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Percorsi tematici I Percorsi Tematici che qui proponiamo hanno la finalità di pro- porre ad insegnanti e studenti un lavoro di sintesi, guidando il lettore a ricercare un tema, un motivo che si ripresenta nel cor- so dell’intero svolgimento dei Promessi Sposi e che assume talora significati omogenei, talora valori diversi. Si suggerisce così una rilettura del testo che richiede una rielaborazione critica, un ap- profondimento che aiuti a cogliere il messaggio complessivo del- l’opera. I Percorsi si svolgono su due linee: • quelli relativi ai luoghi ripercorrono ed evidenziano la presenza di un tema all’interno del romanzo. • quelli relativi ai personaggi si allargano a una lettura interte- stuale attraverso confronti con testi precedenti del Manzoni, qua- li l’Adelchi e il Cinque maggio. Si intende così aprire la via ad una comprensione documentata dell’itinerario ideologico e poetico dell’autore. I Percorsi tematici possono essere utilizzati anche come piste di lettura, oggetto di una programmazione didattica.

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Percorsi tematici

I Percorsi Tematici che qui proponiamo hanno la finalità di pro-porre ad insegnanti e studenti un lavoro di sintesi, guidando il lettore a ricercare un tema, un motivo che si ripresenta nel cor-so dell’intero svolgimento dei Promessi Sposi e che assume talora significati omogenei, talora valori diversi. Si suggerisce così una rilettura del testo che richiede una rielaborazione critica, un ap-profondimento che aiuti a cogliere il messaggio complessivo del-l’opera. I Percorsi si svolgono su due linee: • quelli relativi ai luoghi ripercorrono ed evidenziano la presenza di un tema all’interno del romanzo. • quelli relativi ai personaggi si allargano a una lettura interte-stuale attraverso confronti con testi precedenti del Manzoni, qua-li l’Adelchi e il Cinque maggio. Si intende così aprire la via ad una comprensione documentata dell’itinerario ideologico e poetico dell’autore. I Percorsi tematici possono essere utilizzati anche come piste di lettura, oggetto di una programmazione didattica.

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� Percorsi tematici ● La casa

La casa

1 Lo spazio dell’intimità familiare Il tema della casa assume un’importanza centrale nel romanzo non solo perché il racconto si basa sulle vicende di due Promessi Sposi, che nella casa vedono l’approdo concreto della loro speranza d’amore, il simbolo del nucleo familiare; ma anche perché questo tema esprime un aspetto essenziale della visione cristiana del mondo del Manzoni. Per l’autore, infatti, solo l’amore, non in quanto passione, ma come affetto profondo, forma superiore di ‘caritas’, è la forza capace di superare il male presente nel mondo. E proprio il contrasto fra bene e male si riflette nell’armonia degli affetti domestici, nella disarmonia creata dall’autoritarismo o dalla violenza della storia, che coinvolge anche la casa. Un valore particolare assume, pertanto, la casa degli umili

La casa e l’autenticità dei valori Manzoni proietta il suo ideale di vita familiare nell’ambiente degli umili, portatori di un modello di

vita dal quale è esclusa ogni ipocrisia, legata alla forza economica o a quella del potere, ma anche la re-torica falsa delle emozioni, dei sentimenti passionali fonte di una gioia temporale e mondana.

La casa, e in particolare la casa degli umili, diviene simbolo di questi valori; essa non corrisponde al mito dell’idillio borghese caro a tanta letteratura fra Settecento e Ottocento, non è, cioè, l’immagine del cuore e della capanna remoti dal mondo, ma lo spazio sereno e raccolto dell’intimità affettiva, aper-to anche alla solidarietà cordiale verso gli altri.

La casetta di Lucia L’immagine della casa, che più d’ogni altra resta impressa nella memoria del lettore, è quella di Lu-

cia, anche se essa non viene mai compiutamente descritta, ma evocata attraverso indiretti riferimenti del narratore o di qualcuno dei personaggi. Dapprima apprendiamo che, diversamente da quella di Renzo ch’era nel mezzo del villaggio, questa era infondo, anzi un po’ fuori del paese; già questa collocazione, cui si aggiungono altri pochi particolari (Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada ed era cinto da un murettino), è sufficiente a suggerire l’ambiente sereno della campagna, a fissare quella topografia, che riemergerà più volte attraverso la nostalgia dei protagonisti nel corso del romanzo. Ma questa casa non è solo un rifugio sereno, è anche lo spazio della quotidiana attività domestica di Agnese e di Lucia; così mentre la madre compare tutta intenta, in apparenza, all’aspo che faceva girare, anche Lucia viene evocata in un atteggiamento simile attraverso il ricordo di Bortolo, il cugino che accoglie Renzo, a Bergamo: «Povera Lucia Mondella! Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza... e quando si passava da quella sua casuccia, sempre si sentiva quell’aspo, che girava, girava... »

I particolari descrittivi, che servono a delineare l’interno della casetta, emergono dalla spedizione notturna del Griso e acquistano un particolare risalto proprio perché contrastano con l’azione violenta dei bravi. Al piano terreno una stanza si affaccia sulla strada, un’altra è più interna; una scala porta al piano superiore dove a una prima stanza da letto segue un’altra stanza; in essa il letto è fatto e spianato, con le rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale. L’immagine evoca il gesto della mano femminile intenta a quella domestica occupazione; un gesto quotidiano, che esprime, nella sua semplicità, la cura costante e affettuosa per la casa. Ma è nella scena dell’Addio che l’immagine della casa natia acquista un suo poetico risalto attraverso lo sguardo accorato di Lucia, che cerca e scopre nel profilo dei suoi monti, scuri sullo sfondo del chiarore lunare, le cose a lei più care:... scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera... E con una malinconia ancor più profonda il tema della casa ritorna quando Lucia lascia di nuovo il paese per seguire a Milano donna Prassede. La fanciulla, senza Agnese e senza Renzo, perduto ormai per sempre a causa del voto, sta per inoltrarsi sola in un mondo ignoto; di qui la sua nostalgia: Lucia... uscì dalla sua casetta; disse per la seconda volta addio al paese, con quel senso di doppia amarezza, che si prova lasciando un luogo che fu unicamente caro, e che non può esserlo più. La casa in questo momento rappresenta la sintesi di tutte le memorie, di tutti

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gli affetti che hanno dato significato ad una esistenza. E quando finalmente la vicenda si conclude, col ritorno di Renzo al paese, la sua conversazione con Agnese, in attesa di Lucia, verte sempre sul tema della casa: quella da metter su nel paese del bergamasco, dove la famiglia si trasferirà, e dove Renzo, effettivamente, trova una casa più grande e la rifornisce di mobili e d’attrezzi. Mentre ricca di commozio-ni è la scena in cui Agnese torna da Pasturo nella sua casetta e trova ogni cosa come l’aveva lasciata e dichiara che trattandosi d’una povera vedova e d’una fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli. Nelle parole dell’umile donna il sentimento della casa si illumina della luce della Provvidenza e viene definitivamen-te consacrato come simbolo della famiglia.

La casa e l’ospitalità Altre dimore di umili sono rappresentate nel romanzo, anch’esse viste nella prospettiva dell’intimità

affettuosa e cordiale. Così per la casa di Tonio, quando Renzo va a cercarlo per chiedergli di fargli da testimone. La famiglia è raccolta, concentrata con uno sguardo bieco d’amor rabbioso su quella polenta che parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori. Ma, nonostante la miseria e la fame, le donne non tra-scurano di invitare Renzo a restar servito. L’ambiente rustico e povero è ingentilito dal sentimento del-l’ospitalità. Come ospitale si dimostra l’amico senza nome che per due volte accoglie Renzo nella sua casa in un clima di serena amicizia. E proprio il sentimento di ospitalità affettuosa emerge in particolare dalla casa del sarto, la sola, fra l’altro, in tutto il romanzo in cui compare un completo nucleo familiare. Dai gesti della donna che provvede a ristorare Lucia emerge il quadro, non descritto, della cucina col focolare, il calderotto, il buon cappone al fuoco. Da queste cose semplici deriva un conforto diretto e concreto per la fanciulla, che trova conferma esplicita nelle parole del sarto: ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in questa casa. Come son contento di vedervi qui!... E lo stesso clima di schietta intimi-tà torna a illuminare l’accoglienza cordiale e premurosa di cui sono oggetto da parte di questa famiglia don Abbondio, Perpetua e Agnese, profughi a causa della guerra.

La quiete raccolta della canonica Analoga e pur diversa è la rappresentazione di un’altra casa del paese: la canonica di don Abbondio.

Di essa sappiamo che si trova in fondo al paesello, dal lato opposto a quella di Lucia e, anche in questo caso, la rapida indicazione evoca un’impressione di quiete raccolta. Nemmeno questo interno è descrit-to, ma alcuni oggetti nominati danno vita all’ambiente: il salotto, la tavola, il fiaschetto del vino, il seg-giolone, il lume. Sono gli stessi che ricompaiono nella sequenza che precede l’episodio del matrimonio per sorpresa. Don Abbondio, infatti, appare seduto sul suo seggiolone... ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. La ri-petizione non è casuale in quanto suggerisce il ripetersi di care e placide consuetudini. Anche in questo caso l’ambiente della casa corrisponde ad un’atmosfera raccolta e rassicurante, alla quale contribuisce la presenza di Perpetua la serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare. Ma in questo interno do-mestico, placido e protettivo, manca un qualsiasi segno che rimandi ad un’apertura verso gli altri.

Le case di Milano nel corso della peste Anche nella rappresentazione di Milano torna più volte il riferimento alle case, ma esse, viste nel

dilagare della peste, proprio in quanto simbolo concreto della realtà umana, diventano espressione dello sfacelo dell’intera città: Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli usci di strada, salvo quelli che fossero spalancati per esser le case disabitate, o invase; altri inchiodati o sigillati, per esser nelle case morta o ammalata gente di peste; altri segnati d’una croce fatta col carbone, per indizio ai monatti, che c’eran de’ morti da portar via.

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2 Il palazzo e il castelloIn modo evidentemente contrapposto alle case degli umili vengono rappresentate nei Promessi Sposi le dimore dei potenti, che, pur nella diversità dei singoli casi, hanno un elemento in comune: esse non corrispondono, in-fatti, al tema della casa simbolo degli affetti familiari, ma piuttosto sono presentate dallo scrittore come espressio-ne figurativa del tema del potere, che in vari modi (attraverso l’azione e attraverso la parola) ha un suo rilevante spazio nel romanzo. Proprio perché collegate alla classe dominante e in vari casi a personaggi storici, queste di-more divengono uno strumento utile per la rappresentazione di un’epoca, sono, cioè, ricche di ‘colore storico’.

Un sontuoso palazzo barocco È il caso, come primo esempio, del palazzo in cui il nobile, fratello dell’uomo ucciso dal giovane

Lodovico, raduna i parenti per farli assistere alla scena del perdono. Anche se nessun particolare descrive la struttura o l’arredamento di questo interno, basta il ‘coro’ dei presenti, ricco di elementi sfarzosi, a ricostruire l’atmosfera sontuosa di una dimora signorile del Seicento: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un muoversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intral-ciato di rabescate zimarre. E come venuto fuori da un ritratto barocco è il padrone di casa, che per la sua posa altezzosa ricorda l’immagine del Conte Duca d’Olivares dipinta dal Velazquez (Cfr. pag. XXXVII del testo). A uno scorcio fastoso, tipico dell’epoca, rimanda anche il cameriere in gran gala che porta a padre Cristoforo il pane del perdono sur un piatto d’argento. Tutto in questo palazzo è spettacolo; anche l’effetto dell’autentica umiltà del frate commuove l’uditorio per un momento; quando egli se ne è an-dato, la compagnia riprende a recitare le lodi della propria grandezza, variando un poco il copione, ma conservando la consueta vanità.

Il palazzo del principe padre di Gertrude Anche il palazzo del principe padre di Gertrude richiama un motivo imperante in questa età, quel-

lo della ‘ragion di stato’, tradotto in questo caso in ‘ragion di famiglia’. Nella dimora domina un clima ossessivo frutto dell’autoritarismo del principe, al quale nessuno si sottrae. Questa famiglia, retta da un potere tirannico, costituisce l’antitesi dell’ideale famiglia di Renzo e Lucia, che pone le sue fondamenta in un amore limpido e sincero. Al potere si accompagna l’ipocrisia, il contrasto fra apparenza e realtà: nella sala della conversazione,... parenti e amici che vengono a fare il loro dovere recitano a soggetto compli-mentandosi con la sposina che ne fu l’idolo, il trastullo, la vittima. C’è qualcosa di macabro e crudele nella pompa colorata, nel frastuono delle feste, che travolge la povera Gertrude fino a farle desiderare il si-lenzio del chiostro.

Il Convito nella dimora del conte zio Del resto l’idea della superiorità e della potenza domina anche nello scorcio, che rapidamente disegna

l’interno del palazzo del conte zio, colto in quel convito, che egli organizza con intendimento sopraffi-no per preparare il suo colloquio con il padre provinciale. La corona dei commensali comprende infatti Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo...e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria. Di intimità e di dialogo sincero non c’è alcuna traccia: l’onor del casato non è una questione di affetto.

