PERCORSO Magia e horror in Grecia e a Roma

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1 © 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino PERCORSO 3 Magia e horror in Grecia e a Roma La magia in Grecia Il termine μαγεία, da cui deriva l’italiano «magia», è di origine persiana: i Magi (Μάγοι) erano dei sacerdoti della religione zoroastriana, membri di una casta ere- ditaria. La prima menzione si ha in Erodoto (Storie 1, 101), il quale dice che i Magi presiedevano a tutti i sacrifici, si occupavano dei riti funebri ed erano esperti di pratiche taumaturgiche e divinatorie. Nell’ottica greca, il «mago» persiano non fu però recepito come un sacerdote ma come una figura ambigua, a metà tra l’indovino e il ciarlatano. Tuttavia, già in epoca arcaica esistevano anche in Grecia persone dedite alla magia, talvolta dette γόητες, «lamentatori», con riferimento alle formule ma- giche (ἐπῳδαί) che recitavano per placare i fantasmi, scacciare il malocchio e praticare vari incantesimi. In seguito, in età ellenistica la magia trovò amplissima diffusione presso le classi popolari, come testimonia l’elevato numero di defixiones a noi perve- nute: si tratta di sottili tavolette di bronzo che contengono formule magiche rivolte contro determinate persone; il nome si rifà al verbo latino defigere, «infilzare», «trafiggere», poiché, per rendere più efficace la formula, si pla- smavano dei modellini di cera che raffiguravano la persona da maledire e li si infilzavano con aghi metallici (qualcosa di molto simile a quanto avviene nei riti voodoo). La grande crisi umana e spirituale che caratterizzò l’età imperiale por- tò al diffondersi – soprattutto nelle province orientali dell’impero – di santoni, profeti, guaritori o presunti tali, che ottennero straordina- rio successo presso le masse popolari, ma, talvolta, erano tenuti in gran conto anche dalle élites aristo- cratiche (è il caso di Apollonio di Tiana, vissuto nel I secolo d.C., di cui ci rimane una suggestiva biografia scritta dal retore Flavio Filostrato). Queste figure si facevano portavoci delle istanze religiose dell’epoca, ma spesso sfruttavano la credulità popolare con la promessa di finti miracoli, dietro pagamento di lauti compensi. È il caso di Alessandro, che si spacciava per emissario del dio Asclepio e aveva fondato un proprio oracolo ad Abunoteico, in Paflagonia, frequentato da numerosissimi fedeli. Il sofista Luciano, fiera- mente avverso ad Alessandro, che, sentitosi smascherato dallo scrittore, avrebbe addirittura attenta- to alla sua vita, ce ne ha consegnato una sarcastica biografia (Alessandro o Il falso profeta), in cui smonta tutti i trucchi che il sedicente vate adoperava per ingannare i propri adepti. In particolare, in questo brano Luciano spiega come Alessandro simulò la nascita del serpente, simbolo di Asclepio, da un uovo di oca. Statuetta di sacerdote babilonese che conduce una capra al sacrificio.

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PERCORSO 3Magia e horror in Grecia e a Roma

La magia in GreciaIl termine μαγεία, da cui deriva l’italiano «magia», è di origine persiana: i Magi (Μάγοι) erano dei sacerdoti della religione zoroastriana, membri di una casta ere­ditaria. La prima menzione si ha in Erodoto (Storie 1, 101), il quale dice che i Magi presiedevano a tutti i sacrifici, si occupavano dei riti funebri ed erano esperti di pratiche taumaturgiche e divinatorie. Nell’ottica greca, il «mago» persiano non fu però recepito come un sacerdote ma come una figura ambigua, a metà tra l’indovino e il ciarlatano. Tuttavia, già in epoca arcaica esistevano anche in Grecia persone dedite alla magia, talvolta dette γόητες, «lamentatori», con riferimento alle formule ma­giche (ἐπῳδαί) che recitavano per placare i fantasmi, scacciare il malocchio e praticare vari incantesimi. In seguito, in età ellenistica la magia trovò amplissima diffusione presso le classi popolari, come testimonia l’elevato numero di defixiones a noi perve­nute: si tratta di sottili tavolette di bronzo che contengono formule magiche rivolte contro determinate persone; il nome si rifà al verbo latino defigere, «infilzare», «trafiggere», poiché, per rendere più efficace la formula, si pla­smavano dei modellini di cera che raffiguravano la persona da maledire e li si infilzavano con aghi metallici (qualcosa di molto simile a quanto avviene nei riti voodoo). La grande crisi umana e spirituale che caratterizzò l’età imperiale por­tò al diffondersi – soprattutto nelle province orientali dell’impero – di santoni, profeti, guaritori o presunti tali, che ottennero straordina­rio successo presso le masse popolari, ma, talvolta, erano tenuti in gran conto anche dalle élites aristo­cratiche (è il caso di Apollonio di Tiana, vissuto nel I secolo d.C., di cui ci rimane una suggestiva biografia scritta dal retore Flavio Filostrato). Queste figure si facevano portavoci delle istanze religiose dell’epoca, ma spesso sfruttavano la credulità popolare con la promessa di finti miracoli, dietro pagamento di lauti compensi. È il caso di Alessandro, che si spacciava per emissario del dio Asclepio e aveva fondato un proprio oracolo ad Abunoteico, in Paflagonia, frequentato da numerosissimi fedeli. Il sofista Luciano, fiera­mente avverso ad Alessandro, che, sentitosi smascherato dallo scrittore, avrebbe addirittura attenta­to alla sua vita, ce ne ha consegnato una sarcastica biografia (Alessandro o Il falso profeta), in cui smonta tutti i trucchi che il sedicente vate adoperava per ingannare i propri adepti. In particolare, in questo brano Luciano spiega come Alessandro simulò la nascita del serpente, simbolo di Asclepio, da un uovo di oca.

Statuetta di sacerdote babilonese che conduce una capra al sacrificio.

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Ἤδη δὲ ἄρχεσθαι δέον, μηχανᾶται τοιόνδε τι· νύκτωρ γὰρ ἐλθὼν ἐπὶ τοὺς θεμελίους τοῦ νεὼ τοὺς ἄρτι ὀρυττομένους – συνειστήκει δὲ ἐν αὐτοῖς ὕδωρ ἢ αὐτόθεν ποθὲν συλλειβόμενον ἢ ἐξ οὐρανοῦ πεσόν – ἐνταῦθα κατατίθεται χήνειον ᾠὸν προκεκενωμένον, ἔνδον φυλάττον ἑρπετόν τι ἀρτιγέννητον, καὶ βυθίσας τοῦτο ἐν μυχῷ τοῦ πηλοῦ ὀπίσω αὖθις ἀπηλλάττετο. Ἕωθεν δὲ γυμνὸς εἰς τὴν ἀγορὰν προπηδήσας, διάζωμα περὶ τὸ αἰδοῖον ἔχων, κατάχρυσον καὶ τοῦτο, καὶ τὴν ἅρπην ἐκείνην φέρων, σείων ἅμα τὴν κόμην ἄνετον ὥσπερ οἱ τῇ μητρὶ ἀγείροντές τε καὶ ἐνθεαζόμενοι, ἐδημηγόρει ἐπὶ βωμόν τινα ὑψηλὸν ἀναβὰς καὶ τὴν πόλιν ἐμακάριζεν αὐτίκα μάλα δεξομένην ἐναργῆ τὸν θεόν. Οἱ παρόντες δέ – συνδεδραμήκει γὰρ σχεδὸν ἅπασα ἡ πόλις ἅμα γυναιξὶ καὶ γέρουσι καὶ παιδίοις – ἐτεθήπεσαν καὶ εὔχοντο καὶ προσεκύνουν. Ὁ δὲ φωνάς τινας ἀσήμους φθεγγόμενος, οἷαι γένοιντο ἂν Ἑβραίων ἢ Φοινίκων, ἐξέπληττε τοὺς ἀνθρώπους οὐκ εἰδότας ὅ τι καὶ λέγοι, πλὴν τοῦτο μόνον, ὅτι πᾶσιν ἐγκατεμίγνυ τὸν Ἀπόλλω καὶ τὸν Ἀσκληπιόν.

