PERCORSO 1 TEMATICO L’IO IN QUESTIONE: LA CRISI DEL ...

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ESPOSITO-PORRO © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI L’IO IN QUESTIONE: LA CRISI DEL SOGGETTO MODERNO T1 Karl Marx L’io estraniato Manoscritti economico-filosofici del 1844, Primo manoscritto, XXII-XXIV T2 Friedrich Nietzsche Dall’io al superuomo Al di là del bene e del male, cap. 1, §§ 16, 17; cap. 3, § 54; Così parlò Zarathustra, Prefazione di Zarathustra, § 3 T3 Sigmund Freud L’Io, il conscio, l’inconscio L’Io e l’Es, §§ 1-3 T4 Edmund Husserl La coscienza come essere assoluto Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro I, § 49 T5 Martin Heidegger L’uomo come esserci Essere e tempo, §§ 4 e 9; Lettera sull’“umanismo” T6 Emmanuel Lévinas L’io come relazione etica con Altri Totalità e infinito, §§ 4 e 5; Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cap. 4, § 4 T7 Michel Foucault Il soggetto come cura di sé L’etica della cura di sé come pratica della libertà, Intervista del 20 gennaio 1984 Bibliografia 1 PERCORSO TEMATICO

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L’IO IN QUESTIONE: LA CRISI DEL SOGGETTO MODERNO

T1 Karl Marx • L’io estraniatoManoscritti economico-filosofici del 1844,Primo manoscritto, XXII-XXIV

T2 Friedrich Nietzsche • Dall’io al superuomoAl di là del bene e del male, cap. 1, §§ 16, 17; cap. 3, § 54; Così parlò Zarathustra, Prefazione di Zarathustra, § 3

T3 Sigmund Freud • L’Io, il conscio, l’inconscioL’Io e l’Es, §§ 1-3

T4 Edmund Husserl • La coscienza come essere assolutoIdee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro I, § 49

T5 Martin Heidegger • L’uomo come esserciEssere e tempo, §§ 4 e 9; Lettera sull’“umanismo”

T6 Emmanuel Lévinas • L’io come relazione etica con AltriTotalità e infinito, §§ 4 e 5; Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cap. 4, § 4

T7 Michel Foucault • Il soggetto come cura di séL’etica della cura di sé come pratica della libertà, Intervista del 20 gennaio 1984

Bibliografia

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l problema del “soggetto” aveva costituitouna delle questioni fondamentali attorno acui si era sviluppata l’indagine filosofica

della cosiddetta “età moderna”: in maniera diret-ta o indiretta non vi era filosofia, dopo la svoltaumanistico-rinascimentale, che non affrontasse ilproblema della fondazione o della giustificazionedella capacità dell’io (e rispettivamente della suaincapacità) nel conoscere la verità e nel dominarele proprie azioni volgendole al bene. La “natura”della soggettività era infatti considerata come illuogo deputato e assolutamente centrale da cuiprendono origine e a cui ritornano tutti i nostrirapporti con il mondo. Sia che venisse intesocome “sostanza” o come “esperienza” sensibile,sia che si basasse su una ragione universale o suuna credenza empirica, sia che fosse concepitocome il signore del mondo o come un ente essen-zialmente finito tra gli altri, l’immagine prevalen-te del soggetto umano che emerge dalle diversefilosofie dell’età moderna viene giocata sull’iden-tificazione dell’“io” con la “coscienza”.

Intorno alla metà dell’Ottocento, però, nell’in-dagine sulla soggettività si profila un profondomutamento di prospettiva. I sistemi filosofici del-l’idealismo tedesco si erano caratterizzati voluta-

mente come il compimento e la massima enfatiz-zazione del “soggetto moderno”, giungendo aintendere quest’ultimo come una realtà “assolu-ta” (l’Io pratico in Fichte, l’autocoscienza tra-scendentale in Schelling, lo spirito in Hegel). Magià all’interno delle filosofie idealistiche l’“io” sipresentava non come qualcosa di già dato in sé eper sé, bensí come l’esito di un lungo e spessodrammatico percorso di appropriazione. Il sog-getto doveva giungere ad afferrare sé stesso, aconquistarsi, o più semplicemente a realizzarsi,attraverso lo scontro, l’integrazione e il dominiodi ciò che era altro da sé (la natura, gli altri uomi-ni, lo stesso Dio). In altri termini, l’io degli ideali-sti portava in sé una “negatività” permanente,anche se spesso nascosta dietro l’azione vitto-riosa dell’io, nella quale non soltanto il soggetto,ma la realtà intera degli oggetti, giungeva adautocoscienza.

A questa problematicità “interna” del soggettomoderno – un io infinito e assoluto che nascevacome superamento dell’io finito e contingente – siaffiancò ben presto una violenta critica dall’ester-no, o per meglio dire, un programma di fuoriuscitadall’idealismo. Da Schopenhauer a Kierkegaard,da Marx a Nietzsche, tutta la seconda metà

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L’io in questione: la crisi del soggetto moderno

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dell’Ottocento è attraversata da questi molteplicitentativi di fuoriuscire da un’immagine dell’iocome pura trasparenza a sé stesso, come idealiz-zazione del mondo nello spirito autocosciente,come affermazione irreversibile della verità e delbene.

La filosofia del Novecento radicalizza questacritica del soggetto moderno rendendola uncarattere permanente della soggettività. In altritermini, la crisi del soggetto non verrà più intesacome una situazione occasionale o temporaneache si possa superare (tornando all’autoafferma-zione assoluta dell’io), ma come una condizionestrutturale che caratterizza l’io in quanto tale. Ilsoggetto non va semplicemente in crisi, ma è unfenomeno essenzialmente critico: esso “è” la suastessa crisi. La crisi diviene, per l’io, il nuovoparadigma di riferimento. Così, la questione del-l’io non si configura più come un tentativo dideterminare ciò che appartiene essenzialmente ea priori al soggetto, ma si profila come una messain questione dell’io stesso. Dalla questione dell’ioall’io in questione: è questo il mutamento di para-digma che segna la transizione dal pensieromoderno al pensiero contemporaneo.

Ciò significa principalmente due cose: 1. non viè un senso o un valore trascendente in cui sipossa collocare l’essere del soggetto umano, per-ché al contrario tutti questi significati ideali sonodei prodotti della mente umana; 2. l’essenza delsoggetto umano è sempre condizionata, delimita-ta, determinata dai fattori materiali e sociali dellasua esistenza. In questa maniera, l’indagine sulsoggetto diviene un’indagine sulle circostanzeconcrete che determinano di volta in volta il suoessere e il suo agire: il soggetto è innanzituttocolui che è “assoggettato” alle condizioni concre-te della natura e della storia.

È stato Karl Marx (1818-1883) [u T1] a tematiz-zare in maniera esplicita la natura storicamentedeterminata del soggetto umano: l’io non possie-de un’essenza immutabile data una volta pertutte, e la sua stessa “natura” è definita dai rap-porti sociali e produttivi che lo investono e in cuiesso investe la propria attività. Di conseguenza,per comprendere e per determinare l’essere delsoggetto, si deve sempre partire dalle condizionimateriali nelle quali di volta in volta, a secondadei diversi assetti socio-economico-politici, essosi viene a trovare. Vi è un punto privilegiato perindividuare il modo in cui tale assetto conforma asé il soggetto umano e insieme il modo in cui que-

st’ultimo può riappropriarsi della sua natura, valea dire il lavoro. In particolare, nella società capita-listica la condizione strutturale da cui il soggettoè inevitabilmente determinato è quella della per-dita di sé sotto forma di alienazione del propriolavoro nelle mani di altri, che ne ricavano un pro-fitto non corrisposto al lavoratore. La filosofiamoderna, anche quando aveva individuato nel-l’agire il proprium dell’uomo, non aveva maimesso in questione l’identità tra io e pensiero, trasoggettività e coscienza. Al contrario, Marxsostiene – riprendendo un’idea hegeliana e tra-sportandola al di fuori del sistema idealistico –che i condizionamenti materiali e storico-socialicui è sottoposto l’uomo portano ad un’alienazio-ne o estraniazione della coscienza da sé stessa.Da questo punto di vista, il soggetto marxiano èun prodotto della storia e della società, che puògiungere ad una liberazione da tale alienazionenel momento in cui riesce a invertire l’ordine dellaproduzione e a produrre liberamente sé stesso;ma tale autoproduzione dipende a sua volta dalfatto che il soggetto (attraverso la via della rivolu-zione comunista) divenga padrone di quelle con-dizioni socio-economiche del suo lavoro che inprecedenza lo tenevano assoggettato.

La riflessione sulla crisi del soggetto modernosi presenta in maniera particolarmente acuta nelpensiero di Friedrich Nietzsche (1844-1900) [uT2] il quale la concepisce non soltanto comeun’analisi descrittiva, ma più radicalmente comeun modo di produrre e compiere lo svuotamentodell’immagine tradizionale dell’io. Il soggettoumano viene inteso infatti da Nietzsche come lamaschera dietro cui si nasconde l’illusione, omeglio l’inganno del pensiero metafisico, checrede di poter stabilire in maniera definitiva ilvero rispetto al falso, lo spirituale rispetto almateriale, il bene rispetto al male, l’infinitorispetto al finito, Dio rispetto all’uomo e così via.Prendendo di mira tutto il soggettivismo moder-no, da Descartes a Hegel, Nietzsche intuisce chedistruggere l’io significa sovvertire l’intera tradi-zione della metafisica occidentale, giacché esso èil depositario di quella tendenza che ha portato ifilosofi a credere nell’esistenza di verità immuta-bili, stabili, trascendenti. Per questo motivo, ilribaltamento della tradizione metafisica inNietzsche fa leva sul nesso tra la morte di Dio equella che potremmo chiamare la morte dell’io,cioè il superamento dell’uomo così come è statopensato dalla metafisica platonica e cristiana, in

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virtù dell’affermazione di un super-io, quel supe-ruomo che pone nella sua stessa volontà dipotenza l’essere della realtà intera.

Colui che nel Novecento ha interpretato conmaggior coerenza questo aspetto strutturaledella crisi del soggetto, dopo Marx e Nietzsche, èstato Sigmund Freud (1856-1939) [u T3]. La psi-coanalisi freudiana può essere letta anch’essacome una critica nel profondo della nozione tradi-zionale di soggetto, e in particolare dell’identitàtra l’io e la coscienza. La vita psichica dell’io nonè affatto contenuta o esaurita nella coscienza: aldi là o al di sotto di quest’ultima si nasconde perFreud un vero e proprio abisso, l’inconscio.Quest’ultimo è costituito da quei desideri inappa-gati e inibiti che vengono “rimossi” dalla coscien-za e che rappresentano, per usare i termini diFreud, una sorta di «territorio straniero interno»all’io, che comunque continua ad agire nella suavita psichica. Lungi dall’essere perfettamente tra-sparente a sé stesso, l’io rappresenta dunque sol-tanto la superficie di una vita psichica ben piùcomplessa e articolata. L’accesso a questa nuovadefinizione della soggettività è reso possibile aFreud dallo studio delle patologie in cui ciò cheresta fuori dall’io, o meglio, ciò che l’io ha rimos-so dalla coscienza di sé, torna a farsi presente,minando, interrompendo, turbando più o menogravemente l’autocoscienza. Non a caso è nell’in-terpretazione dei sogni, molto più che nell’analisidei pensieri del soggetto cosciente (o “sveglio”),che si svela questo fondo abissale (l’“Es”) per cuiogni io è quello che è: l’io, infatti, non ha solo una“natura”, fatta di impulsi e di stimoli, di azioni e direazioni, ma ha anche una storia, fatta di espe-rienze vissute nell’infanzia (soprattutto il rappor-to con i genitori), di impulsi inibiti e di desideririmossi, che costituisce il volto mai completamen-te ricostruibile del soggetto umano. In qualchemodo, l’io è uno sconosciuto a sé stesso, e solotramite una continua interpretazione di sé attra-verso un altro da sé esso è restituito a sé stesso.

All’inizio del Novecento, il problema del sogget-to viene orientato anche in una direzione diame-tralmente opposta a quella della vita psichica del-l’io, come nel caso della fenomenologia trascen-dentale di Edmund Husserl (1859-1938) [u T4].Partito dall’esigenza di delimitare la validitàoggettiva della logica rispetto alle riduzioni dello“psicologismo”, che tendeva a ridurre i contenutidella conoscenza agli atti del soggetto psichico,Husserl aveva dapprima individuato nell’intenzio-

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nalità la caratteristica fondamentale dellacoscienza, intesa appunto come un tendere costi-tutivo, e in forme diverse, verso un oggetto, cheveniva conosciuto proprio in quanto “vissuto”nella sua stessa essenza all’interno della coscien-za; e successivamente era giunto a riconoscere lanecessità di una “epochè”, ossia di una sospen-sione di quell’“atteggiamento naturale” con cuiaffermiamo dogmaticamente l’esistenza di unmondo fuori di noi, e l’affermazione di un “resi-duo” insopprimibile e assolutamente necessarioche coincide proprio con l’essere puro dellacoscienza, chiamata trascendentale appunto per-ché costituisce la condizione di possibilità di ognialtra conoscenza empirica. Quand’anche ilmondo intero fosse annientato, dice Husserl,resterebbe l’essere assoluto della coscienza:un’affermazione, questa, che, nonostante leapparenze contrarie, non è esente da quella crisidel soggetto moderno che segna tutto il pensierodell’epoca, anzi ne partecipa in modo evidente.Una coscienza come essere assoluto, affermante-si grazie alla sospensione di tutto ciò che è altroda esso, è forse la strategia più estrema perrispondere ad una crisi di evidenza e a una derivapsicologistica e soggettivistica che sembravacompromettere definitivamente la capacità dellaragione umana di cogliere l’evidenza delle cose.