Il palazzo di don Rodrigo Fra le varie dimore dei potenti un particolare rilievo, data l’importanza del padrone di casa sul pia-

no narrativo, assume la rappresentazione del palazzotto di don Rodrigo. Di esso viene descritta solo la facciata, ma bastano gli elementi che la compongono a suscitare un senso di violenza: le rade e piccole finestre... chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni,... difese da grosse inferriate... e, soprattutto, ...due grand’avoltoi con l’ali spalancate e co’ teschi penzoloni creano uno scenario di violenza. In questo caso la ca-sa è già lo specchio del suo padrone, di questo piccolo despota che vuol fare il tiranno, ma non il tiranno

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salvatico diversamente dall’innominato. La sua dimora non può essere un castello, ma solo un palazzotto. Al suo interno ancora una volta compare una scena di gruppo, ma la corona dei personaggi che parte-cipano al banchetto di don Rodrigo non ha l’elegante pomposità di quelli presenti nei palazzi cittadini, che abbiamo intravisto. Non manca anche qui un richiamo all’etichetta del mondo signorile secentesco (Un servitore, portando sur una sottocoppa un’ampolla di vino, e un lungo bicchiere informa di calice, lo presen-tò al padre), ma questa volta predomina, accanto all’arroganza di don Rodrigo, del conte Attilio e del podestà, una patina di superficialità e di rozzezza che accentua, quando il discorso cade sulla guerra e sulla carestia, l’insensibilità nei confronti del dolore e, soprattutto, della miseria. Ma un’altra suggestiva pennellata completa il quadro barocco di questo ambiente; essa emerge dall’episodio dei ritratti degli antenati, appesi alle pareti della sala in cui ha avuto luogo il tumultuoso colloquio fra don Rodrigo e padre Cristoforo. Descritti con particolare minuzia e con una punta di amara ironia essi non solo rico-struiscono, in maniera quasi documentaria, il costume di un’epoca, ma esprimono lo spirito su cui si fonda questa casa. Il terrore, che da essi promana, è il simbolo di una persistente tradizione di feudale barbarie. Questa è l’eredità raccolta dal nipote, magari in forma piuttosto involgarita.

Il castello dell’innominato Un singolare rilievo per l’effetto simbolico e per l’effetto artistico che raggiunge ha la rappresenta-

zione del castello dell’innominato, in cui l’ambiente e il paesaggio sono veduti in stretto rapporto con il personaggio. Nell’ambiente è dapprima sottolineato l’aspetto dell’altezza (il castello è posto sulla cima d’un poggio che sporge infuori da una aspra giogaia di monti), al quale è associato quello dell’asprezza (... il resto è scheggi e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fossi e sui ciglioni). Da que-ste impressioni deriva l’effetto di drammatica solitudine, scelta e destino del selvaggio signore: Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Il castello è visto dall’esterno con pochi richiami alle finestre e alle feritoie, mentre all’interno lo sguardo del narratore in-dugia sull’andirivieni di corridoi bui, sulle varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di partigiane. Nel ri-trarre questa dimora il Manzoni non indulge a quelle suggestioni pittoresche tipiche di un certo gusto romantico per l’orrido, ma anche senza questa insistenza l’aspetto del castello rimanda alla fama del suo signore, la cui vita era un soggetto di racconti popolari e il cui nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso. Cambiata con la conversione la scelta di vita del personaggio, resta costante il rapporto fra l’innominato e il suo castello che, in occasione della calata dei lanzichenecchi, si apre ad un’eccezionale ospitalità. In questo caso il narratore si sofferma non solo sui preparativi atti a trasformare il castello in alloggio per tante persone, ma fornisce anche una descrizione particolareggiata della pianta dell’edificio. Ne deriva un effetto grandioso che sottolinea la carità senza limiti di quest’uomo, il quale, però, resta ancora isolato in un’atmosfera di malinconica grandezza, che mantiene la sua suggestione leggendaria.

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3 La violenza della storia e la malizia degli uominiIl tema della casa che, come abbiamo veduto, si collega in genere nel romanzo al sentimento della pace, del-l’intimità che esclude le minacce e i pericoli del mondo esterno, viene presentato dallo scrittore anche in modo diverso quando la casa è fatta oggetto di violenza: «Manzoni che ha evitato di presentarci l’immagine, tanto frequente nella tradizione narrativa, di corpi straziati da ferite, di persone su cui si eserciti la violenza degli uomini, ha trasferito la rappresentazione della violenza sulla casa, su questa realtà che è in certo modo parte integrante della persona» (G. Getto).

La canonica di don Abbondio invasa Il motivo comincia a svolgersi nel secondo incontro di Renzo con don Abbondio, quando il gio-

vane ormai inasprito dalla tattica dilazionatoria del curato, requisisce la chiave della stanza, attuando un vero ricatto ai danni del suo antagonista. E ancora una volta è la quieta, silenziosa canonica a tra-sformarsi in un campo di battaglia nel corso del matrimonio per sorpresa. La pace notturna del paese immerso nel chiarore lunare è squarciata dallo sgangherato grido di don Abbondio; la situazione è così paradossale che il narratore trova necessario soffermarsi in una pausa riflessiva: In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa al-trui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza di un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima, eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Cosi va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo. La riflessione corrisponde all’esigenza dello scrittore di andare al di là delle apparenze, di ricercare con sincerità di giudizio la responsabilità personale di chi opera il male. Ma ben più grave è la violenza subita dalla canonica al passaggio della guerra. Quando don Abbondio e Perpetua, reduci dall’ospitale castello dell’innominato, rientrano sen-za aiuto di chiavi in casa, li aspetta una vera devastazione. E lo sfacelo è reso più crudele dagli avanzi e frammenti dei vari oggetti (il seggiolone, il piede di tavola, una doga della botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio), che ristabilendo una connessione col passato suscitano la nostalgia di un quieto vivere così costantemente difeso. Ancora una volta la scoperta da parte di Perpetua che varie masserizie di casa si trovano nelle case di certi paesani riporta l’attenzione sulla convinzione dell’autore, per cui il male non è l’effetto di una forza anonima, ma risale a responsabilità individuali.

La violenza in casa di LuciaMa nemmeno le case di Lucia e di Renzo restano immuni dalla violenza. La povera casetta delle due

donne è oggetto della spedizione del Griso, tesa al rapimento di Lucia. La descrizione ironica dei gesti cautelosi dei bravi, resi vani dall’assenza degli abitanti, rende meno vistosa la violenza da loro operata, ma il contatto di quelle mani con quel letto spianato e composto assume il valore di una profanazione. E del resto le tracce trovate dai paesani sono più che vistose: l’uscio spalancato, la serratura sconficcata... e poi l’uscio del terreno aperto e sconficcato anche quello. Ma più grave è soprattutto la conseguenza di questa violazione dell’intimità domestica: Lucia, Agnese e Renzo sono infatti costretti a fuggire per evitare il pericolo ancora incombente. E nella fuga il pensiero ritorna sulla dimora abbandonata. «E la casa?» disse a un tratto Agnese»; ma la sua domanda ansiosa resta senza risposta. A padre Cristoforo saranno conse-gnate le chiavi e nel compiere quel gesto Agnese ancora una volta esprime, anche per gli altri, il suo rimpianto: Quest’ultima, levandosi di tasca la sua chiave, mise un gran sospiro, pensando che in quel momento, la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire! A questo sconforto, però, si contrappongono le parole di padre Cristoforo che richiama i poveretti a confidare nella Provvidenza divina e assicura il suo aiuto fattivo e costante ai suoi poveri cari tribolati.

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La violenza in casa di Renzo Altrettanto grave è la violenza subita dalla casa di Renzo, anche se dal testo emergono solo rapidi

cenni. Dopo i tumulti di Milano, quando il nome Lorenzo Tramaglino è messo, da parte della giustizia, in relazione con quello di un pericoloso capopolo, il console del paese riceve, con apposito dispaccio delle competenti autorità, l’incarico di ricercare il presunto malfattore e, non potendo far altro, fa per-quisire la casa: Si sfonda l’uscio, si fa la debita diligenza, vale a dire che si fa come in una città presa d’assalto. Il cenno è rapido, ma la gravità del fatto consiste nel rapporto fra violenza e amministrazione della giu-stizia. Ancora una volta si verifica uno scambio fra vittima e oppressore ed è sempre Renzo a farne le spese! Se il tono della pagina è ironico, la sostanza della vicenda è drammatica e la riflessione del narra-tore è pessimistica. Quando Renzo, nel corso della peste, torna al paese per avere notizie di Lucia e di Agnese, si sofferma anche nella sua casa. Scopre allora lo stato disastroso della sua vigna e vede anche gli effetti provocati all’interno della sua casuccia da quella perquisizione, dalle intemperie e dall’abbando-no: Diede un’occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate, affumicate. Alzò gli occhi al palco: un parato di ragnateli. Non c’era altro. Ma il suo cuore è afflitto da ben altre ansie; questa rovina appartiene al passato e non lo tocca più di tanto.

I monatti nel palazzo di don Rodrigo Il tema della casa violata non si limita, comunque, alle modeste abitazioni degli umili indifesi co-

me Renzo e Lucia, si allarga a comprendere anche i palazzi dei potenti, come nel caso del vicario di provvigione, o le case di incolpevoli cittadini come avviene quando, profittando della calamità della peste, i monatti spadroneggiano in Milano: Entravano da padroni, da nemici nelle case e, senza parlare dei rubamenti, e come trattavano gli infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con denari.

E proprio dai monatti viene violata la casa di don Rodrigo in una scena che è fra le più fosche e crudeli del romanzo. Annunciati dallo squillo lontano dei campanelli degli apparitori, e da una serie di rumori che insospettiscono il malato, essi appaiono a un tratto nel loro aspetto ripugnante: due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, e dietro loro si profila mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare. La vittima assiste impotente allo scatenarsi della loro violenza; abban-donato dal fedel Griso, dagli altri bravi, don Rodrigo vanamente cerca di reagire, afferrando la pistola che tiene sotto il cuscino. Nello sguardo pietoso del narratore l’arrogante e presuntuoso signorotto di-viene lo sventurato Rodrigo, vittima dell’aguzzino che lo tiene fermo e lo deride, costretto a veder il Griso affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti. Finché crolla nell’incoscienza del coma e, ridotto a miserabil peso, vien portato via, al lazzeretto. La violenza in questo caso assume la forma di un castigo per un uomo che, come don Rodrigo, non hai mai receduto dai suoi propositi e nemmeno ai primi cenni del male ha avvertito una spinta al pentimento. «Castigo, però, non è dannazione; e dal momento in cui, dopo un grand’urlo, cade rifinito e stupido, nella condizione in cui sarà dinanzi agli occhi di Renzo, egli ci appare già come uomo, che umanamente, ha pagato, come una povera creatura umana, immersa nel gran mistero del proprio destino». (E.N. Girardi).

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� Percorsi tematici ● L’osteria

L’osteria

Luogo della trasgressione e fonte di concreta esperienza

Nella storia di Renzo, nel suo avventuroso cammino, al quale lo costringe il sopruso di un potente, ha una par-te notevole l’osteria, prima nel suo villaggio, nel momento in cui egli sta organizzando con Tonio e Gervaso il progetto del matrimonio per sorpresa, poi a Milano la sera del tumulto di San Martino e, infine, a Gorgonzola nel corso della sua fuga verso l’Adda. Se in ogni episodio, in rapporto con l’intreccio e con la diversa situazione del protagonista, l’ambiente dell’osteria viene rappresentato con particolari differenziati, riemergono ogni volta elementi comuni, che conferiscono a questo luogo un significato preciso.

Tradizione letteraria e inventiva manzoniana Certamente lo scrittore, nell’affrontare questo tema, ha avuto presenti modelli celebri della tradizio-

ne letteraria, dalla taverna medievale, luogo privilegiato dei canti goliardici e della poesia comico rea-listica (cfr. Cecco Angiolieri: Tre cose solamente mi so’ in grado,/... cioè la donna, la taverna e ‘l dado...)alle locande, luogo di incontri avventurosi dei vari protagonisti del genere romanzesco da don Chisciotte di Miguel Cervantes a Tom Jones di Henry Fielding. In tutti questi casi l’osteria è luogo d’incontro della classe popolare: in essa si va per bere, giocare, chiacchierare liberi da precisi vincoli morali. L’oste-ria diviene, pertanto, il luogo della trasgressione, che si traduce nel rischio e nell’azzardo delle carte o dei dadi, ma soprattutto nell’uso ambiguo della parola e dei gesti che l’accompagnano. In questo ‘mo-tivo’ letterario si inserisce la rappresentazione manzoniana dell’osteria, che, però, in coerenza con la concezione e la struttura dell’intero romanzo, non resta un luogo pittoresco, ma assume una funzio-ne collegata all’itinerario di formazione, alla presa di coscienza di Renzo. Nell’analizzare i tre episodi, che hanno come sfondo ambientale l’osteria, risultano, in primo luogo, evidenti gli elementi comuni. Intanto in tutte e tre i casi Renzo fa il suo ingresso nell’osteria sul far della sera: ognuno degli episodi non è una semplice sosta, né comporta una pausa nel racconto, ma piuttosto rappresenta l’epilogo di un’intensa giornata: nel primo caso, al paese, Renzo è stato immerso da mattina a sera nei vari concerti per mettere a punto il matrimonio per sorpresa; nel secondo caso, a Milano, il giovane sta uscendo da un’esperienza singolarmente emozionante, la partecipazione alla sommossa; nel terzo, poi, a Gorgon-zola, Renzo, ormai fuggiasco perseguito dalla giustizia, ha camminato tutto il giorno in cerca della via per Bergamo e della propria salvezza.

