteggiati a parte, anche questi alternativamen te a carico dell’uno o dell’altro.

Normalmente il lavaggio dei piatti era un’operazione solitaria, che ognuno cercava di eseguire nel minor tempo possibile. Ma quel giorno i nostri eroi, approfi ttando del mucchio di piatti sporchi che si erano accumulati nel lavel-lo della cucina, decisero di approfon dire la questione. Con uno spreco immane di detersivo riuscirono solo a riempire il lavello di una schiuma di bolle di sapone, di gran lunga troppo complicata, molto di più delle pizzette che avevano

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dato origine a tutta la faccenda. Così decisero di comune accordo di lasciar perdere, e di produrre le bolle di sapone necessarie con il classico metodo di soffi are con una can-nuccia. Chi fosse entrato in quel momento in cucina, avreb-be visto due giovani adulti intenti a giocare come bambini: Gianni aveva appena fatto una bolla piut tosto grande, che in questo momento stava volteggiando sospesa in aria. Pi-notto interruppe i suoi esperimenti, e ricominciò a spiegare:

- Anche nelle bolle di sapone gioca lo stesso meccanismo delle pizzette. Quando si soffi a si esercita una pressione che fa gonfi are la bolla, e siccome la pressione spinge allo stesso modo da tutte le parti, la bolla assume una forma sferica, sempre per la simmetria del problema, o se vuoi per il prin-cipio di ragion suffi ciente.

- Un momento - interruppe Gianni - qui però mi pare che il mai abbastanza lodato principio di ragion suffi ciente cada in difetto. Non è vero che tutte le direzioni siano equi-valenti, perché c’è il peso che tira in basso.

- Giusto, e infatti se si guarda molto attentamente, le bol-le di sapone non sono perfettamente sferiche, perché la for-za di gravità - il peso, come dici tu - le deforma tirandole verso il basso. D’al tra parte la pellicola che costituisce le bolle di sapone è così sottile, praticamente è spessa quanto una molecola, e il suo peso è così picco lo, che in prima ap-prossimazione possiamo trascurarlo. Dunque, tra scurando la gravità, le bolle di sapone sono perfettamente sferiche.

- E qui di nuovo non sono d’accordo. Quando si staccano dalla cannuccia, specialmente quelle grosse, non prendono affatto una forma sferica, ma anzi cambiano continuamente forma come se cer cassero quella migliore. Solo dopo qual-che tempo, più breve per quelle piccole, più lungo per le grandi, diventano delle vere sfere. E qui il nostro principio di ragion suffi ciente, o meglio il tuo prin cipio di simmetria, va a farsi benedire, perché non c’è affatto una simmetria di confi gurazione.

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- Anche questo è giusto, e in effetti all’inizio la forma varia.

- Già, ma perché diventano sferiche?- Qui entra in gioco un’altra proprietà delle bolle di sa-

pone, di cui se ti ricordi avevamo già parlato. Ma siccome vedo dalla tua fac cia che ti sei già bello e scordato tutto, riprendiamo le cose dall’i nizio. Inzuppiamo la cannuccia nell’acqua saponata e cominciamo a gonfi are. Anzi, fallo tu, che se no non posso parlare.

Per una volta obbediente, Gianni prese una cannuccia e comin ciò a soffi are una bolla di sapone.

- Piano - consigliò Pinotto - come vedi, man mano che l’aria vie ne soffi ata dentro la bolla, questa si gonfi a, sem-pre restando di for ma quasi sferica. A un certo punto, dopo aver soffi ato una certa quantità di aria, si stacca e vola via. E qui comincia la matematica. L’aria soffi ata fa sì che la bolla abbia un certo volume, ma quale sarà la sua forma? Questa dipende dal fatto che la bolla di sapone, o meglio la pelli-cola liquida che la contiene, preme verso l’interno, cercan-do di disporsi nella maniera più compatta possibile, cioè di rendere minima la sua superfi cie. Di conseguenza, la forma della bolla di sapone sarà quella che a parità di volume ren-de minima la sua superfi cie. Questo problema è puramen-te matematico, e può es sere formulato senza riferimento a bolle di sapone o altro: fra tutti i corpi di volume dato, qual è quello di superfi cie minima?

- Ma questo lo abbiamo già visto nello scaldabagno; si tratta del la sfera.

- Lo abbiamo detto, ma non abbiamo nemmeno tentato di di mostrarlo, perché non è per niente facile.

- Ma tu ti eri offerto di dimostrarlo; sono stato io che non ho voluto.

- Mi ero offerto perché sapevo che avresti detto di no; con te i bluff riescono sempre. Ma prima di continuare, vor-rei che tu rifl et tessi su uno dei vantaggi di un’impostazione

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matematica. Noi ave vamo due problemi diversi, lo scalda-bagno più effi ciente e la forma delle bolle di sapone. Sono due problemi che riguardano due par ti della fi sica molto distanti tra loro, la diffusione del calore nello scaldabagno e la tensione superfi ciale delle bolle di sapone, e che quindi sembrerebbero non avere niente a che fare l’uno con l’altro. Eppure una formulazione matematica, per quanto sempli-ce come quella che abbiamo potuto fare senza formule e senza teorie astruse, ci ha permesso di capire che in fondo si trattava dello stesso proble ma, e che la differenza emer-geva solo quando si trattava di interpre tare i risultati che si ottengono. Così la matematica unifi ca molte volte problemi che a prima vista sembravano diversi.

- Per non parlare delle focaccine.L’interruzione non turbò né poco né punto il nostro Pi-

notto, che continuò imperterrito:- Come ti dicevo, il fatto che la sfera abbia area minima

fra tutti i solidi dello stesso volume è piuttosto diffi cile da dimostrare. Se invece come gli abitanti di Flatlandia abban-doniamo lo spazio a tre dimensioni e ci mettiamo nel pia-no, il problema diventa più trat tabile, e si riesce anche a dare una specie di dimostrazione. In que sto caso invece di solidi avremo fi gure piane, e il problema corrispon dente, che è noto come «problema di Didone», diventa: fra tutte le fi gure piane di area fi ssata, trovare quella di perimetro minimo? La risposta, come vedremo, è...

- Il cerchio, immagino. Se in tre dimensioni è la sfera, in due sarà il cerchio. Ma che c’entra Didone?

- Questo dovresti dirmelo tu. Non hai letto l’Eneide?- Sì, è nell’Eneide, ma non vedo il nesso. Didone era una

prin cipessa fenicia, che lasciò la sua città natale (Tiro, ora nel Libano) dopo che suo fratello Pigmalione, re della cit-tà, le aveva ucciso il ma rito e minacciava la sua stessa vita per usurparle il trono. Fuggita in nave con pochi seguaci, e giunta dopo una travagliata naviga zione sulla costa nord

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dell’Africa (per la precisione nell’attuale Tunisia), Didone decise di stabilirsi lì per fondarvi la città che poi doveva di-ventare Cartagine. Per questo chiese al signore del luogo, il re Jarba di Numidia, di vendergli della terra dove edifi care la città. Il re gliene concesse tanta, quanta poteva racchiu-derne la pel le di un bue. So anche i versi di Virgilio, se è per questo.