E non è un caso che all’origine del pensiero diMartin Heidegger (1889-1976) [u T5], uno deipensatori che più hanno determinato la criticadella tradizione filosofica della soggettività, stiaproprio il ribaltamento della concezione husser-liana di un “io” senza mondo in una più origina-ria concezione dell’io come esserci, vale a direcome “essere-nel-mondo”. Per Heidegger ciò cherisulta dominante nella tesi della coscienza puraè, paradossalmente, proprio una nozione diessere che vale soprattutto per gli enti naturali(intesi come sostanze definite attraverso precisiattributi ontologici) e non per l’uomo. L’intentodell’“analitica esistenziale” heideggeriana èinvece proprio la distinzione tra il modo d’esseredegli enti intramondani e il modo d’essere diquel particolare ente che è l’essere-nel-mondo.Mentre l’essere degli enti si esaurisce nel -l’“utilizzabilità” e nella «mera presenza sottoma-no», l’essere dell’“esserci” – ossia «quell’enteche noi stessi sempre siamo» – si compie come“esistenza”: le cose semplicemente sono, l’es-serci soltanto esiste, cioè è quello che può esse-re, non perché si separi dalle cose del mondo rin-

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chiudendosi in una sfera coscienziale, ma, alcontrario, perché comprende il proprio essere el’essere degli enti intramondani. E mentre questiultimi si determinano in vista dell’esserci, l’es-serci stesso non potrà mai realizzarsi in sé stes-so e per sé stesso se non trascendendosi comeente. Esso può realizzarsi in molteplici possibili-tà mondane, a partire dagli enti che incontra nelmondo, ma la sua più propria possibilità – il suo“progetto” più proprio – sarà solo l’impossibilitàdi essere come un ente tra gli altri, un’impossibi-lità in cui esso è da sempre “gettato”. In questoconsiste propriamente la finitezza ontologicadell’esserci: nel fatto che a fondamento dell’esi-stere vi è una differenza ontologica (differenzaesserci/ente intramondano e più radicalmentedifferenza essere/ente), che è il grande impensa-to della tradizione filosofica. Quando, dopo glianni Trenta, Heidegger ripenserà il rapporto trauomo ed essere non più in termini di compren-sione da parte dell’esserci, ma di appello daparte dell’essere, egli prenderà posizione decisa-mente contro ogni tipo di “umanismo”, perché inquest’ultimo continua ad essere dimenticata lagrande questione della verità dell’essere, a parti-re dalla quale soltanto, invece, è ancora possibi-le parlare di “uomo”.

Questa concezione rigorosamente autoreferen-ziale dell’esserci heideggeriano (almeno quella diEssere e tempo), in cui cioè l’io è chiamato adassumere la propria finitezza come un destino irre-vocabile, sarà contestata tra gli altri da EmmanuelLévinas (1906-1995) [u T6], il quale ha fatto emer-gere potentemente l’appello dell’“Altro” e al -l’“Altro” che sempre abita, a suo modo di vedere,la costituzione della soggettività. Nella storia delpensiero, secondo Lévinas, questo rapporto tra ilMedesimo – cioè il senso ontologico tradizionaleattribuito alla soggettività – e l’Altro è stato con-cepito prevalentemente in termini “ontologici”,come un assorbimento e una dissoluzione del-l’essere-altro nell’essere-lo-stesso, come unariduzione dell’“infinito” di cui l’Altro è portatorealla “totalità” del sé: il Medesimo ha imposto ilproprio dominio sull’Altro, riducendo la distanzae la dismisura che caratterizzano essenzialmentel’alterità alla misura della rappresentazione sog-gettiva, e questo sia a livello conoscitivo che alivello politico. E anche quando ha postulatoun’alterità, il soggetto l’ha intesa come alienazio-ne di sé o come oggetto di dominio da parte sua,mentre essa va liberata dalla dialettica sogget-

to/oggetto o servo/padrone e va accolta comeuna radicale eterogeneità o un’assoluta novità,come un evento capace di sconvolgere la totalitàdell’io. La relazione del soggetto con l’altro da sé(o meglio con “Altri”, proprio per designare l’ec-cedenza o la sporgenza del secondo terminerispetto al primo) è per Lévinas l’effetto di unatrascendenza irriducibile ad ogni rappresentazio-ne o pensiero dell’io, e costituisce un vero e pro-prio esercizio “etico”, una responsabilità origina-ria che viene prima della stessa libertà del sog-getto o della sua decisione per alcuni valori. Ionon sono innanzitutto colui che sceglie eticamen-te l’altro, ma sono io stesso assoggettato al suorichiamo, sono chiamato o ispirato da esso(secondo la terminologia del profetismo ebraico),e quindi, in definitiva, sono me stesso in quantoassoluta passività. In questo caso, per Lévinas siscorge che non l’ontologia, bensì l’etica è la “filo-sofia prima”, e che il soggetto “accade” non nel-l’ordine dell’essere (cioè come una determinazio-ne ontologica, per quanto peculiare), bensì al dilà dell’essenza e dell’essere.

Il nostro percorso si chiude con uno degli auto-ri che più hanno contribuito a una riconsiderazio-ne critica del soggetto moderno: Michel Foucault(1926-1984) [u T7]. Il progetto foucaultiano diuna “storia critica del pensiero” (intendendo quila “critica” in esplicito riferimento a Kant) miraessenzialmente a esaminare le relazioni possibilitra soggetto e oggetto. Non si tratta tuttavia didescrivere le condizioni puramente formali oquelle empiriche con cui un soggetto già costitui-to e costituente perviene a conoscere un determi-nato oggetto, ma piuttosto di ricostruire i proces-si congiunti con cui – in determinati ambiti delsapere – soggetto e oggetto si definiscono e sicostituiscono l’uno in rapporto all’altro, ovvero iprocessi di soggettivazione (costituzione del sog-getto) e oggettivazione (costituzione dell’ogget-to). L’intreccio tra questi due aspetti definisce ciòche Foucault chiama «giochi di verità», cioè leforme storiche in cui si articolano i discorsisuscettibili di essere definiti veri o falsi.

In una prima fase, quella segnata dalla preva-lenza dell’approccio “archeologico”, Foucault haconcentrato la sua attenzione sul modo in cui lanascita di determinati saperi (psicologia, psichia-tria, medicina “individualizzante”, antropologia,anatomia patologica, ecc.), a loro volta riflesso dipratiche storicamente determinate (internamen-to, «addolcimento delle pene», detenzione, ecc.),

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abbia portato alla costituzione correlativa, inambiti diversi, di soggetto e oggetto: la Storiadella follia, per esempio, mostra, da una parte,come qualcosa come la “follia” si costituiscaquale oggetto solo in rapporto a un determinatosapere, e dall’altra, come questo stesso sapereporti alla costituzione di determinate forme disoggettività (il “folle”, così come – in rapporto adaltri saperi – il “malato”, il “criminale”, ecc., oanche il soggetto “sano”, “normale”, ecc.).Analogamente, nelle Parole e le cose, Foucaultprende in esame la formazione del soggetto cheparla, lavora, vive in riferimento allo sviluppodelle scienze umane: l’“uomo” (comesoggetto/oggetto di un sapere) nasce con l’an-tropologia e dunque tramonta (“muore”) conl’eclissi della forma storica di questo stessosapere. Il soggetto non è dunque per Foucault

qualcosa di già dato o di atemporale, ma si defi-nisce di volta in volta storicamente in formediverse; compito dello storico e del filosofo èappunto quello di esaminare la costituzione diqueste forme, cioè dei saperi che mettono capoalla formazione di soggetti e oggetti, evitando lascorciatoia del ricorso a “universali antropologi-ci” (l’“uomo” come essenza naturale atemporale,la “follia” come oggetto naturale sempre già datoe così via). Questo però non significa affatto pre-tendere che il soggetto non esista assolutamen-te, ma piuttosto «far apparire i processi propri diun’esperienza in cui il soggetto e l’oggetto “si for-mano e si trasformano” l’uno in rapporto all’altroe l’uno in funzione dell’altro» (come lo stessoFoucault scrive in un’autopresentazione del pro-prio pensiero, raccolta ora in Archivio Foucault 3,Feltrinelli, Milano 2005).

Il gesto con cui Marx ribalta la fondazione delsoggetto hegeliano e al tempo stesso radicalizza lacontestazione che all’idealismo era mossa da partedei giovani della “sinistra hegeliana”, di Feuerbach edei socialisti utopistici, costituisce uno dei binari piùimportanti per la critica della soggettività modernache attraversa la seconda metà dell’Ottocento perdilagare poi in tutto il Novecento. Anzi, si può direche tale critica si troverà necessariamente a confrontarsi e a passare – direttamente o indirettamente, in accordo o in disaccordo –attraverso la posizione marxiana. Se per Hegel il “soggetto” vero e proprio è l’idea o la sostanzainfinita mentre i soggetti finiti sarebbero solo i predicati di quella sostanza, per Marx il soggettoreale è quello determinato materialmente, sia a livello naturale che a livello economico-sociale; e se Feuerbach aveva individuato nella religione laforma principale di alienazione del soggetto umano,da cui quest’ultimo può affrancarsi recuperandol’autonomia di una “natura umana” sfigurata e oppressa, per Marx tale natura deve essere intesa

come un prodotto radicalmente storico, di modo che sia l’oppressione che la liberazione del soggettorisultano imputabili essenzialmente alla prassieconomico-politica dell’ordinamento sociale. Tale ordinamento è basato sul lavoro alienatodell’uomo (un’idea che Marx attinge daglieconomisti classici come Smith e Ricardo), ed è perciò attraverso un’analisi di tale alienazionedel lavoro che può delinearsi la critica del soggettomoderno, che va inteso in maniera storicamentedeterminata come la soggettività dei lavoratorisfruttati nella società “capitalistica” e “borghese”. È il proletariato il vero e proprio soggetto di questasocietà, perché sul suo lavoro si fonda anche il privilegio delle classi dominanti. Nel brano che segue Marx analizza la triplice forma di alienazione o “autoestraniazione” cui èsottoposto il soggetto lavoratore, il quale non soloviene espropriato del prodotto del suo lavoro (che diviene merce) e della sua stessa attivitàlavorativa (trasformata anch’essa in merce), ma ècostretto ad estraniarsi anche dagli altri soggetti.

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Il lavoro estraniatoNoi partiamo da un fatto dell’economia politica, da un fatto presente. L’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto piùla sua produzione cresce di potenza e di estensione. L’operaio diventa una merce tanto piùvile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondoumano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro nonproduce soltanto merci; produce sé stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessaproporzione in cui produce in generale le merci.

Questo fatto non esprime altro che questo: l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto dellavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente dacolui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diven-tato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazio-ne. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annul-lamento dell’operaio, l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appro-priazione come estraniazione, come alienazione.

La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal maniera che l’operaioviene annullato sino a morire di fame. L’oggettivazione si presenta come perdita dell’oggetto insiffatta guisa che l’operaio è derubato degli oggetti più necessari non solo per la vita, ma ancheper il lavoro. Già, il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli riesce a impadronirsi soltan-to col più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni. L’appropriazione dell’oggetto sipresenta come estraniazione in tale modo che quanti più oggetti l’operaio produce, tanto menoegli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la signoria del suo prodotto, del capitale.

Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l’operaio si viene a tro-vare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti, partendoda questo presupposto è chiaro che: quanto più l’operaio si consuma nel lavoro, tanto piùpotente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto più povero diven-ta egli stesso, e tantomeno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religio-ne. Quante più cose l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in sé stesso. L’operaioripone la sua vita nell’oggetto; ma d’ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all’og-getto. Quanto più grande è dunque questa attività, tanto più l’operaio è privo di oggetto.Quello che è il prodotto del suo lavoro, non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questoprodotto, tanto più piccolo è egli stesso. L’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significanon solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esi-ste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per séstante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto gli si contrappone ostile ed estranea.

Ed ora consideriamo più da vicino l’oggettivazione, la produzione dell’operaio, e in essal’estraniazione, la perdita dell’oggetto, del suo prodotto.

L’operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questaè la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il suo lavoro agisce, dal quale e per mezzodel quale esso produce.

Ma come la natura fornisce al lavoro i mezzi di sussistenza, nel senso che il lavoro non puòsussistere senza oggetti su cui applicarsi; così essa, d’altra parte, fornisce pure i mezzi di sus-sistenza in senso più stretto, cioè i mezzi per il sostentamento fisico dello stesso operaio.Quindi quanto più l’operaio si appropria col proprio lavoro del mondo esterno, della naturasensibile, tanto più egli si priva dei mezzi di sussistenza nella seguente duplice direzione:prima di tutto, per il fatto che il mondo esterno cessa sempre più di essere un oggetto appar-tenente al suo lavoro, un mezzo di sussistenza del suo lavoro, e poi per il fatto che lo stessomondo esterno cessa sempre più di essere un mezzo di sussistenza nel senso immediato, cioèun mezzo per il suo sostentamento fisico.

In questa duplice direzione, dunque, l’operaio diventa uno schiavo del suo oggetto: inprimo luogo, perché egli riceve un oggetto da lavorare, cioè riceve un lavoro; in secondo

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luogo, perché riceve dei mezzi di sostentamento. E quindi, in primo luogo perché può esiste-re come operaio, e in secondo luogo perché può esistere come soggetto fisico. Il colmo di que-sto asservimento si ha quando egli si può mantenere come soggetto fisico soltanto in quantoè operaio ed è operaio soltanto in quanto è soggetto fisico.

(Secondo le leggi dell’economia politica, l’estraniazione dell’operaio nel suo oggetto siesprime nel fatto che quanto più l’operaio produce, tanto meno ha da consumare; quantomaggior valore produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede; quanto più belloè il suo prodotto, tanto più l’operaio diventa deforme; quanto più raffinato il suo oggetto,tanto più egli s’imbarbarisce; quanto più potente il lavoro, tanto più egli diventa impotente;quanto più il lavoro è spirituale, tanto più egli è diventato materiale e schiavo della natura).

L’economia politica nasconde l’estraniazione insita nell’essenza stessa del lavoro per il fatto chenon considera il rapporto immediato esistente tra l’operaio (il lavoro) e la produzione.Certamente, il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce sol-tanto privazioni. Produce palazzi, ma per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’ope-raio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in unlavoro barbarico e trasforma l’altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma perl’operaio idiotaggine e cretinismo.

Il rapporto immediato esistente tra il lavoro e i suoi prodotti è il rapporto tra l’operaio e glioggetti della sua produzione. Il rapporto che il ricco ha con gli oggetti della produzione e conla stessa produzione è soltanto una conseguenza di quel primo rapporto. E lo conferma. […]

Quando noi dunque ci domandiamo: qual è il rapporto essenziale del lavoro? La doman-da che ci poniamo verte intorno al rapporto dell’operaio con la produzione.

Sinora abbiamo considerato l’estraniazione, l’alienazione dell’operaio da un solo lato, cioèabbiamo considerato il suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l’estraniazione si mostranon soltanto nel risultato, ma anche nell’atto della produzione, entro la stessa attività produtti-va. Come potrebbe l’operaio rendersi estraneo nel prodotto della sua attività, se egli non siestraniasse da sé stesso nell’atto della produzione? Il prodotto non è altro che il “resumé” del-l’attività, della produzione. Quindi, se prodotto del lavoro è l’alienazione, la produzione stes-sa deve essere alienazione attiva, alienazione dell’attività, l’attività della alienazione.Nell’estraniazione dell’oggetto del lavoro si riassume la estraniazione, l’alienazione che siopera nella stessa attività del lavoro.

