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PATOLOGIA E FISIOPATOLOGIA GENERALE 2016

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PATOLOGIA

E FISIOPATOLOGIA GENERALE

2016

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CASTORIA RISPOSTE CELLULARI A STRESS E STIMOLI DANNOSI 4 CASPASI 9 RISPOSTA INFIAMMATORIA 12 RIPARAZIONE DEL TESSUTO 19 CLASSIFICAZIONE DELLE LIPOPROTEINE 21 ATEROSCLEROSI 24 METABOLISMO E FISIOPATOLOGIA DELLA CELLULA EPATICA 27 MALATTIE EMODINAMICHE 32 INFARTO 39 RELAZIONE TRA PROCESSO INFIAMMATORIO E TUMORI - TUMORI ORMONO-DIPENDENTI 43 MIGLIACCIO TERMOREGOLAZIONE 45 FEBBRE 48 MALATTIE DA ACCUMULO 51 AMILOIDOSI 56 GLICOGENO E GLICOGENOSI 59 DIABETE 63 COMPLICANZE DEL DIABETE 70 GLUCOCORTICOIDI E MINERALCORTICOIDI 74 GONADI 80 ALTERAZIONI GONADICHE 85 CALCIO 90 IPOFISI 94 TIROIDE 100 ALTERAZIONI DEL METABOLISMO PURINICO E PIRIMIDINICO 104 ALTERAZIONI DELL'EQUILIBRIO ACIDO-BASE: ACIDOSI ED ALCALOSI 107 ALTUCCI GENERALITÀ SUI TUMORI 111 INVASIVITÀ NEOPLASTICA 118 ONCOGENI 121 ONCOSOPPRESSORI 125 CANCEROGENESI 129 EPIGENETICA 134 LEUCEMIE 140 POLICITEMIE E POLIGLOBULIE 143 LINFOMI 144 ANEMIE 146 EMOSTASI - MALATTIE DEL SANGUE 154 MALATTIE EMORRAGICHE DIPENDENTI DALLE PIASTRINE 157 TROMBOSI 163 CLASSIFICAZIONE DEL RIGETTO DEI TRAPIANTI 166 NIGRO IL GENOMA UMANO 168 IL CORREDO CROMOSOMICO 171 CARATTERI COMPLESSI 173 CITOGENETICA MOLECOLARE 176 TECNICHE DI SEQUENZIAMENTO 179 ANOMALIE CROMOSOMICHE NUMERICHE 181 ANOMALIE CROMOSOMICHE STRUTTURALI 185

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CONSULENZA GENETICA ED ALBERI GENEALOGICI 188 CLASSI DI MUTAZIONI DEL DNA 189 MALATTIE DA SPLICING ED EREDITÀ AUTOSOMICA DOMINANTE 191 EREDITÀ AUTOSOMICA RECESSIVA 195 MALATTIE RECESSIVE LEGATE AL CROMOSOMA X 197 EREDITÀ A TRASMISSIONE AUTOSOMICA SIA DOMINANTE CHE RECESSIVA 199 MUTAZIONI DINAMICHE IN REGIONI NON CODIFICANTI 200 MUTAZIONI DINAMICHE IN REGIONI CODIFICANTI 202 IMPRINTING GENOMICO E DISOMIA UNIPARENTALE 203 MUTAZIONI DEL DNA MITOCONDRIALE 205 ABBONDANZA PATOLOGIE DA RIDUZIONE E DA AUMENTO DELLA PRESSIONE ATMOSFERICA 207 PATOLOGIE DA ASSORBIMENTO DA RADIAZIONI 213 PATOLOGIE DA AGENTI CHIMICI 220 LE IMMUNODEFICIENZE 227 SINDROME DELL'IMMUNODEFICIENZA ACQUISITA (AIDS) 233 IL COMPLESSO MAGGIORE DI ISTOCOMPATIBILITÀ DELL'UOMO 236 LE REAZIONI IMMUNOPATOGENE 240 TOLLERANZA IMMUNOLOGICA 247 LA REAZIONE AUTOIMMUNE E LA MALATTIA AUTOIMMUNE 249

Testo scritto da CO.CO.

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La patologia è lo studio delle modificazioni strutturali e funzionali di cellule, tessuti e organi che sono alla base delle malattie e si divide in patologia generale e sistemica. La prima riguarda le reazioni che si verificano a livello cellulare o tissutale in risposta ad uno stimolo anomalo o a difetti ereditari. La seconda studia le alterazioni che si producono in tessuti e organi specializzati determinando disturbi a carico di questi ultimi. RISPOSTE CELLULARI A STRESS E STIMOLI DANNOSI La cellula normale è in grado di soddisfare le richieste fisiologiche mantenendo uno stato di equilibrio detto omeostasi. In risposta ad uno stress fisiologico grave o a determinati stimoli patologici che alterano l’omeostasi cellulare vengono raggiunti stati di equilibrio nuovi ma alterati che consentono alla cellula di sopravvivere e continuare ad espletare le proprie funzioni. La risposta adattativa può tradursi in:

- ipertrofia (aumento del volume cellulare); - atrofia (diminuzione del volume cellulare); - iperplasia (aumento del numero di cellule); - aplasia (diminuzione del numero di cellule); - metaplasia (cambiamento del fenotipo cellulare); - displasia (alterazione qualitativa, quantitativa o morfologica della struttura cellulare di un tessuto o

di un organo). Se i limiti delle risposte adattative vengono superati, si ha danno cellulare reversibile, caratterizzato da alterazioni biochimiche che modificano le membrane plasmatiche (si possono avere anche dei cambiamenti metabolici che portano ad una steatosi): le pompe Na+/K+ vengono alterate per cui esce il potassio e insieme al sodio entra acqua. Il risultato è lo swelling (rigonfiamento, modificazione idropinica) della cellula. Il danno cellulare, quando irreversibile, porta la cellula alla morte (tramite necrosi o apoptosi). Le risposte adattative dipendono dal potenziale proliferativo della cellula: cellule perenni che non possono duplicare perché stanno in uno stato di quiescenza (quali quelle del sistema nervoso, cardiache o della muscolatura scheletrica) possono rispondere al danno solo con l’aumento o la diminuzione del loro volume; cellule che sono commissionate al ciclo cellulare (cellule della cute o delle mucose di rivestimento) o che possono essere commissionate al ciclo cellulare (cellule epatiche) possono rispondere al danno aumentando o diminuendo il loro numero. L’ipertrofia può essere:

- fisiologica, quindi adattativa, come quella della muscolatura scheletrica negli atleti perché aumenta il fabbisogno energetico, o quella della muscolatura liscia dell’utero durante la gravidanza (dovuta alla secrezione di ormoni);

- patologica, come l’ipertrofia del setto interventricolare conseguenza di un’area necrotica (area bianco pallida) che si ha con l’infarto del miocardio.

L’iperplasia può essere:

- fisiologica, come quella dell’utero che si allarga in gravidanza, quella della ghiandola mammaria durante l’allattamento o quella compensatoria del fegato in seguito ad un danno;

- patologica, come nell’endometriosi in cui si ha eccessiva stimolazione ormonale, nella guarigione delle ferite con la formazione di cicatrici dovute ad eccessiva stimolazione del tessuto che deve rigenerarsi da parte dei fattori di crescita, o nelle infezioni da papilloma virus.

La metaplasia è il cambiamento nello stato differenziativo di alcuni epiteli, soprattutto gli epiteli bronchiali nei grossi fumatori, gli epiteli dello stomaco, dell’esofago e della cervice uterina: gli epiteli subiscono una modificazione di tipo adattativo che all’inizio può essere un vantaggio ma che poi può predisporre quel tessuto ad una trasformazione neoplastica. La displasia è un cambiamento anomalo nella forma, dimensione e organizzazione strutturale delle cellule che può essere dovuto anche a danni persistenti come la displasia del cavo orale causata da alcol, fumo e scarsa igiene dentale.

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Le cellule che subiscono il danno possono rispondere anche con morte cellulare causata da: - ipossia: riduzione della concentrazione di ossigeno dovuta a cause esterne o genetiche ad esempio

nelle anemie emolitiche, nelle talassemie dove si ha mutazione dell’emoglobina e quindi un trasporto di ossigeno inefficace;

- agenti fisici: alta e bassa temperatura, radiazioni UV; - sostanze chimiche e farmaci: mercurio, cianuro danno tossicità in maniera diretta o indiretta quando

non sono le sostanze stesse a dare tossicità ma i loro prodotti intermedi sintetizzati a livello epatico o renale (tricloruro di carbonio trasformato in tetracloruro nel fegato);

- batteri, virus, miceti, parassiti; - reazioni immunitarie con la formazione di immunocomplessi che inducono danno ed eventualmente

morte cellulare nelle malattie autoimmuni (vengono colpiti articolazioni, rene, cuore, fegato); - allergie; - difetti genetici: nell’anemia falciforme si ha il danno ipossico e quindi morte cellulare; - squilibri nutrizionali.

MECCANISMI DI DANNO CELLULARE: ISCHEMIA Dovuta a bassi livelli di ossigeno nell’aria, scarsa o assente funzione dell’emoglobina, diminuzione dell’eritropoiesi e insufficienza respiratoria e/o cardiaca. Il danno ischemico è conseguenza dell’occlusione di un’arteria principale o un suo ramo e quindi si ha scarso apporto di sangue. L’entità del danno dipende:

- dal tempo: un’occlusione che dura pochi secondi causa un’ostruzione (stenosi) che dura poco tempo, un’ostruzione che dura più di 30 secondi può causare necrosi;

- dal tessuto colpito: se è colpito il tratto gastrointestinale con terapie adeguate si recupera il tessuto danneggiato; se è colpito il SNC, la muscolatura scheletrica o il miocardio non si può recuperare il tessuto danneggiato e abbiamo morte cellulare (inoltre, nei rami delle coronarie maggiore è il diametro del vaso che si occlude, maggiore è l’area di necrosi; viceversa, minore è il diametro, minore è l’area di necrosi).

DANNO DA ROS I ROS sono specie chimiche che hanno un unico elettrone nell’orbitale più esterno non appaiato, quindi specie molto instabili che tendono ad accoppiarsi ad altre sostanze per tentare di raggiungere una stabilità chimica. Nel farlo, sprigionano un’enorme quantità di energia nella cellula che causa il danno. I ROS inoltre si vanno anche a legare a proteine di membrana, si liberano in quantità enormi durante la risposta infiammatoria, vengono liberati nella trasformazione neoplastica e si liberano nel processo di fagocitosi. DANNO DA RIPERFUSIONE Si riscontra soprattutto in cardiologia nell’infarto del miocardio. Quando si ha un processo ischemico cardiaco esiste una prima fase in cui non tutte le cellule colpite vanno incontro a morte cellulare. Se andiamo a riperfondere il tessuto colpito o con interventi chirurgici o con terapie trombolitiche, con l’afflusso del sangue arriva anche il calcio: ciò genera lo sprigionamento di ROS e dunque al danno ischemico segue quello da radicali liberi. Il danno causa prima perdita delle funzioni metaboliche della cellula e poi, in un secondo momento, cambiamenti strutturali visibili al microscopio che culminano con la necrosi della cellula. DANNO ISCHEMICO E IPOSSICO Nell’ipossia c’è una ridotta disponibilità di ossigeno, mentre nell’ischemia l’apporto di ossigeno e nutrienti risulta diminuito per via di un ridotto flusso ematico, conseguenza di un’ostruzione meccanica del sistema arterioso, ma può essere dovuto anche a un minore drenaggio venoso. Diversamente dall’ipossia, durante la quale può perdurare la produzione di energia glicolitica per glicolisi anaerobia, l’ischemia compromette la disponibilità dei substrati della glicolisi. Nei tessuti ischemici, pertanto, non solo il metabolismo aerobico è

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compromesso, ma anche la produzione anaerobica di energia si arresta dopo l’esaurimento dei substrati della glicolisi o nel momento in cui la glicolisi viene inibita dall’accumulo di metaboliti che in condizioni normali sarebbero rimossi dal flusso sanguigno. Per questa ragione l'ischemia tende a causare un danno cellulare e tissutale più rapido e grave rispetto all’ipossia in assenza di ischemia. Quando la concentrazione di ossigeno intracellulare si riduce, si ha una perdita della fosforilazione ossidativa e una deplezione di ATP che provoca un’avaria della pompa del sodio, con perdita di potassio, ingresso intracellulare di sodio e acqua e rigonfiamento cellulare. Si verifica inoltre un afflusso di Ca2+ associato a numerosi effetti deleteri e si assiste a un progressivo abbassamento dei livelli di glicogeno e della sintesi proteica. Questa fase può dare luogo a gravi conseguenze. Il muscolo cardiaco, ad esempio, cessa di contrarsi entro 60 secondi dall’occlusione coronarica (la perdita della contrattilità tuttavia non indica morte cellulare). Se l’ipossia continua, il citoscheletro si disperde, determinando la scomparsa dei microvilli e la formazione di piccole estroflessioni sulla superficie cellulare. All’interno del citoplasma o nello spazio extracellulare compaiono le “figure mieliniche”, derivate dalle membrane cellulari in degenerazione. In questa fase, i mitocondri sono in genere rigonfi per l’incapacità di controllare il proprio volume, il reticolo endoplasmatico rimane dilatato e l’intera cellula diventa particolarmente voluminosa, con aumento del contenuto idrico e della concentrazione di sodio e cloruri e riduzione del potassio. Se la disponibilità di ossigeno viene ripristinata, tutte queste alterazioni sono reversibili. Se l'ischemia persiste, al contrario, si arriva al danno irreversibile che si associa a grave rigonfiamento mitocondriale, esteso danno della membrana citoplasmatica (con comparsa delle figure mieliniche) e rigonfiamento dei lisosomi. Nella matrice mitocondriale si sviluppano grossi corpi densi, amorfi e di aspetto flocculare. Nel miocardio, questi elementi indicano l’irreversibilità delle lesioni e possono essere osservati già 30-40 minuti dopo l’ischemia. A questo punto si verifica un massivo ingresso di calcio nella cellula, in particolare se la zona ischemica viene riperfusa. La morte avviene principalmente per necrosi, anche se l’apoptosi può fornire un contributo; la via dell’apoptosi viene probabilmente attivata dalla liberazione di molecole proapoptotiche dai mitocondri danneggiati. DANNO DA ISCHEMIA-RIPERFUSIONE Se il danno cellulare è reversibile, il ripristino del flusso ematico consente il recupero funzionale. Tuttavia, il ripristino del flusso ematico in aree ischemiche ma vitali può causare, paradossalmente, la morte cellulare, nonostante le cellule non abbiano subito danni irreversibili. Il danno da riperfusione post-ischemica contribuisce notevolmente al danno tissutale nell'infarto miocardico e cerebrale. Vari meccanismi aggravano il danno da riperfusione post-ischemica.

- La riossigenazione stimola la produzione di ROS nelle cellule parenchimali ed epiteliali e nei leucociti infiltranti, inducendo nuove alterazioni. L'aumentato apporto di ossigeno, infatti, aumenta la produzione di ROS da parte dei mitocondri danneggiati, che non riescono a ridurre completamente l'ossigeno, e delle ossidasi leucocitarie, endoteliali e parenchimali. L'ischemia, inoltre, compromette i meccanismi cellulari antiossidanti di difesa, favorendo l'accumulo di radicali liberi.

- L'infiammazione causata dall'ischemia aumenta con la riperfusione, attraendo leucociti e proteine plasmatiche. I prodotti di attivazione leucocitaria aggravano i danni tissutali. L'attivazione del sistema del complemento contribuisce altresì al danno da riperfusione post-ischemica. Le proteine del complemento, infatti, si legano ai tessuti danneggiati o agli anticorpi tissutali, attivando il sistema del complemento, che genera prodotti di degradazione che amplificano il danno cellulare e l'infiammazione.

RISPOSTA AL DANNO La risposta al danno è caratterizzata da 2 fasi:

- la fase di reversibilità in cui la cellula può recuperare le sue funzioni; - la fase di irreversibilità con cambiamenti ultrastrutturali visibili al microscopio e grossi cambiamenti

visibili con approccio anatomo-patologico. Esistono punti critici nel passaggio da una fase all’altra: quello fondamentale è la membrana plasmatica che garantisce l’omeostasi cellulare. In fase di reversibilità il primo target del danno sono le membrane mitocondriali che sono danneggiate: si ha riduzione del metabolismo ossidativo della cellula, perdita di energia dovuta alla formazione di pori di

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transizione MPT che fanno perdere il potenziale di membrana e quindi si ha diminuzione di ATP. Oltre a ciò, si ha il rilascio di citocromo C che attiva una serie di vie apoptotiche e una diminuzione di ossigeno che comporta la formazione di ROS. Altro target sono le membrane plasmatiche. Il danno alla membrana cellulare esterna altera la pompa Na+/K+ con ingresso di sodio e acqua e fuoriuscita di potassio e quindi rigonfiamento della cellula; il danno alle membrane lisosomiali porta al rilascio degli enzimi lisosomiali nel citoplasma e alla loro attivazione che comporta la digestione delle componenti cellulari stesse. L’alterazione delle membrane plasmatiche comporta anche l’aumento della concentrazione citoplasmatica di calcio così come l’alterazione delle membrane dei calciosomi (organelli che si trovano sul reticolo endoplasmatico e servono da deposito per il calcio). Tale aumento comporta l’attivazione di enzimi calcio-dipendenti:

- fosfolipasi che attaccano i fosfolipidi di membrana, causando un ulteriore danno; - proteasi che attaccano le macromolecole del citoscheletro; - ATPasi, il che comporta un’ulteriore perdita di ATP; - endonucleasi aspecifiche, causando la frammentazione casuale del DNA.

In fase di irreversibilità, il danno alle membrane mitocondriali, plasmatiche, lisosomiali e il rilascio di calcio sono maggiori. Si arriva al rilascio di enzimi dalla cellula nel siero: in un paziente con epatite virale dosiamo le transaminasi, la lattico deidrogenasi, la gamma-glutammil transferasi; in un paziente con infarto del miocardio dosiamo anche l’isoforma cardiaca della creatinin-chinasi; in un paziente con pancreatite acuta dosiamo enzimi del pancreas esocrino quindi amilasi e lipasi. MORTE CELLULARE

- necrosi: morte occasionale. - autofagia: la cellula si autofagocita digerendo componenti di se stessa (le cellule neoplastiche

sottoposte a chemioterapia vanno incontro ad autofagia). Tale tipo di morte cellulare è regolata biochimicamente dai mitocondri. È un meccanismo caspasi-indipendente.

- catastrofe mitotica (esplosione della cellula in tanti frammenti): avviene durante l’ultimo check-point del ciclo cellulare. I check-point sono 4: G1-S, S, G2-M ed M. Se nella fase M gli elementi non sono sufficienti per duplicarsi, la cellula va incontro a catastrofe mitotica. Questo tipo di morte è caratterizzato da un’azione anomala dei complessi ciclineB/CDK1.

- invecchiamento cellulare (o limite di Hayflick), tipico delle cellule che ancora sono vitali ma non sono più in grado di replicarsi. Il limite di Hayflick è stato fissato a 12-13 cicli di coltura: i ricercatori studiando cellule diploidi umane osservarono che dopo 12-13 cicli le cellule si arrestavano diventando più allargate e allungate e mostrando accumulo di β-galattosidasi lisosomiale. Esistono 2 tipi di invecchiamento: replicativo, controllato dai telomeri e dalle telomerasi, tipico delle trasformazioni neoplastiche; non replicativo, che è un invecchiamento prematuro dovuto a stimoli patologici e non fisiologici.

- apoptosi o morte cellulare programmata. NECROSI Con la necrosi abbiamo: aumento degli eosinofili; picnosi o degenerazione del nucleo; carioressi o frammentazione del nucleo; cariolisi o dissoluzione completa del nucleo e degradazione del DNA; rilascio di enzimi lisosomiali che causano autolisi (autodistruzione cellulare) o eterolisi (distruzione delle cellule vicine).

- Nella necrosi colliquativa è alterata completamente la struttura del tessuto per cui al posto delle cellule originarie resta l’area malacica (esempio, ictus cerebrale).

- Nella necrosi coagulativa non si ha perdita dell’architettura del tessuto (esempio, l’infarto del miocardio).

- La necrosi caseosa si instaura in seguito ad una risposta infiammatoria cronica caratterizzata da una lesione granulomatosa costituita da macrofagi, linfociti e cellule giganti al centro della quale si trova l’area di necrosi detta caseosa perché fatta da un liquido giallastro simile al formaggio fuso (esempio, infezione tubercolare).

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- La gangrena, che può essere secca o umida, è dovuta a complicanze delle malattie metaboliche, tipo il diabete.

- La steatonecrosi o necrosi grassa è tipica delle pancreatiti ed è a carico del tessuto adiposo (quindi può interessare qualunque sede).

APOPTOSI Non è un processo biologico conservato, infatti riguarda gli organismi più complessi (l’organismo più semplice in cui è stata riscontrata è un nematode, Caenorhabditis Elegans). I tessuti controllati durante lo sviluppo e il differenziamento da apoptosi sono: tessuto nervoso, sistema immunitario, tessuti ormoni-dipendenti (in mancanza dei loro ormoni vanno incontro ad apoptosi). L’apoptosi ha un ruolo in alcune patologie:

- AIDS in cui l’HIV attiva una serie di segnali apoptotici che determinano la perdita delle risposte immunitarie.

- malattie autoimmuni come il Lupus eritematoso sistemico. - Alzheimer in cui si ha perdita massiva di neuroni a causa dell’aggregazione di sostanze tossiche della

β-amiloide nella cellula. Nei tumori umani l’apoptosi sarebbe auspicabile ma in essi sono attivate ed amplificate le vie della sopravvivenza cellulare. L’apoptosi può durare diversi giorni e si divide in 2 fasi: 1) fase di latenza in cui la cellula è condannata all’apoptosi da un insulto genotossico. 2) fase di esecuzione controllata dalle caspasi esecutrici e caratterizzata dalla condensazione della cromatina, dall’attivazione di specifiche nucleasi e dalla formazione di corpi apoptotici. Il punto limite tra fase di latenza e fase di esecuzione è il punto di non ritorno. Le proteine che controllano l’apoptosi sono: 1) proteine della famiglia Bcl divise in Killers che favoriscono l’apoptosi (Bax, Bak, Bad, Bid, Bim, Noxa) e Protettori che la inibiscono e sono dunque proneoplastiche perché favoriscono la sopravvivenza cellulare (Bcl2, Bclx, DIVA). Sono dette Bcl perché il capostipite di questa famiglia, Bcl2, è iperespresso nel linfoma delle cellule B: facilitando la sopravvivenza cellulare, facilita la loro trasformazione neoplastica. Bcl2 è iperespresso a causa di una traslocazione dei cromosomi 14 e 18. Esistono degli inibitori di tali proteine usati in oncologia. 2) Caspasi che hanno la cisteina nel sito attivo. Si dividono in:

- iniziatrici, formate da 2 domini ammino-terminali (DED) che si legano a proteine coinvolte all’inizio dell’apoptosi; nella porzione centrale hanno una subunità grande LS e in quella carbossi-terminale una subunità piccola SS. Tra le caspasi iniziatrici vi è la caspasi 8.

- effettrici che hanno una struttura più semplice, non hanno domini funzionali ma solo subunità LS ed SS. Tra le caspasi effettrici vi è la caspasi 3.

Le caspasi attaccano o le proteine direttamente coinvolte nell’apoptosi (come quelle della proteina chinasi C oppure la chinasi PAK2) oppure gli effettori della sopravvivenza cellulare che sono:

- FAK o chinasi delle adesioni focali. - Raf che dipende dall’oncogene Ras per attivarsi. - chinasi AKT - NF-κβ e STAT1 che traslocano nel compartimento nucleare controllando la trascrizione dei geni.

DIFFERENZE TRA NECROSI ED APOPTOSI

- Necrosi: rigonfiamento e frammentazione della cellula in pezzi litici che sono fagocitati dai macrofagi che attivandosi danno una risposta infiammatoria.

- Apoptosi: si ha la perdita delle giunzioni strette tra le cellule, si raggrinziscono la cellula e il materiale cellulare (la cromatina si condensa) a tal punto che si generano i corpi apoptotici che gemmano dalla cellula e vengono digeriti dai macrofagi senza attivarli, quindi non si ha risposta infiammatoria.

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CASPASI L’effetto delle caspasi è quello di inattivare i fattori di sopravvivenza e di attivare i fattori che innescano la risposta apoptotica. I fattori di sopravvivenza consentono alla cellula il raggiungimento del punto di restrizione, che è il punto al di là del quale la cellula è commissionata alla duplicazione cellulare (avviene durante la fase G1 tardiva). Ciò succede perché la cellula riceve dall’esterno segnali solubili come fattori di crescita, ormoni che facilitano la crescita cellulare (ad esempio, insulina), ormoni steroidei, citochine e chemochine, tutti riconosciuti da recettori di membrana o intracitoplasmatici (a seconda del tipo di ligando). Questi segnali arrivano al nucleo attraverso una via di segnalazione che si chiama cascata di trasduzione dei segnali. La maggior parte di questi fattori solubili riconoscono recettori di membrana in quanto hanno natura peptidica e quindi, non potendo attraversare liberamente la membrana plasmatica, hanno bisogno di legarsi ad un recettore di membrana per poter trasdurre il loro segnale all’interno. I recettori di membrana sono ancorati alla membrana tramite degli amminoacidi idrofobici (“stretch”) che si integrano tra i fosfolipidi; sono dotati di una porzione extracitoplasmatica, destinata al legame con il ligando, e di un dominio intracitoplasmatico dotato di attività tirosin-chinasica. Esempi di recettori di membrana sono il recettore per l’IGF, per il PDGF e per il CSF-1 (il primo importante nel diabete, gli altri nella risposta infiammatoria). L’attività tirosin-chinasica dei recettori è importante perché quando arriva il ligando i recettori si autofosforilano nei residui di tirosina (più complessa è la struttura del recettore, maggiori sono i siti di tirosina fosforilabili): con il legame ligando-recettore, quest’ultimo dimerizza e avvengono modificazioni ulteriori della sua struttura che inducono l’autofosforilazione in tirosina; la porzione intracitoplasmatica si attiva e va a fosforilare altri substrati nei residui di tirosina. A causa di ciò si ha il reclutamento di proteine contenenti domini SH2 (da Sarc-Homology 2, poiché queste proteine sono sempre attive nel virus del sarcoma di Rous). Queste proteine sono i cosiddetti oncogeni cellulari (non tutti possiedono domini SH2): tra i più importanti quelli della famiglia delle chinasi SRC (si legge Sarc) e la chinasi ABL. In seguito all’attivazione di queste chinasi, si attiva una via di trasduzione del segnale che passa per l’attivazione di Ras, piccolo oncogene che nella forma inattiva lega GDP. Ras non viene fosforilato ma cambia semplicemente la sua localizzazione: viene portato vicino alla membrana plasmatica dove si attiva grazie alla proteina GEF (scambiatore guanilico che favorisce la formazione di GTP da GDP) a sua volta attivata dai recettori tirosin-chinasici. L’attivazione di Ras è rapida ma reversibile grazie all’azione delle proteine della famiglia GAP che attivano le GTPasi che favoriscono l’idrolisi del GTP in GDP (Ras è anche dotato di un’intrinseca attività idrolitica). Ras attivato recluta vicino alla membrana la serin-chinasi Raf (mutazioni di questa proteina sono caratteristiche dei melanomi) che, una volta attiva, attiva a sua volta la chinasi MEK che si fosforila in serina e treonina; dopodiché si attivano le MAP-chinasi come ERK1 e ERK2. Queste due, autofosforilandosi in treonina e tirosina, traslocano nel nucleo dove promuovono la trascrizione dei geni coinvolti nella regolazione positiva del ciclo cellulare (geni che codificano per la ciclina D e la ciclina E) o inibiscono l’espressione degli inibitori del ciclo (p21 e p27). Raf è uno dei tanti target delle caspasi. Altri effettori importanti sono:

- NF-κβ, che quando fosforilato si libera da un inibitore citoplasmatico, trasloca nel nucleo e attiva la trascrizione di geni implicati nelle risposte infiammatorie e immunitarie;

- STAT1, che come il precedente è implicato nella risposta infiammatoria. Vi sono poi altri segnali che sono quelli insolubili, dati dalla matrice extracellulare. I contatti della cellula con la matrice extracellulare sono mediati dalle integrine, proteine che generalmente funzionano come dimeri (nella forma attiva quasi sempre come αβ). Le integrine vengono attivate dalle proteine della matrice extracellulare (collagene, fibronectina, laminina, etc.) e, non essendo dotate di attività catalitica, clusterizzano ossia si ammassano in punti specifici della cellula identificati come adesioni focali (servono alla cellula per aderire alla matrice). Le integrine avvicinandosi tra loro si attivano perché subiscono modificazioni conformazionali che a loro volta attivano la chinasi delle adesioni focali (FAK). Le adesioni focali sono costituite da almeno 600 proteine che generalmente prendono contatto con i filamenti intermedi del citoscheletro.

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FAK, in seguito alla modificazione conformazionale della clusterizzazione delle integrine, viene agganciata dalla loro porzione intracitoplasmatica, si apre e si autofosforila in tirosina (Tyr397 è il sito di fosforilazione più importante). FAK possiede 9 residui fosforilabili di tirosina e, in più, domini SH2, SH3 e FERM: la sua struttura quindi le consente di agganciare varie vie del segnale e amplificare la risposta cellulare. Per esempio, è il caso di Super-FAK, una forma di FAK presente nei tumori metastatici, che con i suoi 9 residui fosforilabili va ad agganciare 9 diverse vie del segnale. FAK, una volta attivato, recluta una chinasi importante, la fosfatidilinositolo 3-chinasi PI3K (che ha domini SH2), attivandola. Ciò comporta:

- trasformazione neoplastica; - controllo del ciclo cellulare; - risposta infiammatoria e immunitaria.

È quindi un enzima con attività pleiotropica che, attraverso una serin-chinasi AKT, attiva la progressione del ciclo cellulare da G1 a S. AKT infatti ha 3 importanti substrati: la ciclina D, di cui controlla la trascrizione genica, e p21 e p27, dei quali inibisce la trascrizione genica. Le funzioni extranucleari delle caspasi prevedono l’inattivazione di AKT, l’attivazione diretta delle protein-chinasi della famiglia C e la chinasi PAK-2. Nell’apoptosi si ha una rottura specifica del DNA in frammenti discreti grazie alle caspasi effettrici 3, 6 e 7 (attivate dalle caspasi iniziatrici 8 e 9) che vanno ad attaccare il legame tra la DNasi CAD e il suo inibitore iCAD che nel nucleo si trovano normalmente legati in un complesso equimolecolare: con la rottura di questo legame, iCAD esce dal nucleo e CAD agisce liberamente, inducendo l’apoptosi. La fase effettrice dell’apoptosi può essere innescata da 2 vie: 1) la via estrinseca, mediata dai cosiddetti recettori di morte (i più importanti sono Fas e TNF-R1) costituiti da un dominio ricco di cisteina, un dominio transmembrana, domini chinasici e domini di morte, quest’ultimi importanti per l’interazione con le altre proteine. Il ligando di Fas (FasL) interagendo con Fas lo attiva: questo provoca la formazione di trimeri con altri domini di morte che si vanno ad associare a caspasi iniziatrici (tramite domini omologhi) che si autoclivano, diventando effettrici. Le alterazioni del pathway mediato da Fas possono dare malattie autoimmuni e tumori ematopoietici: questo perché Fas è espresso dai linfociti T in grado di riconoscere antigeni self, e dai linfociti T citotossici che uccidono le cellule tumorali o infettate da virus. 2) la via intrinseca o mitocondriale, in cui si libera la molecola proapoptotica Bid che altera le membrane mitocondriali favorendo il rilascio nel citoplasma di citocromo c. Questo provoca la formazione dell’apoptosoma, formato da citocromo c, procaspasi e Apaf, dimero attivatore del processo apoptotico. Questo complesso attiva le caspasi che poi eseguono l’apoptosi. p53 p53 è un oncosoppressore importante nel processo apoptotico che viene attivato in risposta ad un danno genotossico. È costituito da 3 domini:

- uno N-terminale, denominato TA (dominio di trascrizione-attivazione); - uno centrale, detto DBD (dominio DNA-ligando) che contiene residui di arginina; - uno C-terminale, detto OD (dominio di omo-oligomerizzazione) che presenta 2 domini parzialmente

sovrapposti, uno dei quali riconosce e si lega al DNA danneggiato. Le proteine che prendono contatto o sono regolate da p53 sono p21, BAX, NOX, Apaf, PUMA, Fas, tutti geni che facilitano l’apoptosi. L’attivazione di p53 in risposta ad un danno genotossico avviene in diversi modi:

stabilizzazione del tetramero (p53 deve funzionare come tetramero per andare ad agire sul DNA);

rilascio di p53 da parte di MDM2, MDM2 regola p53 e ne blocca la sua attività trascrizionale. MDM2 è una ubiquitino-ligasi che, quando legata a p53, lo rende identificabile dal proteosoma e quindi ne favorisce la degradazione. Non solo, ne facilita anche la fuoriuscita dal nucleo per cui p53 non può

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più agire sul DNA come fattore di trascrizione. p53 può subire quindi alterazione della funzione non solo per mutazione ma anche per delocalizzazione, come avviene nei tumori del colon.

in risposta a stimoli persistenti o eccessivi (stimoli ormonali o virali). Quando la cellula è sottoposta a tali stimoli, all’interno del nucleo si attivano 2 inibitori del ciclo cellulare: p16, inibitore pure perché inibisce direttamente l’attività catalitica delle chinasi CDK4 o CDK6 associate alla ciclina D che quindi non possono fosforilare Rb, importante oncosoppressore (con il risultato che la cellula si arresta e non può entrare in fase S); p14, inibitore che recluta MDM2 staccandola da p53 che quindi è libero di agire nel nucleo.