Poi di corsa andava al tempio in costruzione; e giunto allo scavo e alla fonte predisposta dell’oracolo, entrato in acqua cantava a gran voce inni per Asclepio e Apollo e invocava il dio a venire con sorte felice nella città. Poi chiese una coppa, e, dopo che qualcuno gliela porse, facilmente la immerge e tira su, in­sieme con l’acqua e il fango, quell’uovo in cui il dio era stato rinchiuso, e che era stato da lui incollato con

cera bianca e con biacca nelle giunture della spaccatura. E pre­solo disse di avere tra le mani già Asclepio. Quelli guardavano attentamente ciò che stava accadendo, già da prima molto stupefatti dell’uovo trovato nell’acqua. Ma dopoché, spezzato

il guscio, accolse nel cavo della mano il serpentello neonato, e i presenti videro che si muoveva e che si avvolgeva tra le dita,

subito emisero un grido e salutarono il dio e chiamavano bea­ta la città e ciascuno si riempiva la bocca di preghiere,

chiedendogli tesori, ricchezze e ogni altro bene.

(Luc. 42, 13­14; trad. a cura di G. Agnello)

Asclepio, bassorilievo, IV secolo a.C.

Se si guarda, invece, al mito greco, la magia è appannaggio esclusivo della donna: mentre l’uomo è indo­vino e profeta (si pensi a Calcante, Tiresia, Melampo), la donna è solo maga (con l’unica, rilevante, eccezione della Pizia). Questa attribuzione della magia alla donna – che spesso, peraltro, ne fa un uso perverso – è stata spiegata con la paura atavica dell’uomo di fronte all’ambiguo fascino femminile oppure come riflesso del fatto che, per molto tempo, furono le donne a tramandare e mettere in pratica le conoscenze relative alle erbe mediche, i φάρμακα, termine con cui si indicano, significativamente, tanto i medicamenti quanto le pozioni magiche e i veleni.

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Il primo esempio letterario di maga è quello di Circe, nel decimo libro dell’O-dissea. Odisseo e i suoi giungono su un’isola misteriosa, dove l’unico segno di vita è dato dal fumo proveniente da una casa nei boschi. Attirati dalla voce melodiosa di Circe, alcuni compagni entrano fiduciosi nella casa, dove la maga offre loro una bevanda che pro­voca oblìo, il ciceone, e poi, toccandoli con una bacchetta, li trasforma in porci. Con l’aiuto di Hermes, Odisseo riuscirà a sfuggire alla trasformazione e otterrà l’amore di Circe.

Giovanni Battista Trotti, Circe restituisce la forma umana ai compagni di Ulisse, 1610 circa, Parma, Palazzo ducale.

Si fermarono davanti alle porte della dea dai bei riccioli, sentivano Circe che dentro con voce bella cantava, intenta a un ordito grande, immortale, come le dee sanno farli, sottili e pieni di grazia e di luce.E cominciò fra essi a parlare Polite, capo dei forti, che mi era tra i compagni il più caro e fidato:«O cari, qui dentro, intenta a un grande ordito, canta in modo perfetto – ne risuona tutta la casa – una dea o una donna: su presto, gridiamo».Disse così, ed essi con grida chiamarono.Lei subito uscita aprì le porte lucentie li invitò: la seguirono tutti senza sospetto.Indietro restò Euriloco: pensò che fosse una trappola. Li guidò e fece sedere sulle sedie e sui troni: formaggio, farina d’orzo e pallido miele mischiòa essi col vino di Pramno; funesti farmacimischiò nel cibo, perché obliassero del tutto la patria. Dopoché glielo diede e lo bevvero, li toccò subitocon una bacchetta e li rinserrò nei porcili.Dei porci essi avevano il corpo: voci e setolee aspetto. Ma come in passato la mente era salda.Così essi furono chiusi, piangenti, e Circegli gettò da mangiare le ghiande di leccio, di querciae corniolo, che mangiano sempre i maiali stesi sulla terra.Euriloco in fretta tornò alla nave nera veloceper dire la nuova degli altri compagni e il loro amaro destino.[...]Ma quando stavo per giungere, traversando i sacri valloni, alla grande dimora di Circe esperta di filtri,ecco Ermete dall’aurea verga farmisi incontro,

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mentre andavo verso la casa, simile a un giovanedi primo pelo, la cui giovinezza è leggiadra.Mi strinse la mano, mi rivolse la parola, mi disse:«Dove vai ancora, infelice, solo per queste cime, ignaro della contrada? Sono chiusi i tuoi compagni, da Circe, come maiali che vivono in fitti recessi. Vieni qui a liberarli? Neanche tu tornerai,io penso, ma lì resterai come gli altri anche tu.Ma su, ti scioglierò e salverò dai pericoli.Ecco, va’ nelle case di Circe con questo benefico farmaco, che può allontanarti dal capo il giorno mortale. Tutte le astuzie funeste di Circe ti svelerò.Farà per te un beverone, getterà nel cibo dei farmaci, ma neppure così ti potrà stregare: lo impediràil benefico farmaco che ti darò, e ti svelerò ogni cosa. Quando Circe ti colpirà con una lunghissima verga, tu allora, tratta l’aguzza spada lungo la coscia,assali Circe, come fossi bramoso di ucciderla;lei impaurita ti inviterà a coricarti;tu non rifiutare, né allora né dopo, il letto della dea,perché i compagni ti liberi e aiuti anche te.Ma imponile di giurare il gran giuramento dei beati,che non ti ordirà nessun altro malanno:che appena nudo non ti faccia vile e impotente». Detto così l’Arghifonte mi porse il farmaco,dalla terra strappandolo, e me ne mostrò la natura. Nella radice era nero e il fiore era simile al latte.Gli dei lo chiamano moly e per uomini mortali è duro strapparlo: gli dei però possono tutto.Poi Ermete andò via, sull’alto Olimpo,per l’isola boscosa. Ed io mi diressi alla casadi Circe: andavo e il mio cuore era molto agitato.Mi fermai davanti alle porte della dea dai bei riccioli; fermatomi lì, gridai: la dea sentì la mia vocee subito uscita aprì le porte lucenti.Mi invitò: la seguii col cuore angosciato.Mi guidò e fece sedere su un trono con borchie d’argento, bello, lavorato: c’era sotto uno sgabello pei piedi.In un vaso d’oro mi preparò un beverone, perché lo bevessi: un farmaco ci mise dentro, meditando sventure nell’animo. Poi me lo diede e lo bevvi, ma non mi stregò;mi colpì con la verga, mi rivolse la parola, mi disse:«Va’ ora al porcile, stenditi con gli altri compagni». Disse così; io, tratta l’aguzza lama lungo la coscia, assalii Circe, come fossi bramoso d’ucciderla.Lei con un urlo corse, m’afferrò le ginocchia

John William Waterhouse, Circe offre una coppa a Ulisse, 1891, Manchester, Gallery Oldham.

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e piangendo mi rivolse alate parole:«Chi sei, di che stirpe? Dove hai città e genitori?Mi stupisce che bevuti i miei farmaci non fosti stregato. Nessun altro sopportò questi farmaci,chi li bevve, appena varcarono il recinto dei denti:una mente che vince gli inganni hai nel petto.Certo Odisseo tu sei, il multiforme, che sempre l’Arghifonte dall’aurea verga mi diceva sarebbe arrivato, venendo da Troia con la nera nave veloce.Ma orsù, riponi la lama nel fodero, e tutti e duesaliamo sul letto, perché congiuntinel letto e in amore ci si possa l’un l’altro fidare». Disse così, ed io rispondendole dissi:«[...] Sul tuo letto io non voglio salire,se non acconsenti a giurarmi, o dea, il gran giuramento che non mediti un’altra azione cattiva a mio danno».Dissi così, e lei giurò subito come volevo.E dopo che ebbe giurato e finito quel giuramento, allora io salii sul bellissimo letto di Circe.