E ora, in che cosa consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al

suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto,ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo edistrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sentefuori di sé nel lavoro. E a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suolavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfaci-mento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estranei-tà si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altracoazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si alie-na, è un lavoro di sacrificio di sé stessi, di mortificazione. Infine l’esteriorità del lavoro perl’operaio appare in ciò che il lavoro non è suo proprio, ma è di un altro. Non gli appartiene,ed egli, nel lavoro, non appartiene a sé stesso, ma ad un altro. Come nella religione, l’attivitàpropria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuoindipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica; così l’attivi-tà dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé.

Ne viene quindi come conseguenza che l’uomo (l’operaio) si sente libero soltanto nelle suefunzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt’al più ancora l’abitare una casae il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è ani-male diventa umano, e ciò che è umano diventa animale.

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Certamente mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma inquell’astrazione, che le separa dalla restante cerchia dell’attività umana e le fa diventare scopiultimi ed unici, sono funzioni animali.

Abbiamo considerato l’atto dell’estraniazione dell’attività pratica dell’uomo, cioè il lavoro,da due lati. 1. Il rapporto dell’operaio col prodotto del lavoro considerato come oggetto estra-neo e oppressivo. Questo rapporto è ad un tempo il rapporto col mondo esterno sensibile,con gli oggetti della natura, inteso come un mondo estraneo che gli sta di fronte in modo osti-le. 2. Il rapporto del lavoro con l’atto della produzione entro il lavoro. Questo rapporto è il rap-porto dell’operaio con la sua propria attività come attività estranea che non gli appartiene,l’attività come passività, la forza come impotenza, la procreazione come svirilimento, l’ener-gia fisica e spirituale propria dell’operaio, la sua vita personale – e infatti che [altro] è la vitase non attività? – come un’attività rivolta contro di lui, da lui indipendente, e che non gliappartiene. L’estraniazione di sé, come, prima, l’estraniazione della cosa. […]

Parimenti, il lavoro estraniato degradando a mezzo l’attività autonoma, l’attività libera, fadella vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie un mezzo della sua esistenza fisi-ca. Per opera dell’alienazione, la coscienza, che l’uomo ha della sua specie, si trasforma quin-di nel fatto che la sua vita di essere appartenente ad una specie diventa per lui un mezzo. Illavoro alienato fa dunque: 3. dell’essere dell’uomo, come essere appartenente ad una specie,tanto della natura quanto della sua specifica capacità spirituale, un essere a lui estraneo, unmezzo della sua esistenza individuale. Esso rende all’uomo estraneo il suo proprio corpo,tanto la natura esterna, quanto il suo essere spirituale, il suo essere umano. 4. Una conse-guenza immediata del fatto che l’uomo è reso estraneo al prodotto del suo lavoro, della suaattività vitale, al suo essere generico, è l’estraniazione dell’uomo dall’uomo. Se l’uomo si con-trappone a sé stesso, l’altro uomo si contrappone a lui. Quello che vale del rapporto dell’uo-mo col suo lavoro, col prodotto del suo lavoro e con sé stesso, vale del rapporto dell’uomocon l’altro uomo, ed altresì col lavoro e con l’oggetto del lavoro dell’altro uomo. In generale,la proposizione che all’uomo è reso estraneo il suo essere in quanto appartenente a una spe-cie, significa che un uomo è reso estraneo all’altro uomo, e altresì che ciascuno di essi è resoestraneo all’essere dell’uomo. L’estraniazione dell’uomo, in generale ogni rapporto in cui l’uo-mo è con sé stesso, si attua e si esprimesoltanto nel rapporto in cui l’uomo ècon l’altro uomo. Dunque nel rapportodel lavoro estraniato ogni uomo consi-dera gli altri secondo il criterio e il rap-porto in cui egli stesso si trova comelavoratore.

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ra1. In che cosa consiste, per Marx, l’estraniazione o alie-nazione?

2. Quali sono i tre livelli in cui si realizza tale estraniazione?

3. Quali conseguenze essa produce nella vita dell’operaio?

Anche il pensiero di Nietzsche costituisce unmomento di primaria importanza nel processo dicritica dell’io qual era stato codificato dalla filosofiamoderna. Nella sua radicale contestazione dellasoggettività – come emerge dai brani tratti da Al di là del bene e del male, uno scritto pubblicatonel 1886 – Nietzsche non si oppone soltanto all’ideacartesiana e idealistica dell’io, ma prende di mira

l’intera tradizione che ha considerato il soggettocome il centro noetico della realtà. Agli occhi diNietzsche, esso non è né il portatore autoevidentedel pensiero (l’io del cogito), né il centro unificatore(l’io penso) di ciò che viene pensato. L’io è soloun’invenzione illusoria o, tutt’al più, unasupposizione dei filosofi: essi, infatti, erroneamenteconvinti che i pensieri siano effetti e che ogni effetto

T2 Friedrich Nietzsche Dall’io al superuomoAl di là del bene e del male, cap. 1, §§ 16, 17; cap. 3, § 54; Così parlò Zarathustra, Prefazione di Zarathustra, § 3

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Dei pregiudizi dei filosofi16. Continuano ancora ad esistere ingenui osservatori di sé, i quali credono che vi siano “cer-tezze immediate”, per esempio “io penso”1, o, come era la superstizione di Schopenhauer, “iovoglio”: come se qui il conoscere potesse afferrare puro e nudo il suo oggetto, quale “cosa insé”, e non potesse aver luogo una falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell’og-getto. Ma non mi stancherò di ripetere che “certezza immediata”, così come “assoluta cono-scenza” e “cosa in sé”, comportano una contradictio in adjecto2: ci si dovrebbe pure sbarazza-re, una buona volta, della seduzione delle parole! Creda pure fin che vuole il volgo, che cono-scere sia un conoscere esaustivo; il filosofo deve dirsi: se scompongo il processo che si espri-me nella proposizione “io penso”, ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione dellequali mi è difficile, forse impossibile, – come per esempio, che sia io a pensare, che debba esi-stere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere cheè pensato come causa, che esista un “io”, infine, che sia già assodato che cos’è caratterizzabi-le in termini di pensiero, – che io sappia che cos’è pensare. Se io, infatti, non mi fossi già bendeciso al riguardo, su quale base potrei giudicare che quanto appunto mi sta accadendo nonsia forse un “volere” o un “sentire”? Ebbene, quell’“io penso” presuppone il confronto del miostato attuale con altri stati che io conosco a me attinenti, al fine di stabilire che cosa esso sia:a causa di questo rinvio a un diverso “sapere”, esso non ha per me, in nessun caso, un’imme-diata certezza. – Al posto di quella “certezza immediata”, alla quale il popolo, nel caso in que-stione, può credere, il filosofo si ritrova in tal modo nelle mani una serie di problemi dellametafisica, vere e proprie questioni di coscienza dell’intelletto, che così si formulano: “Dondeprendo il concetto del pensare? Perché credo a causa ed effetto? Che cosa mi dà il diritto diparlare d’un io e perfino d’un io come causa, e infine ancora d’un io come causa dei pensie-ri?”. Chi, richiamandosi a una specie d’intuizione della conoscenza, si sentisse così fiduciosoda rispondere, come fa colui che dice: “Io penso e so che questo almeno è vero, reale, certo”– troverebbe oggi pronti in un filosofo un sorriso e due punti interrogativi: “Signor mio, glifarebbe forse capire il filosofo, è improbabile che lei non si sbagli: ma perché poi verità a tuttii costi?”.

17. Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò mai di tornare sem-pre a sottolineare un piccolo, esiguo dato di fatto, che malvolentieri questi superstiziosi sonodisposti ad ammettere, – vale a dire, che un pensiero viene quando è “lui” a volerlo, e nonquando “io” lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto “io” èla condizione del predicato “penso”. Esso pensa: ma che questo “esso” sia proprio quel famo-so vecchio “io” è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione,soprattutto non è affatto una “certezza immediata”. E infine, già con questo “esso pensa” si èfatto anche troppo: già questo “esso” contiene un’interpretazione del processo e non rientra

1. Nietzsche fa qui riferimentoall’“io penso” di Kant. 2. Questa espressione designa nellessico scolastico medievale una

“contraddizione in termini”. PerNietzsche, quindi, la cosa in sé e lenozioni di conoscenza assoluta e dicertezza immediata non sono sem-

plicemente false e inammissibili,ma addirittura contraddittorie.

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presupponga una causa, hanno ammessol’esistenza di un io-sostanza come principio causaledi ciò che esso pensa. In realtà, secondo Nietzsche,l’uomo non dispone di alcun indizio che lo assicuridel fatto che a pensare sia realmente l’io o il soggetto, né che lo si debba intendere comesostanza o come causa. Si danno solo pensieri, ma ciò non implica che essi siano causati, unificati

o radicati in qualcosa cui si possa attribuire il nomedi “io”. Qualcosa pensa, dunque… (è solo a questoche si dovrebbe limitare il cogito di Nietzsche!); maquesto qualcosa, se c’è, resta ignoto al pensieroumano, soprattutto se esso pretende di coglierlo invirtù di quella certezza immediata che la filosofiamoderna ha identificato come la principale proprietàdella coscienza.

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nel processo stesso3. Si conclude a questo punto, secondo la consuetudine grammaticale:“Pensare è un’attività, a ogni attività compete qualcuno che sia attivo, di conseguenza…”.Pressappoco secondo uno schema analogo il più antico atomismo cercava, oltre alla “forza”che agisce, anche quel piccolo conglomerato di materia in cui essa risiede, da cui promana lasua azione, l’atomo; cervelli più rigorosi impararono infine a trarsi d’impaccio senza questo“residuo terrestre” e forse un bel giorno ci si abituerà ancora, anche da parte dei logici, acavarsela senza quel piccolo “esso” (nel quale si è volatilizzato l’onesto, vecchio io).

54. Ma che cosa fa, in fondo, l’intera filosofia moderna? Da Descartes in poi – e, per la veri-tà, più per dispetto contro di lui che sulla base del suo esempio – da parte di tutti i filosofi,sotto l’apparenza di una critica al concetto di soggetto e di predicato, si perpetra un attenta-to contro l’antico concetto di anima, – vale a dire: un attentato al presupposto fondamentaledella dottrina cristiana. In quanto scepsi4 gnoseologica, la filosofia moderna è, occultamenteo apertamente, anticristiana: sebbene, sia detto per orecchie più delicate, non sia in alcunmodo antireligiosa. Una volta, infatti, si credeva all’“anima”, come si credeva alla grammati-ca e al soggetto grammaticale: si diceva, “io” è condizione, “penso” è predicato e condiziona-to – il pensare è un’attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercòallora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questarete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario: “penso” condizione, “io” condi-zionato; “io” dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal pensiero stesso. Kant volevadimostrare, in fondo, che partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato – eneppure l’oggetto: pare non gli sia stata sempre ignota la possibilità di una esistenza apparen-te del soggetto, quindi dell’“anima”, quel pensiero cioè che […] già una volta e con unimmenso potere è esistito sulla terra.

3. Con queste affermazioni Nietz -sche sottrae all’io il dominio del pen-sato e, ammettendo l’esistenza di

pensieri a prescindere da una sog-gettività che li pensi, nega l’identitàclassica tra soggetto e coscienza.

4. Cioè: procedimento dubitativo.

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Nietzsche non si limita a descrivere la perdita di certezza e di autoevidenza dell’io moderno: egli intende portare tale perdita all’estremo e indurre un nuovo, inaudito passo del pensiero,dall’io all’oltre-io, dall’uomo al superuomo. Nel brano seguente, tratto da Così parlò Zarathustra(scritto tra il 1883 e il 1885), Nietzsche assume la crisi del soggetto come disprezzo di sé da partedell’uomo, una sorta di disgusto di tutti quei valori

o esperienze fondamentali (la verità, il bene, la felicità) che si presumeva illusoriamentecostituissero degli ideali più grandi dell’uomo stesso,e che invece si rivelano spietatamente piccoli comelui. L’unica grandezza dell’uomo sta invece perNietzsche nel superare sé stesso: non dirigendosiverso qualcosa o qualcuno che stia al di là di esso,ma decidendosi per sé stesso, come una verapotenza, che si rifiuta ad ogni ideale ultraterreno.

Giunto nella città vicina, sita presso le foreste, Zarathustra vi trovò radunata sul mercato unagran massa di popolo: era stata promessa infatti l’esibizione di un funambolo. E Zarathustraparlò così alla folla:

Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto persuperarlo?

Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in que-sta grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo?

Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appuntoha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna.

Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In pas-sato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia.

E il più saggio tra voi non è altro che un’ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forseche diventiate uno spettro o una pianta?

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Ecco, io vi insegno il superuomo!Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della

terra!Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di

sovraterrene speranze!Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio.Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la

terra: possano scomparire!Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono

morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi lacosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra!

In passato l’anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosapiù alta: – essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava, in tal modo, di potersfuggire al corpo e alla terra.

Ma questa anima era anch’essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà diquesta anima!

Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell’anima vostra? Non èforse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere?

Davvero, un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiumeimmondo, senza diventare impuri.

Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro gran-de disprezzo.

Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande disprezzo. L’ora in cuivi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostravirtù.

L’ora in cui diciate: “Che importa la mia felicità! Essa è indigenza e feccia e un miserabilebenessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l’esistenza!”.

L’ora in cui diciate: “Che importa la mia ragione! Forse che essa anela al sapere come illeone al suo cibo? Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere!”.

L’ora in cui diciate: “Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso. Comesono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e benessere misera-bile!”.

L’ora in cui diciate: “Che importa la mia giustizia! Non mi vedo trasformato in braceardente! Ma il giusto è brace ardente!”.

L’ora in cui diciate: “Che importa la mia compassione! Non è forse la compassione la crocecui viene inchiodato chi ama gli uomini? Ma la mia compassione non è crocefissione”.

Avete già parlato così? Avete mai gridato così? Ah, vi avessi già udito gridare così!Non il vostro peccato – la vostra

accontentabilità grida al cielo, la vostraparsimonia nel vostro peccato grida alcielo!

Ma dov’è il fulmine che vi lambiscacon la sua lingua! Dov’è la demenza chedovrebbe esservi inoculata?

Ecco, io vi insegno il superuomo:egli è quel fulmine e quella demenza!

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ra1. Qual è la critica di Nietzsche alla nozione moderna disoggetto?