Una volta attivato, p53 stimola la trascrizione di p21 mandando la cellula in apoptosi. Ci sono almeno 3 momenti in cui p53 può essere attivato e sono i 4 checkpoint del ciclo cellulare:

- il primo in G1 che serve a controllare che il DNA da duplicare sia intero; - il secondo dopo la fase S per vedere che tutto il DNA sia duplicato in maniera corretta; - il terzo nel passaggio G2-M; - il quarto nella fase mitotica.

Quando il DNA viene danneggiato vengono attivati dei sensori del danno che trasducono il segnale ad effettori tra cui p53 che decide se continuare il ciclo, mandare la cellula in apoptosi o riparare il danno. Uno dei sensori più importanti è una chinasi detta ATM, responsabile se mutata dell’atassia teleangectasia, una malattia che si manifesta nei bambini caratterizzata da suscettibilità ai tumori, disordini linfoproliferativi, neurodegenerazione, sterilità, radiosensibilità e teleangectasia (occhi e viso molto rossi). Altri sensori del danno sono ATR e DNA-proteinchinasi. Quando il DNA viene danneggiato, si ha la dissociazione del dimero di ATM in 2 monomeri e quindi la sua attivazione: i monomeri si autofosforilano in serina e reclutano sulla doppia elica di DNA danneggiata un complesso multiproteico a cui appartengono BRCA-1 (enzima riparatore), RAD50 e MCD. L’assenza di BRCA-1 è responsabile di molti tumori umani, tra cui quelli della ghiandola mammaria e della prostata (ne esistono 2 isoforme, BRCA-1 e BRCA-2). Mutazioni somatiche di p53, Rb, p16, p14 e MDM2 sono state rinvenute in diversi tumori umani. Mutazioni della linea germinale di p53 sono responsabili della sindrome di Li-Fraumeni, caratterizzata da un’elevata incidenza di tumori della ghiandola mammaria e dei tessuti molli (quindi sarcomi e fibrosarcomi) nella stessa famiglia: questa sindrome può essere diagnosticata se il paziente presenta un sarcoma in tenera età o comunque al di sotto dei 45 anni oppure se un parente di I o II grado ha avuto un qualsiasi tumore o un sarcoma al di sotto dei 45 anni. Mutazioni della linea germinale di Rb causano retinoblastoma nei bambini, di p16 e p14 causano melanoma.

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RISPOSTA INFIAMMATORIA L’infiammazione è una risposta protettiva dell’organismo che tende ad allontanare l’agente che ha causato il danno: è correlata alla guarigione di quel tessuto (restitutio ad integrum) che significa la guarigione del tessuto danneggiato e il ripristino delle funzionalità. Può essere acuta o cronica. 1) L’acuta, detta anche angioflogosi poiché ci sono cambiamenti vascolo-ematici, dura e si risolve in poche ore (ad esempio, puntura di zanzara) o al massimo 1/2 settimane. Sono coinvolti i neutrofili nelle infezioni batteriche, i basofili in quelle allergiche e gli eosinofili nelle parossitosi. 2) La cronica, in cui vi sono alterazioni di tipo tissutale, può colpire anche il paziente in giovane età accompagnandolo tutta la vita fino alla morte (ad esempio, artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico). È caratterizzata dall’intervento dei macrofagi, dei linfociti e delle plasmacellule. In questo tipo di risposta infiammatoria si ha danno tissutale e il tentativo (vano perché non si riesce mai a guarire in quanto il danno è continuo) da parte del tessuto di ripararlo. INFIAMMAZIONE ACUTA L’infiammazione acuta è caratterizzata da un’immediata risposta al danno, che può essere biologico (batterio, virus), chimico e fisico (alte e basse temperature, radiazioni). I segni cardinali dell’infiammazione sono il calore, l’arrossamento e la tumefazione che si generano, nonché la lesione della funzione dell’organo e il dolore. In questo processo, avvengono 3 passaggi fondamentali: vasodilatazione, alterazione della permeabilità degli endoteli e travaso di liquidi insieme ai quali fuoriescono anche gli elementi figurati del sangue (polimorfonucleati neutrofili) e proteine, poiché le giunture delle cellule endoteliali diventano più lasse. Il liquido che fuoriesce dai vasi in seguito al danno viene detto essudato infiammatorio e il travaso viene detto edema.

Si tratta di edema infiammatorio perché il liquido che fuoriesce è caratterizzato da una certa densità perché ricco di proteine ed elementi figurati del sangue. L’edema non infiammatorio è dovuto ad una diminuzione della pressione oncotica (causata da un deficit nella sintesi proteica o da un aumento della perdita di proteine) oppure ad un aumento della pressione idrostatica. Nel caso di edema non infiammatorio il liquido che si versa viene detto trasudato. Esempi di trasudato sono il liquido ascitico che si riversa nel peritoneo come conseguenza della cirrosi, il liquido che si riversa nelle regioni dei clivi del corpo (come negli arti inferiori) come conseguenza di insufficienza renale, edema polmonare come conseguenza dell’infarto del miocardio.

La vasodilatazione è dovuta al rilascio di mediatori chimici quali istamina e serotonina ed è seguita dalla stasi ematica (rallentamento del flusso). Gli elementi figurati fuoriusciti devono essere portati sul luogo del danno. Globuli rossi, piastrine e globuli bianchi sono le cellule più mobili dotate di una velocità di migrazione elevatissima; normalmente viaggiano al centro del vaso ma, in caso di processo infiammatorio, le condizioni emodinamiche cambiano (grazie alla vasodilatazione e alla stasi ematica) e si concentrano maggiormente in periferia per attaccarsi all’endotelio, rotolare su di esso e fermarsi dove trovano la lesione. L’attraversano poi tramite diapedesi per migrare nel tessuto interstiziale sotto stimolo chemiotattico ed infine risolvere il danno attraverso un processo di fagocitosi. Sui liquidi contenuti all’interno del vaso agiscono 2 pressioni:

- pressione idrostatica, che tende a spostare i liquidi dall’interno all’esterno dei vasi (dal versante arteriolare a quello delle venule post-capillari);

- pressione colloido-osmotica o oncotica, regolata dalla concentrazione delle proteine plasmatiche, che tende a mantenere i liquidi all’interno dei vasi.

In condizioni fisiologiche la pressione oncotica rimane costante (25 mmHg sia sul versante arteriolare che su quello delle venule post-capillari), mentre la pressione idrostatica può variare dai 32 ai 12 mmHg (legge di Starling): ciò significa che già in condizioni normali si ha una minima fuoriuscita di liquidi. Nell’infiammazione acuta, invece, in seguito alla vasodilatazione si ha un aumento della pressione idrostatica in un range da 50 a 30 mmHg (passando dal versante arteriolare a quello delle venule post-capillari) e una diminuzione della pressione oncotica (20 mmHg): questo provoca la fuoriuscita di liquidi accompagnati da proteine ed elementi figurati del sangue.

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Questo essudato in base alla sua composizione può essere sieroso (tipico dei processi infiammatori più lievi, è povero di proteine), siero-purulento, catarrale (tipico delle vie respiratorie, è caratterizzato da un’elevata concentrazione di muco), purulento (essudato giallastro di consistenza cremosa, tipico delle ferite infette, è costituito da batteri e globuli bianchi in disfacimento), emorragico e fibrinoso (ricco di fibrinogeno e fibrina, tipico dei processi infiammatori più severi). Il danno endoteliale ha un meccanismo di azione rapido e transiente: in un vaso sottoposto ad uno stimolo, la cellula endoteliale risponde attivando dei geni e portando ad esempio alla sintesi di proteine o al rilascio di mediatori chimici ad azione rapida. Se lo stimolo è importante, la cellula endoteliale può contrarsi e consentire il passaggio di liquidi, proteine ed elementi figurati. Il danno può essere diretto o indiretto.

Nel danno diretto (come ustioni ed infezioni batteriche), l’aumento di permeabilità inizia immediatamente, dopo la lesione ed è mantenuta ad un livello elevato per ore fino alla riparazione del vaso. Questa reazione è nota come risposta immediata sostenuta e si riscontra di solito nelle lesioni necrotizzanti.

Nel danno indiretto, le cellule endoteliali sono danneggiate dall’accumulo di leucociti lungo la parete vascolare, leucociti che rilasciano enzimi proteolitici e ROS.

EVENTI LEUCOCITARI Gli eventi leucocitari sono degli eventi cellulari che accompagnano il processo infiammatorio e che portano al reclutamento delle cellule infiammatorie sul sito del danno. La sequenza di eventi è la seguente:

- marginazione (i leucociti vengono marginati alla periferia del vaso); - rotolamento ed adesione (i leucociti rotolano fino al sito del danno e aderiscono alle cellule

endoteliali); - trasmigrazione o diapedesi (i leucociti passano attraverso l’endotelio); - migrazione e chemiotassi (i leucociti migrano nel tessuto interstiziale verso uno stimolo

chemiotattico); - fagocitosi (i leucociti inglobano l’agente patogeno).

Quando l'endotelio viene attivato dal danno, esprime delle molecole di adesione che vanno ad interagire con molecole di adesione complementari presenti sui leucociti. Le molecole di adesione coinvolte sono: - le selectine (E-selectine espresse sull'endotelio, L-selectine espresse sui leucociti, P-selectine espresse sulle piastrine), che si legano ai rispettivi recettori mediando il processo di rotolamento dei leucociti sulle pareti endoteliali; - le integrine, tra cui MAC-1 e LFA-1 riconoscono ICAM-1 sulle cellule endoteliali oppure VLA-4 che riconosce VCAM-1. Esse mediano il processo di adesione; - PECAM-1, espressa sulla superficie dei neutrofili, che si lega a molecole di adesione presenti nelle giunture delle cellule endoteliali e media il processo di trasmigrazione o diapedesi.

La mancanza di proteine di adesione dei leucociti causa la malattia detta LAD (deficienza di adesione leucocitaria) tipica dei bambini in tenera età in cui i neutrofili mancano di integrine oppure possiedono integrine mutate nella regione ammino-terminale che non riescono ad assemblarsi: quindi si può avere rotolamento ma non adesione all'endotelio. La malattia è caratterizzata da infezioni batteriche ricorrenti e da un alto numero di neutrofili in circolo (non si ritrovano invece nelle lesioni).

All'adesione segue la diapedesi in cui i leucociti devono migrare all'interno della matrice extracellulare. La matrice è composta da elementi insolubili e per attraversarla i leucociti necessitano di un processo regolato chimicamente detto chemiotassi (movimento direzionale delle cellule lungo un gradiente chimico) che richiede molta energia (ATP). La migrazione cellulare regola lo sviluppo il differenziamento dei tessuti e per questo è coinvolta nelle malattie umane: tumori, infiammazioni croniche come l'aterosclerosi, malattie autoimmuni come artrite reumatoide e lupus eritematoso sistemico sono dovute all'alterazione di questo processo (i recettori che riconoscono stimoli chemiotattici sono oggi considerati bersagli terapeutici).

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La chemiotassi è attivata da segnali specifici costituiti dalle chemochine (particolare tipo di citochine), da prodotti modificati che derivano dalla parete batterica e da fattori del complemento attivati (ad esempio, C5a). Esistono tre classi di chemochine:

- α (CXC), che possiedono nella loro struttura 2 cisteine separate da un amminoacido chiamato X (sono rilasciate soprattutto dai neutrofili);

- β (CC), in cui le 2 cisteine sono una accanto all’altra (sono rilasciate dai linfociti, dai monociti, dai basofili e dagli eosinofili);

- ɣ (C), caratterizzate da un’unica cisteina (sono rilasciate dai linfociti). I recettori per le chemochine sono formati nella porzione transmembrana da una proteina a 7 domini che attiva proteine di membrana G eterotrimeriche. Queste, attivate, legano il GTP e si dissociano nella subunità α e nella subunità βɣ. Quest'ultima recluta l’isoforma p110ɣ di PI3K che, ritrovandosi a livello della membrana, catalizza la formazione di PIP3 da PIP2. Con il rilascio di PIP3 vengono reclutate proteine che contengono domini PH (pleckstrin homology). Queste altro non sono che GEF (fattori di scambio di gruppi guanilici), proteine che vanno ad attivare 3 membri di una famiglia di piccole proteine legate a GTP (famiglia Ras): - CDC42, la cui attivazione porta alla formazione dei filopodi, prolungamenti actinici attraverso i quali la cellula sente il gradiente chemiotattico; - RAC, la cui attivazione porta alla formazione dei lamellipodi con cui si stabiliscono nuove adesioni con la matrice extracellulare; - Rho, la cui attivazione porta alla formazione delle stress fibers, fascetti paralleli di actina che permettono alla cellula di contrarsi e quindi muoversi. Queste 3 proteine, in seguito all’attivazione di GEF, legano GTP e si attivano.

RAC e CDC42 attivano una cascata di eventi che coinvolge 2 molecole, Wave e Wasp, che agiscono sul complesso ARP 2/3 che serve a polimerizzare l’actina.

L’assenza della proteina Wasp causa la sindrome di Wiskott-Aldrich, un’immunodeficienza congenita in cui i bambini mostrano alterazioni della risposta immunitaria e infiammatoria.

Rho attiva molecole intermedie (come DIA e Rho-chinasi) che inducono una cascata di eventi che porta alla formazione delle stress fibers.

L’attivazione di queste 3 proteine (che sono oncogeni) viene interrotta dalle proteine GAP (che sono oncosoppressori), che dissociano il GTP in GDP. Tappe coinvolte nella migrazione cellulare - Protrusione: la cellula è polarizzata da stimoli extracellulari (nella porzione anteriore della cellula si concentrano Pi3K, actina, Wasp, Arp2/3) e si ha trazione anteriore mediata dall’estensione dei filopodi e dei lamellipodi; - Adesione: si formano nuove adesioni focali come conseguenza dell’attivazione delle integrine; - Traslocazione: il nucleo e il corpo cellulare sono traslocati in avanti grazie alla contrazione delle stress fibers a seguito dell’attivazione di Rho e della fosforilazione della miosina II localizzata appunto posteriormente; - Retrazione: la coda della cellula si distacca dal substrato e si ritrae a seguito della dissoluzione delle adesioni focali causate dall’attivazione di PTEN o GAP che spengono il segnale. Questo movimento è come il movimento del piede nella camminata. Il leucocita che sta migrando è quindi molto polarizzato visto che presenta un fronte anteriore avanzante (il fronte guida) ed uno posteriore (il retro). Verrebbe da pensare che le chemochine funzionano perché i loro recettori sono sul fronte guida: in realtà, i recettori sono disposti lungo tutta la superficie del leucocita e sono essi stessi che, una volta attivati dal legame, portano sul fronte guida le molecole che servono alla migrazione. Ciascun recettore può legare diverse chemochine (ad esempio, il virus dell’HIV si serve di questa promiscuità per entrare nelle cellule) e questo serve ad avere l’amplificazione dei segnali e una risposta rapida ed efficiente per riportare più tipi cellulari infiammatori (neutrofili, monociti) sul sito del danno. Nella cellula che migra è importante l’organizzazione spazio-temporale perché innanzitutto le proteine che servono ad attivare la migrazione sono tutte disposte sul fronte guida della cellula, mentre quelle che spengono il segnale ai bordi; inoltre, se si attiva una proteina sul fronte guida, le proteine che si trovano sul retro devono essere inattive.

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La chemiotassi può essere regolata anche dalle integrine, molecole transmembrana dotate di: - una porzione extracitoplasmatica, che quando si lega alle proteine della matrice extracellulare si attiva e recluta altre integrine nei punti di adesione focale; - una porzione intracitoplasmatica, che non è dotata di attività enzimatica (come avviene per i recettori dei fattori di crescita e sopravvivenza cellulare) ma che quando l’integrina si attiva, va a legare proteine del citoscheletro, scaffold importanti e proteine di ancoraggio, quali talina, filamina e α-actinina (importanti per la migrazione del leucocita). L’attivazione delle integrine non è dovuta solo a stimoli insolubili (proteine della matrice): anche stimoli solubili quali i fattori di crescita e sopravvivenza quali CSF-1 e PDGF (che intervengono nelle lesioni ateromasiche ad esempio) ed EGF (recettore diffuso in tutto le cellule e per questo potente mitogeno) possono attivare l’integrine. Questi fattori possiedono recettori di membrana specifici che, in seguito al legame, dimerizzano e si autofosforilano nei residui di tirosina. I siti di tirosina fosforilati vanno a reclutare la subunità regolatoria p85 di PI3K che contiene domini SH2 e in questo modo PI3K di classe 1A si ritrova vicino alla membrana plasmatica e si ha la produzione di PIP3 da PIP2. I meccanismi di attivazione delle integrine sono 2: - meccanismo di outside in (dall’esterno all’interno) in cui la porzione extracitoplasmatica dell’integrina è attivata dal legame con la sua proteina regolatrice (proteina della matrice extracellulare) e recluta altre integrine, clusterizzando; - meccanismo di inside out (dall’interno) in cui i fattori di crescita si legano ai propri recettori che dimerizzano, attivandosi e autofosforilandosi in tirosina; questo attiva una serie di chinasi all’interno della cellula che a loro volta fosforilano la coda intracitoplasmatica dell’integrina, attivandola. Qualunque sia il segnale di attivazione, che provenga dalle chemochine o dalle integrine, si va a modificare l'attività di un enzima chiave, PI3K (fosfatidilinositolo 3-chinasi) per catalizzare la formazione di PIP3 a partire da PIP2. Questo processo enzimatico avviene a livello della membrana e quindi, qualunque sia la via di attivazione, PI3K deve essere reclutato sulla membrana plasmatica. Le PI3K vengono suddivise in 3 classi: I, II e III. Quelle che intervengono maggiormente nei processi infiammatori e immunitari sono di classe I. La classe I è a sua volta suddivisa in sottoclasse A e B.

PI3K di classe 1A sono distribuite su tutti i tessuti e sono coinvolte nei processi di sopravvivenza e proliferazione, nei processi di invasività e metastasi, ma anche nelle funzioni metaboliche. L'insulina ad esempio funziona attraverso l'attivazione di PI3K di classe 1A (questo enzima può essere infatti deregolato in alcune forme di diabete di tipo 2).

PI3K di classe 1B (p110ɣ) ha una distribuzione predominante nei leucociti. Mentre quelle di classe 1A sono costituite da una subunità catalitica di 110 kDalton e una regolatoria di 85 kDalton (p85), quelle di classe 1B possiedono solo la subunità catalitica di 110 kDalton (da cui il nome di p110ɣ). Il segnale acceso da PI3K che porta alla formazione di PIP3 è reversibile: esiste una fosfatasi omologa alla tensina, PTEN, che trasforma PIP3 in PIP2 (altri inibitori sono Wortmannina e LY294002). PTEN per questo motivo è uno dei più importanti oncosoppressori: molti tumori umani, soprattutto quelli più metastatici, sono caratterizzati da delezioni o assenza di questo enzima. FAGOCITOSI L’ultimo evento cellulare nel corso dell’infiammazione è la fagocitosi. I monociti che si differenziano in macrofagi e i neutrofili sono fondamentali in questo processo. La fagocitosi avviene in 3 fasi:

- la fase d’attacco, in cui il corpo estraneo deve essere riconosciuto e attaccato; - la fase di ingolfamento del macrofago; - la fase di killing del corpo estraneo.

La fase di attacco avviene mediante riconoscimento tra corpo estraneo e specifici recettori espressi dalle cellule del sistema fagocitico. I recettori possono essere:

- recettori per il mannosio presente sulla membrana batterica; - recettori scavenger che riconoscono l’LPS (lipopolisaccaride di membrana dei batteri Gram-negativi); - integrina macrofagica MAC-1;

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- recettori che riconoscono batteri opsonizzati con anticorpi o con molecole del complemento. Dei primi ce ne sono almeno 3 classi (di tipo 1, 2 e 3); dei secondi, CR1 e CR3 riconoscono particelle opsonizzate da C1w, C4b e C3b, mentre CR4 quelle opsonizzate da C3b.

Qualsiasi sia la modalità di opsonizzazione, in seguito al legame recettore-batterio nel macrofago avvengono delle modificazioni che comportano l’attivazione di PI3K e di tutti i suoi effettori. Tra questi, l’attivazione di una tirosino-chinasi SRC (oncogene) porta alla formazione della fosfolipasi cɣ, quindi liberazione del calcio intracellulare, produzione di diacilglicerolo e attivazione delle MAP-chinasi (chinasi della famiglia ERK). Tutte le modificazioni del citoscheletro che avvengono in seguito all’attivazione di PI3K servono ad endocitare la particella che deve essere ingerita. Inizia la fase di ingolfamento. In seguito al riconoscimento particella-recettore, si forma una fossetta endocitotica grazie a modificazioni citoscheletriche (questo è il motivo per cui vengono attivate le stesse vie della chemiotassi). Questa fossetta man mano si chiude intorno al corpo estraneo e si forma un fagosoma: questo si fonde con il lisosoma per formare il fagolisosoma. La terza e ultima fase, quella del killing intracellulare, avviene attraverso 2 vie: la liberazione dei ROS e la formazione delle specie reattiva all’azoto (ad opera della ossido nitrico sintasi). I ROS si formano tramite il processo di burst respiratorio condotto dalle proteine leganti il GTP e dal sistema NADPH ossidativo. Quest’ultimo è formato da 2 subunità di membrana (91 phox e 22 phox) che formano il citocromo B558, e da 3 componenti citosoliche (P47, P67 e P40). RAC interviene nell’assemblaggio di questo sistema enzimatico che è preesistente nelle cellule ma inattivo: le 2 subunità di membrana per essere attivate devono trovarsi vicino alle 3 componenti citosoliche. PI3K e il calcio consentono l’attivazione di RAC (legandola al GTP) che veicola le 3 componenti citosoliche sulla membrana plasmatica, attivando il sistema NADPH ossidativo e la formazione di ROS. La malattia granulomatosa cronica presenta un difetto nell’azione del sistema NADPH ossidativo perché le subunità non riescono ad assemblarsi sulla membrana, per cui i batteri sopravvivono nell’organismo e determinano una risposta infiammatoria granulomatosa. La sindrome di Chédiak-Higashi, malattia autosomica recessiva, in cui vi è un’alterata fusione dei lisosomi con i fagosomi e alterata secrezione dei granuli citotossici da parte dei linfociti T CD8+. Un altro sistema è quello della mieloperossidasi che opera prevalentemente nei leucociti polimorfonucleati: questo utilizza 2 ioni Cl- per formare acido ipocloroso, potente battericida. Il rilascio continuo di queste specie reattive può causare un danno tissutale persistente e trasformare un’infiammazione acuta in cronica. IL PROCESSO INFIAMMATORIO Il processo infiammatorio può essere:

- eritematoso, localizzato negli epiteli di rivestimento, le cui cause sono fisiche (alte temperature, radiazioni);

- sieroso, localizzato nella pleura e nel peritoneo, dovuto generalmente a batteri (ad esempio, mycobacterium tubercolosis);

- fibrinoso, che colpisce faringe, laringe, polmone, pleura, pericardio e peritoneo, dovuto a batteri (ad esempio, pneumococco, clostridium dyphteriae);

- catarrale, che colpisce il sistema respiratorio intestinale e urinario, dovuto a batteri (ad esempio, stafilococco, streptococco);

- purulento, dovuto a piogeni; - emorragico o necro-emorragico, che colpisce polmoni, intestino e altri organi, dovuto a batteri o

virus. - le infiammazioni possono essere causate anche da reazioni allergiche.

I mediatori chimici si trovano conservati in vescicolette di deposito (istamina e serotonina, mediatori vasoattivi, e enzimi lisosomiali) oppure vengono sintetizzati ex-novo. Vi sono anche mediatori chimici già presenti in circolo e che sono prodotti dal fegato come il fattore 12 o di Hageman (fattore della coagulazione) che controlla i meccanismi di formazione del coagulo o di fibrinolisi e anche le proteine del complemento

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(soprattutto i fattori C3 e C5, potenti chemiotattici). Alcuni sono tossici di per sé, altri possiedono attività enzimatica, altri ancora legano specifici recettori per poter funzionare. Il processo infiammatorio comunque è caratterizzato da alcuni effetti sistemici, quali febbre, anoressia, stanchezza, assenza di appetito, aumentata sintesi delle proteine della fase acuta e alterato numero dei leucociti: nel corso della reazione infiammatoria si ha leucocitosi (valori superiori 15-20 volte rispetto alla norma); in alcuni casi l'incremento è così massivo (fino a 40-100 volte superiore) da mimare una reazione detta reazione leucemoide, tipica delle leucemie. Invece altri tipi di infezioni virali inducono leucopenia. Cambiamenti vascolari e cambiamenti cellulari, come il rilascio dei mediatori chimici, avvengono simultaneamente e sono responsabili degli effetti sistemici che si verificano nel corso dell’infiammazione, le cosiddette reazioni di fase acuta (febbre, anoressia, stanchezza, etc.). Queste sono mediate da citochine prodotte dai linfociti in risposta al danno, di cui le più importanti sono TNF, IL-1 e IL-6. Il processo infiammatorio può risolversi in 4 modi:

- con una restitutio ad integrum del tessuto attraverso un processo di riparazione (guarigione delle ferite);

- con una degenerazione fibrotica in cui il tessuto connettivale si sostituisce al tessuto parenchimale (se persiste lo stimolo infiammatorio);

- con la formazione di un ascesso, ovvero essudato purulento o pus che si raccoglie in una cavità delimitata da una capsula;

- con il passaggio da infiammazione acuta a cronica. La risoluzione della lesione avviene attraverso diverse tappe:

1) ripristino della normale permeabilità vascolare; 2) drenaggio di liquidi e proteine da parte dei linfatici o per pinocitosi (assunzione di piccole quantità liquide di matrice extracellulare); 3) fagocitosi dei neutrofili intervenuti sul sito del danno e dei detriti necrotici prodotti dalle cellule come conseguenza del processo infiammatorio; 4) eliminazione dei macrofagi. Laddove non avvenisse, si verifica un continuo reclutamento dei monociti macrofagi che porta alla cronicizzazione (istoflogosi).

L'istoflogosi può essere causata da: - una mancata eliminazione dell'agente infettivo che sfugge alle terapie antibiotiche oppure perché

non sono state condotte terapie antibiotiche mirate; - una perseverante esposizione all'agente (l'allergene) per cui la reazione allergica comincia a

cronicizzare (ad esempio, riniti croniche); - reazioni autoimmuni, come nel caso dell'artrite reumatoide e del lupus eritematoso sistemico per

cui si verifica la perseverante presenza di complessi antigene-anticorpo e quindi il continuo richiamo delle cellule infiammatorie.

Si distinguono due forme diverse di infiammazione cronica: la non granulomatosa (ad esempio, bronchiti croniche nei fumatori ed epatiti croniche) e la granulomatosa, caratterizzata dalla presenza di una lesione detta granuloma. Hanno in comune la mancanza di fenomeni essudativi e la mancanza di neutrofili. L'infiltrato cellulare è composto da macrofagi e linfociti. L'infiammazione cronica è detta istoflogosi perché prevalgono i fenomeni tissutali, a differenza dell'infiammazione acuta, detta angioflogosi perché prevalgono i fenomeni vascolo-ematici. I macrofagi, i linfociti e le plasmacellule sono le cellule preponderanti nell'infiammazione cronica, mentre neutrofili, basofili ed eosinofili sono le cellule preponderanti nell'acuta. Altra differenza tra le due infiammazioni è il tempo: l'acuta si risolve nel giro di due settimane, la cronica accompagna il paziente per tutta la vita. Un’altra caratteristica dell’infiammazione cronica è l’assenza di essudato. INFIAMMAZIONE CRONICA NON GRANULOMATOSA Nell’infiammazione cronica non granulomatosa la composizione dell’infiltrato è aspecifica e si ha la compressione dei vasi che può dar luogo a ischemia, insorgenza di fibrosi e sclerosi dovute all’eccesso di connettivo. L’eziologia prevede: - microorganismi poco virulenti e difficili da combattere con le terapie; - processi autoimmuni (persistenza dei complessi antigene-anticorpo); - persistente contatto con l’allergene.

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INFIAMMAZIONE CRONICA GRANULOMATOSA Nell’infiammazione cronica granulomatosa la composizione dell’infiltrato è specifica (la morfologia del granuloma dipende dall’agente che lo ha indotto): i granulomi compaiono sotto forma di formazioni sferiche in cui sono presenti macrofagi. L’eziologia prevede: - microorganismi poco virulenti e molto resistenti che sopravvivono nei fagolisosomi: tra gli agenti infettivi più coinvolti ci sono mycobacterium tubercolosis e leprae (agenti eziologici della tubercolosi e della lebbra), che inducono reazioni di ipersensibilità ritardata, il treponema pallidum (agente della sifilide) e altri parassiti; - accumulo di sostanze ingombranti (polveri sottili, corpi estranei, punti di sutura) che sono indigeribili da parte dei macrofagi e danno origine al granuloma. L’evoluzione di questa infiammazione prevede sostituzione fibrotica del tessuto parenchimale, deposizione di sali di calcio all’interno del granuloma e incapsulamento e delimitazione della lesione granulomatosa. CELLULE DEL PROCESSO INFIAMMATORIO I macrofagi hanno origine da precursori del midollo osseo che si differenziano e vengono rilasciati nel sangue periferico: qui si trovano prevalentemente i monociti che arrivano nei tessuti e subiscono differenziamento macrofagico. Nei tessuti i macrofagi possono essere residenti (quelli della microglia del SNC, le cellule di Kupffer nel fegato, i macrofagi alveolari e gli osteoclasti) oppure essere attivati per dar luogo a reazioni infiammatorie. I monociti macrofagi si attivano per:

- via immunitaria in seguito all’attivazione dei linfociti T che secernono interferone-ɣ che attiva a sua volta i macrofagi (si crea un cross-talk tra linfociti e macrofagi) oppure per azione del LPS. In questo caso i macrofagi secernono sostanze responsabili del danno tissutale ovvero i ROS, le proteasi, i fattori chemiotattici dei neutrofili, i fattori che attivano la cascata coagulativa, i metaboliti dell’acido arachidonico e l’ossido nitrico;

- via non immunitaria ad opera di IL-4, IL-5, IL-13 o di proteine della matrice o di mediatori chimici (tra cui il più importante CSF1). In questo caso i macrofagi secernono sostanze responsabili del processo fibrotico ovvero fattori di crescita, citochine fibrogeniche, fattori che controllano l’angiogenesi e collagenasi.

IL GRANULOMA Il granuloma è un aggregato di macrofagi epitelioidi che hanno una forma appiattita e allargata, simulando l’aspetto delle cellule epiteliali (talvolta si fondono 30-40 macrofagi a formare cellule giganti polinucleate). Esempio di granuloma è quello causato dal micobatterio tubercolare: al centro del granuloma vi è una distruzione tissutale enorme che dà luogo a necrosi caseosa attorno alla quale si riscontrano aggregati di 40-50 macrofagi epitelioidi che prendono il nome di cellule giganti di Langhans. All’esterno di questi aggregati, si trova una rima di linfociti. Esistono granulomi da corpo estraneo (non immunologici) e granulomi infettivi (immunologici o da ipersensibilità). Affinché si formi il granuloma, l’agente flogogeno deve essere difficilmente o non affatto metabolizzabile e deve indurre il richiamo di monociti e macrofagi. Si distinguono granulomi ad alto turnover caratterizzati da un elevato ritmo di rinnovamento cellulare, e granulomi a basso turnover caratterizzati da un basso ritmo di rinnovamento cellulare. La trasformazione del granuloma da alto a basso turnover e la rapidità di questo passaggio dipendono dalla maggiore o minore digeribilità dell’agente fagocitato. I granulomi ad alto turnover in genere corrispondono ai granulomi immunologici, quelli a basso turnover corrispondono ai granulomi da corpo estraneo. Il granuloma apicale è una patologia infiammatoria a carattere cronico dei tessuti periapicali del dente. È diagnosticabile tramite esame radiografico. La causa più comune è infettiva (batteri); meno frequentemente la fonte di infiammazione può essere non batterica, ad esempio in caso di necrosi asettica del tessuto pulpare.

