Perché una mostra in bianco e nero sui colori dellAfrica? Per rispondere a questa domanda occorre...
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Perché una mostra in bianco e nero sui colori dell’Africa?
Per rispondere a questa domanda occorre disporci ad ascoltare, ad osservare i dettagli, a lanciarsi oltre le immagini, a cogliere gli
sguardi. Al di là di ciò che la vista trasmette e di ciò che il cervello trasforma in sensazioni è nel profondo di noi stessi che
diventiamo capaci di cogliere i colori, i suoni, le parole.
È questa la storia di un incontro tra popoli diversi nei colori della pelle e dell’anima.
Per chi ha toccato con mano, per chi ha ascoltato i racconti e per chi oggi, per la prima volta, getta uno sguardo distratto sull’Africa, questo
presuntuoso itinerario propone di accompagnarci alla scoperta del volto comune di un continente, culla di civiltà, patria di dignità, splendore di
culture. Oggi non vogliamo dimenticare le profonde lacerazioni di queste terre e le assurde logiche di potere che schiacciano questa gente ma
vogliamo mettere da parte per un momento le preoccupazioni e le ansie di tutti noi a favore di un tributo doveroso. Vogliamo riscoprire nei volti
della quotidianità la forza generazionale di emancipazione dalla povertà; cerchiamo di cogliere negli ampi spazi della natura la potenza dell’Uomo
superiore a tutte le sue miserie; impariamo nella dignità delle fatiche quotidiane l’arte di godere dei frutti del proprio lavoro; ci immergiamo
nell’infinito universo delle culture dove ognuno, nella sua unicità, costituisce un elemento di crescita.
Dal confronto con questi temi cerchiamo di comprendere le nostre origini, capire il presente e rivolgere lo sguardo oltre noi stessi al
traguardo della nostra esistenza. Seguiranno immagini con cui dialogare e da cui trarre conoscenza ma soprattutto da sfruttare per incontrare l’altro nel suo mondo quotidiano di emozioni e abitudini. Dal nostro
rifugio occidentale, in cui spesso è bello crogiolarsi, vorremmo, per un attimo, prendere coraggio per uscire e gettare lo sguardo oltre le nostre
consuetudini cercando di cogliere i colori delle immagini.
Per questo le fotografie della mostra sono in bianco e nero. È di ognuno di noi il compito di colorarle con i propri sogni e desideri di una maggior giustizia, di una pace vera, di una fratellanza nuova per un vita migliore
per tutti.Lo dobbiamo all’Africa e a tutte le culture diverse dalla nostra che ci aiutano, con la ricchezza del confronto, a riscoprire la nostra identità.
Un augurio a chi parte, un abbraccio a chi torna e un’opportunità per chi resta.
Note sulle fotografie: le fotografie che seguono sono state scattate da noi, tutt’altro che fotografi, tutt’altro che professionisti, tutt’altro che
intenzionati a farne una vetrina. Crediamo sia questo il motivo principale per cui valga la pena darvi uno sguardo e se qualcosa vi incuriosirà
siamo qui per ascoltare, parlare, raccontare.I luoghi e le persone delle fotografie sono divisi tra Benin e Burkina Faso
e si riferiscono ai nostri soggiorni a partire dal 1999.
Se qualcuno di voi lo ritiene opportuno questa mostra è disponibile a viaggiare e
incontrare gente con cui dialogare.
www.rocknowar.it/corloinafricae-mail: [email protected]
"Una volta per ogni uomo e nazioneviene il momento di decidere,
in questa lotta tra la verità e la falsità,a favore del bene o del male;
qualche grande causa, il nuovo Messia di Dio,l’uno e l’altro con un’offerta di vita o di morte,
e la scelta è perennetra l’oscurità e la luce.
Sebbene la causa del male possa vincere,sempre e soltanto è la verità che è forte
sebbene il suo destino sia il patibolo,il trono la condanni,
quel patibolo che domina il futuroe dietro l’impercettibile ignoto,
sta Dio nell’ombra,a vegliare sui suoi figli."
James Russel Lowell
Il viaggiatore vede solo ciò che conosce.
(Antico proverbio africano)
Se un cavallo ha dieci
stallieri sarà sempre
assetato. (Proverbio Burkinabè)
Il cadetto prodigo (Racconto Fon, Benin)
C'era un uomo che aveva quattro figli, tre della stessa madre ed uno da un'altra donna. Un giorno chiese ai
suoi figli cosa avrebbero fatto in futuro; il primo rispose che sarebbe diventato agricoltore, il secondo
commerciante, il terzo cacciatore. Il quarto interrogato, affermò che avrebbe fatto degli
incantesimi per guadagnare denaro e aiutare così gli uomini a vendicarsi. Il padre lo cacciò . Egli andò a
vivere lontano dal suo villaggio ma, invece di fare del male, fece dei buoni medicinali e portò la felicità
intorno a sé. Mentre esercitava questa professione continuava a coltivare i suoi campi. Un giorno i primi tre figli decisero di lasciare il padre e questo si ritrovò
in miseria senza viveri e di che vestirsi.
Egli partì per cercare il figlio cadetto e lo trovò in piena prosperità, con molto denaro e una
magnifica abitazione. Commosso dalla miseria di suo padre, il figlio cadetto decise di ritornare
da lui; successivamente, portò con sé tutti i suoi compagni, felici a loro volta di potergli restituire i favori ricevuti, e lavorarono sui
campi e nella casa del vecchio padre.