(Od. 10, 220­243; 275­345; trad. a cura di G.A. Privitera)

Come si vede, l’episodio di Circe assume quasi i contorni di una fiaba, poiché contiene molti elementi ca­ratteristici del folklore di tutto il mondo (la maga, la metamorfosi in animale, l’intervento dell’aiutante che dona l’oggetto magico ecc.). Per questa ragione, pur costituendo il prototipo della maga, Circe possiede delle caratteristiche (come la bellezza e il fascino seducente) che non si ritrovano nelle figure di maghe della let­teratura greca di epoca successiva. Tra esse spicca certamente Medea, che, non a caso, è imparentata con Circe stessa, essendo figlia di Eeta, sovrano della Colchide, fratello della maga omerica.La Medea più celebre è la protagonista dell’omonima tragedia euripidea, rappresentata per la prima volta ad Atene nel 431 a.C. Dopo essere stata tradita da Giasone, che le ha comunicato, con cinico opportunismo, di voler sposare Glauce, figlia del re di Corinto Creonte, Medea ordisce una tremenda vendetta, inviando un diadema e una tunica intrisi di veleno alla promessa sposa, che morirà, fra atroci tormenti, insieme al padre; infine, come estrema punizione per Giasone, decide di uccidere i suoi stessi figli. Nella tragedia, la magia non compare direttamente sulla scena, ma emerge nella lunga ῥῆσις del messaggero, che racconta a Medea l’orribile fine di Glauce.

Quando vide i gioielli lei non seppe resistere e tutto promise a suo marito. Prima ancora che padre e figli fossero lontani dalla casa, prende il peplo ricamato e lo indossa, mette sul capo la corona d’oro e davanti allo specchio luminoso si acconcia i capelli, sorridendo alla sua muta immagine. Poi si alza dal seggio e se ne va per la stanza posando i piedi candidi, leggera: felice per i doni, si alza più voltesulle punte dei piedi per guardarsi indietro.

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Tοὐνθένδε μέντοι δεινὸν ἦν θέαμ’ ἰδεῖν·χροιὰν γὰρ ἀλλάξασα λεχρία πάλινχωρεῖ τρέμουσα κῶλα καὶ μόλις φθάνειθρόνοισιν ἐμπεσοῦσα μὴ χαμαὶ πεσεῖν.Καί τις γεραιὰ προσπόλων, δόξασά πουἢ Πανὸς ὀργὰς ἤ τινος θεῶν μολεῖν,ἀνωλόλυξε, πρίν γ’ ὁρᾷ διὰ στόμα χωροῦντα λευκὸν ἀφρόν, ὀμμάτων τ’ ἄποκόρας στρέφουσαν, αἷμά τ’ οὐκ ἐνὸν χροΐ·εἶτ’ ἀντίμολπον ἧκεν ὀλολυγῆς μέγανκωκυτόν. Εὐθὺς δ’ ἡ μὲν ἐς πατρὸς δόμουςὥρμησεν, ἡ δὲ πρὸς τὸν ἀρτίως πόσιν,φράσουσα νύμφης συμφοράν· ἅπασα δὲστέγη πυκνοῖσιν ἐκτύπει δραμήμασιν.Ἤδη δ’ ἀνελθὼν κῶλον ἕκπλεθρον δρόμουταχὺς βαδιστὴς τερμόνων ἂν ἥπτετο·ἡ δ’ ἐξ ἀναύδου καὶ μύσαντος ὄμματοςδεινὸν στενάξασ’ ἡ τάλαιν’ ἠγείρετο.Διπλοῦν γὰρ αὐτῇ πῆμ’ ἐπεστρατεύετο·χρυσοῦς μὲν ἀμφὶ κρατὶ κείμενος πλόκοςθαυμαστὸν ἵει νᾶμα παμφάγου πυρός,πέπλοι δὲ λεπτοί, σῶν τέκνων δωρήματα,λευκὴν ἔδαπτον σάρκα τῆς δυσδαίμονος.Φεύγει δ’ ἀναστᾶσ’ ἐκ θρόνων πυρουμένη,σείουσα χαίτην κρᾶτά τ’ ἄλλοτ’ ἄλλοσε,ῥῖψαι θέλουσα στέφανον· ἀλλ’ ἀραρότωςσύνδεσμα χρυσὸς εἶχε, πῦρ δ’, ἐπεὶ κόμηνἔσεισε, μᾶλλον δὶς τόσως ἐλάμπετο. Πίτνει δ’ ἐς οὖδας συμφορᾷ νικωμένη,πλὴν τῷ τεκόντι κάρτα δυσμαθὴς ἰδεῖν·οὔτ’ ὀμμάτων γὰρ δῆλος ἦν κατάστασιςοὔτ’ εὐφυὲς πρόσωπον, αἷμα δ’ ἐξ ἄκρουἔσταζε κρατὸς συμπεφυρμένον πυρί,σάρκες δ’ ἀπ’ ὀστέων ὥστε πεύκινον δάκρυγνάθοις ἀδήλοις φαρμάκων ἀπέρρεον,δεινὸν θέαμα. Πᾶσι δ ἦν φόβος θιγεῖν νεκροῦ· τύχην γὰρ εἰχομεν διδάσκαλον. Πατὴρ δ ὁ τλήμων συμφορᾶς ἀγνωσίαιἄφνω παρελθὼν δῶμα προσπίτνει νεκρῷ.

Ed ecco il padre infelice e ancora ignaro che all’improvviso entra nella stanza e si getta sul corpo con un grido,lo stringe fra le braccia, lo bacia e così dice: «Figlia sventurata, quale degli dei ti ha fatto morire in modo così indegno? Chi ti ha tolto a questo vecchio così vicino alla morte? Con te, con te voglio morire, figlia!».

Medea si appresta a uccidere i figli avuti con Giasone, Pittura murale, da Pompei, I secolo d.C., Napoli,

Museo Archeologico Nazionale.

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Poi cessa di piangere e cerca di alzarsi, ma il suo vecchio corpo resta attaccato al peplo leggero, come l’edera ai rami dell’alloro. Fu una lotta atroce. Lui cercava di sollevare le ginocchia, lei lo teneva stretto a sé, e se tentava di staccarsi a forza strappava dalle ossa le sue carni di vecchio. Alla fine l’infelice non poté più resistere allo strazio e perdette ogni forza. Così spirò. Ora la figlia e il vecchio padre giacciono l’uno accanto all’altra, morti.

(Eur. Med. 1156­1230; trad. a cura di M.G. Ciani)

Il mito di Medea era stato già trattato da Euripide nelle perdute Peliadi, tragedia di cui sono pervenu­ti solo pochi frammenti, ma che si può ricostruire grazie al confonto con altre fonti greche e latine. La tragedia concerneva un episodio precedente al momento in cui è ambientata la Medea, ossia il ritorno di Giasone, insieme all’amata, nella patria Iolco, dopo l’impresa della conquista del vello d’oro, e le loro mac­chinazioni per eliminare Pelia, zio di Giasone e usurpatore del trono. Mentre Giasone arrivava in segreto a Iolco e nascondeva la nave Argo, Medea raggiungeva il palazzo di Pelia travestita da vecchia sacerdotessa di Artemide, guadagnandosi ben presto la fiducia del re e delle sue figlie (le Peliadi del titolo), alle quali prometteva che avrebbe ringiovanito il padre con le sue arti magiche. Per convincere Alcesti, l’unica delle sorelle a non credere ai suoi poteri, Medea metteva a bollire un vecchio ariete in un doglio di bronzo, da cui poi traeva fuori un agnello. Impressionate dal «miracolo», le Peliadi facevano a pezzi il padre e lo met­tevano a cuocere in un calderone, salvo poi fuggire una volta scoperto l’inganno, mentre Giasone andava a Corinto con Medea.Benché la figura di Medea sia stata consacrata dalla tragedia di Euripide, essa è attestata sin dalle ori­gini della letteratura greca, poiché Medea, come si è visto, è in rapporto con la saga degli Argonauti. La testimonianza letteraria più rilevante dell’età arcaica è costituita dalla Pitica 4 di Pindaro, in cui viene narrata l’impresa della conquista del vello d’oro da parte di Giasone e degli Argonauti. In Pindaro Medea possiede una μῆτις di origine divina, che si manifesta nella sua capacità profe­tica e nelle sue arti magiche, che si rivelano de­cisive per il successo della spedizione. Tuttavia, la μῆτις di Medea è sovrastata da un’altra più forte, quella di Afrodite, che la fa innamorare di Giasone e che insegna all’eroe stesso un incante­simo invincibile, consistente nel legare una ἰυγξ (uccello dal collo rotante, comunemente detto «torquilla» o «torcicollo») ai raggi di una ruota e lasciarla girare, cosicché la follia che si impos­sessa dell’uccello prenda anche l’animo della vittima. Da quel momento, Medea dimentica la famiglia, si innamora perdutamente di Giasone e stringe con lui un patto d’amore.