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RIPARAZIONE DEL TESSUTO I processi riparativi sono una combinazione di eventi di rigenerazione e di riparazione del tessuto e sono condizionati dalla capacità proliferativa delle cellule parenchimali, dall’integrità della matrice extracellulare, dalla risoluzione della lesione o dalla cronicizzazione del processo infiammatorio. Sulla base del potenziale proliferativo le cellule vengono divise in: - cellule labili, che sono quelle che si dividono continuamente (es. cellule dell’epidermide e degli epiteli delle mucose di rivestimento, come quelle del tratto gastro-intestinale); - cellule stabili, che sono quelle che hanno un basso potenziale replicativo e si trovano in uno stato di quiescenza ma possono essere reclutate in ciclo all’occorrenza se subiscono un danno (es. cellule epatiche nell’epatite virale); - cellule permanenti, che sono cellule in uno stato di differenziamento terminale che non si dividono mai (cellule del SNC, cellule della muscolatura scheletrica e della muscolatura cardiaca). Rimane in genere un’area cicatriziale perché il danno non può essere riparato. Il potenziale proliferativo è condizionato non solo dalla capacità replicativa delle cellule ma anche da fattori solubili e insolubili. FATTORI SOLUBILI I fattori solubili sono i fattori di crescita, mediatori chimici che regolano la proliferazione, la migrazione cellulare, il differenziamento e il rimodellamento tissutale. Per quanto riguarda la proliferazione, agiscono sull’espressione di alcuni geni che regolano il ciclo cellulare. Essendo idrosolubili, necessitano di recettori di membrana: questi sono dotati di attività tirosin-chinasica e, una volta avvenuto il legame con il fattore di crescita, dimerizzano e si autofosforilano in tirosina. Quando ciò avviene, il recettore recluta proteine che contengono domini SH2, molte delle quali sono GEF (scambiatori di gruppi guanilici) che attivano Ras (piccola proteina legante GTP) che viene così portata vicino alla membrana plasmatica come Ras-GTP. Quest’attivazione è rapida e reversibile in quanto Ras è dotata di attività idrolitica e quindi si spegne come Ras-GDP (questo processo è accelerato dalle proteine GAP). Ras attivata induce l’attivazione di una cascata di chinasi che porta alla fosforilazione di MAP-chinasi (chinasi attivate dai mitogeni) che traslocano nel compartimento nucleare dove vanno ad attivare dei geni precoci responsabili della proliferazione cellulare. Il recettore tirosin-chinasi, autofosforilandosi, può attivare: - la fosfolipasi C di membrana, che provoca il rilascio di IP3 (inositolo trifosfato) il quale induce la liberazione di calcio dal reticolo endoplasmatico e dai calciosomi, determinando l’attivazione delle chinasi calcio-dipendenti; - il diacilglicerolo, che attiva le proteine chinasi C. Tutte queste vie di trasduzione dei segnali intracellulari portano all’attivazione dei geni precoci Myc, Fos e Jun (fattori di trascrizione nucleare che regolano l’espressione di geni positivamente o negativamente) e all’attivazione dei complessi ciclinaD/CDK4 e ciclinaE/CDK2 che regolano la transizione G1→S del ciclo cellulare e la duplicazione del DNA. FATTORI INSOLUBILI I fattori insolubili sono generalmente proteine della matrice extracellulare (fibronectina, laminina, ecc.) che regolano la proliferazione cellulare legandosi alle integrine di membrana, proteine ubiquitarie. L’attivazione delle integrine non è enzimatica ma conformazionale: la coda intracitoplasmatica, in seguito a clivaggio, attiva le proteine dei complessi di adesione focale (tra queste, le chinasi Fak) che trasmettono segnali proliferativi perché vanno ad attivare le MAP-chinasi, che quindi traslocano nel nucleo. Gli effettori terminali delle vie di trasduzione, sia che si tratti di fattori solubili o insolubili, sono gli stessi: si ha sempre l’attivazione delle MAP-chinasi ma con modalità differenti.

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FASI DELLA GUARIGIONE DI UNA FERITA Gli aspetti caratteristici della guarigione di una ferita prevedono una serie di fasi: I FASE: Come prima reazione si ha una risposta immediata dovuta alla stimolazione del danno meccanico (dovuto al cambiamento della tensione del tessuto leso) o chimico. Le cellule danneggiate rispondono al danno attivando le chinasi p38 e JNK (o chinasi attivate dallo stress) e dando aggregazione piastrinica e formazione del tappo fibrinico (processi dovuti al rilascio di PDGF, interleuchina CXCL-4, FGF e TGF-β. II FASE: La seconda fase prevede la risposta infiammatoria dovuta al reclutamento nell'area lesa di cellule infiammatorie: nelle prime ore sono reclutati i neutrofili (come nel processo infiammatorio acuto), poi entro 24-48 ore monociti e macrofagi. Come conseguenza del reclutamento c'è il rilascio di citochine e chemochine e l'attivazione dei macrofagi tissutali residenti. III FASE: Nella terza fase (fase proliferativa) si verificano due eventi importanti: angiogenesi (grazie al fattore VEGF) e reclutamento di fibroblasti e miofibroblasti che secernono fattori di crescita che stimolano le cellule parenchimali a crescere e a depositare il collagene. I vasi neoformati servono a cedere nutrienti ed ossigeno al tessuto che si sta ricostruendo, chiamato tessuto di granulazione. I fibroblasti e miofibroblasti portano alla chiusura permanente della ferita e alla sostituzione del parenchima leso con il parenchima nuovo. Una ferita con dei lembi giustapposti guarisce attraverso un processo di guarigione detto processo di guarigione per prima intenzione (perché non si ha perdita di sostanza). Una ferita che non presenta lembi giustapposti (non c’è un taglio preciso come avviene ad esempio in una sutura chirurgica) guarisce attraverso un processo di guarigione detto processo di guarigione per seconda intenzione (perché si ha perdita di sostanza). I processi sono i medesimi, le 3 fasi si susseguono nello stesso modo: l’unica cosa che cambia è che essendo l’area della ferita più grande, la contrazione che si deve avere al di sotto delle parti superficiali della ferita deve essere maggiore. RIMODELLAMENTO DELLA FERITA Una ferita per essere rimodellata ha bisogno che ci sia un equilibrio perfetto tra la quantità di collagene che viene depositato e la quantità di collagene che viene degradato. Se la matrice viene degradata molto, la ferita non guarisce (come succede nel piede diabetico dove rimangono ulcere che portano alla gangrena); se invece vi è un’eccessiva deposizione di matrice senza che questa possa essere degradata dalle metallo-proteasi (ad esempio, collagenasi) si verifica la fibrosi, come succede nella cirrosi epatica. Le collagenasi generalmente sono presenti sotto forma di pro-collagenasi (precursori inattivi), che vengono convertiti nella forma attiva della plasmina. La loro sintesi è controllata positivamente da fattori di crescita quali PDGF, EGF, IL-1 e negativamente da TGF-β e dai corticosteroidi. Il tessuto leso impiega generalmente 3-4 mesi per riacquisire la stessa resistenza che aveva prima e riesce a recuperare la sua elasticità e la sua resistenza solo fino all’80% rispetto al tessuto sano. GUARIGIONE DELLA FERITA La guarigione delle ferite è influenzata da vari fattori sistemici: - lo stato nutrizionale, perché lo scarso apporto di proteine, vitamine e cofattori impedisce la guarigione delle ferite; - lo stato metabolico, perché ci sono malattie metaboliche come il diabete mellito in cui vi è un’alterata guarigione delle ferite che porta alla formazione di ulcere plantari (l’eccessiva presenza di glucosio nel sangue del paziente porta alla modificazione di proteine della matrice extracellulare che vengono glicate); - lo stato del circolo sanguigno, perché in caso di alterazioni non possono verificarsi i processi di angiogenesi in maniera efficiente (come nel caso delle lesioni ateromasiche che impediscono l’afflusso sanguigno); - lo stato ormonale, importante perché ad esempio gli estrogeni influenzano positivamente la guarigione della ferita in quanto stimolano la proliferazione delle cellule endoteliali (nelle donne la guarigione è molto più veloce rispetto agli uomini, in cui gli androgeni la rallentano); - le infezioni, che possono sovrapporsi ad una ferita e complicarne il percorso di guarigione; - fattori meccanici, per cui tessuti sottoposti a stress meccanici impiegano più tempo a guarire (es. una lesione plantare guarisce più lentamente rispetto ad una lesione al braccio); - la presenza di corpi estranei, che può determinare la formazione di un granuloma da corpo estraneo per cui la ferita non guarisce.

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ASPETTI PATOLOGICI DELLA RIPARAZIONE DELLA FERITA - Rottura della ferita; - Ulcera; - Retrazione della ferita (ad esempio, bruciatura della verruca plantare con azoto liquido); - Cheloide o cicatrice ipertrofica per aberrazione delle crescita cellulare e della produzione di matrice

extracellulare.

CLASSIFICAZIONE DELLE LIPOPROTEINE Le classi di lipidi sono 3: fosfolipidi, trigliceridi e colesterolo, tutte sostanze idrofobiche trasportate in circolo sotto forma di complessi lipoproteici. Le lipoproteine sono molecole complesse costituite da un core centrale idrofobico ed una porzione esterna anfipatica, a sua volta costituita da una porzione idrofilica formata dalle apoproteine e una porzione idrofobica formata da un monostrato di fosfolipidi e colesterolo non esterificato. Le apoproteine sono divise in varie classi:

apoA1 e apoA2; apoB100 e apoB48, che hanno peso molecolare elevato; apoC1, apoC2 e apoC3; apoE.

Tutte sono sintetizzate dalla cellula epatica, fatta eccezione per apoB48 e apoA1 che sono sintetizzate anche dall'intestino. Le lipoproteine si dividono in base alla densità in:

chilomicroni che sono localizzati nell'intestino e da qui trasportano il colesterolo alimentare al fegato e i trigliceridi alimentari al tessuto adiposo e al muscolo;

VLDL (diametro superiore ai 30 nm) che hanno origine nel fegato, contengono colesterolo libero, esterificato, una minima quantità di fosfolipidi e trasportano i trigliceridi neosintetizzati ai tessuti extraepatici;

LDL (diametro di 20-22 nm) che hanno origine nel fegato e derivano dal catabolismo delle VLDL. Hanno un core idrofobico di trigliceridi e colesterolo esterificato, un monolayer di fosfolipidi e colesterolo libero e una porzione esterna proteica costituita dall’apoB100 o apoE. Trasportano il colesterolo dal fegato ai tessuti extraepatici;

HDL (diametro di 9-15 nm) che hanno origine dai tessuti periferici e hanno un'elevata concentrazione proteica. A differenza delle LDL, la porzione esterna proteica è costituita da apoA1 o apoA2 o tutte e due insieme. Trasportano trigliceridi, colesterolo esterificato e fosfolipidi dai tessuti extraepatici al fegato.

COLESTEROLO Il fegato è la sede di sintesi del colesterolo endogeno ed è qui che viene regolata la sua omeostasi.

Il primo livello di regolazione avviene nel fegato. Qui il colesterolo e sintetizzato a partire dall’acetil-CoA attraverso gli enzimi idrossimetilglutaril-CoAsintetasi e reduttasi, su cui agiscono le statine per diminuire il rischio di malattie cardiovascolari. Ormoni anabolizzanti che fanno funzionare positivamente l'enzima reduttasi sono l'insulina e gli ormoni tiroidei. Ormoni catabolizzanti che invece ne inibiscono l'attività sono il glucagone e i glucocorticoidi.

Il secondo livello di regolazione avviene a livello periferico in un processo detto di trasporto inverso del colesterolo. Il colesterolo alimentare che viene portato dall'intestino al fegato attraverso i chilomicroni e quella minima quantità che viene sintetizzata dai tessuti periferici (intestino, ovaie, muscolo scheletrico, ghiandole adrenali e pelle) e portata al fegato sotto forma di HDL vengono trasformati in sali biliari, colati e desossicolati, a costituire la bile. L'emulsione dei grassi è resa possibile dall’enzima epatico colesterolo-7α idrossilasi che attacca tre gruppi OH al colesterolo rendendolo solubile.

In un giorno vengono sintetizzati 2 gr di colesterolo attraverso l’attività epatica ed immessi 0,4 gr con la dieta: di questi 2,4 gr, il 50% è escreto con le feci e l’altro 50% è riassorbito dall’intestino per essere riportato al fegato.

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Il colesterolo è importante perché è un costituente fondamentale delle membrane plasmatiche, è indispensabile per la sintesi degli ormoni steroidei (è questo il motivo per cui in una donna in menopausa, con il decremento degli estrogeni in circolo, si ha l'aumento dei livelli di colesterolo ematico e quindi l'aumento del rischio cardiovascolare) e partecipa alla formazione dei sali biliari. Il colesterolo totale dovrebbe essere inferiore ai 200 mg/dl: di questi, l’LDL dovrebbe essere inferiore ai 130 mg/dl e l’HDL maggiore di 35 mg/dl. INTERNALIZZAZIONE DEL COLESTEROLO Il processo di internalizzazione del colesterolo LDL avviene per via recettoriale (il 25% anche attraverso meccanismi non recettoriali - via scavenger). L'internalizzazione mediata da recettori può avvenire anche in assenza di carico (in questo caso, di LDL), quindi si può consumare ATP anche in maniera futile, a differenza dell'internalizzazione mediata da ligandi che necessita della presenza di un carico per attivare il recettore e il pathway intracellulari (è il caso dell'insulina e del suo recettore). Altra differenza tra i 2 tipi di internalizzazione è che il recettore coinvolto nell’internalizzazione mediata da recettori non ha attività catalitica. Le tappe di questo processo sono 4: legame al recettore, internalizzazione, idrolisi lisosomiale e regolazione. La parte proteica delle LDL costituita da apoB100 o apoE viene riconosciuta da un recettore di membrana localizzato nelle coated pit: sono fossette rivestite di clatrina che consente al recettore di essere inglobato. In seguito a questo legame si ha la formazione di una vescicola rivestita, o endosoma, all'interno della quale dopo l'attivazione di una pompa protonica si ha la diminuzione del pH e la dissociazione del ligando (apoB100 o apoE) dal recettore: l’endosoma si fonde con Il lisosoma primario che rilascia proteasi che frammentano la porzione proteica delle LDL in tanti aminoacidi che andranno a costituire la riserva della cellula. Il recettore delle LDL viene riportato sulla membrana plasmatica e qui riciclato, mentre il colesterolo che viene liberato all'interno della cellula va ad aumentare l'attività dell'enzima ACAT (un’aciltranferasi che catalizza la formazione di esteri del colesterolo che vengono depositati sotto forma di goccioline per i processi energetici), diminuisce la sintesi dei recettori per le LDL e dell'enzima idrossimetilglutaril-CoA reduttasi. Questi effetti regolatori garantiscono l'equilibrio tra livelli extra- e intracellulari di colesterolo. L'alterazione di questo processo è causa di ipercolesterolemie (eccesso di colesterolo LDL nel sangue). STRUTTURA DEL RECETTORE PER LE LDL Il recettore per le LDL è costituito da 5 regioni funzionali (dall’estremità amminica a quella carbossi-terminale):

- il primo dominio si estende per 292 amminoacidi e costituisce la zona di interazione con il ligando; - il secondo dominio si estende per 400 amminoacidi, ha un’omologia con il precursore del fattore di

crescita dell’epidermide (EGF) e riveste un ruolo importante nella dissociazione delle LDL dal recettore nell’endosoma;

- il terzo dominio si estende per 58 amminoacidi ed è un sito di glicosilazione della proteina; - il quarto dominio si estende per 22 amminoacidi idrofobici ed è responsabile dell’attraversamento

della membrana e dell’ancoraggio ad essa; - il quinto dominio si estende per 50 amminoacidi ed è importante per la localizzazione del recettore

nelle coated pit. Il recettore neosintetizzato include anche una breve sequenza segnale che precede il primo dominio, che serve a indirizzare il recettore verso la superficie cellulare. IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE È una malattia autosomica dominante dovuta alla mutazione sul cromosoma 19 del gene che codifica per il recettore delle LDL. Le classi di mutazioni sono 4:

- classe 1, in cui l’allele è nullo e c’è mancata sintesi; - classe 2, in cui c’è deficit di trasporto al Golgi; - classe 3, in cui c’è deficit di legame alle LDL; - classe 4, in cui c’è deficit di internalizzazione.

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Il colesterolo totale negli eterozigoti è 2-3 volte superiore alla norma (270-550 mg/dl), negli omozigoti è il doppio del livello degli eterozigoti (600-1200 mg/dl). Manifestazioni cliniche della malattia sono le lesioni xantomatose (infiltrati di lipidi contenenti cellule schiumose istiocitiche, localizzati ai tendini, alla cute e ai tessuti sottocutanei), xantelasmi palpebrali e aterosclerosi: negli omozigoti l’angina pectoris è precoce e la morte per infarto si verifica entro i 30 anni; negli eterozigoti l’aterosclerosi coronarica si presenta 20 anni prima rispetto ai soggetti normali con una riduzione dell’aspettativa di vita. La diagnosi negli eterozigoti si ha controllando la coesistenza di livelli di colesterolo totale maggiori di 300 mg/dl e di xantomi oppure la coesistenza di livelli di colesterolo totale maggiori di 190 mg/dl e di una storia familiare di cardiopatia ischemica comparsa entro i 50 anni. La diagnosi negli omozigoti si ha facendo il dosaggio del colesterolo totale (che deve essere superiore a 650 mg/dl) e l’incubazione in vitro di fibroblasti del paziente con LDL marcate: in caso di ipercolesterolemia familiare ci sarà assenza o marcata riduzione dell'attività recettoriale. Le alterazioni del metabolismo del colesterolo si combattono con:

l’uso di inibitori della sintesi endogena di colesterolo (le statine) che vanno ad agire sull'enzima idrossimetilglutaril-CoA reduttasi; in questo modo ci sono molti più recettori disponibili a legare LDL e si promuove la clearance del colesterolo;

l'uso di inibitori dell'assorbimento intestinale del colesterolo che inibiscono la formazione delle LDL; il farmaco utilizzato è l’Ezetimibe che agisce sul trasportatore NPC1L1 responsabile dell’assorbimento.

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ATEROSCLEROSI L’aterosclerosi è una malattia vascolare caratterizzata dal restringimento o ostruzione delle arterie di grosso e medio calibro causati da lesioni intimali chiamate ateromi o placche fibrolipidiche (maggiore sarà la placca, maggiore sarà l’ostruzione del vaso e quindi la possibilità di avere complicanze). L’ateroma è costituito da un core giallastro formato da lipidi (LDL ossidate) fagocitati dalle cellule infiammatorie (per lo più i macrofagi) e da una capsula fibrosa formata da matrice extracellulare depositata dai miofibroblasti che accorrono verso l’intima del vaso, differenziandosi. Tra core e capsula fibrosa c’è un equilibrio. L’ateroma è inoltre costituito da una zona necrotica formata da detriti cellulari, cristalli di colesterolo, cellule schiumose e precipitati di calcio. Le cellule che partecipano alla formazione dell’ateroma sono le cellule endoteliali (fisiologicamente mantengono la permeabilità di barriera, secernono molecole antitrombotiche e anticoagulanti), le cellule della muscolatura liscia dei vasi e le cellule infiammatorie quali macrofagi, linfociti e mastociti. Il decorso del processo aterosclerotico è particolare perché è un processo infiammatorio cronico (fase clinicamente asintomatica, le prime strie lipidiche compaiono già a 15-16 anni) che esordisce con un processo acuto (fase clinicamente sintomatica,le coronaropatie cominciano a comparire a 50-60 anni). I segni acuti sono l’ischemia del miocardio, l’ictus cerebrale e le arteriopatie periferiche ostruttive. Il passaggio da processo cronico a processo acuto è dovuto alla rottura della capsula fibrosa che espone il core lipidico, il quale diventa così pro-coagulante e pro-trombotico. Per mantenere integra la placca c’è bisogno di un equilibrio tra sintesi e degradazione della matrice extracellulare: i macrofagi, producendo fattori di crescita, fanno proliferare i miofibroblasti che sono indotti a depositare collagene nella matrice e sono sempre i macrofagi a produrre le metallo-proteasi che la degradano. Esistono fattori di rischio modificabili e non modificabili. I fattori modificabili possono essere corretti con terapie adeguate, dieta e abitudini di vita diverse; essi sono: - il fumo, che crea un danno endoteliale; - obesità, vita sedentaria, stress, abuso di sostanze alcoliche, elevati livelli di omocisteina e infezione da Chlamydia pneumoniae; - il diabete, in cui si ha un aumento del glucosio in circolo che si va a legare alle proteine modificandole e formando prodotti di glicazione avanzata (per glicazione si intende il legame di una molecola glucidica con un’altra biomolecola senza l’intervento di enzimi) detti AGE i quali costituiscono un insulto per le cellule endoteliali; - l’ipertensione, che crea alterazioni del flusso sanguigno che inducono processi di stasi e di turbolenza, pro-coagulanti in quanto prevengono la diluizione dei fattori di coagulazione attivati e ritardano l’afflusso degli inibitori della coagulazione (la maggior parte degli ateromi si forma nei punti di biforcazione dei grossi vasi perché qui c’è una maggiore turbolenza del flusso); - le iperlipidemie non causate da malattie genetiche. I fattori non modificabili sono: - l’età; - il sesso (c’è un’incidenza maggiore nel sesso maschile ed aumento di incidenza nelle donne in post-menopausa); - la storia familiare, cioè una familiarità per le cardiopatie ischemiche; - le malattie genetiche quali l’ipercolesterolemia familiare. Esiste infatti un rapporto molto forte tra aterosclerosi e LDL. L’LDL viene denominato colesterolo cattivo perché quando è in eccesso attraversa rapidamente l’endotelio e va incontro ad una serie di modificazioni biochimiche (idrolisi della fosfatidilcolina e della lisofosfatidilcolina, ossidazione dei lipidi e delle apoB, aggregazione delle LDL). Le LDL modificate hanno un altissimo potenziale pro-infiammatorio perché stimolano le cellule endoteliali ad esprimere e rilasciare il fattore chemiotattico MCP-1 che stimola il reclutamento dei monociti dal sangue periferico; allo stesso tempo, le LDL modificate promuovono il differenziamento dei monociti in macrofagi.

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I macrofagi attivati a loro volta secernono citochine pro-infiammatorie, che stimolano l’espressione delle molecole di adesione VCAM-1 sulle superficie degli endoteli che vanno così a reclutare altri monociti e linfociti, e cominciano a fagocitare le LDL modificate formando le cosiddette cellule schiumose (che rappresentano la prima lesione aterosclerotica che si presenta): la sopravvivenza del macrofago e quindi della cellula schiumosa all’interno dell’intima del vaso è favorita da M-CSF, potente co-mitogeno prodotto dalle cellule endoteliali e dalla muscolatura liscia. Le cellule schiumose appena formatesi rilasciano fattori di crescita e metallo-proteasi che conducono rispettivamente alla proliferazione cellulare e alla degradazione della matrice, che serviranno a stimolare la formazione della capsula fibrosa che si trova intorno al core lipidico centrale. In definitiva VCAM-1, MCP-1 e M-CSF sono promotori dell’aterogenesi e le LDL sono aterogene perché inducono la formazione della placca ateromasica. Le HDL invece, considerate come colesterolo buono, sono: - anti-aterogene perché promuovono l’afflusso del colesterolo dall’intima verso il lume del vaso, inibiscono i meccanismi di ossidazione delle LDL e inibiscono l’espressione delle molecole di adesione da parte degli endoteli; - antinfiammatorie perché prevengono la formazione delle cellule schiumose. INVECCHIAMENTO CELLULARE La senescenza cellulare (o invecchiamento) è una condizione di arresto del ciclo cellulare in una cellula che è ancora metabolicamente attiva, e quindi vitale. È un processo scoperto relativamente da poco: negli anni ’60, Leonard Hayflick scoprì che le cellule umane che derivano da tessuti embrionali possono dividersi soltanto per un certo periodo di tempo (11-12 passaggi) quando vengono messe in coltura. Questo limite da allora è detto “limite di Hayflick”. È un fenomeno facilmente osservabile nelle cellule diploidi in cui dopo 11-12 cicli si osserva un fenotipo particolare. I cambiamenti morfologici di una cellula senescente possono essere diversi: la cellula senescente diventa allargata e allungata; nel citoplasma si accumulano vacuoli e autofagosomi (i processi di autofagosomi sono spiccato nella senescenza); nel nucleo ci sono cambiamenti strutturali della cromatina. Ma i cambiamenti si osservano soprattutto a livello biochimico e si ha:

Aumento dei livelli di β-galattosidasi lisosomiale, marcatore più importante;

Aumento delle proteine dell’arresto del ciclo (p16, p21, p14ARF);

Iperespressione del network degli oncosoppressori (RB ipofosforilato, p53);

Aumento del rilascio di chemochine e citochine, oltre all’aumento dell’espressione dei recettori per queste molecole (si crea quindi un microambiente infiammatorio);

Iperespressione delle proteine dello stress ossidativo e del danno genotossico. Il processo di invecchiamento è importante, ad esempio, nella fibrosi del fegato, anticamera della degenerazione cirrotica: le cellule di Kupffer (o cellule stellate, macrofagi tessuto specifici del fegato) andando incontro ad invecchiamento (esprimono infatti p21 e p16) limitano il processo di degenerazione fibrotica. In questo caso, quindi, la senescenza costituisce un fattore di protezione nei confronti dell’evoluzione della patologia. La senescenza può essere non replicativa (prematura) e replicativa. La senescenza non replicativa avviene quando la cellula è colpita da uno stimolo dannoso e ha a che fare prevalentemente con le malattie metaboliche quali l’aterosclerosi e le malattie cardiovascolari, disordini neurodegenerativi (in cui si ha l’invecchiamento delle cellule della microglia) e nel diabete. Un esempio di senescenza non replicativa è quella delle cellule di Kupffer nella degenerazione fibrotica e quindi nella patogenesi della cirrosi epatica: in questo caso, lo stimolo da parte di una sostanza chimica (alcool) induce un danno prematuro alle cellule che rispondono con l’invecchiamento. La senescenza replicativa ha a che fare con la trasformazione neoplastica e con la patogenesi delle neoplasie: viene acquisita dalla cellula quando i telomeri dei cromosomi vengono accorciati. I telomeri sono complessi ribonucleoproteici posti all’estremità terminale dei cromosomi, costituiti da tandem ripetuti di sequenze di DNA ricche di guanina e un complesso di 6 proteine denominato Shelterin.

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Servono a preservare l’integrità di cromosomi: quando i telomeri vengono attaccati dalle telomerasi si parla di instabilità genetica che ha che fare con i processi di trasformazione neoplastica. Ad ogni divisione cellulare si ha l’accorciamento dei telomeri che, al di sotto di una certa soglia, porta alla perdita della protezione telomerica dei cromosomi. A questo punto si può avere l’attivazione di oncogeni oppure l’arresto del ciclo cellulare che porta alla senescenza e/o all’apoptosi. Le telomerasi sono formate da una subunità catalitica, detta TERT, che ha un’attività di trascrittasi inversa (una DNA-polimerasi RNA-dipendente che sfrutta uno stampo a RNA per sintetizzare un filamento di DNA complementare al filamento stampo stesso), da una componente a RNA, detta TERC, che fa da stampo per la sintesi di DNA, e da una proteina detta discherina. Le telomerasi sono espresse nelle cellule staminali pluripotenti e adulte e nelle cellule embrionali. Mutazioni della telomerasi e della Shelterin sono associate a malattie genetiche quali l’anemia plastica, la fibrosi polmonare idiopatica, la discheratosi congenita. In definitiva, il processo di invecchiamento funge da meccanismo di soppressione tumorale, anche se ci sono evidenze che sostengono esattamente il contrario: è stato dimostrato che i fibroblasti senescenti umani con fenotipo SASP (fenotipo secretorio associato alla senescenza) creano un microambiente infiammatorio e procancerogeno poiché rilasciano fattori chemiotattici, protesi che degradano la matrice e fattori di sopravvivenza.

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METABOLISMO E FISIOPATOLOGIA DELLA CELLULA EPATICA Le funzioni principali della cellula epatica sono: -la sintesi proteica (l’albumina e globulina, le cui concentrazioni sono importanti per mantenere la pressione oncotica del sangue); - la sintesi di fattori della coagulazione quali protrombina, fibrinogeno, fattore V, VII, IX e X; transferrina e ferritina, specializzate nel trasporto e nel legame del ferro; - la sintesi di fattori del complemento, importanti nella risposta infiammatoria, - la sintesi dei lipidi (colesterolo endogeno, trigliceridi, fosfolipidi, lipoproteine LDL e sali biliari); - ossidazione biochimiche; - metabolismo di carboidrati, amminoacidi, acidi grassi liberi, bilirubina e ormoni; - formazione dei corpi chetonici e dell’urea; - captazione e catabolismo delle lipoproteine LDL; - coniugazione, solubilizzazione e deaminazione dei farmaci. Il fegato è dotato inoltre di funzioni specifiche quali:

- Captazione di macromolecole mediante meccanismi di endocitosi mediata dai recettori; - Secrezione dei sali biliari e della bilirubina nella bile; - Fagocitosi e processazione di antigeni assorbiti dalla mucosa intestinale; - Accumulo delle vitamine solubili A, D, K e vitamina B12; - Regolazione del metabolismo del ferro e del rame; - Mantenimento del volume plasmatico e della concentrazione degli elettroliti in circolo, per cui con

un’ostruzione a livello epatico si ha un volume plasmatico enorme sottratto alla circolazione sistemica che staziona intorno al fegato. L’organo che per primo risente di questa sottrazione del volume plasmatico è il rene, causando ipoperfusione renale e un edema epato-renale.

METABOLISMO DELLA BILIRUBINA La bilirubina è il prodotto del metabolismo dell’eme derivato dall’emoglobina dei globuli rossi invecchiati. L’enzima eme-ossigenasi regola la modificazione dell’eme in biliverdina che, a sua volta, si trasforma in bilirubina grazie all’enzima biliverdina-reduttasi. Essendo la bilirubina non idrosolubile, essa si lega all’albumina per essere veicolata attraverso il sangue periferico fino alla cellula epatica. È nella cellula epatica che la bilirubina si dissocia dall’albumina in quanto trova le cosiddette ligandine (localizzate sulla membrana del versante sinusoidale dell’epatocita) che hanno maggiore affinità per essa. In questo modo la bilirubina viene internalizzata nell’epatocita e trasportata sul suo reticolo endoplasmatico dove trova l’enzima glicuronil-transferasi, che serve a coniugare la bilirubina e a renderla solubile. Il trasporto dal versante sinusoidale al canalicolare (da cui poi viene secreta nella bile e conservata nella colecisti per poi essere rilasciata per la digestione degli alimenti) richiede energia. L’interruzione di una di queste tappe è responsabile dell’ittero. ITTERO L’ittero è clinicamente identificato come il colorito giallastro della cute e delle sclere e si identifica con l’incremento della concentrazione di bilirubina sierica. Questa, in condizioni normali, è inferiore ad 1 mg/dl: di questa concentrazione una minima quota (inferiore al 15%) costituisce la bilirubina diretta o coniugata (diretta perché reagisce direttamente nella reazione di Van der Bergh, utilizzata in laboratorio per il suo dosaggio, tra 0,1 e 0,3 mg/dl), e la restante costituisce e la bilirubina indiretta o non coniugata (tra 0,2 e 0,8 mg/dl). Dal punto di vista anatomico, gli itteri si classificano in:

Ittero pre-epatico (ad esempio, anemia emolitica);

Ittero intra-epatico (ad esempio, epatite virale);

Ittero post-epatico (ad esempio, calcolosi delle vie biliari).

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Dal punto di vista funzionale invece gli itteri si classificano in: Itteri caratterizzati da iperbilirubinemia non coniugata - Itteri dovuti ad un eccesso di produzione di bilirubina, come nel caso di anemie emolitiche, rottura

della milza eritropiesi inefficace che caratterizza molte malattie linfoproliferative; - Itteri dovuti ad una ridotta captazione della bilirubina a livello epatico perché si assumono farmaci

che interferiscono con la funzione delle ligandine; - Itteri dovuti ad alterata coniugazione della bilirubina per epatopatie diffuse e per deficit genetico

dell’enzima glicuronil-transferasi. Esistono 3 forme di itteri geneticamente trasmessi dovuti al deficit di questo gene e possono portare:

1) All'assenza totale dell'enzima o riduzione drastica dell'attività enzimatica (ittero di Crigler-Najjar in cui la bilirubina non coniugata si accumula livelli elevatissimi nel sangue dei bambini fin dal primo mese di vita; non essendo idrosolubile si deposita nei nuclei della base encefalica dando encefalopatia bilirubinica detta Kernittero);

2) All’Ittero di Arias in cui l'enzima perde il 60-70% della sua funzione; 3) All’ittero di Gilbert in cui l'enzima perde il 25-30% della sua funzione (è un ittero intermittente perché

i processi di coniugazione ci sono ma se c'è uno stress fisico e maggiore emolisi l'enzima non riuscirà a coniugare tutta la bilirubina).

Itteri caratterizzati da iperbilirubinemia coniugata - Itteri dovuti a difetto del trasporto canalicolare della bilirubina che richiede 2 proteine che

consumano ATP. Se vi sono alterazioni di queste proteine, la bilirubina non può essere trasportata nel versante canalicolare e versata nella bile. A seconda della proteina modificata abbiamo due tipi di ittero, ittero di Rotor ed ittero di Dubin-Johnson;

- Itteri dovuti a diminuzione dell’escrezione epatica di bilirubina, come avviene nelle calcolosi, nelle ostruzioni meccaniche e nella cirrosi delle vie biliari.

Nel caso dell’iperbilirubinemia non coniugata (indiretta), la bilirubina non è idrosolubile quindi l'organismo non può espellerla con le urine, motivo per cui si andrà ad accumulare al di sotto della cute che si presenterà di conseguenza giallastra (così come le sclere) e, insieme al colorito, ci sarà anche prurito (la bilirubina indiretta nel sottocutaneo si accoppia con sostanze altamente irritanti). Nel caso dell’iperbilirubinemia coniugata (diretta), la bilirubina è idrosolubile quindi l'organismo può espellerla con le urine che si presenteranno di un color marsala. DANNO EPATICO L’alterazione del metabolismo della bilirubina e indice generalmente di un danno epatico. 1. Danno epatico dovuto a processi infiammatori causati da virus, batteri (ad esempio, Staphylococcus aureus e Salmonella typhi), elminti (ad esempio, fasciola hepatica), parassiti (ad esempio, schistosomiasi, leishmaniosi) ed epatiti autoimmuni.

- Le epatiti autoimmuni non sono indotte da virus o batteri, ma sono dovute a malattie autoimmuni. Colpiscono prevalentemente il sesso femminile (come tutte le malattie autoimmuni). La diagnosi e facile perché le epatiti autoimmuni sono caratterizzate dal non avere marcatori sierici (i marcatori virali sono completamente negativi), dall’avere elevati livelli di IgG ed elevate titolazioni autoanticorpali (anticorpi anti-nucleo, anti-DNA nativo). Molto spesso con la forma dell’epatite lupoide (autoimmune), in cui trovate anticorpi anti-nucleo, anticorpi anti-muscolatura liscia, anti-mitocondri e anti-DNA nativo, esordisce il lupus eritematoso sistemico.

Esistono dei criteri di diagnosi differenziale tra i diversi tipi di epatiti. Le epatiti virali più classiche sono le epatiti di tipo A, B e C.