Questi visse di nuovo nell'agio e ritrovò la felicità grazie a quel figlio che aveva cacciato. Tutto ciò dimostra che la felicità non è l'opera di uno solo, ma è aiutandosi l'un l'altro che si
contribuisce a costruirla.
“Salvare l’Africa con gli africani si può. Gli africani hanno le capacità, le conoscenze, le abilità. Ed hanno anche un loro modo
di crescere, di concepire lo sviluppo. Hanno i loro tempi. Noi africani non stiamo cercando facili vie d’uscita. Vogliamo farci
carico dei nostri problemi, vogliamo cercare vie nostre per risolverli. L’Europa o gli Stati Uniti non devono essere
necessariamente i modelli da raggiungere. L’Africa deve trovare i propri modelli e le proprie strade, senza creare fratture troppo
profonde tra passato, presente e futuro. Dobbiamo assolutamente evitare il rischio di imitazione, da tutti i punti di vista. La stessa democrazia dev’essere adattata ai nostri valori, e non imposta
dall’alto: altrimenti produrrà effetti negativi, o addirittura disastrosi, come è avvenuto in molti Paesi del continente, dove democrazia oggi è sinonimo di lotta per il potere. Per noi invece
potere è servizio, significa prendersi a cuore i problemi e il benessere della gente comune. Non è facile. L’ingerenza politica
ed economica e l’invadenza tecnologica e culturale dell’Occidente stanno distruggendo le nostre tradizioni e i nostri valori, ed hanno
creato sottomissione e dipendenza. Per questo salvarsi con le proprie forze diventa sempre più difficile.”
Mark Oloya, sudanese
Anche se sua madre è povera, nessun
bambino la sfugge per correre dietro a
un'altra madre. (Antico proverbio africano)
Non si può sentire piangere un bambino nel ventre della
madre. (Proverbio bamfinu)
Accoglienza in Africa
Quando tu bussi ad una porta in Africa la risposta non è “chi è?” come diremmo noi in Italia, ma
“avanti, sei il benvenuto, accomodati, sei a casa tua”. La voce
del tuo arrivo si sparge a gran velocità.
Diversi vicini ed un nuvolo di bambini si uniscono con la casa che ti ospita
per rallegrarsi del dono della tua venuta.
Tutte le attività in corso improvvisamente subiscono una
pausa e tutta l’attenzione e la cura si volgono verso di te che in questo
momento impersono la sacralità con la quale è recepita l’ospitalità e la
persona dell’ospite. […] una volta a tuo agio, ti presenti ed infine
comunichi il perché della tua visita.
GIOVANI E ANZIANI
C’era una volta un villaggio ricco e molto popolato, chiamato Lorobo, abitato dalle famiglie nobili di quella regione. I giovani, abituati a fare di testa propria, erano di carattere ribelle e disprezzavano abitualmente il
consiglio degli anziani e le tradizioni, incluse le più sacre. Un giorno, il figlio del grande capo persuase gli amici a lasciare il
villaggio per stabilirsi qualche chilometro più in là e vivere in piena libertà, lontani dal controllo insopportabile dei loro “vecchi” sempre
pronti a fare loro osservazioni non richieste. La popolazione, costernata, chiese al grande capo di castigare l’insolenza dei giovani bastonandoli.
Ma l’anziano rispose: “lasciateli andare secondo il loro desiderio. L’esperienza sarà la loro migliore maestra!”. Pochi giorni dopo il figlio
del grande capo vide un antilope dalla pelle molto bella. Gridò: “quanto mi piacerebbe vestirmi con la sua pelle!”. Il suo desiderio non tardò ad
avverarsi. Subito l’animale fu catturato, scuoiato. Il giovane si vestì della sua pelle ancora calda. Si sentiva così bello da portare quel vestito
sempre addosso. Qualche giorno più tardi cominciò a sentire uno strano malessere in
tutto il corpo: gli sembrava di non poter respirare. Pregò gli amici che gli togliessero la pelle. Nonostante gli sforzi, nessuno fu capace di farlo.
Infatti la pelle, seccandosi, aveva aderito con forza al corpo del povero disgraziato.
Ogni tentativo di strappargliela procurava al giovane indicibili dolori. Nel frattempo la pelle si ritirava sempre più. Quello che più lo faceva
soffrire, però, era la vergogna di essersela messa addosso volontariamente per vanità.
Non resistendo un minuto di più, chiese agli amici che lo portassero a casa di suo padre. Gli anziani del villaggio erano riuniti intorno al grande
capo. Allora, il povero ragazzo si rivolse al padre supplicandolo che lo
liberasse da quel supplizio. Suo padre replico: “cosa mi tocca sentire!…tu che sai tutto e disprezzi gli odiosi consigli degli anziani, come mai non sai risolvere un problema così semplice? Persino la persona più ignorante del villaggio è in grado di suggerirti la soluzione”. E per
umiliarlo di più ancora, chiamò il conciatore e disse: “insegna a mio figlio e ai suoi amici cosa fare!”. “E’ facile. Basta andare al fiume e immergersi”. Così fece. Al contatto con l’acqua la pelle acquistò di
nuovo la sua morbidezza, si distese e, da sola, si separò dal corpo che teneva prigioniero.
Da allora il giovane e i suoi amici furono più discreti e obbedienti, rispettando gli anziani del villaggio, come meritavano.