L’osteria, un porto di mare Ma l’osteria è, soprattutto, un luogo specifico: è uno spazio chiuso, che assume un significato con-

trapposto allo spazio protettivo e raccolto della casa, che Renzo si è lasciato forzatamente alle spalle. Ma al «dentro» dell’osteria corrisponde un «fuori», il paese o la città con i quali essa comunica; dive-nendo un «palcoscenico della vita sociale» (M. Corti). Come afferma l’oste del villaggio essa con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare. Per questo l’attenzione del narratore non si concentra tanto sulla descrizione dello spazio quanto sulla rappresentazione dei frequentatori. Comunque, soprattutto per l’osteria della luna piena, non mancano riferimenti a tratti descrittivi quali, ad esempio, l’insegna, dalla quale prende nome il locale. Essa è un richiamo ad un simbolo della vita popolare contadina, che da rilievo, per contrasto, all’ambiente: un usciaccio, un cortiletto buio, un altro uscio, che immette direttamente in una cucina immersa in una mezza luce, che spiove da due lumi a mano, pendenti da due pertiche, attaccate alla trave del palco. È proprio il gioco di chiaroscuro creato dalla luce incerta e con-centrata su alcuni punti a creare i pochi effetti di colore, che rimandano ai contrasti di ombre e di luci caratteristici di certa pittura seicentesca, che Manzoni ben conosce. Ma, al di là di pochi altri tratti de-scrittivi -due panche, una tavola stretta e lunga, tovaglie e piatti alla rinfusa - l’attenzione progressivamente si concentra su quegli elementi che denotano il carattere trasgressivo dell’ambiente. Già nell’osteria del paese di Renzo e Lucia il tono di voce, l’atteggiamento e i gesti provocatori dei bravacci rimandano al

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Percorsi tematici ● L’osteria �

mondo della violenza, come nell’osteria della luna piena a Milano il richiamo all’uso di monete rubate contribuisce a disegnare un pubblico di frequentatori che vive fuori o ai margini della legalità: ladri, giocatori, bevitori, una collettività popolare degradata, non certo riscattata dalla presenza dell’unico che rappresenta la legge, il falso spadaio Ambrogio Fusella, spia nel pieno delle sue funzioni.

Diverso il pubblico presente nell’osteria di Gorgonzola, costituito dagli sfaccendati del paese che, in apparenza, sembrano colpevoli solo di eccessiva curiosità. Ma, in effetti, la loro reazione alle parole del fin troppo eloquente mercante rivela un perbenismo ipocrita, che accetta, senza spirito critico, la vio-lenza dell’interessato tutore della morale della bottega. La trasgressione al vero morale domina, dunque, anche in questo caso.

L’osteria, il regno dell’utile Del resto nell’osteria si va spinti da una ricerca del piacere (il gioco, il bere, il chiacchierare) oppure

in essa si vive mossi dalla ricerca dell’utile, due principi entrambi estranei a quello del rigore morale, che si traducono nella babilonia di discorsi degli avventori o nella morale del guadagno sostenuta da parte degli osti, i grandi protagonisti di questo movimentato mondo, capaci di tacere e di parlare al momento opportuno. Se pur caratterizzati in modo autonomo, essi hanno in comune un elemento, la furbizia, strumento essenziale per la tutela del loro interesse: è questo che giustifica l’esclamazione di Renzo - Maledetti gli osti!... più ne conosco, peggio li trovo - L’oste di Gorgonzola parla poco, ma sono sufficienti quei due occhi pieni di curiosità maliziosa e la reticenza con la quale risponde alle richieste di Renzo per ca-pire di che panni si vesta. Non è uno che si comprometta ingenuamente, che metta a rischio la propria sicurezza per gli altri. Ben più eloquenti di lui gli altri due ‘colleghi’, che, in modo diverso, teorizzano a parole la morale dell’utile e mettono diversamente in pericolo, coi fatti, la sicurezza di Renzo. «Le azioni, caro mio, l’uomo si conosce alle azioni...» predica l’oste del paese, sottolineando che i clienti degni di rispetto sono quelli che consumano abbondantemente, pagano senza discutere, si fanno i fatti loro senza inguaiare l’oste. Ma il personaggio fra i tre più completo è l’oste della luna piena, al quale il narratore dedica anche un rapido ritratto e al quale lascia un’ampia presenza sulla scena, presenza contraddistinta dal significativo contrasto fra il suo opportunistico silenzio e il suo interiore monologare, che hanno un comune intento: sopravvivere, navigando con astuzia fra le difficoltà quotidiane, sottraendosi alla violenza dei clienti e alla sopraffazione della giustizia. Come gli altri due osti lui sa come va il mondo, rappresenta la voce dell’esperienza quotidiana, che non lascia spazio a ideali utopistici, ad aspirazioni di una giustizia irrealizzabile nel mondo del possibile ben diverso dal mondo dell’assoluto. Con tutto que-sto i tre osti non sono sostenitori del male e della violenza, anzi tutti e tre si pronunciano a favore dei galantuomini e non solo in senso ironico. Quello del paese sembra stare dalla parte di Renzo, che pre-senta come «un buon giovine; assestato...» L’oste di Gorgonzola, richiesto da Renzo sul modo di passare l’Adda, segnala solo i luoghi dove passano i galantuomini, la gente che può dar conto di sé. Quello della luna piena, solo perché costretto dalla presenza dello sbirro, gioca a Renzo il brutto scherzo legato all’uso di carta, penna e calamaio per saperne le generalità e nel suo soliloquio assicura di aver fatto di tutto per sal-varlo. Eppure il primo oste denuncia l’identità di Renzo ai bravi; il secondo denuncia Renzo al notaio criminale; il terzo gli rifiuta ogni aiuto concreto. Evidentemente di fronte all’utile la legge morale per costoro perde la sua forza e ciò emerge chiaramente dal fatto che non esiste coerenza ma contrapposi-zione fra le loro parole e le loro azioni.

L’esperienza di Renzo E di fronte a questo mondo dell’osteria come si comporta e cosa impara Renzo? Nell’osteria del suo

paese egli appare ingenuo; crede ancora in maniera assoluta alla buona fede degli altri, prende alla let-tera le parole dell’oste. D’altra parte al suo paese conosce tutti; sa che quei bravi sono gli sgherri di don Rodrigo. È insospettito e taciturno; deve non sbagliare le sue mosse per non compromettere il proprio progetto. Il secondo episodio è fra i tre il più interessante per la conoscenza del personaggio, di cui rap-presenta una grave caduta: Renzo si ubriaca di vino e di parole. Egli non è in grado di comprendere la realtà; scambia gli avventori, e perfino la spia, per amici e vede nell’oste il principale nemico. Si fissa nel celare la propria identità e non si accorge di indossare la maschera pericolosa del rivoluzionario e del furfante. Non capisce (non solo a causa del vino) ma per mancanza di esperienza il senso vero delle parole, dei gesti, degli ammiccamenti. Ma, quando si risveglia davanti al notaio, tutto gli diviene chiaro.

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�0 Percorsi tematici ● L’osteria

Comincia a essere più cauto; comincia a imparare. Nell’osteria di Gorgonzola egli è in grado di mettere a frutto l’esperienza compiuta: non si fida dei

curiosi, non si fida dell’oste e scopre attraverso il mercante il drammatico contrasto fra apparenza e real-tà; sentendo presentare la propria innocente impresa a difesa di Ferrer come l’azione di un capopopolo indemoniato. Renzo entra da questo momento in polemica con quel mondo nel quale finora cercava giustizia, vive il contrasto fra spirito di rivincita e spirito di carità. Si avvia alle prove che lo attendono con maturità nuova.

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Percorsi tematici ● La biblioteca ��

La biblioteca

Un centro di diffusione della cultura o un luogo separato dalla vita?

Nel rapporto fra il personaggio e la parola scritta occupa una posizione di particolare rilievo il libro e, collegato, ad esso, uno spazio - simbolo della cultura: la biblioteca. Veramente di biblioteca in senso proprio si può par-lare solo per gli episodi collegati con i personaggi del cardinale Federigo Borromeo e di don Ferrante, mentre più volte i libri compaiono o vengono nominati a proposito di vari personaggi, in modo diverso tanto da consentire di individuare gli aspetti positivi e negativi che lo scrittore collega al problema della trasmissione della cultura affidata alla carta stampata.

I libri come oggetto di arredamento: la biblioteca d’Azzecca-garbugliLa prima volta che nel romanzo compare una, sia pur ridotta, biblioteca è nel corso della descrizio-

ne dello studio del dottor Azzecca-garbugli, in cui una parete è coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi mentre nel mezzo si [distingue] una tavola gremita di allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride. Qui i libri restano sepolti sotto la loro polvere e costituiscono solo un elemento di arredamento. Non i libri ma le gride servono al dottore, e non tutte, ma solo quelle fresche, che fanno più paura. Come del resto indica anche la toga consunta, ridotta all’uso modesto di veste da camera, Azzecca-garbugli ha da tempo abdicato al ruolo attivo di intellettuale, ha rinunciato alla cultura, degradato a servo del po-tente don Rodrigo, di cui gode la protezione. Per lui i libri sono divenuti segni dello squallore in cui è immerso.

Leggere per star lontano dai guai: la biblioteca di Don AbbondioDiverso il clima nel quale appare immerso don Abbondio, colto seduto sul suo seggiolone con un libric-

ciolo aperto davanti nel celeberrimo incipit del capitolo VIII: «Carneade! Chi era costui?» Il curato rumina, quasi stentasse faticosamente a digerire il contenuto di un testo troppo difficile e remoto dai suoi in-teressi. Don Abbondio, del resto, non possiede personalmente dei libri; taccagno com’è, non impiega i suoi denari in una spesa improduttiva, né mostra di avere particolari interessi culturali. Per lui la let-tura è solo un passatempo, un’abitudine tranquillizzante, che accentua la sua separazione dalle beghe del mondo. La sua cultura si riduce alla conoscenza dei nomi più famosi, di qualche letteratone del tempo antico e, a pensarci bene, da come si comporta non sembra aver letto troppo attentamente nemmeno quello che per lui, sacerdote, doveva essere il libro dei libri: il Vangelo.

La presunzione vanitosa dei libri: la biblioteca del sartoUna piccola raccolta di libri, se non una vera biblioteca, è quella del sarto, che Lucia incontra nel

paesetto ai piedi del castello dell’innominato dopo la propria liberazione. Si tratta di libri di un conte-nuto culturale modesto, che costituiscono però un segno del perdurare delle tradizioni nelle classi po-polari. Il sarto, era un uomo che sapeva leggere, che aveva letto infatti più d’una volta il Leggendario dei Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia...

In questo caso il rapporto vivo con il libro, che costituisce un eccezionale privilegio in un mondo di analfabeti, offre luogo alla sorridente ironia del narratore per la vanitosa presunzione del modesto letterato, che, quando si trova all’improvviso nell’occasione di sfoggiarla non riesce a spremere, dinanzi al cardinale, altro che quell’insulso si figuri! La cultura non costituisce, però, in questo caso un elemento negativo.

Essa per il sarto è il valore supremo, il Borromeo è un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono..., e, se può apparire comico il suo modo di rapportare i vari casi reali del mondo alle letture romanzesche che può aver fatto, egli non perde di vista il rapporto fra sapere e fare, si ren-de conto, infatti che quelle del cardinale non sono solo belle parole in quanto si sa che anche lui vive da pover’uomo, e si leva il pane di bocca per darlo agli affamati.

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�� Percorsi tematici ● La biblioteca

L’emblema della cultura moderna: la biblioteca ambrosianaMa la biblioteca che domina con imponente presenza nelle pagine dei Promessi Sposi è la biblioteca

ambrosiana, fondata in Milano dal cardinale Federigo Borromeo.Mentre la biografia del grande personaggio è condotta in un tono sobrio, anche per sottolineare le

virtù interiori e non la pompa esteriore di questa figura, il timbro della pagina diviene grandioso e so-lenne quando lo scrittore si sofferma a descrivere il grande impegno profuso nella organizzazione della biblioteca. Immenso lo spazio al quale si riferisce la ricerca dei libri (...spedì otto uomini, dei più colti ed esperti che potè avere...per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, Gerusalemme).

Imponenti le cifre dei volumi e dei manoscritti raccolti; notevole l’insieme dei collegi e degli istituti ad essa connessi con particolare riguardo alla stamperia di lingue orientali, che sottolinea il dilatarsi de-gli interessi culturali al di là dei confini della cultura occidentale cristiana. Ma soprattutto significativa l’attenzione rivolta alla liberalità con la quale in questa biblioteca i libri vengono posti a disposizione di chiunque li richieda, che si vede offrire anche da sedere e carta, penne e calamaio (senza pericolo, questa volta, di quegli imbrogli temuti da Renzo nella sua polemica invettiva all’osteria della luna piena!).

La biblioteca ambrosiana si contrappone per questo a ogni altra pubblica biblioteca italiana, i cui i libri restano, di norma, chiusi negli armadi. Questo argomento serve, certo, a evidenziare l’anticonfor-mismo del fondatore, Federigo Borromeo, ma apre anche uno spiraglio sulle ombre del Seicento.

La biblioteca diviene emblema della cultura secondo il pensiero che l’autore eredita dall’Illumini-smo, che ha introdotto la polemica contro la vuota erudizione, alla quale si contrappone il collegamen-to fra il sapere e la pubblica utilità.

Questa è l’idea che viene ripresa e approfondita dalla cultura romantica, che sostiene quella funzione educativa del libro, di cui gli stessi Promessi Sposi sono un esempio.

II piacere vano e egoistico della cultura: la biblioteca di don FerranteA contrasto con l’ambrosiana emerge nel capitolo XXVII, inserita nel ritratto di don Ferrante un’altra

biblioteca, che ne è l’immagine rovesciata: don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabili, poco meno di trecento volumi... per don Ferrante il libro non è un puro oggetto di arredamento come per Azzecca-garbugli né fonte di svago come per don Abbondio.