E cominciò a declamare:Quindi Dido commossa, ordine occulto di fuggir tenne, e d’adunar compagni; che molti n’adunò, parte per odio, parte per tema di sì rio tiranno. Giunsero in questi luoghi, ov’or vedrai sorger la gran cittade e l’alta roccade la nuova Cartago, che dal fatto Birsa nomossi, per l’astuta merce che, per fondarla, fèr di tanto sitoquanto cerchiar di bue potesse un tergo.

- Questo Jarba credeva di essere furbo - continuò - ma Didone era più furba di lui. Così, invece di stendere la pelle in terra, la tagliò in tante striscioline sottilissime, che poi an-nodò tra loro e dispose in modo da circondare una grande area, sulla quale fondò Cartagine.

- Questa è la storia narrata da Virgilio. Ma noi, che sap-piamo come i Fenici fossero buoni matematici, pensiamo che Didone non si fosse limitata a racchiudere una grande porzione di terreno, ma avesse circondato la massima area possibile con la strisciolina di pelle di bue di cui disponeva. Per questo il problema si chiama di Didone.

- E tu dici che questo problema è più facile di quello in tre di mensioni?

- Molto più facile, al punto che possiamo anche provare a risol verlo. Sei pronto?

- Pronto.- Bene. Vogliamo allora dimostrare che fra tutte le fi gu-

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re di area fi ssata il cerchio ha perimetro minimo, ovvero che fra tutte le fi gure di perimetro fi ssato, il cerchio ha area massima. Se ti ricordi, qualche giorno fa abbiamo visto che le due proprietà sono equiva lenti, e così possiamo scegliere quella che ci sembra più convenien te. Noi dimostreremo la seconda, cioè la proprietà di Didone.

- E perché non l’altra?- Perché questa è più facile. Infatti bastano due soli passi

inter medi, o come si dice in matematica, due lemmi. Il pri-mo è questo:Tra tutti i triangoli con due lati dati, ha l’area maggiore il triangolo rettan golo che ha i due lati come cateti.

- Un momento, forse è meglio fare una fi gura.- Giusto. Dobbiamo considerare tutti i triangoli che han-

no due lati dati. Uno di questi possiamo prenderlo comune a tutti i trian goli, e possiamo supporre che sia la base AB. L’altro è quello che parte dal punto A, come AE o AC o AD. La lunghezza è la stessa per tutti, ma può variare l’angolo che forma con la base. Qui ce ne sono disegnati tre, uno con il secondo lato perpendicolare alla base, gli altri con il lato posto obliquamente. Quale ti sembra quello che ha l’area più grande?

- Dalla fi gura, mi pare quello che ha come lato AC.- Proprio così. E la dimostrazione è così facile che la puoi

fare anche tu. Basta ricordarsi che l’area di un triangolo è il prodotto della base per l’altezza diviso per due, o se vuoi il prodotto di me tà della base per l’altezza, e quindi siccome nel nostro caso tutti i triangoli hanno la stessa base, quello con l’altezza più grande avrà anche l’area maggiore.

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- Ho capito! Quando il triangolo è rettangolo, come ACB, l’al tezza è uguale al lato AC. Quando invece il lato è incli-nato, come AEB o ADB, l’altezza EG o DF è sempre minore del lato. Allora il triangolo rettangolo ha altezza massima, e siccome la base è la stessa per tutti ha anche area massima.

- E questo è il primo lemma.- Bene, ma che c’entra con il problema di Didone?- Ci veniamo subito. Prima però ci serve un altro risulta-

to inter medio. Prendiamo la fi gura che risolve il problema di Didone, cioè che ha area massima fra tutte quelle con lo stesso perimetro, e divi diamola con una retta in due parti in modo che il perimetro della prima parte sia uguale a quello della seconda. Allora anche l’area della prima parte sarà uguale all’area della seconda. In altre parole, una retta che dimezza il perimetro dimezza anche l’area.

- Vediamo.- Come sempre, facciamo un disegno. Supponiamo che

la fi gura A abbia area massima fra tutte quelle con lo stesso perimetro, e con una retta r dividiamola in due parti B e C con il perimetro di B ugua le a quello di C. Dobbiamo far vedere che B e C hanno anche la stessa area. Come al soli-to, ragioniamo per assurdo, e supponiamo per assurdo che una di esse, per esempio B, abbia area maggiore di C.

Se ribaltiamo B attorno alla retta r, otteniamo una nuova fi gura B’ che ha la stessa area e lo stesso perimetro di B. Se ora mettiamo insieme B con B’, otteniamo una nuova fi gura A’, che avrà lo stesso perimetro di A perché B’ ha lo stes-so perimetro di C, ma ha area maggiore, perché B’ ha area maggiore di C. Abbiamo allora co struito una fi gura che ha lo stesso perimetro di A e area maggiore. Ma questo è as-surdo, dato che A aveva area massima tra quelle dello stes-

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so perimetro. Abbiamo dunque dimostrato che nella fi gu ra che risolve il problema di Didone ogni retta che dimezza il peri metro dimezza anche l’area. E questo è il secondo lem-ma.

- Va bene, ma continuo a non vedere il nesso.- Vedrai che ora tutte le cose si incastrano. Prendiamo an-

cora una volta la nostra soluzione, e con una retta dividia-mola in due parti con lo stesso perimetro, che per il lemma precedente avranno anche la stessa area. Dimentichiamoci per un momento di una delle due metà, e ragioniamo solo sull’altra. Prendiamo un punto C sul bor do, e tracciamo il triangolo ACB. Io dico che l’angolo ACB è retto.

- E perché mai?- Perché se non fosse retto potremmo aumentare l’area

della fi gura senza cambiare il perimetro. Prendiamo infat-ti il settore CDB e facciamolo ruotare fi nché il segmento CB’ diventa perpendicolare ad AC. La nuova fi gura ACDB’ che ne risulta ha lo stesso perime tro (esclusa la base) e area maggiore di ACDB. Infatti le due parti grigie sono rima-ste le stesse, mentre per il primo lemma il triangolo ACB’ è maggiore del triangolo ACB, dato che l’angolo ACB’ è ret to e ACB no. La lunghezza della parte curva ACB è invece la stessa di quella di ACB’, dato che ci siamo limitati a ruotare il settore CDB. Se allora ribaltiamo la nuova fi gura rispetto alla retta AB’, otteniamo una nuova fi gura che ha lo stesso perimetro di A e area maggiore, che è impossibile. Mi segui?