(Favola del Benin)
Generazione muta
Noi siamoLa generazione del silenzio
Senza trucco né artificioGenerazione muta
Coniughiamo al presenteFecondo delle nostre immaginazioni
I verbi del futuroFuturo incendiatoFuturo testardo
che fertilizza i nostri versi scrutati
All’ombre degli sguardi esaltatiSiamo la generazione del silenzio
Che corre le strade asfaltate di sogniDi sangue e di doloreChe nuotano nel nulla
Assurdo
La natura è la nostra geniaIl popolo, nostra fede…
Le nostre piume di piombo che sputano lacrimeDomani
Saranno nostri testimoniSorridenti alle luci fosforescenti dell’alba
di bronzoFenice… l’avvenire è in cammino…
SilenziosaAttraverso precipizi di una traiettoria senza approvazione
Verso il sole oggi in ginocchioGenerazione muta
Generazione in ginocchioSaremo la scintilladella deflagrazione
Fenice dei tempi di tempestaIl silenzio avanza… a uragano
Eugène Codjo Kpadé(poeta, drammaturgo,
sindaco di Grand-Popo, Benin)
Chi non ha recinto attorno al suo terreno non ha
nemici.
(Antico proverbio del Burundi)
I quattro figli
Un uomo aveva quattro figli che litigavano sempre tra loro anche per delle sciocchezze. Ci soffriva tanto e temeva il peggio per la sua famiglia, anche perché cominciava ad invecchiare. Decise, così, di fare un ultimo tentativo
perché la smettessero.Li chiamò tutti e quattro e li fece sedere in fila indiana. Poi portò un fascio
di rametti ben legati insieme e lo diede al figlio più piccolo. “Prova a spezzare tutto il fascio in un solo colpo" disse il povero vecchio. Il ragazzo
ce la mise tutta ma non ci riuscì. Allora il padre passò il fascio al più grandicello, poi al secondogenito e infine al più grande dei figli. Ma, per quanto ci provassero, facendo leva con il ginocchio e gonfiando le vene
per lo sforzo, fallirono tutti la prova.Con un mesto sorriso, il vecchio prese allora un coltello e, recisa la corda che teneva i bastoncini uniti insieme, cominciò a passarli - uno alla volta – al figlio più piccolo ordinandogli :”Spezzalo adesso!” manco a dirlo il bimbo
lo spezzò, senza sforzo alcuno. “Spezza anche questo…e questo ancora…”.
Quando il bimbo ebbe finito di spezzare tutti i rametti, il vecchio commentò: “Figli miei, se sarete uniti come quel fascio, che nessuno di voi
è riuscito a spezzare, nessun nemico potrà mai farvi del male! Ma se vi dividerete, sarete preda di chiunque vi vorrà male, come rametti che
anche un bimbo può spezzare!”.
Favola dei Bemba (Zambia)
LA PARABOLA DELLA VITA(POESIA DELLA COSTA D’AVORIO)
Sotto il baobab, al chiarore della luna, l'anziano narratore di storie intrattiene bambini, ragazzi e giovani per trasmettere, sotto forma di racconto, la "sapienza". Il narratore africano
conclude spesso la storia con una sentenza, un proverbio, un aforisma.
La tradizione e la saggezza popolare non distinguono il sacro dal profano, la prosa dalla poesia, il sogno dalla realtà.
Poesia, proverbio, sapienza codificata nel ritmo dei tamburi parlanti sono sovente inseriti nel rito, nell'incantesimo, nella magia. Rimandano ai riti primordiali. Toccano quel mondo di animali, e di oggetti dove si reincarnano o vivono gli spiriti degli antenati che bisbigliano con il vento tra le fronde, che
borbottano nel fuoco scoppiettante, che scatenano la loro ira con il tuono e se vogliono, ti colpiscono con il fulmine.
Non c’è bisogno di mostrare
l’elefante con il dito.
(Antico proverbio Basa)
Il bambino non diventa uomo in un sol giorno.
(Proverbio Mongo)
LA MANDIBOLA E IL VENTRE
Tragico è il destino di un popolo che al risveglio trova ai piedi del suo letto ”l’indipendenza” avvolta in un pezzo di stoffa multicolore miticamente
battezzato “bandiera nazionale”, con un inno ridicolmente chiamato “inno dei nostri antenati” come se la nazione esistesse. Come appoggio, ritagli di
testi chiamati Costituzione, calata dall’alto, spadroneggiando libertà e speranze di soggetti di ieri improvvisamente divenuti cittadini.
Tragico è il destino del mio popolo che grida ed è immerso nell’illusione di “sovranità” in cui quattordici è uguale a zero*.
Tragico è il destino del mio popolo che ha conferito a l’illusorio, lo statuto di logico permanente che regola i suoi riflessi, il suo modo di pensare e di agire, il suo comportamento quotidiano.
Tragico è il destino del mio popolo che si alza presto al mattino e non sa dove andare… aspettando ordini come un bambino…
*Allusione al balletto della svalutazione del franco Cfa, in cui quattordici stati “sovrani” non hanno avuto alcun peso nella decisione tanto importante che riguardava la vita delle loro
popolazioni. Quattordici Capi di Stato di fronte ad un ministro.Nonostante ciò…
Tragico è il destino del mio popolo che ha messo nelle mani dell’altro la scrittura della propria storia.
Tragico è il destino del mio popolo che rifiuta ogni ideale di sacrificio e di sofferenza e si compiace nel tendere la mano vedendosi restituite in debito e briciole le ricchezze che gli hanno rubato.
Tragico è il destino del mio popolo, la cui élite formata con grandi spese ha voltato le spalle al dovere e si muove solo per discorsi vanagloriosi e retribuiti.