Per lui i libri sono la sua vita, ma purtroppo al di fuori di essi egli non trova modo di dar senso alla vita, mentre il cardinale Borromeo è un uomo di cultura, che trasferisce in vita attiva per sé e per gli altri quanto dai libri può essere attinto. La biblioteca di don Ferrante rappresenta in modo paradossale la ma-nia seicentesca per l’erudizione: in essa tutto lo scibile umano è catalogato per materie, ogni disciplina ha i suoi testi sacri da memorizzare. «Don Ferrante - come scrive il critico Donadoni - è il passato, e per il passato. Il decimosettimo è il secolo che vide nascere l’astronomia e don Ferrante è competentissimo in astrologia, il secolo del Galileo e del Viviani e della fisica: e don Ferrante è un furioso cultore della magia e delle scienze occulte. È il secolo in cui la Historia naturalis di Bacone tracciava il metodo per giungere alle leggi della vita organica e inorganica: e don Ferrante è un lettore dei lapidali, degli erbari, e bestiari del Medioevo. Il secolo decimo settimo rise di un riso europeo alla lunga, gioconda beffa del Cervantes contro la cavalleria e lo studio principale di Don Ferrante, quello che dava una parvente ragione d’esse-re alla sua vita, e che solo poteva trarlo dalla sua biblioteca fra gli uomini, era la scienza cavalleresca. Il secolo decimo settimo è il secolo di lord Bacone e di Cartesio, cioè dell’insurrezione universale contro l’Aristotele delle scuole: e don Ferrante sceglierà proprio come modello il suo bravo Aristotele».

Pertanto la sua biblioteca resta il simbolo, non tanto del Seicento, che ha avuto anche le sue luci, ma di una cultura libresca, negata alla vita, fonte di un piacere vano ed egoistico che non può soprav-vivere a chi l’ha custodita.

E, in effetti, alla morte di don Ferrante il narratore propone una domanda. E quella sua famosa libre-ria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli: una sorte malinconica che corrisponde alla vanità di una cul-tura libresca, separata dal turbine della storia. Solo questo del resto può essere il giudizio su una simile biblioteca da parte di un intellettuale come il Manzoni, per il quale il libro ha una funzione in quanto appello alla responsabilità della coscienza e alla razionalità, sostenuta da una fede autentica.

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Percorsi tematici ● Il personaggio ��

Il personaggio

1 Dal diacono Martino a Renzo: fra armonia della natura e dramma della storiaL’interesse del Manzoni per la realtà comprende anche l’attenzione per il tema della natura, presente in vario modo in tutte le sue opere con una netta distinzione fra gli scritti giovanili e quelli successivi alla conversione religiosa. Un confronto fra testi, anche cronologicamente, appartenenti a momenti diversi consente di raggiun-gere una comprensione più approfondita delle pagine dei Promessi Sposi dedicata alla rappresentazione del paesaggio e al rapporto fra la natura e la storia inferiore dei personaggi

L’antefatto: «Adda» e «Urania»Sia nell’epistola in versi «Adda», con la quale il poeta rivolge al poeta Monti l’invito ad un soggiorno

in campagna nella villa del Galeotto, sia, successivamente, nel poemetto «Urania», in cui la Musa richia-ma Pindaro al valore della poesia civilizzatrice, Manzoni rappresenta il paesaggio seguendo gli schemi dei modelli classici, da Virgilio a Parini: la campagna è il luogo ameno che offre un rifugio sicuro e di-staccato dagli affanni della vita civile e placa gli animi con la sua bellezza composta ed armonica.

Lo scrittore si limita, pertanto, ad una poesia descrittiva, che si vale di uno stile che tende alla grazia e alla solennità. Evidentemente egli è ancora legato alla concezione classica dell’arte, la quale ha la fun-zione di indurre alla contemplazione rasserenante della bellezza.

Dall’«Adelchi»: il percorso alpestre del diacono MartinoCon la conversione religiosa Manzoni vive una trasformazione ideologica, che ha i suoi riflessi anche

sul piano letterario: egli non solo cerca di comprendere i problemi legati al «vero» morale, cioè a quei valori ideali che devono costituire il fondamento della coscienza, ma tende anche ad esprimere situa-zioni, temi, che abbiano per oggetto la realtà in cui l’uomo vive.

Così la natura diviene lo spazio in cui la persona compie le sue fondamentali esperienze e in cui ri-scopre la viva traccia della presenza di Dio. Perciò non basta più darne una rappresentazione descrittiva, ma occorre arricchire i richiami allo sfondo naturale con i riferimenti allo stato d’animo, alle vicende interiori dei personaggi e, soprattutto, al loro rapporto con la storia.

Esemplare in questo senso il monologo, con il quale il diacono Martino («Adelchi», Atto II, sce-na III) riferisce a Carlo la sua ‘miracolosa’ scoperta di un passaggio attraverso le Alpi, che consente ai Franchi di superare quelle montagne situate fra la Francia e la Val di Susa ritenute fino a quel momento un ostacolo insuperabile, che impediva di cogliere alle spalle le truppe di Adelchi. Siamo ormai lontani dalla dolcezza descrittiva dei paesaggi che decorano i versi dell’«Adda» e dell’«Urania»: già il luogo al-pestre, l’accenno ai monti erti, nudi, tremendi cancella ogni traccia di abbandono contemplativo, mentre apre la rappresentazione di un mondo reale, severo e sublime nella sua asprezza.

Fin dall’inizio si confrontano infatti le difficoltà reali del cammino e la forza di un’interiore speranza. L’angusta valle, nella quale il diacono procede, si apre; lo spazio si dilata ed è questo il primo segnale di incoraggiamento all’impresa.

Nella vasta solitudine della natura la sola presenza umana è quella del pastore, il quale non ha più niente dell’astratta compostezza di certe figure delle liriche giovanili che ripetono gli atteggiamenti dei personaggi presenti nella poesia ‘bucolica’ classica; consapevole di vivere nell’ultima stanza de’ mortali, egli è caratterizzato storicamente come umile popolano medievale, turbato dalla superstiziosa credenza negli spirti abitatori delle misteriose solitudini alpestri. Per lui le montagne sono un baluardo invalica-bile, il segno di una realtà sovrumana che si deve passivamente accettare. Ben diverso l’atteggiamento spirituale di Martino, animato da una sicura fiducia in un Dio ordinatore dell’universo, di cui si sen-te umile, ma attivo strumento. Egli scorge nella solitudine pur aspra delle valli e delle montagne non l’aspetto selvaggio, che può ispirare nell’uomo un superstizioso terrore, ma avverte, invece, il fascino del silenzio, l’armonia di quei luoghi intatti, nei quali meglio si scopre la bellezza della creazione. La natura, allora, in quanto opera di Dio, diviene depositarla di un mistero, che la Provvidenza può svelare

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�� Percorsi tematici ● Il personaggio

anche al più umile dei mortali, purché questi si impegni a ricercarne il senso.Il silenzio assoluto delle Alpi, interrotto solo dalla voce delle acque, del vento, dagli stridi del falco

e dell’aquila, perde ogni connotato orrido o romanzesco, così come l’alternarsi del giorno e della notte richiama ad una scansione ordinata del tempo, che conforta il faticoso cammino del diacono. Nessun indugio sentimentale nella rappresentazione del paesaggio montano; solo a tratti la montagna offre un accessibil pendio, ma subito prevalgono aspetti di imponenza severa; ogni vetta è un ostacolo da superare. Di fronte alle difficoltà però Martino non si smarrisce né si esalta, in quanto egli non è protagonista di un’avventurosa peripezia, ma di un coraggioso percorso nella storia. Storia è, infatti, lo svolgersi della sua umana vicenda, il suo cammino alla ricerca di un varco da tutti ritenuto inesistente; ma storia è, soprattutto, il suo percorso interiore, che si traduce nel progressivo convincimento di essere testimone ed esecutore di un progetto sovrannaturale. Di qui la sua prontezza nel cogliere nella natura il segno, che avvia alla soluzione del viaggio: quando fra le altre individua una vetta coronata di piante, il diacono indirizza verso di essa il suo cammino e da quella cima, finalmente, scorge - quasi per una rivelazione sacra - il campo di Carlo e, soprattutto, il sentiero che a quello conduce.

Il racconto di Martino è sorretto da una crescente tensione, che nella parte conclusiva si arricchisce, sul piano espressivo, di citazioni bibliche: e vidi... oh! vidi le tende di Israello, i sospirati padiglion di Giacobbe. Attraverso queste espressioni l’umile figura del diacono assume la dignità di un antico profeta, che rag-giunge la Terra promessa. E, in realtà, nel suo itinerario egli è stato un veggente, capace di leggere oltre l’aspetto reale e quotidiano delle immagini naturali. Il paesaggio, pertanto, non ha una valenza esclusi-vamente descrittiva e tanto meno pittoresca, in quanto ogni immagine rimanda all’esperienza del perso-naggio, il quale compie, insieme, un faticoso cammino e un profondo itinerario interiore.

Per la sua connotazione sociale il personaggio di Martino anticipa i protagonisti dei Promessi Sposi, in quanto anch’egli è un umile che diviene protagonista di storia. Il suo viaggio, infatti, mentre annuncia la funzione positiva della Chiesa ‘bassa’ nel romanzo, (si pensi al ruolo di aiutante benefico svolto da padre Cristoforo) mette in evidenza che non Carlo o Adelchi, ma un ignoto diacono da la svolta de-cisiva alla guerra franco-longobarda. Ma il viaggio di Martino consente soprattutto un confronto con il drammatico cammino di Renzo alla ricerca dell’Adda, che è un percorso nella natura e, insieme, un percorso nella coscienza.

Dai Promessi Sposi: il cammino di Renzo verso l’AddaNel romanzo il collegamento fra natura e storia è una costante resa più visibile dall’inserimento della

descrizione nella trama di un racconto. Se già nella pagina di apertura la storia si inserisce nella rappre-sentazione del paesaggio (Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare...), un particolare inte-resse, per il confronto che consente con l’episodio del diacono Martino, presenta la grande sequenza che nel cap. XVII corrisponde alla fuga di Renzo alla ricerca dell’Adda. Emergono, infatti, in queste pagine alcune differenze e molte analogie con il monologo dell’«Adelchi».

La differenza principale consiste nella fisionomia e nella situazione del personaggio. Renzo, infatti, si trova in una circostanza drammatica che può sembrare analoga a quella del diacono: anche lui cammina per lasciarsi alle spalle dei nemici ed è in cerca della salvezza, seguendo un percorso nella natura. Ma Renzo non è totalmente innocente come Martino; non solo ha commesso degli errori nelle sue giorna-te milanesi, ma nutre nel cuore un, pur umano, risentimento contro chi lo fa soffrire, contro l’ingiusta giustizia degli uomini, stimolato dalle provocatorie menzogne del mercante, che ha ascoltato, allibito, nell’osteria di Gorgonzola. Renzo non ha, quindi, la fede intatta e profonda del diacono, non si muo-ve come un profeta per annunciare agli altri la salvezza. Per questo egli vive più drammaticamente il rapporto con la natura. Sul piano artistico a ciò corrisponde la meditata conquista del realismo da parte dello scrittore. Ma pur con questa diversità molte e significative sono le analogie fra i due testi e, soprat-tutto, è evidente, anche nel caso di Renzo il rapporto che lo scrittore stabilisce fra natura e storia.

Il rinnovarsi del rapporto fra natura e storiaRenzo, come Martino, non conosce lo spazio in cui si muove; le tenebre, impedendogli la vista dei

contorni reali delle cose, danno un aspetto ostile e orrido alla natura. Renzo con il suo udito percepisce suoni, rumori che favoriscono le allucinazioni; anche per lui, come per l’umile diacono, ogni passo è un ostacolo da superare, l’armonia della natura è sparita; ad essa si è sostituito un senso di caos: la natu-

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Percorsi tematici ● Il personaggio ��

ra desolata, immersa nella notte, è un segno di quanto sia difficile l’itinerario che si compie all’interno dell’animo del personaggio.

Ma il forte turbamento di Renzo non si ferma alla constatazione della difficoltà presente: egli attra-verso un flusso di pensieri, passando dalla polemica alla paura, rievoca il tempo trascorso, ritorna alle radici della sua esistenza, rivive, cioè, la propria storia. Renzo recupera, così, le preghiere dell’ infanzia, ma non ha ancora in sé la forza sufficiente per vincere la sua prova.

Ma Renzo, come Martino, conosce la meta che intende raggiungere. Come le montagne che si oppongono a Martino e che celano in sé il segreto sentiero per la Francia anche l’Adda costituisce una linea dì separazione fra Lombardia e Veneto; è un confine che ripartisce un territorio, ma insieme funge da collegamento con l’altra sponda, che rappresenta l’approdo alla salvezza. Per questo Renzo cerca dì coglierne la voce (l’Adda ha buona voce), quella voce che è per lui la prova di come Dio non dimentica la gente di nessuno e garantisce la speranza del perdono dopo l’esperienza cittadina.

E proprio quando il giovane montanaro sta per arrendersi, nel silenzio si distingue l’indizio che Dio gli offre per salvarsi: la voce amica dell’Adda prima è solo un rumore, poi un mormorìo, poi ancora un mormorio d’acqua corrente.

Come premio della sua speranza e come segno della Provvidenza anche Renzo riconosce il segno (analogo alla vetta coronata di piante), vede (e vidi... oh! vidi...) il luccicare dell’acqua che rappresenta per lui il rinnovarsi della vita. La natura diviene amica, la luce della luna torna a illuminare il paesaggio, la selvatichezza del luogo non suscita più sgomento.

Anche Renzo - come Martino -, dopo aver riconosciuto i segni della Provvidenza negli aspetti della natura, conclude il suo cammino con la preghiera; per lui, certo, la rievocazione dei valori cristiani, rap-presentati dalla barba bianca e dalla treccia nera sono il segno del passaggio dalla caduta alla resurrezione.