Non è che Gianni seguisse proprio benissimo. E d’altra par-te non possiamo biasimarlo, perché le dimostrazioni matema-tiche, tranne quando sono evidenti - e questo non è il nostro caso - richiedono sempre un po’ di maturazione. Pensare di

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poter capire una dimo strazione di botto, senza rifl etterci su magari con carta e matita, è a dir poco presuntuoso; e que-sto non vale solo per i principianti. Lo diciamo perché altri-menti il lettore in diffi coltà potrebbe con siderare il compito al di là delle sue possibilità ed essere tentato di abbandonare la lettura. Bisogna invece procedere a piccoli passi, cercando di capire bene un punto prima di procedere al successivo, o altrimenti fare come Gianni, che alla domanda dell’amico rispose sibillinamente: Vai avanti.

- Abbiamo dunque dimostrato che comunque si prenda un punto C sul bordo, l’angolo ACB è retto. Di conseguenza, la fi gura ACDB è un semicerchio.

Piano, piano. Ora mi pare che corri un po’ troppo.- Ma non possiamo prendere tutto dall’inizio. Certamente

saprai che in una semicirconferenza ogni punto vede il dia-metro sotto un angolo retto.

- Sì, ma qui è tutto l’opposto: sapendo che ogni punto vede il segmento AB sotto un angolo retto, che è quello che abbiamo di mostrato...

- Veramente l’ho dimostrato io.- Che è quello che hai dimostrato tu, vogliamo conclude-

re che la fi gura è una semicerchio, cioè che il suo bordo è una semicircon ferenza.

- Questo non è diffi cile. Come sempre, ragioniamo per assurdo. Costruiamo la semicirconferenza AEB che ha come diametro il seg mento AB, e supponiamo per assurdo che il bordo della nostra fi gura non sia questa semicirconferenza. Allora alcuni dei suoi punti cadranno dentro o fuori il semi-cerchio AGB, per esempio fuori come il punto C nel disegno a sinistra, o dentro come nel disegno a destra. Supponiamo di essere in quest’ultimo caso. Tracciamo la retta che passa per C e per il centro D della semicirconferenza fi no a incon-trare la semicirconferenza in G, e disegnamo i due triangoli AGB e ACB. Noi sappiamo che l’angolo AAGB è retto, per-ché G sta sulla semicirconferenza; di conseguenza l’angolo

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ACB, che ha il vertice C all’interno di AGB, è maggiore di un angolo retto. Ma noi ave vamo dimostrato che ogni punto della nostra curva, e dunque an che C, vede il segmento AB sotto un angolo retto. Siamo dunque giunti a un assurdo (infatti l’angolo in C dovrebbe essere sia retto che maggiore di un angolo retto) e quindi non ci possono essere punti C del bordo dentro il semicerchio. Con lo stesso ragiona-mento si dimostra che non ci possono essere punti nem-meno fuori (per questo, senza tante parole, la fi gura basta e avanza).

- Perché in questo caso l’angolo in C risulterebbe minore di un angolo retto - interloquì Gianni, per far vedere che seguiva.

- Giusto, e quindi la nostra fi gura deve essere un semi-cerchio.

Abbiamo così dimostrato, o quasi, che la fi gura che a pari-tà di pe rimetro ha l’area massima è il cerchio. Che è anche quella che fra tutte quelle di area fi ssata ha perimetro mi-nimo.

- Certo è stata dura. Ma forse ne valeva la pena. Ma per-ché dici che abbiamo «quasi» dimostrato? C’è uno dei tuoi soliti trucchi?

- Purtroppo sì, ma non c’è un trucco, c’è un buco.- Un buco?- Si dice così quando in una dimostrazione manca qualco-

sa, o magari si assume senza dirlo una proprietà che invece dovrebbe es sere dimostrata.

- Ma non mi pare che abbiamo fatto nulla di simile. Cosa avrem mo assunto sottobanco? Abbiamo dimostrato anche che due più due fa quattro!

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- E invece qualcosa c’è. Ma consolati, non sei il solo a non esser tene accorto; ci sono cascati anche fi or di matematici. Ti ricorde rai che più di una volta abbiamo parlato della fi gu-ra che risolve il problema, per esempio per dimostrare che tutti i punti del suo bordo vedono AB sotto un angolo retto. Ma chi ci dice che questa fi gura esista?

- Via, se il perimetro è fi ssato, l’area non può essere trop-po gran de, e dunque...

- Certo, questo sì, ma chi ci dice che c’è una fi gura che ha l’area maggiore di tutte le altre?

- Ma se non ci fosse, questo vorrebbe dire che comunque si pren de una fi gura, ce n’è sempre un’altra con lo stesso perimetro e con area maggiore.

- Sicuro.- Ma così si potrebbero trovare fi gure con area sempre

più grande.- E allora?- Allora l’area potrebbe diventare grande quanto si vuole.- Qui casca l’asino! - esclamò Pinotto che da tempo aspet-

tava l’ami co a questo punto. - Una cosa è che si possano trovare sempre delle fi gure con lo stesso perimetro e con area più grande, e un’altra è che se ne possano trovare con l’area grande quanto si vuole. Non ci credi?

L’ultima domanda dipendeva dal fatto che Gianni, non sapendo se l’amico parlava sul serio o per scherzo, aveva assunto un’aria tra lo sconcertato e il condiscendente.

- Vediamo un caso più semplice. Fra tutti i poligoni rego-lari iscrit ti in una circonferenza, pensi che ce ne sia uno che ha l’area massima?

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A questo punto Gianni era veramente confuso.- Basta fare un disegno e si vede subito che non c’è. Sup-

poni per assurdo che sia quello del disegno. Allora basta raddoppiare il numero dei lati, così - e qui con alcuni tratti rapidi disegnò un secondo poligono - e come vedi il nuovo poligono ha area maggiore del precedente. Dunque comun-que si prenda un poligono regolare iscritto in un cerchio, ce n’è sempre un altro che ha area maggiore. Eppure tutte le aree sono minori di quella del cerchio.

- In questo caso effettivamente il massimo non c’è. Ma nel pro blema di Didone...

- Ah, ma io non ho mai detto che il massimo non ci sia; ho detto che nessuno ce lo garantisce, e si dovrebbe comin-ciare col dimostra re che una soluzione c’è. E questa parte è la più diffi cile e la più lunga.

- Per carità, lasciamo stare. Mi accontento della tua pa-rola d’o nore.

Qui Gianni si riferiva a una storiella relativa ai corsi di matema tica che si facevano sotto le armi per gli allievi uffi ciali. L’insegnan te scrive alla lavagna un teorema, che tutti si affrettano a copiare, e poi dice: «A questo punto nella vita civile seguirebbe la dimostra zione, ma qui siamo tra militari, e vi do la mia parola d’onore che il risultato è vero». Chissà perché, questa storiella aveva sempre fatto ridere Pinotto, che anche stavolta si fece scappare una ri-satina.