Medea intenta a trasformare un anziano ariete in un giovane agnello, decorazione a figure rosse su hydria, 480-470 a.C., Londra, British Museum.

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(Sott.: Gli Argonauti) poi giunsero al Fasi dove con forza s’appiccaronocoi Colchi dal nero voltoin presenza d’Eeta.Ma la Sovrana dai dardi acutissimi,Cipride, dall’Olimpoaggiogò la torquilla variopintaai quattro raggi di una ruota indissolubilee per la prima volta portò agli uominil’uccello del delirio e al saggio figlio d’Èsone insegnò le preghiere d’incantesimoperché rapisse a Medea il rispettopei suoi genitori, e l’amore dell’Elladela scuotesse, infiammata nell’animo,con la sferza di Pèito.Ed essa gli indicò subito i mezziper compiere le prove che suo padre esigeva:con olio mescolò erbe recise,rimedi ai dolori durissimi,glieli diede perché se ne ungesse.E convennero insieme d’unirsiin un mutuo soave connubio.

(Pind. P. 4, 376­397; trad. a cura di B. Gentili)

La stessa caratterizzazione di Medea ritorna nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, dove Medea è sì una maga, ma è innanzitutto una donna vittima dell’eros, a cui sacrificherà persino i suoi affetti familiari. Infatti, dopo aver messo a disposizione di Giasone le sue arti magiche per rubare il vello d’oro, tradendo così il padre Eeta, Medea escogita un piano crudele per liberarsi del fratello Apsirto, mandato dal padre all’inseguimento degli Argonauti: convince il fratello ad avere un colloquio con lei presso il tempio di Artemide, fingendo di voler tornare a casa, ma, mentre i due discutono, Giasone piomba addosso ad Apsirto e lo uccide con una spada. È interessante notare che, durante l’uccisione del fratello, Medea si copre gli occhi con il velo, come a volersi dissociare dal delitto commesso; tuttavia, con le ultime forze rimaste, Apsirto raccoglie il proprio san­gue e lo getta sul velo della sorella, così da macchiarla indelebilmente di rosso, segno concreto, per così dire «oggettivo», della sua tremenda colpa. Giasone, da parte sua, compie un vero e proprio rito espiatorio: prima taglia al cadavere mani e piedi, per evitare che possa tornare a perseguitarlo (si tratta della pratica rituale del μασχαλισμός); poi ne lecca il sangue e lo sputa per tre volte, come gesto simbolico di purificazione dal delitto commesso.

Apsirto, ingannato dalle più atroci promesse,s’affrettò ad attraversare il mare per nave, e nella notte, nel buio, sbarcò sull’isola sacra; andò solo di fronte alla sorella, e prese a saggiarla con le parole,come fa un dolce bambino con un torrenteche neppure gli uomini forti si arrischiano ad attraversare,chiedendole se aveva pensato all’inganno per gli stranieri.Si accordarono l’uno con l’altra su tutti i punti.

Giasone consegna a Pelia il vello d’oro, decorazione a figure rosse su cratere,

IV secolo a.C., Parigi, Musée du Louvre.

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Aὐτίκα δ’ Αἰσονίδης πυκινοῦ ἔκπαλτο λόχοιογυμνὸν ἀνασχόμενος παλάμῃ ξίφος. Aἶψα δὲ κούρηἔμπαλιν ὄμματ’ ἔνεικε, καλυψαμένη ὀθόνῃσιν,μὴ φόνον ἀθρήσειε κασιγνήτοιο τυπέντος·τὸν δ’ ὅγε, βουτύπος ὥστε μέγαν κερεαλκέα ταῦρον,πλῆξεν, ὀπιπτεύσας νηοῦ σχεδὸν ὅν ποτ’ ἔδειμανἈρτέμιδι Βρυγοὶ περιναιέται ἀντιπέρηθεν.Tοῦ ὅγ’ ἐνὶ προδόμῳ γνὺξ ἤριπε· λοίσθια δ’ ἥρωςθυμὸν ἀναπνείων, χερσὶν μέλαν ἀμφοτέρῃσιναἷμα κατ’ ὠτειλὴν ὑποΐσχετο, τῆς δὲ καλύπτρηνἀργυφέην καὶ πέπλον ἀλευομένης ἐρύθηνεν.Ὀξὺ δὲ πανδαμάτωρ λοξῷ ἰδεν οἷον ἔρεξανὄμματι νηλειεῖς ὀλοφώιον ἔργον Ἐρινύς.Ἥρως δ’ Αἰσονίδης ἐξάργματα τάμνε θανόντος, τρὶς δ’ ἀπέλειξε φόνου, τρὶς δ’ ἐξ ἄγος ἔπτυσ’ ὀδόντων,ἣ θέμις αὐθέντῃσι δολοκτασίας ἱλάεσθαι·ὑγρὸν δ’ ἐν γαίῃ κρύψεν νέκυν, ἔνθ’ ἔτι νῦν περκείαται ὀστέα κεῖνα μετ’ ἀνδράσιν Ἀψυρτεῦσιν.

(Ap. 4, 456­481; trad. a cura di G. Paduano)

Gli Argonauti proseguono dunque il loro viaggio di ritorno, ma verso la fine, volendo fare scalo nell’isola di Creta, si trovano a dover affrontare Talos, un gigante di bronzo che ha un unico punto vulnerabile, una vena di sangue sulla caviglia, che lo tiene in vita. Con fredda determinazione, Medea compie allora un rituale magico: dopo aver invocato per tre volte (numero magico per eccellenza) le Chere, dee della morte, lancia attraverso lo sguardo un maleficio sul gigante, che, in modo apparentemente casuale, si ferisce alla caviglia e muore all’istante.

Qui invocò e si propiziò con gli incantesimile Chere mortali, le cagne veloci dell’Ade,che si aggirano per tutto l’etere, dando la caccia ai viventi.Tre volte le supplicò, tre volte le evocò con gli incantesimi,tre volte con le preghiere, e, creandosi un cuore malvagio,ammaliò con gli occhi nemici gli occhi dell’uomo di bronzo;e digrignando gli mandò contro bile maleficae orribili immagini, nel suo tremendo furore.[...](Sott.: Talos) mentre alzava rocce pesanti per bloccare l’approdo, urtò la cavigliasu uno spunzone di pietra e colò l’icoresimile a piombo fuso. Non fu più capacedi reggersi in piedi sullo scoglio sporgente.Come un grandissimo pino in alto sui monti,che i taglialegna hanno lasciato recisoa metà delle scuri affilate, scendendo dalla foresta,

I dioscuri tornano dalla spedizione degli Argonauti, decorazione a figure nere su vaso,

540 a.C. circa, Roma, Musei Vaticani.

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e nella notte dapprima i venti lo scuotono,poi si stacca dal ceppo e precipita, così per pocoTalos restò barcollante sui piedi infaticabili,e poi crollò senza forze con un immenso frastuono.

(Ap. 4, 1665­1672; 1677­1688; trad. a cura di G. Paduano)

Ma gli esempi letterari della magia d’amore non si limitano alle donne del mito: nell’Idillio L’incantatrice, che ha la forma del mimo letterario, Teocrito offre un vivido ritratto di una giovane donna, Simeta, che, con l’aiuto dell’ancella Testili, si improvvisa maga per attirare di nuovo a sé l’amato infedele, Delfi. I rituali messi in atto sono spiegabili sulla base della magia «simpatica», ossia quella fondata sul principio che il simile pro­duce il simile: così Simeta lega fili di lana purpurea per legare a sé il cuore dell’amato, brucia farina e alloro perché il giovane possa ardere di passione per lei, fa girare una ruota a cui ha legato una ἰυγξ perché l’uomo possa aggirarsi attorno a casa sua: proprio quest’ultimo incantesimo, già visto nel passo di Pindaro, scandisce le varie fasi del rito sotto forma di formula magica («Torquilla, attira quell’uomo a casa mia»), che, con la sua cadenzata ripetitività, riproduce il ritmo dell’atto magico. È interessante notare che Simeta utilizza il lessico tecnico della magia, invocando la dea Ecate affinché i suoi filtri (φίλτρα) siano degni di Circe o di Medea, considerate, dunque, maghe per eccellenza.

