PER NON FRAINTENDERE E CONFONDERSI… Analisi … · La scienza della politica ha provato nel corso...

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5 CONTRIBUTI PER NON FRAINTENDERE E CONFONDERSI… Analisi politologiche del terrorismo di LUCA CANDEAGO La scienza della politica ha provato nel corso degli anni a dare un’analisi approfondita e più razionale possibile di un fenomeno tanto complesso quanto il terrorismo. Il compito non è dei più semplici a causa delle mille sfaccettature e peculiarità dell’oggetto in questione, ma deve pur esserci una spiegazione logica se il ricorso alla via della violenza organizzata è talmente progredito da essere considerato un soggetto primario dell’odierno scenario politico tanto interno come internazionale. Quale motivazione spinge numerosi gruppi a violare l’ordine costituito, e ad adottare determinate tattiche? Come dimostrato dai più significativi e- venti storici, non sempre il ricorso alla violenza politica porta i risultati sperati, ma il rapporto causa-effetto è totalmente sproporzionato in base alle forze numeriche in campo 1 . Le difficoltà nel dare una definizione sufficientemente rigorosa, ma allo stesso tempo abbastanza generale, so- no enormi, specie se si tende a dar credito a tutti le voci in questione. L’ostacolo maggiore a cui ci si trova di fronte è come affrontare un’analisi del terrorismo, cioè se considerarlo dal punto di vista stretta- mente politologico oppure sconfinare anche in altri campi delle scienze sociali. Se da una parte la violenza organizzata procede in modo sistema- tico e ripetitivo, dall’altra non si può escludere che sorpresa e imprevedibilità sono pure caratteristiche attribuibili al fenomeno considerato 2 . 1 Cfr. G. WARDLAW, Political Terrorism. Theory, Tactics and Countermeasures, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p. 132. 2 Cfr. F. REINARES, Democratic Regimes, Internal Security Policy and the Threat of Terrorism, in «Australian Journal of Politics and History», 44/3, 1998, pp. 351-371.

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CONTRIBUTI PER NON FRAINTENDERE E CONFONDERSI… Analisi politologiche del terrorismo di LUCA CANDEAGO La scienza della politica ha provato nel corso degli anni a dare un’analisi approfondita e più razionale possibile di un fenomeno tanto complesso quanto il terrorismo. Il compito non è dei più semplici a causa delle mille sfaccettature e peculiarità dell’oggetto in questione, ma deve pur esserci una spiegazione logica se il ricorso alla via della violenza organizzata è talmente progredito da essere considerato un soggetto primario dell’odierno scenario politico tanto interno come internazionale. Quale motivazione spinge numerosi gruppi a violare l’ordine costituito, e ad adottare determinate tattiche? Come dimostrato dai più significativi e-venti storici, non sempre il ricorso alla violenza politica porta i risultati sperati, ma il rapporto causa-effetto è totalmente sproporzionato in base alle forze numeriche in campo1. Le difficoltà nel dare una definizione sufficientemente rigorosa, ma allo stesso tempo abbastanza generale, so-no enormi, specie se si tende a dar credito a tutti le voci in questione. L’ostacolo maggiore a cui ci si trova di fronte è come affrontare un’analisi del terrorismo, cioè se considerarlo dal punto di vista stretta-mente politologico oppure sconfinare anche in altri campi delle scienze sociali. Se da una parte la violenza organizzata procede in modo sistema-tico e ripetitivo, dall’altra non si può escludere che sorpresa e imprevedibilità sono pure caratteristiche attribuibili al fenomeno considerato2.

1 Cfr. G. WARDLAW, Political Terrorism. Theory, Tactics and Countermeasures, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p. 132. 2 Cfr. F. REINARES, Democratic Regimes, Internal Security Policy and the Threat of Terrorism, in «Australian Journal of Politics and History», 44/3, 1998, pp. 351-371.

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Prima però di analizzare in specifico le peculiarità del terrorismo è necessario fare un piccolo passo indietro, tornare al punto «zero», al big bang della irrazionalità umana.

1. Terrore, violenza politica, terrorismo La distinzione tra la violenza politica e il terrore rappresenta il punto di partenza per l’analisi di un fenomeno che nel corso dei secoli vede co-stantemente aumentare il suo peso politico. Con «terrore» infatti si in-tende una tecnica usata regolarmente nel corso della storia per conserva-re il potere e rinforzare le proprie linee politiche grazie alla diffusione della paura. L’obiettivo primario è generalmente di evitare complicazioni e di precludere qualsiasi intento di opposizione. Da questo punto di vista può essere tranquillamente distinto dalla violenza arbitraria, la quale può essere ridotta a un semplice brigantaggio, e ogni sua azione è soltanto fi-ne a se stessa3. Durante la Rivoluzione Francese (1793-1794), i giacobini lo utilizzano, ma appare ancor più manifesto nei regimi totalitari tedesco e russo del XX secolo. In Unione Sovietica viene volutamente scelto come strumento di governo con lo scopo di distruggere qualsiasi manife-stazione di dissenso ancor prima del suo manifestarsi. L’estremismo rag-giunge il massimo livello in Cambogia, dove Pol Pot e i Khmer Rossi so-no artefici di un terribile genocidio con l’obiettivo di cancellare totalmen-te l’ordine politico precedente e porre le basi per un sistema totalmente nuovo. Solamente l’eliminazione dei rappresentanti dell’ancien régime può assicurare, ai loro occhi, la purezza rivoluzionaria.

Il regno del terrore è generalmente di breve durata: secondo uno studio di Martha Creenshaw del ’79, dopo un periodo di tempo medio di cinque anni, lascia spazio a un’amministrazione ordinaria e di routine. Questo ovviamente comporta una continua sottomissione della popola-zione nei confronti della classe dirigente, e di conseguenza la nazione tende a optare per una certa tranquillità. Il terrore raggiunge il suo apo-geo quando la classe politica in questione ha ben strette nelle sue mani le redini del potere, ma ben presto la precaria situazione economica e

3 Cfr. The Blackwell Encyclopaedia of Political Science, a cura di V. BOGDANOR, Blackwell Reference, Oxford-Cambridge 1991.

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l’impoverimento tecnologico porta la società a un rifiuto delle norme post-rivoluzionarie.

Se per Machiavelli «ripigliare lo stato» (conservare il potere) signi-ficava periodicamente «mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo»4, il ricorso al terrore da parte di chi detiene il potere all’interno dello Stato non può rientrare tra le forme del terrorismo politico propriamente detto. Occorre fare dunque attenzione per non cadere in un facile equivoco. La presenza di una forte coazione e la continua coercizione da parte delle classi al potere non implica la pre-senza di gruppi o organizzazioni armate clandestine. In un regime gover-nato con la forza l’imposizione di determinate regole e la privazione di altri diritti fomentano malesseri generali, che potrebbero portare solo in seguito allo scoppio di una rivoluzione. I regimi autoritari o totalitari dif-ficilmente cadono a causa di contrasti all’interno del sistema politico, ma nella stragrande maggioranza dei casi sono variabili esogene con influen-ze interne a provocare l’implosione delle diverse dittature.

Per questo il terrore può essere definito un caso «anomalo» di applicazione della legge, mentre il terrorismo si presenta come una sfida aperta alla legge. Il terro-re rappresenta una forma di comportamento continuativo, che si vale di strumenti legali quali l’emanazione di leggi apposite, e di conseguenza ot-tiene un crisma di ufficialità. Nella maggioranza dei casi è sempre la pro-clamazione di una situazione d’emergenza che giustifica la repressione violenta da parte dello Stato nei confronti dell’opposizione. L’ecceziona-lità giustifica il ricorso a misure anormali, ma il terrore da eccezionale tende a diventare normale, fino a trasformarsi in condizione per la so-pravvivenza di quel regime che l’aveva evocato5.

Qualsiasi Stato, democratico o meno, può ricorrere a misure ec-cezionali, ma soltanto alcuni Stati sono regni del terrore, in particolare quando il terrore è strutturale, essenziale al regime che vi ricorre. Uno Stato può rivelarsi strutturalmente terroristico in quanto fa del terrore il suo principale strumento di governo. Oppure, il suo terrorismo può rive-larsi come il sintomo del fallimento di un programma politico.

4 N. MACHIAVELLI, L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. MARCHAND, D. FACHARD e G. MASI, Salerno, Roma 2001. 5 Cfr. Dimensioni del terrorismo politico, a cura di L. BONANATE, Franco Angeli, Milano 1979, p. 240.