- Non c’è bisogno di nessuna parola d’onore - disse. - Le cose si dimostrano oppure no, e noi che il cerchio sia la fi gu-ra di perime tro minimo non l’abbiamo dimostrato, punto e

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basta. Però te lo posso far vedere.E qui apparve improvvisamente un oggetto che eviden-

temente Pinotto aveva preparato per l’occasione. Si trattava di un anello circolare di metallo, da due punti del quale uscivano due fi li che a loro volta reggevano un anellino più piccolo, sempre dello stesso fi lo. Un manico permetteva di manovrarlo senza toccare l’anello. Pinotto immerse l’anello nell’acqua saponata del lavello, e lo estras se con una certa delicatezza, benché senza esagerare. Sull’anello si era for-mata una lamina di sapone nella quale nuotavano i fi li. La disposizione era quella della fi gura qui sotto.

- Ora bisogna rompere la lamina saponata che sta dentro il cap pio - disse Pinotto. - Bisogna usare una punta, ma non tanto piccola; un ago ci passerebbe attraverso senza distur-bare nulla. La cosa miglio re potrebbe essere uno di quei ba-stoncini con un batuffolo di coto ne in punta, ma anche un dito può andare bene, specie se è asciutto.

E cominciò ad armeggiare con il mignolo, che nonostan-te la fi gura generale piuttosto rotondetta aveva straordina-riamente affu solato, fi nché non riuscì a rompere la bolla di sapone all’interno del cappio. Immediatamente il sapone si contrasse, e l’anello interno assunse una forma perfetta-mente circolare, come si vede dalla fi gura che abbiamo di-segnato con cura qui vicino.

- Hai capito quello che succede? Ti ricorderai che le bol-le di sa pone tendono a occupare la minima area possibile,

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compatibilmen te con le circostanze. In questo caso, quando si rompe la lamina inter na, quella che resta, e che occupa la parte contenuta tra l’anello esterno e quello interno di fi lo, si dispone in modo da avere la su perfi cie più piccola possibile. Per questo il buco che abbiamo fatto, fra tutte le forme che hanno come perimetro la lunghezza dell’a nello, assumerà quella che ha l’area massima, che come abbiamo visto è un cerchio.

Ora questo risolverebbe il problema di Didone, se non fosse...

- Se non fosse?- Se non fosse che Cartagine era sul mare, e quindi quan-

do Di done si trovò a dover circondare la maggior estensio-ne di terra pos sibile, aveva a disposizione la costa che la aiutava. Allora, se era ve ramente furba come si dice, invece di usare la pelle di bue per descrivere una circonferenza e prendersi un pezzettino di terra all’interno, molto proba-bilmente se ne servì per ritagliarsi una regio ne adiacente alla costa. Come si vede in questo disegno, aiutandosi con la costa si riesce a circondare un’area molto più grande. In que sto modo prese due piccioni con una fava: si accaparrò un territo rio più ampio, e per di più sul mare, che per i Fe-nici era essenziale.

- Ma questo si chiama barare, e Jarba si sarebbe potuto spazien tire. D’altra parte, almeno stando a quello che si leg-ge in Omero, giocare d’astuzia era lecito, mentre era consi-derato disonorevole ritirare la parola data anche se, come in questo caso, si era eviden temente vittime di un imbroglio.

- Ma se l’era cercata, con la sua storia della pelle di bue. Non po teva dire no, e basta?

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- No, rifi utare era impossibile, perché avrebbe negato ospitalità, e anche questo era considerato un comportamen-to disonorevole. Le regole del fair play erano piuttosto com-plicate a quei tempi. Ma piuttosto come va a fi nire?

- Come va a fi nire cosa?- La storia di Didone. Una volta che c’è anche la costa,

qual è la soluzione?- Eh, qui la cosa si complica. Capirai, la costa può avere

tutte le forme possibili, può essere liscia, può avere rien-tranze e strozza ture, insomma ci sono un’infi nità di con-fi gurazioni di cui tener conto, e dire qual è la soluzione in ogni caso è un affare piuttosto complicato. Quello che si può dire, ma non è facilissimo da dimo strare, è che in ogni caso la corda ricavata dalla pelle di bue deve avere sempre la forma di uno o più archi di cerchio; ma dove que sti archi si debbano disporre, questa è tutta un’altra questione, che non si può risolvere senza conoscere in dettaglio la forma della costa, e quindi che bisogna studiare caso per caso. Se però la costa è piatta, allora la soluzione l’abbiamo già tro-vata: è un semicerchio. Infatti la dimostrazione di prima, quella col triangolo rettangolo, si applica perfettamente an-che a questo caso.

- E si vede anche questo con le bolle di sapone?- Certo. Basta prendere stavolta un anello con una parte

piatta, e legare la cordicella al lato diritto, in modo però che gli estremi non siano fi ssi, ma possano scorrere, come questa.

Come aveva fatto poco prima, anche stavolta Pinotto estrasse dalla sua tasca un apparecchio simile al preceden-te, ma a forma di rettangolo che immerse nell’acqua sapo-nata mentre Gianni si chie deva se per caso il suo amico non avesse come Eta Beta una quarta dimensione in cui tenere tutti gli oggetti che via via uscivano dalle sue tasche. A un lato del rettangolo era legato un fi lo di cotone, le cui estre-mità potevano scorrere grazie a due perline bucate e infi -

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late nel contorno. Una volta estratto dalla bacinella, si era formata una lamina saponata nella quale nuotava il fi lo.

- Ecco - disse Pinotto - ora buchiamo la superfi cie all’in-terno, e vediamo cosa succede.

- Aspetta, lo faccio io.E così stavolta toccò a Gianni di usare il suo mignolo per

rom pere la bolla di sapone. Immediatamente il fi lo si tese, assumendo la forma di un semicerchio perfetto, con il cen-tro sul lato piatto.

- Visto? - disse Pinotto.- Bello. Naturalmente tutto questo è solo teorico, un’in-

tersezione tra matematica e leggenda, come sempre senza risvolti pratici o utili.

- Mi meraviglia che proprio tu faccia questioni di appli-cazioni pratiche. Comunque in questo caso ti sbagli. E vero che in mate matica ogni problema assume sempre una ve-ste teorica, cioè svin colata dal particolare contesto in cui il problema è stato posto, ma in molti casi questo favorisce le applicazioni in campi che a prima vista possono sembrare lontani, anche quando l’origine di un pro blema è tutta in-terna alla matematica.

Ma continuiamo a seguire Didone, che una volta ottenu-ta la ter ra su cui fondare Cartagine, cominciò la costruzione della città. A quel tempo le città erano circondate da mura per la difesa, all’in terno delle quali si trovavano le case dei suoi abitanti, ed erano organizzate in modo da essere au-

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tosuffi cienti e dunque capaci di resistere a un assedio. Una volta stabilita l’area necessaria, si trat tava di circondarla con una cerchia di mura, in modo che potesse essere difesa agevolmente. Naturalmente più lunghe sono le mura, più i difensori saranno sparpagliati e la difesa risulterà diffi cile. Per non contare il lavoro e il denaro necessari per costruire mura più lunghe. In che forma credi allora che Didone co-struisse Cartagine?