2. A quali autori fa riferimento nel contesto della sua cri-tica? E con quali argomenti?

3. Che cosa intende Nietzsche quando parla di “supe-ruomo”?

4. Perché l’uomo deve superare sé stesso?

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Al di là delle differenze di impostazione checaratterizzano i diversi sistemi filosofici e purtenendo conto delle dovute eccezioni, si può direche il pensiero moderno ha promosso una nozionedi soggetto essenzialmente o tendenzialmentecoincidente con l’essere-cosciente. Se così è, se cioèl’identità io-coscienza costituisce, in età moderna, ilcuore della soggettività, allora il pensiero di Freudconfigura una delle più radicali contestazioni delsoggetto di cui fino ad allora avevano parlato ifilosofi. L’intero edificio della psicoanalisi si fondainfatti sulla convinzione che l’io non si riduca allasola coscienza: agli occhi di Freud la coscienza èsolo una parte, e neppure la più estesa, della vitapsichica. Quest’ultima infatti include in sé, sotto la

“superficie” dell’io cosciente, un livello preconscio(quanto cioè è stato rimosso dalla coscienza, mapermane latente e sempre in prossimità di divenireconscio) e il vero e proprio inconscio, che Freudchiamerà «Es» (il pronome personale neutro, cheesprime quella passività che sta al fondo di ogni vitapsichica). L’intera opera di Freud è il tentativosempre rinnovato e continuamente approfondito di districare l’involuto mistero della vita psichica:sui temi della coscienza, dell’inconscio e delpreconscio egli torna infatti in quasi tutti i suoiscritti. Leggiamo qui un passo di un’operapubblicata nel 1922, L’Io e l’Es, in cui si trovaesposta in forma sistematica una delle dottrinefondamentali della psicoanalisi.

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Coscienza e inconscioLa distinzione dello psichico in ciò che è cosciente e ciò che è inconscio è il presupposto fon-damentale della psicoanalisi; solo questa distinzione le consente di comprendere e inserire inuna sistemazione scientifica i così frequenti e importanti processi patologici della vita psichica.Per dirlo ancora una volta con altre parole, la psicoanalisi non può far consistere l’essenza dellopsichico nella coscienza, ed è invece indotta a considerare la coscienza come una delle qualitàdello psichico, che può aggiungersi ad altre qualità ma che può anche rimanere assente.

[…] Per la maggior parte di coloro che hanno una formazione filosofica, l’idea di alcun-ché di psichico che non sia anche cosciente è talmente inconcepibile da apparire assurda esuscettibile di esser confutata in base ai puri princìpi della logica. Penso che ciò dipenda dalfatto che costoro non hanno mai studiato i tipici fenomeni dell’ipnosi e del sogno, i quali –anche a prescindere dalla patologia – conducono necessariamente a questa nostra concezio-ne. La psicologia della coscienza che costoro seguono rimane però impotente a risolvere iproblemi del sogno e dell’ipnosi.

“Esser cosciente” è innanzitutto un termine puramente descrittivo, che si richiama allapercezione più immediata e più certa. L’esperienza ci mostra poi che un elemento psichico,per esempio una rappresentazione, non è in genere cosciente in modo durevole. È tipico inve-ce che questo suo esser cosciente scompaia rapidamente; la rappresentazione che ora ècosciente, un momento dopo non lo è più, anche se, in condizioni facilmente ripristinabili,può ridiventarlo. Nel frattempo tale rappresentazione è stata non sappiamo bene che cosa.Possiamo dire che è stata latente, intendendo con ciò che è rimasta in ogni momento capacedi farsi cosciente. Anche se diciamo che è stata inconscia la descrizione è corretta. Questoinconscio coincide allora con il latente o capace di farsi cosciente. I filosofi potrebbero obiet-tare: “No, il termine inconscio non può essere qui adoperato; fintantoché la rappresentazio-ne è rimasta allo stato di latenza, non è stata comunque alcunché di psichico”. E se ci met-tessimo fin d’ora a contraddirli, ci imbarcheremmo in una disputa puramente verbale, dallaquale non si ricaverebbe un bel niente. Tuttavia noi siamo pervenuti al termine, o al concet-to di inconscio, per una via diversa, grazie all’elaborazione di determinate esperienze nellequali entra in giuoco la “dinamica” psichica. Abbiamo imparato, o meglio siamo stati costret-ti ad ammettere, che esistono processi psichici o rappresentazioni molto forti – ecco che vieneintrodotta la considerazione di un fattore quantitativo, e dunque economico –, le quali sonocapaci di produrre nella vita psichica tutti gli effetti delle rappresentazioni comuni (compre-

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Sigmund Freud L’Io, il conscio, l’inconscioL’Io e l’Es, §§ 1-3

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si quegli effetti che a loro volta possono diventare coscienti in qualità di rappresentazioni),pur senza diventare esse stesse coscienti. Non occorre ripetere qui nei particolari quanto è giàstato descritto assai spesso. Basti dire che la teoria psicoanalitica, a questo proposito, affermae sostiene che queste rappresentazioni non possono divenire coscienti perché una certa forzavi si oppone, che esse altrimenti diverrebbero coscienti, e che in tal caso si costaterebbe quan-to poco differiscono da altri elementi psichici riconosciuti come tali. Questa teoria diventaincontestabile per il fatto che nella tecnica psicoanalitica sono stati trovati mezzi grazie aiquali la forza contrastante può essere soppressa e possono essere rese coscienti le rappresen-tazioni in questione. Chiamiamo rimozione lo stato in cui tali rappresentazioni si trovanoprima di diventare coscienti; quanto alla forza che ha prodotto e mantenuto attiva la rimozio-ne, diciamo di avvertirla, durante il lavoro analitico, come una resistenza.

Ricaviamo dunque il nostro concetto di inconscio dalla dottrina della rimozione. Il rimos-so è per noi il modello dell’inconscio. Costatiamo però di avere due specie di inconscio: illatente che è tuttavia capace di divenire cosciente, e il rimosso che in quanto tale e di per sénon è capace di divenire cosciente. Questa nostra visione della dinamica psichica non puònon influenzare la nomenclatura e il modo di descrivere i fatti. Diciamo preconscio ciò che èlatente, e cioè inconscio solo dal punto di vista descrittivo e non in senso dinamico1; riservia-mo invece a ciò che è rimosso e dinamicamente inconscio la denominazione di inconscio2.Abbiamo in tal modo tre termini: cosciente (c), preconscio (prec) e inconscio in senso nonpiù meramente descrittivo (inc). Riteniamo che il Prec sia molto più vicino al C di quanto losia l’Inc; e poiché abbiamo detto psichico l’Inc, a maggior ragione e senza esitare diremo altret-tanto a proposito del Prec latente. […]

Proseguendo nel lavoro analitico si costata però che anche queste distinzioni sono inade-guate e insufficienti dal punto di vista pratico. Fra le situazioni che testimoniano questo fatto,sceglierò la seguente che mi appare decisiva. Ci siamo fatti l’idea che esista nella persona unnucleo organizzato e coerente di processi psichici che chiamiamo l’Io di quella persona. A taleIo è legata la coscienza; esso domina le vie d’accesso alla motilità, ossia alla scarica degli ecci-tamenti nel mondo esterno; l’Io è quell’istanza psichica che esercita un controllo su tutti iprocessi parziali, è l’istanza psichica che di notte va a dormire e che anche allora esercita lacensura onirica. Provengono da questo Io anche le rimozioni mediante le quali alcune ten-denze psichiche non soltanto rimangono escluse dalla coscienza, ma anche dagli altri modidi agire e di farsi valere. Ciò che viene messo da parte mediante la rimozione si contrapponeall’Io durante l’analisi, e compito dell’analisi è eliminare le resistenze che l’Io manifesta aoccuparsi del rimosso. Ora, durante l’analisi ci vien fatto di osservare che l’ammalato al qualeponiamo determinati compiti si trova in difficoltà: le associazioni vengono meno quandodovrebbero avvicinarsi al rimosso. Gli diciamo allora che è dominato da una resistenza; egliperò non ne sa nulla, e anche quando i sentimenti spiacevoli che avverte dovrebbero farglicomprendere che una resistenza sta ora agendo in lui, non sa come chiamarla e descriverla.Dato però che questa resistenza proviene certamente dal suo Io e ad esso pertiene, ci trovia-mo di fronte a una situazione che non avevamo previsto. […] Costatiamo che l’Inc non coin-cide col rimosso; rimane esatto asserire che ogni rimosso è inc, ma non che ogni Inc è rimos-so. Anche una porzione dell’Io, una porzione Dio sa quanto importante dell’Io, può essere, eanzi indubitabilmente è inc. E questo Inc dell’Io non è latente nel senso del Prec, giacché secosì fosse non dovrebbe poter diventare attivo senza farsi c, né il suo farsi cosciente dovreb-be dar luogo a difficoltà cosi grandi3. Costretti quindi a istituire una terza specie di Inc non

1. Il preconscio, cioè, esiste in ma-niera nascosta (latente), ma nonagisce; per poter agire, infatti, devediventare cosciente.2. L’inconscio vero e proprio esistecome rimosso, ma, al tempo stesso,

agisce sulla vita psichica dell’io.3. L’inconscio, dunque, è dinamica-mente presente nell’Io, fa parte diesso: non è semplicemente rimos-so, altrimenti non avrebbe funzionedinamica (cioè non agirebbe come

una forza nell’Io), ma al tempostesso, a differenza del preconscio,non agisce diventando cosciente,bensí restando inconscio. In altreparole, l’Io è insieme conscio e in-conscio.

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rimosso, dobbiamo riconoscere che il carattere dell’essere inconscio viene a perdere per noiin significato. Si riduce a una qualità plurivoca che non consente di trarre quelle ampie e rigo-rose conclusioni per le quali avremmo voluto utilizzarlo. D’altronde dobbiamo anche guar-darci dal trascurare questo carattere, posto che alla fin fine la proprietà dell’essere o nocosciente rappresenta l’unico faro nella tenebra della psicologia del profondo.

L’Io e l’EsLa ricerca in campo patologico ha fatto sì che il nostro interesse si rivolgesse in modo trop-po esclusivo al rimosso. Ora che sappiamo che anche l’Io può essere inconscio nel vero sensodella parola, vorremmo conoscerlo meglio. Nel corso delle nostre indagini l’unico punto diriferimento è stato fino ad ora il contrassegno dell’essere cosciente o inconscio; ma abbiamoveduto come tale indicazione possa assumere più di un significato.

Va detto che tutto il nostro sapere è invariabilmente legato alla coscienza. Anche l’Inc pos-siamo imparare a conoscerlo solo rendendolo cosciente. Un momento: ma come è possibilequesto? Che cosa significa “rendere cosciente qualche cosa”? Com’è che ciò può avvenire?

Sappiamo già da dove dobbiamo partire. Abbiamo detto che la coscienza costituisce lasuperficie dell’apparato psichico; l’abbiamo cioè attribuita, in quanto funzione, a un sistemaspazialmente collocato al primo posto, se si procede dal mondo esterno. Spazialmente nonsolo in senso funzionale, del resto, ma questa volta anche nel senso della dissezione anatomi-ca. Anche la presente indagine deve partire da questa superficie percipiente.

Innanzitutto sono c [conscie] tutte le percezioni: quelle che ci giungono dall’esterno (le per-cezioni sensoriali) e quelle che provengono dall’interno, e che chiamiamo sensazioni e senti-menti. Come stanno però le cose con quei processi interni che – in modo rozzo e impreciso –possiamo indicare globalmente come processi di pensiero? Essi si producono in qualche luogoall’interno dell’apparato come spostamenti di energia psichica sulla via dell’azione. Orbenesono questi processi ad affacciarsi alla superficie dove si origina la coscienza? Oppure è lacoscienza che giunge fino ad essi? È qui visibile una delle difficoltà che si incontrano quandosi voglia prendere sul serio la rappresentazione spaziale, topica, dell’accadere psichico.Entrambe le possibilità sono ugualmente inconcepibili, e dev’esserci una terza soluzione. […]

Mi sembra che si possa trarre un gran vantaggio seguendo il suggerimento di un autore ilquale, per motivi personali, si ostina invano a dichiarare di non avere nulla a che fare con lascienza, intesa nel suo significato più rigoroso ed elevato. Mi riferisco a Georg Groddeck4, ilquale ripetutamente insiste nel concetto che ciò che chiamiamo il nostro Io si comporta nellavita in modo essenzialmente passivo, e che – per usare la sua espressione – noi veniamo “vis-suti” da forze ignote ed incontrollabili.

Abbiamo tutti provato tali impressioni, anche se esse non ci hanno sopraffatto al punto difarci escludere tutto il resto. Noi speriamo di trovare nel contesto della scienza il posto checompete alla concezione di Groddeck. Propongo di tenerne conto chiamando “l’Io” quell’en-tità che scaturisce dal sistema p [= percezione] e comincia col diventare prec; ma di chiamarel’altro elemento psichico in cui l’Io si continua e che si comporta in maniera inc, l’“Es” nelsenso di Groddeck. […] Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio,sul quale poggia nello strato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P come da un nucleo.

4. Georg Groddeck (1866-1934) eraun medico tedesco celebre per i

suoi studi sull’inconscio e per l’ap-plicazione della psicoanalisi alla

cura delle malattie cosiddette psi-cosomatiche.

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Il rapporto tra l’Io e l’Es non spiega secondo Freudsoltanto l’azione dell’inconscio nella storia di ogni io psichico, ma anche la formazione di quell’istanzaideale all’interno della vita del soggetto psichico che egli denomina «Super-Io». Esso consiste

nell’introiezione e nell’assimilazione, come precettomorale, di quel “complesso edipico” che ciascunoattraversa nella sua infanzia, ovvero del divieto,rappresentato dal padre, di unirsi sessualmente con la propria madre.

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L’Io e il Super-Io (ideale dell’Io)È stato mosso infinite volte alla psicoanalisi il rimprovero di non curarsi di ciò che nell’uo-mo vi è di più alto, di morale, di superiore alla persona singola. […] Ora, giacché ci stiamoavventurando nell’analisi dell’Io, possiamo rispondere così a tutti coloro i quali – scossi nellaloro coscienza etica – hanno protestato che deve pur trovarsi nell’uomo qualche cosa di supe-riore: “Certo che c’è. E questo qualche cosa è l’essere superiore, l’ideale dell’Io, o Super-io, ilrappresentante del nostro rapporto con i genitori. Da bambini piccoli abbiamo conosciuto,ammirato e temuto questi esseri superiori, e più tardi li abbiamo assunti dentro di noi”.