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Non sarebbe esauriente un’analisi dell’oggetto in questione senza uno specifico riferimento al grande insieme della violenza politica. Gene-ralmente il termine si riferisce all’uso della prepotenza fisica per scopi politici. Dal 1960 viene considerato una catch-all phrase, tanto che incorpo-ra un’ampia varietà di episodi ed espressioni di opposizione politica quali manifestazioni anti-governo, terrorismo, colpi di Stato, guerre civili, ri-bellioni. Lo studio della violenza politica come fenomeno generale inizia a svilupparsi attorno alla metà del secolo scorso, quando, in seguito al crollo dei regimi coloniali, continenti come l’America latina, l’Africa e l’Asia, e zone strategiche come il Medio Oriente, diventano quotidiani scenari di brutalità e conflitti. La sua continua presenza tanto in aree di crisi come nelle moderne democrazie è dovuta all’importanza di diversi fattori socio-psicologici, quali la privazione della propria cultura politica e delle proprie tradizioni.

Dall’analisi dei diversi casi emergono vari interrogativi, tra i quali spicca la questione delle conseguenze di un violento conflitto nei con-fronti della politica pubblica, delle istituzioni politiche e della società in generale. Appare evidente che da opposizioni segnate da un forte tasso di violenza derivano i maggiori cambiamenti e benefici per i gruppi prote-stanti6. In secondo luogo una linea di governo basata sull’uso indiscrimi-nato della coercizione risulta essere il soggetto di un nuova ricerca teorica ed empirica. Infine i rapporti tra violenza politica interna e internazionale sono sempre più stretti. Le guerre convenzionali alimentano sempre più la brutalità, mentre rivoluzioni coronate dal successo risultano essere continui fattori di instabilità per l’equilibrio internazionale.

Mentre l’azione violenta viene, entro certi limiti, accettata come normale in una situazione di conflitto, il terrorismo è sempre considerato come una forma d’azione patologica. La complessità del fenomeno terro-rista è tale che pur analizzandone l’ambiente circostante risulta difficile darne una definizione precisa ed esauriente, tanto che le più diffuse de-nominazioni fanno confluire nella stessa categoria d’analisi tutti quegli eventi storici in cui la violenza è usata come strumento della competizio-ne tra due fazioni avverse7. L’analisi qui proposta parte comunque da un punto cardine che servirà da bussola anche nei momenti più delicati della

6 Cfr. L. BONANATE, Il teorema del terrorismo, in «Rivista italiana di scienza politica», 3/4, 1981, pp. 574-593. 7 Cfr. D. DELLA PORTA, Il terrorismo di sinistra, Il Mulino, Bologna 1990.

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ricerca. È provato che qualsiasi interazione sociale violenta dipende da due di-mensioni:

a) la componente fisica; b) l’impatto psichico8. Tanto importanti risultano questi due fattori che le diverse forme

di violenza differiscono tanto per la loro portata e ampiezza che per le circostanze in cui si combinano tutte e due le dimensioni.

La componente irrazionale (la seconda) pone in particolare un grosso ostacolo. Si deve considerare il terrorismo politico come un sem-plice fenomeno scientifico oppure è lecito e non fuorviante valutarlo an-che come problema morale? Su tale quesito ritorneremo in seguito; pre-me ora maggiormente concentrarsi sulla prima delle due costanti della violenza politica, la componente fisica.

L’opinione pubblica sovente considera che nessun attentato è de-finito tale senza la presenza di vittime umane, siano esse il vero obiettivo o innocenti trovatisi nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Un atto terroristico che provochi soltanto paura e angoscia senza conseguenze fisiche non merita di essere considerato tale? L’obbligatoria presenza del cadavere legittima l’appartenenza all’insieme della violenza politica? L’as-sassinio, che sia un omicidio mirato o un massacro ingiustificato, va a le-dere ancor di più la causa promossa dai terroristi, in quanto delegittima agli occhi dell’opinione pubblica lo scopo per cui essi si battono. La si-tuazione paradossale in cui viene a trovarsi il rivoluzionario crea non po-che difficoltà e ne condiziona sia la strategia da attuare che la psiche. Co-stretto a uccidere per coronare la politica di destabilizzazione, egli si tro-va automaticamente condannato dalla sua stessa linea «bellica». Per que-sto all’origine di qualsiasi azione terroristica vi dovrebbe essere un’ac-curata analisi dei pro e dei contro, dei vantaggi e degli svantaggi del pro-prio operato, considerando che qualsiasi aspettativa porta con sé un ele-vato grado di incertezza. L’ambivalenza della condotta può tanto ritor-cersi contro i sovversivi che legittimarne l’operato, convalidandone gli ideali e propagandandone la causa.

I danni fisici causati da attentati terroristici e azioni sovversive negli ultimi cinquanta anni non sono tanto eclatanti in termini numerici, nonostante che la quotidianità dei tentativi criminosi determini un clima

8 Cfr. Terrorismo e violenza politica, a cura di G. PASQUINO e D. DELLA PORTA, Il Mulino, Bologna 1983, p. 159.

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pregno di tensione. Le statistiche, in parte, ci consolano: la frequenza di attentati continua a diminuire in particolare dalla metà degli anni ’80, an-che se, in proporzione, è aumentato il numero di vittime per atto terrori-stico a causa del celere sviluppo tecnologico e della quarta rivoluzione industriale. L’ambivalenza del terrorismo corre parallela a quella dell’a-nimo umano, così imprevedibile e difficilmente classificabile.

Nonostante che la componente fisica sia parte complementare della violenza politica, da sola essa non permette di giungere a una preci-sa delimitazione e a un’analisi corretta. Per uscire dal labirinto della par-zialità non possiamo dunque tralasciare il secondo aspetto imprescindibi-le per qualsiasi tentativo e analisi del fenomeno terroristico, ovvero l’impatto psichico.

Ogni azione di violenza politica, come abbiamo visto, comporta un danno fisico inferto volontariamente, ma nella vita di tutti i giorni sono milioni le persone coinvolte in colluttazioni e la maggioranza di queste non sono vittime di atti terroristici.

Di fronte a un ambiente segnato dall’incertezza gli effetti materia-li di un’azione di manifesta matrice terroristica sono quasi nulli rispetto a quelli psicologici. Non sono le conseguenze fisiche, bensì la capacità di condizionare la psiche di migliaia di persone a contribuire potenzialmen-te a incrinare la solidità di un determinato sistema politico e a sconvol-gerne il delicato equilibrio interno. Durante il breve e pur intenso lasso di tempo segnato dall’incontrastato dominio di Robespierre, la tristemente famosa «Legge dei Sospetti» concorre a disseminare il panico, non esen-tando alcuno dalla possibilità di essere ghigliottinato. Il terrorismo è una specie di bomba a orologeria costante, che causa i maggiori danni in se-guito alla detonazione.

Come accennato in precedenza, la minaccia terroristica sconvolge lo status quo in quanto dotata di una determinata continuità, infatti rara-mente è occasionale. D’altra parte, l’inculcare un permanente stato d’ansietà tramite azioni sul campo potrebbe condurre sia alla rivoluzione tanto auspicata dai rivoluzionari di sinistra, come a uno stato di totale a-narchia secondo la dottrina di Bakunin e Kropoktin. Se le vittoriose campagne degli indipendentisti irlandesi dell’IRA e dei vari gruppi armati in Israele per la creazione di un proprio Stato hanno sfruttato un’ eviden-te situazione di crisi all’interno del Regno Unito, durante i primi cinquan-ta anni del XX secolo segnato da due guerre mondiali, una situazione a-naloga a quella britannica si è verificata in Italia come in Germania du-

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rante gli anni dello «stragismo». Le istituzioni democratiche in questo ca-so sono riuscite a respingere la minaccia terroristica malgrado un decen-nio segnato da scontri sociali e reiterate azioni indirizzate a minare la so-lidità dell’ordine costituito. La strategia del terrore non ha avuto corona-mento, nonostante si sia rivelata continua e incessante.

Il terrorismo politico non si rivela (quasi) mai efficace se non ac-compagnato da variabili esterne che facilitino lo sviluppo e la portata del-la sua azione e determinino forti scossoni al sistema delle relazioni inter-nazionali. Un tentativo sovversivo come quello delle Brigate Rosse italia-ne e della RAF tedesca contribuisce a creare un momentaneo stallo per la politica interna e le conseguenze si riverberano sulle legislazioni successi-ve, ma difficilmente può realizzare quanto auspicato in partenza.