- Un cerchio?- Sì, se fosse stata nell’entroterra. Ma trovandosi sul mare...- Un semicerchio!- Un semicerchio. Ora Cartagine, come sai bene, è stata

distrut ta dai Romani, e non possiamo sapere quale fosse la sua forma ori ginaria, ma in compenso conosciamo le piante di molte città me dievali, e vediamo che quelle costruite in pianura sono di forma pressappoco circolare. E non solo le città, ma anche le capanne, i recinti per gli animali, insom-ma tutte le costruzioni che devono racchiudere il massimo spazio col minimo perimetro sono a forma circolare. Invece le città di mare sono dei semicerchi, e così anche quelle co-struite sulla riva di un fi ume, almeno fi nché restano solo da una parte. Aspetta.

Così dicendo, Pinotto uscì velocemente dalla cucina, per poi rientrare altrettanto velocemente portando una cartella nella quale aveva riunito un numero considerevole di im-magini di città medie vali e rinascimentali, per lo più ripro-duzioni di incisioni e di qua dri dell’epoca, dalle quali, anche se non perfetta, emergeva chiara mente la forma circolare o semicircolare del perimetro delle mura. Non potendole ri-produrre tutte, ne abbiamo scelte alcune che ri produciamo per gentile concessione del proprietario: una vista di Pavia durante la battaglia del 1524, e ancora più bella una pian-ta di Colonia medievale, ambedue a forma di semicerchio, mentre Mi lano esibiva un’evidente pianta circolare. Per un po’ rimasero a guar darle in silenzio.

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- Certo ne abbiamo fatta di strada - disse Gianni - dal de-tersivo per i piatti alle mura delle città del Medioevo!

- Ma non siamo ancora arrivati, e qui Pinotto ripose velocemen te le carte nel loro contenitore, anzi è meglio che andiamo avanti, se no rischiamo di non arrivare mai. Per-ché nel detersivo le bolle di sapone non stanno mai da sole, ma ce ne sono moltissime, una at taccata all’altra.

- E allora?- E allora, questo cambia tutto, perché per avere il pe-

rimetro più piccolo possibile converrà attaccare le fi gure l’una all’altra, in modo che una stessa curva possa servi-re di bordo a due. Un po’ come quando si costruisce una casa: invece di farla isolata può con venire di attaccarla a una già costruita, in modo da poter usare un muro già fatto. Facciamo un esempio facile: come devono essere disposte due fi gure di area uguale, in modo che in tota-le abbiano il perimetro minore possibile? Uno potrebbe pensare di fare due cerchi, ma per poco che ci rifl etta si accorge subito che è meglio spingere i due cerchi uno contro l’altro, così - e qui Pinotto dise gnò una fi gura - in modo che almeno una parte del perimetro sia in comune. La confi gurazione migliore è la stessa che veniva con le pizzette: due porzioni di cerchio con una parte piatta in comune.

- Sì, ma quanto si devono spingere?- Questa è una delle poche domande a cui si sa risponde-

re in generale: nei punti in cui si incontrano tre linee, queste devono for mare tre angoli uguali, cioè di 120° ognuno. Una

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seconda cosa che si sa, è che la confi gurazione ottimale è delimitata da archi di cer chio o da rette.

- E se le aree sono diverse?- Anche se le aree sono diverse, vengono sempre due cer-

chi schiacciati l’uno contro l’altro, ma stavolta la linea di separazione non è più una retta, ma una terza circonferen-za, così. Nei punti dove le tre circonferenze si incontrano, fanno sempre tre angoli uguali, di 120° ognuno.

Quando poi il numero delle regioni cresce, il problema diventa talmente complicato che non è possibile dare una soluzione gene rale, nemmeno se le aree sono tutte uguali. In questo caso, come avviene per due sole regioni, le linee che separano due regioni con tigue sono rette, che si incontrano sempre a 120°. Le regioni ester ne saranno formate in parte da rette e in parte da archi di circon ferenza, mentre quelle tutte interne sono dei poligoni. Per il resto non si sa nulla di sicuro, ma si pensa che quando il numero delle regioni di-venta molto grande, quelle interne, che come si diceva sono dei poligoni con gli angoli di 120°, tendano a diventare degli esagoni regolari, grosso modo così. Non ti suggerisce nulla?

Il disegno non fu diffi cile da fare, e ricordava la piastrel-latura esagonale degli spaghetti. Eccolo.

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- Le focacce! - urlò Gianni.- Infatti. O anche un nido di api. E qui mostrò la fotogra-

fi a qui sotto, estraendola come sempre da una tasca. Così si scopre che le api o le vespe sanno più matematica dei matematici, o quanto meno che utilizzano istintivamente le confi gurazioni migliori, e quindi dovendo costruire un nido di cellette tutte uguali cercano di farlo nel modo più economico possibile. In altri tempi si sarebbe detto che la natura non fa nulla invano, e che quindi non fa con più di quello che si può fare con meno; oggi si preferisce dire che l’evo luzione premia i comportamenti più economici.

- E di questo dici che non c’è una dimostrazione?- No, siamo ancora al livello di congetture, fondate quan-

to vuoi, ma solo congetture.- Però, e io che credevo che ormai in matematica tutto il

dimo strabile fosse stato dimostrato.- Al contrario, ci sono dei settori nei quali i problemi

aperti sono moltissimi, e quello delle superfi ci minime è uno di questi. Quando poi da due dimensioni si passa a tre o più, non si sa nemmeno cosa congetturare.

- Ma va’!- Proprio così. Prendiamo il problema analogo in tre

dimensio ni; si sa dire qualcosa quando le regioni sono due o tre, ma poi, per quanto mi risulta, non si riesce nemmeno a immaginare quale possa essere la soluzione. Questi pro-blemi sono diabolici: a prima vista sembrano semplici, ma poi quando si studiano più a fondo non si sa nemmeno da

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dove cominciare.- E poi si dice che in matematica ormai è tutto risolto!- Chi lo dice?

Enrico GiustiNato a Firenze nel 1940 e laureatosi in Fisica a Roma nel 1963,

Enrico Giusti è professore ordinario di analisi matematica presso l'Università di Firenze, dove, dal 1980 fi no a qualche anno fa, ha insegnato tale disciplina, e adesso tiene un corso di storia delle ma-tematiche. Dopo la laurea, ha svolto attività didattica e di ricerca all'Università della California, alla Stanford University e all'Au-stralian National University di Canberra. I suoi interessi professio-nali hanno riguardato principalmente le equazioni alle derivate par-ziali, le superfi ci minime, la geometria differenziale e la storia della matematica, con qualche incursione nella fi losofi a della matematica.

Attualmente si occupa soprattutto di promuovere e gestire "Il Giardino di Archimede", il primo museo completamente dedicato alla matematica e alle sue applicazioni. Vincitore, nel 1978, del pre-mio Caccioppoli, ha pubblicato numerosi lavori scientifi ci collabo-rando con alcuni dei maggiori matematici italiani. Inoltre, è autore di vari testi didattici e divulgativi, come appunto La matematica in cucina, uscito presso Bollati Boringhieri nel 2004.