- Nel caso dell’epatite A (virus a RNA non capsulato) l’incubazione di 2-6 settimane e l’infezione da luogo ad una reazione immunitaria attraverso la quale si producono degli anticorpi neutralizzanti, che si dosano nel siero del bambino (la trasmissione è per via oro-fecale).

- Nel caso dell’epatite B (virus a DNA) l’incubazione e di 4-26 settimane e l’infezione difficilmente cronicizza in epatopatia cronica. L’epatite B si può trasmettere per via oro-fecale e attraverso i liquidi corporei. Nel 4 % dei casi diventa infezione persistente che può guarire o trasformarsi in un’epatite

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cronica e dare origine alla cirrosi o al carcinoma epatico, nella maggior parte dei casi (60-65%) la malattia e subclinica, nel 20-25% esordisce con un’epatite acuta che poi porta alla guarigione, nel 5-10% dei casi il paziente diventa un portatore sano. Solo nell’1% dei casi si ha decesso per epatite fulminante con necrosi epatica diffusa e massiva. Quindi l’evoluzione clinica dell’epatite B e generalmente un’evoluzione prognosticamente favorevole per il paziente.

- Nel caso dell’epatite C (virus a RNA capsulato) l’incubazione è di 2-26 settimane e si trasmette essenzialmente attraverso i liquidi corporei, specialmente il sangue infetto. Sicuramente porta alla cronicizzazione del processo infiammatorio correlata con la trasformazione neoplastica del fegato. Questa epatite viene confusa molto spesso con una banale influenza perché non da segni di se (il più delle volte e anche anitterica). La risoluzione c’e nel 15% dei casi, nell’80-85% c’è l’evoluzione verso una forma cronica che può portare a cirrosi e al carcinoma, quindi al decesso. Il virus dell’epatite C porta alla cronicizzazione perché e un virus altamente variabile perché cambia continuamente il suo genotipo riadattandosi ai nuovi microambienti, ma soprattutto perché innesca una risposta immunitaria che produce degli anticorpi non neutralizzanti (quindi il dosaggio di questi anticorpi dice solo che c’è stato un contatto con quel virus perché non servono a neutralizzare l’azione del virus). I più importanti marcatori sono: anticorpo anti-C100 (che e diretto contro la proteina C100 del virus), anticorpo anti-C22/33 (diretto contro un altro antigene virale), ma soprattutto l’RNA virale. Se si ha la persistenza di questi tre marcatori sierologici fino a 5-6 anni dall’insorgenza della malattia, vuol dire che la malattia sta diventando cronica.

- Le epatiti D, E e G (virus a RNA capsulato) non sono in grado di dare la malattia in quanto hanno bisogno dell’aiuto di altri virus (in genere del virus dell’epatite C) per potersi manifestare.

I marcatori che si dosano sono quelli dell’infiammazione e quelli sierologici, inoltre il dosaggio delle transaminasi (glutammico-ossalacetica e glutammico-piruvica), della lattico deidrogenasi e della ɣ-glutammil- transferasi. 2. Danno epatico da farmaci e tossine indotto da diverse sostanze, tra cui: - Tetracicline; - Alcol etilico; - Tetracloruro di carbonio, che viene convertito a livello epatico con la produzione di ROS; - Isoniazide e amiodanone, usati in cardiologia, e cordarone; - Sulfonamide, un antibiotico; - Cloropromazina, un tranquillante dato nei disordini neuropsichiatrici; - Steroidi anabolizzanti, usati come sostanze dopanti; - Contraccettivi orali. Il metabolismo di queste sostanze generalmente coinvolge un sistema enzimatico chiamato P450 ossidasi (quasi tutti i farmaci vengono catabolizzati da questa ossidasi epatica). Queste sostanze agiscono direttamente perché si legano alle componenti cellulari e inducono il danno cellulare, o indirettamente perché la conversione di queste sostanze produce ROS che sono tossici, perché perossidano i lipidi di membrana, creano lesioni nel DNA (soprattutto reagiscono con la timina) e modificano le proteine, inducendo cross-linking o ossidazione. Dal punto di vista istologico, in caso di danno epato-cellulare indotto da farmaci e tossine si ha: - Steatosi micro o macrovescicolare; - Necrosi centro-lobulare; - Necrosi diffusa e massiva, responsabile di alcune forme di epatiti fulminanti; - Degenerazione fibrotica; - Cirrosi; - Stasi delle vie biliari o del coledoco, detta colestasi; - Granulomi epatici piuttosto rari.

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3. Danno epatico da etanolo. Il danno è abbastanza specifico e porta alla trasformazione della fibrosi in cirrosi. Il consumo di alcool non porta sicuramente a morte, però si associa ad altri fattori, detti fattori di comorbilità: ad esempio, diete ipocaloriche prive di proteine, uso di droghe e condizioni igieniche precarie. I danni indotti da una certa quantità di alcool sono divisi in 3 range: - Fino a 80 grammi al giorno ci sono modificazioni modeste e reversibili della cellula epatica; - Tra 80 e 160 grammi al giorno c’è rischio limite per un danno severo; - Oltre 160 grammi al giorno c’è un danno severo e consistente con la compromissione della funzione epatica. Dal punto di vista istologico si osserva un fegato normale che può andare incontro ad una degenerazione grassa, quindi steatosi, che poi può evolvere verso la fibrosi e la cirrosi epatica. La steatosi e una degenerazione piuttosto comune della cellula epatica, reversibile, caratterizzata da pochi sintomi clinici, di cui epatomegalia (fegato ingrossato, rivelato molto spesso con una palpazione o con un esame ecocardiografico) e modesto incremento degli enzimi epatici. Il passaggio dalla steatosi alla steatoepatite, grado più avanzato e severo, è dovuto al TNF-α, ma ci può essere anche la trasformazione della steatoepatite in cirrosi. La steatoepatite e la degenerazione grassa più la reazione infiammatoria: e meno comune, precede la cirrosi ed e caratterizzata da pochi sintomi (quindi può essere del tutto silente). La degenerazione cirrotica e caratterizzata da cicatrici e tentativi di rigenerazione della cellula epatica con la formazione di noduli che possono essere micronoduli o macronoduli. Si sviluppa, generalmente, nel 20% dei soggetti che hanno steatoepatite e può portare alla morte entro 10 anni, o perché avete uno scompenso metabolico oppure perché c’è la trasformazione in senso neoplastico. AZIONE DELL’ETANOLO L’azione dell’etanolo sugli epatociti può essere diretta o indiretta.

- Tossicità diretta: l’alcol etilico viene metabolizzato in acetaldeide attraverso l’alcool deidrogenasi, la quale viene poi trasformata in acetato dalla presenza di aldeide deidrogenasi. Nel passaggio catalizzato dall’alcool deidrogenasi si ha l’attivazione di un’ossidasi, il complesso enzimatico citocromo P450: maggiore e la quantità di alcool ingerito, maggiore è la quantità di citocromo P450 attivato e maggiore è la quantità di ROS, con conseguente necrosi degli epatociti;

- Tossicità indiretta: una certa quantità di alcol etilico viene trasformato dai batteri intestinali in acetaldeide, che stimola la produzione di endotossine da parte delle cellule della parete intestinale, le quali vengo portate attraverso il sistema portale al fegato, dove stimolano il rilascio da parte degli epatociti di TNF-α.

Il TNF-α agisce attraverso un recettore che attiva due diverse vie: da una parte può attivare le caspasi e le vie mitocondriali responsabili del rilascio di citocromo c e di ROS, eventi che portano alla morte cellulare generalmente per apoptosi; contemporaneamente il recettore per il TNF-α, una volta attivato, può attivare una strada intracellulare del fattore di trascrizione NF-κβ che, quando è attivato, va a stimolare la trascrizione di geni coinvolti nella sopravvivenza cellulare. Il rilascio di TNF-α non e protettivo nei confronti dell’epatocita perché quando c’è assunzione cronica di alcool, la via che porta alla sintesi dei fattori di sopravvivenza viene completamente inibita; per cui il recettore che viene attivato cronicamente dalla stimolazione col TNF-α riesce ad ingaggiare solo la via che porta all’attivazione della caspasi e le vie mitocondriali. Quindi avrete: 1. Perdita continua di epatociti ed un danno cronico e persistente alla cellula epatica; 2. Fibrosi perché il processo infiammatorio diventa cronico, quindi vengono cronicamente reclutate le cellule infiammatorie (soprattutto le cellule di Kupffer), i fibroblasti, che depositano matrice, e i macrofagi, che producono delle metallo-proteasi che degradano la matrice. 3. Cirrosi perché la risposta del fegato alla fibrosi porta ad una rigenerazione nodulare che sovverte l’architettura epatica ma soprattutto altera le funzioni della cellula.

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CIRROSI La cirrosi può essere di due aspetti anatomo-patologici: micronodulare oppure macronodulare. L’eziologia della cirrosi prevede che:

- Nel 60-70% dei casi la malattia sia di origine alcolica; - Nel 10% dei casi sia dovuta alla cronicizzazione dell’epatite C; - Nel 5-10% dei casi sia dovuta a malattie croniche delle vie biliari; - Nel 10-15% dei casi non si conoscono le cause criptogenetiche (insorge in un individuo che non ha

infiammazioni e infezioni virali, che non ha mai assunto alcool o droghe e non ha nessuno di questi fattori che in genere portano alla cirrosi).

La cirrosi è dovuta alla deposizione di collagene di tipo I e III nei lobuli epatici con la formazione di setti che ostruiscono la circolazione portale e impediscono all’epatocita di funzionare correttamente, alla formazione di nuovi vasi e al deposito continuo di collagene negli spazi di Disse. Il risultato finale e l’infiammazione cronica con rilascio continuo di TNF-α, IL-1, TGF-β, microambiente infiammatorio amplificato dalle citochine prodotte dalle cellule endogene attivate (cellule di Kupffer, cellule endoteliali), distruzione della matrice extracellulare (perché le cellule di Kupffer attivate producono delle metallo-proteasi); stimolazione delle cellule di Ito (le quali differenziano in senso miofibroblastico e si mettono a sintetizzare e a depositare il collagene). In un fegato normale le cellule di Ito sono quiescenti e in seguito al danno vengono attivate: lo stato di attivazione e caratterizzato da un’aumentata proliferazione delle cellule, un’aumentata contrattilità e chemiotassi e un maggiore deposito di collagene: queste cellule assumono le stesse caratteristiche dei miofibroblasti o dei fibroblasti e sono responsabili della formazione di questi micronoduli o macronoduli. Essi clinicamente si manifestano con:

- ipertensione portale (la formazione dei noduli porta allo strozzamento del sistema portale e quindi all’aumento della pressione nella vena porta);

- formazione di asciti (versamenti di trasudato nella cavità peritoneale); - shunts porto-sistemici (siccome la circolazione portale e strozzata, tutto il sangue che arriva al fegato

salta completamente la circolazione portale e si formano varici esofagee, addominali che danno il caratteristico “caput medusae” e del plesso emorroidario);

- splenomegalia (per lo strozzamento epatico e l’ipertensione portale).

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MALATTIE EMODINAMICHE EDEMA L’acqua è il 60% circa del peso corporeo, i 2/3 si trovano all’interno dei tessuti, il 5% si trova nel plasma, il resto nei liquidi interstiziali. Quando i liquidi interstiziali aumentano si ha l’edema. L’edema infiammatorio è caratterizzato dalla formazione di un essudato ricco di proteine, che ha un peso specifico superiore a 1. L’edema non infiammatorio è l’accumulo di trasudato che a volte si può versare ed accumulare in delle cavità (idrotorace nello scompenso cardiaco, idropericardio nella pericardite). Si può avere anche un edema generalizzato tipico dell’insufficienza renale in stadio avanzato detto anasarca. Le forze fisiche che controllano il trattenimento dei fluidi all’interno dei vasi sono:

- Pressione idrostatica, che tende a far fuoriuscire il liquido al di fuori dei vasi; - Pressione oncotica (colloido-osmotica), che tende a trattenere i liquidi all’ interno dei vasi.

In condizioni normali c’è un equilibrio: i pochi liquidi che sfuggono a questo controllo e che vengono riversati negli spazi extravascolari, vengono riassorbiti a livello post venulare o drenati dai linfatici. Quando c’è un edema c'è un aumento della pressione idrostatica oppure una diminuzione della pressione colloido-osmotica. In entrambe le situazioni avremo che i liquidi, che normalmente verrebbero riassorbiti, si versano e rimangono negli spazi extravascolari. Ciò accade nel momento in cui viene superata la soglia di riassorbimento da parte dei vasi linfatici. L’aumento della pressione idrostatica si può avere nel caso di:

Ostacolo al ritorno venoso, che ritroviamo nell’ insufficienza cardiaca congestizia, nella pericardite costrittiva, nella cirrosi epatica: condizioni che, ostacolando il ritorno venoso al cuore, determinano un aumento della pressione idrostatica.

Aumento della pressione idrostatica a causa di una ostruzione o compressione venosa per trombosi, flebo-trombosi (trombosi proprie delle vene) o presenza di masse;

Ostacolo al drenaggio del liquido interstiziale da parte dei sacculi linfatici conseguente ad ostruzione o a distruzione dei vasi linfatici di una regione dell'organismo.

La riduzione della pressione oncotica si può avere in tutte quelle condizioni in cui si ha:

Riduzione, perdita o mancata sintesi delle proteine, in particolare l’albumina. Queste condizioni causano le glomerulopatie e la sindrome nefrosica, in cui i capillari glomerulari sono alterati in maniera tale che lasciano filtrare le proteine che vengono perse con le urine (proteinuria);

Nella cirrosi epatica invece si ha una scarsa o ridotta sintesi di albumina così come di tutte le altre proteine epatiche, e quindi avremo una diminuzione della pressione oncotica.

La malnutrizione, intesa come scarso apporto proteico, tipica delle cirrosi epatiche;

Alcune gastroenteropatie. L’edema generalizzato può essere provocato da scompenso cardiaco che causa ipoperfusione renale: si ha vasocostrizione, perché il rene tenta di sopperire all’ipoperfusione. La vasocostrizione causa un aumento della secrezione di renina; si attiva il sistema renina-angiotensina, l’angiotensina 2 induce le cellule del tubulo contorto distale a secernere aldosterone, ciò comporta un maggior riassorbimento di sodio che porta con sé acqua nel tubulo contorto distale; di conseguenza si ha un aumento della volemia e un aumento del ritorno venoso al cuore che comportano un aumento della pressione idrostatica e quindi edema. L'ipoperfusione renale stimola anche la secrezione dell’ormone antidiuretico (ADH) da parte della neuroipofisi e che determina ulteriore ritenzione renale di acqua. Tutte queste situazioni di compenso non fanno altro che peggiorare lo scompenso cardiaco dando vita all' anasarca, cioè edema diffuso generalizzato. Nella cirrosi epatica si verifica la comparsa, oltre che dell'edema generalizzato, anche di un versamento peritoneale chiamato ascite: nel paziente cirrotico grosse quantità di sangue vengono trattenute intorno al fegato e sottratte agli altri organi perché il processo di fibrosi determina la formazione di micro e macronoduli. Si determina un’ipertensione portale che a sua volta provoca la stasi di una grande quantità di sangue intorno al fegato sottratta alla circolazione sistemica: l’effetto finale sarà l'ipoperfusione renale: anche in questo caso si ha vasocostrizione, perché il rene tenta di sopperire all’ipoperfusione. La vasocostrizione comporta un aumento della secrezione di renina; si attiva il sistema renina-angiotensina, l’angiotensina 2 induce le cellule del tubulo contorto distale a secernere aldosterone, ciò comporta un maggior riassorbimento di sodio che porta con sé acqua nel tubulo contorto distale; di conseguenza si ha un

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aumento della volemia e un aumento del ritorno venoso al cuore che comportano un aumento della pressione idrostatica e quindi edema. In sintesi, la successione è:

1) Una grossa quantità di sangue è sottratta alla circolazione sistemica; 2) il rene è ipoperfuso; 3) secrezione di renina-angiotensina-aldosterone e di ADH; 4) ritenzione di sodio e acqua; 5) Edema.

Nella pratica medica, gli esempi più comuni di edema sono: -edema sottocutaneo, che si va a localizzare soprattutto negli arti inferiori, ma anche superiori, (tipico dell’insufficienza cardiaca e renale); -edema polmonare, complicanza dello scompenso cardiaco (tipico di alcune infezioni polmonari gravi); -edema cerebrale, dovuto ad ascessi cerebrali, ad encefaliti, a crisi ipertensive, a neoplasie o all’ostruzione al flusso venoso cerebrale. ASCITE L’ascite (versamento nella cavità peritoneale) e causata da: • Compressione delle vene epatiche con stasi ematica ed aumento della pressione della vena porta; • Ipoprotidemia da ridotta sintesi epatica di albumina con conseguente riduzione della pressione oncotica; • Insufficiente drenaggio da parte dei linfatici che convogliano, in condizioni fisiologiche, il liquido al dotto toracico; • Ipoperfusione renale; • Difettoso catabolismo epatico dell'aldosterone, che rimanendo più a lungo in circolo favorisce la ritenzione del sodio; • Aumento dell'osmolarità dei fluidi dell'organismo che determina il rilascio di ADH da parte della neuroipofisi e l’aumento del riassorbimento idrico. IPEREMIA E CONGESTIONE Iperemia e congestione non sono altro che un aumento locale del flusso di sangue. -L’iperemia è un processo attivo dovuto alla dilatazione della parete delle arteriole terminali, al rilassamento delle venule e al cedimento degli sfinteri pre-capillari che si possono avere o nei processi infiammatori o in seguito ad esercizio fisico. L’aumento della pressione arteriolare causa un arrossamento della pelle sovrastante detto eritema. -La congestione è un processo passivo dovuto alla diminuzione del flusso venoso, causata da ostruzioni locali (per esempio tromboflebite) oppure dall’insufficienza del ventricolo destro e si accompagna a cianosi e ipossia. EMORRAGIA L'emorragia è la perdita di sangue attraverso un vaso e può essere di due tipi: interna o esterna.

Interna: il sangue si va ad accumulare in una cavità. In genere è provocata da: - Danni vascolari (traumi delle grosse o piccole arterie); - Dall’aterosclerosi (rottura della placca); - Da fenomeni infiammatori; - Dall’erosione della parete vascolare.

Quando gli edemi sono più estesi e si localizzano in cavità del corpo si può avere emoperitoneo, emotorace o emopericardio.

Esterna: il sangue si riversa all’esterno. Possono essere: - Piccole emorragie (1-2 mm) dovute ad alterazioni delle piastrine e della funzionalità piastrinica,

associate ad un aumento locale della pressione intravascolare o deficit coagulativi (petecchie); - Emorragie più ampie di circa 3 mm (porpore) che si formano nel corso di malattie autoimmuni in cui

gli autoanticorpi sono diretti contro le piastrine; - Ematomi sottocutanei (lividi o più precisamente ecchimosi), che raggiungono la grandezza di 2 o 3

cm.

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EMOSTASI L’emostasi normale è il risultato di processi molto controllati che devono mantenere il sangue allo stato fluido per evitare una coagulazione intravascolare disseminata (CID), e devono indurre la formazione del coagulo dove è presente il danno vascolare. I fattori che influenzano normalmente l’emostasi sono: • Le cellule endoteliali; • Le piastrine; • La cascata della coagulazione. RUOLO DELLE CELLULE ENDOTELIALI Quando c’è un danno della parete vasale vengono messi in moto alcuni meccanismi che portano alla formazione di un tappo emostatico, che altro non è. che un aggregato di piastrine. Tutto il processo, che avviene in un tempo brevissimo, viene anche detto emostasi primaria. Questa è la prima reazione ad un danno della parete vasale. Dopo questa risposta primaria si ha un processo di emostasi secondaria, dovuto al rilascio, sempre da parte delle cellule endoteliali, di fattori tissutali, i quali stimolano l’espressione di un complesso fosfolipidico a livello delle piastrine che attiva una cascata coagulativa. La cascata porta all’attivazione di trombina che a sua volta porta alla trasformazione del fibrinogeno in fibrina. La fibrina serve a mantenere coese le piastrine. Nello stesso sito del danno si mettono in atto dei meccanismi di fibrinolisi (lisi e dissolvimento della fibrina) modulati sempre dalle cellule endoteliali, le quali secernono una sostanza tissutale detta TPA (l’attivatore del plasminogeno tissutale) e che funziona come fibrinolitico e la trombomodulina che blocca la cascata coagulativa. Questo permette di localizzare e di non fare estendere il tappo fibrinico. Le cellule endoteliali hanno due funzioni:

• Azione pro-trombotica perché liberano il fattore tissutale responsabile della attivazione della cascata coagulativa ed il fattore di Von Willebrand che recluta le piastrine. • Azione antitrombotica perché esprimono dei recettori di superficie chiamati trombomoduline grazie ai quali si forma un complesso trombina-trombomodulina che porta alla formazione di plasmina e alla lisi del coagulo di fibrina.

Le cellule endoteliali, in definitiva, in condizioni normali, inibiscono l’adesione piastrinica e la coagulazione del sangue: in seguito a un danno oppure all’attivazione delle cellule endoteliali (ad esempio nell’aterosclerosi) diventano procoagulanti e quindi facilitano la formazione del trombo. RUOLO DELLE PIASTRINE Le tre reazioni piastriniche più importanti che sono coinvolte nel processo trombotico sono: • L’adesione delle piastrine alla superficie lesa del vaso; • La secrezione di sostanze contenute nei granuli piastrinici; • L’aggregazione delle piastrine per formare il tappo emostatico. Le piastrine contengono 2 tipi di granuli: i granuli α e i granuli δ, entrambi importanti perché secernono sostanze che favoriscono il meccanismo coagulativo e l’adesione delle piastrine negli endoteli dei vasi. Le sostanze secrete dai granuli α sono:

-fibrinogeno; -P-Selectina (proteina di adesione espressa in seguito all’ attivazione piastrinica); -PDGF; -TGF β; -il fattore V; -il fattore di Von Willebrand.

Le sostanze secrete dai granuli δ contengono: -ADP, importante perché si attivi la cascata coagulativa; -ioni calcio (perché i fattori di coagulazione hanno attività proteasica, quindi agiscono in presenza di cofattori, in questo caso il calcio); -istamina e serotonina (mediatori del processo infiammatorio).

Senza le 3 reazioni piastriniche non abbiamo un efficiente processo di emostasi.

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PROCESSO EMOSTATICO L’emostasi avviene attraverso un meccanismo di riconoscimento tra le molecole espresse sulla superficie piastrinica e le cellule endoteliali vasali. Qualsiasi tipo di danno nella parete vasale induce un riflesso di vasocostrizione (di cui l’endotelina è responsabile) e l’esposizione della matrice extracellulare, in particolare il collagene, attraverso cui vengono reclutate e attivate le piastrine. Le piastrine aderiscono alle cellule endoteliali danneggiate grazie alla produzione del fattore di Von Willebrand da parte delle stesse cellule endoteliali. Il fattore, che è esposto in seguito all’attivazione o al danno endoteliale, riesce a reclutare le piastrine perché esse presentano sulla loro superficie la glicoproteina 1β. Con l'adesione delle piastrine e la stimolazione dei recettori di superficie, viene generata una cascata di segnali che porta alla “Risposta biochimica delle piastrine". Tra questi recettori di particolare importanza è l'integrina α2β1 (recettore per il collagene). Da discoidali le piastrine diventano sferiche con pseudopodi sempre più lunghi in modo da rendere possibile il contatto tra le piastrine vicine. Contemporaneamente alle modificazioni morfologiche si ha lo spostamento dei granuli verso il centro e la fusione della membrana con il granulo, con la quale si ha la secrezione del contenuto. Tra le varie sostanze secrete c’è l’ADP, che induce delle modificazioni conformazionali che determinano l’esposizione sulla superficie piastrinica di un complesso di 2 glicoproteine: glicoproteina 2β e glicoproteina 3α. Questi complessi legano il fibrinogeno promuovendo l’aggregazione delle piastrine; dopodiché il fibrinogeno viene trasformato in fibrina (forma insolubile del fibrinogeno). Si forma così il tappo fibrinico. Esistono 3 malattie di origine genetica: • La sindrome di Bernard-Soulier, in c’è l’assenza della glicoproteina 1β a livello piastrinico. Come conseguenza si ha tromboastenia e difetti dei meccanismi di emostasi e di coagulazione, perché le piastrine non possono aderire alle cellule endoteliali attivate. • La malattia di Von Willebrand, in cui viene a mancare il fattore di Von Willebrand che non può essere secreto dalle cellule endoteliali. Il riconoscimento tra la glicoproteina 1β e il fattore di Von Willebrand regola il processo di adesione piastrinica. • La tromboastenia di Glansman, in cui c’è l’alterazione dei geni che codificano per i complessi proteici glicoproteina 2β e glicoproteina 3α. In questo caso vengono a mancare le glicoproteine di superficie che permettono alle piastrine di aggregarsi tra loro per formare il tappo fibrinico. La malattia è caratterizzata da:

- Mancata modificazione di forma e inibita aggregazione delle piastrine dopo stimolazione con agenti aggreganti (ADP, collagene, trombina);

- Inibito legame con il fibrinogeno e mancata formazione di contatti tra le piastrine; - Facili emorragie di cute e mucose in seguito a traumi insignificanti.

Con la formazione del tappo emostatico primario si ha l’esposizione dei complessi fosfolipidici e l’attivazione della cascata coagulativa I fattori della coagulazione cominciano ad attivarsi solo quando vengono esposti questi complessi fosfolipidici sulla superficie piastrinica e quando dalle piastrine viene rilasciata una certa quantità di ioni Ca2+ (la cascata coagulativa è infatti una cascata proteolitica che necessita di cofattori). CASCATA COAGULATIVA

La cascata coagulativa consiste nella conversione di una serie di proenzimi dalla forma inattiva a quella attiva. La maggior parte di essi sono delle proteasi. La cascata coagulativa viene divisa in un pathway intrinseco e in uno estrinseco (in vivo questa distinzione non esiste e i 2 circuiti si attivano contemporaneamente).

-Il pathway intrinseco prevede l’attivazione del fattore di Hageman che viene secreto e sintetizzato dalle cellule epatiche, come la maggior parte delle proteine che fanno parte della cascata coagulativa: questo è il motivo per cui nelle insufficienze epatiche si hanno disturbi della coagulazione (sanguinamenti, epistassi). Il fattore di Hageman (o fattore XII) si attiva in presenza di un precursore del chininogeno di alto peso molecolare e, una volta attivato, inseguito a vari passaggi, si ha l’attivazione del fattore X.

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-Il pathway estrinseco viene attivato in vitro dal danno tissutale con cui vengono secreti i fattori tissutali tra cui la tromboplastina. La tromboplastina, una volta rilasciata, va ad agire anch’essa sul fattore X.

All’attivazione del fattore X si susseguono una serie di eventi che portano all’attivazione della trombina. Il fattore X è quindi il fattore comune sia per la via estrinseca che per la via intrinseca. Minime quantità di trombina bastano per poter scatenare l’attivazione del fibrinogeno e quindi la formazione della fibrina. Questo perché avete un’amplificazione del segnale da parte della trombina, perché il recettore della trombina, la trombomodulina, altro non è che una proteina con 7 domini transmembrana (sono quei recettori associati alle proteine G eterotrimeriche). Quando arriva la trombina, essa taglia proteoliticamente il recettore a livello della porzione ammino-terminale (quindi la porzione extracellulare), che si stacca e amplifica il segnale in quanto attiva altri recettori. Di conseguenza, anche in presenza di piccole quantità di trombina può essere attivato un numero enorme di recettori della trombina (meccanismo di amplificazione del segnale). Il complesso trombina-trombomodulina attiva la proteina C. La proteina C attivata, con il suo cofattore proteina S, determina l'inattivazione, per proteolisi, di alcuni fattori della coagulazione (Va e VIIIa) e l’inattivazione dell'inibitore del TPA (attivatore del plasminogeno tissutale), con conseguente formazione di Plasmina e lisi del coagulo di fibrina. L’attivatore del plasminogeno tissutale (TPA), che attiva la cascata fibrinolitica e la lisi del tappo di fibrina, è secreto dalle cellule endoteliali stesse. Queste inibiscono il processo trombotico anche attraverso molecole simili alla eparina, le quali vanno a legare la antitrombina III e a costituire un complesso che la formazione di trombina e l’attivazione di alcuni fattori della cascata coagulativa. L’esposizione della superficie fosfolipidica da parte delle piastrine avviene soprattutto quando le piastrine rilasciano l’ADP; su questa superficie fosfolipidica si trovano:

- -un fattore della coagulazione attivo, che funge da enzima; - -un fattore della coagulazione inattivo, che funge da substrato; - -cofattori (non solo il Calcio, ma anche altri fattori della coagulazione già attivati).

Il fattore VIIIa fa da cofattore, per far sì che il fattore IX attivato possa agire sul fattore X che è inattivo. La trombina stimola la formazione di fibrina, quindi il passaggio da fibrinogeno (solubile) a fibrina (insolubile). La fibrina stimola direttamente le piastrine, che in seguito alla stimolazione trombinica, rilasciano il trombossano. La trombina stimola anche le cellule endoteliali che come conseguenza secernono un attivatore del plasminogeno tissutale (TPA). EQUILIBRIO EMOSTASI E FIBRINOLISI La trombina non solo regola il processo di formazione del tappo fibrinico, ma regola anche il processo inverso, quello che permette il passaggio del plasminogeno in plasmina, senza cui non può esserci la fibrinolisi. In condizioni normali nell’organismo si ha un equilibrio tra emostasi e fibrinolisi. Le cellule endoteliali possono essere sia pro-trombotiche che antitrombotiche; lo stesso vale per la trombina che può favorire la formazione della fibrina e del tappo fibrinico, ma anche opporsi e innescare il processo della fibrinolisi. La trombina inoltre stimola le cellule endoteliali a secernere prostacicline (PGI2) e ossido nitrico che inibiscono l’aggregazione piastrinica e recluta delle cellule infiammatorie (neutrofili, monociti e linfociti). I monociti, quando vengono richiamati, cominciano a secernere il PDGF che agisce sulle cellule della muscolatura liscia del vaso, stimolandone la contrazione: questo squilibrio favorisce i processi trombotici. In caso di alterazione dell’equilibrio tra emostasi e fibrinolisi si ha coagulazione disseminata (CID). Esistono degli anticoagulanti naturali che sono: -Antitrombina III, che può essere legata alle cellule endoteliali attraverso la trombomodulina; -Proteina C, sempre regolata dalle cellule endoteliali, che è anticoagulante perché viene attivata dal legame con delle molecole eparino-simili che si trovano sulla superficie delle cellule endoteliali (questo è il motivo per cui si fa il trattamento con l’eparina nelle malattie cardiovascolari; -Plasmina.

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PLASMINA La plasmina si forma a partire dal plasminogeno, che è la sua forma inattiva, attraverso diversi meccanismi. L’attivatore tissutale del plasminogeno TPA (sintetizzato dalle cellule endoteliali) e l’urochinasi trasformano il plasminogeno in plasmina. Schematizzando: Il plasminogeno viene trasformato in plasmina. La plasmina che si forma dall’attivazione del plasminogeno si va a legare alla fibrina e la degrada. Alla fine si avranno dei prodotti di degradazione della fibrina e la fibrinolisi (quindi dissoluzione del tappo fibrinico). Questo processo funziona fintanto che c’è il tappo fibrinico: quando esso è dissolto, la plasmina libera incontra in circolo delle proteine, le α2 antiplasmine, per cui si forma un complesso plasmina-α2 antiplasmina per cui la plasmina è bloccata e immobilizzata e non è più in grado di funzionare. Le cellule endoteliali secernono anche degli inibitori dell’attivatore tissutale del plasminogeno TPA. LA TROMBOSI La trombosi è dovuta ad un’inappropriata funzione emostatica che può riguardare sia un vaso indenne che uno danneggiato. La patogenesi della trombosi è basata sulla triade di Virchow: • Danno endoteliale; • Alterazioni del flusso del sangue; • Ipercoagulabilità del vaso. Il danno endoteliale può essere dovuto: • Alla superficie di una placca ateromasica che si è ulcerata; • Ai processi infiammatori dei vasi (vasculiti, malattie autoimmuni); • Ai prodotti della combustione del tabacco • Alle ipercolesterolemie (in cui avete il deposito delle LDL che sono altamente proinfiammatorie). Le alterazioni del flusso del sangue sono importanti in quanto inducono dei processi di stasi e di turbolenze. Le cause di questi processi di stasi e di queste turbolenze sono: • le placche ateromasiche; • gli aneurismi (“sacche” che si formano in corrispondenza dei vasi); • globuli rossi a forma di falce presenti nell’anemia falciforme, che alterano il flusso laminare entrando in contatto con le cellule endoteliali che in qualche modo possono essere danneggiate. L’ipercoagulabilità del sangue si ha per delle forme primitive e genetiche o per delle forme secondarie. Le forme primitive e genetiche le ritroviamo in condizioni di: • mutazione puntiforme del fattore V della coagulazione (mutazione di Leiden) che non può essere inattivato dalla proteina C; • Deficienza della proteina C; • Deficienza dell’antitrombina III. Le forme secondarie le ritroviamo in condizioni di: • Prolungata degenza a letto (o per interventi chirurgici o per neoplasie); • Cardiopatie dovute a deficit valvolari (soprattutto a carico della valvola mitralica); • Sindrome anticoagulante del lupus associata alla presenza di anticorpi anti-cardiolipina (lipide presente sulla superficie piastrinica). In realtà questa sindrome è un aspetto di una malattia che è il lupus eritematoso sistemico in cui avete una frequenza di trombosi multiple, cioè trombosi che si possono verificare sia nel versante arterioso che nel versante venoso. Gli anticorpi anti-cardiolipina favoriscono i processi trombotici perché attivano le piastrine, inibiscono la sintesi o l’attivazione della proteina C oppure perché inibiscono il rilascio della prostaciclina endoteliale. Un trombo è fatto di una testa, un corpo e una coda. Dal punto di vista anatomo patologico è caratterizzato da queste strie più scure, dette strie di Zahn, e da strie più chiare. Le strie più scure sono ammassi di eritrociti, mentre le strie più chiare sono costituite da ammassi di piastrine e di fibrina. Dal punto di vista anatomo funzionale, i trombi possono essere arteriosi o venosi.