Di nuovo, pertanto, la rappresentazione di un paesaggio non si è limitata a una pausa descrittiva, ma, attraverso il collegamento fra la descrizione della natura e la vicenda interiore di un uomo, ha stabilito un rapporto drammatico con la storia

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2 L’eroe della non-violenza da Adelchi a padre Cristoforo Nell’itinerario che Manzoni compie, passando attraverso la tragedia fino al romanzo, non c’è spazio solo per la condanna dell’azione contaminata dall’opportunismo politico. Egli cerca anche un’apertura positiva, coeren-te con la sua fede che ha nel Cristo il modello di una milizia attiva, di una testimonianza capace di riscattare il male del mondo con il sacrificio supremo. Da questa base religiosa nasce la trasformazione del personaggio tragico, rappresentato non come trionfatore sulla scena del mondo, ma visto piuttosto come l’individuo che lotta per liberarsi dal suo destino di potente.

Una rivoluzione cristiana della culturaLa lettura manzoniana della storia rovescia la prospettiva tradizionale della cultura classica e com-

porta l’eliminazione dell’eroe titanico, rappresentato nel teatro classico come una figura sublime, pro-prio perché impegnato ad affermare il trionfo del suo coraggio e della sua intelligenza contro qualsiasi difficoltà.

Ad esso si sostituiscono dolenti protagonisti, che si aprono ai valori cristiani dell’umiltà, della rinun-cia, della non-violenza. Sul personaggio dotato di forte sentire (si pensi agli eroi di Alfieri e di Foscolo) prevale l’eroe agitato dal tormento interiore, che vive con angoscia la crisi della scelta fra bene e male. L’importanza della sua azione non consiste tanto in un gesto di eccezionale coraggio, quanto nella scelta responsabile di un comportamento, che incide nella storia propria e in quella degli altri uomini.

In sostanza Manzoni sostituisce alla figura dell’uomo-titano, come modello da imitare, la figura esem-plare di Cristo, protagonista della passione. È lui la vittima innocente, abbandonato nella solitudine del Getsemani dai suoi apostoli, tradito da un amico: Giuda; è lui che, con la sua sofferenza, riscatta il male del mondo. E per lo scrittore, che ritorna più volte su questo tema, nella modesta miseria della storia umana torna ogni volta a incarnarsi la persona di Cristo. È questa sacra, misteriosa presenza, che conferi-sce dignità al volto sofferente di ogni singolo uomo e gli garantisce il riscatto della redenzione.

Un personaggio innocente tradito e perseguitatoCosì fino dal primo intreccio tragico da lui ideato, quello del «Conte di Carmagnola», Manzoni dà

preminente rilievo alla dignità del personaggio innocente tradito e perseguitato: il valoroso comandante Francesco da Bussone, il Conte di Carmagnola, combattente di tante battaglie, vittorioso a Maclodio, nella guerra fra Venezia e i Visconti di Milano, viene, infatti, presentato come vittima senza colpa, tra-dito dalle bieche trame dei Senatori, che detengono il potere di Venezia. Ma esemplare diviene, per questo tema, soprattutto la figura del principe longobardo Adelchi.

Il personaggio di Adelchi, fin dal suo primo comparire sulla scena, vive nel segno della contraddi-zione, diviso fra la volontà di ubbidire al padre, il re dei Longobardi Desiderio, e l’ansia interiore di giustizia. Vanamente egli consiglia il padre a rinunciare alle terre usurpate al papa Adriano e a non af-frontare una guerra ingiusta

DESIDERIO ... Tu, che proponi alfine?ADELCHI Quel che, signor di gente invitta e fida,

in un dì di vittoria io proporrei: sgombriam le terre de’ Romani;, amici siam d’Adriano: ei lo desia.

DESIDERIO Perire perir sul trono, o nella polve in pria che tanta onta soffrir. Questo consiglio più dalle labbra non ti sfugga: il padre te lo comanda.

Ma più chiaramente si delinea il profilo dell’eroe romantico, scisso fra la tensione verso l’ideale e il duro contatto con una realtà ostile e umiliante nel corso dell’Atto terzo della tragedia. Nei suoi confi-denti colloqui con lo scudiere e amico Anfrido Adelchi rivela l’aspirazione ad esercitare il potere in un modo ideale, per il bene di un popolo concorde come avviene per Carlo, suo nemico:

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ei che su un popolo regnadi un sol voler, saldo, gittata in uno.

La realtà, invece, costringe Adelchi a guardarsi dai duchi, avidi di potere e disposti al tradimento. Anche sul piano personale la sorte del principe longobardo è deludente: secondo i valori ideali di un cavaliere del secolo VIII d.C., Adelchi aspira a rivendicare l’onore della sorella Ermengarda, ripudiata da Carlo, attraverso una ‘singolare tenzone’, un duello in cui provare con il coraggio e la lotta leale la propria fedeltà ai principi dell’onore e della giustizia offesi:

Ei parte, il vileoffensor d’Ermengarda, ei che giurava di spegner la mia casa; ed io non posso spingergli addosso il mio destrier, tenerlo, dibattermi con esso, e riposarmi sull’armi sue! Non posso! In campo aperto stargli a fronte, non posso!

Egli deve adattarsi a custodire il passaggio delle Chiuse e tener lontano il nemico senza affrontarlo, II lamento di Adelchi si innalza più drammatico e amaro, quando l’amico cerca di confortarlo, ricor-dandogli la gloria, di cui gode fra i suoi:

La gloria? il miodestino è d’agognarla, e di moriresenza averla gustata...Un’altra impresa, Anfrido,che sempre increbbe al mio pensier, né giustané gloriosa si presenta; e questacerta ed agevole fia.

Il mio cor m’ange, Anfrido: ei mi comanda alte e nobili cose; e la fortuna, mi condanna ad inìque;...

Questo non è certo, il linguaggio di un eroe titanico, che vanti la propria grandezza al di là di ogni infausto destino. Si profila piuttosto l’immagine della vittima, che si sente condannata alla sconfitta.

Comunque, finora, l’ansia morale di Adelchi vive nell’ambito di un orizzonte terreno: egli crede alla possibilità un’azione giusta, a una gloria da conquistarsi attraverso prove moralmente valide e, soprat-tutto, confida nella conciliazione fra potere e giustizia.

È la sconfitta, la sventura che sconvolge le sue prospettive e lo trasforma. Adelchi è costretto a ve-dere il vecchio padre prigioniero del nemico, il suo regno invaso dai Franchi, a sentirsi abbandonato e tradito dai duchi longobardi, fino al punto di desiderare la morte. Di fronte a queste successive sconfitte egli, però, non cade nel vittimismo, ma conquista una luce inte-riore, che lo guida a spogliare del loro fascino illusorio i trionfi umani. Nell’umiliazione e nella sofferenza Adelchi rivive le varie stazioni della passione di Cristo e in questo itinerario di dolore si innalza in una prospettiva spirituale ultraterrena.

Non per questo si può parlare di conversione, in quanto l’eroe è fin dall’inizio un’anima religiosa, ma si deve parlare di trasformazione, in quanto ciò che prima egli ha solo astrattamente creduto divie-ne, attraverso la «provida sventura», forza operante nella sua vita. Adelchi, infatti, denuncia la violenza del potere, di ogni potere e lo rifiuta in quanto connesso con l’ingiustizia, col privilegio:

Gran segreto è la vita, e nol comprendeche l’ora estrema. Ti fu tolto un regno:deh! noi pianger; mel credi. Allor che a questaora tu stesso appresserai, giocondi

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si schiereranno al tuo pensìer dinanzigli anni in cui re non sarai stato, in cuiné una lagrima pur notata in cielofia contra te, né il nome tuo saravvicon l’imprecar de’ tribolati asceso.Godi che re non sei, godi che chiusaall’oprar t’è ogni via: loco a gentile,ad innocente opra non v’è: non restache far torto, o patirlo. Una feroceforza il mondo possiede, e fa nomarsidritto: la man degli avi insanguinataseminò l’ingiustizia; i padri l’hannocoltivata col sangue; e ornai la terraaltra messe non dà. Reggere iniquidolce non è; tu l’hai provato: e fosse;non dee finir così? Questo felice,cui la mia morte fa più fermo il soglio,cui tutto arride, tutto plaude e serve,questo è un uom che morrà.

Adelchi non condanna l’operare in genere, ma l’azione contaminata dalla violenza, dalla sopraffazio-ne. Con Adelchi che riflette sul segreto della vita si delinea la figura dell’eroe in trasformazione, capace di concepire la non-violenza come scelta di vita. Come frutto di questa conoscenza prende rilievo nel testo drammatico il profilo di un personaggio nuovo, rispetto alla tradizione letteraria: quello dell’eroe che sta dalla parte degli ultimi, dalla parte delle vittime e non da quella degli oppressori.

La scelta della non-violenza nel romanzoII passaggio dalla sfera della violenza a quella della non-violenza richiama nel romanzo il personaggio

di padre Cristoforo che, pur nella diversità della situazione narrativa può, ad un’ analisi attenta, rivela-re notevoli collegamenti con la figura di Adelchi. Certo sono cambiate la collocazione storica e quella sociale: il giovane Lodovico non è un cavaliere, ma il figlio di un ricco mercante, un giovane di indole onesta insieme e violenta, che non riesce a integrarsi nell’aristocratica società seicentesca fortemente clas-sista. Comunque anche alla base della sua personalità esiste un forte contrasto fra un’aspirazione ideale alla giustizia e una realtà deludente, anche lui è tribolato continuamente da contrasti interni. Certo, diversa-mente da Adelchi, Lodovico, pur assumendo spesso il ruolo di protettor degli oppressi e vendicatore de’ torti di fronte ai nobili soverchiatori, si trova costretto a adoperar raggiri e violenza, a circondarsi di bravi e vivere co’ birboni, per amor di giustizia.

Nella storia di Adelchi la ‘singolar tenzone’ col nemico resta una vana aspirazione, mentre Lodovi-co è realmente coinvolto in un duello motivato da ragioni ben poco cavalieresche: una questione di precedenza su una strada, o, per meglio dire, una questione di prestigio, di quel punto d’onore cardine del galateo seicentesco. Il nobile soverchiatore resta ucciso nello scontro e, anche in questo caso, è il contatto con la morte, tanto più provocata da Lodovico in modo violento, a avviare la trasformazione del personaggio. Anche per lui, come per Adelchi, non si può parlare di vera conversione, in quanto addirittura al giovane, amareggiato e deluso dal proprio modo di vivere, più d’una volta gli era saltata in mente la fantasia di farsi frate; ma la decisione di scegliere la vita religiosa, di entrare nell’ordine dei cap-puccini è legata, ora, a un pentimento profondo, a un sentimento di umiltà e di carità tale che gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada. Il richiamo alla Provvidenza significa che il personaggio (il quale assume il nome di Cristoforo) collega all’intenzione una consapevole decisione di cambiare il suo comportamento: per lui comincia, infatti, una vita d’espiazione e di servizio.

Il cristianesimo militante di padre CristoforoII personaggio del romanzo non conclude, dunque, il proprio rinnovamento interiore con la mor-

te, ma, scegliendo, in quanto frate cappuccino, di seguire la regola di San Francesco, si propone come modello il protagonista esemplare della non-violenza, tradotta attivamente in opere di misericordia

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compiute in spirito di umiltà.Questa la differenza sostanziale con la tragedia: secondo la prospettiva più matura dello scrittore, se pur

sempre aderente al pessimismo storico, a Cristoforo è concesso lo spazio per espiare e recuperare i valori positivi nel corso di questa vita. Padre Cristoforo non perdonerà mai se stesso; nel lazzaretto, a Renzo sconvolto dal timore di non ritrovare Lucia viva, il cappuccino dirà: «Ho odiato anch’io: io, che t’ho ripreso per un pensiero, per una parola, l’uomo ch’io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso.»

... «Ah! s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora per l’uomo ch’io odiavo!...»

Egli diviene veramente l’eroe della carità, dell’umiltà e del perdono: il modello del Cristianesimo militante come lo concepisce il Manzoni; sempre pronto ad accorrere in soccorso degli oppressi, si tratti di Lucia e di Renzo o degli ignoti appestati del lazzeretto. Comunque l’affinità profonda fra il perso-naggio tragico e quello del romanzo consiste nel fatto che anche in padre Cristoforo, come in Adelchi, affiora di continuo l’immagine vivente di Cristo umiliato, deriso, vittima innocente dell’ingiustizia del mondo.

Infatti, sul piano della realtà concreta padre Cristoforo è sempre costretto a subire il fallimento dei suoi progetti. Si propone di incontrare don Rodrigo per farlo recedere dal suo infame capriccio e spera addirittura di convertirlo, ma nel palazzotto deve subire allusioni irriverenti e, poi, violenti improperi.

«Eh via! Sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto...» gli dice ‘amorevolmente’ don Rodrigo. E ancora «Dica, dica se non ha fatto la sua carovana?» E di fronte al suo debole parere, che esclude sfide, portatori e bastonati, perfino Azzecca-garbugli si permette con lui un tono da maestro di morale. Ma il peggio tocca al frate nel colloquio col signorotto, che sfodera contro di lui tutta la sua arroganza, proprio perché privo di validi argomenti.