Un’eccezione a quanto finora detto è costituito da quel lungo pe-riodo che la storia ricorda come «Guerra Fredda» (1945-1989), in cui la comunità mondiale deve convivere con la possibile minaccia di un con-flitto nucleare sia da parte sovietica che americana. Il delicato equilibrio quasi cede durante la crisi di Cuba del 1962, quando l’intransigenza dell’allora presidente americano Kennedy risulta fondamentale per placa-re le mire espansionistiche sovietiche. Il bipolarismo che caratterizza il complesso sistema delle relazioni internazionali per più di quaranta anni si trova prigioniero di un continuo stato di panico qualificato da quello che è chiamato l’«equilibrio del terrore». Coloro che credono nell’equilibrio del terrore si limitano ad accertare o a prevedere un fatto9. Il numero delle persone adagiatesi nella fiducia di tale situazione è incre-dibilmente numeroso. Quanto più aumenta l’ipotetica minaccia e il rela-tivo potenziale delle testate atomiche, tanto meno realistico diviene il pe-ricolo di un conflitto nucleare. Lo sviluppo tecnologico agisce come po-lizza di assicurazione sulla vita. L’equilibrio del terrore rimanda allo stato di natura hobbesiano. L’uomo libero da ogni condizionamento deve por-si degli imperativi che, nonostante limitino il raggio d’azione, garantisco-no la sua incolumità. Purtroppo un equilibrio fondato esclusivamente sul terrore reciproco è caratterizzato da una continua precarietà, tanto che l’implosione del blocco sovietico porta alla rapida scomparsa di uno dei due piatti della bilancia, risvegliando antichi dissapori e contribuendo alla destabilizzazione di un’intera area geografica.

9 Cfr. N. BOBBIO, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, p. 50.

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Se per più di quaranta anni l’equilibrio del terrore garantisce una determinata stabilità, sarebbe un grave errore dei terroristi pensare che quanto verificatosi in campo internazionale possa ripetersi all’interno di un sistema politico. Una situazione di stallo, di cui non si può prevedere né durata né continuità, consoliderebbe la classe al potere a detrimento di qualsiasi organizza-zione rivoluzionaria. Qualsiasi strategia terroristica per raggiungere gli obiet-tivi preposti deve essere dotata di una certa continuità e di una costante azione erosiva. La saltuarietà andrebbe a vantaggio esclusivamente del potere costituito.

La logica del terrorismo risulta essere diversificata da ogni altra forma di violenza contro persone o cose. Mentre la criminalità organizza-ta ripudia la pubblicità delle proprie azioni o dei regolamenti di conti, che si cerca di nascondere perché restino un fatto privato, le organizzazioni terroristiche agiscono con logica totalmente opposta, poiché quanto più viene pubblicizzato il fatto compiuto, maggior acqua si porta al proprio mulino. L’azione, come già detto, non si esaurisce con l’atto violento, in quanto i danni fisici causati sono di secondaria importanza. Ciò che con-ta veramente è inculcare la paura o diffondere un’insicurezza continua. Sulla base di tali considerazioni è lecito dare una prima semplice e ancora prematura definizione, fornita da Jean: «Un atto di violenza è terroristico se le sue finalità e il suo impatto psicologici sono molto superiori a quelli propriamente materiali»10.

Partire da tale presupposto risulta basilare per comprendere un fenomeno tanto complesso e paradossale. La pratica terroristica cura in modo particolare l’aspetto mediatico, in quanto una delle maggiori pre-occupazioni di ciascun gruppo sovversivo è quella di non venir ricono-sciuto come antagonista o di essere relegato a un secondo piano. Il pro-gresso scientifico e lo sviluppo tecnologico contribuiscono in modo de-cisivo fornendo i mezzi per un’azione di propaganda totale e ininterrotta, tendente a legittimare la presenza di gruppi sovversivi. Televisione e carta stampata risultano essere i migliori alleati, in quanto divulgano la dottrina di ciascun gruppo terroristico, seguendo un gioco perverso al quale è dif-ficile sottrarsi pur di «fare notizia». Progettando attentati che attraggano l’attenzione del mondo intero, i rivoluzionari possono vedere riconosciu-ta la loro causa e presentarsi come interlocutori attendibili. È tanto fon-damentale agire in modo talmente violento e estremo per richiamare l’in-

10 C. JEAN, Guerra, strategia, sicurezza, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 171.

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teresse dell’intera comunità, che i mass media fanno parte integrante di una logica crudele e perversa. Questo spiega perché negli ultimi anni so-no aumentati in modo così netto rapimenti e sequestri. Il terrorismo si rivolge all’audience e diventa una rappresentazione teatrale sul palcosceni-co della vita11. La propaganda che scatena un’azione sovversiva permette all’organizzazione clandestina di ampliare le proprie risorse di base, di fa-re proseliti e divulgare i propri ideali. L’«esserci», la presenza continua, è un fattore che comincia a ledere le basi su cui si fonda il monopolio legit-timo della forza. La classe dirigente deve guardarsi dal cadere in contrat-tazioni o dallo scendere a compromessi. Questo significherebbe ricono-scere come interlocutori attendibili soggetti che fanno della violenza or-ganizzata una scelta di vita. La normalità verrebbe ancora più sconvolta dalla nascita di gruppi emulatori, fin allora restii all’uso della forza, ma ben determinati nel perseguire i loro obiettivi. I mezzi di comunicazione dovrebbero filtrare le informazioni in loro possesso, in modo da non permettere ai terroristi di farne un uso indiscriminato diretto a creare al-larmismo e preoccupazione.

Spesso, d’altro canto, sono le classi politiche al potere a cercare di utilizzare questi strumenti divulgativi a proprio vantaggio per amplificare la gravità del «problema terrorismo», con la finalità di giustificare l’au-mento delle forze di sicurezza e di ledere o limitare i diritti civili. Alcuni funzionari del governo celatisi dietro la maschera dell’anti-terrorismo po-trebbero contribuire in modo netto al crollo di un regime democratico più di quanto non possano fare le stesse organizzazioni clandestine12. Un’informazione squilibrata e eccessiva sulla violenza terroristica può poi creare effetti indesiderati, mentre determinati comportamenti giornalistici potrebbero ostacolare l’effettività delle operazioni delle forze di sicurez-za. Il terrorismo è una realtà, spesso una seria minaccia. L’operato dei mass media tende ad amplificarla, quando sovente potrebbero essere le nostre reazioni al timore di attentati a costituire il pericolo principale, e non il terrorismo in sé. Un invito al ridimensionamento di tali mezzi di-vulgativi e l’adozione di un atteggiamento più etico sarebbero norme ba-silari per un corretto approccio alla violenza politica. Al contrario una

11 Cfr. G. WARDLAW, Terrorism and Para-Military Forces, in «Pacific Defence Reporter», 7/1, 1980, pp. 15-32. 12 Cfr. V. PISANO, The Red Brigades. A Challenge to Italian Democracy, in «Conflict Studies», 120, 1980, pp. 60-82.

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poco responsabile amministrazione dell’informazione può risultare dele-teria e controproducente.

2. Terrorismo: obiettivi e strategie La dimensione duale analizzata finora permette di restringere il campo d’azione di partenza, ma ancora domina un accentuato relativismo che rende impossibile trovare una definizione univoca e accettabile di terrori-smo13. Cosa lo differenzia da qualsiasi altra manifestazione di violenza? Tanto la guerra convenzionale che la guerriglia sono fenomeni violenti e all’interno di ciascuna sono presenti sia la componente psichica sia l’impatto fisico. In ambedue i casi si può ricorrere al terrorismo come strumento tattico, ma l’essenza di questa particolare espressione di violenza politica risale nella totale negazione del combattimento. Lo scontro è total-mente asimmetrico, principalmente a causa della sproporzione numerica delle forze in campo. Per le organizzazioni armate clandestine seguire la normale logica militare non sarebbe ipotizzabile per ragioni strategiche e logistiche. Il loro operato può essere paragonato a una continua partita a scacchi, tanto che a un’azione di A risponde sempre una contromossa di B fino all’esaurimento o totale distruzione dell’avversario. La guerra si basa sulla coercizione, mentre il terrorismo confida nell’impatto emotivo. Lo scontro convenzionale è pura distruzione fisica, mentre la guerra «sporca» mira principalmente a ledere la volontà dell’oppositore. Non sono le azioni particolari a caratterizzare il terrorismo, infatti lo scoppio di ordigni esplosivi o la diffusione di angoscia e disperazione caratteriz-zano azioni di guerra, come i bombardamenti tedeschi su Londra e quelli anglo-americani che radono al suolo Amburgo e Dresda. L’elemento diffe-renziante è la deliberata funzione politica di tali manifestazioni terroristiche, in quan-to la violenza deve generare volontariamente effetti politici. Un «ideal-tipo» di ter-rorismo risponde a tali peculiari requisiti, e la logica eversiva si basa su una concezione simbolica dei rapporti di forza socio-politici, tanto da rendere la sua minaccia spropositata, ben al di là della sua portata fisica.