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-I trombi arteriosi hanno in genere una crescita retrograda, cioè opposta al flusso del sangue. Possono essere murali (si vanno a indovare sulla parte del vaso o nei ventricoli) e occludenti, che danno dei processi ischemici. -I trombi venosi hanno invece una crescita anterograda, cioè crescono verso il cuore; sono anche detti flebotrombi, e quindi danno origine alla flebotrombosi. La progressione di un trombo prevede: • Risoluzione, quando vengono fatte delle terapie appropriate oppure si rimuovono dei fattori di rischio che sono modificabili (fumo e assunzione di colesterolo con la dieta); • Embolizzazione del trombo, per cui si formano gli emboli, costituiti da materiale solido o gassoso, che si distaccano e si vanno a localizzare soprattutto a livello polmonare; • Organizzazione e Ricanalizzazione. Il trombo si organizza sulla parete del vaso e può addirittura ricanalizzarsi, cioè aprirsi facendo fluire il sangue. La trombosi di un ateroma è una delle cause più frequenti della sindrome coronaria acuta e quindi dell’ischemia del miocardio (infarto). È dovuta al fatto che la capsula fibrosa collassa e si dissolve esponendo il core lipidico che sta al di sotto della placca ateromasica che è altamente trombogenico. La dissoluzione della capsula fibrosa avviene perché le cellule infiammatorie inducono la degradazione di questa capsula. Esiste un momento in cui all’interno della placca ateromasica le cellule infiammatorie cominciano a secernere da un lato degli inibitori della sintesi del collagene come l’interferone γ, dall’altro lato delle metallo-proteasi (tra cui NMP1) che vanno a degradare il collagene. Ma le cellule infiammatorie secernono anche dei fattori tissutali pro coagulanti, in questa maniera si ha la formazione del trombo che si organizza sulla capsula fibrosa dissolta.

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INFARTO L’infarto è una patologia che può colpire vari organi del corpo. Il termine “infarto” sta ad indicare un’area di necrosi ischemica in un tessuto dovuta al blocco dell’apporto arterioso oppure al blocco del drenaggio venoso. L’infarto può avvenire in modi diversi in base alla rottura anatomica colpita: - se l’organo è normalmente irrorato da arterie terminali, come ad esempio il cuore, il rene e la milza, l’occlusione impedisce totalmente l’apporto di sangue. Il tessuto diventa bianco e, privato dell’ossigeno, muore lasciando una cicatrice a forma di cono. In questo caso si parla di infarto bianco (anemico); - se l’organo presenta una doppia circolazione, come nel polmone, l’occlusione non impedisce totalmente l’afflusso di sangue ma sconvolge la normale circolazione, facendo sì che il sangue arrivi in quantità eccessive al tessuto mediante i vasi circostanti, creando delle sacche di sangue che ristagna portando alla morte del tessuto. L’organo appare di colore rosso ed in questo casa si parla di infarto rosso (emorragico). INFARTO DEL MIOCARDIO L’infarto del miocardio è la conseguenza di un’occlusione totale dell’arteria coronarica (si possono avere anche occlusioni parziali che si manifestano con malattia ischemica o angina pectoris). L'infarto in genere segue l’aterosclerosi. Tra i 40 e i 70 anni colpisce in misura maggiore il sesso maschile (questa differenza tra i due sessi è dovuta all'azione protettiva nei confronti delle donne degli ormoni steroidei prima della menopausa); oltre i 70 anni non vi sono più differenze di sesso. I fumatori, i consumatori di droghe, i pazienti con il diabete mellito o con ipercolesterolemia possono essere colpiti anche in età giovanile, soprattutto se affetti da malattie genetiche, quale l'ipercolesterolemia familiare. Esistono dei fattori di rischio che sono:

- fattori modificabili come il fumo di sigarette, l'abuso di alcol, la dieta ricca di grassi saturi ed ipercalorica e l'inattività fisica; - fattori parzialmente modificabili come l'ipertensione arteriosa, il diabete mellito (se di origine alimentare), l'ipercolesterolemia con una bassa quantità di colesterolo "buono" o HDL e l'obesità; - fattori non modificabili come l'età, il sesso, i fattori genetici e la storia familiare.

Il rischio cardiovascolare non è dato dall'addizione di tutti questi fattori di rischio, ma è qualcosa di esponenziale: i fattori si moltiplicano e si amplificano L'infarto acuto del miocardio si manifesta per lo più in condizioni di riposo, e questo lo differenzia dall'angina pectoris (forma di cardiopatia ischemica, generalmente causata da sforzo fisico, da un'emozione intensa, da un aumento o una diminuzione della temperatura ambientale): l'infarto insorge per lo più nelle ore mattutine quando c’è l'aumento della pressione arteriosa oppure durante le ore di riposo. L’aspetto istologico predominante nell’infarto del miocardio è quello di una necrosi ischemica coagulativa in cui l’architettura del tessuto viene conservata, a differenza dei processi ischemici cerebrali che invece danno una necrosi di tipo colliquativo. Tutto questo genera una risposta di tipo infiammatorio. Tipi di infarto: - Infarti transmurali: la necrosi interessa l'intero spessore della parete ventricolare. Sono questi gli infarti più frequenti, perché sono associati alla lesione ateromasica e alla complicanza di questa lesione, alla rottura della placca e alla sovrapposizione trombotica; - infarti subendocardici: le aree di necrosi ischemica sono limitate e non interessano tutta la parete del ventricolo (generalmente sinistro perché quelli del destro sono rari). La patogenesi dell'infarto è data da: - aumento delle richieste metaboliche dei cardiomiociti; - occlusione delle arterie coronariche dovuta generalmente a processi ateromasici; - rottura della placca ateromasica con conseguente trombo; - ipertensione che porta a vasospasmo (10% degli infarti del miocardio); - emboli (ad esempio come conseguenza di tromboflebiti) che si staccano e arrivano al cuore; - casi di infarto che sono ancora del tutto inspiegabili (ad esempio esiti di anemie o emoglobinopatie).

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La risposta del miocardio alla necrosi è basata su modificazioni biochimiche, funzionali e morfologiche del cardiomiocita. Modificazione biochimica è la glicolisi anaerobica, che porta ad una sintesi anomala di ATP e creatinintrifosfato e all'accumulo di acido lattico. Modificazioni funzionali sono la perdita della contrattilità miocardica e alterazioni del ritmo cardiaco: la zona infartuata è una zona di cellule fibrotiche elettricamente inattiva. Modificazione morfologiche sono: difetti strutturali del sarcolemma, rigonfiamento cellulare e mitocondriale, lacerazione della membrana plasmatica, lisi della cellula e necrosi. La perdita di ATP avviene dopo pochi secondi, la perdita di contrattilità cardiaca avviene in due minuti, e in 40 minuti c’è una perdita del 10% rispetto ai valori normali di ATP; in 20-40 minuti il danno cellulare diventa irreversibile e dopo 1 ora si hanno i danni microvascolari. La situazione cardiaca può essere ripristinata entro 4 ore: se il medico supera questo limite senza intervenire con una terapia trombolitica appropriata (streptokinasi) o con altri interventi (chirurgia), il danno dell'infarto è irreversibile e il paziente muore. Gli aspetti clinici sono diversi: il più importante è il dolore. Innanzitutto è un dolore di tipo costrittivo, che dà al paziente un senso di morte imminente e quindi genera agitazione. Il dolore può irradiarsi allo stomaco, al collo, al braccio sinistro e alla mano sinistra (sindrome spalla-mano). Altri aspetti clinici possono essere: Il polso debole e rapido per la perdita della contrattilità del miocardio, la diminuzione della gittata cardiaca per la necrosi ischemica e quindi dispnea (incapacità di respirare). Molto importante è la valutazione di laboratorio; facendo un esame emocromocitometrico, risulterà: - una spiccata neutrofilia; - elevata concentrazione di GOT e GPT in circolo; - CPK (creatinkinasi), espressa nel cuore, nel cervello, nel muscolo scheletrico e nel polmone. Questo marker è composto da dimeri M e B. Nel muscolo scheletrico e nel cuore si trova la creatinkinasi MM (nel cuore anche l’eterodimero creatinkinasi MB). Nel cervello e nel polmone la creatinkinasi BB. È proprio l’eterodimero creatinkinasi MB che aumenta moltissimo nell’infarto del miocardio (comincia ad aumentare dopo 3-4 ore, raggiunge il picco tra le 18-24 ore e declina dopo 72 ore); - troponine, enzimi che servono per la contrazione della cellula muscolare (la loro concentrazione rimane elevata per 6-7 giorni); - aumento dell’enzima lattico deidrogenasi; - aumento della proteina C reattiva e delle altre proteine della fase acuta; - aumentata velocità di eritrosedimentazione. Per quanto riguarda le indagini diagnostiche, si ricorre all'ecocardiografia (studio dell’efficienza della gittata cardiaca), agli studi radioisotopici, alle scintigrafie e alla risonanza magnetica (studio delle cavità cardiache e della loro funzionalità). I principali obiettivi che il medico dovrebbe avere nel trattamento dell'infarto sono l'identificazione rapida dei pazienti che sono candidati alla riapertura dell'arteria coronarica. La riperfusione nel cuore si può ottenere con dei farmaci trombolitici (streptokinasi), oppure meccanicamente con la riapertura del vaso, con una metodica detta angioplastica transluminale coronarica mediante catetere a palloncino. Le complicanze che consistono in un rimodellamento del ventricolo in seguito ad un infarto sono: - assottigliamento del ventricolo; - processi di fibrosi (perché è un tessuto che non può replicarsi); - ipertrofia compensatoria (che dà origine alla cardiopatia ipertrofica); - dilatazione del ventricolo (che dà origine alla cardiopatia dilatativa). Le conseguenze dell'infarto del miocardio più importanti sono: - disfunzione contrattile del ventricolo sinistro che provoca edema polmonare e shock cardiogeno; - aritmie, che sono disturbi della contrattilità e dell'eccitabilità cardiaca; - rottura del miocardio (rarissima);

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- pericardite reattiva, infiammazione del pericardio in cui si forma un essudato di tipo fibrinoso; - insufficienza cardiaca progressiva. Si può avere anche l'estensione (l'infarto si estende anche alle aree vicine) e l'espansione (cicatrice si espande) dell'infarto. SHOCK Per shock si intende ipoperfusione sistemica dovuta a riduzione della gittata cardiaca e del volume di sangue circolante che dà origine a danni gravi ad organi critici come il rene, il fegato ed il cervello: la pressione arteriosa sistolica si abbassa notevolmente a livelli critici, e in qualche situazione può arrivare addirittura a 50-60 mmHg. Le 3 caratteristiche principali di questo shock sono quindi l'ipotensione, l'insufficiente perfusione cellulare e il danno da ipossia. Lo shock può essere cardiogeno, ipovolemico o settico: • Cardiogeno in genere si verifica nelle ischemie coronariche, nell'infarto del miocardio, perché avete una diminuzione della performance cardiaca, quindi un’alterata diminuzione della gittata cardiaca; • Ipovolemico è dovuto a perdita di liquidi (ad esempio nelle ustioni, nella diarrea, nel caso di traumi che danno emorragie interne o esterne); • Settico, che è dovuto alle setticemie (estensione di un'infezione che inizialmente è localizzata, come ascessi, peritoniti e polmoniti). C'è un aumento di patologie associate alle infezioni, come le neoplasie, l’HIV, gli interventi chirurgici (e infezioni nosocomiali), malattie croniche e infezioni iatrogene (dovute ad un uso improprio di farmaci). In realtà questi shock convergono in un punto fondamentale, che è la disfunzione del cuore, che può causare lo shock ipovolemico e sotto altri aspetti lo shock settico. La pressione arteriosa, che è quella che diminuisce nel caso di shock, dipende da 2 eventi fondamentali: dalla gittata cardiaca e dalle resistenze periferiche. Se diminuisce la gittata cardiaca perché diminuisce la contrattilità del cuore, voi avete una diminuzione della pressione arteriosa; se si verifica una dilatazione massiva a livello periferico, ad esempio in caso di shock anafilattico, si ha vasodilatazione massiva che dà un tipo particolare di shock, detto shock anafilattico. La gittata cardiaca a sua volta è condizionata dal precarico, dalla contrattilità cardiaca e dal postcarico. PRECARICO Durante ogni ciclo arriva una certa quantità di sangue al cuore, detta precarico. Se c’è un'emorragia diminuirà anche il precarico, quindi diminuisce la gittata cardiaca. CONTRATTILITÁ La gittata cardiaca è determinata dalla contrattilità del miocardio e può essere alterata da crisi ipertensive o disturbi vascolari. POSTCARICO La gittata cardiaca è influenzata anche dal postcarico, ossia dalla resistenza che il ventricolo sinistro incontra ogni volta che deve pompare sangue. Quindi se c’è un processo ateromasico a carico dell'aorta, il cuore incontrerà una resistenza sicuramente maggiore perché deve adattarsi per pompare sangue (più è piccola la sezione del vaso, più aumentano le resistenze). PATOGENESI DELLO SHOCK SETTICO Durante un'infezione batterica, il lipopolisaccaride (che è formato da un core costituito dal lipide A, acido grasso, e da un rivestimento specifico per ogni batterio) della parete batterica viene liberato e si lega ad una proteina detta LPS binding-protein: si forma il complesso LPS-proteina legante. Questo trova, soprattutto a livello dei monociti e dei macrofagi, una molecola che lo riconosce, il CD45. Il complesso viene internalizzato nel macrofago dove induce l'espressione dei geni per citochine (interleuchine, TNF e PAF). I monociti e macrofagi rilasciano prevalentemente IL1 che induce, soprattutto a livello delle cellule endoteliali, il rilascio di IL6 e IL8 le quali provocano il rilascio di ossido nitrico, PAF e altri mediatori. Il rilascio di tutte queste

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citochine spiega tutti i fenomeni che si verificano nello shock settico. Inoltre l'attivazione del pathway che porta alla coagulazione può dar luogo ad una coagulazione intravasale disseminata (CID) oppure alla sindrome da stress respiratorio (le cellule infiammatorie si localizzano vicino ai capillari polmonari, danneggiando gli alveoli) che può portare alla morte del paziente. C’è inoltre l'attivazione e il rilascio di prostaglandine e leucotrieni, l'attivazione della cascata del complemento: quindi il rilascio di tutti i mediatori chimici dell'infiammazione. Come conseguenza si hanno danni vasali responsabili di questa sintomatologia multiorgano, che riguarda prevalentemente organi critici per l'omeostasi idrosalina e metabolica, quindi il rene, il fegato e il cervello. Nello shock settico si ha un significativo danno endoteliale con liberazione di Fattore tissutale in quantità direttamente proporzionali al danno d'organo registrato, in particolar modo si hanno:

- insufficienza cardiocircolatoria per formazione di microtrombi e processi ischemici; - insufficienza respiratoria per formazione di microtrombi a livello alveolare e adesione delle cellule

infiammatorie sui capillari; - insufficienza epatica per ipoperfusione epatica, processi ischemici e danni a tutto il microcircolo

epatico, ipoglicemia, aumento dei lattati, iperammoniemia (perché si ha il blocco del ciclo dell'urea volto a ridurre la concentrazione di ione ammonio tossico per l'organismo) fino al coma epatico;

- insufficienza neurologica legata alla distruzione dei neuroni e della barriera emato-encefalica con alterazione del flusso cerebrale e del trasporto di amminoacidi a catena ramificata e aromatici con interferenza nella sintesi di neurotrasmettitori (assenti o falsi);

- insufficienza renale acuta (con riduzione della velocità di filtrazione glomerulare) che può guarire o portare ad una necrosi tubulare con insufficienza renale cronica fino al coma uremico (si ha accumulo di urea derivante dal ciclo dell'urea).

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RELAZIONE TRA PROCESSO INFIAMMATORIO E TUMORI - TUMORI ORMONO-DIPENDENTI Esiste un rapporto tra il processo infiammatorio e i tumori. Per i tumori ormono-dipendenti è interessante il meccanismo degli estrogeni, degli androgeni e dei progestinici (ormoni sessuali maschili e femminili). Il sistema endocrino è formato da ghiandole specializzate (ipotalamo, ipofisi, tiroide, gonadi) che secernono delle sostanze che vanno ad agire a distanza rispetto a quella ghiandola che le ha secrete. Questa segnalazione, detta endocrina, è diversa dalla segnalazione autocrina, in cui la cellula secerne delle sostanze che agiscono su se stessa (è il meccanismo per esempio di alcuni oncogeni come SIS, omologo del PDGF, secreto dalle cellule tumorali e che agisce sulle cellule stesse), e dalla segnalazione paracrina, in cui un mediatore chimico viene rilasciato da una cellula e va ad agire sulle cellule vicine. Gli ormoni sono dei messaggeri chimici che vengono secreti da un organo endocrino, vengono immessi in circolazione talvolta liberi, talvolta legati ad altre proteine a seconda della loro natura. •Ormoni steroidei (estradiolo, progesterone, androgeni, corticoidi, glucocorticoidi), derivano dal colesterolo e quindi non sono solubili in ambiente acquoso; sono veicolati in genere attraverso delle proteine leganti secrete dal fegato; •Ormoni di natura peptidica, per esempio l’insulina che viene veicolata in circolo libera, poiché solubile in ambiente acquoso, e trova i suoi recettori specifici a livello dei tessuti bersaglio. Le classi chimiche degli ormoni sono divise in:

- Ormoni derivati da proteine, peptidi e glicoproteine; - Ormoni derivati da amminoacidi come per esempio l’adrenalina; - Ormoni derivati da lipidi come gli eicosanoidi, testosterone ed estrogeni.

Questi ormoni funzionano perché sono riconosciuti sulla superficie cellulare da recettori di natura proteica. Il legame può essere: 1) un legame ad alta affinità (alta affinità significa che quella molecola recettoriale è avida di quel ligando). L’alta affinità viene studiata attraverso l’analisi della costante di dissociazione con il “plot di Scatchard”, attraverso cui si mette una certa quantità di ligando e si vede quanto recettore si lega a quel ligando: più alta è l’affinità, più bassa è la costante di dissociazione per cui se ci sono 10 molecole di ligando, queste si legheranno a 10 molecole di recettore, se ce ne sono 20, a 20 molecole di recettore e così via; tutto questo arriva però ad un plateaux al di là del quale non c’è più il legame tra ligando e recettore. 2) un legame specifico (quel ligando è riconosciuto solo da quel recettore, sebbene ci siano dei ligandi molto simili appartenenti alla stessa famiglia). Basta una mutazione singola sul recettore perché il recettore non riconosca più il proprio ligando. I recettori ormonali possono essere: • recettori di membrana, quando l’ormone è idrosolubile (insulina, PGF, PDGF) non può attraversare la membrana plasmatica e quindi a livello della membrana trova il suo recettore. Una volta che avviene il legame, i recettori si attivano, dimerizzano tra loro, avviene una modificazione conformazionale della molecola recettoriale e la trasduzione del segnale chimico all’interno della cellula. Una volta trasdotto, c’è la produzione di secondi messaggeri all’interno della cellula, come cAMP, e quindi l’attivazione della cascata di chinasi dipendenti da cAMP stesso; avviene la liberazione del calcio intracellulare e del diacilglicerolo che vanno ad attivare delle chinasi dipendenti dal calcio; poi avviene l’attivazione di tirosin-chinasi che portano all’attivazione delle piccole proteine che legano GTP, come Ras, e quindi di MAP chinasi; • recettori intracellulari (ormoni steroidei) che si legano a sequenze specifiche di DNA dette sequenze di risposta agli ormoni steroidei. I recettori degli ormoni steroidei sono dei fattori di trascrizione, una volta attivati, modificano l’espressione di geni target implicati nel controllo del ciclo cellulare come p21, p27, Mic, Fos, Jun; secondo alcuni gli ormoni steroidei non sono in grado di andare ad attivare questi geni direttamente ma si servirebbero altre vie di segnalazione rapida, quali la via PI3K, o la via attivata dalla chinasi in tirosina Src, e attraverso queste, controllare per esempio il rilascio di ossido nitrico a livello endoteliale. Questo meccanismo, regolato dagli estrogeni, non è di tipo trascrizionale. Questo spiega come mai gli estrogeni sono protettivi nei confronti della placca ateromasica con un meccanismo di tipo non trascrizionale, che non prevede l’interazione del recettore per gli estrogeni con il DNA, ma l’attivazione di via extranucleari. Questi recettori sono importanti perché sono un indice prognostico favorevole in caso di tumori ormono-dipendenti come i tumori mammari e tumore della prostata.

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I tumori mammari sono stati messi in relazione con altri fattori epidemiologici: il numero di gravidanze (il tumore è più diffuso nelle nullipare), lattazione (una donna che ha allattato di più ha meno possibilità di sviluppare il tumore), la dieta, l’alcool e il fumo. La presenza del recettore per gli estrogeni e del recettore del progesterone sono indici prognostici. I tumori della prostata nella maggior parte dei casi vengono scoperti per caso, in corso di altri tipi di analisi, perché rimangono in uno stato di quiescenza per molti anni e poi improvvisamente danno delle metastasi: queste cellule tumorali infatti restano bloccate in fase G1 e improvvisamente diventano altamente metastatiche e danno metastasi a livello osseo. In questo caso il marcatore più importante è il recettore per gli androgeni. Questi marcatori sono importanti perché se i tumori esprimono ancora questi recettori non hanno perso del tutto il controllo ormonale. Quindi si può usare una terapia basata sull’uso degli antagonisti degli ormoni steroidei. Nel caso dei tumori mammari viene usato il tamoxifene, un antiestrogeno, nel caso dei tumori della prostata viene usato il casodex, un antiandrogeno. Molto spesso però succede che i tumori che inizialmente rispondono alle terapie basate sull’impiego di antagonisti, cominciano ad acquisire una refrattarietà verso queste terapie e ad avere una progressione neoplastica, acquisendo quella che in clinica è detta androgeno indipendenza, nel caso del tumore della prostata, ed estrogeno indipendenza, nel caso del tumore della ghiandola mammaria. Il passaggio da tumore ormono-dipendente a ormono-indipendente non è ancora chiaro. Ci sono varie ipotesi: 1) la presenza di un recettore mutato per gli estrogeni, per quanto riguarda il tumore della ghiandola mammaria, e del recettore degli androgeni nel tumore della prostata. Queste mutazioni altererebbero i recettori in maniera tale che quel tessuto non riesce più a rispondere al trattamento con gli antagonisti. 2) Un altro meccanismo possibile è il cross- talk, cioè un dialogo intracellulare tra questi recettori e il recettore per i fattori di crescita. Può succedere che per un’alterazione intracellulare, il recettore steroideo non sta più sotto il controllo del proprio ligando, ma viene attivato dai recettori per i fattori di crescita, tra cui il recettore dell’EGF, che è un indice prognostico sfavorevole (nei tumori mammari a prognosi infausta c’è Erb-B2, della famiglia dei recettori dell’EGF, che è un oncogene iperespresso). Esistono diversi fenotipi tumorali, soprattutto nel tumore della ghiandola mammaria. Il meccanismo classico degli ormoni steroidei prevede che questi ormoni arrivano alla cellula, si legano al recettore, il complesso trasloca nel nucleo e qui va ad attivare la trascrizione di geni. Uno dei geni che viene regolato dagli estrogeni è il gene che codifica per il recettore del progesterone: se in una cellula non arriva l’estradiolo e se questo non si complessa al proprio recettore, la cellula bersaglio non esprime il recettore del progesterone e quindi non può rispondere al progesterone. L’estradiolo, di conseguenza, regola la sintesi del recettore del progesterone. Questo è il motivo per cui, in ambito diagnostico, si fa il dosaggio del recettore degli estrogeni e del progesterone: • Se entrambi i recettori sono presenti significa che il segnale trascrizionale del recettore degli estrogeni è intatto perché il recettore per gli estrogeni, una volta che si è legato ad essi, induce la formazione del recettore per il progesterone. Il tumore è positivo al recettore per gli estrogeni e per il progesterone. In questo caso il tumore con buone probabilità risponderà alla terapia basata sugli antagonisti; • Se il recettore per gli estrogeni è presente, ma è assente il recettore del progesterone significa che esiste una variante mutata del recettore per gli estrogeni che non è in grado di attivare la trascrizione genica, per cui questi tumori sono positivi per il recettore degli estrogeni, negativi per il recettore del progesterone. Questo significa che i segnali trascrizionali in questi tumori sono interrotti. • Se il recettore per gli estrogeni è assente, ma è presente il recettore del progesterone significa che esiste una variante mutata del recettore per gli estrogeni che è costitutivamente attiva dal punto di vista trascrizionale ma ha perso la capacità di essere modulata dal ligando. Quindi il recettore per gli estrogeni non lega più l’ormone ma è presente il dominio che attiva la trascrizione genica. • Se entrambi i recettori sono assenti ma è presente il recettore delle EGF (ad esempio Erb-B2 e new Erb-B2), i tumori vengono trattati con degli inibitori specifici che vanno ad agire bloccando il legame delle EGF al proprio ligando, oppure con anticorpi che bloccano l’attività di Erb-B2. Esiste una scala fenotipica in cui la presenza di entrambi i recettori costituisce un indice prognostico e di terapia molto favorevole; l’assenza dei recettori significa che quel tessuto è completamente sganciato dal controllo ormonale.

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TERMOREGOLAZIONE Gli esseri umani sono omeotermi: la temperatura è costante grazie a dei centri termoregolatori. La memoria termica, cioè la temperatura di riferimento, fa parte degli elementi che risiedono nella memoria neuronale, affidata essenzialmente a 2 nuclei: il nucleo sopraottico e il nucleo paraventricolare dell’ipotalamo, importanti perché in essi risiedono gran parte delle attività di regolazione vegetativa. La loro funzione è quella di raccogliere segnali termici che provengono dalla periferia, integrarli con la memoria termica presente soprattutto al livello del nucleo paraventricolare e, in base ad essa, mettono in funzione meccanismi di termoproduzione o termodispersione, cercando di mantenere la temperatura costante (caratteristica degli animali omeotermi). L’area preottica, che comprende il nucleo sopraottico, e la formazione reticolare, vicino la quale c’è il nucleo paraventricolare, ricevono informazioni provenienti dalla periferia mediate da gangli simpatici distribuiti su tutta la superficie corporea. Vi sono 2 tipi di sensazione termica: quella superficiale, affidata al sistema simpatico, e quella profonda, affidata a dei termorecettori profondi collocati al livello dell’arco aortico, del glomo carotideo e del cervello stesso, che tutti insieme mantengono costante la temperatura. La temperatura di riferimento è di 37° (varia da 35,8 a 37,2). Nel nucleo sopraottico esistono 4 tipi di neuroni: neuroni recettori e neuroni effettori:

I neuroni recettori sono di due tipi: I e W. Quelli “I” sono insensibili perché semplicemente costituiscono la memoria di riferimento. I “W” hanno la percezione della temperatura quando questa devia dalla temperatura di riferimento e trasmettono i segnali ai 2 tipi di neuroni effettori;

I neuroni effettori sono i neuroni di termodispersione e i neuroni di termoproduzione. Quelli di termodispersione sono a loro volta chiamati W (warm), ossia quelli che si attivano quando la temperatura sale; quelli di termoproduzione chiamati C (cold), ossia quelli che percepiscono temperature inferiori a quella di riferimento ed attivano meccanismi di termoproduzione. Quando la temperatura è costante intorno a 37° gli stimoli eccitatori più o meno si equivalgono con quelli inibitori e non si ha attivazione né di meccanismi di termoproduzione né di meccanismi di termodispersione.

L’uomo essenzialmente produce temperatura attraverso reazioni metaboliche esotermiche accoppiate a reazioni endotermiche: viene prodotta più energia di quanta ne viene utilizzata e l’eccesso viene perso sotto forma di calore. La maggiore produzione di temperatura deriva dall’idrolisi di grandi quantità di ATP che la pompa Na+/K+ ATP dipendente ha bisogno di utilizzare: l’eccesso di energia derivante dall’idrolisi dell’ATP viene disperso sotto forma di calore (le kcal perse per ogni mole di ATP idrolizzate sono 7,3 kcal/moli). L’uomo riceve e trasferisce la temperatura dall/all’ambiente esterno. I meccanismi di trasmissione del calore sono la conduzione, la convezione (dispersione della temperatura attraverso correnti che lambiscono la superficie corporea), l’irraggiamento e l’evaporazione. La dispersione di calore si ha per irradiazione al 70%, per conduzione (maggiore se il corpo è immerso nell’acqua), convezione ed evaporazione. Quest’ultima può essere cutanea (facilitata dal sudore, responsabile della termodispersione per il 90%) e a livello polmonare (responsabile della termodispersione per il 10%). Un altro meccanismo molto importante per la regolazione della temperatura è quello del grasso bruno, molto ricco di mitocondri, NADP, NADH: qui il complesso dell’ATPsintasi viene disaccoppiato per la presenza di una proteina che si chiama termogenina che si lega ai protoni e quindi blocca la sintesi di ATP e anzi lo consuma, producendo essenzialmente calore (il grasso bruno è presente negli animali che vanno in letargo e nella bolla di Bichat del bambino). Ci sono dei meccanismi che possono incrementare la temperatura corporea in funzione della temperatura ambientale: il meccanismo più comune è la contrazione muscolare, che può essere di tipo isometrico veloce, come nel brivido che porta all’idrolisi di una certa quantità di ATP producendo calore; l’orripilazione, cioè la piloerezione, meccanismo vestigiale; la vasocostrizione (riducendo la superficie di scambio si riduce la dispersione di temperatura verso l’esterno)e la riduzione della frequenza respiratoria (riducendo la frequenza degli atti respiratori, si riduce la dispersione). Al contrario se è necessario disperdere calore, si ha vasodilatazione che porta all’incremento della frequenza respiratoria e di quella cardiaca. Nelle arterie la temperatura è superiore che nelle vene: quando fa molto freddo le arterie e le vene sono adese per non disperdere la temperatura, quando invece fa molto caldo esse si allontanano, creando un gradiente che disperde temperatura.

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Questi sono i valori normali di misurazione ascellare. Ci sono alterazioni fisiologiche e patologiche di questi valori: 1) la temperatura aumenta lievemente nel pomeriggio per una maggiore attività muscolare; 2) c’è una differenza di temperatura tra uomo e donna legata essenzialmente al ciclo mestruale (il progesterone è uno dei fattori che fa salire la temperatura); 3) fattori ambientali. Se una persona si trova in un ambiente atmosferico ostile ed estremo, la temperatura scende. Intorno ai 33° si comincia ad avere perdita della coscienza, sonnolenza; al di sotto subentra la condizione di poichilotermia, che

comporta il rallentamento di tutte le attività fisiologiche (è utilizzato ad esempio nella chirurgia dei grossi vasi del cuore, grazie alla macchina a circolazione extra-corporea). A 30° si ha fibrillazione atriale a bassa frequenza, a 28.5° fibrillazione ventricolare, a 28° subentra la morte. Al contrario, se la temperatura sale fino a 41° c’è una sensazione generalizzata di malessere (a volte convulsioni); oltre i 42.5° si ha vasodilatazione intensa che provoca edema cerebrale, condizione mortale; 4) eccessiva produzione di calore e insufficiente termodispersione per disfunzioni ipotalamiche. In quest’ultima categoria ritroviamo la patogenesi del colpo di calore, causato da un repentino incremento della temperatura corporea. IPERTERMIA Tutte le volte che la temperatura sale si parla di ipertermia dovuta ad alterazione del meccanismo di termoregolazione:

- ipertermia da esercizio fisico, causata da sforzi eccessivi, soprattutto in condizioni climatiche sfavorevoli, che possono determinare condizioni di ipertermia sistemica;

- colpo di calore e colpo di sole; - feocromocitoma, tumore benigno che colpisce la midollare del surrene e produce un aumento di

catecolamine che è responsabile dell’ipertermia, e dalla tireotossicosi, un aumento patologico degli ormoni tiroidei T3 e T4 che hanno un’azione ipertermizzante, perché attivano le pompe di membrana ad elevatissimo livello, per cui aumenta il metabolismo basale e aumenta la temperatura;

- insufficiente termodispesione, per abbigliamento occlusivo, disidratazione e/o disfunzioni del sistema nervoso autonomo;

- disfunzioni ipotalamiche, per accidenti cerebrovascolari, traumi, tumori ed encefaliti; - intossicazione da farmaci o sostanze (anfetamine, inibitori delle monoammino ossidasi MAO,

cocaina, antidepressivi triciclici, LSD); - sindrome maligna da neurolettici (come il domperidone), farmaci che agiscono alterando i

meccanismi della memoria neuronale; - ipertermia maligna.