Tragico è il destino del mio popolo, la cui “élite”, sensibile unicamente all’appello del ventre, calpesta dignità e ideali.
Tragico è il destino del mio popolo che conta solo ventriloqui, ventripotenti e budellame.
Tragico è il destino del mio popolo che non cresce mai…
TragicoTragico è il destino dei popoli che come il mio hanno perso la loro lingua e la loro identità… All’incrocio dei sentieri brilleranno per il loro silenzio e la loro assenza…
TragicoTragedia di un coma prolungato…Questi popoli s’immergono senza fine in “Stati sovrani” con sovranità fittizia.
Sotto dettatura dell’altro, saranno eterne e volgari macchine di consumo e disprezzabili supporti di amaca.
Qui, in questo sguardo che interroga si trova il mio popolo… Ecco un grido, quello dei popoli negri la cui storia è una sequela di insulti, disprezzo senza nome, vessazioni molteplici e spoliation multicolore.Ieri, oppressoOggi, disprezzato e umiliato senza processoDomani, calpestato ed esiliato…Poste testa a testa, queste grida uscite dalle profondità dell’impotenza e dell’indignazione si annunciano come canti di risurrezione che attingono la loro armonia e la loro vitalità nella speranza e la persuasione che un giorno, saremo in piedi.Sì, in piedi.
Eugène Codjo Kpadé(poeta, drammaturgo,
sindaco di Grand-Popo, Benin)
Il re Takpa (Racconto Fon, Benin)
Al tempo in cui il re Takpa era al potere, i suoi sudditi gli rendevano visita e onori e pagavano la loro decima. Ma, al palazzo, affluivano anche mendicanti e miserabili che il re
mandava via.Un giorno, Legba e Fa viaggiando nel paese si fermarono a
rendergli visita. Una volta introdotti i due visitatori, il re chiese il motivo della loro visita, e Fa rispose che desiderava fare un consulto. Sarebbero stati sacrificati un montone, una faraona, un gallo, una gallina ed un colombo. Udendo ciò, il
re rimandò la cerimonia e si sbarazzò degli stranieri.Così essi continuarono per la loro strada e giunsero ad una
povera capanna nel mezzo della savana. Essa era abitata da un misero contadino chiamato Kpadada.
Questo contadino possedeva solo un montone, un colombo, una gallina e una faraona.
Ma ricevette gli stranieri e gli diede da mangiare. Poiché essi desideravano consultare il Fa, il pover’uomo
dovette offrire tutto ciò che aveva. Legba ne fece un cumulo e vi sacrificò le bestie.
Qualche tempo dopo, una carestia si diffuse nel paese del re Takpa. Nella regione del contadino, al contrario, la pioggia cadde e i coltivatori arrivarono da ogni altra
parte per comprare viveri.La regione fu devastata dalla carestia e il re fu
abbandonato dai suoi sudditi e dalle sue mogli. Fu allora che Legba e Fa si recarono in visita dal re come gli avevano promesso in passato. Legba gli rimproverò
il suo egoismo, la sua gran presunzione, e gli raccomandò di aiutare d'ora in poi il suo prossimo senza mai lasciarsi andare al disprezzo verso gli altri. Kpadada fu nominato capo e continuò a vivere nella prosperità e
nella felicità.
Lo stregone muore, ma le sue medicine conservano la
loro forza. (Proverbio Bayaka)
"Quando, in Africa, muore un anziano, è una biblioteca che
brucia". Amadu Hampaté Ba, Costa d'Avorio
IO HO UN SOGNO"Sì, è vero, io stesso sono vittima di sogni svaniti, di speranze
rovinate, ma nonostante tutto voglio concludere dicendo che ho ancora dei sogni, perché so che nella vita non bisogna mai cedere. Se perdete la speranza, perdete anche quella vitalità che rende degna la
vita, quel coraggio di essere voi stessi, quella forza che vi fa continuare nonostante tutto.
Ecco perché io ho ancora un sogno. Ho il sogno che un giorno gli uomini si rizzeranno in piedi e si renderanno conto che sono stati
creati per vivere insieme come fratelli. Questa mattina ho ancora il sogno che un giorno ogni nero della nostra patria, ogni uomo di
colore di tutto il mondo, sarà giudicato sulla base del suo carattere piuttosto che su quella del colore della sua pelle, e ogni uomo
rispetterà la dignità e il valore della personalità umana. Ho ancora il sogno che un giorno la giustizia scorrerà come acqua e la rettitudine come una corrente poderosa. Ho ancora il sogno che un giorno la
guerra cesserà, che gli uomini muteranno le loro spade in aratri e che le nazioni non insorgeranno più contro le nazioni, e la guerra non sarà
neppure oggetto di studio. Ho ancora il sogno ogni valle sarà innalzata e ogni montagna sarà spianata. Con questa fede noi saremo
capaci di affrettare il giorno in cui vi sarà la pace sulla terra".
Martin Luther King
In casa degli altri apri gli
occhi e non la bocca.
Proverbio Bahaya
Chi prende una capanna ne
prende anche i topi e gli
scarafaggi. Proverbio Ntomba
A TE CONTADINO
Questa sera, o Musarivelami l’arte nascosta delle delicate lodifammi bere il segreto delle sonorità liriche
per rendere un santo omaggio al suono del mio balafona queste mani rudi e generose
a questi torsi tarchiati e bruciatia questo viso scarno che genera la felicità questa sera, o musa
dammi la luce e la forza di dire al ritmo del mio liuto,preghiere e lodi.Sei tu contadino
sorgente misteriosa che inonda i focolari di fortuna e di vigoreSei tu domatore della natura
mago della gaiezza il cui sudore arresta la sete cancella la fame soffocata da messi felici.