In seguito a questo primordiale tentativo di definizione sono stati forniti elementi essenziali per una più ampia comprensione del concetto.

13 Cfr. C. TOWNSHEND, Terrorism. A Very Short Introduction, Oxford, Oxford University Press 2002; tr. it. di G. BALESTRINO, La minaccia del terrorismo, Il Mulino, Bologna 2004.

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Il terrorismo in senso stretto, generalmente definito come «una particola-re strategia di comunicazione politica che si avvale di un insieme di vio-lenza e di minaccia di violenza»14, può verificarsi in un’ampia varietà di situazioni di conflitto. L’uso e la minaccia della violenza è diretto contro un gruppo indiscriminato in modo tale da pretendere fedeltà e abnega-zione da un terzo soggetto, o da impressionare un pubblico più vasto che non sia direttamente coinvolto in un conflitto specifico. In questo modo la minaccia terroristica acquisisce una dimensione sempre maggiore, e le possibili vittime aumentano e includono soggetti apparentemente esterni.

Secondo Alex P. Schmid la definizione di cosa sia il terrorismo è variabile, anche se si avvicina molto a un «uso continuo della violenza causante ansietà, utilizzato da individui (semi-)clandestini, gruppi o attori statali per finalità criminali o politiche, dove gli obiettivi diretti della vio-lenza non sono gli stessi bersagli iniziali»15. Le vittime umane assumono il ruolo di «messaggeri involontari», e l’azione terroristica segue un ciclo vi-zioso, denominato il «triangolo del terrorismo rivoluzionario» (figura 1): come in essa si mostra, vi è una notevole differenza tra il semplice obiet-tivo della pura violenza e il bersaglio mirato del terrorismo. Perciò è ne-cessario distinguere in modo chiaro tra un comune assassinio e un omi-cidio in un contesto terroristico. La reazione a catena scatenatasi coin-volge come minimo tre differenti soggetti. L’azione di violenza politica perpetuata da un gruppo rivoluzionario ricade inizialmente su persone direttamente collegate al monopolio del potere (VA), oppure semplici cittadini (VP). Questi ultimi assumono non volutamente un ruolo chiave all’interno del meccanismo illustrato. Il terrorismo «terrorizza» a causa della sua imprevedibilità, e proprio perché colti di sorpresa i VP sono vit-time arbitrarie di una logica perversa. Grazie al loro sacrificio, quanto ri-chiesto dall’organizzazione terrorista giunge alle autorità competenti, che rappresentano il vero e unico bersaglio. Improvvisamente ci si imbatte nel terrore, che si trasforma in uno stato mentale. «Il terrorismo è la cau-sa dell’estrema ansietà di diventare vittime di una violenza arbitraria e lo sfruttamento di questa reazione emozionale per scopi manipolativi»16.

14 Cfr. R. CRELINSTEN, Terrorism, Counter-Terrorism and Democracy: The Assessment of Na-tional Security Threats, in «Terrorism and Political Violence», 1/2, 1989, pp. 243. 15 A.P. SCHMID, Terrorism and Democracy, in «Terrorism and Political Violence», 3, 1993, p. 7. 16 ID., The Response Problem as a Definition Problem, in «Western Reponses to Terrorism», 1, 1997, p. 10.

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Figura 1 – Il triangolo del terrorismo rivoluzionario17

� VA or VP (victim belonging to the

IT camp of the state (insurgent terrorism) authorities or victim Violenza o Minaccia being part of the public)

Comunicazione di Massa della Violenza

� � TA

(the authorities as target) Sensazione di Paura Cronica

Secondo quanto analizzato finora, ai due fattori costanti prece-dentemente individuati, cioè la componente fisica e l’impatto psichico, è pertanto doveroso aggiungere altri tre elementi chiave per determinare in modo ancora più specifico la vera essenza del fattore terroristico:

• l’uso della violenza

• obiettivi esclusivamente politici

• l’intento di diffondere il terrore in una determinata popolazione

Il terrorismo si presenta come una forma di scontro armato, e le sue caratteristiche portano a considerarlo come una vera e propria strate-gia. Tuttavia, nonostante quanto affermato, questi elementi basilari nell’individuazione del fenomeno non sono ancora sufficienti per una definizione universalmente accettata. Essi non permettono di distinguere tra terrorismo e altre forme di conflitti violenti, quali la guerriglia o la

17 Fonte: ID., J. DE GRAAF, Violence as Communication: Insurgent Terrorism and the Western News Media, Sage, London 1982, p. 176.

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guerra convenzionale18. Se l’obiettivo è analizzare scientificamente l’a-zione terroristica, risulta determinante circoscriverla in modo determina-to e specifico.

A tale proposito conviene prima di tutto determinare e classifica-re le diverse manifestazioni di violenza politica con un procedimento schematico. Teoricamente vi sono infinite possibilità per catalogare la violenza motivata da scopi politici, tuttavia una classificazione di base che colleghi artefici e bersagli, e distingua tra Stato e popolazione, è pre-sente nella tabella seguente (figura 2). Gran parte delle manifestazioni di violenza politica si realizzano in continue interazioni sociali. Ciascuna delle quattro caselle include una differente categoria di comportamento.

Figura 2 – Classificazione della violenza politica19

Obiettivo (bersaglio)

Stato Cittadini

Stato

Guerra convenzionale; attività di guerriglia in

tempo di pace; azioni punitive

Applicazione della legge;

oppressione legale e illegale

Attori

Cittadini

Guerriglia; terrorismo

rivoluzionario; colpo di Stato

Terrorismo vigilante;

terrorismo etnico

2.1. Stati contro Stati La violenza scatenata dal monopolio legittimo della forza può essere in-dirizzata o contro altre entità statuali, oppure contro i propri cittadini. Per quanto riguarda la prima categoria, tali azioni aggressive prendono il nome di «guerre convenzionali». Numerosi aspetti come le strategie mili- 18 Cfr. A. MERARI, Terrorism as a Strategy of Struggle: Past and Future, in «Terrorism and Po-litical Violence», 5/4, 1993, pp. 213-249. 19 Fonte: ibid., p. 218.

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tari e il diritto di guerra sono stati studiati intensamente e riconosciuti come vere e proprie discipline. Comune denominatore a tali azioni è l’organizzazione e la pianificazione: niente è lasciato al caso.

2.2. Stati contro le proprie popolazioni L’uso della forza da parte degli Stati contro i propri cittadini si suddivide in due sottoinsiemi. Il primo si ricollega a ordinari processi con cui il monopolio del potere attua e mette in pratica la propria legislazione. L’altro è rappresentato dall’uso clandestino e illegale della violenza da parte del governo con lo scopo di prevenire qualsiasi forma di opposi-zione al regime. Esemplare il caso dei regimi totalitari della Germania na-zista e dell’Unione Sovietica stalinista.

2.3. Popolazione contro popolazione La manifestazione di violenza tipica in questo caso è il comune crimine di un individuo nei confronti di un simile, per nulla motivato da ragioni politiche. Da non scartare comunque la presenza di azioni commesse per motivazioni sociali. Sovente queste sono collegate a ideologie sia di e-strema destra che di estrema sinistra. Il caso dei vigilantes merita una spe-ciale menzione, in quanto spesso è stato associato ad attività di pura vio-lenza contro minoranze etniche o politiche.

2.4. Popolazione contro lo Stato Tale manifestazione di violenza può essere sia spontanea sia organizzata. A volte è soltanto un’impulsiva espressione di malcontento, con nessuno scopo politico all’origine. Come si riscontra chiaramente dalla tabella, la violenza insurrezionale/rivoluzionaria può assumere una gran varietà di forme. Gran parte di queste possono essere analizzate come strategie d’insurrezione. A questo proposito un’ulteriore tabella permette di carat-terizzare in modo ancora più specifico il terrorismo come un modello di lotta, evidenziando le differenze tra questo e altre forme di violenza (fi-gura 3).

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Figura 3 – Confronto tra diverse forme di violenza20

Forma di insurrezione

Livello di insurrezione

Numero di

persone coinvolte

Durata dello

scontro

Grado di violenza

Sfida al regime

Spontaneità

Colpo di Stato

Alto Limitato Breve Variabile Alta No

Rivoluzione Leninista

Basso Alto Breve Alto Alta No?