Πᾷ μοι ταὶ δάφναι; Φέρε, Θεστυλί. Πᾷ δὲ τὰ φίλτρα;Στέψον τὰν κελέβαν φοινικέῳ οἰὸς ἀώτῳ,ὡς τὸν ἐμὸν βαρὺν εὖντα φίλον καταδήσομαι ἄνδρα,ὅς μοι δωδεκαταῖος ἀφ’ ὧ τάλας οὐδὲ ποθίκει,οὐδ’ ἔγνω πότερον τεθνάκαμες ἢ ζοοὶ εἰμές,οὐδὲ θύρας ἄραξεν ἀνάρσιος. Ἦ ῥά οἱ ἀλλᾷᾤχετ’ ἔχων ὅ τ’ Ἔρως ταχινὰς φρένας ἅ τ’ Ἀφροδίτα.Bασεῦμαι ποτὶ τὰν Τιμαγήτοιο παλαίστραναὔριον, ὥς νιν ἰδω, καὶ μέμψομαι οἷά με ποιεῖ.Nῦν δέ νιν ἐκ θυέων καταδήσομαι. Ἀλλά, Σελάνα,φαῖνε καλόν· τὶν γὰρ ποταείσομαι ἅσυχα, δαῖμον,τᾷ χθονίᾳ θ’ Ἑκάτᾳ, τὰν καὶ σκύλακες τρομέοντιἐρχομέναν νεκύων ἀνά τ’ ἠρία καὶ μέλαν αἷμα.Xαῖρ’, Ἑκάτα δασπλῆτι, καὶ ἐς τέλος ἄμμιν ὀπάδει,φάρμακα ταῦτ’ ἔρδοισα χερείονα μήτε τι Κίρκαςμήτε τι Μηδείας μήτε ξανθᾶς Περιμήδας.Ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.Ἄλφιτά τοι πρᾶτον πυρὶ τάκεται. Ἀλλ’ ἐπίπασσε,Θεστυλί. Δειλαία, πᾷ τὰς φρένας ἐκπεπότασαι;Ἦ ῥά γέ θην, μυσαρά, καὶ τὶν ἐπίχαρμα τέτυγμαι;Πάσσ’ ἅμα καὶ λέγε ταῦτα· «Τὰ Δέλφιδος ὀστία πάσσω».Ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.Δέλφις ἔμ’ ἀνίασεν· ἐγὼ δ’ ἐπὶ Δέλφιδι δάφναναἰθω· χὠς αὕτα λακεῖ μέγα καππυρίσασα κἠξαπίνας ἅφθη κοὐδὲ σποδὸν εἰδομες αὐτᾶς,οὕτω τοι καὶ Δέλφις ἐνὶ φλογὶ σάρκ’ ἀμαθύνοι.Ἶυγξ, ἕλκε τὺ τῆνον ἐμὸν ποτὶ δῶμα τὸν ἄνδρα.

(Theocr. 4, 1­25)

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Che la magia d’amore fosse realmente praticata dalle donne è dimostrato dall’orazione di Antifonte Contro la matrigna, in cui un ragazzo accusa la seconda moglie di suo padre di avere fatto avvelenare quest’ultimo: il padre, infatti, era amico di un certo Filoneo, il quale possedeva una concubina (παλλακή), che era diventata amica della matrigna dell’accusatore. Intuendo che Filoneo si era stancato di lei e voleva portarla in un postri­bolo, la ragazza, disperata, aveva chiesto aiuto all’amica, la quale, volendosi sbarazzare del marito e sapendo che avrebbe pranzato con Filoneo, le aveva consigliato di versare nel vino di entrambi un «filtro» d’amore (in realtà un potente veleno). Filoneo era morto all’istante, mentre l’amico dopo una lunga agonia, durante la quale aveva potuto informare il figlio delle trame della moglie. Il ragazzo, dunque, espone tutta la vicenda ai giudici, con la speranza di far condannare la vera mandante dell’atroce delitto.

Καὶ τὰ μὲν ἄλλα μακρότερος ἂν εἰη λόγος περὶ τοῦ δείπνου ἐμοί τε διηγήσασθαι ὑμῖν τ’ ἀκοῦσαι· ἀλλὰ πειράσομαι τὰ λοιπὰ ὡς ἐν βραχυτάτοις ὑμῖν διηγήσασθαι, ὡς γεγένηται ἡ δόσις τοῦ φαρμάκου. Ἐπειδὴ γὰρ ἐδεδειπνήκεσαν, οἷον εἰκός, ὁ μὲν θύων Διὶ Κτησίῳ κἀκεῖνον ὑποδεχόμενος, ὁ δ’ ἐκπλεῖν τε μέλλων καὶ παρ’ ἀνδρὶ ἑταίρῳ αὑτοῦ δειπνῶν, σπονδάς τε ἐποιοῦντο καὶ λιβανωτὸν ὑπὲρ αὑτῶν ἐπετίθεσαν. Ἡ δὲ παλλακὴ τοῦ Φιλόνεω τὴν σπονδὴν ἅμα ἐγχέουσα ἐκείνοις εὐχομένοις ἃ οὐκ ἔμελλε τελεῖσθαι, ὦ ἄνδρες, ἐνέχει τὸ φάρμακον. Καὶ ἅμα οἰομένη δεξιὸν ποιεῖν πλέον δίδωσι τῷ Φιλόνεῳ, ἰσως ὡς, εἰ δοίη πλέον, μᾶλλον φιλησομένη ὑπὸ τοῦ Φιλόνεω· οὔπω γὰρ ᾔδει ὑπὸ τῆς μητρυιᾶς τῆς ἐμῆς ἐξαπατωμένη, πρὶν ἐν τῷ κακῷ ἤδη ἦν· τῷ δὲ πατρὶ τῷ ἡμετέρῳ ἔλασσον ἐνέχει. Καὶ ἐκεῖνοι ἐπειδὴ ἀπέσπεισαν, τὸν ἑαυτῶν φονέα μεταχειριζόμενοι ἐκπίνουσιν ὑστάτην πόσιν.

(Antipho 1, 18­20)

La magia a RomaAnche il mondo romano fu attraversato, in ogni epoca, da tendenze irrazionali, che da un lato condussero alla pervasiva diffusione delle religioni misteriche (si pensi ai Baccanali in età repubblicana o alle religioni orientali in età imperiale), dall’altro si espressero nell’interesse per le arti magiche e nelle credenze in esseri soprannaturali e mostruosi. La crisi spirituale che, nei primi secoli dell’impero, investì la società a tutti i livelli, fece sì che l’horror, ossia l’attrazione per gli aspetti orrorosi e macabri della realtà, diffusa nella cultura popolare, entrasse anche nella letteratura colta. Particolarmente interessante, a tal proposito, è un’epistola di Plinio il Giovane rivolta all’amico Sura, nel­la quale vengono narrati tre episodi che rafforzano nello stesso Plinio la credenza nell’esistenza dei fantasmi. Il primo episodio accadde all’ancora giovane Curzio Rufo, il quale, men­tre passeggiava sotto un portico, in­contrò una donna di imparagonabile bellezza che gli preannunciò future grandezze politiche una volta torna­to a Roma (cosa che puntualmente avvenne). La stessa donna, inoltre, gli apparve nuovamente in spiaggia, quando egli approdò a Cartagine ed

Raffigurazione di un baccanale, pannello in pasta vitrea, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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era sofferente per un morbo. Segue il racconto di un curioso episodio accaduto al filosofo Atenodoro (I secolo a.C.), che, giunto ad Atene, decise di trasferirsi con i parenti in una casa che si diceva fosse infestata dai fan­tasmi; in effetti, una sera il filosofo vide un uomo che gli faceva segno di seguirlo, per poi svanire in un certo punto del terreno. L’indomani, facendo fare un sopralluogo alle autorità competenti in quel preciso punto, si scoprì che vi erano delle ossa insepolte. Presa pertanto la decisione di dare degna sepoltura a quell’individuo, egli non si manifestò più. Infine, Plinio racconta un episodio accaduto a un suo liberto, che di notte ebbe l’im­pressione di vedere, seduta sul suo letto, una figura che gli tagliava i capelli e l’indomani si trovò con i capelli tagliati; lo stesso accadde, poco tempo dopo, a un altro degli schiavi, che al mattino trovò i suoi capelli sparsi sul pavimento.