Sei tu contadinamadre mia, sorella mia, l’essere dai mille fardelli
Sei tu contadinatempio profanato di una fecondità sbrigliata
emissaria di tutte le fughe,di ogni lavoro pesante… di tutti i funerali
sei tuche permetti allo scolaro di cantare senza vertiginisui sentieri che conducono alla capanna del sapere
sei tul’ardire e la fertilità della penna dello scolaro
nella sua capanna d’iniziazionesei tu e tu… solo
contadino, padre mio fratello miocontadina, madre mia sorelle mia
sei tu che permetti agli uccelli di folleggiare di bosco in boscocontadina, essere che mai non dorme…
sempre… in piedi… prima del tempocontadina… madre mia…
ogni soffio della mia vita è un omaggio a teogni gesto che compi è un ruscello che abbevera ed esalta…
la tua bellezza e la tua bontàcontadina, contadino, in piedi al sole…
che prosciugala tua carne d’ardore e la tua pelle di fatica
io ti santifico.
Eugène Codjo Kpadé(poeta, drammaturgo,
sindaco di Grand-Popo, Benin)
Il culto dei morti.
Ieri sera Benjamin ci ha invitati al villaggio per assistere alla commemorazione dell'anniversario della morte di un parente che la parentela è solita organizzare dopo qualche mese dal funerale. Il senso profondo di questa cerimonia si colloca all'interno del complesso culto che contraddistingue la concezione di vita e morte nelle varie culture del mondo. Le differenze con la nostra cultura sono evidenti. Le
influenze del cristianesimo ci aiutano ad accettare la morte come viatico necessario verso la felicità. Questo popolo ha una forte concezione del culto degli
antenati e il senso della cerimonia è racchiuso nella compagnia con cui i vivi circondano il morto e soprattutto la sua famiglia. L'apparente assenza del senso del dolore porta direttamente all'accettazione del senso della morte come parte integrante della vita stessa. Il ricordo del parente di Benjamin e anche la veglia funebre a cui abbiamo presenziato a Kpovidji sono caratterizzate dal forte senso
del gruppo e della coesione attorno ai parenti del defunto. Amici e parenti rientrano da lontano per stare vicini a chi soffre e la musica assieme alla danza
contribuiscono a creare le condizioni per il passaggio della sofferenza. Tutti coloro che si presentano alla cerimonia sanno che prima o poi toccherà anche a loro e che allora gradiranno fortemente la vicinanza di tante persone. Le priorità della
vita quotidiana passano in secondo piano e la dilatazione nel tempo della cerimonia conferisce solennità al momento di dolore personale che viene condiviso con l'intero villaggio. La famiglia di Benjamin si è trovata a partire dalle 22.00 nella
veranda di casa e anche noi siamo rimasti con loro. Il dialogo è leggero e piacevolissimo e molti ridono a crepapelle alle nostre espressioni. Scherzi e risate si susseguono in un'atmosfera di assoluta pace. Le ore passano ma nessuno se ne
preoccupa.
Questa sera si farà festa, per il resto ci sarà tempo per pensare. È incredibile vivere davvero in questo modo. I bambini non vengono mandati a letto. Chi ha
sonno si allontana e dorme in cortile, su un sasso o dove preferisce. La stanchezza colpisce a turno tutti quanti, compresi noi, ma nessuno si preoccupa di andare a
dormire. L'estrema lentezza con cui la festa inizia lascia presagire un suo dispiegarsi lungo tutta la notte. Il villaggio di notte è coperto da una luce quasi irreale. La luna scopre scorci di assoluta bellezza e le esili figure degli abitanti
sembrano essere elementi statici di un dipinto stilizzato. I rumori sono lievi e radi, gli animali dormono e un leggero vento trasporta i suoni lungo gli stretti cunicoli
tra le capanne. Le priorità che la vita di questa gente ha creato si basano sulle reali esigenze della sopravvivenza quotidiana. Nonostante la morte sia all'ordine del
giorno si dedica alla sua commemorazione molto tempo. Non ho colto in questi riti nessuna intenzione esorcizzante ma al contrario un tentativo di comprendere questo fenomeno ed accettarlo come ineluttabile tappa della propria vita. La
cerimonia funebre di Kpovidji ha avuto un grande fascino soprattutto per l'atmosfera di estrema solennità di cui è stata impregnata. Nel cuore della notte,
quando tutti in Italia stanno dormendo, siamo stati partecipi di un momento importante per il villaggio. Il figlio del defunto ci ha ufficialmente ringraziato per la visita in un momento di alta suggestione emotiva. Per solennizzare il momento ci
viene offerta la soda B e ne beviamo pur consci dei rischi di utilizzare tutti lo stesso bicchiere. Ma il rito di accoglienza in un'occasione del genere è di estrema
importanza e non abbiamo neppure considerato l'idea di sottrarci. Alle 4.00, esausti per questa veglia fuori programma, rientriamo a casa per un sonno
decisamente opportuno. L'esperienza di questa notte è un ulteriore tassello del complesso mosaico che si sta creando dentro di noi e che ci permette di
condividere sempre meglio l'immensa cultura di questa terra.(da Diario 2001)
Gli Africani hanno costantemente e intimamente insita la
consapevolezza dell'esistenza di Dio, della sua presenza e
provvidenza. Ciò appare in molti modi, ma specialmente per mezzo
dei nomi teofori. Alcuni esempi daranno l'idea della ricchezza e profondità del senso culturale
contenuto in questi nomi.