Guerriglia Basso Medio Largo Alto Variabile No Rivolta Basso Medio Breve Poco Minima Sì

Terrorismo Basso Limitato Largo Poco Minima No

Resistenza non

violenta Basso Alto Largo No Variabile No

2.5. Colpo di Stato È la conquista del potere da parte di un individuo o di un limitato nume-ro di persone che ricoprono importanti posizioni all’interno del «mecca-nismo statale». Generalmente sono parte del corpo militare. Il successo di un colpo di Stato dipende in gran parte dal fattore sorpresa.

2.6. Guerriglia Il suo significato letterale equivale a «piccola guerra». Questa forma di scontro armato è ancora più antica della guerra convenzionale. Si caratte-rizza per la presenza di piccole unità combattenti che affrontano un ne-mico di gran lunga più forte. In molti movimenti e insurrezioni ha gioca-to un ruolo chiave come principale forma di combattimento. I guerriglie-ri cercano di compensare il loro gap in forze logistiche e militari con con-tinue operazioni hit-and-run, di avvantaggiarsi a seconda della conforma-zione fisica dei diversi campi di battaglia e di mimetizzarsi con la popola-zione. Quest’ultima può fornire un appoggio indispensabile per il buon esito delle operazioni.

20 Fonte: ibid., p. 220.

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2.7. Rivolta Generalmente non organizzata, non è pianificata con anticipo e non è presente una struttura gerarchica all’interno. La spontaneità della violen-za di strada non fa parte di una strategia o di uno schema pianificato per rovesciare un regime politico.

2.8. Resistenza non violenta «Si considera un’azione genuinamente non violenta ogni atto di commis-sione o di omissione che non causa né la morte di alcuna persona contro la sua volontà, né sofferenze o lesione alcuna contro la volontà della vit-tima, e deliberatamente scelta almeno in parte proprio per questa ragio-ne»21. Soltanto dopo il termine del secondo conflitto mondiale è stata messa in pratica con risultati superiori alle aspettative. Tuttavia la sua effi-cacia dipende in gran parte dalla tolleranza espressa dal monopolio del potere nei suoi confronti. In un regime totalitario la tecnica adottata con successo prima da Gandhi e successivamente da Martin Luther King non avrebbe alcuna speranza di vittoria. Il ricorso a questa forma di lotta non pregiudica un ricorso alla violenza fisica in successivi momenti.

3. Forme e caratteri del terrorismo Come vi sono molteplici tipi di violenza politica, esistono anche vari tipi di terrorismo, su cui la ricerca politologia si è soffermata.

3.1. Terrorismo e guerriglia I due termini sono spesso utilizzati in modo analogo, e questo porta con-fusione al momento di dare una specifica definizione del terrorismo. Come strategie d’insurrezione sia il terrorismo che la guerriglia sono real-tà abbastanza distinte. La guerriglia cerca di raggiungere e stabilire un controllo effettivo e fisico del territorio su cui si svolge lo scontro. Tale controllo è spesso imparziale22. La necessità di avere il dominio di una regione o di una parte di essa è un elemento chiave nell’uso strategico della guerriglia. D’altra parte il terrorismo «strategico» non porta a una

21 L. BONANATE, Dimensioni del terrorismo politico, cit., p. 49. 22 Cfr. A. MERARI, Terrorism as a Strategy of Struggle, cit., p. 225.

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presenza fisica tangibile su una determinata area: come mezzo d’azione rimane nel campo dell’influenza psicologica e manca degli elementi mate-riali della guerriglia.

Ulteriori differenze pratiche accentuano la distinzione tra le due forme di lotta (figura 4). Le guerriglie generalmente comportano la pre-senza di compagnie numerose, a volte di veri battaglioni e brigate. In modo completamente differente i terroristi agiscono divisi in unità di piccole dimensioni, e queste sono generalmente composte da pochi ele-menti o addirittura da una singola persona. I maggiori nuclei coinvolti in operazioni terroristiche che la storia ricordi non superavano le 40-50 uni-tà23.

Figura 4 – Caratteristiche del terrorismo e della guerriglia come modelli di lotta violenta24 Guerriglia Terrorismo Numero di unità in Battaglia

Medio Limitato

Armi Prevalentemente modelli di fanteria

Bombe, esplosivo e armi da fuoco

Tattiche Tipiche di unità addestrate Specifiche

Obiettivi (bersagli) Prevalentemente unità militari e forze di sicurezza

Simboli statali, civili

Fine proposto Indebolimento fisico del nemico

Danni psicologici e stato di tensione

Controllo del territorio Sì No Uniforme Spesso utilizzata Nessuna uniforme

Riconoscimento del territorio di guerra

Guerriglia limitata al territorio conteso

Non è riconosciuta alcuna zona di guerra. Attentati effettuati in tutto il mondo

Legalità Internazionale Sì, se condotta secondo le regole

No

Legalità Interna No No

23 Cfr. B. HOFFMAN, Inside Terrorism, Gollancz, London 1998, p. 347. 24 Fonte: A. MERARI, Terrorism as a Strategy of Struggle, cit., p. 227.

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Ulteriori diversità riguardano l’apparato logistico a disposizione dei due tipi di lotta. Se da una parte i guerriglieri si avvalgono di una at-trezzatura bellica tipicamente militare, come fucili, mortai e mitragliatrici, dall’altra l’armamento tipico di un terrorista include bombe fabbricate a mano, auto-bomba e sofisticati esplosivi a distanza.

La tabella permette di analizzare ed evidenziare in modo semplice e lineare le caratteristiche tipiche delle due realtà analizzate: sia il terrori-smo che la guerriglia hanno particolarità proprie, ed è un grossolano er-rore identificare le due strategie di lotta in un unico concetto. Ciò nono-stante in frequenti casi gruppi di guerriglieri sono ricorsi a tattiche pro-prie della strategia terroristica, come testimoniato dai conflitti in Algeria e in Vietnam.

3.2. Terrorismo come strategia d’insurrezione Il terrorismo è una strategia basata sull’impatto mentale. La gran parte degli studiosi danno per consolidata l’importanza dell’elemento psicolo-gico25. Tutte le forme di lotta hanno un significativo impatto psicologico, ma le guerre convenzionali sono prima di tutto massicce collisioni di for-ze fisiche, e sono generalmente condizionate dalla capacità di resistenza del nemico alla sua eliminazione materiale. Come la guerriglia, il terrorismo è una strategia di lotta prolungata nel tempo. Tuttavia la guerriglia, nonostante i suoi fattori psicologici, è primariamente basata sullo scontro fisico, e l’importanza dell’elemento mentale rimane in secondo piano. L’impatto psicologico è invece essenziale nel terrorismo considerato come strategia.

Se quanto detto finora evidenzia la principale caratteristica del fenomeno terroristico, un ulteriore concetto basilare deve ora essere ana-lizzato per giungere a una descrizione esauriente. Gli anarchici di fine XIX secolo avevano già sottolineato l’importanza della propaganda attraver-so l’azione. I gruppi rivoluzionari russi sperarono che le loro continue o-perazioni convertissero le masse soggiogate alla dittatura zarista in un massiccio movimento di protesta. Per questo colpirono sempre in modo mirato: i loro bersagli furono capi di Stato e alte cariche del regime. Di-versamente i nuclei armati più recenti spesso ricorrono ad attacchi indi-

25 Cfr. P. WILKINSON, Terrorism Versus Democracy. The Liberal State Response, Frank Cass, London 2000; A. MERARI, Disposición para matar: terrorismo suicida en Oriente Próximo, in Origénes del Terrorismo. Psicología, ideología, teología, estados mentales, Pomares Corredor, Barcelona 1994.

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scriminati e casuali. Il tutto per aggiudicarsi una maggior copertura dei mezzi di comunicazione. Questo cambiamento rispecchia l’adattamento della strategia alla nuova rivoluzione info-telematica. L’idea della propa-ganda attraverso l’azione terroristica è solamente un primo momento dello scontro, infatti non ci si aspetta di provocare una caduta del mono-polio del potere.

Un’ulteriore componente psicologica all’interno della strategia terroristica è il tentativo di disseminare paura e timore tra le fila nemiche. Alcuni gruppi sovversivi (per esempio il FLN in Algeria e il FPLP in Palestina) hanno raggiunto l’obiettivo prestabilito grazie a sistematiche campagne di omicidi, rapimenti e dirottamenti. Attualmente gran parte delle operazio-ni sono dirette contro gruppi neutrali, che costituiscono la maggioranza della popolazione. Tutto questo con lo scopo manifesto di massimizzare gli effetti delle ripetute azioni di violenza.