«Eh padre!... il rispetto ch’io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.» Il frate subisce con dignitosa umiltà tut-te le offese che gli vengono rivolte, fino alla turpe insinuazione di aver qualche personale interesse per Lucia; allora l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e in que’ casi fra Cristoforo valeva veramente per due. Ma dopo l’esplosione profetica della sua santa ira si raccoglie nella sofferenza e nel silenzio e si lascia cacciare senza reagire. Sul piano spirituale egli è certo, anche in questo caso, un vincitore e per chiarire questo basta un segno, la presenza e la promessa d’aiuto del vecchio servitore che gli fa sentire vicina la protezione della Provvidenza: «Ecco un filo - pensava - un filo che la provvidenza mi -mette nelle mani.»

D’altra parte anche gli altri interventi a favore di que’ suoi poveretti, Renzo e Lucia, non raggiun-gono un esito migliore: egli provvede a far rifugiare la fanciulla nel monastero di Monza sotto la ‘sicu-ra’ protezione della signora e, senza volerlo, la espone al rapimento da parte dell’innominato, aiutante di don Rodrigo.

Indirizza Renzo a Milano al convento di padre Bonaventura e la sorte vuole che il giovane capiti in una città sollevata e, per un seguito di circostanze, rischi la cattura da parte della polizia e la morte. Padre Cristoforo è un uomo santo, dotato di spirito profetico, ma nemmeno lui può penetrare il mi-stero della vita. Nel congedarsi a Pescarenico dai suoi protetti egli afferma: «il cuor mi dice che ci rivedremo presto». Ma il narratore soggiunge: Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto. E infatti trascorrerà una separazione di due anni fra padre Cristoforo e i due ‘promessi’.

Anche quando non è direttamente in scena padre Cristoforo appare come uno sconfitto: vittima del-le irrisioni di Attilio («Quel frate con quel suo fare di gatta morta... io l’ho per un dirittone, per un impiccione) e peggio ancora delle sue calunnie davanti al conte zio. Presentato dal conte zio al padre provinciale come un soggetto facinoroso, subisce le conseguenze di questa lotta subdola e malvagia, accettando in spirito di umiltà e di obbedienza l’ordine di abbandonare il convento di Pescarenico e d’interrompere ogni rapporto con le sprovvedute creature da lui amate e protette.

Valore positivo dell’azione di padre Cristoforo D’altra parte nessuna sconfitta concreta e contingente può sminuire il valore della sua opera e so-

prattutto della sua fede. Egli è un maestro di vita con il suo esempio in quanto le sue azioni di carità sono sempre coerenti con le sue parole; è un padre spirituale che incide profondamente nella formazio-ne della rigorosa personalità di Lucia e riesce a intervenire più volte in soccorso di Renzo preda dello sconforto e dell’impetuosità del suo temperamento.

Per chiarire questo aspetto è sufficiente richiamare pochi esempi; per primo la preghiera nella chie-

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setta di Pescarenico quando Lucia, Renzo e Agnese sono costretti a lasciare il paese. La forza della fede e della carità è più forte della pena umana: «noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia se non ve la chiedessimo di cuore per lui: ne ha tanto bisogno!...»

Questo tema del perdono è il filo conduttore che segna la presenza del personaggio nei vari episodi e soprattutto in quello conclusivo che ha per sfondo il tragico scenario del lazzaretto. Il ritratto di padre Cristoforo, ormai preda della peste, ma tutto concentrato nello sforzo dell’animo richiama la sofferenza di Cristo nel Getsemani; anche per lui «lo spirito è pronto, ma la carne è debole».

Il suo sguardo ha, però, una luminosità particolare, che esprime una gioia segreta: L’occhio soltanto era quello di prima, e un non so che vivo e più splendido. Del resto, come ha notato recentemente S. Nigro, la figura di padre Cristoforo più volte è collegata a quella della luce: “Fra Cristoforo spunta insieme al sole: «Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pesca-renico...» E lo segue nel suo corso: «alzò gli occhi verso l’occidente, vide il sole inclinato, che già toccava la cima del monte...» I suoi occhi «talvolta sfolgoravano... come due cavalli bizzarri...»” L’insistenza su questi richiami luminosi è un segnale della presenza dello Spirito di Dio, che accende il suo animo.

Egli è l’esempio di come l’uomo sorretto dalla Grazia può raggiungere una sublime capacità di ama-re, rinnovando la carità di Cristo che è morto per tutti i peccatori, anche per don Rodrigo: Egli lo ha amato a segno di morir per lui.

In questa linea la consegna del pane del perdono a Renzo e Lucia, finalmente ricongiunti, diviene il simbolo di una continuità dell’amore che vince anche la morte. Attraverso le parole conclusive di padre Cristoforo «si aprono prospettive ora meste ora consolanti su una vita segnata da un lato di mondane allegrezze e di prepotenti violenze e dall’altro di sofferti travagli e di un’allegrezza raccolta e tranquilla, una vita destinata comunque a prolungarsi in un’altra vita di gioia pura che non avrà fine» (G. Getto).

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3 Il recupero del personaggio negativo: da Napoleone all’innominatoLa responsabilità morale dell’uomo, la sua capacità di scegliere liberamente fra il bene e il male e, di conseguen-za, il significato dell’azione sono temi centrali dei Promessi Sposi. In più episodi, di fronte a personaggi come padre Cristoforo e il cardinale Federigo, torna il problema dei valori ai quali deve ispirarsi l’azione per avere un senso positivo. Parallelamente lo scrittore propone il mistero dell’uomo dotato da Dio di eccezionale intelligenza e di impetuosa volontà, che sceglie di operare nel male e diventa grande agli occhi del mondo. Quale può essere il suo destino? Egli può perdersi per sempre oppure la Grazia può offrirgli l’occasione di riscattarsi?

Napoleone: un potente di fronte alla morteDa questi temi nasce nel romanzo la figura dell’innominato. Ma esso rappresenta la conclusione di

un lungo itinerario, che parte dagli eroi delle tragedie e culmina nella vicenda di Napoleone, protago-nista del «Cinque maggio», l’ode che si svolge nella prospettiva del recupero dell’oppressore.

Il personaggio di Napoleone per la sua grandezza ha affascinato, come gli altri contemporanei, anche il Manzoni, il quale, però, per la sua attitudine al meditare si è sottratto sia al servo encomio che al codar-do oltraggio e solo di fronte alla morte dell’«eroe» scioglie all’urna un cantico che forse non morrà. Si avverte nell’ode la presenza della cultura romantica aperta alla celebrazione dell’individuo, del forte sentire, del titano protagonista di storia. A questa impostazione potrebbe sembrare legata la prima parte della lirica, nella quale compare non tanto il personaggio storico, ma il mito di Napoleone: manca perfino il nome e l’alone di indeterminatezza accresce la suggestione epica dell’eroe; mancano i particolari cronachistici delle sue imprese, ma l’allusione alla capacità di dominare l’immensità dello spazio e del. tempo sugge-risce una dimensione sovrumana:

Dall’Alpi atte Piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno, scoppiò da Scilla al Tenai, dall’uno all’altro mar.

Così come il potere, che lo porta a dominare come arbitro nella storia, sembra farne un sostituto di Dio:

Ei si nomò: due secoli, l’un contra l’altro armato, sommessi a lui si valsero, come aspettando il fato, ei fe’ silenzio, ed arbitro s’assise in mezzo a lor.

In realtà questi stessi elementi, inquadrati nella visione religiosa del Manzoni, assumono senso op-posto: Napoleone, finché è un potente, è un eroe anticristiano; la domanda del poeta se la sua Fu ve-ra gloria ha una risposta implicitamente negativa. Il suo ‘peccato’ non anticristiano consiste però nel-l’azione, ma nel fine che egli si è proposto: l’orgogliosa affermazione di sé. A ciò si collega l’effetto di estrema solitudine, che nasce da questi versi, nei quali Napoleone sembra percorrere un mondo privo di uomini.

L’ode non è celebrativa, ma introspettiva; per questo più alta si innalza la poesia nel momento della catastrofe e dell’esilio. Ora diverso diviene il significato della solitudine, segno di distacco, d’abbando-no, di condanna:

E sparve, e i dì nell’ozio chiuse in sì breve sponda...

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Ma proprio in questa prospettiva comincia ad attuarsi il recupero del personaggio. Il poeta, che con l’immaginazione completa la storia, ricostruisce l’itinerario interiore dell’eroe, che affronta l’esperienza della morte, del confronto con l’eternità, e si impone un bilancio della propria vita.

La similitudine del naufrago (Come sul capo al naufrago..:), posta al centro dell’ode, da un lato chia-risce la situazione dell’esule che sopravvive al crollo della propria esistenza, ma dall’altro si estende a interpretare anche il senso del tempo anteriore: Napoleone appare, allora, già naufrago anche quando appariva un trionfatore.

A lui, che cerca di ripercorrerla, la sua vita risulta un misterioso alternarsi di grandezza e di miseria, senza un filo che dia senso logico ai ‘baleni’ del titano. Inutilmente Napoleone tenta di fare una sintesi della sua esistenza:

e sull’eterne pagine cadde la stanca man.

Se apparentemente dalle immagini che si susseguono nella sua memoria emerge il fascino dell’azio-ne (...il lampo dei manipoli, l’onda dei cavalli...’) più forte è il senso di vuoto e di oppressione, legato alla consapevolezza di aver sprecato i propri talenti; di qui l’amarezza che rasenta la disperazione. Ma in essa si cela la vittoria sull’orgoglio e dall’abisso della coscienza anche in Napoleone emerge il volto di Cristo umiliato e crocifisso:

... più superba altezza al disonor del Golgotagiammai non si chinò.

Questa umiliazione provoca con la conversione il rovesciamento delle scelte di una vita intera e questo comporta la svalutazione dell’azione umana, della gloria terrena, sostituita dalla speranza del-l’eternità. L’intervento della Grazia trasforma la sconfitta in provvida sventura e avvia l’uomo redento

ai campi eterni, al premio che i desideri avanza, dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò.

La solitudine è superata per la vicinanza amorevole di quel Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola.

Napoleone non muore volontario come un eroe tragico dell’Alfieri, ma riesce a dare un senso alla sua morte. Egli è recuperato: l’oppressore è redento ma a prezzo della rinuncia alla vita.

La figura dell’innominato: eroe negativo in crisiNel romanzo la vicenda dell’innominato offre un notevole contributo per seguire l’itinerario della

meditazione manzoniana, che si traduce, sul piano narrativo, in una elaborazione rinnovata dal tema presente nel «Cinque maggio».

Anche l’innominato è un personaggio storico (Bernardino Visconti), anche se non del rilievo di Na-poleone; anch’egli è un individuo particolarmente dotato di volontà impetuosa, di imperturbata costanza.

Anch’egli, soprattutto, è un uomo d’azione, anche se nelle sue gesta non si possono rintracciare i meriti storici che vanno riconosciuti a Napoleone; le sue imprese rientrano nettamente nella sfera del male, sono delitti e atrocità: «Quella casa [la citazione è derivata dalla Storia del Ripamonti] era come un’officina di mandati sanguinosi: servitori la cui testa era messa a taglia, e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco né sguattero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate». Se per l’innominato non si può parlare di gloria, egli raggiunge, comunque, una sinistra fama: è a suo modo un «titano» nel ruolo di masnadiere e di tiranno selvatico. Manca nei Promessi Sposi la cronaca delle varie imprese che appa-riva dettagliata nella stesura del «Fermo e Lucia» e il Conte del Sagrato compare ormai senza nome ed acquista per questo qualcosa di irresistibile, di strano, di favoloso.

Anch’egli - come Napoleone - è associato, al suo primo comparire, alla solitudine dello spazio, ma

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essa corrisponde al suo volontario isolamento dagli uomini. Dall’alto del castellaccio come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto.

Un ruolo essenziale anche nella vita ulteriore di questo personaggio assume il sentimento del tem-po: nella crisi, che già si sta annunciando, passato, presente e futuro rifluiscono in un tormentoso on-deggiare.

Anch’egli, come Napoleone, sente vicina l’esperienza della morte e collega ad essa un oscuro, dram-matico senso dell’eternità. Al vuoto del vivere corrisponde la coscienza oscura di un giudizio, di un ordine, che deriva da una presenza misteriosa e inquietante: Quel Dio, di cui aveva sentito parlare, ma che da gran tempo non si curava di negare né di riconoscere..., gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però.

L’itinerario del Manzoni attraverso la vicenda dell’innominatoNonostante le analogie segnalate, notevole e sostanziale è la novità dell’episodio, che ha per prota-

gonista l’innominato rispetto al «Cinque maggio». Lo spazio dedicato al resoconto delle azioni, come già detto, viene ridotto a degli accenni; il personaggio perde quei tratti che nel «Fermo e Lucia» lo rendevano simile a un protagonista del romanzo nero. Se intorno a lui resta un alone romanzesco, il contenuto avventuroso scompare: l’interesse del narratore si volge non ai fatti, ma alla vicenda ulterio-re e al centro emerge l’evento della conversione. Per di più essa si compie non per il verificarsi di una provvida sventura, ma per una progressiva trasformazione del personaggio. È lui che sta per accollarsi un nuovo delitto, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel’avesse comandato, ma proprio per questo viene assalito in maniera sempre più sconvolgente dall’inquietudine che da tempo lo divora. A questo pun-to l’attenzione del narratore si concentra sulla lotta fra due volontà, quella dell’uomo vecchio e quella dell’uomo nuovo, che, in sostanza, è la lotta fra la volontà umana e la Grazia. Questa condizione spie-ga l’effetto prodotto su di lui da Lucia, che non è solo oggetto della sua compassione, ma portatrice di una verità eterna, una santa protettrice che dispensa grazie e consolazioni. Eppure al pensiero di Lucia e della sua innocenza si collega anche l’angoscioso confronto con le proprie azioni, l’analisi della pro-pria vita che lo conduce alle soglie del suicidio, dal quale si salva solo con la speranza di poter fare del bene a Lucia. C’è una logica nella successione dei pensieri dell’innominato, ma questo aggrapparsi alla promessa di un atto di misericordia è un salto sul piano logico; è già un atto di fede. Nessuna visione, nessuna voce celeste in questa conversione, ma si avverte chiaramente un elemento sovrannaturale, che opera nell’intimo della coscienza.