L’ideale dell’Io è dunque l’erede del complesso edipico, e costituisce pertanto l’espressionedei più potenti impulsi e degli sviluppi libidici più importanti dell’Es. Mediante la costituzio-ne di tale ideale, l’Io è riuscito a padroneggiare il complesso edipico, e nello stesso tempo siè sottomesso all’Es. Mentre l’Io è essenzialmente il rappresentante del mondo esterno, dellarealtà, il Super-io gli si erge contro come avvocato del mondo interiore, dell’Es. I conflitti fral’Io e l’ideale – ora siamo preparati a questo – rispecchieranno, in ultima analisi, il contrastofra reale e psichico, fra mondo esterno e mondo interiore.

Ciò che la biologia e le vicende della specie umana hanno creato e depositato nell’Es,viene, attraverso la formazione dell’ideale, assunto dall’Io e individualmente rivissuto peresso. L’ideale dell’Io, per le vicende che hanno condotto alla sua formazione, si riallaccia sottomolteplici aspetti alle acquisizioni filogenetiche, e cioè all’eredità arcaica dell’individuo sin-golo5. Ciò che ha appartenuto alladimensione più profonda della vita psi-chica individuale, si trasforma, median-te la formazione dell’ideale, in quelliche noi riteniamo i valori più alti dellospirito umano.

5. La “filogenesi” indica l’evoluzione della specieumana nel corso della storia, mentre l’evoluzionedel singolo individuo è chiamata “ontogenesi”.

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ra1. In che modo Freud descrive il rapporto tra vita psichi-ca e coscienza?

2. In che rapporto stanno il preconscio e l’inconscio conl’Io?

3. Qual è la “natura” dell’Es?

4. Che rapporto sussiste tra Io, Es e Super-io?

5. Come si formano gli ideali morali nella vita psichica delsoggetto umano?

6. Che cosa lega il complesso edipico e i valori più alti del-lo spirito umano?

Il tentativo più importante di riaffermare lacentralità del soggetto umano come coscienzarazionale è senza dubbio quello compiuto all’iniziodel Novecento da Edmund Husserl. Non si tratta diun puro e semplice ritorno alla visione dell’io comesostanza pensante o come attività trascendentale,bensì di una rivisitazione di quelle prospettiveaperte in filosofia da Descartes e da Kant, seguendoperò un filo conduttore diverso, vale a dire il carattere “intenzionale” dei vissuti dell’io. Il soggetto è sempre in rapporto costitutivo concose che sono altro da sé, ma il significato di questecose può emergere in carne ed ossa, cioè nella loro

datità originaria, solo nell’intenzione dell’io, graziealla quale emerge l’essenza della realtà. Da un lato,dunque, Husserl afferma che le cose vanno intesecosì come si danno in sé stesse, purificate e liberateda tutti i pregiudizi che provengono del soggettoconoscente; ma, dall’altro lato, è solo nellacoscienza pura dell’io che tale oggettività divienepossibile, appunto perché l’io non è nulla di“psicologico” (cioè non è un ente di tiponaturalistico, come appunto sarebbe il nostromeccanismo mentale e cerebrale), ma è una sferad’essere originaria e assoluta. Così, nel I libro delleIdee per una fenomenologia pura e per una filosofia

T4 Edmund Husserl La coscienza come essere assolutoIdee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro I, § 49

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La coscienza assoluta come residuo dell’annientamento del mondoL’esistenza di un mondo è il correlato di determinate varietà d’esperienza, che si distinguonoin virtù di certe strutture essenziali. Ma non è affatto cosa evidente che le attuali esperienzepossano decorrere soltanto conformemente a forme di connessione; ciò non può essere desun-to puramente dall’essenza della percezione in generale e dalle altre specie di esperienze intui-tive che cooperano alla percezione. Si può al contrario certamente pensare che l’esperienza, acausa dei conflitti, si dissolva in parvenza, e non soltanto in casi singoli; si può pensare cheogni parvenza, a differenza di come di fatto avviene, non annunci una verità più profonda eche ogni conflitto non dia luogo, grazie a nessi più comprensivi, al mantenimento della com-plessiva concordanza dell’esperienza; si può anche pensare che nell’esperire brulichino con-flitti insanabili non solo per noi, ma insanabili in sé stessi, che l’esperienza si mostri all’im-provviso riluttante di fronte alla nostra pretesa di conservare la concordanza tra le sue posi-zioni di cose, che la sua connessione perda le regole fisse che ordinano gli adombramenti, leapprensioni, le manifestazioni – che non ci sia più un mondo. Al suo posto potrebbero costi-tuirsi delle rudimentali formazioni unitarie, effimeri punti d’arresto di intuizioni che sareb-bero meri analoga delle intuizioni delle cose, poiché sarebbero del tutto inette a costituiredelle “realtà” stabili, delle unità durevoli, che “esistano in sé siano o non siano percepite”.

Se […] pensiamo […] alla possibilità del non essere, inclusa nell’essenza di ogni trascen-denza di cosa, diviene evidente che l’essere della coscienza, di ogni corrente di vissuti in gene-rale, verrebbe sì necessariamente modificato da un annientamento del mondo delle cose, ma nonne sarebbe toccato nella sua propria esistenza. Sarebbe senza dubbio modificato. Infatti dalpunto di vista correlativo della coscienza, l’annientamento del mondo non significa altro cheda ogni corrente di vissuti (dalla corrente complessiva dei vissuti di un io, presa nella suatotalità, cioè bilateralmente infinita) verrebbero escluse certe ordinate connessioni d’espe-rienza e corrispondentemente le connessioni istituite della ragione teorizzante orientata con-formemente a queste concatenazioni di esperienza. Invece questa reclusione non impliche-rebbe quella di altri vissuti e altre connessioni di vissuti. Dunque nessun essere reale, tale cioèche si presenti e si esibisca coscienzialmente mediante manifestazioni, è necessario all’esseredella coscienza stessa (nel senso amplissimo di corrente di vissuti).

L’essere immanente è dunque indubitabilmente essere assoluto nel senso che per principio nulla“re” indiget ad existendum1.

D’altra parte, il mondo della res trascendente è interamente riferito alla coscienza. Ma non auna coscienza concepita logicamente, bensì ad una coscienza attuale.

[…]Noi dunque vediamo che la coscienza (il vissuto) e l’essere reale non sono affatto modi di

essere posti sul medesimo piano, che stiano pacificamente l’uno accanto all’altro e all’occasio-ne “entrino in rapporti” o addirittura “si intreccino” l’uno con l’altro. A rigore possono intrec-ciarsi e formare un intero solo esseri che siano affini per essenza, e di cui sia l’uno che l’altroabbiano una propria essenza nel medesimo senso. Ora, anche se l’essere immanente o assolu-to e quello trascendente vengono entrambi detti “esistenti” e “oggetti”, e anche se entrambihanno, quale statuto, la loro determinazione oggettuale, è evidente che quello che in entram-

1. L’essere assoluto della coscienza è tale che essa non ha bisogno di nessun’altra “cosa” per esistere.

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fenomenologica (1913), da cui è tratto il brano che segue, si arriva alla conclusione paradossaleche quand’anche pensassimo il mondo come nonesistente (giacché il mondo non è semplicementeciò che si trova al di fuori di noi, ma il correlato delle nostre esperienze vissute), non potremotuttavia mai pensare la coscienza se non come

assolutamente esistente. Essa infatti è ciò chenecessariamente rimane (il “residuo”) una volta che si sia per ipotesi sospesa ogni altra conoscenzanaturale del mondo. La coscienza di cui parlaHusserl non è dunque sottratta alla crisi delsoggetto, ma al contrario l’assume dentro di sé e si afferma proprio in virtù di quella crisi.

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2. «Adombramenti» sono chiamati i molteplicimodi in cui una cosa appare manifestandosi neisuoi diversi lati e nelle sue diverse prospettive al-la coscienza.

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bi i casi si dice oggetto e determinazione oggettuale, riceve la medesima denominazione sol-tanto secondo le vuote categorie logiche. Quanto al senso, tra coscienza e realtà si spalanca unvero abisso. Da una parte vi è un essere che si adombra, che non può mai darsi assolutamen-te, che è meramente contingente e relativo alla coscienza; dall’altra parte un essere necessarioe assoluto, che per principio non si dà attraverso adombramenti2 e manifestazioni.

Diviene quindi chiaro che, nonostante quando si parla di un essere reale dell’io umano edei suoi vissuti di coscienza nel mondo e di tutto ciò che rientra nei suoi rapporti “psicofisi-ci” si formulino senza dubbio delle affermazioni nel loro senso ben fondate, la coscienza, con-siderata nella sua “purezza”, deve essere considerata una connessione d’essere chiusa in sé stes-sa, una connessione di assoluto essere, in cui niente può penetrare e da cui niente può sfuggi-re; e che non ha alcun fuori spazio-temporale, né può essere all’interno di alcuna connessio-ne spazio-temporale, come non può esercitare o subire alcuna azione causale in relazione anessuna cosa – premesso, che per causalità s’intenda la causalità naturale nel senso normale,quale cioè una relazione di dipendenza tra realtà.

D’altra parte, l’intero mondo spazio-temporale, al quale l’uomo e l’io umano appartengonocome singole realtà subordinate, è secondo il suo senso un essere meramente intenzionale, quin-di tale da avere il senso, meramente secondario e relativo, di un essere per una coscienza. [Èun essere, che la coscienza pone nelle sue esperienze], che può per principio essere intuito edeterminato come ciò che permane identico nella molteplicità delle manifestazioni motivate,ma che, all’infuori di questa identità è un nulla.

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ra1. In che cosa consiste l’esistenza di un mondo e in chesenso essa può anche essere annientata?

2. Che cosa permette di considerare la coscienza un es-sere assoluto?

3. In che senso la coscienza è un essere immanente?

Anche Heidegger ha intrapreso la via dellafenomenologia, ma essa l’ha portato – a differenzadel suo maestro Husserl – a scardinare il primatodell’io come coscienza e a reinterpretareradicalmente l’essere del “soggetto” umano comeciò che per sua stessa natura differisce dallasoggettività: una vera e propria fuoriuscita (ex-sistentia) dal soggetto, vale a dire l’“esserci”.Questo nome indica l’uomo, ma non consideratocome un semplice ente tra enti, bensì come l’enteche ha un rapporto con il proprio essere e con il senso dell’essere in generale. Ciò che costituisce il primato dell’esserci non è più dunque l’attivitàdella sua coscienza pura nei confronti del mondo: al contrario, è il proprio essere nel mondo ciò checontraddistingue il suo essere; ma essere nel

mondo non vuol dire essere collocato in uncontenitore o in un contesto, bensì comprenderel’essere di tutti gli enti che si incontrano nel mondo.La comprensione dell’essere non è innanzituttoun’attività teorica o riflessiva dell’uomo, macoincide con il suo stesso modo di esistere. Tutto qui si gioca dunque a livello “ontologico”: ogni conoscenza degli oggetti richiede unapreliminare comprensione dell’essere di queglioggetti e va “fondata” su di essa; ma una talecomprensione è il modo d’essere dell’esserci, e quindi solo un’“analitica esistenziale” (cioè un’interpretazione dell’esistenza come modod’essere dell’uomo) potrà fornire un’“ontologiafondamentale”, cioè la comprensione tematica delsenso dell’essere dell’uomo e di tutti gli altri enti.

T5 Martin Heidegger L’uomo come esserciEssere e tempo, §§ 4 e 9; Lettera sull’“umanismo”

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Il primato ontico del problema dell’essereIn quanto comportamenti dell’uomo le scienze hanno il modo di essere di questo ente (l’uo-mo). Esso è da noi designato col termine Esserci. La ricerca scientifica non è né l’unico né ilpiù immediato dei modi possibili di essere di questo ente. L’Esserci è inoltre distinto dagli altrienti. È opportuno chiarire provvisoriamente questa distinzione […].

L’Esserci non è soltanto un ente che si presenta fra altri enti. Onticamente, esso è caratterizzato piuttosto dal fatto che, per questo ente, nel suo essere,

ne va di questo essere stesso. La costituzione d’essere dell’Esserci implica allora che l’Esserci,nel suo essere, abbia una relazione d’essere col proprio essere. Il che, di nuovo, significa:l’Esserci, in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere. È pro-prio di questo ente che, col suo essere e mediante il suo essere, questo essere è aperto ad esso.La comprensione dell’essere è essa stessa una determinazione d’essere dell’Esserci. La peculiaritàontica dell’Esserci sta nel suo esser-ontologico.

[…] L’essere stesso verso cui l’Esserci può comportarsi in un modo o nell’altro e verso cuisempre in qualche modo si comporta, noi lo chiamiamo esistenza. E poiché la determinazio-ne dell’essenza di questo ente non può avere luogo mediante l’indicazione della quiddità diun contenuto reale, e la sua essenza consiste piuttosto nell’aver sempre da essere il suo esse-re in quanto suo, è stato scelto il termine Esserci, quale pura espressione d’essere, per desi-gnare questo ente.

L’Esserci comprende sempre sé stesso in base alla sua esistenza, cioè in base a una possi-bilità che ha di essere o non essere sé stesso. Queste possibilità l’Esserci o le ha scelte da sé oè incappato in esse o è cresciuto già da sempre in esse. L’esistenza è decisa, nel senso del pos-sesso o dello smarrimento, esclusivamente da ogni singolo Esserci. Il problema dell’esisten-za, in ogni caso, non può esser posto in chiaro che nell’esistere stesso. La comprensione di séstesso che fa qui da guida noi la chiamiamo esistentiva1. Il problema dell’esistenza è un “affa-re” ontico dell’Esserci. A tal fine non si richiede la trasparenza teoretica della struttura onto-logica dell’esistenza. Il problema intorno ad essa mira invece a esplicare ciò che costituiscel’esistenza. All’insieme di queste strutture diamo il nome di esistenzialità. L’analitica di essanon ha il carattere di una comprensione esistentiva, ma quello di una comprensione esisten-ziale. Il compito di un’analitica esistenziale dell’Esserci è predelineato, quanto alla possibili-tà e alla sua necessità, nella costituzione ontica dell’Esserci.

In quanto però l’esistenza determina l’Esserci, l’analitica ontologica di questo ente richie-de già sempre una considerazione preliminare dell’esistenzialità. Ma questa è da noi intesacome la costituzione d’essere dell’ente che esiste. Sennonché, nell’idea di una costituzioned’essere di questo genere si trova già l’idea dell’essere. Di conseguenza, anche la possibilità disvolgere l’analitica dell’Esserci viene a dipendere dalla elaborazione preliminare del problemadel senso dell’essere in generale.