Per avere successo, l’azione non deve soltanto intimidire: il suo operato porta i risultati voluti solo in seguito a una provocazione. Come ha scritto Carlos Marighella, «il governo non ha nessuna alternativa se non quella di intensificare la repressione»26. Attacchi terroristici provocano spesso dure azioni di repressione da parte dell’ordine costituito, e queste contromisure possono rendere il governo impopolare, tanto da ampliare il supporto pubblico ai rivoluzionari e legittimare la loro causa. Una spe-cifica tecnica di provocazione è rilevante in particolare nei conflitti di dimensione internazionale.

L’eventuale inettitudine e incapacità del governo sono ulteriori armi nella strategia di numerosi gruppi terroristici. Il tutto potrebbe esse-re denominato come «strategy of chaos», ed è tipica dei gruppi sovversivi di estrema destra. Con lo scopo di creare un’atmosfera di disordine e insi-curezza, i terroristi ricorrono a continui attentati in luoghi pubblici. A questa tecnica sono ricorsi gli stragisti di Ordine Nuovo il 5 agosto 1974, quando la detonazione di una bomba su un treno causò la morte di 12 passeggeri. Ciò nonostante la «strategia del caos» non è un metodo effi-cace per provocare un cambio al potere.

Numerosi gruppi rivoluzionari concepiscono il terrorismo come una strategia di lotta continua. La sua capacità «diacronica» permette un’azione ripetuta e corrosiva, ma risulta essere adatta solamente in con-flitti dove l’oggetto della contesa non assume un valore vitale per la clas-

26 C. MARIGHELLA, Urban Guerrilla Minimanual, Pulp Press, Vancouver 1974, p. 355.

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se politica al potere. Se il governo valuta lo scontro come una questione di vita o di morte, questo difficilmente scenderà a compromessi di fronte alle minacce terroristiche. Un gruppo sovversivo (insurrezionale) che fa del terrorismo la sua principale strategia ha limitate possibilità di vittoria di fronte alle forze di sicurezza fedeli al governo.

Di fronte a una tale affermazione risulta spontaneo chiedersi nuovamente se il terrorismo possa essere vincente. Gran parte dei nuclei rivoluzionari si pongono l’obiettivo di deporre il governo in carica e di sostituirlo al potere. Come testimoniato dalla storia, soltanto organizza-zioni anti-colonialiste sono pervenute al successo e hanno raggiunto i lo-ro obiettivi. La EOKA attiva a Cipro e i Mau Mau in Kenia sono esempi ben conosciuti, come il FLN algerino o l’IRA all’inizio del XX secolo. La gran parte degli oltre cento gruppi terroristici che hanno operato nel cor-so della seconda metà del XX secolo hanno fallito miseramente. Tale sta-tistica non è accidentale, infatti solo in un contesto di lotta anti-coloniale la posta in gioco è di gran lunga più importante per le popolazioni autoc-tone che per il governo oppressore. Una causa nazionalista è general-mente molto più motivante di un problema sociale27. Nella storia il terro-rismo ha avuto tanto più successo quanto meno ha rappresentato l’unica forma di lotta. Quanto più il terrorismo tende a diventare l’unica arma, tanto più è improbabile il suo successo. Causa fondamentale della sconfitta dell’azione terroristica risulta essere l’impossibilità di collegarsi con le masse, infatti la disfatta appare laddove le masse perdono il loro ruolo di protagoniste nella storia.

Nuclei terroristici hanno spesso avuto successo nel perseguire o-biettivi parziali. Tra questi è possibile annoverare un aumento del sup-porto logistico interno a gruppi rivoluzionari, una maggior pubblicità alla causa fornita dai mezzi d’informazione, l’acquisizione di una legittima-zione internazionale e parziali concessioni da parte degli avversari.

Vi sono casi in cui il terrorismo contribuisce apparentemente a risvegliare movimenti di maggior dimensione. Un chiaro esempio è fornito dai Rivoluzionari Socialisti Russi all’inizio del XX secolo. Martha Crenshaw osserva a riguardo che «uno dei principali problemi nell’analizzare gli effetti del terrorismo è dato dalla mancanza di un unico fattore casuale che porti a risultati prevedibili. L’intersezione tra effetti

27 Cfr. A. MERARI, Terrorism as a Strategy of Struggle, cit., p. 239.

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sociali e politici con altri eventi e tendenze in continuo cambiamento rendono il fenomeno difficile da isolare»28.

Numerosi gruppi terroristici incapaci di materializzare i propri obiettivi sono riusciti a strappare ai loro avversari significative concessio-ni. A questo proposito esempio tipico è il gruppo separatista basco ETA (Euskadi Ta Askatasuna): la sua continua campagna con scopo secessioni-sta non ha prodotto l’indipendenza sperata, ma ha contribuito allo svi-luppo di una determinata autonomia.

3.3. Forme di insurrezione ibride Per quanto possibile si è cercato di isolare il fenomeno del terrorismo dalle altre manifestazioni di violenza politica. In realtà risulta ancora dif-ficile distinguere tra strategia terroristica pura e guerriglia, tanto che in numerosi movimenti rivoluzionari è sistematico il ricorso a tutte e due le forme di lotta. La coesistenza di guerriglia e terrorismo non è casuale.

In scenari come quello europeo o in America del Nord l’unica opzione per nuclei rivoluzionari rimane la via terroristica, a differenza di quanto verificatosi nell’emisfero sud.

Il terrorismo, per quanto possa sembrare un mezzo per causare un radicale cambio politico per molte persone senza speranza, è una mo-dalità di lotta non suicida nel momento in cui le circostanze non risulta-no favorevoli per i sovversivi, e può essere perpetuato a lungo nel tem-po29. Nella realtà occidentale del XXI secolo la strategia terroristica rima-ne forse l’unica via possibile per coloro che sono determinati nel ricorre-re alla violenza.

A questo punto la difficoltà stessa di definire il terrorismo di-scende non tanto da problemi di ordine epistemologico, ma dalla fon-damentale e connaturata ambiguità di questa parola30. Si tratta di indivi-duare un’adeguata definizione e di esaminare criticamente le varie posi-zioni nei confronti dell’uso della violenza. L’impiego della forza fisica può ragionevolmente essere considerato requisito caratterizzante ma non essenziale di un atto violento. A sua volta Bonanate considera la violenza psichica «il distruggere o soffocare sul nascere l’autonomia di un essere.

28 M. CRENSHAW, The Concept of Revolutionary Terrorism, in «The Journal of Conflict Reso-lution», 16/3, 1972, pp. 383-396. 29 Cfr. B. HOFFMAN, Inside Terrorism, cit., p. 229. 30 Cfr. L. BONANATE, Il teorema del terrorismo, cit., p. 120.

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Questo è un atto tendenzialmente errato quanto quello di distruggerlo fisicamente o almeno quanto quello di infliggere ad esso serie sofferenze contro la sua volontà»31.

Il terrorismo in sé presenta una connotazione ancor più spregia-tiva di quella del termine «violenza». Proprio per questo si considera oggi il terrorismo come «ogni metodo di lotta (politica) che soddisfi queste tre specifiche condizioni: a) uso estremo della violenza, b) uso estremo della violenza contro degli innocenti, c) metodo di lotta illegittimo»32.

3.4. Terrorismo come mezzo di azione politica Il terrorismo ha delle peculiarità che lo contraddistinguono da qualsiasi altra manifestazione di violenza politica. Eppure al suo interno è possibi-le analizzare e individuare varie forme del manifestarsi. La grande diffu-sione che la pratica terroristica ha conosciuto e conosce permette di de-terminare caratteristiche comuni e altre totalmente differenti. La partico-larità di fondo del terrorismo si individua nella sua ambiguità: per questo la ricognizione delle dimensioni del fenomeno riveste particolare impor-tanza. La scelta di mezzi terroristici non è giustificata dalla certezza del successo. Accanto a forme di terrorismo vincente (poche), altre si sono rivelate perdenti.

Dopo aver evidenziato le caratteristiche peculiari di questa de-terminata manifestazione di violenza è lecito porsi un quesito. Nella se-colare storia della lotta politica i numerosi gruppi insorgenti hanno sem-pre seguito un unico modus operandi, oppure è possibile distinguere tra di-versi tipi di terrorismo?