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UN CARTONE ANIMATOE DUE FILM

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Paperino nel mondo della MatemagicaRegia: Milt Banta, Bill Berg, Heinz Haber1959

Paperino è di nuovo nei guai: ha accettato senza rifl ettere i termini di un prestito di pochi centesimi da parte dello zio Paperon De Pape-roni esperto conoscitore dei calcoli fi nanziari e ora è in debito di molti dollari Tutta colpa della matematica! Paperino nella ricerca disperata di una soluzione si addormenta sul libro di matematica dei tre nipotini ed entra, munito perfi no di un cappello da esploratore, nel mondo della Matemagica. Guidato dallo Spirito dell’ Avventura esplora le corre-lazioni fra matematica e arte, natura, architettura, gioco…

La scansione temporale data al cartone animato è signi-fi cativa sia per mantenere alto il livello di concentrazione dello spettatore, sia per rendere più o meno “pesanti”gli argomenti trattati. L’intero cartone ha la durata complessi-va di 28 minuti circa.

Nel video possono individuarsi, a mio parere, 8 scene:

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1. Sigla di inizio: della durata di 1 minuto.2. L’ingresso di Paperino nel mondo della matemagica,

smarrito, stupito di ciò che vede: 1 minuto e 15 se-condi.

3. Il momento in cui lo “spirito d’avventura” si presenta a Paperino come il suo accompagnatore nel viaggio nel nuovo mondo: 40 secondi.

4. Introduzione al mondo greco, Pitagora e lo sviluppo della musica: 4 minuti e 25 secondi.

5. La sezione aurea: la stella a cinque punte, la sezione aurea in geometria, in musica…: 5 minuti e 35 secondi.

6. Considerazioni conclusive compiute dallo “spirito d’avventura” sull’importanza del mondo greco: del-la durata di 1 minuto.

7. Analisi di giochi riferiti ai concetti trattati (scacchi, carambola, football): 8 minuti e 24 secondi.

8. L’infi nito e la mente umana; conclusioni e considera-zioni fi nali del cartone: 5 minuti e 12 secondi.

Nel fi lmato si possono notare diversi collegamenti tra-sversali tra la musica antica e quella moderna, il ritmo, la storia, la natura, l’uomo e le sue creazioni, le sue le scoperte [...]. Paperino rappresenta, secondo tale visione, il bambino o l’adulto incredulo di scoprire come tutto sia spiegabile attraverso la logica matematica e, come sembra dire lo spi-rito guida, “Spesso non ce ne rendiamo conto, ma molte cose che compiamo o che vediamo attorno a noi sono rapportabili ai numeri e alla matematica”.

Dopo aver dato, seppur brevemente, un semplice riferi-mento al gioco del tris ed aver presentato delle fi gure geo-metriche (il rettangolo, il cerchio ed il triangolo) che annun-ciavano il , il narratore si presenta a Paperino, smarrito in questo nuovo mondo, come lo “Spirito d’avventura” ed intraprende con lui il viaggio della scoperta.

La musica in questo percorso fa da padrona; attraverso lo studio delle leggi numeriche che regolano l’armonia mu-

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sicale si passa infatti dalla musica classica riferita al periodo di splendore della civiltà greca a quella moderna contras-segnata da differenti generi musicali. Il narratore presenta allora la scuola pitagorica e discute assieme a Paperino i rapporti gerarchici esistenti nella società ellenica fra gli in-dividui e come questi rispecchiassero, in prima battuta, la ricerca di un’armonia interna che nella natura si manifesta attraverso il ricorso alla cosiddetta proporzione divina, la quale si ritrova nei principi compositivi di ogni tipo di arte.

Una delle questioni più appassionanti della geometria pitagorica riguarda la costruzione del pentagramma o pen-tagono stellato che nasce dalla costruzione di un pentagono regolare con le sue cinque diagonali; queste ultime si inter-secano formando un altro pentagono regolare. In ciascun caso, un punto di intersezione delle diagonali divide una diagonale in due segmenti disuguali tale che il rapporto dell’intera diagonale con il segmento maggiore è uguale al rapporto di questo segmento con il segmento minore. Que-sta suddivisione della diagonale è la famosa “sezione aurea”.

[...]Dopo aver affrontato un lungo viaggio attraverso le

meraviglie della matematica, Paperino sembra esausto; lo “spirito d’avventura” gli propone allora una rilettura in chiave matematica dei due scritti di Lewis Carroll: la favola di Alice nel paese delle meraviglie e Dietro lo specchio. Paperino incontra la protagonista della fi aba e con lei rifl ette sul gio-co degli scacchi e sulle possibili strategie vincenti.

Si affrontano poi altre situazioni di gioco, come il base-ball, il biliardo o la carambola a tre sponde, fi no ad arrivare ai giochi della mente, cioè tutti quegli infi niti giochi che si possono costruire con l’immaginazione [...].

Quest’ultimo gioco richiama alla mente un libro scritto da Edwin A. Abbott Flatlandia, racconto fantastico a più di-mensioni, dove il mondo viene visto su una superfi cie piana in cui convivono i fl atandesi.

Attraverso le immagini mentali siamo liberi di immagi-

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narci lo spazio, la rotazione di un cono o di un’altra fi gu-ra geometrica, fi no ad arrivare al concetto di infi nito che è sempre presente nella nostra mente; anzi: che nasce proprio nella nostra mente.

Qui ci addentriamo in un campo minato e che meri-ta una rifl essione più approfondita. Queste infatti “son di quelle diffi coltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto fi nito intorno agli infi niti, dandogli quelli attri-buti che noi diamo alle cose fi nite e terminate; il che penso che sia inconveniente...”.1

VALERIA CANNATA, Analisi del cartone animato “Paperino nel mondo della matemagica”.

Il cartone come possibile strumento didattico?,in: http://www.uop-perg.unipa.it/master_sito/lavori_vari_corsi-

ste/Paperino_e_la%20matemagica.pdf

1 Galileo Galilei in Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638)

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Possono due spiantati ragazzini scrivere un fi lm destina-to a venire diretto da Gus Van Sant, interpretato da Robin Williams, e vincere l'Oscar, alla loro opera prima, per la mi-gliore sceneggiatura? Possono, se si chiamano Matt Damon e Ben Affl eck.