Caio Plinio invia i suoi saluti al caro Sura.Il tempo disponibile che abbiamo offre a me il destro di imparare e a te quello d’insegnare. Dunque: io avrei un vivissimo desiderio di sapere se tu pensi che i fantasmi esistano davvero e abbiano un loro proprio aspetto e una qualche capacità di azione, ovvero che, pure vanità inconsistenti, ricevano una figura soltanto dalla nostra paura.Io mi sento spinto a credere alla loro esistenza in primo luogo dall’episodio che sento dire essere capi­tato a Curzio Rufo. Mentre era ancora un personaggio insignificante e sconosciuto, si era aggregato al seguito del governatore dell’Africa. Verso il cadere del giorno passeggiava sotto un portico: ed ecco che gli si presenta una figura di donna che per maestà e bellezza superava le possibilità umane. Vedendolo tutto spaventato, gli disse di essere l’Africa e che veniva a preannunziargli il futuro: egli infatti sarebbe rientrato a Roma, vi avrebbe esercitato alte magistrature, sarebbe anche ritornato nella stessa provin­cia con la suprema potestà e là sarebbe morto. Tutto si avverò. Si racconta inoltre che mentre egli si accostava a Cartagine e usciva dalla nave, la medesima figura gli si fece incontro sulla spiaggia. Questo per lo meno è sicuro, che fu colpito da una malattia; e allora, traendo auspicio dal passato per il futuro e dalle fortune per le sventure, rinunziò subito a qualsiasi speranza di salvarsi, mentre ancora nessuno dei suoi l’aveva perduta.

Iam illud nonne et magis terribile et non minus mirum est quod exponam ut accepi? Erat Athe-nis spatiosa et capax domus sed infamis et pestilens. Per silentium noctis sonus ferri, et si atten-deres acrius, strepitus vinculorum longius primo, deinde e proximo reddebatur: mox apparebat idolon, senex macie et squalore confectus, promissa barba horrenti capillo; cruribus compedes, manibus catenas gerebat quatiebatque. Inde inhabitantibus tristes diraeque noctes per metum vigilabantur; vigiliam morbus et crescente formidine mors sequebatur. Nam interdiu quoque, quamquam abscesserat imago, memoria imaginis oculis inerrabat, longiorque causis timoris timor erat. Deserta inde et damnata solitudine domus totaque illi monstro relicta; proscribebatur tamen, seu quis emere seu quis conducere ignarus tanti mali vellet. Venit Athenas philosophus Athenodorus, legit titulum auditoque pretio, quia suspecta vilitas, percunctatus omnia docetur ac nihilo minus, immo tanto magis conducit. Ubi coepit advesperascere, iubet sterni sibi in prima domus parte, poscit pugillares stilum lumen, suos omnes in interiora dimittit; ipse ad scribendum animum oculos manum intendit, ne vacua mens audita simulacra et inanes sibi metus fingeret. Initio, quale ubique, silentium noctis; dein concuti ferrum, vincula moveri. Ille non tollere oculos, non remittere stilum, sed offirmare animum auribusque praetendere. Tum crebrescere fragor, adventare et iam ut in limine, iam ut intra limen audiri. Respicit, videt agno-scitque narratam sibi effigiem. Stabat innuebatque digito similis vocanti. Hic contra ut paulum exspectaret manu significat rursusque ceris et stilo incumbit. Illa scribentis capiti catenis inson-abat. Respicit rursus idem quod prius innuentem, nec moratus tollit lumen et sequitur. Ibat illa

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lento gradu quasi gravis vinculis. Postquam deflexit in aream domus, repente dilapsa deserit

comitem. Desertus herbas et folia concerpta signum loco ponit. Postero die adit magistratus,

monet ut illum locum effodi iubeant. Inveniuntur ossa inserta catenis et implicita, quae corpus

aevo terraque putrefactum nuda et exesa reliquerat vinculis; collecta publice sepeliuntur. Domus

postea rite conditis manibus caruit.

Et haec quidem affirmantibus credo; illud affirmare aliis possum. Est libertus mihi non illittera-

tus. Cum hoc minor frater eodem lecto quiescebat. Is visus est sibi cernere quendam in toro resi-

dentem, admoventemque capiti suo cultros, atque etiam ex ipso vertice amputantem capillos. Ubi

illuxit, ipse circa verticem tonsus, capilli iacentes reperiuntur. Exiguum temporis medium, et

rursus simile aliud priori fidem fecit. Puer in paedagogio mixtus pluribus dormiebat. Venerunt

per fenestras – ita narrat – in tunicis albis duo cubantemque detonderunt et qua venerant reces-

serunt. Hunc quoque tonsum sparsosque circa capillos dies ostendit. Nihil notabile secutum, nisi

forte quod non fui reus, futurus, si Domitianus sub quo haec acciderunt diutius vixisset. Nam in

scrinio eius datus a Caro de me libellus inventus est; ex quo coniectari potest, quia reis moris est

summittere capillum, recisos meorum capillos depulsi quod imminebat periculi signum fuisse.

Proinde rogo, eruditionem tuam intendas. Digna res est quam diu multumque consideres; ne ego

quidem indignus, cui copiam scientiae tuae facias. Licet etiam utramque in partem – ut soles –

disputes, ex altera tamen fortius, ne me suspensum incertumque dimittas, cum mihi consulendi

causa fuerit, ut dubitare desinerem. Vale.(Plin. epist. 7, 27; trad. a cura di F. Trisoglio)

Naturalmente, la credenza nelle arti magiche era diffusa soprattutto

presso i ceti popolari, ma nel II secolo d.C. la magia diventò oggetto di studio degli intellettuali, a causa della diffusione della dottrina demonologica della filosofia medioplatonica, secondo la quale

esistevano delle presenze benefiche, i demoni, intermediari tra dio e

gli uomini, che il sapiente può evocare per contrastare le forze avverse:

è questa la cosiddetta «magia bianca», cioè quella finalizzata al bene.

Tuttavia, a livello popolare, la magia più diffusa fu quella «nera», come

dimostrano le condanne comminate contro chi la praticava, presenti

addirittura già nelle Leggi delle XII tavoleDivieti di pronunciare formule magiche malvagie sono testimoniati

da Seneca (nat. 4, 7, 2) e Plinio il Vecchio (nat. 28, 4, 18), con

verbi quali excantare, «allontanare con incantesimi», e incantare,

«legare con incantesimi»; altro termine spesso adoperato per indica­

re la «fattura» o il «malocchio» è fascinum, mentre i termini magus

e magia, di derivazione greca, non sono attestati nei testi latini pri­

ma del I secolo a.C. Comunque, nonostante le leggi volte a contrastarla, per tutta l’età imperiale la magia nera ebbe larghissima diffusione, come dimostrano le già citate Tabellae defixionum («Tavolette di

maledizioni»).

L’esempio più interessante di filosofo esperto di magia è offerto da Apuleio, che nella sua Apologia si

difende contro chi lo accusava di operare riti di magia nera ai danni della facoltosa moglie e giustifica la

magia bianca da lui praticata, inserendola nel quadro della filosofia platonica. L’interesse apuleiano per

la magia trova largo spazio anche nel romanzo Le Metamorfosi, che raccontano le avventure di un uomo,

Lucio, che, affascinato dalla magia, chiede alla schiava Fotide di procuragli gli unguenti magici con cui la

padrona Panfile si era trasformata in gufo, ma, per uno scambio di boccette, si trasforma in asino. Dopo

Copia di una delle XII Tavole, Roma, Museo della Civiltà Romana.

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molte disavventure, la dea Iside appare in sogno a Lucio e gli predice che l’indomani avrebbe potuto riacquistare la forma umana man­giando le rose di una corona portata da un sacerdote in una pro­cessione in onore della dea; e così avviene.La metamorfosi «inversa» di Lucio è narrata da Apuleio con dovizia di particolari, mettendo in evidenza il contrasto tra il carattere grossolano dei tratti asinini di Lucio, tutti funzionali alle mere funzioni corporali (la pelle spessa, il ventre largo, le orecchie enormi ecc.), e quello più raffinato dei tratti umani, utili, invece, alle attività dello spirito e alla razionalità.