L’ipertermia maligna è una malattia genetica con carattere autosomico dominante, dovuta alla mutazione del gene che codifica per il recettore della rianodina presente nei muscoli scheletrici (è una mutazione puntiforme di cisteina al posto di arginina). Questo recettore, in presenza di anestetici gassosi, viene attivato con rilascio di calcio dal reticolo sarcoplasmatico: ciò provoca una diminuzione del pH (scende parecchio al di sotto di 7) e una massiccia e generalizzata contrazione muscolare (rabdomiolisi), glicogenolisi e ipertermia (aumento della temperatura corporea fino a 46°). Se nel giro di 3-4 minuti non si interviene rapidamente con sostanze come il dantrolene o si raffredda o iperventila con la respirazione assistita, il paziente muore. COLPO DI CALORE VS COLPO DI SOLE Il colpo di calore avviene quando un soggetto viene sottoposto ad un intenso stress termico per cui i meccanismi deputati alla termoregolazione possono fallire. Tale fallimento è responsabile dei classici sintomi associati al colpo di calore: la cute diventa calda e disidratata, la sudorazione si arresta e la temperatura corporea sale notevolmente. Questi sintomi sono preceduti da segnali di allarme come nausea, confusione, annebbiamento della vista, senso di debolezza, tachicardia e ronzii alle orecchie. Durante un colpo di calore la temperatura interna può raggiungere i 40-42°C, sottoponendo l'intero organismo ad uno stress notevole. Se non si interviene in tempo le conseguenze possono essere molto gravi

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e addirittura fatali. L'unico modo per evitare il collasso cardiocircolatorio è cercare di ridurre il più rapidamente possibile la temperatura del paziente. I danni causati dal colpo di calore sono infatti direttamente correlati all'entità e alla durata dell'ipertermia. I possibili trattamenti utili sono l’applicazione di ghiaccio e l'immersione completa del corpo in acqua fredda. In attesa dei soccorsi si possono adottare ulteriori provvedimenti come sfregare la cute con alcol, ventilare il soggetto con un panno, tamponarlo con un asciugamano imbevuto di acqua fredda e riporlo in un luogo fresco ed ombroso. I colpi di calore sono più frequenti nel periodo estivo e i soggetti a rischio sono prevalentemente bambini, obesi ed anziani. Un soggetto obeso ha più del triplo di possibilità di essere colpito da un colpo di calore fatale rispetto ad individui normopeso. Per tutte queste persone è molto importante prevenire il rischio di patologie da calore adottando semplici provvedimenti dettati dal buon senso (non esporsi al sole nelle ore più calde del giorno, cercare di dimagrire, evitare pasti eccessivamente abbondanti e mantenersi ben idratati evitando le bevande alcoliche). Oltre alla temperatura ambientale è fondamentale tenere sotto controllo i livelli di umidità. Molti colpi di calore avvengono infatti in condizioni di temperatura non eccessiva, ma con tassi di umidità superiori al 90%. Il colpo di calore non prevede un’alterazione ipotalamica. Quando la temperatura sale, il corpo mette in atto i vari meccanismi di termodispersione, tra cui la vasodilatazione, molto importante perché porta ad un’ipotensione grave che provoca shock: la caduta di pressione non porta più sangue ad organi importanti, quindi si ha ischemia, danno epatico e renale; ma la cosa peggiore è che si cerca di compensare con una vasocostrizione periferica muscolare che può portare ad una rabdomiolisi (lisi della fibra muscolare striata). La rabdomiolisi libera la mioglobina, una molecola pesante che si deposita a livello del rene, già abbastanza stressato perché ipoperfuso: ciò causa una grave insufficienza renale. La manifestazione più immediata del colpo di calore è comunque lo shock, perdita di coscienza dovuta all’ipotensione molto grave. È completamente diverso invece il colpo di sole, in quanto si ha un irraggiamento abbastanza localizzato, che colpisce soprattutto l’encefalo: il calore dilata la rete meningea e si determina un’iperemia subaracnoidea che porta allo stravaso di liquido per l’aumento della pressione idrostatica, seguito da edema cerebrale che può determinare microemorragie. Come conseguenza si hanno fenomeni essenzialmente neurologici: eccitazione psicomotoria, cefalea, delirio fino ad arrivare al coma. Tra colpo di sole e colpo di calore c’è dunque una differenza qualitativa fisiopatologica: nel colpo di calore funzionano malissimo i meccanismi di termodispersione (ciò che provoca il danno sono proprio i meccanismi di termodispersione); al contrario, nel colpo di sole il paziente non attua alcun meccanismo di termodispersione, non percependo i fattori ambientali perché c’è il vento che maschera la temperatura alta.

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FEBBRE La febbre è una risposta adattativa complessa e coordinata del sistema neurovegetativo che attiva meccanismi di difesa o di reazioni al danno. Consiste in un aumento della temperatura corporea, da 1° a 4°C, che avviene senza modificazioni delle condizioni ambientali. La febbre viene classificata in base all’intensità.

Nello stato febbrile, a differenza del colpo di calore, il soggetto avverte la sensazione di freddo, per cui si attiva un processo di termoproduzione che prevede varie modificazioni: 1) modificazioni endocrine, per cui aumenta la secrezione di glucocorticoidi e aldosterone, si riduce la secrezione dell’ormone della crescita e della vasopressina; 2) modificazioni autonome, per cui si sposta il flusso sanguigno ai distretti profondi, aumenta la pressione e il ritmo cardiaco, diminuisce la sudorazione; 3) modificazioni comportamentali (brividi, ricerca di calore, anoressia, sonnolenza e malessere). PATOGENESI DELLA FEBBRE La febbre è un meccanismo attivo di difesa rappresentato dal fatto che molti batteri (ad esempio, treponema pallidum, sifilide) crescono solo a temperature relativamente basse. L’effetto termico della febbre può essere di per sé già terapeutico. La reazione locale o sistemica al danno porta all’attivazione delle cellule dell’immunità innata (macrofagi, monociti) che rilasciano i cosiddetti pirogeni endogeni: - TNF (α e β), il più pericoloso perché irrita i nervi periferici provocando dolore; - interferone-ɣ; - interleuchine (IL-1 e IL-6), prodotte dalle cellule della serie bianca mieloide e linfoide. La più importante è IL-1 perché stimola la secrezione da parte dei linfociti T di IL-2, che serve a promuovere la proliferazione e la maturazione dei linfociti B che diventano plasmacellule e possono iniziare a secernere anticorpi. Le interleuchine, inoltre, inducono la mobilizzazione di cellule mieloidi dai depositi midollari, attivano i neutrofili, riducono la concentrazione ematica di ferro e zinco, e nel fegato stimolano la sintesi delle proteine della fase acuta (ad esempio, la proteina C reattiva), promuovendo l’infiammazione e la protezione dagli agenti patogeni, stimolano la sintesi di collagene e attivano a livello centrale il sonno. A questo si associano delle conseguenze cliniche quali l’aumento dell’attività metabolica, delle perdite idriche e della frequenza cardiaca. I pirogeni endogeni raggiungono l’ipotalamo e stimolano la produzione di prostaglandine con meccanismi che alterano il punto di termoregolazione che si sposta ad un valore più alto. Sono 3 le vie di accesso per la trasduzione dei segnali dei pirogeni endogeni ai centri termoregolatori:

- via organum vasculosum laminae terminalis (OVLT); - via stimolazione del vago (come se si trattasse di un banale stimolo termico); - accesso diretto attraverso la barriera ematoencefalica.

I mediatori pirogeni superano la barriera ematoencefalica a livello dell’organum vasculosum ipotalamico e vanno a stimolare i neuroni termoregolatori situati nelle vicinanze. La loro attivazione inizia una cascata che porta alla produzione di prostaglandine (soprattutto PGE2) e all'attivazione del nucleo sopraottico e paraventricolare per il rilascio dei peptidi attivanti l'ipofisi e per il rilascio di segnali ai centri vasomotori. In particolare, vengono attivati: 1) i geni delle ATPasi ioniche (pompa Na+/K+ e pompe Ca2+), che consumano grandi quantità di ATP producendo calore; l'ADP che si genera stimola la fosforilazione ossidativa e il consumo di O2;

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2) le termogenine I e II del tessuto adiposo (specialmente grasso bruno), proteine disaccoppianti che producono calore; l'ADP in eccesso rimasto inutilizzato, perché non trasformato in ATP, stimola ulteriormente il consumo di 02; 3) infine, gli enzimi del metabolismo energetico e lipolitico necessari alla produzione degli intermedi energetici e dell'ATP necessario alle ATPasi aumentate in queste condizioni. Tutte queste proteine e relative vie metaboliche, la cui induzione appare proporzionale allo stimolo dei pirogeni endogeni, contribuiscono in varia misura alla termogenesi, necessaria a mantenere alta la temperatura per lunghi periodi (4-8 giorni o più). A livello locale è molto importante l’aumento di cAMP che determina il rilascio di neurotrasmettitori monoamminici, responsabili dello spostamento del punto di termoregolazione ipotalamica. Nel trattamento della febbre con antipiretici, fondamentale è la cascata dell’acido arachidonico: gli antinfiammatori steroidei (ad esempio, il cortisone) agiscono inibendo la fosfolipasi A2 responsabile della produzione di acido arachidonico, mentre gli antinfiammatori non steroidei (ad esempio, l’aspirina) agiscono inibendo la ciclossigenasi responsabile della sintesi delle prostaglandine. FASI DELLA FEBBRE • Fase Piretogena, legata alla produzione di IL e al progressivo spostamento del punto di termoregolazione. Ciò induce sensazione di ipotermia con aumento della termogenesi e riduzione della termodispersione; c’è aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca; • Fase di Fastigio, in cui la temperatura è più alta e dura per qualche settimana/giorno/ora a seconda della malattia (mancano le sensazioni di freddo e brividi perché oramai si è raggiunto un nuovo equilibrio); • Fase di Defervescenza, che può avvenire: - velocemente per crisi in seguito all’assunzione di aspirina perché la temperatura scende bruscamente per una elevata sudorazione. In questo caso viene inibita la ciclossigenasi, non vengono più prodotte le prostaglandine, non viene più stimolata la produzione di cAMP e il termostato scende. Accade lo stesso durante le infezioni batteriche in seguito all’assunzione di antibiotici; - lentamente per lisi ad esempio nelle infezioni virali da morbillo o mononucleosi. La febbre può essere:

febbre continua, in cui le fluttuazioni quotidiane di temperatura sono inferiori al grado centigrado e la febbre persiste nel tempo (è tipica di molti virus e di alcuni batteri Gram+);

febbre remittente, in cui le fluttuazioni quotidiane di temperatura sono superiori al grado centigrado e non tornano mai ai valori basali (ad esempio nella febbre tifoide da salmonella, c’è un andamento a dente di sega, ovvero ci sono delle oscillazioni di oltre un grado e mezzo tra mattina e sera);

febbre intermittente, in cui la febbre sale e scende durante il giorno per tornare alla normalità verso il mattino. Se le escursioni di temperatura sono molto alte si parla di febbre settica;

febbre ricorrente, in cui vi sono episodi febbrili intervallati da periodi di tempo più o meno lunghi, la temperatura corporea torna ai valori normali (ad esempio nel linfoma di Hodgkin la febbre compare ogni 15-20 giorni). Un esempio tipico di febbre ricorrente è la malaria. La malaria è una parassitosi provocata da protozoi del genere Plasmodium. La forma infettante del plasmodio è lo sporozoita (che deriva dall’ovocisti, ciclo sessuale del plasmodio) il quale è presente a livello delle ghiandole salivari di zanzare. Da qui vengono inoculati nell’ospite durante il pasto, per evitare la coagulazione di sangue. Dopo una breve permanenza nel circolo ematico, gli sporozoiti invadono gli epatociti (al cui interno diventano merozoiti) e in esso iniziano a moltiplicarsi formando uno schizonte. Questa fase che può durare dai 7 ai 15 giorni e la rottura dello schizonte determina la lisi dell’epatocita e il riversamento dei merozoiti, i quali sono pronti ad infettare gli eritrociti. All’interno degli eritrociti il merozoite si muta in trofozoite che successivamente si trasforma in uno schizonte di dimensioni più piccole rispetto a quello intraepatocitario che si rompe determinando la lisi della membrana dei globuli rossi e riversando in circolo nuove specie pronte ad infettare. Con la rottura dei globuli rossi vengono rilasciate sostanze pirogene che determinano la comparsa dei classici picchi febbrili della malaria;

febbri di origine sconosciute (F.U.O.) che sono febbri superiori ai 38.5° che durano 3 o più settimane. Le indagini vengono condotte in almeno 3 visite e non si riesce a risalire a una causa specifica. Si può ipotizzare che si tratti di mutazioni, neoplasie maligne, malattie infiammatorie croniche o febbri da farmaci. Tra queste abbiamo:

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- febbre ospedaliera (dura 3 giorni), nei pazienti ricoverati nelle unità di terapia intensiva o in rianimazione per un certo numero di giorni, che non presentano infezioni al momento del ricovero. È dovuta in genere a tromboflebiti settiche, a colite da Clostridium difficile o farmaci particolari come i neurolettici;

- febbre neutropenica (dura 3 giorni), nei pazienti con meno di 500 neutrofili/μl. È dovuta a infezioni perianali, aspergillosi e candidemia;

- febbre associata ad HIV (dura 3 giorni o 4 settimane), nei pazienti immunodepressi in cui c’è l’attivazione di batteri solitamente innocui quali micobatterium avium o quello della tubercolosi;

- febbre classica, in tutti gli altri pazienti che presentano febbre per 3 o più settimane. Le malattie accompagnate dalla febbre sono:

Malattie infettive;

Malattie autoimmuni;

Malattie infiammatorie;

Malattie granulomatose (tubercolosi, sifilide, granulomatosi di Wegener);

Malattie neoplastiche;

Traumi. I sintomi che accompagnano la febbre sono i brividi, la sudorazione, le convulsioni, confusione mentale, irritabilità o delirio ed Herpes labialis. La febbre ha sia effetti positivi che negativi. Gli effetti benefici sono: l’aumento della risposta infiammatoria acuta, delle attività fagocitiche e chemiotattiche oltre che gli effetti positivi dell’IL-1 che stimola la produzione di più anticorpi. Gli effetti nocivi sono: la perdita di peso e deperimento muscolare, l’aumento del lavoro e del ritmo cardiaco, perdita di acqua e sali, cefalea, fotofobia e malessere fino ad arrivare alle convulsioni.

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MALATTIE DA ACCUMULO L’accumulo può essere:

Endogeno se le sostanze normalmente presenti sono prodotte in quantità eccessiva o rimosse in modo inadeguato (ad esempio, la steatosi epatica) oppure se non possono essere più metabolizzate per un deficit enzimatico o per una modifica della sostanza stessa (ad esempio, la glicogenosi);

Esogeno se la sostanza introdotta dall’esterno non può essere eliminata (carbone, ferro, silicio, metalli pesanti).

STEATOSI La steatosi è piuttosto frequente nelle persone anziane, come se fosse un segno dell’età che avanza o un deficit del funzionamento. Si tratta di un accumulo di grassi che si può verificare in vari organi, ma soprattutto nel fegato. Le cause di steatosi sono le tossine, l’abuso di alcool, l’anossia, l’obesità, la malnutrizione proteica e diabete mellito. Queste condizioni, soprattutto la malnutrizione proteica, obesità, ipossia e diabete mellito, determinano una sindrome caratteristica che si chiama NASH (steatoepatite non alcolica). Il fegato si presenta aumentato di peso e di volume, con una colorazione giallastra e, nel corso di indagini anatomopatologiche, si riscontrano vacuoli lipidici nel citoplasma degli epatociti. In generale, si ha accumulo di trigliceridi in organi diversi dal tessuto adiposo (fegato, rene e cuore). La patogenesi della steatosi è complicata e il processo si evolve in varie fasi. I lipidi alimentari, assorbiti dal tubo digerente, passano nella linfa e nel plasma come chilomicroni primari, i quali possono trasformarsi in chilomicroni più piccoli (secondari) per scambio delle componenti lipidica e proteica. Gli uni e gli altri possono essere assorbiti dagli adipociti o dagli organi parenchimali, specialmente dal fegato. Il tessuto adiposo rimette in circolo acidi grassi, che possono essere captati dai tessuti periferici, in particolare dal fegato. Il fegato sintetizza i trigliceridi che sono immessi in circolo sotto forma di VLDL.

A livello dell’adipocita l’ACTH e il cortisone stimolano la sintesi dell’adenilatociclasi, mentre l’adrenalina e la noradrenalina ne aumentano l’attività: questo determina un aumento della produzione di cAMP che attiva la lipasi. La lipasi libera dall’adipocita acidi grassi non esterificati, che passano nel plasma dove si legano all’albumina. È proprio l’aumento degli acidi grassi non esterificati in circolo che aumenta il rischio di steatosi.

A livello del fegato, gli acidi grassi vengono utilizzati per: - produzione di energia attraverso la β-ossidazione degli acidi grassi che avviene all’interno dei mitocondri; - sintesi dei fosfolipidi, degli esteri del colesterolo, dei trigliceridi e delle lipoproteine.

Tutte le fasi se sono alterate possono portare a steatosi. In realtà le fasi più critiche sono rappresentate soprattutto dalla formazione delle lipoproteine, dalla utilizzazione degli acidi grassi sotto forma di fosfolipidi e dalla β-ossidazione. Le lipoproteine sono la componente più importante perché essendoci difficoltà nel sintetizzarle, i grassi non possono uscire dal fegato che inevitabilmente li accumula. Esse sono: - VLDL, sintetizzate perlopiù nel fegato. I trigliceridi per esser trasportati nel sangue hanno bisogno di esser complessati a delle apoproteine (il processo di assemblaggio avviene nel Golgi). All’interno di queste lipoproteine ci sono anche vitamine liposolubili e colesterolo. Le VLDL cedono gli acidi grassi ai tessuti (muscolo, tessuto adiposo, etc.), trasformandosi prima in IDL e poi in LDL; - LDL, che contengono quasi solo colesterolo, possono essere captate da tutte le cellule che hanno recettori per le LDL e dai macrofagi senza la presenza di recettori per esse, ma per attiva fagocitosi; - HDL, sintetizzate dal fegato ed hanno funzione opposta alle LDL. Essi hanno il compito di captare il colesterolo in periferia (trasporto inverso) e di riportarlo al fegato, impedendone l’accumulo soprattutto nei vasi che può predisporre all’aterosclerosi.

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Possono portare a steatosi: - Aumentato apporto di lipidi con la dieta; - Eccessiva mobilizzazione di acidi Grassi dal tessuto adiposo, per eccesso di ormoni (adrenalina, cortisone, ACTH) e di sostanze (caffeina) che incrementano il livello di cAMP, digiuno, diabete (la mancanza d’insulina o la diminuzione di recettori per l’insulina determinano una prevalente azione del glucagone) e, alcolismo; - Diminuita presenza di ossigeno perché senza ossigeno non ci può essere la β-ossidazione degli acidi grassi e non può essere sintetizzata l’ATP, la cui mancanza determina una riduzione della sintesi proteica e quindi delle apoproteine, indispensabili per la formazione delle lipoproteine; - Mancanza di proteine: dieta carente oppure sostanze tossiche che ne inibiscono la sintesi (nella sindrome di Kwashiokor si ha malassorbimento proteico e si può venire a determinare questa condizione). Le sostanze tossiche possono essere:

- piombo e arsenico (deficit di sintesi di ATP); - cicloesimide (traduzione); - tetracloruro di carbonio (inibitore della reazione d’inizio della sintesi); - amanitina (inibitore della RNA polimerasi), contenuta nei funghi velenosi.

ALTRE SEDI DI ACCUMULI INTRACELLULARI Il fegato non è l’unica sede di steatosi; ci può essere:

Steatosi cardiaca, il muscolo cardiaco utilizza come fonte di energia la β-ossidazione, il cui malfunzionamento (come nell’ischemia o anemia) può causare un accumulo di grassi. La steatosi può essere causata anche da anossia intensa come nella miocardite difterica, in quanto la tossina difterica determina sindrome ipossica. Un’altra forma di steatosi cardiaca, ma non in senso stretto, è l’aterosclerosi;

Xantoma, caratteristica formazione simile a lenticchie, dovuta ad accumuli in sede subepidermica di macrofagi che hanno fagocitato lipidi in condizioni di iperlipidemie, sia familiari che acquisite;

Accumulo di lipofuscina, un pigmento caratteristico giallo-bruno che si ritrova in alcuni organi come indicatore di uno shock ossidativo. Tali pigmenti si ritrovano in persone anziane e sono complessi di lipidi e proteine perossidati per effetto dei ROS o di traumi di tipo infiammatorio e ossidativo.

MALATTIE PROFESSIONALI L’accumulo di carbone è tipico delle malattie professionali. Ci sono 2 condizioni fondamentali:

Nell’antracosi si ha assorbimento e accumulo di carbone in alcuni organi, principalmente nei polmoni (malattia tipica dei minatori e/o per inalazione di polvere di grafite). Si notano striature nerastre agli alveoli.

Nella pneumoconiosi si ha una reazione infiammatoria, dovuta alla presenza di carbone, che molto presto cronicizza ed evoca l’intervento di monociti e macrofagi, che a loro volta producono interleuchine, ROS, liberano enzimi del processo infiammatorio (collagenasi, elastasi, metalloproteasi) e FGF (fattore di crescita dei fibroblasti). Tutto ciò comporta il tipico danno da infiammazione con distruzione del tessuto, liberazione di enzimi proteolitici, distruzione della matrice extracellulare e danno cellulare. Nel caso specifico del polmone c’è la distruzione dei setti interalveolari che comporta l’enfisema polmonare, in cui c’è insufficienza respiratoria. La distruzione dei setti viene compensata dalla produzione del fattore di crescita che induce proliferazione dei fibroblasti con conseguente fibrosi. La fibrosi rallenta ulteriormente gli scambi, causando così una severa riduzione della capacità respiratoria (pneumopatia cronica ostruttiva). Molto spesso la si confonde con la silicosi, causata dall'esposizione prolungata al biossido di silicio in forma cristallina (è possibile distinguere la pneumoconiosi dalla silicosi in quanto nella silicosi oltre a segni tipici della fibrosi si possono evidenziare anche sintomi legati alla liberazione di mediatori chimici come l’istamina che causano affanno).

ACCUMULO DI FERRO Il ferro lo introduciamo essenzialmente con il cibo. Il ferro è assorbito attraverso l’alimentazione in due forme: ferro emico, che è quello più frequente, e non emico, che è il ferro metallico che viene assorbito coniugato ad una proteina, la mucina. Il ferro emico passa direttamente attraverso le membrane, invece il ferro non emico richiede un meccanismo complesso che coinvolge un recettore specifico, il DMT1.

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In ogni caso il ferro, una volta entrato all’interno della cellula, viene coniugato ad una proteina chiamata mobil-ferrina. Questa tiene bloccato il ferro ed impedisce che questo se ne esca immediatamente e si leghi alla ferritina per essere trasportato ai tessuti periferici. Ciò avviene perché, nel caso in cui il ferro fosse in quantità eccessivo, esso verrebbe trasportato e depositato ad un’eccessiva velocità, quindi si andrebbe a depositare nei tessuti periferici, determinando fenomeni di accumulo. L’espressione della mobil-ferrina e della ferritina è regolata dalle IBP (Iron Binding Protein), presenti nel duodeno e nell’intestino, che funzionano da fattori di trascrizione. Una volta entrato all’interno della cellula il ferro viene successivamente coniugato con la transferrina, mentre la mobil-ferrina viene riciclata e utilizzata per l’assorbimento di nuovo ferro (una parte viene anche liberata direttamente nel sangue attraverso la morte cellulare, sotto forma di ferro ionico). La transferrina, a questo punto, viene captata da un recettore specifico e, una volta all’interno della cellula, viene separata dal ferro e riutilizzata. Il ferro, invece, si lega con alta affinità alla ferritina che è all’interno delle cellule (avviene uno scambio tra transferrina e ferritina). La ferritina a sua volta viene degradata nei lisosomi e quello che rimane in circolo è il ferro trivalente che può raggiungere tessuti vari, come il midollo osseo per la sintesi di emoglobina e il muscolo per la sintesi di mioglobina. Gli elementi che favoriscono l’assorbimento di ferro sono la vitamina C, l’acido citrico, gli zuccheri e gli amminoacidi (perché il ferro per il suo assorbimento utilizza trasportatori analoghi). Gli elementi che contrastano l’assorbimento di ferro sono il tannino (presente nel vino rosso e in alcuni frutti), i fosfati (tampone più rappresentato nel corpo umano), i carbonati e gli ossalati. La transferrina arriva alle cellule che hanno recettori specifici, il ferro si stacca dalla transferrina (che viene riutilizzata o sintetizzata) e la ferritina viene degradata nei lisosomi. In questo modo il ferro può essere utilizzato, ad esempio, nella sintesi dell’eme. Il ferro è presente in maggior quantità nell’uomo (3,5 gr) rispetto alla donna (2,5 gr). La concentrazione totale di ferro è 3450 mg/dl nell’uomo, 2450 mg/dl nella donna. di cui:

- 2100 mg/dl nell’emoglobina nell’uomo, 1750 mg/dl nella donna; - 300 mg/dl nella mioglobina nell’uomo, 250 mg/dl nella donna; - 1000 mg/dl immagazzinati nell’uomo, 400 mg/dl nella donna.

Il ferro è legato alla ferritina: il 25% lo ritroviamo nella milza, nel midollo osseo e nelle cellule di Kupfer del fegato. La sideremia normale nell’uomo è 75 mg/dl, nella donna è di 60 mg/dl. Quando ci sono disturbi della sideremia, perché vengono distrutte in maniera eccessiva le cellule ematiche, oppure perché c’è un apporto eccessivo di ferro, dovuto ad esempio alle trasfusioni, si può avere un accumulo di ferro. Si può avere un accumulo di ferro che si traduce in emosiderosi o emocromatosi. Nello specifico, la sostanza che si accumula è l’emosiderina, un pigmento giallo oro, contenente ferro derivato dall’emoglobina. L’emosiderina è rappresentato da aggregati di acido sialico, porfirina ma soprattutto ferritina, che può essere presente in condizione nativa (raramente) o degradata. È normale, quindi, che sia presente in tutte quelle cellule impegnate nel catabolismo dei globuli rossi, come i fagociti e le cellule del sistema reticolo endoteliale. Ci può essere un accumulo localizzato temporaneo nei siti di emorragia ed un accumulo sistemico per cui si può parlare di emosiderosi (accumulo nei macrofagi, nel parenchima epatico, nel pancreas, nel cuore e nelle ghiandole endocrine) o emocromatosi. L’emosiderosi è inizialmente asintomatica, comincia ad essere problematica quando si accumula in organi specifici, come la pelle, il pancreas e il rene in particolare. Le cause dell’accumulo di ferro sono:

- maggiore assorbimento intestinale, come può succedere nel corso di anemie emolitiche, emorragie interne, o nei soggetti politrasfusi affetti da talassemie (i pazienti arrivano ad un’età avanzata e in genere non muoiono per i problemi legati all’anemia, ma per l’accumulo di ferro anche se si utilizza un chelante del ferro, il desferal, che ha apportato un miglioramento drammatico delle condizioni di vita di questi pazienti);

- malattie emolitiche; - anemie da eritropoiesi inefficace; - cirrosi alcolica.

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L’emocromatosi è quella condizione che si manifesta quando la quantità totale del ferro supera i 20 gr. È una malattia genetica che prevede una forma primitiva ed una secondaria. Nella forma primitiva c’è la mutazione di una proteina, che deriva dal gene HFE (legato al sistema maggiore di istocompatibilità e caratterizzato da mutazioni specifiche), che è collocato sul cromosoma6. La proteina HFE mutata non assorbe più correttamente il ferro legato a transferrina a livello del duodenale e ciò comporta un aumento dell’espressione della proteina DMT-1 e quindi una maggiore internalizzazione del ferro libero (non legato a transferrina ma alla mucina). Ciò porta ad un accumulo di emosiderina in vari organi (ne risultano danneggiati soprattutto il fegato, il pancreas, i polmoni ed il sistema endocrino). Il danno ovviamente non è dovuto all’accumulo in sé ma alla reazione infiammatoria scatenata dall’accumulo. Quando si ha un innesco da parte di sostanze inorganiche, come in questo caso di ferro, la prima cosa da fare è rimuovere la causa e poi controllare la reazione al danno (fibrosi). La fibrosi può dare effetti diversi a seconda dell’organo colpito:

- la fibrosi nel pancreas può portare alla soppressione delle isole di Langerhans e al diabete; - la fibrosi nel cuore può portare ad insufficienza cardiaca; - la fibrosi nei polmoni può portare a siderosi (caratteristica infiltrazione scura che si ritrova al livello

dei sepimenti polmonari). Una cosa simile succede a livello della cute (dove c’è iperpigmentazione) e del sistema endocrino. Una delle conseguenze che si possono avere, in caso di accumulo sia a livello polmonare che epatico, è la trasformazione neoplastica. Nel fegato, ad esempio, il ferro aumenta la produzione di ROS, i quali inducono ossidazione lipidica e rottura dei lisosomi, e quindi necrosi cellulare. Il ferro, inoltre, induce la sintesi di collagene (di tipo 1 e di tipo 4) e infiltrazione di fibroblasti, catalizzano l’idrossilazione della prolina, e quindi inducono la fibrosi. La necrosi insieme alla fibrosi porta ad una disorganizzazione della struttura, che nel caso del fegato si chiama cirrosi epatica. Il ferro, inoltre, interagisce con il DNA (come tutti i metalli pesanti, infatti si utilizza il platino per la terapia dei tumori) e ciò:

- inibisce 2 proteine, NEIL1 e NEIL2, che sono DNA-glicosilasi coinvolte normalmente nel riparo del DNA. In presenza di alterazioni di queste proteine si ha una riparazione anomala e quindi trasformazione neoplastica;

- produce ROS, che portano a morte cellulare. ACCUMULO DI RAME La malattia di Wilson è una malattia genetica che causa l’accumulo di rame e colpisce il sistema nervoso e il fegato. È caratterizzata dalla mancanza di ceruloplasmina, o dall’incapacità della ceruloplasmina di legare il rame (la ceruloplasmina è l’enzima che trasporta il rame). Il gene del morbo di Wilson è localizzato sul cromosoma 13 e codifica per l’ATPasi che opera come carrier del rame, che è appunto la ceruloplasmina. Quindi se manca la cerulopasmina o l’ATPasi che ne regola l’incorporazione, non si ha l’efficace eliminazione del rame. Questo si accumula in tutto l’organismo e anche nel sistema nervoso e di conseguenza ci possono essere disturbi nervosi di varie entità, ma soprattutto, dopo un periodo di circa 8-10 anni, ci possono essere ittero, ascite, aumento delle transaminasi, fino a insufficienza epatica associata a ittero colestatico. Tipici segni visibili sono:

- l’anello Kayser-Fleischer, formazione circolare di color bruno-verdastro alla periferia dell’occhio; - accumulo di colore bluastro nella lunetta dell’unghia.

La malattia di Wilson non è molto diffusa. ACCUMULO DI CALCIO: CALCIFICAZIONI PATOLOGICHE Il calcio è una componente importante del plasma che può però accumularsi e causare calcificazioni patologiche. La calcificazione patologica rappresenta una condizione di accumulo di calcio in una sede in cui normalmente non si verifica accumulo di calcio, quindi in tessuti non ossei. Si distinguono in calcificazioni distrofiche e metastatiche.

Le calcificazioni distrofiche (o ectopiche) si osservano in soggetti privi di alterazioni dei livelli sierici di calcio in corrispondenza di lesioni di varia natura, come esiti di una cicatrice, di un danno tissutale e conseguenze di una necrosi, sia cellulari che extracellulari. Esempi tipici sono calcificazioni successive ad aterosclerosi e a tubercoli. In questo tipo di calcificazione, c’è normocalcemia e tessuto danneggiato.

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Le calcificazioni metastatiche, invece, si presentano in tessuti sani che non dovrebbero essere calcificati, e ad esempio nel rene si possono osservare cristalli di calcio che compromettono la funzione filtrante. Livelli elevati di calcio nel sangue si possono presentare in caso di metastasi osteolitiche (conseguenti a diversi tumori, specialmente della prostata), oppure in caso di iperparatiroidismo; livelli elevati di calcio possono provocare danni nei vasi, reni, polmoni e anche alla mucosa gastrica. In questo tipo di calcificazione, c’è ipercalcemia e tessuto sano.

Livelli elevati di calcio nel sangue si riscontrano in caso di: - Iperparatiroidismo; - Riassorbimento osseo accentuato, che si verifica nei tumori ossei o nelle metastasi osteolitiche, perché le metastasi distruggono il tessuto osseo e i cristalli di calcio vengono messi in circolazione; - Intossicazione da vitamina D (la cui forma attiva, il calcitriolo, aumenta l'assorbimento di calcio a livello intestinale e renale, attiva il riassorbimento dell'osso e favorisce il rilascio di calcio nei fluidi extracellulari); - Sarcoidosi (malattia idiopatica del tessuto connettivo); - Insufficienza renale. Le calcificazioni possono essere osservate nelle radiografie e classificate come esiti di deposito di calcio: sono fondamentalmente il segno di una lesione che è evoluta in qualche maniera.

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AMILOIDOSI Le amiloidosi sono malattie caratterizzate dalla deposizione di proteine extracellulari, organizzate sotto forma di fibrille di foglietti β pieghettati, definiti amiloide. L’amiloide, nonostante l’eterogeneità delle proteine che lo compongono, presenta una struttura costante: si compone di foglietti che, indipendentemente dalle proteine da cui derivano, sono sempre tutti uguali (hanno lo stesso orientamento, un periodo di 7 angstrom, il lato minore di 4,7 angstrom, sono alti 10 angstrom). Questi foglietti pieghettati finiscono per assemblarsi e formare delle fibrille, che si attorcigliano tra loro a formare una sostanza estremamente compatta e completamente inattaccabile dagli enzimi proteolitici, quindi si deposita tra cellula e cellula andando a compromettere la vascolarizzazione del tessuto e ad innescare reazioni di tipo infiammatorio cronico. È una malattia che riguarda il folding delle proteine, che normalmente dipende dalla reattività dei gruppi laterali e porta alla formazione di proteine più stabili dal punto di vista energetico. La proteina che si ripiega correttamente va incontro alla normale funzione e al normale metabolismo, quella che invece presenta delle mutazioni o alterazioni sotto effetto di condizioni ambientali sfavorevoli (come alterata proteolisi, alterazione della temperatura o del pH, ioni metallici, aumento dei ROS), può andare incontro ad aggregazioni, che inizialmente portano alla formazione degli oligomeri o protofibrille; queste, in presenza di glicosamminoglicani, si aggregano a formare la SAP, cioè la Serum Amylod Protein, componente fondamentale dell’amiloide (questa può andare incontro ad ubiquitinazione ed essere eliminata in assenza di fattori di protezione). La SAP rappresenta un template su cui vanno tutte le altre proteine che finiscono per assumere la stessa struttura, trasformandosi in amiloide. Le cause della formazione dell’amiloide sono:

- Proprietà intrinseche della proteina, che si aggravano con l’età o con la concentrazione; - Sostituzione di un amminoacido nella proteina; - Rimodellamento proteolitico del precursore proteico; - Fattori locali ed interazione con la matrice extracellulare.