Will Hunting (Matt Damon) è un giovane sbandato, un ragazzo che ha accumulato una triste serie di esperienze traumatiche, orfano, passato da una famiglia adottiva all'al-tra, subendo vergognosi maltrattamenti da parte dei geni-tori affi datari. Vive da solo, si trascina tra lavoretti insulsi e malpagati in compagnia di una banda di teppistelli spacco-ni, con i quali, in particolare con Chuckie (Ben Affl eck), ha un ruvido rapporto virile e fraterno. A dispetto della vita miserabile che conduce, Will è forse il più grande genio

Will Hunting. Genio ribelleRegia: Gus Van Sant 1997

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matematico vivente. Legge montagne di libri sfogliandone distrattamente le pagine, e ne apprende in maniera imme-diata ed indelebile l'intero contenuto. Risolve intricatissimi teoremi e affronta dimostrazioni matematiche che mettono in crisi le più brillanti menti del mondo, con la facilità con la quale le persone comuni fanno le addizioni. Il ragazzo, fi nito per l'ennesima volta nei guai con la giustizia, viene notato da Jerry Lambeau (Stellan Skarsgård), professore del celeberrimo MIT di Boston, che decide di prenderlo sotto la sua ala protettrice, permettendogli di dedicarsi alla matematica, ma con l'obbligo di frequentare uno psicote-rapeuta. Will accetta, ma avendo letto praticamente tutti i testi di psicanalisi mai stampati, comincia a farsi beffe degli illustri psichiatri che Jerry via via gli presenta, mettendo-li tutti più o meno in ridicolo... Finchè il professore, preso dalla disperazione, decide di rivolgersi ad un vecchio ami-co, Sean (Robin Williams), uno psichiatra molto prometten-te in gioventù, ma che decise in seguito di abbandonare la carriera universitaria per dedicarsi ad assistere la moglie, malata terminale di cancro.

Dopo un accesissimo e travagliato scambio tra Sean ed il ragazzo, quest'ultimo decide di affrontare la terapia. Nel frattempo Will conosce Skylar (Minnie Driver), studentessa graziosa e di carattere, con la quale, per la prima volta nella sua vita, intraprende una relazione basata sulla confi denza e sulla complicità. In questa situazione però, Will si troverà a dover affrontare stimoli e pressioni contrastanti: il profes-sor Lambeau vuole fargli fare a tutti costi carriera, metten-do a frutto il suo genio e tentando di far ripercorrere a Will i suoi passi; d'altro canto, Sean è assai dubbioso sul fatto che la carriera di matematico sia quella che Will desidera realmente, e guarda più a una possibile realizzazione del ragazzo sul piano umano e affettivo, complice la relazione con Skylar. Tra Jerry e Sean c'è stima e amicizia, ma anche un rancore mai sopito, che costituirà un ulteriore ostacolo nel cammino del ragazzo verso l'emancipazione dai fanta-

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smi del suo oscuro passato...La storia è assolutamente coinvolgente. Robin Williams è

immenso, Oscar come miglior attore non protagonista (stra-meritato), tutto teso, con ogni piega dei lineamenti del volto, con ogni minima postura del corpo, ad evocare il tormento interiore di un uomo che ha perso l'amore e la stella del-la sua vita, ma nel contempo è orgogliosamente fi ero delle sue scelte. Figura nobilissima di perdente romantico, dà vita a un vero e proprio centro gravitazionale attorno al quale si snodano le vicende degli altri protagonisti. Tutti hanno qualcosa da rimproverare a Sean, tutti hanno qualcosa per cui essergli grati.

Ma non è fi nita qui. A discapito delle memorabili inter-pretazioni dei protagonisti, sono i fulminanti dialoghi la parte migliore del fi lm. Indimenticabile il secondo "incon-tro" sulla riva del lago, tra Will e Sean, dove quest'ultimo gli restituisce tutta l'arroganza e la ferocia che Will aveva dimostrato nella prima seduta, con una classe, una legge-rezza ed una umanità da rimanere a bocca aperta, rove-sciando come un guanto l'assunto del ragazzo, mettendo a nudo i meandri più nascosti della sua dolente anima.

Altro episodio notevole è il colloquio che Will tiene con un dirigente di un'agenzia affi liata alla CIA, intenzionata a reclutare il suo immenso genio matematico in un lavoro di decrittazione di codici nemici. Nel suo rifi uto Will condensa, in una manciata di minuti, una lucidissima e spietata analisi del cosiddetto "American Dream", a base di sfruttamento del terzo mondo, guerre pilotate, divario crescente tra ricchi e poveri e democrazia interna puramente di facciata.

In conclusione, un fi lm splendido, toccante, che fi la come un orologio dall'inizio alla fi ne, che non indulge nell'happy end lasciando un fi nale aperto ma comunque carico di spe-ranza. Come avrete ben capito, non solo mi piace: ne sono innamorato.

“JAKECHAMBERS”, in: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_21884/Gus_Van_Sant_Good_Will_Hunting.htm

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A Beautiful MindRegia: Ron Howard 2001

A Beatiful Mind, ventunesimo fi lm di Ron Howard, è un viaggio affascinante e intrigante nei meandri della mente umana che ha riscosso sostanzialmente unanime consenso dalla critica con qualche mugugno per alcuni dettagli imba-razzanti volutamente omessi nella trascrizione fi lmica.

Si tratta comunque di un ottimo lavoro, sobrio, compatto e ben strutturato. Otto nominations e 4 statuette agli Oscar: miglior fi lm, miglior regia, miglior attrice non protagonista (Jennifer Connelly), miglior sceneggiatura non originale. Ron Howard con questo fi lm è entrato defi nitivamente nell’olim-po dei grandi registi contemporanei. Il suo curriculum di attore, regista, produttore e sceneggiatore è davvero impres-sionante: in tutto 98 fi lm, di cui 21 come regista (Il Grinch, Ransom-il riscatto, Apollo 13, Cuori ribelli, Cocoon, Edtv).

Solitamente incline al sentimentalismo, in questa occa-

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sione Howard abbandona una certa regia di maniera pun-tando su qualcosa di personale: il risultato è un fi lm teso e avvincente, mai banale e scontato, neanche nei momenti sentimentali.

Il fi lm si ispira ad una vicenda realmente avvenuta e la “bella mente” cui il titolo fa riferimento è quella di John Forbes Nash, genio della matematica e premio Nobel nel 1994 per i suoi studi sulla teoria dei giochi. Alcuni caratte-ri della storia sono stati ridotti a fi ction, adattati al grande schermo: ecco spiegate quelle strane omissioni che hanno fatto inferocire una parte della critica [...].

Lo sfondo storico della vicenda narrata è l’Università di Princeton del secondo dopoguerra, autentica fucina di geni sin dai tempi della frequentazione di Albert Einstein. Il bru-tale eccesso di competizione e la smania di trovare un’idea originale sono alla base dei successivi problemi di Nash. Ci sono in questo milieu storico anche le paure dell’America di quegli anni, a cominciare dalla guerra fredda e dal pesante clima di intimidazione imposto dai movimenti di avversio-ne al comunismo.

L’interpretazione di Russell Crowe è indubbiamente su-perba, e conferma le sue straordinarie doti di attore inten-so e versatile, un grande trasformista, capace di calarsi nei personaggi in maniera impressionante. E’ uno di quei rari professionisti in grado di cambiare età, accento e forma fi si-ca per la parte: un vero camaleonte: basta citare alcune sue memorabili interpretazioni, su tutte L.A. Confi dential, The Insider, Il Gladiatore.