Le scienze sono modi di essere dell’Esserci nei quali l’Esserci si rapporta anche all’ente dif-forme da esso. Ma all’Esserci appartiene in linea essenziale l’essere in un mondo. La compren-sione dell’essere, propria dell’Esserci, concerne perciò cooriginariamente la comprensione diqualcosa come “il mondo” e la comprensione dell’essere dell’ente accessibile nel mondo. Leontologie il cui tema è costituito dall’ente fornito di un carattere d’essere difforme da quellodell’Esserci sono dunque fondate e motivate nella struttura ontica dell’Esserci, la quale portacon sé una comprensione preontologica dell’essere.

1. La comprensione “esistentiva” è quella che l’esserci ha del proprio essere nella vita quotidiana, e cioè senzaun’esplicita tematizzazione teoretica; quest’ultima invece prende il nome di comprensione “esistenziale”.

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Come Heidegger afferma in due celebri paragrafi diEssere e tempo (1927), il problema dell’essere variproposto in filosofia come problema dell’esistenza,

perché l’uomo – l’esserci – è quell’ente che pone e prima ancora comporta in sé il problemadell’essere.

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Perciò l’ontologia fondamentale, da cui soltanto tutte le altre possono scaturire, deve essercercata nell’analitica esistenziale dell’Esserci.

L’Esserci ha dunque un primato in vari sensi rispetto a ogni altro ente. In primo luogo haun primato ontico: questo ente è determinato nel suo essere dall’esistenza. In secondo luogoha un primato ontologico: per il suo esser-determinato dall’esistenza l’Esserci è in sé “ontolo-gico”. Ma all’Esserci appartiene anche cooriginariamente, quale costitutivo della comprensio-ne dell’esistenza, una comprensione dell’essere di ogni ente non conforme all’Esserci.L’Esserci ha pertanto un terzo primato in quanto esso è la condizione ontico-ontologica dellapossibilità di ogni ontologia. L’Esserci si è dunque rivelato come l’ente che, prima di ognialtro, dev’essere interrogato ontologicamente.

Ma l’analitica esistenziale, da parte sua, ha in ultima analisi radici esistentive, cioè ontiche.Soltanto nel caso che l’indagine propria della ricerca filosofica stessa venga esistentivamenteafferrata come una possibilità di essere dell’Esserci di volta in volta esistente, sussiste la pos-sibilità di dischiudere l’esistenzialità dell’esistenza e, con ciò, la possibilità di affrontare unaproblematica ontologica sufficientemente fondata. Ma così è anche chiarito il primato onticodel problema dell’essere.

Il tema dell’analitica dell’EsserciL’ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi sempre siamo. L’esseredi questo ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente stesso si rapportaal proprio essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere. L’essere èciò di cui ne va sempre per questo ente. Da questa caratterizzazione dell’Esserci derivano dueordini di conseguenze:

1. L’“essenza” di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questoente, se mai si possa parlare di essa, dev’essere intesa a partire dal suo essere (existentia). Mail compito ontologico è proprio quello di mostrare che, se noi scegliamo per l’essere di que-sto ente la designazione di esistenza, questo termine non ha e non può avere il significatoontologico del termine tradizionale existentia. Esistenza significa, per l’ontologia tradiziona-le, qualcosa come la semplice-presenza, modo di essere, questo, essenzialmente estraneo a unente che ha il carattere dell’Esserci. A scanso di equivoci: per dire existentia useremo semprel’espressione interpretativa semplice-presenza, mentre attribuiremo l’esistenza, come determi-nazione d’essere, esclusivamente all’Esserci. L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. Icaratteri evidenziabili di questo ente non sono quindi “proprietà” semplicemente-presenti diun ente semplicemente-presente, “avente l’aspetto” di essere così o così, ma sono sempre esoltanto possibili maniere di essere dell’Esserci, e null’altro. Ogni esser-così, proprio di que-sto ente, è primariamente essere. Perciò il termine “Esserci”, con cui indichiamo tale ente,esprime l’essere e non il che-cosa, come quando si dice pane, casa, albero.

2. L’Essere di cui ne va per questo ente nel suo essere, è sempre mio. L’Esserci non è per-ciò da intendersi ontologicamente come un caso o un esemplare di un genere dell’ente inte-so come semplice-presenza. Per l’ente così inteso il suo essere è “indifferente” o, meglio anco-ra, “è” tale che a esso il suo essere non può risultare né indifferente né non indifferente. Ildiscorso rivolto all’Esserci deve, in conformità alla struttura dell’esser-sempre-mio, propria diquesto ente, far ricorso costantemente al pronome personale: “io sono”, “tu sei”.

E di nuovo l’Esserci è sempre mio in questa o quella maniera di essere. L’Esserci ha giàsempre in qualche modo deciso in quale maniera sia sempre mio. L’ente a cui nel suo esserene va di questo essere stesso, si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria.L’Esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’“ha” semplicemente a titolo di proprietàposseduta come una semplice-presenza. Appunto perché l’Esserci è essenzialmente sempre lasua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi enon conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”. Ma esso può aver perso séstesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità del-

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l’autenticità, cioè dell’appropriazione di sé. Autenticità e inautenticità – queste espressionisono state scelte nel loro senso terminologico stretto – sono modi di essere che si fondano nelfatto che l’Esserci è determinato, in linea generale, dall’esser-sempre-mio. L’inautenticitàdell’Esserci non importa però un “minor” essere o un grado “inferiore” di essere.L’inautenticità può invece determinare l’Esserci, secondo la sua forma concreta più piena,nella sua operosità e vivacità, e nella sua capacità di interessarsi e di godere.

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Negli anni successivi a Essere e tempo, Heideggerripensa a fondo l’esistenza dell’uomo, e senell’opera del 1927 l’esserci era inteso come unprogetto (cioè la comprensione dell’essere) sempreirrimediabilmente gettato (perché la possibilità piùpropria dell’esserci è l’impossibilità ad essere comeun ente tra enti), nella Lettera sull’“umanismo”(1947) l’esistenza viene reinterpretata come“gettata” dall’essere stesso. L’uomo è colui cheabita in una “radura”, nella quale egli ha cura –

come fa un pastore – dell’essere stesso, cioè dellaverità enigmatica di ciò che fa essere gli enti masarà sempre differente da essi. E se la concezionetradizionale dell’uomo come “animale dotato di ragione” e come “soggetto” si basa sullametafisica (intesa da Heidegger come dimenticanza dell’essere a favore dell’ente), questo pensierooltre-metafisico intende invece l’uomo come colui che esiste in quanto appellato dall’essere stesso.

Umanismo e metafisicaLei mi chiede: Comment redonner un sens au mot “Humanisme”? La domanda nasce dall’inten-zione di mantenere la parola “umanismo”. Io mi chiedo se ciò sia necessario. O non è anco-ra abbastanza evidente il male che recano tutte le denominazioni di questo genere? […]

Ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone sé stesso a fondamento di una meta-fisica del genere. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppo-ne, sapendolo o non sapendolo, l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della veri-tà dell’essere. Per questo, se consideriamo il modo in cui viene determinata l’essenza dell’uo-mo, appare che il tratto specifico di ogni metafisica è nel suo essere “umanistica”.

Pertanto ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’uma-nismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, maimpedisce persino che si ponga una simile questione, perché, a causa della sua provenienzametafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende. Viceversa, la necessità e la formapropria della questione della verità dell’essere, obliata nella metafisica e proprio a causa dellametafisica, possono venire alla luce solo quando, nel pieno dominio della metafisica, vieneposta la domanda: “Che cos’è metafisica?”. Anzi, ogni domandare dell’“essere”, così comeogni domandare della verità dell’ essere, deve essere introdotto come un domandare “metafi-sico”.

Il primo umanismo, cioè quello romano, e tutte le altre forme di umanismo che si sono viavia affermate fino ad oggi, presuppongono come evidente l’“essenza” universale dell’uomo.

L’uomo è considerato come animal rationale. Questa determinazione non è solo la tradu-zione latina del greco zòon lògon èkon ma è un’interpretazione metafisica. Questa determina-zione dell’essenza dell’uomo non è falsa, ma è condizionata dalla metafisica. Tuttavia è la suaprovenienza essenziale, e non solo i suoi limiti, che in Essere e tempo è divenuto degno diessere messo in questione. Ciò che è degno d’esser messo in questione non è abbandonatoall’azione dissolvente di uno scetticismo vuoto, ma è affidato al pensiero come ciò che essoha da pensare come proprio.

È vero che la metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e pensa così anche l’essere dell’en-te. Ma essa non pensa l’essere come tale, non pensa la differenza tra l’essere e l’ente. La metafi-sica non si interroga sulla verità dell’essere stesso. Perciò, essa non si chiede neppure mai in chemodo l’essenza dell’uomo appartenga alla verità dell’essere. Non solo la metafisica non ha anco-ra posto finora questo problema, ma questo problema è inaccessibile alla metafisica in quantometafisica. L’essere attende ancora di divenire esso stesso degno per l’uomo di essere pensato.

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La metafisica si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l’uomo si dispiega nellasua essenza solo in quanto è chiamato dall’essere. Solo a partire da questo reclamo, l’uomo“ha” trovato dove la sua essenza abita. Solo a partire da questo abitare egli “ha” il “linguag-gio” come dimora che conserva alla sua essenza il carattere estatico. Lo stare nella radura del-l’essere, lo chiamo e-sistenza dell’uomo. Solo all’uomo appartiene un tal modo d’essere. L’ e-sistenza così intesa non è solo il fondamento della possibilità della ragione, ma è ciò in cuil’essenza dell’uomo conserva la provenienza della sua determinazione.

Ma l’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di più del mero uomo come celo si rappresenta quando lo si intende come un essere vivente fornito di ragione. Qui il “più”non lo si deve intendere come un’aggiunta, come se la tradizionale definizione dell’uomodovesse restare la determinazione fondamentale, per poi subire un’amplificazione attraversol’aggiunta del carattere esistenziale. Il “più” significa: più originario e quindi più essenzialenella sua essenza. Ma qui compare l’enigma: l’uomo è nella condizione dell’essere-gettato. Ciòsignifica che l’uomo, come e-sistente controgetto dell’essere è più che animal rationale, proprioin quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. L’uomo nonè il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo “meno” l’uomo non perde nulla,anzi ci guadagna, in quanto pervienealla verità dell’essere. Guadagna l’essen-ziale povertà del pastore, la cui dignitàconsiste nell’esser chiamato dall’esserestesso a custodia della sua verità. Questachiamata viene con il getto da cui scatu-risce l’essere-gettato dell’esser-ci. L’uomo,nella sua essenza secondo la storia del-l’essere, è quell’ente il cui essere, inquanto e-sistenza, consiste nell’abitarenella vicinanza dell’essere. L’uomo è ilvicino dell’essere.

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ra1. Che cosa distingue l’esserci dagli enti intramondani?

2. Che differenza intercorre tra l’existentia della tradizio-ne e l’esistenza di cui parla Heidegger?

3. In che senso l’analitica esistenziale costituisce un’on-tologia fondamentale?

4. Perché Heidegger connette umanismo e metafisica?

5. Perché è insufficiente considerare l’uomo come “ani-male dotato di ragione”?

6. Qual è il significato dell’espressione «pastore dell’es-sere» come caratterizzazione dell’uomo?

Tutta la storia della filosofia, secondo Lévinas, è caratterizzata dall’imperialismo del Medesimo,padrone e gestore di una totalità in cui l’alterità,nella forma del dominio politico o dellaconcettualizzazione, è riassorbita nell’ipseità del Medesimo. Per Lévinas, al contrario, la filosofiadell’alterità, genuinamente intesa, non può checonsistere in un’apertura incondizionata all’“Altro” –un’apertura in cui l’altro non è sottomesso né al potere, né alla rappresentazione delMedesimo, ma si rapporta con il Medesimo senzaperdere nulla della sua radicale alterità. Il modello oil paradigma di questa nuova impostazione è il

rapporto tra finito e infinito, come emerge da unacelebre interpretazione della prova cartesianadell’esistenza di Dio contenuta in Totalità e infinito(1961): l’idea dell’infinito si pone rispetto all’iocome un’istanza irriducibile, come il termine di unrapporto che non è mai né può mai essere totalizzante. L’infinitoeccede l’io, ma proprio in virtù di questo suoeccesso annulla il dominio totalizzante delMedesimo e si propone come modello per pensarequalunque rapporto con l’Altro. Concepire ogniforma di alterità secondo il modello del rapporto tra finito e infinito è il solo modo, secondo Lévinas,

T6 Emmanuel Lévinas L’io come relazione etica con AltriTotalità e infinito, §§ 4 e 5; Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cap. 4, § 4

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La metafisica precede l’ontologiaLa filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro alMedesimo, in forza dell’interposizione di un termine medio e neutro che garantisce l’intel-ligenza dell’essere.

Questo primato del Medesimo ha costituito la lezione di Socrate. Non ricevere nulla daAltri se non ciò che è in me, come se, da sempre, io possedessi ciò che mi viene dal di fuori1.Non ricevere nulla o essere libero. La libertà non assomiglia alla capricciosa spontaneità dellibero arbitrio. Il suo senso ultimo dipende da questa permanenza nel Medesimo, che èRagione. La conoscenza è il dispiegarsi di questa identità. È libertà. E che la ragione sia in findei conti la manifestazione di una libertà, che neutralizza l’altro e lo ingloba, è fatto che nonpuò sorprendere, poiché fu detto che la ragione sovrana conosce solo sé stessa e che nient’al-tro la limita. La neutralizzazione dell’Altro, che diventa tema od oggetto – che appare, cioè,che si pone in trasparenza – è appunto la sua riduzione al Medesimo. Conoscere ontologica-mente significa sorprendere nell’ente affrontato ciò per cui non è questo ente, questo stranie-ro, ma ciò per cui si tradisce in qualche modo, si consegna, si dà all’orizzonte nel quale siperde e appare, dà presa, diventa concetto. Conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere apartire da niente o a ridurlo a niente, privarlo della sua alterità […]2 .

Per quanto riguarda le cose la loro resa si attua nella concettualizzazione. Per quantoriguarda l’uomo essa può essere ottenuta dal terrore che fa cadere un uomo libero sotto ildominio di un altro. Per le cose, l’opera dell’ontologia consiste nel cogliere l’individuo (chesolo esiste) non nella sua individualità, ma nella sua generalità (la sola di cui ci sia scienza).La relazione con l’Altro si attua soltanto attraverso un terzo termine che io trovo in me.L’ideale della verità socratica si fonda dunque sull’essenziale sufficienza del Medesimo, sullasua identificazione di ipseità, sul suo egoismo. La filosofia è un’egologia […].