L’accumulo sistemico di amiloide sconfina nell’amiloidosi. All’esame anatomo-patologico, l’amiloide appare come una sostanza apparentemente amorfa che si colora di rosa all’ematossilina ed eosina, mentre con il rosso congo assume un colore caratteristico che vira al verde con la luce polarizzata. L’amiloide determina danni parenchimali essenzialmente per compressione dei vasi ma anche per induzione all’apoptosi cellulare (infatti le cellule perdono il contatto fra di loro per l’interposizione di questa massa e ciò induce l’apoptosi); riempiendo gli stromi, determina inoltre l’ingrossamento degli organi. CLASSIFICAZIONE DELLE AMILOIDOSI Le amiloidosi si possono classificare in base:

- Natura della proteina dell’amiloide; - Se la malattia è acquisita o ereditaria (amiloidosi genetica o familiare); - Distribuzione anatomica dei depositi di amiloide (amiloidosi organo specifica).

Un altro metodo di classificazione le distingue in: - amiloidosi primarie (non associate ad altre malattie); - amiloidosi secondarie (coesistente o conseguente ad altre malattie sistemiche); - amiloidosi familiari (dette anche ereditarie); - amiloidosi d’organo. Ci sono caratteristiche comuni ad ogni tipo di amiloidosi:

Componente P dell’Amiloide(AP), proteina pentagonale presente in tutti i tipi di amiloide che deriva dall’amiloide P sierica (SAP). SAP è un accumulo di proteine che derivano dalla degradazione delle membrane che porta alla distruzione della cellula, per cui si formano questi grossi aggregati proteici nel siero;

Molecole costitutive delle membrane basali, come la laminina, il collagene di tipo IV e il perlecano (un proteoglicano eparan-solfato);

Apoproteina E, costituente proteico delle HDL.

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In base alla natura chimica dell’amiloide, ci sono vari tipi di amiloidosi: - Amiloide AL, derivata dalle catene leggere κ e λ delle immunoglobuline, associata ad un’alterata funzione dei linfociti B e prodotta dalle cellule Ig secernenti; - Amiloide AA, associata a stati infiammatori cronici, che non deriva dalle immunoglobuline ma dalla SAA (sieroamilioide A, o proteina precursore dell’amiloide), variante della proteina C reattiva (PCR) secreta da uno pseudo gene collegato con la risposta al danno nell’infiammazione cronica; - Prealbumina A (derivata dalla transtiretina mutata, proteina che nella forma normale è deputata al trasporto degli ormoni tiroidei), rinvenuta nelle polineuropatie familiari (FAP); - Amiloide Aβ2M (derivata dalla β2-microglobulina mutata), che si osserva negli emodializzati. - Amiloide AE (derivata da precalcitonina, insulina e porzioni di ormoni peptidici), che si osserva nei tumori endocrini. MALATTIE LEGATE ALL’AMILOIDOSI

Le malattie causate da amiloidosi sono: - malattie tipiche dell’invecchiamento, come il morbo di Alzheimer e l’amiloidosi cardiaca; - malattie ereditarie, come la polineuropatia idiopatica familiare e la polimialgia reumatica;

Le malattie che causano amiloidosi come effetto collaterale sono: - malattie granulomatose, come tubercolosi, osteomieliti, ascessi e artriti; - malattie di origine neoplastica, come il carcinoma renale e morbo di Hodgkin, il plasmocitoma e il linfoma immunoblastico, il carcinoma midollare della tiroide, insulinoma, secretinoma e altri tumori endocrini.

In base alla localizzazione, si parla di:

- Amiloidosi di origine autoimmune: caratterizzate da una seria di lesioni quali la macroglossia, lesioni cutanee, disturbi della motilità intestinale, sindrome del tunnel carpale e neuropatia a “guanto e calza”.

- Amiloidosi renale: il rene in genere si presenta macroscopicamente dilatato e pallido, invece, microscopicamente è caratterizzato da una prevalenza di depositi di amiloide AA soprattutto a livello dei glomeruli.

- Amiloidosi splenica: si formano depositi di amiloide AA che si localizzano nei follicoli splenici (milza a salsiccia di sagù) o nella parete dei seni splenici (milza di lardo).

- Amiloidosi localizzata nel cuore, fegato e ghiandole endocrine: gli organi appaiono dilatati e con depositi di amiloide intorno alla parete dei vasi, che comporta compressione dei vasi, riduzione della portata di sangue, condizioni di anossia, il turnover delle cellule è rallentato, per cui si ha in genere un’atrofia da compressione.

Le conseguenze cliniche possono essere le più disparate, infatti l’amiloidosi può essere totalmente asintomatica oppure fatale. Il quadro clinico iniziale è spesso aspecifico con astenia, malessere generale, mentre sintomi più specifici compaiono più tardi, spesso associati all’interessamento renale, cardiaco o gastroenterico. La diagnosi prevede l’analisi anatomopatologica tramite biopsie. MODELLO PATOGENETICO In alcuni casi le plasmacellule producono un eccesso di catene k o λ, in altri uno stimolo infiammatorio, stimolando i fattori di trascrizione della proteina C reattiva (PCR) e delle altre proteine della fase acuta, porta ad una iperproduzione di IL1 che stimola il fegato a produrre SAA (il precursore dell’amiloide sierica). Sia le catene k o λ sia SAA vengono degradate a livello del sistema reticolo endoteliale e portano alla formazione di AA o AL. In altri casi un eccesso di pre-calcitonina, insulina, e altri ormoni, sono degradati nei lisosomi delle cellule tumorali e portano alla deposizione di AE. AA, Al, AE incontrano lo stampo SAP, normalmente presente nel plasma ma notevolmente aumentato nel corso di infiammazioni (ad esempio con un tumore o una malattia degenerativa); si associano ai vari glicosamminoglicani e assumono tutti la stessa struttura β fibrillare, costituendo l’amiloide.

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IL MORBO DI ALZHEIMER L’amiloidosi senile è quella associata all’invecchiamento. Questo tipo di amiloidosi interessa soprattutto il cuore e il cervello, per cui si parla di amiloidosi cardiaca senile (con depositi di transtiretina) e di amiloidosi cerebrale senile (con depositi di β-2-amiloide). Il morbo di Alzheimer è collegato all’amiloidosi cerebrale senile e altro non è che una demenza che si manifesta intorno ai 50-55 anni che porta a una degenerazione cerebrale. La β-2-amiloide è una molecola che deriva da una proteina che si chiama APP (Amyloid Precursor Protein), proteina che si localizza sulla membrana dei neuroni, la cui funzione non è ancora nota (potrebbe servire a proteggere e a conferire plasticità). L’APP è una proteina di membrana con un dominio C-terminale rivolto sul lato citoplasmatico, un dominio trans-membrana e un dominio molto grande rivolto sul lato extracellulare. Questa proteina va incontro ad un fenomeno di proteolisi selettiva catalizzata da tre proteasi dette secretasi: α, β e ɣ (coinvolte nel processing della proteina APP la quale sembrerebbe una proteina precursore dell’amiloide).

α-secretasi taglia la proteina APP a pelo della membrana lasciando solo un pezzetto di 3 KDa fuori dalla membrana, che a causa del suo peso, è scarsamente amiloidogenetico;

in altri casi interviene la β-secretasi (detta anche BACE-1), che però ha lo svantaggio di tagliare un po’ più lontano dalla membrana, quindi un pezzo di circa 40 KDa, altamente amiloidogenetico;

qualsiasi taglio sia stato effettuato (da α o β-secretasi), interviene la ɣ-secretasi che, sempre attiva, rimuove il pezzo tagliato che viene metabolizzato.

Il pezzo da 40 KDa è altamente appiccicoso, tende facilmente ad aggregarsi e quindi è altamente amiloidogenetico. Ci sono delle mutazioni puntiformi che cancellano il sito dell’α-secretasi, per cui può funzionare solo la β-secretasi e il rischio di incidenza per il morbo di Alzheimer aumenta. Lo stress ossidativo a carico del sistema nervoso è un induttore della β-secretasi (che dovrebbe agire come un meccanismo di protezione ma in realtà provoca danni) ed è alla base dei traumi cranici sia emorragici che ischemici. Inoltre pare che ci sia un incremento dell’espressione di questa proteina con l’invecchiamento. PRIONI I prioni, dal punto di vista della patogenesi, ricordano l’amiloidosi poiché sono in grado di effettuare una modificazione proteina-proteina. Il prione è una proteina normalmente presente nelle membrane e responsabile, quando mutata, di una serie di malattie: -nell’uomo: malattia di Creutzfeld-Jacob, sindrome di Gerstmann-Straussler, insonnia familiare fatale; -negli ovini: scrapie; -nei bovini: encefalopatia spongiforme bovina (BSE) o morbo della mucca pazza. I prioni inizialmente sono delle proteine a α-elica, mentre quando sono mutati generano un aggregato SC (scrapie), in cui alla struttura a α-elica si associa la struttura a β-foglietto che ha la capacità di propagarsi, dando origine ad aggregati amiloidi che determinano danni da compressione con degenerazione del tessuto extracellulare.

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GLICOGENO I polimeri del glucosio sono: - l’amiloso, polimero lineare con legami α-1,4; - l’amilopectina (sta nelle cellule vegetali), polimero ramificato simile al glicogeno, con legami α-1,4 e α-1,6; - la cellulosa (tipica delle piante), polimero lineare con legame β-1,4; - il glicogeno, polimero ramificato costituito da unità di glucosio che legate con legami α-1,4-glicosidici, a costituire le catene lineari, e legami α-1,6-glicosidici, a costituire le ramificazioni (distanziate 12-14 residui lungo le catene α-1,4). La ramificazione consente una più rapida degradazione e dona una maggiore solubilità. La molecola lineare è invece una struttura poco solubile che può innescare fenomeni di reazione di infiammazione cronica da corpo estraneo. Il glicogeno lo troviamo in grossa misura nel fegato e nel muscolo. Piccole quantità sono presenti anche nel rene. Il fegato, dove abbiamo un terzo del glicogeno totale, provvede al fabbisogno dell’intero organismo perché il glucosio da esso prodotto può uscire dalla cellula e raggiungere i tessuti che ne necessitano: è responsabile del controllo della glicemia. I depositi epatici di glicogeno sono appena sufficienti a mantenere stabile la concentrazione plasmatica di glucosio per 1 ora di digiuno: quindi, dopo ore di digiuno o durante la notte, la riserva di glucosio si esaurisce e il glucosio ematico viene rifornito dalla glicogenolisi e dalla gluconeogenesi.

- La glicogenosintesi è il processo che porta alla formazione di glicogeno a partire dal glucosio e che viene effettuato principalmente nel fegato e nel muscolo scheletrico.

- La glicogenolisi è il processo catabolico attraverso il quale il glicogeno viene progressivamente degradato per fornire il glucosio necessario ai fabbisogni energetici cellulari.

Questi due processi sono strettamente regolati per cui quando uno è attivo, l’altro è inibito. GLICOGENOSINTESI La glicogenosintesi è un processo che avviene nel citoplasma delle cellule del fegato e dei muscoli e consiste nella conversione del glucosio in glicogeno: si forma prima un glicogeno lineare che successivamente viene ramificato nella sua struttura definitiva dall'azione di uno specifico enzima ramificante. Per iniziare il processo di sintesi, il glucosio penetra nella cellula e viene convertito in glucosio-6-fosfato: la reazione è catalizzata da enzimi come l’esochinasi o la glucochinasi (quest’ultima presente nel fegato e specifica per il glucosio). Il Glu-6-P è convertito in Glu-1-P con una reazione catalizzata dalla fosfoglucomutasi. Il Glu-1-P è il substrato di una reazione importante che lo trasforma in un composto attivo, l’UDP-glucosio (uridinadifostato-glucosio, forma attiva del glucosio) rendendolo in grado di trasferire unità glicosidiche: questa reazione è catalizzata dall’enzima UDP-glucosio pirofosforilasi. A questo punto l’UDP-glucosio viene portato all’estremità non riducente della catena di glicogeno a cui cede il residuo glicosidico, formando un legame α-1,4: la catena di glicogeno è allungata di un’unità. La reazione è catalizzata dalla glicogeno sintasi. La glicogeno sintasi, per poter sintetizzare il glicogeno ex-novo, necessita di primer di innesco rappresentato dalla glicogenina (ricca di tirosina), a cui viene legata la prima molecola di glucosio, che deriva dall’UDP-glucosio: la glicogenina stessa catalizza questa reazione fino ad aggiungere 8 unità di glucosio; dopodiché comincia l’azione della glicogeno sintasi. La formazione delle ramificazioni nella catena di glicogeno è opera dell’enzima ramificante che trasferisce un frammento terminale di 6 o 7 residui di glucosio di una estremità non riducente di una catena di almeno 11 residui in un punto più interno della stessa o di un’altra catena. GLICOGENOLISI La glicogenolisi o demolizione del glicogeno necessita dell'azione di tre enzimi:

- la glicogeno fosforilasi; - l’enzima deramificante; - la fosfoglucomutasi.

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La glicogeno fosforilasi idrolizza il glicogeno staccando residui di glucosio dall’estremità non riducente del glicogeno, formando Glu-1-P. La sua attività si ferma a 4 residui a causa della presenza delle ramificazioni. Interviene quindi l'enzima deramificante (il cui compito è quello di rimuovere le ramificazioni del glicogeno permettendo alla reazione della glicogeno fosforilasi di andare a compimento): trasferisce 3 residui dalla ramificazione all’estremità non riducente della catena principale; poi usa la sua attività glicosidasica per idrolizzare e staccare il glucosio dal glicogeno. L’enzima fosfoglucomutasi catalizza la reazione che converte il Glu-1-P prima in Glu-1,6-BP e poi in Glu-6-P. Il Glu-6-P prodotto nel muscolo può solo entrare nella glicolisi per essere utilizzato per scopi energetici. Il Glu-6-P formato nel fegato non entra nella glicolisi ma è trasportato nel lume del reticolo endoplasmatico (grazie al trasportatore T1 o traslocasi) dove viene convertito dall’enzima glucosio-6-fosfatasi in glucosio: il glucosio ed il gruppo fosfato (Pi) sono trasportati al citosol rispettivamente da T2 e T3. Il glucosio, libero nel citoplasma, lascia l’epatocita mediante GLUT2 ed entra nel circolo sanguigno, tenendo sotto controllo i livelli di glicemia. REGOLAZIONE Glicogeno sintetasi e glicogeno fosforilasi sono regolati in maniera allosterica o covalente da vari fattori a livello del muscolo o del fegato. La glicogeno sintetasi è stimolata dal Glu-6-P e insulina a livello del muscolo e del fegato; è invece inibita dall’adrenalina e dal glucagone. La glicogeno fosforilasi è stimolata dall’adrenalina e dall’AMP a livello del muscolo, dal glucagone a livello del fegato; è invece inibita dall’eccesso di glucosio e insulina.

Adrenalina e glucagone stimolano la degradazione del glicogeno in questo modo: - l’ormone si lega al suo recettore di membrana; - Il legame dell’ormone induce cambi conformazionali nel recettore che attivano una proteina G, che interagisce con l’adenilatociclasi, proteina di membrana che sintetizza cAMP a partire da ATP; - cAMP attiva la proteina chinasi A (PKA); - PKA fosforila la fosforilasi chinasi che attiva la glicogeno fosforilasi e, contemporaneamente, inibisce l’enzima fosfatasi 1 (PP1). Quando l’ormone non è più presente tutta la via si interrompe, le fosfodiesterasi idrolizzano cAMP ad ATP e PP1 defosforila la fosforilasi chinasi e la glicogeno fosforilasi, inattivandola.

Glucosio e insulina, invece, stimolano la sintesi di glicogeno attivando PP1 che defosforila la glicogeno sintasi, rendendola attiva.

In definitiva, la PP1 stimola la sintesi del glicogeno e ne inibisce la degradazione. GLICOGENOSI Le glicogenosi sono malattie congenite causate da difetti del metabolismo del glicogeno. Si trasmettono con carattere autosomico recessivo (l’incidenza è di 1 su 25.000 nati vivi). Quando uno degli enzimi coinvolti nel metabolismo del glicogeno è alterato si verificano una serie di disordini metabolici. Sono note varie forme (di cui la I, II, III e IV sono le più frequenti):

GLICOGENOSI DEFICIT ENZIMA ORGANI COLPITI

I Von Gierke Glu-6-P fosfatasi (1a) Trasportatore del Glu-6-P (1b)

Fegato

II Pompe α-1,4 glucosidasi lisosomiale Muscolo (cuore)

III Cori Enzima deramificante Muscolo, fegato

IV Andersen Enzima ramificante Fegato

V McArdle Fosforilasi Muscolo

VI Hers Fosforilasi chinasi Fegato

VII Tarui Fosfofruttochinasi Muscolo

IX Fosforilasi chinasi Fegato

0 Glicogeno sintetasi Fegato

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Glicogenosi di tipo I La glicogenosi di tipo I, o malattia di Von Gierke, si manifesta in 2 forme: - forma 1a, dovuta al deficit della Glu-6-P fosfatasi, unico enzima in grado di convertire il Glu-6-P (derivante dalla glicogenolisi) in glucosio, presente solo nel fegato e in piccole percentuali nel rene; - forma 1b, dovuta al deficit del trasportatore del Glu-6-P (T1 o traslocasi) che veicola il glucosio al reticolo endoplasmatico. Questi deficit causano accumulo di Glu-6-P nel fegato perché esso non può essere trasformato in glucosio. La malattia non è comunissima (1 ogni 100.000 nati vivi): il bambino, fin quando viene allattato (l’allattamento è un tipo di alimentazione continuo e regolare, quindi il bambino non ha bisogno di sintetizzare glicogeno e di avere cioè un accumulo di glucosio), non presenta sintomi. Con lo svezzamento viene meno l’apporto costante di glucosio, inoltre, a causa del deficit enzimatico, il Glu-6-P non può essere defosforilato, quindi non può fuoriuscire dal fegato e così contribuire al controllo della glicemia. I sintomi che caratterizzano questo tipo di glicogenosi sono:

- ipoglicemia a digiuno, perché le riserve di glicogeno sono responsabili del mantenimento dei normali valori di glicemia durante la prima ora di digiuno. Con il digiuno prolungato o durante la notte il glucosio ematico viene rifornito tramite gluconeogenesi;

- epatomegalia; - difetti dell’accrescimento; - iperuricemia; - aumento dei corpi chetonici e degli acidi grassi.

Se non si procede con una terapia adeguata (che consiste in una alimentazione lenta e continua), si può arrivare a fenomeni degenerativi a carico del fegato (adenomi epatici intorno ai 20-30 anni).

Glicogenosi di tipo II La glicogenosi di tipo II, o malattia di Pompe, è la forma più grave. È causata dal deficit dell’enzima α-1,4 glucosidasi lisosomiale (enzima che sostituisce la glicogeno fosforilasi nel processo di glicogenolisi) per una mutazione del gene GAA. Il glicogeno finisce nei lisosomi probabilmente per una normale operazione di pulizia endoplasmatica. Nella malattia di Pompe viene bloccato il passaggio del materiale di scarto solubile (il glicogeno) dai lisosomi primari a quelli secondari, per cui c’è un accumulo di glicogeno (soprattutto nel cuore, nel muscolo scheletrico e nel fegato). Ce ne sono varie forme (in relazione al tipo di mutazione, quanto più è corto l’enzima, più è grave l’esito della malattia): - una severissima che porta il bambino alla morte prima dei 7-8 mesi; - una meno severa che porta il bambino alla morte verso i 5-6 anni; - una dell’adulto che si manifesta solo con forme di debolezza muscolare ma non è mortale. I sintomi sono cardiomegalia e ipotenia muscolare (che si traduce in un’insufficienza respiratoria). È stata studiata una terapia enzimatica sostitutiva che però ha presentato parecchi limiti.

Glicogenosi di tipo III La glicogenososi di tipo III, o malattia di Cori, è dovuta al deficit dell’enzima deramificante: la degradazione del glicogeno procede correttamente fino al momento della deramificazione, per cui inizia ad accumularsi. Gli organi colpiti sono il muscolo e il fegato. La sintomatologia è molto simile a quella del tipo I ma è più moderata perché comunque una parte di glicogeno viene degradata, fornendo quindi glucosio. I sintomi sono miopatia, ipoglicemia a digiuno, epatomegalia e ritardo della crescita.

Glicogenosi di tipo IV La glicogenosi di tipo IV, o malattia di Andersen, è un’altra forma mortale ma rarissima. Il deficit dell’enzima ramificante (coinvolto nella glicogenosintesi) causa un accumulo di catene lineari di glicogeno a livello del fegato che innesca un processo degenerativo che porta rapidamente alla fibrosi prima e alla cirrosi poi: il bambino muore in genere prima dei 2 anni per insufficienza epatica.

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Glicogenosi di tipo V La glicogenosi di tipo V, o malattia di McArdle, è causata dal deficit della glicogeno fosforilasi (non si produce più glucosio a partire da glicogeno). L’organo colpito è il muscolo: in genere si manifesta nei giovani adulti intorno ai 20-30 anni con intolleranza allo sforzo perché in condizioni di metabolismo basale i muscoli usano i lipidi e solo nello sforzo si attacca la riserva glucidica. I sintomi sono dolore e crampi molto forti soltanto durante lo sforzo muscolare e mioglobinuria (perdita di mioglobina nelle urine) da rabdomiolisi (distruzione della cellula muscolare striata).

Glicogenosi di tipo VI La glicogenosi di tipo VI, o malattia di Hers, è causata dal deficit della fosforilasi chinasi (enzima implicato nella regolazione della glicogenolisi che attiva l’enzima glicogeno fosforilasi coinvolto nella glicogenolisi). I sintomi sono simili alla glicogenosi di tipo I.

Glicogenosi di tipo IX La glicogenosi di tipo IX è causata dal deficit della fosforilasi chinasi e porta a epatomegalia e ritardo della crescita. La differenza con la glicogenosi di tipo VI sta nella modalità di trasmissione: il tipo IX è l’unica a trasmissione legata al cromosoma X, mentre le altre sono a trasmissione autosomica recessiva.

Glicogenosi di tipo 0 La glicogenosi di tipo 0 è causata dal deficit dell’enzima glicogeno sintasi (coinvolto nella glicogenosintesi) ed è rarissima. Colpisce il fegato. I sintomi sono ipoglicemia, chetonemia, convulsioni (ipoglicemia e lattacidemia dopo i pasti). MALATTIE GENETICHE DA DISMETABOLISMO DEI MONOSACCARIDI La fruttosuria essenziale è una malattia asintomatica dovuta al deficit dell’enzima fruttochinasi epatico: il fruttosio non viene trasformato in Fru-1-P e quindi non viene trattenuto e rimane nel sangue e nell’urina. L’intolleranza al fruttosio è dovuta al deficit dell’enzima Fru-1-P aldolasi che scinde il Fru-1-P in gliceraldeide e diidrossiacetone-fosfato nella via della glicolisi: il fruttosio si accumula nell’epatocita causando ipoglicemia e danno epatocellulare. GALATTOSEMIA Il galattosio è un epimero del glucosio che si ottiene dalla scissione del lattosio. Il galattosio viene convertito in galattosio-1-P grazie all’azione dell’enzima galattochinasi. Successivamente, il galattosio-1-P viene legato a una molecola di UDP-glucosio: il risultato di questa reazione è la formazione di Glu-1-P e UDP-galattosio catalizzata dall’enzima galattosio-1-fosfato uridiltransferasi. A questo punto l’UDP-galattosio viene convertito in UDP-glucosio grazie all’enzima UDP-galattosio-epimerasi. Si ha poi la conversione dell’UDP-glucosio in Glu-1-Pa opera della UDP-glucosio pirofosforilasi; il Glu-1-P, infine, viene convertito in Glu-6-P dalla fosfoglucomutasi. Quindi da una molecola di galattosio si hanno 2 molecole di Glu-6-P. I deficit enzimatici relativi al metabolismo del galattosio sono alla base di alcune patologie metaboliche note come galattosemie. La galattosemia è una rara e grave patologia metabolica che viene trasmessa per via autosomica recessiva causata dalla carenza di UDP galattosio-1-P uridiltranferasi (enzima che catalizza la formazione di Glu-1-P e UDP-galattosio a partire da galattosio-1-P e UDP-glucosio), che porta ad eccessivo accumulo di galattosio-1-P a livello ematico. Quando il galattosio-1-P si accumula, si trasforma in galattitolo, che gonfia le cellule per l’effetto osmotico (perché richiama acqua) fino a ucciderle. La diagnosi si fa dosando il galattosio nelle urine o diagnosticando il deficit dell’enzima. I sintomi sono: cataratta, epatomegalia, ittero, ascite, ritardo mentale e ritardo della crescita.

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DIABETE MELLITO Il diabete è una malattia caratterizzata da un'eliminazione di grandi quantità di urine particolarmente ricche di zuccheri (quando l’assorbimento del glucosio supera i 180 mg/dl, esso compare nelle urine). Altra definizione dice che il diabete è una malattia cardiovascolare che si diagnostica misurando la glicemia: è una malattia i cui danni sistemici e anatomopatologici più impegnativi sono sicuramente a carico dell'apparato cardiovascolare. Il diabetico è una persona che in due successive misurazioni a digiuno ha una glicemia superiore a 126 mg/dl (ad oggi la soglia di tolleranza è fissata a 110). In presenza di valori glicemici dubbi a digiuno si effettua il test di tolleranza al glucosio (curva da carico glicemico).

Questo esame si basa sulla somministrazione di una quantità fissa di glucosio (1 gr per ogni chilo di peso corporeo), a cui seguono piccoli prelievi ematici ad intervallo di tempo prestabiliti: prelievi prima e 2 ore dopo l'assunzione, oppure prima e dopo 30, 60, 90 e 120 minuti. Il riscontro di glicemia superiore a 200 mg/dl dopo 2 ore indica la presenza di diabete mellito anche se la glicemia a digiuno è inferiore a 126 mg/dl. Il riscontro di glicemia compresa tra 140-180 mg/dl dopo 2 ore indica la presenza di un’alterata tolleranza al glucosio: il paziente secerne insulina ma ha la pericolosa tendenza a non sopportare glucosio (può evolvere in diabete). Quando i livelli di glucosio nel sangue rilevati a digiuno da almeno 8 ore sono alti pur rimanendo al di sotto dei valori che sanciscono lo stato diabetico, si parla di alterata glicemia a digiuno (tipica delle donne in gravidanza, in cui la condizione regredisce con il

parto). La glicemia è un parametro strettamente controllato perché il glucosio serve al funzionamento del cervello e del cuore, e rappresenta la riserva energetica di prima disponibilità. Nulla riesce a dare ATP in quantità come l'idrolisi del glucosio. Ci sono 4 ormoni che regolano positivamente la glicemia e sono il glucagone, l’adrenalina, la noradrenalina e il cortisolo. L'insulina è l'unico ormone ipoglicemizzante che ha la funzione di controllare la glicemia. Il diabete è una sindrome metabolica caratterizzata da iperglicemia dovuta a:

­ alterazione della funzionalità dell'insulina; ­ difetto assoluto della secrezione insulinica; ­ riduzione dell'efficacia dell'insulina.

La conseguenza è un'elevata concentrazione glucidica che nel diabete grave può andare da 350-400 mg/dl, in quello moderato supera i 200 mg/dl, mentre nel soggetto normale (a digiuno, 60-99 mg/dl) rimane sui 140-150 mg/dl per poi scendere 2 ore dopo il pasto. INSULINA L’insulina è prodotta dalle cellule β delle isole di Langerhans del pancreas a partire da un precursore, una grossa molecola polipeptidica di circa 12000 Da che costituisce il pre-pro-ormone. Tale peptide subisce una riduzione idrolitica, dando vita ad un peptide di dimensioni minori (9000 Da), che è generalmente considerato il pro-ormone o pro-insulina. La pro-insulina, costituita da una catena di 86 aminoacidi, subisce un clivaggio in corrispondenza dei legami glicina-arginina da parte di un’arginina-peptidasi. In tal modo, vengono generati 2 peptidi, di cui uno di 51 amminoacidi che rappresenta l’insulina, mentre l’altro di 31 amminoacidi il peptide C (peptide di connessione).

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L’insulina è formata a sua volta da 2 catene peptidiche, rispettivamente chiamate α e β, unite tra loro da 2 ponti disolfuro intercatenari. L’insulina ed il peptide C libero sono confezionati nel Golgi in granuli secretori e, quando la cellula β è opportunamente stimolata, l'insulina è secreta dalle cellule per esocitosi. Una volta secreta, ha un’emivita rapida (circa 3-5 minuti) ed è inattivata a livello epatico e renale dalle insulinasi che scindono i ponti disolfuro. Il peptide C, secreto in quantità equimolecolari con l’insulina (per conoscere la quantità di insulina sintetizzata basta dosare la concentrazione di peptide C, che ha una maggiore emivita rispetto all’insulina), è sprovvisto di attività biologica e viene eliminato come tale dal rene. L'insulina è secreta principalmente in risposta a concentrazioni elevate di glucosio nel sangue, così come di amminoacidi e acidi grassi.

La secrezione dell’insulina è comunque controllata anche da neurotrasmettitori: adrenalina e noradrenalina inibiscono la secrezione di insulina, mentre l’acetilcolina, trasmettitore parasimpatico, ne stimola la secrezione.

Il trasporto intracellulare del glucosio è mediato da GLUT-2, un trasportatore insulino-indipendente presente nelle cellule β del pancreas: l’aumento di glucosio causa l’aumento della concentrazione di ATP (prodotto dal catabolismo del glucosio) che chiude i canali ionici del K+, depolarizzando la cellula. La depolarizzazione causa a sua volta l'apertura dei canali ionici voltaggio dipendenti del Ca2+ i quali, aprendosi, fanno sì che la concentrazione di calcio intracellulare aumenti. Il calcio funziona da messaggero intracellulare inducendo la fusione delle vescicole contenenti insulina con la membrana plasmatica e la conseguente secrezione di insulina all’esterno. Quando la glicemia diminuisce, le cellule β ritornano allo stato di riposo. I canali ionici del K+ ATP-dipendenti sono associati al recettore SUR1 delle sulfaniluree, farmaci utilizzati per il trattamento del diabete mellito di tipo 2 che agiscono a livello delle cellule β del pancreas, stimolandole a produrre maggiori quantità di insulina (le sulfaniluree non possono essere utilizzate nel trattamento del diabete mellito di tipo 1 perché le cellule β non sono integre e non possono essere stimolate). Le sulfaniluree si legano al recettore SUR1 inibendo un deflusso iperpolarizzante di potassio e, quindi, fa diventare più positivo il potenziale elettrico della membrana. Questa depolarizzazione apre i canali del Ca2+. L'aumento del calcio intracellulare conduce ad una maggiore fusione dei granuli dell'insulina con la membrana delle cellule e la sua secrezione, quindi, aumenta. L’insulina ha essenzialmente una funzione anabolica:

- attiva la rimozione del glucosio in circolo; - attiva la sintesi di glicogeno; - attiva la conversione del glucosio in lipidi; - attiva la conversione di acidi grassi in lipidi (può portare obesità in alcuni casi); - attiva la captazione degli amminoacidi da parte del fegato e del muscolo scheletrico, e quindi attiva

in questo modo non solo la funzione anabolica, ma anche la sintesi proteica. Per fare tutto questo deve avere un recettore, che non tutte le cellule hanno. Non tutti gli organi infatti sono insulino-dipendenti: il cervello, ad esempio, non ha il recettore dell’insulina, perché se c'è poco glucosio, questo deve entrare lo stesso (anche senza insulina) affinché il cervello possa funzionare; negli altri organi (muscolo striato, fegato, tessuto adiposo) se non c'è insulina, il glucosio non entra. Una volta che è avvenuto il legame con il recettore, produce una serie di effetti: ­ aumenta il trasporto del glucosio a livello del muscolo e del tessuto adiposo; ­ aumenta la lipogenesi a livello del fegato e del tessuto adiposo a partire dal glucosio e dagli acidi grassi; ­ aumenta la sintesi di glicogeno e inibisce la gluconeogenesi nel fegato; ­ aumenta la sintesi proteica in tutte le cellule attraverso la captazione degli amminoacidi da parte del fegato e del muscolo; ­ aumenta l’espressione genica, anche in questo caso in tutte le cellule; ­ riduce l'apoptosi, la morte cellulare programmata; ­ aumenta, in qualsiasi cellula, la sintesi del DNA. Ci sono anche enzimi la cui espressione è direttamente regolata a livello trascrizionale dall’insulina (c'è un promotore insulino-dipendente nella TATA-Box del loro gene): tra questi, la tirosina-amminotransferasi.

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RECETTORE DELL’INSULINA Il recettore dell'insulina (IR) è un recettore transmembrana appartenente alla famiglia dei recettori tirosin-chinasici ed è attivato dall'insulina. Tale recettore è espresso nei tessuti caratteristici della risposta insulinica, cioè nel fegato, nel muscolo striato e nel tessuto adiposo. IR è costituito da 2 subunità α extracellulari, bersaglio dell'insulina, legate con ponti disolfuro a 2 subunità β intracellulari, che hanno attività tirosino-chinasica.