Luigi Bonanate è riuscito a isolare quattro ideal-tipi weberiani grazie a uno studio peculiare e minuzioso33. La decisione di ricorrere al terrorismo può essere analizzata in termini di adeguatezza tecnica (terrori-smo tattico e strategico), oppure in termini di giustificazione politico-ideologica (terrorismo strumentale e finalistico). Il primo passo da compiere è individuare la differenza che intercorre tra una strategia terroristica e un ri-corso tattico a tale espressione di violenza politica. La prima gode di una specie di autosufficienza. Ricorrendo a un esempio storico, il terrorismo insurrezionale promosso, ma allo stesso tempo paventato da Lenin, può

31 Ibid. 32 Ibid., p. 122. 33 Cfr. L. BONANATE, Dimensioni del terrorismo politico, cit., p. 66.

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essere classificato come una scelta tattica. In modo opposto la decisione dei Tupamaros di ricorrere a un terrorismo rivoluzionario per sconvolge-re lo status-quo in Uruguay è classificabile come scelta strategica. A riguar-do occorre specificare che un terrorismo strategico non coincide esclusi-vamente con il tipo del terrorismo rivoluzionario: dipende dall’evolversi del conflitto. Laddove la forza dell’opposizione sia tale da poter sostene-re lo scontro armato con il governo, infatti, è chiaro che il terrorismo può rappresentare al massimo una forma di fiancheggiamento per l’azione militare, e di conseguenza diventare un’ulteriore tattica. Nel momento in cui non si verifica tale possibilità, risulta essere la condizione necessaria per verificare la giustificazione strategica del ricorso al terrori-smo.

1) Terrorismo tattico. È inserito in un più ampio disegno di azione

da cui trae la sua giustificazione. Non è che una delle varianti che un mo-vimento applica nella conduzione della sua lotta. Gli esempi di ricorso al terrorismo come arma tattica sono numerosi. Fra i più significativi si an-noverano le operazioni del FNL vietnamita (tanto contro l’occupazione coloniale francese successiva al secondo conflitto mondiale quanto nei confronti delle truppe americane un decennio più tardi), e le azioni belli-che dei guerriglieri ceceni nel loro tentativo d’indipendenza contro Mo-sca. Anche il «terrorismo di Stato» assume una valenza tattica nello sfor-zo di mantenere il monopolio della forza.

2) Terrorismo strategico. Obbedisce a una sua logica autonoma e au-tosufficiente. Non trova giustificazione che in se stesso, in quanto unico strumento che accompagna una determinata lotta dall’inizio alla fine. La campagna terroristica portata avanti dall’IRA tra il 1916 e il 1921 si pre-senta come una paradigmatica manifestazione di terrorismo strategico e come una delle forme di lotta possibile in quelle circostanze, per rag-giungere rapidamente l’obiettivo dell’indipendenza nazionale. Il «regno del terrore» instaurato da Robespierre può considerarsi come tipicamente strategico.

Se il terrorismo strategico rappresenta una forma di guerra com-battuta con una sola e stessa arma, a sua volta il terrorismo tattico trae la sua giustificazione dall’essere parte di un più ampio disegno di lotta. Ma l’analisi di Bonanate non si ferma all’adeguatezza tecnica, bensì continua nel tentativo di descrivere il fine politico o ideologico di un’azione terroristica.

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Partendo dal presupposto che la decisione di ricorrere al terrorismo è ra-zionale ed è subordinata al raggiungimento di un obiettivo, intrinseco o estrinseco rispetto al tipo di azione scelta, è possibile isolare un terrori-smo strumentale da un terrorismo finalistico.

3) Terrorismo strumentale. Tecnica d’azione autosufficiente. Ci si av-

vale di questo tipo specifico quando ci si aspetta che esso impronti tutte le fasi della lotta dall’inizio alla fine. Realizza una forma di agire razionale rispetto allo scopo. Si ritiene sufficiente e idoneo a raggiungere l’obiettivo. Secondo la scienza della politica corrisponde al modello we-beriano dell’agire razionale rispetto allo scopo.

4) Terrorismo finalistico. Realizza una forma di agire razionale ri-spetto al valore. L’obiettivo della lotta politica non può essere raggiunto solamente tramite un’azione terroristica, per questo assume la funzione di detonatore del conflitto. Si avvicina alla forma più idealtipica di terro-rismo politico, al tipo più autentico.

La costruzione del «modello» terroristico deriva dall’incrocio tra il fatto che il terrorismo possa essere strategico o tattico oppure finalistico o strumentale. Sono quattro modi diversi di considerare lo stesso feno-meno. La differenza basilare tra le due coppie è evidenziata dal fatto che la prima riguarda l’adeguatezza tecnica del mezzo scelto, tenendo conto delle circostanze in cui deve applicarsi. Al contrario la seconda focalizza il proprio interesse sull’adeguatezza politico-ideologica che la scelta del mezzo comporta34. Incrociando le due coppie, quindi, si ottiene una tipo-logia a quattro voci:

1) Terrorismo tattico-strumentale. Come detto in precedenza, è tattico l’uso del terrorismo che si concepisce unicamente come azione di fian-cheggiamento nei confronti di una più ampia situazione di lotta. Il terro-rismo strumentale implica la necessità di ricorrervi non esistendo alterna-tive ritenute valide. In questo primo ideal-tipo è presente il più alto con-tenuto di violenza a cui si accompagna una forma di terrorismo «inerzia-le». La maggior parte del terrorismo tattico-strumentale trascende la di-mensione nazionale per acquistare rilevanza internazionale. Il FLN alge-rino ha dato dimostrazione di ricorrere spesso a tale forma di lotta con-

34 Cfr. ID., Il teorema del terrorismo, cit., p. 79.

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tro l’occupazione francese. Secondo il pensiero di Ben Bella la pratica terroristica non è che una delle traduzioni pratiche della volontà di com-battimento, ma lo si considera necessario per il suo indispensabile con-tributo sul piano operativo.

2) Terrorismo tattico-finalistico. In questo caso il ricorrere alla pratica terroristica è giudicata inevitabile, ma insufficiente per soddisfare gli o-biettivi stabiliti. Un terrorismo tattico-finalistico accompagna l’esercizio della violenza a un’intenzione dimostrativa, ovvero terroristica. Il delitto Matteotti da parte delle forze fasciste o il «vigilantismo» caratteristico del Ku-Klux-Klan sono solo alcuni esempi manifesti di questa particolare azione politica. Il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki vengono a loro volta inclusi in questa determinata categoria.

3) Terrorismo strategico-strumentale. L’ingresso nella fascia strategica comporta una maggior specificità del termine. In questo caso si fa affi-damento maggiormente sull’effetto proprio del terrorismo che non sulla capacità diretta della violenza di portare al successo. La natura strategica delle azioni è in funzione del giudizio che non vede alternative tecniche al ricorso e alla pratica terroristica. Manifestazioni di questo tipo di vio-lenza sono presenti in particolare sul versante interno. Il Termidoro du-rante la rivoluzione francese e lo stalinismo sono gli eventi storici che maggiormente si avvicinano a un terrorismo strategico-strumentale.

4) Terrorismo strategico-finalistico. L’ultimo ideal-tipo lascia meno dubbi sul suo carattere terroristico. Se è strategica quella pratica di lotta che mostra una continuità, ovvero una corrispondenza a un disegno de-terminato, allora è costante la sua presenza nelle manifestazioni. La vio-lenza è quasi accessoria, in quanto non le spetta il compito di portare alla vittoria. Il fine prestabilito è irraggiungibile per mezzo del solo terrori-smo. L’azione sovversiva è diretta a un fine che trascende il contenuto dell’azione stessa. I più famosi movimenti terroristici hanno seguito que-sto tipo di azione. Tra i principali si annoverano il movimento populista russo, la RAF tedesca, le BR italiane e i secessionisti baschi dell’ETA.

I quattro modelli sopra analizzati variano a seconda della scala di

violenza. Dal primo (tattico-strumentale) al quarto (strategico-finalistico) si passa dalla forma più aspra e brutale di conflitto a quella meno cruenta in termini materiali. A sua volta si va dalla forma più «blanda» (tattica-strumentale) a quella più «intensa» (strategica-finalistica) di terrorismo. Ulteriore peculiarità di tale classificazione è l’improbabilità che l’azione

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politica raggiunga i suoi scopi, infatti il terrorismo ha avuto tanto più so-vente successo quanto più elevato è stato il livello di violenza esercitata. Quanto più esso tende all’assolutezza, tanto meno ricorre all’uso di vio-lenza materiale. In altre parole un terrorismo strategico-finalistico è sin dal principio destinato al fallimento, in quanto si rivela molto più politico che violento: il rapporto tra violenza e terrore si rivela inversamente proporzionale, e le probabilità di affermazione sono tanto più basse quanto più è «puro» il modello di azione cui il gruppo sovversivo si ispira. Diversamente, quanta più violenza materiale il sovversivo introduce nella sua azione, tanto più alte sono le sue probabilità di successo.