Nomi composti con Mawu('Dio' nella lingua fon del Benin)
Mawuti, Mawudo, Mawumo, Mesomawu, Mawusi
(Dio esiste, crea, è buono, vede, è incomparabile, tiene ogni cosa nelle sue mani).
Nomi nella lingua kikongo dello Zaire: Dinzolele Nzambi, Manzambi, Vumi, Lukawu,
Matondo (Dio lo vuole così per me, questo riguarda Dio, pietà,
dono, grazie a Dio).
Nomi nella lingua kinyarwanda(Rwanda, Burundi):
Maniriho, Habyaumana, Hatungimana, Manirakiza, Ngendakumana, Akimana,
Mbonimpa(Dio è, mette al mondo, dà la vita, salva, fa
camminare, dono di Dio, l'ho ricevuto così da Dio).
La miglior conoscenza è quella che conduce l’uomo
verso l’uomo. Se non puoi impedire a tuo fratello di cadere, se cade,
cadi con lui ...
(Proverbio degli iniziati al Vodun)
“E se anche sapessi che domani finisce il mondo oggi stesso
pianterei il mio alberello di mele”.
Martin Luther King
Come molti altri, io volevo diventare un
uomo.Un uomo del mio
popoloUn uomo con i miei
fratelliUn uomo per l’Umanità.
Mi sentivo impotente davanti a questo
compito.Ma riconoscendo la mia grandezza d’uomo, mi decisi a camminare.
Michael Koyoya, poeta burundese
Le mutande di oggi sono meglio dei pantaloni di
domani.
Proverbio Burkinabè
Ciò che succede nella parte alta del
paese sarà conosciuto nella
valle.
Proverbio Peul
UN INCONTRO NELLA NOTTE
[…] Il villaggio di notte è coperto da un fascino inquietante.
La luna fa capolino fra la coltre di nubi e illumina alcuni settori lasciandone altri in
penombra. Il silenzio è quasi irreale e le ombre della notte
sono spezzate solo dalle esili fiammelle di poche lampade a olio. L'abitudine di sempre di parlare sottovoce è ancora più forte alla notte e "costringe" a stare molto vicini alla persona che
parla. La mancanza della corrente elettrica e dell'illuminazione porta gli abitanti a riunirsi
davanti alle capanne per parlare.
Giovani e vecchi divisi da interessi e argomenti sono comunque parte insieme di un sistema
completamente autosufficiente e profondamente unificante.
Il villaggio è così composto di tante cellule umane accomunate dal modo di vivere.
La tranquillità e i rumori della natura pervadono la mente e, come già questa mattina, abbiamo
assistito ad un vero e proprio spettacolo. Questi aspetti della vita del villaggio sono
profondamente arricchenti e aiutano a confrontare la propria vita con un diverso modo di
esistere che valorizza altri aspetti rispetto ai nostri.
Diario 2000, Mercoledì 16 agosto
Il primo fu il ToroTutte le favole che si rispettino iniziano con “…c’era una volta…”. Anche noi vogliamo iniziare la
nostra così anche se vi accorgerete che si tratta di una favola un po’ diversa dalle solite. Cerchiamo insieme di togliere dalla nostra mente tutte le immagini che la riempiono. Chiudendo gli occhi immaginiamo di fare un salto nel tempo e nello spazio. Dimentichiamo i nostri giorni, le
nostre città, la nostra vita quotidiana. Ripercorriamo il tempo indietro di centinaia di anni, lo spazio di migliaia di kilometri. Fatto?
Ok! Siamo arrivati in un luogo di cui nulla conosciamo, neppure il nome. Immaginiamo una folta foresta che copre tutto ciò che è possibile vedere. Intorno a noi solo alti alberi, vegetazione
opprimente e tanto caldo che a volte anche respirare è difficile. In questo periodo i ricchi paesi europei sviluppano attività commerciali in tutto il mondo
conosciuto e solcano i mari con grandi velieri alla ricerca di terre sconosciute dove insediarsi e riportare in patria nuovi frutti, prodotti, risorse naturali. In queste terre non occorre chiedere il
permesso di appropriarsi di ciò che si trova perché si tratta di luoghi abitati da animali e qualche volta anche da uomini, ma sempre incivili e rozzi a tal punto da non saper neppure parlare.