La relazione con l’essere, che si esplica come ontologia, consiste nel neutralizzare l’enteper comprenderlo o per impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quantotale, ma la riduzione dell’Altro al Medesimo. Questa è la definizione della libertà: mantener-si contro l’altro, malgrado ogni relazione con l’altro, garantire l’autarchia di un io. La tema-tizzazione e la concettualizzazione, per altro inseparabili, non sono il raggiungimento dellapace con l’Altro, ma soppressione o possesso dell’Altro. Il possesso, infatti, afferma l’Altro, maall’interno di una negazione della sua indipendenza. “Io penso” equivale a “io posso” – ad unaappropriazione di ciò che è, ad uno sfruttamento della realtà. L’ontologia come filosofia primaè una filosofia della potenza […].

Si devono invertire i termini. Per la tradizione filosofica, i conflitti tra il Medesimo e l’Altrosi risolvono con la teoria nella quale l’Altro si riduce al Medesimo o, concretamente, con lacomunità dello Stato nella quale sotto il potere anonimo, anche se intelligibile, l’Io ritrova laguerra nell’oppressione tirannica che subisce da parte della totalità. L’etica in cui il Medesimotiene conto dell’irriducibile Altro, dipenderebbe dall’opinione. Lo sforzo di questo libro tendea cogliere nel discorso una relazione non allergica con l’alterità, a cogliervi il Desiderio – nelquale il potere, per essenza, assassino dell’Altro, diventa, di fronte all’Altro e “contro ognibuon senso”, impossibilità di assassinio, considerazione dell’Altro o giustizia. Il nostro sfor-zo consiste concretamente nel mantenere, nella comunità anonima, la società di Me con Altri

1. Lévinas fa qui riferimento all’artemaieutica di Socrate.2. La scienza dell’essere, nella sua

totalità, è per Lévinas una delle mo-dalità storiche con cui il Medesimoha potuto inglobare l’alterità, tota-

lizzarla, sottoporla al gioco dellarappresentazione oggettiva.

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per sfuggire alla deriva dell’ontologia: sottratto aldominio della rappresentazione e della riduzionetotalizzante, l’Altro vi si manifesta come volto, cioè

secondo una modalità che rende sì possibile la relazione, ma al tempo stesso esclude che questarelazione si definisca nella forma del dominio.

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– linguaggio e bontà. Questa relazione non è prefilosofica, infatti non violenta l’io, non gli èimposta brutalmente dall’esterno, suo malgrado, o a sua insaputa come un’opinione; più esat-tamente gli è imposta, al di là di qualsiasi violenza, con una violenza che lo mette interamen-te in questione. Il rapporto etico, opposto alla filosofia prima dell’identificazione della liber-tà e del potere, non è contro la verità, va verso l’essere nella sua esteriorità assoluta e metteproprio in atto l’intenzione che anima il cammino verso la verità […].

La trascendenza come idea dell’InfinitoQuesta relazione del Medesimo con l’Altro, senza che la trascendenza della relazione tronchii legami implicati da una relazione, ma senza che questi legami uniscano in un tutto ilMedesimo e l’Altro, è fissata, di fatto, nella situazione descritta da Cartesio nella quale l’“iopenso” ha con l’Infinito, che non può affatto contenere e dal quale è separato, una relazionedetta “idea dell’infinito”. Certo anche le cose, le nozioni matematiche e morali, secondoCartesio, ci sono presentate dalle loro idee e se ne distinguono. Ma l’idea dell’infinito è ecce-zionale in quanto il suo ideatum va al di là della sua idea, mentre per le cose la coincidenzatotale delle loro realtà “oggettiva” e “formale” non è esclusa; a rigore, avremmo potuto ren-dere conto da soli di tutte le idee, eccettuata quella dell’Infinito3. […] L’infinito è il carattereproprio di un essere trascendente in quanto trascendente, l’infinito è l’assolutamente altro. Iltrascendente è l’unico ideatum di cui possiamo avere in noi solo un’idea; esso è infinitamen-te lontano dalla sua idea – cioè esteriore – perché è infinito.

[…] La nozione cartesiana dell’idea dell’Infinito designa una relazione con un essere chemantiene la sua esteriorità totale rispetto a chi lo pensa. Designa il contatto con l’intangibile,contatto che non compromette l’integrità di chi è toccato. […] L’esteriorità assoluta dell’esse-re esterno non va persa puramente e semplicemente con il fatto della sua manifestazione; essosi “assolve” dalla relazione in cui si presenta. Ma la distanza infinita dello Straniero, malgra-do la prossimità attuata dall’idea dell’infinito, la struttura complessa della relazione imparidelineata da questa idea, deve essere descritta. Non basta distinguerla formalmente dall’og-gettivazione.

Bisogna fin da adesso indicare i termini che diranno la deformalizzazione o la concretiz-zazione di quella nozione, assolutamente vuota in apparenza, che è l’idea dell’infinito.L’infinito nel finito, il più nel meno che si attua attraverso l’idea dell’Infinito, si produce comeDesiderio4. Non come un Desiderio che è appagato dal possesso del Desiderabile, ma come ilDesiderio dell’Infinito che è suscitato dal Desiderabile invece di esserne soddisfatto.Desiderio perfettamente disinteressato – bontà. Ma il Desiderio e la bontà presuppongonoconcretamente una relazione nella quale il Desiderabile ferma la “negatività” dell’Io che siesplica nel Medesimo, il potere, l’influenza. Il che si produce positivamente nel possesso diun mondo di cui posso fare dono ad Altri, cioè come una presenza di fronte ad un volto5.Infatti la presenza di fronte ad un volto, il mio orientamento verso Altri può perdere l’avidi-tà dello sguardo solo mutandosi in generosità, incapace di andare incontro all’altro a manivuote. Questa relazione al di sopra delle cose ormai possibilmente comuni, cioè suscettibili

3. Lévinas fa qui riferimento alla pri-ma prova cartesiana dell’esistenzadi Dio, enunciata nella terza delleMeditazioni sulla filosofia prima.4. Il Desiderio è per Lévinas una del-le figure dell’alterità liberata dal do-minio totalizzante del Medesimo.Nel Desiderio, genuinamente inte-so, colui che desidera non è maiappagato, neppure quando pos-

siede l’oggetto del suo desiderio.Così il Desiderabile si costituiscenon come l’oggetto, come qualco-sa che possa essere dominato, mapiuttosto come l’orizzonte delDesiderio stesso, come ciò chemuovendo il Desiderio lo rinnovacontinuamente.5. Il risultato dell’omologazione delrapporto tra il Medesimo e l’Altro al

rapporto tra finito e infinito è la de-terminazione dell’Altro come volto:il volto, per Lévinas, è ciò che ilMedesimo non può mai assimilareo dominare, ciò che resta intatto inun’alterità alla quale l’io può rap-portarsi ma che al tempo stessonon può assoggettare.

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di essere dette – è la relazione del discorso. Ora, noi chiamiamo volto il modo in cui si pre-senta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me. Questo modo non consiste nell’assumere, difronte al mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che for-mano un’immagine. Il volto d’Altri distrugge ad ogni istante, e oltrepassa l’immagine plasticache mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del suo ideatum – l’idea adeguata. Non si mani-festa in base a queste qualità, ma kath’autò. Si esprime. Il volto, in opposizione all’ontologiacontemporanea, introduce una nozione di verità che non è lo svelamento di un Neutro imper-sonale, ma un’espressione: l’ente si apre un varco attraverso tutti i rivestimenti e le generalitàdell’essere, per mostrare nella sua “forma” la totalità del suo “contenuto”, per sopprimere, infin dei conti, la distinzione di forma e contenuto (ciò che non si ottiene con una qualsiasimodificazione della conoscenza che tematizza, ma appunto con il cambiamento della “tema-tizzazione” in discorso). La condizione della verità e dell’errore teoretico, è la parola dell’Altro– la sua espressione – che è già presupposta da ogni menzogna. Ma il contenuto primo del-l’espressione è proprio questa espressione. Andare incontro ad Altri nel discorso significaaccogliere la sua espressione nella quale egli va continuamente al di là dell’idea che un pen-siero potrebbe portarne con sé. Significa dunque ricevere da Altri al di là della capacità dell’Io;ciò che significa esattamente: avere l’idea dell’infinito. Ma questo significa anche essereammaestrato. Il rapporto con Altri o il Discorso è un rapporto non-allergico, un rapportoetico, ma questo discorso accolto è un ammaestramento. Ma l’ammaestramento non equiva-le alla maieutica. Viene dall’esterno e porta in me più di quanto non abbia già. Nella sua tran-sitività non-violenta si produce proprio l’epifania del volto. L’analisi aristotelica dell’intellet-to, che scopre l’intelletto agente, che viene dall’esterno, assolutamente esterno, e che peròsostituisce, senza comprometterla affatto, l’attività sovrana della ragione, sostituisce già allamaieutica un’azione transitiva del maestro, poiché la ragione, senza venir meno a sé stessa sitrova in grado di ricevere.

Infine, l’infinito che oltrepassa l’idea dell’infinito, mette in causa la nostra libertà sponta-nea. La comanda e la giudica e la conduce alla sua verità. L’analisi dell’idea dell’Infinito cui siaccede solo a partire da un Io, si concluderà con il superamento del soggettivo.

La nozione del volto, alla quale faremo ricorso in tutta quest’opera, apre altre prospettive:ci porta verso una nozione di senso anteriore alla mia Sinngebung6 e, quindi, indipendentedalla mia iniziativa e dal mio potere. Essa significa l’anteriorità filosofica dell’ente sull’essere,una esteriorità che non fa appello né al potere né al possesso, un’esteriorità che non si ridu-ce, come in Platone, all’interiorità del ricordo, e che, però, salvaguarda l’io che l’accoglie.

6. Nel vocabolario fenomenologico,e in particolare in Husserl, laSinngebung designa la donazionedi senso (Sinn: ‘senso’; gebung: il

‘dare’) operata dalla soggettivitàtrascendentale. È in questo sensoche qui Lévinas si serve del termine:il volto, nella sua alterità irriducibile,

investe la relazione di un senso cheprecede e quindi prescinde dallarappresentazione soggettiva dell’io,cioè dalla Sinngebung del soggetto.

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Nello sviluppo della sua riflessione, Lévinas hasempre più radicalizzato l’eccedenza dell’Altro (di«Altri», come egli dice, proprio per non “totalizzare”anche l’alterità nella dialettica soggetto-oggetto o Medesimo-Altro, tutta interna all’io). Per questo la parola “io” verrà sempre più a identificare unfenomeno che non ha in sé il proprio principio, che non solo sta di fronte e in rapporto a ciò che è diverso da sé, ma è preceduto da esso in manieraassolutamente prioritaria, fino a identificare il “séstesso” come una radicale espropriazione di sé.Emerge qui in maniera sempre più evidente l’origine

“ebraica” del pensiero lévinassiano: l’io èresponsabilità assoluta per Altri, è sostituzione di sé ad Altri, espiazione al posto di Altri, è unessere ostaggio di Altri e in definitiva è passivitàsenza possibilità di riscatto o liberazione. E se in Totalità e infinito l’ontologia veniva preceduta o oltrepassata dalla metafisica, in Altrimenti cheessere o al di là dell’essenza (1978) la metafisica si sviluppa definitivamente come etica, e quest’ultima costituisce un passo oltre ognipossibile pensiero che parta dall’essere e nondall’Altro (rispetto all’essere).

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La sostituzioneLa responsabilità per altri non è l’accidente di un Soggetto, ma precede in esso l’Essenza, nonha atteso la libertà in cui sarebbe stato preso l’impegno per altri. Io non ho fatto niente e sonosempre stato in causa: perseguitato. L’ipseità, nella sua passività senza archè dell’identità, èostaggio. La parola Io significa eccomi, rispondente di tutto e di tutti. La responsabilità per glialtri non è stata un ritorno a sé, ma una contrazione esasperata che i limiti dell’identità nonpossono trattenere. […] La responsabilità dell’ossessione è una responsabilità dell’io per ciòche l’io non aveva voluto, cioè per gli altri. Questa anarchia della ricorrenza a sé, al di là delgioco normale dell’azione e della passione in cui si mantiene – dov’è – l’identità dell’essere, aldi qua dei limiti dell’identità, questa passività nella prossimità a causa di un’alterità in me,questa passività della ricorrenza a sé che non è tuttavia l’alienazione d’una identità tradita –che altro può essere se non la sostituzione di me agli altri? Non alienazione tuttavia – perchél’Altro nel Medesimo è la mia sostituzione all’altro secondo la responsabilità, per la quale, inso-stituibile, sono convocato. Attraverso l’altro e per l’altro, ma senza alienazione: ispirato. […]Il volto dell’altro nella prossimità – più che rappresentazione – è traccia irrappresentabile,modalità dell’Infinito. Non è perché tra gli esseri esiste un Io, essere che persegue dei fini, chel’Essere assume una significazione e diviene universo. È perché nell’approssimarsi s’inscriveo si scrive la traccia dell’Infinito – traccia di una partenza, ma traccia di ciò che, s-misurato,non entra nel presente e inverte l’archè in anarchia – che vi è abbandono d’altri, ossessioneper esso, responsabilità e Sé. Il non intercambiabile per eccellenza, l’Io, l’unico si sostituisceagli altri. Nulla è gioco. Così si trascende l’essere.

L’io non sarebbe solamente un essere dotato di certe qualità, dette morali, ch’esso porte-rebbe come una sostanza porta degli attributi o ch’essa riveste come degli accidenti del suodivenire; è la sua unicità eccezionale nella passività o la Passione di Sé ad essere questo avve-nimento incessante di soggezione a tutto, di sostituzione, il fatto, per l’essere, di dis-amorar-si, di svuotarsi del suo essere, di mettersi “alla rovescia” e, se si può dire, il fatto di “altrimen-ti che essere”, soggezione che non è né nulla né prodotto d’una immaginazione trascenden-tale. […]

Perché Altri mi riguarda? […] Sono io il custode di mio fratello? – Queste domande nonhanno senso se si è già presupposto che l’Io ha cura solo di Sé, se è solo cura di sé. In questaipotesi, in effetti, resta incomprensibile come il fuori-dall’Io assoluto – Altri – mi riguardi.Ora, nella “preistoria” dell’Io posto persé, parla una responsabilità. Il sé è dacima a fondo ostaggio, più anticamentedell’Ego, prima dei princìpi. Non si trat-ta per il Sé, nel suo essere, di essere. Aldi là dell’egoismo e dell’altruismo c’è lareligiosità di sé.

È a causa della condizione di ostag-gio che nel mondo ci può essere pietà,compassione, perdono e prossimità.

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ra1. Che cosa intende Lévinas con il termine “totalità”?