All’intensificarsi del terrorismo non corrisponde un’analoga cre-scita di violenza, e l’incremento terroristico non dipende di necessità da un aumento di violenza35. Il livello massimo di terrorismo «puro» è rap-presentato dall’«equilibrio del terrore». Durante la Guerra Fredda, che vede scontrarsi diplomaticamente le due superpotenze del tempo, la forma più assoluta di terrorismo si rivela totalmente priva di violenza (materiale). I bombardamenti aerei effettuati durante il secondo conflitto mondiale invece sono manifestazioni di un massimo livello di violenza e un massimo livello di terrore. La manifestazione a cui si riferiscono è e-videntemente una guerra convenzionale. Da tutto ciò deriva un corolla-rio della violenza politica: la pratica terroristica ha tanto più successo quanto più facilmente può ricorrere a una violenza materiale, ma allo stesso tempo si allon-tana da una forma «pura» del conflitto politico in questione. La quantità di violenza è direttamente collegata alla probabilità di successo, ma allo stesso tempo è correlata in modo negativo alla pratica terroristica36.

Il rapporto tra violenza e terrorismo risulta tanto complesso da apparire biunivoco. La brutalità esercitata non è intesa direttamente ed esclusivamente alla distruzione dell’avversario, ma è preponderante la sua funzione nascosta di demoralizzazione dell’antagonista. Il terrorismo, quindi, appare come una manifestazione di violenza non ortodossa e ina-spettata, praticata più per condizionare e intimidire che non per distrug-gere un avversario.

Il terrorismo non ha mai avuto un successo immediato contro un regime dittatoriale, ma all’interno di sistemi politici democratici numerosi

35 Cfr. M. CRENSHAW, Counterterrorism Policy and the Political Process, in «Studies in Conflict and Terrorism», 24/5, 2001, pp. 329-337. 36 Cfr. ibid., p. 349.

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gruppi hanno ricorso a tale pratica di violenza per avanzare pretese37. I maggiori politologi che si sono occupati della materia considerano le mo-derne democrazie come l’ambiente ideale per lo sviluppo della pratica terroristica38.

Il terrorismo si presenta come l’insorgenza sintomatica di una situa-zione bloccata39. Assieme all’ingovernabilità esso rappresenta il maggiore fattore di crisi dei sistemi politici attuali, tanto che le difficoltà in cui la pratica terroristica getta uno Stato producono una crisi di capacità di go-verno, ovvero una situazione di stallo. Questa è tipica di un sistema che ha talmente consolidato le sue basi e la sua organizzazione strutturale da non consentire alcuna innovazione, di qualunque tipo essa sia40. Il terro-rista decide di ricorrere alla violenza politica quando questa rimane l’unica via per poter arrivare il più rapidamente possibile a quanto piani-ficato, oppure quando il livello della lotta è allo stato primordiale. Il ter-rorismo viene considerato una fuga in avanti, quando la conquista del potere può avvenire solo attraverso vie violente. D’altronde la conquista del potere politico nella storia non è mai avvenuta in modo pacifico, fatta esclusione per i rari regimi democratici. La sua ambiguità deriva dal fatto che è obbligato ad agire attraverso una via «bloccata» pur sapendo che è sbagliata. La violenza che sprigiona non serve né allo scopo del terrorista né a far reagire la società. Il terrorismo politico non è una scelta vincente, anzi provoca l’inaspettata conseguenza di rafforzare il nemico.

4. Conclusioni Il terrorista è consapevole di muoversi su una strada bloccata, e proprio per questo ricorre a tale tecnica di lotta che gli permette di rimuovere l’ostacolo. L’apparire di fenomeni terroristici è conseguenza dell’entrata in crisi del sistema politico e non una causa. Il fatto che il sistema politico non ceda di fronte alla violenza espressa non si deve alla sua solidità contro ogni at-tacco, ma al fatto di essere talmente immobile da poter incassare qualsiasi colpo senza crollare. Allo stesso tempo si rivela talmente sensibile da ap- 37 Cfr. W. LAQUEUR, A History of Terrorism, Transaction, London 2001, p. 259. 38 Cfr. W. EUBANK, Does Democracy Encourage Terrorism?, in «Terrorism and Political Vio-lence», 6/4, 1994, pp. 417-443. 39 Cfr. L. WEINBERG, Terrorism and Democracy: What Recent Events Disclose, in «Terrorism and Political Violence», 10/1, 2001, pp. 109-117. 40 Cfr. L. BONANATE, Dimensioni del terrorismo politico, cit., p. 343.

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prendere dalla crisi superata una lezione che gli consentirà di riprodursi aumentando le sue autodifese41. Il fenomeno terroristico ha dunque una natura talmente profonda da essere due cose contemporaneamente:

• nasce in una situazione di blocco e non ne è la causa; • produce gli anticorpi per rafforzare il sistema.

L’ingovernabilità o la crisi all’interno del governo di certi sistemi

politici determinano quello stallo da cui deriva il terrorismo. La risposta del sistema alla minaccia terroristica porta al risveglio della vita politica, in altre parole «sblocca» la situazione.

La condizione necessaria in seguito alla quale si formano i movi-menti terroristici all’interno degli Stati democratici contemporanei è di tipo soggettivo42, e dipende dalla storia del particolare sistema nel quale si manifesta la violenza politica: «la ragione più profonda del fallimento del-la strategia terroristica sta nella sua impossibilità di trasformare la sua violenza in fatto politico»43. L’apparizione della violenza politica all’interno di un sistema democratico è dunque conseguenza dell’entrata in crisi del regime politico. Tale pratica resta comunque, per fortuna, un comportamento eccezionale e non abituale. Il governo, nel momento in cui riesce a uscire dalla fase di conflitto, non sempre ritorna a essere fun-zionale come prima. La minaccia mette in evidenza le debolezze di am-bedue i contendenti, ma è anche vero che il risultato di sconfiggere il ter-rorismo può non consistere in altro che nel rafforzare il blocco che gli ha resistito.

Il rapporto tra terrorismo e democrazia si presenta come uno de-gli scenari più complicati nel campo della scienza politica. I due soggetti corrono su binari paralleli, e al continuo aumento di regimi democratici nel mondo corrisponde un costante sviluppo di organizzazioni sovversi-ve che fanno della violenza politica la loro unica strategia. Come afferma Alex P. Schmid, il fatto che il terrorismo sia maggiormente frequente nel-le democrazie che in altri regimi politici testimonia l’ampiezza e la portata

41 Cfr. M. CRENSHAW, The Concept of Revolutionary Terrorism, cit., p. 393. 42 Cfr. J.B. WOLF, Anti-Terrorism: Operation and Control in a Free Society, in «Police Studies», 1/3, 1978, pp. 35-41. 43 L. BONANATE, Il teorema del terrorismo, cit., p. 81.

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di tale fenomeno44. La guerra è stata definita come la continuazione della politica, secondo la concezione clausewitziana, ma pure il terrorismo può essere così considerato. La violenza terroristica rimane la più semplice e conseguibile forma di scontro, e rimane un mezzo a discapito di coloro che possano considerarlo un obiettivo45.

Il terrorismo si differenzia dalle altre forme di violenza per la sua «straordinarietà» e la sua capacità di coinvolgere tanto strutture individua-li che collettive. La sua azione violenta distrugge la solidarietà, la coope-razione e l’interdipendenza sulla quale si basa ogni interazione sociale. Il suo impatto è talmente forte da causare una polarizzazione dell’opi-nione pubblica, in modo che risulta impossibile essere neutrali o non coinvolti dall’accaduto. Se l’azione violenta ha successo, essa determina un sinto-mo d’infermità nel corpo politico, il quale di fronte a una tale minaccia è generalmente propenso a una risposta basata sulla forza militare. Tale re-azione avvalla ancor di più la tesi che di fronte a una provocazione di si-mile portata non può esserci spazio per la via diplomatica. Il male deve essere estirpato in modo completo.

In conclusione, è possibile affermare che «l’attività terroristica è determinata dalla combinazione di elementi economici, psicologici e poli-tici. Se paradossalmente potrebbe apparire irrazionale e imprevedibile al momento di essere effettivo, si presenta come strategia puramente razio-nale e calcolata in termini di costi e sacrifici. La sua “semplicità” è parti-colarmente attrattiva quando sono assenti altri mezzi che permettono il raggiungimento di obiettivi rivoluzionari e il successo è tanto più favorito dalla meticolosa attenzione di agire in modo sovversivo»46.

44 Cfr. A. P. SCHMID, Frameworks for Conceptualising Terrorism, in «Terrorism and Political Violence», 16/2, 2004, p .199. 45 Cfr. A. MERARI, Terrorism as a Strategy of Struggle, cit., p. 241. 46 Encyclopaedia of World Terrorism, a cura di M. CRENSHAW e J. PIMLOTT, Sharpe, Armonk 1997, vol. 3, p. 674.