Sin dalle prime sequenze la fi gura atipica e geniale del grande matematico domina la scena: i tic, le smorfi e e le mo-venze caracollanti fanno intuire un percorso imprevedibile.

Oscar a Jennifer Connelly, intensa e bellissima: porta sul-lo schermo la moglie di Nash, Alicia, una donna straordina-ria e vigorosa, tutta forza e costanza, un amore esemplare e sublime, un coraggio eroico; il lieto fi ne è tutto per lei.

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L’uso particolare della macchina da presa, le inquadra-ture avvolgenti e nondelimitate tipiche dello stile di Ron Howard sono straordinariamente effi caci nel portare lo spettatore dentro alla mente di John Nash: le soggettive del protagonista sono cariche di angoscia e inquietudine, si av-verte perfettamente lo smarrimento del personaggio, la sua progressiva perdita di realtà. Piccoli indizi, disseminati ad arte dal regista, tracciano il percorso della verità che il pro-tagonista riuscirà a ricomporre in maniera mirabile.

Da notare poi i continui movimenti circolari di Howard che cercano di fi lmare per intero il raggio visivo dello sguardo di Nash che nella sua ossessione di essere spiato sembra possedere uno sguardo totale a 360°, uno sguardo inumano, anormale straordinario.

Il fi lm si avvale anche di un ottimo lavoro sul versante della fotografi a, curata da Roger Deakins, abile nel descri-vere le dimensione reale mescolata alla dimensione oniri-ca; e “l’inganno” è veramente ben congegnato: qual è l’im-magine giusta? Quella che vediamo noi? Quella che vede Nash?

Attraverso lo sguardo del protagonista Howard spinge al limite le potenzialità della soggettiva, capace di selezionare soltanto ciò che lo sguardo vuole vedere: gli effetti rifran-genti sui cristalli, l’evidenziazione luminosa delle lettere sui giornali che si incrociano e si scontrano sullo schermo, le combinazioni del cielo stellato, le traiettorie dei piccioni, i movimenti dei compagni nei loro tentativi di seduzione: uno sguardo selettivo perfettamente messo in scena!

A cura di ANDREA MANZARDO,in: http://www.cineverdi.it/recensioni-2002-2003/05-A_Beautiful_Mind.pdf

RECENSIONIStudi, imprese, malattia e trionfo del matematico USA John Forbes

Nash (1928), premio Nobel 1994 per l′economia, esposti in quattro periodi (1947, anni ′50, 1978, 1994). Tratto dall′omonima biografi a di Sylvia Na-

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Piccole conferenze per grandi incontri

sar (trad. italiana: Il genio dei numeri), sceneggiata da Akiva Goldsman. Preso come bio-pic fa ridere tanto è romanzato, stereotipato, convenzionale nel rispetto dei codici narrativi di Hollywood il ritratto di un uomo eccen-trico, anticonformista, irrequieto il cui grande talento di pensatore mate-matico fu affl itto per molti anni da una grave forma di schizofrenia. Preso come fi ction, i conti tornano meglio almeno nella 1ª ora: è un fi lm ruffi ano da premi Oscar, ora divertente, ora angoscioso, ora molto commovente nel ricorso ai buoni sentimenti (la scena delle penne, l′amor coniugale) che ha una delle sue carte vincenti nella recitazione da Actors′ Studio dell′ottimo R. Crowe. L′altra è la sorpresa di taglio paranoide che aspetta lo spettatore nella 2ª metà, facendolo passare dal realismo oggettivo all′incubo soggetti-vo. 4 Globi d′oro. 4 Oscar (fi lm, regia, attrice non protagonista, sceneggia-tura non originale)

Tratto da Il Morandini. Dizionario dei fi lm 2004, di LAURA, LUISA E MORANDO MORANDINI - Zanichelli, Bologna 2003.

Brillante laureato in matematica, John Nash (Crowe) entra a Princeton nel 1947 e riesce a stabilire un modello matematico per i rapporti strate-gici tra attori sociali, che gli apre le porte dell′insegnamento al prestigioso Wheeler Institute. Sposa la sua studentessa Alicia (Connelly), collabora col Pentagono per decifrare i codici segreti, ma la schizofrenia mina la sua mente e gli rovina la vita: almeno fi no al 1994, quando riceverà il premio Nobel per l′economia grazie agli studi iniziati a Princeton.

Una solida e avvincente biografi a, che punta sulle doti mimetiche del protagonista, credibile in un ruolo che va dai 19 ai 66 anni. E capace, gra-zie al personaggio dell′amico Charles (Bettany), di rendere palpabile la sua sindrome schizofrenica. Avvincente sceneggiatura di Akira Goldsman, ba-sata sulla biografi a Il genio dei numeri di Sylvia Nasar. Quattro Oscar: miglior fi lm, regia, attrice non protagonista (Connelly) e sceneggiatura non originale, ma non quello - dato da molti per scontato - a Russel Crowe.

Tratto da Il Mereghetti dizionario dei fi lm 2004, di Paolo Mereghetti - Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano 2003”.

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SOMMARIO

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5 Piccole conferenze per grandi incontri 7 Presentazione di Daniela Giovanna Villotta, Dirigente scolastco 9 Saluto dell’assessore Simonella 11 Saluto del direttore del Centro Commerciale “Adriatico” 13 Furio Honsell 15 Avvio a cura di Daniele Dazzan

17 Il mondo dei numeri, i numeri del mondo43 Domande

Materiali Parole sui numeri59 La notte dei numeri di Italo Calvino

67 Il prato infi nito di Italo Calvino

71 L’isola dei matematici di Jonathan Swift

79 Nummeri di Trilussa

83 L’aritmetica da L’enfant et les sortilèges, di Colette/Ravel

Sommario

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Sommario

I numeri della matematica91 Dalla natura al numero di John D. Barrow

97 Intervista a un matematico di Piergiorgio Odifreddi103 Che cos’è la matematica di Piergiorgio Odifreddi

111 Pensare la matematica di Keith Devlin

125 Pagine da “L’istinto matematico”. di Keith Devlin La mente dei neonati 125 Che cos’è la matematica 130 Gli architetti della natura. Gli animali che sanno costruire con la matematica 134

139 La matematica della Fortuna e i suoi limiti di Hans Magnus Enzensberger

147 La statistica di Trilussa

149 Curiosità matematiche di Albrecht Beutelspacher

Che cos’è il Grand Hotel di Hilbert? 149 Le conoscenze matematiche si scoprono o si inventano? 150 Gli extraterrestri possono capire la nostra matematica? 152

155 Focaccia per pane di Enrico Giusti

Un cartone animato e due fi lm185 Paperino nel mondo della Matemagica189 Will Hunting. Genio ribelle193 A Beautiful Mind

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