2. Quale funzione svolge l’idea di infinito e in che rappor-to sta con il pensiero dell’io?

3. Che significa che l’io ha con l’altro un rapporto etico?

4. In che cosa consiste la responsabilità dell’io?

5. Come si evidenzia la matrice ebraica del pensiero diLévinas?

6. Che cosa intende Lévinas con il termine “Altri”?

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Le ultime ricerche di Foucault (negli ultimi corsi, agli inizi degli anni Ottanta, al Collège de France, e nei tre volumi pubblicati del suo vasto progetto di una Storia della sessualità), vertono sullacostituzione del soggetto come oggetto per séstesso, ovvero sulle tecniche e sulle procedure concui il soggetto stesso si autoforgia riconoscendosinon solo come ambito di un sapere, ma anche inuna sua precisa dimensione etica (che Foucaultconsidera a partire dall’ideale greco della cura di sé e delle sue trasformazioni nel cristianesimo).Se infatti tutti i rapporti interindividuali sonorapporti di potere (ciò che di per sé non è affattonegativo, per Foucault), proprio la costituzione di sé nella libertà può impedire che queste relazionidi potere – e le corrispondenti tecniche di governo,cioè di orientamento della condotta altrui –diventino dei veri e propri stati di dominio:

il problema non è quello, puramente illusorio, di abolire il potere in quanto tale, ma di evitare che si trasformi in una condizione di puro dominio;ovvero, ciò che bisogna aver di mira, come Foucaultchiarisce, non è di non essere affatto governati, ma di non essere eccessivamente governati,bilanciando appunto le procedure diassoggettamento con quelle di soggettivazione. I passi che seguono sono tratti da una delle ultimeinterviste di Foucault, L’etica della cura di sé comepratica della libertà, concessa il 20 gennaio 1984,pochi mesi prima della morte: essa non solo illustrail senso dell’ultima fase delle riflessionifoucaultiane, ma permette anche di gettare unosguardo retrospettivo sulle ricerche precedenti e sul modo complessivo in cui Foucault ha cercato di ripensare i rapporti tra soggettività, verità e potere.

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Vorremmo innanzitutto sapere qual è, oggi, l’oggetto della sua riflessione. Abbiamo seguito i suoiultimi sviluppi, in particolare i suoi corsi sull’ermeneutica del soggetto al Collège de France nel1981-1982, e vorremmo sapere se la sua impostazione attuale è sempre determinata dal polo sog-gettività e verità.

In realtà questo è sempre stato il mio problema, anche se ho formulato il quadro della miariflessione in un modo un po’ differente. Ho cercato di capire come il soggetto umano entras-se nei giochi di verità, sia nel caso dei giochi di verità che presentano la forma di una scien-za o che si riferiscono a un modello scientifico, sia nel caso dei giochi di verità che si posso-no riscontrare nelle istituzioni o nelle pratiche di controllo1. È il tema del mio lavoro Le paro-le e le cose, dove ho cercato di vedere come, in alcuni discorsi scientifici, il soggetto umanogiunga a definirsi come individuo che parla, che vive, che lavora. Ho messo in luce questaproblematica, nei suoi aspetti generali, nei corsi al Collège de France.

Non vi è un salto tra la sua problematica precedente e quella della soggettività/verità, in partico-lare a partire dal concetto di “cura di sé”?

Fino a quel momento avevo affrontato il problema dei rapporti tra il soggetto e i giochi diverità a partire dalle pratiche coercitive – come nel caso della psichiatria e del sistema peni-tenziario – oppure nelle forme di giochi teorici o scientifici – come l’analisi delle ricchezze,del linguaggio e dell’essere vivente. Nei corsi al Collège de France ho cercato di coglierloattraverso quella che può essere definita una pratica di sé, un fenomeno che ritengo abbastan-

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Michel Foucault Il soggetto come cura di séL’etica della cura di sé come pratica della libertà, Intervista del 20 gennaio 1984

1. “Giochi di verità” è un’espressio-ne che non ha una portata negativao puramente relativistica, ma indi-ca l’insieme di procedure che, in uncerto sapere e in un certo periodo,regolano la produzione della verità

e la separazione del vero dal falso.Ciò che interessa a Foucault non èné la storia delle modalità con cui ilsoggetto pretende o presume di ac-quisire la verità, né la storia deipossibili occultamenti di questa

stessa verità, ma la storia delle pro-cedure di “veridizione”, nelle qualicioè i discorsi risultano definiti verio falsi.

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za importante nelle nostre società sin dall’epoca greco-romana – anche se non è stato moltostudiato. Queste pratiche di sé hanno avuto un’importanza e soprattutto un’autonomia moltopiù grande nelle civiltà greca e romana che successivamente, quando sono state investite, finoa un certo punto, dalle istituzioni religiose, pedagogiche o di tipo medico e psichiatrico.

Vi è dunque, oggi, una sorta di spostamento: i giochi di verità non riguardano più una pratica coer-citiva, ma una pratica di autoformazione del soggetto.

Proprio così. È quella che potrebbe essere definita una pratica ascetica, dando all’ascetismoun senso molto generale, cioè, non il senso di una morale della rinuncia, ma quello di unesercizio di sé su di sé, attraverso cui si cerca di elaborare sé stessi, di trasformarsi e di acce-dere a un certo modo di essere. Assumo quindi l’ascetismo in un senso più generale rispettoa quello che gli attribuisce, per esempio, Max Weber; ma, comunque, la prospettiva è un po’la stessa.

Un lavoro di sé su sé stessi che può essere compreso come una liberazione, come un processo diliberazione?

Su questo punto sarei un po’ più prudente. Sono sempre stato un po’ diffidente nei confron-ti del tema generale della liberazione, nella misura in cui, se non lo si tratta con qualche pre-cauzione e all’interno di certi limiti, rischia di riportare all’idea che esiste una natura o un fondoumano che, in seguito ad alcuni processi storici, economici e sociali, si è trovato mascherato, alie-nato o imprigionato in alcuni meccanismi, in certi meccanismi di repressione. In base a quest’ipo-tesi, basterebbe far saltare i chiavistelli repressivi perché l’uomo si riconcili con sé stesso,ritrovi la sua natura o riprenda contatto con la sua origine e restauri un rapporto pieno e posi-tivo con sé stesso. Credo che questo tema non possa essere accettato così, senza verifica. […]È per questo motivo che insisto più sulle pratiche di libertà che sui processi di liberazione, iquali, lo ripeto, hanno un loro posto, ma non mi sembra che possano definire da soli tutte leforme pratiche di libertà. Si tratta del problema che ho dovuto affrontare proprio a propositodella sessualità: ha senso dire “liberiamo la nostra sessualità”? […] Mi sembra che il proble-ma etico della definizione delle pratiche di libertà sia molto più importante dell’affermazio-ne, un po’ ripetitiva, che bisogna liberare la sessualità o il desiderio. […]

Lei dice che bisogna praticare la libertà eticamente…

Sì, perché che cos’è l’etica se non la pratica della libertà, la pratica riflessa della libertà?

Questo significa che lei intende la libertà come una realtà già etica in sé stessa?

La libertà è la condizione ontologica dell’etica. Ma l’etica è la forma riflessa che assume lalibertà. […]

La cura di sé, come ha detto lei, è in un certo modo la cura degli altri. In questo senso, la cura disé è anche sempre etica, è etica in sé stessa.

Per i Greci non è etica perché è cura degli altri. La cura di sé è etica in sé stessa; ma implicadei rapporti complessi con gli altri, nella misura in cui questo èthos della libertà è anche unmodo di aver cura degli altri; per questo motivo, per un uomo libero, che si comporta comesi deve, è importante saper governare la moglie, i figli, la casa. L’arte di governare sta anchein questo. L’èthos implica un rapporto con gli altri nella misura in cui la cura di sé rende capa-ci di occupare, nella città, nella comunità o nelle relazioni interindividuali, il posto appro-

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1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno

priato – per esercitare una magistratura o per avere rapporti di amicizia. La cura di sé impli-ca, inoltre, il rapporto con l’altro, nella misura in cui, per avere buona cura di sé, bisogna ascol-tare le lezioni di un maestro. Si ha bisogno di una guida, di un consigliere, di un amico, di qual-cuno che ci dica la verità. Pertanto, il problema dei rapporti con gli altri è presente in tutto losviluppo della cura di sé. […]

Ma non credo che si possa dire che l’uomo greco che ha cura di sé debba, innanzitutto,avere cura degli altri. Non è necessario che la cura degli altri preceda la cura di sé, la cura di séviene eticamente prima, nella misura in cui il rapporto con sé stessi è ontologicamente primo. […]

Ma lei ha sempre “impedito” che le si parlasse di soggetto in generale?

No, non l’ho “impedito”. Forse ho dato delle formulazioni inadeguate. Ho rifiutato che si pre-supponesse a priori una teoria del soggetto – come si poteva fare, per esempio, nella fenome-nologia o nell’esistenzialismo – e che, a partire da questa teoria del soggetto, si ponesse laquestione di sapere come, per esempio, fosse possibile tale forma di conoscenza. Ho cercatodi dimostrare come il soggetto costituisse sé stesso, in questa o quella determinata forma, inquanto soggetto folle o soggetto sano, in quanto soggetto delinquente o in quanto soggettonon delinquente, attraverso alcune pratiche che erano giochi di verità, pratiche di potere, ecc.Dovevo rifiutare una certa teoria a priori del soggetto per poter fare l’analisi dei rapporti cheintercorrono tra la costituzione del soggetto o le differenti forme del soggetto e i giochi diverità, le pratiche di potere, ecc.

Questo significa che il soggetto non è una sostanza…

Non è una sostanza. È una forma e, soprattutto, questa forma non è mai identica a sé stessa.Non abbiamo lo stesso tipo di rapporto con noi stessi quando ci costituiamo come un sog-getto politico che va a votare o prende la parola in un’assemblea e quando cerchiamo di rea-lizzare il nostro desiderio in una relazione sessuale. Probabilmente esistono rapporti e inter-ferenze tra queste differenti forme del soggetto, ma non si è mai in presenza dello stesso tipodi soggetto. In ogni caso, si gioca, si stabiliscono differenti forme di rapporto con sé stessi.Mi interessa la costituzione storica di queste differenti forme del soggetto, in rapporto con igiochi di verità. […]

Tale questione rimanda al problema del soggetto, poiché, nei giochi di verità, si pone la questionedi sapere chi dice la verità, come la dice e perché la dice. Perché nel gioco di verità, si può gioca-re a dire la verità: c’è un gioco, si gioca alla verità o la verità è un gioco.

La parola “gioco” può indurre in errore: quando dico “gioco” dico un insieme di regole di pro-duzione della verità. Non è un gioco nel senso di imitare o recitare…, si tratta di un insieme diprocedure che conducono a un certo risultato, che può essere considerato, in funzione dei suoiprincìpi e delle sue regole di procedura, come valido o no, come vincente o perdente. […]

Dunque la verità non è una costruzione?

Dipende: ci sono giochi di verità in cui la verità è una costruzione e altri in cui non lo è. […]Questo non significa che di fronte non c’è nulla e che è tutto frutto della mente di qualcuno.[…]

In fondo, al cuore del problema della verità c’è anche un problema di comunicazione, il problemadella trasparenza delle parole del discorso. Chi ha la possibilità di formulare delle verità ha ancheun potere, il potere di poter dire la verità e di esprimerla come vuole.

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Sì, e questo non significa, tuttavia, che quello che dice non sia vero, come crede la maggiorparte delle persone: quando si fa loro notare che può esistere un rapporto tra la verità e ilpotere, dicono: “Ah, allora non è la verità!”. […]

Mi sembra che l’idea che possa esistere uno stato di comunicazione tale che i giochi diverità potranno circolare senza ostacoli, senza vincoli e senza effetti coercitivi appartengaall’ordine dell’utopia2. Significa proprio non vedere che le relazioni di potere non sono qualcosadi cattivo in sé, da cui bisogna affrancarsi; credo che non possa esistere una società senza relazio-ni di potere, se queste vengono intese come strategie attraverso cui gli individui cercano di condur-re e di determinare la condotta degli altri. Il problema non è, dunque, di cercare di dissolverlenell’utopia di una comunicazione perfettamente trasparente, ma di darsi delle regole di dirit-to, delle tecniche di gestione e anche una morale, un èthos, la pratica di sé, che consentano,in questi giochi di potere, di giocare con il minimo possibile di dominio. […]

Questo compito è sempre stato una grande funzione della filosofia. Nel suo versante cri-tico – intendo critico in senso lato –, la filosofia è proprio ciò che rimette in discussione tuttii fenomeni di dominio, a qualunque livello e in qualunque forma si presentino – politici, eco-nomici, sessuali e istituzionali. Questa funzione critica della filosofia deriva, fino a un certopunto, dall’imperativo socratico: “occupati di te stesso”, cioè “fonda te stesso in libertà, attra-verso la padronanza di te”.

2. Foucault si riferisce qui, in particolare, alla teo-ria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas.

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alla

lettu

ra1. Che cosa intende Foucault per “giochi di verità”?

2. In che consiste la “pratica di sé”?

3. Come descrive Foucault la dimensione etica della curadi sé?

Fonti

• K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. di N. Bobbio,Einaudi, Torino 2004 (ma vedi anchela trad. di G. Della Volpe, in K. Marx -F. Engels, Opere complete, vol. III,Editori Riuniti, Roma 1976).• F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1977.• F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra.Un libro per tutti e per nessuno, trad. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976.• S. Freud, L’Io e l’Es, trad. di C.L.Musatti, in Opere, vol. IX: L’Io e l’Es

e altri scritti (1917-1923), BollatiBoringhieri, Torino 1989• E. Husserl, Idee per unafenomenologia pura e una filosofiafenomenologica, vol. I, trad. di E. Franzini e V. Costa, Einaudi,Torino 2002. • M. Heidegger, Essere e tempo,nuova ed. it. a cura di F. Volpi sullaversione di P. Chiodi, Longanesi,Milano 2005.• M. Heidegger, Letterasull’“umanismo”, in Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi,Milano 1987.• E. Lévinas, Totalità e infinito.Saggio sull’esteriorità, trad.

di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1990.• E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983.• M. Foucault, L’etica della cura di sécome pratica della libertà (intervistacon H. Becker, R. Fornet-Bétancourt e A. Gomez-Müller, 20 gennaio 1984),in Archivio Foucault 3. 1978-1985:Estetica dell’esistenza, etica, politica,a cura di A. Pandolfi, trad. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano 1998,pp. 273-306 (poi anche in M. Foucault, Antologia. L’impazienzadella libertà, a cura di V. Sorrentino,Feltrinelli, Milano 2005, pp. 234-253).

BIBLIOGRAFIA