Come si può trattare con chi non sa parlare? Come si può trattare il prezzo di cose di cui non si può descriverne l’aspetto? Se non c’è comunicazione non c’è civiltà. Con queste ed altre
convinzioni i coraggiosi navigatori commercianti comprendono ben presto che nella parte di mondo non ancora conosciuta si nascondono tesori immensi e ricchezze infinite per gli anni a
venire. Non si può certo rinunciare ad una simile opportunità; occorre organizzarsi. Dopo innumerevoli viaggi alla scoperta di mondi lontani i ricchi paesi europei decidono di iniziare
attività commerciali in molti di essi. Vengono create piccole città in cui risiedono per qualche tempo i commercianti e preparano i carichi da spedire attraverso gli impetuosi oceani fino alle
ricche città della vecchia Europa. Dopo anni di ricchi commerci a qualcuno sovviene un importante idea. Perché non esportare,
oltre alle pregiate mercanzie, anche uomini giovani e forti per lavorare nelle immense piantagioni delle nostre campagne? Perché non chiedere a questi esseri, metà uomini ma
certamente per l’altra metà animali, di trasferirsi in Europa, o in America, nel Nuovo Mondo, dove le condizioni di vita sarebbero molto migliori per loro. In cambio del lavoro nei nostri campi
essi potrebbero smettere di vivere in case di fango, di cacciare animali selvaggi per mangiare, di adorare il fuoco, il vento, la pioggia per la paura di essere da essi travolti. Beh, pareva proprio
una grande idea. Ma come spiegarlo a questi esseri? In che lingua? Scambiare i loro prodotti con oggetti a loro graditi, come vecchi abiti, cappelli, oggetti per noi senza valore, era semplice; ma
non era altrettanto facile spiegare loro cosa significa emigrare verso il nostro mondo, dimenticando per sempre questa terra difficile, impenetrabile, piena di feroci animali, di
malattie, di tanti pericoli.Allora si decise di non dirglielo. Di convincerli con molta insistenza, con la forza; ma senza
cattiveria. Un po’ come si fa con gli animali che non vogliono obbedire; si convincono con le maniere forti, in fondo è per il loro bene, no? Oggigiorno qualcuno di essi ha capito, qualcun altro
no; ma non possiamo pensarla tutti allo stesso modo, ovviamente.In un piccolo paese ad oltre 5.000 km da qui molti di questi uomini venivano catturati per
diventare tranquilli operai delle ricche piantagioni occidentali. Ma molti di essi non accettavano di essere deportati e ingaggiavano lotte violente con i conquistatori europei, ma quasi sempre le perdevano. Un uomo, che chiameremo Benjamin Amehou cercò di sfuggire con la sua famiglia a
queste lotte. Ma i conquistatori lo inseguirono nella sua corsa dal nord al sud del paese. Ma mentre per molti suoi compagni la sorte riservò una fine che preferiamo non descrivere per il nostro amico Amehou la storia aveva in serbo qualcosa di speciale. Esperto conoscitore della
brousse equatoriale, la folta vegetazione che popola le lagune a ridosso dell’oceano nel sud del paese, riuscì a sfuggire ai suoi inseguitori. Nascondendosi all’interno della foresta e
attraversando le paludi stagnanti per molti km raggiunse finalmente la terraferma, in un luogoancora sconosciuto per tutti gli abitanti del paese. Su questo piccolo pezzo di terra le guardie dei commercianti europei non riuscirono a seguirlo e qui Benjamin trovò, dopo tanto penare, un po’
di riposo e tranquillità; nel frattempo molti dei suoi fratelli abitanti nel paese venivano arrestati e condotti attraverso il mare fino al Nuovo Mondo o nella Vecchia Europa per lavorare e creare
migliori condizioni di vita…. Per gli altri. Benjamin iniziò ad esplorare la terra che lo aveva accolto e si accorse subito che non si trattava
di un luogo disabitato. Un enorme toro vagava attraverso la brousse e si cibava della lussureggiante vegetazione.
Benjamin si accorse ben presto che avrebbe dovuto procurarsi il cibo per poter sopravvivere e decise di cacciare proprio quel toro che ignaro lo aveva accolto al suo arrivo. Il Toro costituì il primo cibo per sé e per la sua famiglia nella nuova terra. In onore dell’animale che gli salvò la
vita decise di chiamare il primo insediamento del nuovo
villaggio “Todjohounkoin” che significa “il primo fu il Toro”. La testa dell’animale costituì il trono di Benjamin e il simbolo del nuovo villaggio.
Con il passare degli anni i nuovi abitanti di Todjohounkoin si stabiliscono in prossimità dei corsi d’acqua e la famiglia Amehou si allarga progressivamente sino ad accogliere altri stranieri
giunti dal nord. Le acque ricche di pesci, la terra fertile e le abbondanti piogge permettono al villaggio di crescere e sopravvivere lontano dalle insidie dei conquistatori stranieri. La famiglia Amehou accoglie con ospitalità tutti coloro che giungono da terre lontane per trovare migliori
condizioni di vita fin quando un giorno qualcuno decide di impossessarsi del villaggio e togliere a Benjamin e alla sua famiglia il controllo di Todjohounkoin. Da quel momento in poi non è più
la famiglia Amehou a guidare il villaggio e la testa del Toro viene trasferita nelle abitazioni degli stranieri. Si apre un periodo molto buoi della storia del villaggio che sfocia in una
maledizione che gli Amehou impongono a tutti gli abitanti: fino a che la testa del Toro non tornerà nelle capanne degli antichi proprietari il villaggio di Todjohounkoin non conoscerà
nessuno sviluppo; per gli abitanti ci sarà solo povertà e fame e in molti saranno costretti ad abbandonare casa e famiglia per trovare la sopravvivenza in terre lontane. La terribile profezia si avvera ben presto e per lunghissimi anni le condizioni di vita del villaggio sono molto dure. Ma finalmente nel febbraio 1999 le nuove generazioni degli abitanti prendono un importante decisione: che la testa del Toro ritorni di proprietà degli Amehou e si cancelli per sempre la
maledizione. È proprio in quell’anno, dopo sei mesi dalla storica decisione, che la parrocchia di Corlo raggiunge Todjohounkoin e inizia un cammino assieme al villaggio che ha portato alla costruzione di un centro sanitario gestito dagli abitanti assieme alla chiesa locale. In questi anni dal villaggio si sono offerti molti volontari per collaborare alla costruzione delle nuove
opere e per fondare le basi dello sviluppo futuro della popolazione. Il nostro cammino assieme a Todjohounkoin ci ha portati oggi a raccontarti questa strana storia
fatta di tradizioni, magia, guerre, miti e leggende. Ti proponiamo di camminare anche tu con noi per una parte di questa lunga strada in compagnia di nuovi amici vicini e lontani.