Dal tempo della morte al tempo della vitaMa l’innominato non viene colto solo nel momento della ‘passione’: a lui è concesso di vivere an-

che il tempo della «resurrezione»: la sua esperienza non si conclude con la morte; dopo la conversione si apre per il personaggio un nuovo tempo del vivere, nel quale mettere alla prova - attraverso il pen-timento e l’umiltà di cuore - la sua antica capacità di agire, le doti naturali, che non sono sminuite, ma accresciute dalla Grazia. Così già al ritorno al castello dopo l’incontro col cardinale, quando raduna i suoi bravi, il suo occhio ha ripreso la solita espressione d’impero, ma le sue parole sono espressione di carità. Il personaggio negativo è totalmente recuperato tanto che appare agli altri addirittura come un santo: i bravi vedevano in lui un santo, ma un di que’ santi che si dipingono con la testa alta e con la spada in pugno. E anche nel momento dell’invasione dei lanzichenecchi, lo scrittore insiste sulla sua umiltà (Era quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare e che s’era umiliato da se), come pure sulla sua solitudine (An-dava sempre solo e senz’armi), ma quest’isolamento ha assunto un senso nuovo: corrisponde a un’auto-punizione di chi confida nel perdono di Dio, ma sente di non aver mai espiato abbastanza. L’umiltà si completa con la carità, che trova il momento più alto quando l’innominato offre un’ospitalità d’ecce-zione nel suo castello a tutti i profughi vittime della guerra. La sua intrepida volontà torna ad ispirargli l’azione, ma essa è, ora, indenne dalla violenza, illuminata dall’amore. Se egli conserva il suo tono natu-rale di comando, resta, comunque, sempre disarmato alla testa di quella specie di guarnigione.

Il recupero del personaggio, ormai libero dal male della violenza, non si traduce solo nell’immagine del santo guerriero, ma anche in quella più intima dell’uomo che intrattiene un perenne dialogo con Dio e che rinnova, nella preghiera, la sua forza di amare.

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4 L’amore fra passione e castità verginale: da Ermengarda a Lucia

Più volte è stato oggetto di indagine critica il silenzio mantenuto dal Manzoni sui sentimenti e le emozioni amo-rose di Lucia, la cui figura è apparsa piuttosto fredda in confronto ad altre celebri eroine romantiche, protagoniste di amori infelici, ma appassionati. Il problema, per di più, ha assunto un rilievo ancora maggiore in quanto lo stesso Manzoni, nella sua tragedia «Adelchi», ha tenuto presente l’aspetto passionale dell’amore, creando la suggestiva figura di Ermengarda, la quale presenta varie analogie con la protagonista del romanzo.

La vittima innocente della sventura Sia Ermengarda che Lucia, vivono l’esperienza della vittima innocente tradita e perseguitata dalla

sventura: separate dall’uomo oggetto del loro unico amore, rivelano nella sofferenza un animo mite nel quale non trovano spazio i sentimenti dell’odio e della vendetta. Quando il padre di Ermengarda, Desiderio, si assume l’impegno di vendicare l’umiliazione da lei subita da parte del marito Carlo, che l’ha ripudiata, Ermengarda risponde:

O padre, tanto non chiede il mio dolor; l’obbliosol bramo;... D’amistà di paceio la candida insegna esser dovea:il cielo nol volle! ah! non si dica almenoch’io recai meco la discordia e il piantodovunque apparvi, a tutti a cui di gioiaesser pegno dovea.

D’altra parte nei Promessi Sposi quando Agnese, ritrovata la figlia, scampata miracolosamente al ra-pimento, impreca contro don Rodrigo: «Ah anima nera! ah tizzone d’inferno!... ma verrà la sua ora anche per lui...», Lucia la interrompe con dolcezza ma con determinazione: «No, no! mamma,; no!... non gli augurate di patire, non l’augurate a nessuno!... preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli toc-chi il cuore, come ha fatto a quest’altro povero signore, ch’era peggio di lui; e ora è un santo». Entrambe le pro-tagoniste femminili vivono la prova della separazione e della rinuncia all’uomo amato, rivelando un animo delicato, ma anche una forte tempra di carattere, che le rende capaci di affrontare il «martirio», provocato dall’amore, nel silenzio, affidando alla voce del narratore l’espressione dei loro sentimenti. Entrambe esempio di virtù cristiana, rappresentano un modello ideale, in cui si incarna la concezione religiosa del vivere del Manzoni.

Diversità fra i due personaggi femminili Non mancano, però, notevoli diversità fra i due personaggi femminili, dovute anche al diverso ge-

nere letterario nel quale trovano spazio. La protagonista della tragedia è un personaggio di alto rango, figlia di Desiderio, re dei Longobardi, sposa di Carlo, re dei Franchi, essa si trova coinvolta, senza sua colpa, nel contrasto politico fra questi due personaggi della storia ufficiale, mentre Lucia è un’umile contadina, inserita nella realtà quotidiana del suo borgo. Anche sul piano dell’intreccio emergono so-stanziali divergenze. Ermengarda è ripudiata, ma soprattutto tradita dal marito, che nasconde dietro la ragion di stato il distacco da lei, ma in realtà le preferisce un’altra donna, Ildegarde. Lucia, invece, è costretta a distaccarsi da Renzo a causa dell’infame passione di don Rodrigo e rinuncia all’amore per lui di sua volontà, quando si assume l’impegno del voto di castità, nella notte trascorsa al castello dell’in-nominato. Dell’amore di Renzo, che non intende affatto mettersi il cuore in pace, Lucia è sempre sicura, anche se proprio questo accresce il suo contrasto interiore. Diverso l’epilogo delle due vicende: quella

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Percorsi tematici ● Il personaggio ��

di Ermengarda si conclude, come si conviene ad un’opera tragica, con la morte, ma proprio la morte rappresenta per l’«eroina» un approdo di pace, l’inizio di una nuova vita:

Cosìdalle squarciate nuvolesi svolge il sol cadente,e, dietro il monte, imporporail trepido occidente:al pio colono auguriodi più sereno dì.

La storia di Lucia si conclude, invece, con il «lieto fine» del matrimonio, che rappresenta il ritorno alla normalità, con le sue beghe quotidiane, ma illuminate dalle gioie della vita familiare. La diversità di questi due epiloghi non è, del resto, dovuta alle scelte imposte dal genere tragico e da quello roman-zesco. È vero piuttosto il contrario: Manzoni abbandona la tragedia, in quanto essa non corrisponde più al suo modo di intendere e interpretare la realtà, soprattutto per quanto si riferisce al mistero della sofferenza, in particolare della creatura innocente. Ermengarda, sia pur pia, tenera, in sostanza incolpe-vole, appartiene alla rea progenie degli oppressori

cui fu prodezza il numero, cui fu ragion l’offesa, e dritto il sangue, e gloria il non aver pietà...

La sofferenza, che la consuma e la conduce alla morte, la riscatta dai privilegi, di cui, se non per sua scelta, ha goduto; la rende uguale alle tante donne che hanno patito, ignote vittime della storia; la tra-sferisce fra le schiere degli oppressi, purificandola dalla «colpa originale» del potere. La sua sventura è, pertanto, provida perché la conduce, attraverso il dolore, alla salvezza:

te collocò la provida sventura infra gli oppressi: muori compianta e placida; scendi a dormir con essi...

Nel romanzo questa soluzione, un po’ esterna e meccanica, è superata: la sofferenza della vittima innocente resta un mistero, ma la Provvidenza diviene una forza interìore, che sostiene l’uomo nel suo scontro col male e lo rende capace di affrontare le prove, che incontra nel suo umano cammino. Proprio a Lucia sono affidate, nella conclusione, parole illuminanti su questo tema. Alle affermazioni fra saccenti e ingenue di Renzo, che sostiene di aver imparato tante cose, Lucia, infatti, interviene di-cendo: «E io, cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che son venuti a cercar me...». E poi, con Renzo, arriva ad affermare che la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.

L’amore - passione nella tragediaLa trasformazione più interessante, che emerge dal confronto fra Ermengarda e Lucia, riguarda il

modo diverso in cui l’autore affronta il tema amoroso. Nell’«Adelchi» infatti, anche se non affidato di-rettamente alla protagonista, compare il motivo dell’eros, dell’amore-passione. Quando apprende dalla sorella che Carlo non la ama più, avendola sostituita con Ildegarde, Ermengarda cade in delirio e, final-mente, svela la natura profonda della sua pena:

Amor tremendo è il mio. Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora non tel mostrai; tu eri mio: secura nel mio gaudio io tacea; né tutta mai

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questo labbro pudico osato avria dirti l’ebbrezza del mio cor segreto.

Ed anche nel ‘Coro’, che chiude la scena, tornano insistenti le allusioni ai terrestri ardori, ai ricordi delle gioie amorose (gli irrevocati dì) e all’ebbrezza della felicità amorosa che turbano la fantasia di Ermengarda, alla vampa assidua che la tormenta, quando dal tenue obblio torna immortale l’amor sopito.

La situazione ha senza dubbio un’origine letteraria, che risale sia al mito di Arianna abbandonata da Teseo, sia a quello di Didone abbandonata da Enea, sia a quello di Armida abbandonata da Rinaldo: anche lo stile solenne della poesia risente l’eco della tradizione classica. Nel motivo si inserisce però un elemento tutto manzoniano: la sofferenza di Ermengarda non consiste nel rimpianto della felicità perduta, ma nel doloroso sforzo di sollevarsi dalla sfera dell’amor profano in quella di una pura, totale consacrazione a Dio.

La trasformazione del tema amoroso nel romanzoSe comunque nella tragedia, che è un genere ‘alto’, nel quale la tradizione ha un forte peso, Manzoni

può ancora accettare il motivo dell’amore-passione, nel genere nuovo e ‘popolare’ del romanzo si sente libero di esprimere l’argomento in una maniera rinnovata. Così nei Promessi Sposi il tema dell’amore, che anima l’intera storia di Lucia, non da luogo a sfoghi appassionati, a scene fortemente emotive, ma si esprime attraverso la pudica riservatezza o addirittura il controllato silenzio della protagonista.

L’amore di Lucia non si ispira a precedenti modelli letterari, bensì è un amore reale, difeso dal silen-zio perché non perda la sua innocenza. Eppure l’attaccamento profondo a Renzo torna a emergere più volte nel corso delle varie vicende: davanti a Gertrude, ad esempio, Lucia osa affermare: «quel giovane che mi discorreva» e qui diventò rossa rossa «lo prendevo io di mia volontà». Quando a Monza, in convento, giunge la notizia dei guai in cui è coinvolto Renzo a Lucia ch’era a sedere... cadde il lavoro di mano; im-pallidì, si cambiò tutta...

E quando, vicina a disperare, formula il voto alla Madonna, la fanciulla Si ricordò di quello che aveva di più caro, per offrirlo alla Vergine.

Ma proprio il voto, dopo la liberazione provoca in lei costernazione, ... ribollimento di pensieri, rammari-co. E nel momento in cui raccomanda ad Agnese di dividere con Renzo i cento scudi, dono dell’inno-minato, Lucia ringraziò la madre con un affetto da far capire a chi l’avesse osservata, che il suo cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo credesse.

Ma più di tutto i sogni e le memorie rivelano l’intensa delicatezza di questo amore. Nel primo di-stacco dal paese, dopo il fallito tentativo del matrimonio, Lucia contempla quella che doveva essere la sua casa di sposa: Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. E, soprattutto, a Milano in casa di donna Prassede, Lucia combatte dolorosamente con le memorie, che non l’abbandonano: non desiderava più altro, se non che (Renzo) si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino, che pen-sasse a dimenticarla... Quell’immagine s’introduceva di soppiatto dietro alle altre... con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato colui si veniva a ficcare... Il non pensare a lui era un’impresa disperata... le rimembranze, compresse a forza, si svolgevano in folla. Mai comunque ai gesti e ai pensieri di Lucia si collega il motivo dell’eros o tanto meno delle fantasticherie morbose; il pudore è una virtù che ha plasmato la profondità del suo animo e si riflette anche nella sua immaginazione.

Lo scrittore, dunque, opera una profonda trasformazione nello svolgere questo tema: egli si stacca dalla tradizione, che dava la preferenza ad una poesia che avesse per oggetto il sogno e la contempla-zione del bello e vi sostituisce l’indagine del reale.

Rinuncia, poi, alla esaltazione della passione amorosa, perché avverte il rischio per il lettore di la-sciarsi affascinare e di non riuscire, pertanto, a sollevarsi a sentimenti più alti e più puri. Quando, in-fatti, l’amore-passione ricompare nei Promessi Sposi esso appartiene decisamente alla zona del male, la zona di Gertrude.

Esso traspare dalle fantasticherie morbose della giovane educanda e ispira, poi, il colpevole rapporto della donna consacrata a Dio con Egidio, che arriva fino al delitto. Quella di Gertrude è una condizio-ne di peccato, ben lontana dalle sofferte memorie di Ermengarda: in tal modo l’eventuale fascino del-l’evento romanzesco viene annullato e il lettore viene orientato verso un limpido giudizio morale.

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5 Personaggi storici e personaggi di invenzione nella violenza della guerra

La conversione religiosa pone al centro del pensiero del Manzoni i valori della giustizia e della carità, cardini della morale cristiana, e lo conduce a giudicare la politica, in quanto regno dell’utile, sfera dell’egoismo, che si traduce in subdole trame e in violenza che trovano il loro culmine nella guerra. Così dai suoi testi non emergo-no i trionfi delle «itale glorie» come avviene, ad esempio, nei «Sepolcri» di Foscolo, ma prende forma la miseria della storia italiana, vista come antefatto della situazione presente.