La grazia che m’aveva promesso e la sorte che mi aveva predetto la mia benefattrice stavano dunque per essermi concesse: ecco, già s’avvicinava il sacerdote con la mia salvazione, vestito esattamente come me l’aveva descritto la divina promessa, col sistro della dea e la corona per me nella destra; corona, ah! Davvero ben meritata; poiché dopo tante e così grandi prove subite, tanti pericoli superati, grazie alla più grande delle dee io giungevo a vincere la Fortuna che mi perseguitava crudelmente. Tuttavia non mi lasciai commuovere dall’improvvisa gioia, né mi buttai a correre all’impazzata, ma anzi, temendo che per il subitaneo impeto di un quadrupede si scompigliasse il perfetto ordine della processione, placido placido, proprio a passo d’uomo, esitante e un po’ in tralice mi insinuai a grado a grado fra il popolo che mi faceva posto certamente per divina ispirazione.

At sacerdos, ut reapse cognoscere potui, nocturni commonefactus oraculi miratusque congruen-tiam mandati muneris, confestim restitit et ultro porrecta dextera ob os ipsum meum coronam exhibuit. Tunc ego trepidans, adsiduo cursu micanti corde, coronam, quae rosis amoenis intexta fulgurabat, avido ore susceptam cupidus promissi devoravi. Nec me fefellit caeleste promissum: protinus mihi delabitur deformis et ferina facies. Ac primo quidem squalens pilus defluit, ac dehinc cutis crassa tenuatur, venter obesus residet, pedum plantae per ungulas in digitos exe-unt, manus non iam pedes sunt, sed in erecta porriguntur officia, cervix procera cohibetur, os et caput rutundatur, aures enormes repetunt pristinam parvitatem, dentes saxei redeunt ad humanam minutiem, et, quae me potissimum cruciabat ante, cauda nusquam! Populi miran-tur, religiosi venerantur tam evidentem maximi numinis potentiam et consimilem nocturnis imaginibus magnificentiam et facilitatem reformationis claraque et consona voce, caelo manus adtendentes, testantur tam inlustre deae beneficium.

(Apul. met. 11, 12­13; trad. a cura di F. Carlesi)

Ma Apuleio inserisce spesso nel suo romanzo anche racconti di magia nera, particolarmente crudi e ma­cabri, in qualche modo vicini ai moderni generi horror e splatter. Per esempio, nel primo libro, Aristomene racconta a Lucio di aver casualmente incontrato, tempo prima, l’amico Socrate, ridotto in pessime condizioni; dopo averlo lavato e rifocillato, decide di accompagnarlo in una locanda, dove Socrate gli racconta di essere diventato vittima dell’ostessa Meroe, che in realtà è una saga, una strega. Durante la notte, i due ricevono la visita di Meroe stessa e della sorella Pantia, che eseguono un terribile rituale stregonesco sul povero Socrate, sgozzandolo e strappandogli il cuore dal petto; infine, urinano addosso ad Aristomene, che, terrorizzato, me­dita di fuggire di nascosto prima che si faccia giorno.

Moneta con l’immagine di Apuleio.

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Tunc ego sensi naturalitus quosdam affectus in contrarium provenire. Nam ut lacrimae sae-picule de gaudio prodeunt, ita et in illo nimio pavore risum nequivi continere de Aristomene testudo factus. Ac dum in fimum deiectus obliquo aspectu quid rei sit grabatuli sollertia muni-tus opperior, video mulieres duas altioris aetatis; lucernam lucidam gerebat una, spongiam et nudum gladium altera. Hoc habitu Socratem bene quietum circumstetere. Infit illa cum gladio: «Hic est, soror Panthia, carus Endymion, hic Catamitus meus, qui diebus ac noctibus inlusit ae-tatulam meam, hic qui meis amoribus subterhabitis non solum me diffamat probris verum etiam fugam instruit. At ego scilicet Ulixi astu deserta vice Calypsonis aeternam solitudinem flebo». Et porrecta dextera meque Panthiae suae demonstrato: «At hic bonus – inquit – consiliator Ari-stomenes, qui fugae huius auctor fuit et nunc morti proximus iam humi prostratus grabattulo subcubans iacet et haec omnia conspicit, impune se laturum meas contumelias putat. Faxo eum sero, immo statim, immo vero iam nunc, ut et praecedentis dicacitatis et instantis curiositatis paeniteat».

Povero me! A quelle parole mi sentii venire il sudore freddo, e mi si mise un tal tremito nelle budella che il letto agitato dalle mie scosse palpitando mi ballava sul groppone. Ma quella brava Pantia: «Sorella mia – disse – perché non cominciamo da lui? Perché non lo facciamo a pezzi come fanno le baccanti? O, se no, perché non lo leghiamo ben bene e poi lo castriamo?». Ma la Meroe, poiché da quanto me n’aveva detto Socrate capii che era lei: «No – disse – almeno lui deve rimaner vivo, per buttare un po’ di terra sul cadavere di questo disgraziato». E torcendogli il capo dalla parte opposta, gli immerse dal­la sinistra la spada nel collo, e raccolse il sangue che ne sgorgava a fiotti, con tanta cura che non ne apparve nemmeno una goccia in nessun posto. Io vidi tutta la scena coi miei occhi. Poi per seguire a puntino, io credo almeno, il rito di quel sacrificio, la brava Meroe, ficcata una mano dentro quella ferita fin giù alle viscere e frugatele ben bene, ne tirò fuori il cuore del mio povero amico, mentre egli dalla gola, tutta squarciata dalla violenza del colpo, mandava fuori una voce, anzi uno sfrigolio indistinto; e il fiato gorgogliava. Pantia frattanto, tamponando con la sua spugna quella ferita nel punto dov’era più larga, pronunciò le seguenti parole: «O spugna nata nel mare, acqua di fiume non traversare». Ciò detto s’avviarono per uscire, ma prima, tirata via la materassa, sotto la quale c’ero io, si misero tutti e due a cavalcioni a gambe larghe proprio sopra il mio viso e data la stura della vescica, mi inondarono con un piscio d’un fetore terribile.

Oggetti usati durante un rituale magico nell’Egitto di età romana.

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Commodum limen evaserant, et fores ad pristinum statum integrae resurgunt: cardines ad fo-ramina residunt, ad postes repagula redeunt, ad claustra pessuli recurrunt. At ego, ut eram, etiam nunc humi proiectus inanimis nudus et frigidus et lotio perlutus, quasi recens utero ma-tris editus, immo vero semimortuus, verum etiam ipse mihi supervivens et postumus vel certe destinatae iam cruci candidatus: «Quid – inquam – me fiet, ubi iste iugulatus mane paruerit? Cui videbor veri similia dicere proferens vera? Proclamares saltem suppetiatum, si resistere vir tantus mulieri nequibas. Sub oculis tuis homo iugulatur, et siles? Cur autem te simile latro-cinium non peremit? Cur saeva crudelitas vel propter indicium sceleris arbitro pepercit? Ergo, quoniam evasisti mortem, nunc illo redi». Haec identidem mecum replicabam, et nox ibat in diem. Optimum itaque factu visum est anteluculo furtim evadere et viam licet trepido vestigio capessere. Sumo sarcinulam meam, subdita clavi pessulos reduco; at illae probae et fideles ia-nuae, quae sua sponte reseratae nocte fuerant, vix tandem et aegerrime tunc clavis suae crebra immissione patefiunt.

(Apul. met. 1, 12­14; trad. a cura di F. Carlesi)

Le streghe appartengono a una serie di figure femminili assimilabili alla tipologia del vampiro, che nella cul­tura di tutti i popoli è visto come un morto che non accetta di morire e ritorna tra i vivi per succhiare loro il sangue e cercare così di mantenersi in vita. Nel mondo romano, tali figure vengono a volte chiamate sagae, come nel brano di Apuleio, a volte lamiae o empusae (dal greco ἔμπουσαι), esseri mostruosi che facevano parte del corteggio della dea ctonia Ecate, capaci di trasformarsi ora in bellissime fanciulle, che seducevano giovani uomini per divorarne le carni, ora in orrendi animali serpentiformi dal volto di donna. L’italiano «strega» viene invece da strix, termine onomatopeico (legato al verbo stridere) che indica un uccello notturno simile alla civetta o al barbagianni, volatili il cui aspetto richiama le Arpie e i vampiri stessi (pelo bianco, occhi fissi e biancastri, naso adunco, testa enorme), che si pensava succhiassero il sangue dei neonati addormentati (si veda per esempio Ov. fast. 6, 131­168). Le striges fanno la loro comparsa anche in uno dei tanti racconti contenuti nella cena Trimalchionis, la parte più celebre dell’altro grande romanzo di età imperiale a noi pervenuto, il Satyricon di Petronio. Il padrone di casa, Trimalcione, racconta ai commensali un macabro episodio accadutogli quando era ancora giovane ed era schiavo di un ricco signore: essendo morto il favorito del padrone, Trimalcione ne vegliava il corpo insieme alla madre del giovane e agli altri servi, quando, improvvisamente, si sentirono stridori di streghe. Il terrore si impadronì di tutti i presenti, tranne un coraggioso uomo cappadoce, che, estratta la spada, ne uccise una; tuttavia, l’uomo si buttò sul letto pieno di lividi, ignaro del fatto che le streghe avevano operato su di lui un maleficio, tanto che, dopo pochi giorni, impazzì e morì. Inoltre, la madre dello schiavo trovò un fantoccio di paglia al posto del corpo del figlio, poiché le streghe avevano trafugato il cadavere.