Adesso possiamo ritornare alle nostre città ripercorrendo a ritroso il viaggio iniziale assieme a Todjohounkoin e alla sua Testa di Toro.
Todjohounkoin, Benin, Africa occidentale.
Corlo, Modena, Italia.
Stare seduti senza far nulla non aiuta a togliere la spina
dal piede.
Proverbio Burkinabè
L’uomo ha due piedi ma non può fare due passi per
volta.
Proverbio Burkinabè
La parola che esce dalla bocca
scavalca ben presto le
montagne.
Proverbio Burundese
Credo che la tradizione orale sia talmente forte, che non potrà mai
scomparire.Non si può scrivere tutto…
mentre con la parola…puoi passare delle ore a raccontare dei dettagli e questi resteranno nella testa
delle persone che ti ascoltano. È per questo che quando una persona
anziana muore, per noi è una catastrofe…
la nostra storia rimane innanzi tutto storia orale.
Angélique Kidjo
(cantante di Ouidah, Benin)
La spiaggia di Ouidah, con il suo silenzio rotto solo dalle onde morenti dell’oceano e il suo vuoto spettrale interrotto dai muri ingialliti di vecchie fortificazioni in
cemento, è la testimonianza muta dello strazio di milioni di schiavi che, forse, ripetevano questo
proverbio del Benin: “Se non sai dove vai, ricordati almeno da dove vieni”. Gli schiavi non sapevano di compiere un viaggio senza ritorno che li avrebbe spogliati di ogni dignità. L’Unesco ha eretto sulla
spiaggia di Ouidah un monumento per non dimenticare che “la deportazione e la tratta di trenta milioni di negri ridotti in schiavitù nelle Americhe per
oltre trecento anni devono essere riconosciute come il primo crimine contro l’umanità. La Francia, l’Europa,
la Comunità internazionale devono accettare di assumersene la responsabilità affinché, all’alba del
terzo millennio, questa emiplegia della memoria finalmente si arresti”
Elikia Mbokolo, Le Monde
Diplomatique, Aprile 1998
Quelli che sono morti non sono andati via:
essi sono qui in un’ombra condensati.
I morti non sono sottoterra, essi sono nell’albero che
stormisce, nel bosco che geme,
nell’acqua che scorre, essi sono nella capanna,
essi sono nella folla, i morti non sono morti.
Birago Diop, poeta africano
Gruppo CorloInAfricaGruppo CorloInAfricaAl termine del viaggio ideale, ma non troppo, attraverso le immagini
dell’Africa vogliamo presentarci. Certo, direte voi, presentarsi alla fine di un viaggio non è molto cortese né forse utile. Ma abbiamo preferito
lasciar parlare prima l’Africa dando a tutti voi l’opportunità di confrontarvi liberi da ogni condizionamento.
Il nostro gruppo nasce e si sviluppa all’interno del contesto parrocchiale dopo la prima esperienza di alcuni di noi nel 1999 in Benin. La storia
prende le sue origini dalla costruzione del centro sanitario di Todjonoukoin dove il lavoro della popolazione locale, unito alla
solidarietà di tanti italiani ha visto nascere il dispensario e l’abitazione del personale sanitario.
È stato acquistato il fuoristrada con cui le infermiere possono raggiungere i luoghi più lontani all’interno della brousse equatoriale.
E’ arrivata l’acqua potabile, l’illuminazione con i pannelli solari, il comitato di gestione. Parallelamente alle attività di costruzione e
organizzazione del centro sanitario sono iniziate attività collaterali in campo economico.
Il programma di microfinanziamento ha consentito di sviluppare piccoli progetti a gestione individuale o famigliare con prestiti a riscatto. Un capitale depositato in una banca locale permette di attivare micro-progetti mirati allo sfruttamento delle risorse locali e delle potenzialità
del beneficiario cercando di intervenire nella debole economia di sussistenza che caratterizza tanti piccoli villaggi africani. Il lavoro, le discussioni, i progetti sono sempre stati accompagnati da un franco rapporto di collaborazione con la gente comune desiderosa di creare
qualche attività o di realizzare qualcosa di positivo per il proprio villaggio.
In questo clima, pur tra le mille immaginabili difficoltà, sono sorte iniziative di gemellaggio tra giovani, scambi di disegni, raccolte di storie dagli anziani. Le tante narrazioni raccolte sulla cultura locale, le tradizioni e le abitudini costituiscono il bagaglio insostituibile dell’attività
di CorloInAfrica in Italia. Gli incontri promossi nei gruppi e nelle scuole, le collaborazioni con altre
associazioni e lo sviluppo del sito internet mirano a testimoniare la grande portata di un incontro culturale fatto di uomini e dei loro bisogni. Per chiunque è possibile aprire gli occhi sul mondo accorgendosi di chi lo
abita.
Questa è la priorità di CorloInAfrica e questa è la base del Questa è la priorità di CorloInAfrica e questa è la base del continuo esame della nostra coscienza. Con questa mostra continuo esame della nostra coscienza. Con questa mostra fotografica lo proponiamo anche a voi sperando che possa fotografica lo proponiamo anche a voi sperando che possa
aiutarci a condividere ansie e paure, vincere l’indifferenza e aiutarci a condividere ansie e paure, vincere l’indifferenza e camminare sulla via della vera condivisione.camminare sulla via della vera condivisione.