Rifiuto della tradizione epicaLa tradizione eroica propria del modello classico viene abbandonata e arrovesciata dal Manzoni: per

lui i Romani sono stati un popolo violento, che ha oppresso con superbia e disprezzo le genti sotto-poste al suo potere. Alla concezione aristocratica e individualistica della storia egli sostituisce l’interesse per i vinti, per le masse ignorate dalla storia ufficiale. In coerenza con questa prospettiva cambia anche il suo modo di concepire e rappresentare il tema della guerra: nella cultura classica esso ha ispirato l’epo-pea di poemi come l’«Iliade» e, successivamente, la rappresentazione eroica e leggendaria dei poemi cavallereschi fino alla «Gerusalemme liberata». Secondo questa prospettiva nella guerra si sono realizzati valori essenziali come il coraggio individuale e collettivo, l’amore di patria, il prestigio della stirpe, il primato della stessa fede religiosa.

Manzoni capovolge questa visione: per lui la guerra è solo frutto di irrazionalità; nasce dalla brama di potere che esaspera la malvagità degli individui; dietro l’apparenza della prodezza si celano le trame tortuose dei politici. E la guerra non frutta gloria; porta soltanto lutto, dolore coinvolgendo vittime inermi, masse popolari che restano vittime dell’ingiustizia senza poterne capire il perché. In questo senso Manzoni è il primo a illustrare nella nostra letteratura la ferocia, lo spessore tragico e perfino de-moniaco del potere ingiusto.

Il tema della guerra nelle due tragedieII tema della guerra, però, non compare solo nel romanzo, ma assume una sua forte presenza già

nelle due tragedie storiche («Il Conte di Carmagnola» e l’»Adelchi»), le quali hanno il loro nucleo es-senziale nel contrasto che si verifica tra l’individuo che tende a valori positivi (la lealtà, l’onore, la giu-stizia) e la forza negativa del potere, che lo distrugge.

Questo contrasto emerge da due vicende che hanno come soggetto due guerre: quella tra Vene-zia e Milano nel «Carmagnola», quella tra Longobardi e Franchi nell’«Adelchi». Al di là dello svolgersi dell’azione il poeta trova modo di esprimere la sua dolente meditazione e la sua condanna nei ‘Cori’, che assumono un significato superiore alla situazione contingente e che si dilata in un appello al valore universale della non-violenza.

Nel ‘Coro’, che chiude il secondo Atto del «Conte di Carmagnola» e che si ispira alla battaglia di Maclodio, all’apparenza spettacolare della battaglia (squilli di tromba, spiegarsi di colorate bandiere, avanzare di intrepide milizie) si contrappone subito la realtà orribile della violenza:

...già le spade respingon le spade; l’un dell’altro le immerge nel seno;gronda il sangue, raddoppia il ferir.

La riflessione è resa più amara dal fatto che in questi combattenti manca ogni motivazione ideale, sia pure illusoria; i due eserciti, infatti, sono costituiti (come le bande dei lanzichenecchi che compaiono nel romanzo) da truppe mercenarie, che combattono solo per denari:

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Del conflitto esecrandola cagione esecranda qual’è?Non la sanno: a dar mone, a morirequi senz’ira ognun d’essi è venuto;e venduto ad un duce venduto,con lui pugna ed ignora il perché.

E la tensione drammatica del ‘Coro’ cresce quando il poeta richiama l’orrore della guerra fratricida:

I fratelli hanno ucciso i fratelli: questa orrenda novella vi do.

La storia passata è vista dallo scrittore nella prospettiva del presente: ancora perdura, nel suo tempo, il particolarismo cioè il prevalere dell’interesse locale delle varie regioni italiane su quello nazionale, che favorisce gli interessi politici degli stranieri.

Ma nella conclusione il ‘Coro’ trascende l’analisi e la valutazione delle circostanze storiche per dila-tarsi a una riflessione di carattere universale, ispirata dalla prospettiva religiosa dell’autore

Tutti fatti a sembianza d’un Solo, figli tutti d’un solo Riscatto, in qual’ora in guai parte del suolo, trascorremmo quest’aura vital siam fratelli; siam stretti ad un patto.

Allo spettacolo devastante della guerra si contrappone la speranza dell’amore che si traduce in spinta alla solidarietà tra i popoli.

Nel primo ‘Coro’ dell’«Adelchi» (fine Atto terzo) Manzoni affronta un tema centrale della sua me-ditazione: la sorte delle masse di uomini comuni - in questo caso il popolo latino che nel secolo VIII d.C. vive sotto la dominazione longobarda -, che non contribuiscono al determinarsi del corso storico e che sono ignorati dalla storia ufficiale (un’immensa moltitudine di uomini, una serie di generazioni, che passa sulla sua terra, inosservato, senza lasciare traccia. «Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica»). È un primo accenno al suo interesse per gli umili, quella gente di nessuno, che sarà al centro del romanzo. Ma, al di là di questa prospettiva, un altro tema regge questa pagina lirica: la vanità delle illusioni di quanti confidano nella guerra come strumento di gloria o di liberazione. Sono illusi di mantenere per sempre il predominio in Italia i Longobardi, che si vedono sconfitti dai Franchi; sono illusi di trovare gloria e felicità nella guerra di conquista i Franchi, che tralasciano, in vista di una gloria fugace, valori più autentici.

Lasciar nelle sale del tetto natio le donne accorate, tornanti all’addio, a preghi e consigli che il pianto troncò: han carco la fronte de’ pesti cimieri, han poste le selle sui bruni corsieri, volaron sul ponte che cupo sonò.

In apparenza i Franchi sembrano protagonisti di un’epopea cavalleresca, ma la guerra si rivela per loro un seguito di rinunce, di disagi, di rischi, di progressiva disumanizzazione. Le similitudini ferine accomunano vinti e vincitori, i Longobardi, divenuti ormai preda inerme e i Franchi, visti come inse-guitori famelici:

Ansanti li vede quai trepide fere, irsuti per tema le fulve criniere...E sopra i fuggenti con avido brando, quai cani disciolti, correndo, frugando da ritta, da manca guerrieri venir...

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Ma nemmeno l’inerzia del volgo disperso che nome non ha è un alibi morale di fronte alla violenza, in quanto alla violenza non basta rispondere con la passività, ma occorre contrap-porle quella non-vio-lenza, che nel romanzo si traduce nell’azione illuminata dallo Spirito della carità (in padre Cristoforo, nel cardinale, nell’innominato). Così se la pena del poeta per i Longobardi nel momento in cui diven-gono oppressi

... deposta l’usata minaccia, le donne superbe con pallida faccia,i figli pensosi, pensose guatar

preannuncia il tema del recupero morale degli oppressori attraverso la sofferenza. Il monito ai Lati-ni inerti che sperano di ottenere dall’azione violenta degli altri la propria salvezza anticipa la condanna della neutralità disarmata di don Abbondio, e, inoltre, comprende un nuovo richiamo al presente ri-sorgimentale, all’illusione di quanti confidano che il problema italiano si risolva col solo intervento di forze straniere.

Il tema della guerra fra ironia e dramma nel romanzo Nei Promessi Sposi il tema della guerra torna nuovamente con un certo rilievo e tornano, sostanzial-

mente, i motivi che esso ha ispirato nelle tragedie: la denuncia delle trame subdole dei politici, della vanità del tempo speso nelle azioni belliche, il richiamo all’assenza della gloria e, invece, al dilagare della violenza a danno degli individui e dei popoli incolpevoli.

Siamo ancora una volta in un momento negativo della storia italiana. In pieno Seicento (1628-1630) il ducato di Milano è sottoposto alla dominazione spagnola, quando nel giro di poco tempo si abbatto-no su di esso tre flagelli: la carestia, la guerra per la successione del Monferrato e la peste.

L’argomento della guerra torna più volte nel corso del romanzo, ma, diversamente dalle tragedie, in cui, per fedeltà ai modi tipici di un genere letterario «alto», che Manzoni non si sente di infrangere, domina in modo omogeneo un solo modello espressivo solenne, all’interno dei Promessi Sposi variano la prospettiva e il registro stilistico.

Al lessico proprio del resoconto storico si alterna il linguaggio quotidiano, al tono drammatico si contrappone quello ironico. Con questa sostanziale novità: l’ironia ha per oggetto i personaggi della storia ufficiale, i loro piani, i risultati fallimentari delle loro azioni, sottoposti a una critica demolitrice da parte del narratore; mentre il tono drammatico corrisponde alle rappresentazioni delle distruzioni, del saccheggio, dei lutti subiti dagli inermi abitanti del territorio lombardo invaso dai lanzichenecchi. Questo arrovesciamento nell’uso tradizionale dello stile corrisponde alla convinzione dello scrittore che il popolo è il vero protagonista della storia, in quanto portatore di positivi valori morali.

La demolizione ironica dei politiciGià nel corso del banchetto al palazzotto di don Rodrigo, dopo un accenno del narratore ai raggiri

diplomatici che preludono alla guerra per la successione di Mantova, il tema compare nella gustosa sce-neggiatura della disputa sull’argomento fra il conte Attilio e il podestà: una disputa che dà luogo a una vera parodia di un dibattito politico, nel quale con i nomi spesso storpiati compaiono i protagonisti del potere in Europa, dal papa all’imperatore, dal conte duca d’Olivares al cardinale di Richelieu: «Quel pover’uomo del cardinale di Riciliù tenta di qua, fìuta di là, suda, s’ingegna: e poi? quando gli è riuscito di scavare una mina, trova la contrammina già bell’e fatta dal conte duca...» (è il podestà che parla).

Ma è all’inizio del capitolo XXVII che il narratore deliberatamente sospende il racconto per dare un resoconto puntuale della situazione politica europea e dell’attività bellica concernente l’assedio di Casa-le. Nelle notizie si inseriscono i commenti ironici sulla ingiustizia di tutte le guerre (perché le guerre fatte senza ragione sarebbero ingiuste), sulla realtà ben poco gloriosa dell’attività militare (don Gonzalo... non ci trovava tutta quella soddisfazione che s’era immaginato: che non credeste che nella guerra sian tutte rose).

Il resoconto si conclude con la riflessione, anch’essa venata di ironia, sulla vacuità crudele della guer-ra: Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell’impresa fosse restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e ceteris paribus, anche soltanto un po’ meno danneggiati i tegoli di Casale.

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�0 Percorsi tematici ● Il personaggio

L’effetto che emerge dalla pagina è che il tempo della diplomazia e della guerra è un tempo inutile che scorre in modo faticoso e inconcludente, tanto più che la vicenda finirà col riconoscimento del nuovo duca di Mantova, quel Carlo di Nevers per escludere il quale la guerra era stata intrapresa.

L’ironia ritorna nel brontolio di don Abbondio che, costretto dalla guerra ad abbandonare la quie-te della sua canonica, se la prende con i responsabili della politica. La comicità questa volta nasce dalla sproporzione fra il piccolo orizzonte del curato e il flagello che coinvolge l’intera Europa. Eppure pro-prio a lui il narratore affida un’amara verità. «Bisognerebbe» diceva,«che fossero qui que’ signori a vedere, a provare, che gusto è. Hanno da rendere un bel conto! Ma intanto, ne va di mezzo chi non ci ha colpa.»

La pena commossa per le vittime innocentiII tono cambia quando l’attenzione del narratore coglie gli effetti prodotti dalla guerra, mettendo in

scena la popolazione, che è costretta a subirli, ad esempio i contadini accorsi in città: Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, ... n’erano fuggiti disperatamente... Il ritorno della narrazione si fa incal-zante quando descrive la fuga affannosa degli abitanti su per i monti, la velocità del dilagare dei soldati, che ricorda l’incalzare dei Franchi nel Coro dell’Adelchi’, la furia del saccheggio e della distruzione.

L’effetto fonico di quel maledetto suon di trombe introduce un tono leggendario che trova poi voce nella fantasia popolare, la quale esprime lo stupefatto terrore dilagante tra la gente: vengono; son trenta, son quaranta, son cinquantamila; son diavoli, son ariani, sono anticristi... L’avvenimento non è visto in modo astratto, ma aderisce concretamente alla vita degli umili, segnalando i disastrosi effetti del passaggio dei lanzichenecchi nelle campagne e nei paesi attraversati da don Abbondio con Perpetua e con Agnese nel ritorno verso casa, che si conclude con la scena della canonica saccheggiata.

Da non trascurare che in tanto subbuglio, in simile disastro un soccorso alle popolazioni così colpite non viene dalle istituzioni, ma dall’intervento volontario di un santo laico, l’innominato, che accoglie i profughi, allontana il pericolo di incursioni da parte di soldati sbandati.

Così come nella carestia e nella peste a Milano i preti organizzati dal cardinale e i cappuccini nel lazzeretto sono i soli portatori concreti di una fattiva solidarietà.

Anche da questo tema emerge dunque il fondersi del pessimismo storico e della speranza nel bene operante nelle coscienze e, d’altra parte, - come già segnalato a proposito dei cori tragici - affiora un preciso riferimento alla situazione politica presente. Manzoni comincia il romanzo subito dopo il falli-mento dei moti del 1821; nel momento in cui la borghesia liberale subisce una battuta d’arresto nella sua lotta di liberazione, lo scrittore ricerca nel passato le ragioni dell’arretratezza in cui si trova l’Italia presente e attraverso la sua polemica costruttiva offre agli Italiani il modello di una società futura per la quale operare.