Attonitis admiratione universis: «Salvo, inquit, tuo sermone, Trimalchio, si qua fides est, ut mihi pili inhorruerunt, quia scio Niceronem nihil nugarum narrare: immo certus est et minime linguosus. Nam et ipse vobis rem horribilem narrabo. Asinus in tegulis. Cum adhuc capillatus essem, nam a puero vitam Chiam gessi, ipsimi nostri delicatus decessit, mehercules margaritum, sacritus et omnium numerum. Cum ergo illum mater misella plangeret et nos tum plures in tristimonio essemus, subito stridere strigae coeperunt; putares canem leporem persequi. Habebamus tunc hominem Cappadocem, longum, valde audaculum et qui valebat: poterat bovem iratum tollere. Hic audacter stricto gladio extra ostium procucurrit, involuta sinistra manu curiose, et mulierem tanquam hoc loco – salvum sit, quod tango! – mediam traiecit. Audimus gemitum, et – plane non mentiar – ipsas non vidimus. Baro autem noster

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PERCORSO 3 Magia e horror in Grecia e a Roma

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introversus se proiecit in lectum, et corpus totum lividum habebat quasi flagellis caesus, quia scilicet illum tetigerat mala manus. Nos cluso ostio redimus iterum ad officium, sed dum mater amplexaret corpus filii sui, tangit et videt manuciolum de stramentis factum. Non cor habebat, non intestina, non quicquam: scilicet iam puerum strigae involaverant et supposue-rant stramenticium vavatonem.

Scusate, ma dovete crederci: esistono queste maliarde che la sanno lunga, queste creature della Notte, e mandano tutto a gambe all’aria. Del resto l’omone, pertica com’era, dopo quell’avventura non ebbe più i suoi colori, che anzi in pochi giorni morì pazzo e furioso». Facciamo le nostre meraviglie con l’aria tut­tavia di crederci, e, baciata la mensa, preghiamo le creature della Notte che restino a casa loro, quando torneremo dalla cena.

(Petron. 63­64; trad. a cura di V. Ciaffi)

Un fenomeno parallelo al vampirismo è la licantropia, poiché rientrano entrambi in quei miti di metamorfosi zoomorfa dell’uomo diffusi nell’immaginario collettivo di tutti i popoli. Mentre, però, come si è visto, la tra­sformazione in uccello rapace­vampiro avviene dopo la morte, quella in lupo non è definitiva e si verifica solo in alcuni momenti della vita, in particolare durante le notti di luna piena. Una celebre descrizione del lupo mannaro (dal latino tardo lupus hominarius, «uomo­lupo») o meglio del versipellis (da vertere, «mutare», e pellis «pelle»), si ha sempre nel Satyricon, nel passo immediatamente precedente a quello appena citato: uno dei convitati, il liberto Nicerote, su invito del padrone di casa racconta un altro episodio orribile, anch’esso risalente all’epoca in cui era ancora schiavo; per Nicerote e Trimalcione, dunque, la magia è espressione di una cultura popolare che li riconduce al loro passato di schiavi e che ancora nel momento in cui parlano, pur dopo l’ascesa sociale che hanno fatto, crea loro una certa inquietudine. Nice­rote racconta di come avesse chiesto all’amico Gaio di accompagnarlo per andare a trovare l’amante Melissa, approfittando dell’assenza del suo padrone; tuttavia, una volta giunti presso un cimitero, Gaio si trasforma in lupo, mentre la luna splende alta in cielo. Terrorizzato, Nicerote scappa da Melissa, che lo informa che uno schiavo è riuscito a colpire il lupo al collo; l’indomani, infatti, Nicerote trova l’amico a letto, con una vistosa ferita al collo.

Dopo che tutti a questo punto si fecero l’augurio di star bene con l’anima e bene con il corpo, si volse Trimalcione a Nicerote e: «Di solto – disse – tu a tavola eri più allegro. Va’ a capire perché oggi stai lì zitto e non fiati. Ti prego, se vuoi vedermi contento, racconta l’avventura che ti è capitata». Nicerote, compiaciuto per la gentilezza dell’amico: «Che mi scappi – disse – ogni affare, se già non schiatto di gioia a vederti così. Su dunque, pensiamo solo a stare allegri, anche se mi fanno paura questi professoroni, che non abbiano a ridere di me. Ma si accomodino, io racconterò lo stesso. Che ci perdo qualcosa a far ridere? Meglio far ridere che farsi deridere». Come tali detti disse, attaccò questa favola.

Cum adhuc servirem, habitabamus in vico angusto; nunc Gavillae domus est. Ibi, quomodo dii volunt, amare coepi uxorem Terentii coponis: noveratis Melissam Tarentinam, pulcherrimum bacciballum. Sed ego non mehercules corporaliter aut propter res venerias curavi, sed magis quod benemoria fuit. Si quid ab illa petii, nunquam mihi negatum; fecit assem, semissem habui; in illius sinum demandavi, nec unquam fefellitus sum. Huius contubernalis ad villam supre-mum diem obiit. Itaque per scutum per ocream egi aginavi, quemadmodum ad illam perve-nirem: nam, ut aiunt, in angustiis amici apparent. Forte dominus Capuae exierat ad scruta scita expedienda. Nactus ego occasionem persuadeo hospitem nostrum, ut mecum ad quintum miliarium veniat. Erat autem miles, fortis tanquam Orcus. Apoculamus nos circa gallicinia;

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PERCORSO 3 Magia e horror in Grecia e a Roma

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luna lucebat tanquam meridie. Venimus inter monimenta: homo meus coepit ad stelas facere; sedeo ego cantabundus et stelas numero. Deinde ut respexi ad comitem, ille exuit se et omnia vestimenta secundum viam posuit. Mihi anima in naso esse; stabam tanquam mortuus. At ille circumminxit vestimenta sua, et subito lupus factus est. Nolite me iocari putare; ut mentiar, nullius patrimonium tanti facio. Sed, quod coeperam dicere, postquam lupus factus est, ululare coepit et in silvas fugit. Ego primitus nesciebam ubi essem; deinde accessi, ut vestimenta eius tol-lerem: illa autem lapidea facta sunt. Qui mori timore nisi ego? Gladium tamen strinxi et in tota via umbras cecidi, donec ad villam amicae meae pervenirem. In larvam intravi, paene animam ebullivi, sudor mihi per bifurcum volabat, oculi mortui; vix unquam refectus sum. Melissa mea mirari coepit, quod tam sero ambularem, et: «Si ante – inquit – venisses, saltem nobis adiutasses; lupus enim villam intravit et omnia pecora tanquam lanius sanguinem illis misit. Nec tamen derisit, etiamsi fugit; senius enim noster lancea collum eius traiecit». Haec ut audivi, operire oculos amplius non potui, sed luce clara Gai nostri domum fugi tanquam copo compilatus; et postquam veni in illum locum, in quo lapidea vestimenta erant facta, nihil inveni nisi sangui-nem. Ut vero domum veni, iacebat miles meus in lecto tanquam bovis, et collum illius medicus curabat. Intellexi illum versipellem esse, nec postea cum illo panem gustare potui, non si me occidisses. Viderint quid de hoc alii exopinissent; ego si mentior, genios vestros iratos habeam.

(Petron. 61­62; trad. a cura di V. Ciaffi)