Un esempio di recettore ad attività tirosino-chinasica è quello dell’EGF, uno dei fattori di crescita maggiormente coinvolti nella proliferazione del carcinoma alla mammella in cui il recettore è troncato e quindi privo del dominio che lega il ligando, per cui è permanentemente attivato.

Il legame dell'insulina determina l'avvicinamento delle due subunità β e ne permette l'autofosforilazione (transfosforilano in tirosina). Il recettore attivato può a sua volta aggiungere gruppi fosfati su determinate tirosine di specifici substrati che a loro volta possono attivarne altri e permettere così la propagazione del segnale con un effetto a cascata: la fosforilazione in tirosina ha il significato di rendere le proteine appiccicose (grazie all’interazione dei gruppi SH2) in modo che si leghino tra loro per consentire l'ancoraggio di enzimi e di altre proteine. La fosforilazione di molti residui di tirosina consente di interagire con la proteina IRS 1 (substrato del recettore dell'insulina). IRS 1, insieme alla subunità β del recettore, tramite l’adattatore SHC (proteina ricca di domini SH), interagisce a sua volta con GRB2, che:

stimola la via SOS/Ras/GAP (SOS trasforma GDP in GTP, che attiva Ras, GAP interviene per spegnere il segnale idrolizzando GTP in GDP) che attiva una MAP chinasi;

interagisce con la subunità regolatrice p85 della fosfatidilinositolo 3-chinasi (PI3K possiede sia la subunità regolatrice p85, sia quella catalitica p110). - PI3K fosforila il fosfatidilinositolo 4,5-difosfato e lo trasforma in fosfatidil-inositolo 3,4,5-trifosfato, che si lega alla chinasiPDK1 che attiva la via Akt/mTOR. Tale via innesca meccanismi di sopravvivenza, di resistenza all'apoptosi e permette la proliferazione della cellula; ma l'effetto più evidente innescato da questa via è la fusione delle vescicole citoplasmatiche contenenti GLUT-4 (insulino-dipendente) con la membrana plasmatica (grazie alla formazione dei lipid raft attraverso CBL), permettendo così alla cellula di assorbire più efficacemente il glucosio extracellulare.

CLASSIFICAZIONE DEL DIABETE Il glucosio che si accumula può dare origine a dei fenomeni intra ed extra-cellulari di degenerazioni che portano ad una serie di problemi gravi potenzialmente mortali. Si distinguono 2 tipi di diabete:

il diabete di tipo I, insulino-dipendente, detto anche diabete giovanile, causato dall’assenza di insulina per la distruzione delle cellule β del pancreas. Può essere immunomediato o idiopatico;

il diabete di tipo II, non insulino-dipendente, caratterizzato da una residua secrezione insulinica e da insulino-resistenza (i tessuti corporei resistono all’azione dell’insulina), che non dura per sempre e si trasforma in insulino-carenza perché le cellule β si esauriscono.

Se si disegna la curva di secrezione dell'insulina in relazione ad un pasto si osserva che: - in un soggetto normale, in un primo momento c’è secrezione dell'insulina preformata in grande

quantità, poi secrezione dell'insulina neosintetizzata; - in un soggetto affetto da diabete di tipo I, non c’è alcuna secrezione; - in un soggetto affetto da diabete di tipo II non c’è secrezione di insulina preformata. Non c’è un

immediato compenso insulinemico ma solo una liberazione più tardiva di insulina. EPIDEMIOLOGIA DEL DIABETE Il diabete di tipo I è una forma che si sta diffondendo negli ultimi anni, mentre il diabete di tipo Il è una forma presente in tutto il mondo, in netta prevalenza nei paesi dell'occidente. Tra gli anni ‘80 e il ‘96 si è avuto un incremento della morte dei soggetti diabetici per malattie cardiovascolari, che in questi pazienti si manifestano con maggiore gravità e precocità.

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DIABETE MELLITO DI TIPO I Il diabete mellito di tipo I è una malattia metabolica cronica risultante dalla progressiva distruzione delle cellule β pancreatiche. Il diabete di tipo I colpisce i bambini, fino ai 20 anni. I sintomi hanno inizio in genere dopo un’infezione virale, il bambino si ammala ma non si riprende bene: non mangia molto ma beve moltissimo, perché c'è la poliuria; l’effetto osmotico dell’iperglicemia, spinge l’acqua dal comparto extravascolare a quello intravascolare, il bambino ha sete e anche se mangia deperisce. A volte percepisce stupore ed a volte perde i sensi e va in uno stato di coma più o meno grave. Può essere uno stato di coma chetoacidoso, con urine con caratteristico odore di mela marcia. PATOGENESI DEL DIABETE DI TIPO I La teoria patogenetica attuale ipotizza un primo danno alle cellule β da parte di un agente infettivo o tossico in soggetti geneticamente predisposti. Il sistema immunitario, nella risposta contro l’agente invasivo, distrugge le cellule β. Il diabete di tipo I è quindi una malattia essenzialmente autoimmune. I soggetti geneticamente predisposti hanno particolari aplotipi del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), cioè non ci sono mutazioni di geni direttamente coinvolti nella secrezione dell’insulina o nella fisiopatologia del diabete, ma di geni connessi direttamente con il sistema immunitario. Si tratta, in particolare, di aplotipi del complesso MHC di classe II (di cui fanno parte le APC, quindi macrofagi, cellule dendritiche, linfociti B): DR3 e DR4.

Il complesso di geni MHC di classe II è implicato nel mostrare alle difese dell’organismo gli antigeni provenienti dallo spazio extracellulare.

Le cellule β pancreatiche vengono distrutte per un banale fenomeno di mimetismo molecolare: DR3 e DR4, in associazione con particolari antigeni virali, riescono a riprodurre una serie di proteine che sono presenti soprattutto sulle membrane delle cellule pancreatiche e quindi attivano una reazione immune. Siccome il sistema immune continua a riconoscere questi antigeni sulla membrana delle cellule pancreatiche, le distrugge completamente. Il diabetico di tipo I non è altro che il frutto della combinazione della suscettibilità genetica rappresentata da questi particolari aplotipi dell’MHC di classe II, insieme ad una condizione ambientale (in questo caso costituito da un virus). I virus implicati nella patogenesi del diabete di tipo I sono Coxsackie B, il virus della parotite virale e il virus della rosolia. Quando c’è una MHC in associazione con il peptide processato da uno di questi virus, il sistema immunitario confonde questo assemblaggio con antigeni di superficie delle cellule β pancreatiche: i linfociti T della classe Th1 inducono l'attivazione dei macrofagi, dei linfociti CD8+ e delle cellule NK (natural killer) che comporta (risposta cellulo-mediata): - liberazione di TNF-α e IFN-ɣ; - citotossicità da contatto (tramite perforine e granzime); - suicidio molecolare mediato dal sistema Fas/Fas-ligando Gli antigeni responsabili di questo meccanismo auto-immune sono definiti specificamente Anticorpi Anti-Insula (ICA), tra questi (risposta umorale): - anticorpi anti GAD65 (una decarbossilasi dell’acido glutammico), molto diffusi; - anti IA-2A (antigene 2 A dell’insulinoma); - anti GLIMA38; - anticorpi anti-recettore dell’insulina (rari); - anticorpi contro GLUT-2 (segno generico di un danno pancreatico). Quando manca l'insulina si riduce l'attività della glucochinasi epatica, si riduce la sintesi epatica di trigliceridi e glicogeno, si riduce la concentrazione di malonil-CoA, aumenta la carnitina palmitoil transferasi, aumenta il trasporto degli acidi grassi-CoA nei mitocondri, aumenta la produzione di acetil-CoA, si riducono le lipoproteine lipasi e aumenta la concentrazione di VLDL: come conseguenza di tutto ciò, c’è la formazione dei corpi chetonici. Questa è la vera differenza tra il diabete di tipo I e quello di tipo II: il diabete di tipo I finisce quasi sempre con il coma chetoacidosico.

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CHETOACIDOSI DIABETICA (O ACIDOSI METABOLICA) Nel diabete di tipo I, le cellule T effettrici riconoscono peptidi di proteine specifiche delle cellule β ed uccidono selettivamente questo tipo di cellule: le altre cellule sono intatte e non vengono significativamente danneggiate. Questo vuol dire che non viene più prodotta insulina, ma c’è comunque la produzione di glucagone che, normalmente inibito dall’insulina, si ritrova in concentrazioni altissime. Il glucagone controlla l'espressione genica della carinitinapalmitoil-CoA transferasi che trasferisce una grande quantità di acidi grassi nel mitocondrio. Quando i livelli di ossalacetato sono bassi, la cellula non può procedere col ciclo di Krebs: 2 molecole di acetil-CoA vanno incontro alla sintesi di acetoacetil-CoA. Aggiungendo all'acetoacetil-CoA un'altra molecola di acetil-CoA, si ottiene il β-idrossi-β-metilglutaril-CoA, il quale se viene sintetizzato nel citosol è uno dei primi intermedi della sintesi del colesterolo; se invece si trova nei mitocondri può andare incontro a lisi con la formazione di acetoacetato e acetil-CoA. L'acetoacetato può essere ulteriormente ridotto a β-idrossibutirrato o decarbossilato ad acetone. L’acetoacetato, il β-idrossibutirrato e l’acetone sono i corpi chetonici: il loro accumulo nel sangue, insieme all'iperglicemia e al deficit di insulina, determinano i sintomi caratteristici e le complicanze della chetoacidosi diabetica, che in situazioni estreme può rivelarsi addirittura fatale. Mentre l’acetone può essere eliminato con il respiro (l'alito di una persona colpita da chetoacidosi diabetica assume il tipico odore di frutta matura), l’acetoacetato e il β-idrossibutirrato sono eliminati attraverso il rene sotto forma di sale di sodio: questo porta il bicarbonato ad agire come tampone e abbassare il pH. La mancanza di insulina comporta un’assente internalizzazione di glucosio nelle cellule dei tessuti insulino-dipendenti. La cellula, non potendo ricavare energia dall’ossidazione del glucosio per via glicolitica, ricorre alla β-ossidazione degli acidi grassi, a cui consegue un accumulo di acetil-CoA che, non potendo entrare nel ciclo di Krebs (deregolato dai bassi livelli di ossalacetato consumato nella gluconeogenesi epatica), viene convertito in corpi chetonici che dal fegato, immessi in circolo, arrivano al muscolo, dove inizialmente vengono smaltiti attraverso il ciclo di Krebs che può funzionare grazie agli adeguati livelli di ossalacetato (viste le riserve di glicogeno e l’assenza di gluconeogenesi che avviene solo nel fegato). Esaurite le riserve di glicogeno muscolari, i corpi chetonici si accumulano in circolo: ciò causa una riduzione del pH ematico per accumulo di H+ derivanti dalla dissociazione dei corpi chetonici che sono acidi. L’accumulo di corpi chetonici, l’iperglicemia e il deficit di insulina causa la chetoacidosi diabetica. I sintomi sono vomito, disidratazione, poliuria (minzione frequente e copiosa), polidipsia (sete intensa), ipotensione, aritmie, respiro profondo ed ansimante, sonnolenza e stato confusionale fino al coma. DIABETE DI TIPO II Il diabete di tipo II è rappresentato da una minore capacità dei tessuti periferici di rispondere all’azione dell’insulina, perché si sviluppa una insulino-resistenza: il recettore dell’insulina IR non risponde più per colpa di mutazioni (raro) oppure, per disfunzione delle cellule β, c’è inadeguata secrezione di insulina. La caratteristica fondamentale del diabete di tipo II è comunque l’iperglicemia, in genere un po’ più bassa dispetto al diabete di tipo I. Il fenotipo del diabetico di tipo II è in genere un paziente obeso, con vita sedentaria, non necessariamente anziano (35 anni), che ha una predisposizione genetica. Nella prima fase della malattia l’insulino-resistenza è associata ad iperinsulinemia: siccome c’è una resistenza da parte dei tessuti periferici all’azione dell’insulina, il pancreas cerca di compensare secernendo più insulina; si ha l’aumento dei trigliceridi e del colesterolo LDL. L’iperinsulinemia causa l’esaurimento funzionale delle cellule β e di conseguenza l’aumento del glucosio in circolo. PATOGENESI DEL DIABETE DI TIPO II La patogenesi è multifattoriale: incide una vita sedentaria e l’obesità. In una persona soggetta continuamente ad iperalimentazione, si ha una sollecitazione continua della produzione di recettori dell’insulina, soprattutto nei soggetti obesi perché il tessuto adiposo è quello più insulino-dipendente. Quindi in un soggetto obeso ed iperalimentato ci sono più recettori continuamente sollecitati rispetto ad un soggetto normale. In un primo momento c’è una buona compensazione: alla sollecitazione corrisponde una enorme produzione di insulina (iperinsulinemia) che causa l’internalizzazione del recettore (soprattutto nel pancreas); ciò porta

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alla scomparsa del primo picco di insulina. Andando avanti la compensazione messa in atto dal pancreas non è più sufficiente perché non si ha una risposta adeguata, fino ad avere intolleranza e poi diabete. La presenza del tessuto adiposo complica le cose perché l’aumentata espansione della massa grassa porta ad un aumento cospicuo dei tessuti insulino-dipendenti, delle cellule e dei siti recettoriali dell’insulina e ad un aumento della domanda insulinica. Inoltre, un eccesso di cibo stimola a livello del tratto gastrointestinale la produzione di incretine (GLP peptide simile al glucagone, e GIP peptide indotto dalla glicemia). Queste, normalmente, aumentano la glicemia perché stimolano la gluconeogenesi e riducono l’assorbimento del glucosio. Sono controllate dall’enzima DPP4 che li trasforma in composti inattivi. Nei soggetti obesi, invece, per azione di adipochine e citochine del tessuto adiposo, viene inibito DPP4 e di conseguenza aumenta la produzione di incretine. Tra le adipochine, molto importanti sono la resistina, l’adiponectina e la leptina:

La resistina, prodotta a livello del tessuto adiposo, agisce su vari tessuti, in particolare cervello, fegato e muscolo, favorendo l’insulino-resistenza (gli ipoglicemizzanti orali agiscono riducendo la produzione di resistina, in modo che venga meno l’inibizione su DPP4 e che le incretine siano inattivate);

L’adiponectina agisce in maniera completamente opposta, perché riduce l’insulino-resistenza interferendo con la distruzione endoteliale generata dalle altre adipochine (leptina, resistina) e dai fattori infiammatori che normalmente si associano (TNF-α, peptide C, angiotensinogeno);

La leptina costituisce un segnale per i neuroni di primo ordine (che sono ad esempio nell’ipotalamo) e controlla la produzione dei peptidi NPY e POMC (pro-opiomelanocortina), i quali controllano l’appetito e l’introduzione di cibo.

INSULINO-RESISTENZA I geni responsabili dell’insulino-resistenza nel diabete di tipo II sono:

- geni che codificano per il recettore dell’insulina, sia la subunità α, sia la subunità β; - geni che codificano per il substrato del recettore dell’insulina (IRS-1); - geni che codificano per GLUT-4 (trasportatore del glucosio); - geni che codificano per il sensore del glucosio GLUT-2 (la sua attività è direttamente proporzionale

alla concentrazione di glucosio) del pancreas, che serve a regolare la secrezione dell’insulina in funzione del glucosio circolante;

- geni che codificano per RAD, proteina che inibisce l’internalizzazione del glucosio sequestrando GLUT-4.

Più che di mutazioni inattivanti si parla di polimorfismo (meccanismo di differenziazione di alcuni geni del DNA): se un soggetto ha uno stile di vita sano, pur essendo geneticamente predisposto, non svilupperà il diabete. Tutte queste alterazioni coinvolgono proteine incluse nella via di trasduzione del segnale dell’insulina. TNF-α ha un ruolo importante nella patogenesi del diabete di tipo II perché contribuisce all’insulino-resistenza. Esso interferisce alterando la via delle MAP chinasi che attiva JNK e la via di PI3K che attiva IKKβ. JNK e IKKβ fosforilano la serina 307 del recettore dell’insulina e inibiscono il segnale. Anche gli acidi grassi da parte loro fanno aumentare i livelli di DAG (diacilglicerolo) che vanno a stimolare le proteine chinasi C atipiche (come PKCθ) che a loro volta fosforilano la serina 307 del recettore dell’insulina. Con la fosforilazione della serina, si ha un blocco dell’autofosforilazione della tirosina 960 del recettore insulinico e quindi un blocco dell’azione dell’insulina. L’attivazione di JNK, a sua volta, induce l’espressione del TNF-α stesso, creando un loop che potenzia l’insulino-resistenza. In un soggetto sano, il tessuto adiposo contrasta l’azione del TNF-α con il rilascio di adiponectina; in un soggetto obeso si riduce l’adiponectina e prevale l’effetto di TNF-α. CONSEGUENZE DELL’IPERGLICEMIA E DELL’IPERINSULINEMIA L’iperglicemia è responsabile della microangiopatia diabetica perché comporta:

- la glicazione e l’ossidazione di lipoproteine, matrice e collagene;

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- alterazione della permeabilità vascolare. L’iperinsulinemia è causa delle complicanze macrovascolari, infatti determina:

- aumento della sintesi di VLDL; - aumento dei trigliceridi; - proliferazione di cellule endoteliali e della muscolatura liscia dei vasi; - ipertensione arteriosa perché l’iperinsulinemia, insieme all’iperglicemia, causa un aumento del

riassorbimento di acqua e sodio. Tutti questi fattori aumentano il rischio di patologie vascolari di tipo aterosclerotico. RICAPITOLAZIONE DELLA FISIOPATOLOGIA DEL DIABETE MELLITO DI TIPO I E II La fisiopatologia del diabete di tipo I prevede:

- Predisposizione genetica; - Processi autoimmuni; - Riduzione assoluta di insulina (distruzione delle cellule ß del pancreas).

La fisiopatologia del diabete di tipo II prevede: - Insulino-resistenza epatica; - Insulino-resistenza periferica; - Metabolismo difettoso del glucosio nel muscolo scheletrico; - Disfunzione delle cellule β del pancreas.

PRINCIPALI CARATTERI CLINICI DEL DIABETE DI TIPO I E DI TIPO II

DIABETE MELLITO DI TIPO I DIABETE MELLITO DI TIPO II

Aggregazione familiare Rara Molto frequente

Età insorgenza < 40 > 40

Fenotipo Magro Obeso

Insulinemia Bassa o indosabile Normale o elevata

Chetosi Presente Assente

Condizioni metaboliche Instabili Stabili

Terapia insulinica Costante Solo in fase avanzata

Associazione con HLA* o (MHC) Frequente Nessuna

Alterazioni immunitarie Presenti Assenti

*HLA: sistema dell’antigene leucocitario umano DIABETE MODY Il MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young) è una malattia geneticamente regolata, caratterizzata da deficit della secrezione di insulina, perché sono alterati i meccanismi che ne regolano la secrezione e i meccanismi di produzione dell’insulina stessa. In genere sono malattie monogeniche, poche sono poligeniche, con trasmissione autosomica dominante (con elevata penetranza). È un diabete giovanile che però si manifesta nell’adulto: questo fa capire che, pur essendo una malattia genetica, sono necessarie condizioni ambientali che ne determinano lo sviluppo. Esiste un gene per ogni forma conosciuta:

MODY 2, dove c’è deficit totale di glucochinasi legato al locus 7p, che porta al blocco della glicolisi. Ciò non fa produrre l’ATP necessario per chiudere il canale del potassio;

MODY 3 (un fenotipo grave), dove c’è deficit del fattore nucleare di HNF-1α legato al locus 12q, che si manifesta con complicanze microvascolari. La terapia si basa sulla somministrazione di insulina o sulfaniluree;

MODY 5, dove c’è deficit del fattore nucleare di HNF-1β legato al locus 17q, che si manifesta con cisti renali e ipotrofia (o atrofia) pancreatica.

HNF (fattore nucleare dell’epatocita) è un fattore di trascrizione che regola l’espressione di diversi geni, tra cui quelli che codificano per ii trasportatori del glucosio.

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COMPLICANZE ACUTE Le complicanze acute sono:

- Coma chetoacidosico, caratteristico del diabete di tipo I; - Coma iperosmolare, caratteristico del diabete di tipo II; - Coma ipogliemico, essenzialmente legato alla terapia.

DIFFERENZA TRA COMA CHETOACIDOSICO E COMA IPOGLICEMICO

- Il coma chetoacidosico ha uno sviluppo lento, il paziente non avverte fame ma ha molta sete, la sua muscolatura è ipotonica, la cute è secca, il respiro è affannoso (respiro di Kussmaul) per la compromissione dei centri nervosi, i bulbi oculari sono morbidi, presenta febbre e dolori addominali.

- Il coma ipoglicemico ha uno sviluppo veloce, il paziente avverte fame ma non ha sete, la sua muscolatura è ipertonica (possono esserci convulsioni), la cute è umida, il respiro è normale, i bulbi oculari sono normali, presenta delirio e deficit neurologici.

DIFFERENZA TRA COME CHETOACIDOSICO E COMA IPEROSMOLARE

- Il coma chetoacidosico ha glicemia di 250 mg/dl, pH minore di 7, bicarbonati bassi, chetonemia presente, osmolarità sierica variabile, sodiemia normale, azotemia normale, peptide C plasmatico assente (nel diabete di tipo I non essendoci secrezione di insulina, non c’è secrezione di peptide C plasmatico).

- Il coma iperosmolare ha glicemia di 600 mg/dl, pH normale, bicarbonati normali, chetonemia assente, osmolarità sierica maggiore di 300 mOsm, sodiemia aumentata, azotemia normale, peptide C plasmatico presente.

COMPLICANZE CRONICHE Le complicanze croniche si distinguono in:

- Macroangiopatie: disturbi legati all’alterazione della secrezione dell’insulina; tra le più importanti la coronopatia, la vasculopatia obliterante periferica e la vasculopatia cerebrale (quest'ultima si riscontra in tutti i diabetici). Sono comuni nel diabete di tipo II;

- Microangiopatie: disturbi legati ad iperglicemia. Sono comuni sia al diabete di tipo I che al tipo II e sono molto frequenti in persone con diabete non trattato. Tra le più importanti la retinopatia, la nefropatia diabetica, la neuropatia diabetica e il piede diabetico (dovuto a necrosi causata da insufficienza circolatoria). A queste malattie si possono associare iperlipidemia e steatosi del fegato.

Le complicanze croniche dovute ad iperinsulinemia sono secondarie all’aterosclerosi (l’insulina è infatti un fattore di crescita che fa aumentare lo spessore della parete vascolare) e sono la cardiopatia ischemica (fino all’insufficienza), la vasculopatia cerebrale (TIA e infarto), aneurismi dell’aorta e AOCP (arteriopatia obliterante cronica periferica). EFFETTI DEI PRODOTTI AVANZATI DELLA GLICAZIONE - AGE L’iperglicemia porta alla formazione dei prodotti avanzati di glicazione (AGE) quali gliossale, metilgliossale, glucosone e deossiglucosone. Il glucosio in eccesso reagisce, ad esempio, con i gruppi amminici degli amminoacidi delle proteine, e comincia a formare i cosiddetti prodotti di Amadori; in seguito, per azione della liasi, si ha la liberazione degli AGE. Gli AGE determinano la glicazione intracellulare di proteine che vengono poi escrete dalla cellula e interagire con le proteine plasmatiche. Essi interagiscono, inoltre, con dei recettori specifici RAGE presenti su vari tipi di cellule (infiammatorie, endoteliali e della muscolatura liscia vascolare) ed inducono il rilascio di ROS che vanno ad attivare la funzione di un fattore di trascrizione nucleare, NF-κβ, importante per l’espressione delle citochine pro-infiammatorie, dei fattori di crescita e delle citochine da parte della cellula macrofagica. Questo porta all’attivazione di una serie di trasduzioni del segnale, attraverso la protein-chinasi C β (PKC β), che aumentano la produzione del fattore di crescita VEGF il quale promuove la proliferazione delle cellule della muscolatura liscia vascolare, la crescita e l’attività procoagulante delle cellule endoteliali.

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MICROANGIOPATIA I principali meccanismi biochimici che concorrono a determinare la patogenesi della microangiopatia sono:

a) La via dell'aldoso-reduttasi con accumulo di polioli. L’enzima aldoso-reduttasi catalizza la reazione di conversione del glucosio in sorbitolo utilizzando il NADPH, il quale è utilizzato anche dalla glutatione reduttasi per proteggere l’organismo dai ROS. Aumenta il danno cellulare da stress ossidativo a causa della ridotta attività della glutatione reduttasi, dovuta alla mancanza di NADPH utilizzato dall’aldoso-reduttasi (con conseguente aumento di ROS). Il sorbitolo si accumula a livello intracellulare rendendo la cellula iperosmotica rispetto al plasma e provocando sia un rigonfiamento cellulare, a seguito del richiamo di acqua, sia un meccanismo di competizione nei confronti della captazione del mioinositolo (ipotesi metabolica della neuropatia diabetica);

b) La via del diacilglicerolo-proteinkinasi C. L'iperglicemia provoca un aumento dell'attività cellulare della proteinkinasi C (PKC) come conseguenza dell'aumentata sintesi ex-novo di diacilglicerolo da intermedi della glicolisi (si ha iperglicemia, aumenta la glicolisi, aumenta DAG che richiama PKC a livello della membrana plasmatica). La PKC è implicata in molte funzioni cellulari e la sua attività, stimolata dall'iperglicemia prolungata, può essere danneggiata. La PKC è coinvolta nella regolazione di una vasta gamma di funzioni vascolari quali la permeabilità, la contrattilità, la coagulazione, il flusso sanguigno capillare, l'azione ormonale, il metabolismo della membrana basale, la sintesi e l'azione dei fattori di crescita; tutte queste funzioni sono alterate nei diabetici. Le alterazioni della PKC si accompagnano, negli organi bersaglio delle complicanze diabetiche, ad un aumento dei livelli di diacilglicerolo (DAG). Le alterazioni della PKC e del DAG non sono mediate né dall'alterazione osmotica, né dall'azione degli inibitori dell'aldoso-reduttasi, e quindi il loro meccanismo patogenetico resta da chiarire;

c) La glicazione non enzimatica. Il glucosio ed il fruttosio possono reagire in maniera non enzimatica con i gruppi amminici delle proteine, lipidi ed acidi nucleici formando prodotti di Amadori che possono andare incontro ad autossidazione, con formazione di radicali liberi e di prodotti terminali non-reattivi, o a riarrangiamento, con formazione di prodotti intermedi che possono andare incontro ad ulteriore trasformazione per formare prodotti avanzati di glicosilazione (AGE). La formazione di AGE produce tre tipi di conseguenze: crosslinking delle proteine extracellulari, alterate interazioni cellule-matrice, modificazione della struttura e funzione del DNA. La presenza di queste molecole alterate nell'interstizio richiama i macrofagi che hanno sulla loro superficie recettori per gli AGE e l'interazione tra AGE e recettori macrofagici determina la liberazione di citochine e fattori di crescita che concorrono alla proliferazione cellulare ed alla produzione di matrice extracellulare;

d) I potenziali redox e lo stress ossidativo. L'eccesso di produzione di glucosio attraverso vie enzimatiche e non enzimatiche genera un’aumentata produzione di radicali liberi. Essi esplicano il loro effetto soprattutto sugli acidi grassi polinsaturi, di cui è ricca la membrana cellulare, le lipoproteine circolanti ed i polipeptidi glicati. Nel diabete è stata riscontrata una aumentata attività di radicali liberi che può correlare con la presenza e la gravità della retinopatia;

e) Legata all’aumento della glicemia è anche la via delle esosammine: il Fru-6-P (intermedio della glicolisi) aumenta come conseguenza dell’iperglicemia e, per azione della fruttosiofosfato-amminotransferasi, dà origine alla UDP N-acetilglucosammina e, grazie all’enzima OGT, comincia a produrre fattori che interferiscono con la trascrizione dell’attivatore del plasminogeno (non si ha fibrinolisi e quindi dissoluzione del coagulo, motivo per cui l’individuo ha un aumentato rischio aterosclerotico) ma soprattutto del TGFβ (fattore di crescita che può interferire con la rigenerazione del tessuto connettivo), utili per la regolazione della riproduzione delle cellule vascolari.

MACROANGIOPATIA La macroangiopatia è dovuta all’interazione tra la cellula muscolare liscia e la cellula endoteliale (cosa che manca nella microangiopatia perché i vasi interessati dalla microangiopatia sono sprovvisti di lamina muscolare), in un gioco di vasocostrizione e vasodilatazione.

- La cellula muscolare liscia attraverso l’enzima NO-sintetasi rilascia ossido nitrico (NO), che causa vasodilatazione con un meccanismo ciclasi dipendente (non c’è bisogno di recettori perché il gas passa liberamente attraverso la membrana).

- La cellula endoteliale, invece, provoca vasocostrizione attraverso il sistema renina-angiotensina: l’angiotensinogeno, attraverso la renina, si trasforma in angiotensina 1 che, sotto l’azione enzimatica di ACE, è convertita in angiotensina 2, che ha specifici recettori sulla membrana della fibrocellula

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muscolare liscia, i quali inducono vasocostrizione. L’ACE, inoltre, catalizza la formazione di bradichinina la quale controlla l’attività della NO-sintetasi e quindi la produzione di ossido nitrico, controbilanciando l’eccesso di contrazione indotta dall’angiotensina 2.

L’aggregazione piastrinica è un altro fattore molto importante che se alterato, porta a macroangiopatia. È il risultato di due equilibri:

Azione coagulante con l’attivazione del sistema della trombina, che trasforma il fibrinogeno in fibrina;

Azione anticoagulante, attivata dall’urochinasi (o attivatore tissutale del plasminogeno TPO) che trasforma il plasminogeno in plasmina. La plasmina rompe il reticolo di fibrina.

La macroangiopatia è legata all’iperinsulinemia, per il fatto che l’insulina è sostanzialmente un fattore di crescita e determina un ispessimento della parete vasale per la proliferazione delle fibrocellule muscolari. L’iperinsulinemia può determinare danni a livello dell’apparato vascolare per un processo di traduzione. L'insulina agisce, infatti, attraverso i recettori ma quando si determina insulino-resistenza, attraverso la via delle MAP chinasi (con conseguente stimolazione dei fattori di crescita), si arriva alla migrazione e alla crescita delle cellule muscolari lisce dei vasi, all’aumento della produzione dell’inibitore dell’urochinasi con conseguente aumento dell’effetto aterogenetico. L’insulino-resistenza fa in modo che non ci sia l’attivazione della via di PI3K che normalmente porta alla produzione di ossido nitrico, determinando vasodilatazione; tuttavia, siccome la via di PI3K non è efficiente, c’è una riduzione dell’azione vasodilatatrice e quindi aumento dell’effetto aterogenetico che è tipico di questa via. In definitiva i danni saranno: aumentata proliferazione dei vasi, crescita e alterazione delle cellule muscolari lisce, vasocostrizione, proliferazione vasale e aumento del rischio di trombosi. VASCULOPATIA PERIFERICA La vasculopatia periferica del diabetico è spia di un interessamento aterosclerotico dei vasi arteriosi a valle dell’arco aortico (coronarie, carotidi, arterie femorali, aorta e arterie polmonari): nel diabetico si localizza generalmente agli arti inferiori a causa di complicanze croniche dovute al cattivo controllo della glicemia. È caratterizzata dall’aumento delle cellule endoteliali, dall'infiltrazione delle cellule mesenchimali e di matrice amorfa prodotta da fibroblasti (collagene, sostanza fondamentale) e di altre molecole glicate. L’infiltrazione di queste molecole dà una serie di problemi come scarsa vascolarizzazione e fenomeni di necrosi. RETINOPATIA DIABETICA La retinopatia diabetica è una tipica espressione del danno che viene indotto dagli AGE a carico del sistema vascolare. La glicazione delle proteine e la perdita di elasticità porta all’alterazione del decorso dei vasi retinici che si associa con microaneurismi. Questi non determinano alterazioni piuttosto significative della funzione visiva: quando questi vasi perdono la solidità si può avere perdita di sangue che, se si associa ad edema, comincia ad avere effetti compressivi sull’epitelio nervoso oculare dei coni e bastoncelli e porta alla formazione di fenomeni proliferativi. Il meccanismo generale è quello tipico dei danni indotti dagli AGE, ossia stress ossidativo con conseguente formazione di ROS che hanno un’azione tossica sulle cellule, producono DAG e si attiva la PKC β, con l’espressione di varie citochine e fattori di crescita, tra i quali VEGF. In un soggetto che presenta una glicemia normale c’è un equilibrio piuttosto bilanciato tra VEGF (fattore che promuove la proliferazione vasale) e PEDF (Pigment epithelium derived factor). A seguito dell’aumento di VEGF e della riduzione di PEDF, c’è un’infiltrazione progressiva delle cellule che supera la barriera tra coni, bastoncelli e corpo vitreo e porta all’angiogenesi a livello dell’epitelio nervoso dell’occhio che determina alterazioni della funzione visiva. PEDF, nello specifico, è indispensabile per il controllo del processo di angiogenesi. I suoi effetti sono la stimolazione della chemiotassi dei fibroblasti e l’inibizione della migrazione delle cellule endoteliali. Infatti, legandosi a recettori specifici denominati PEDF-R, dotati di attività fosfolipasica e ai recettori della laminina, funge da stimolo per la costruzione dell’impalcatura fibrotica dei vasi, mentre interferisce, mediante un meccanismo di clivaggio, con l’attivazione dei recettori del VEGF (VEGFR-1) ed in tal senso agisce da inibitore della neoangiogenesi.

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La via dell’aldoso-reduttasi è implicata nella cataratta. Questa via è attiva soprattutto nelle cellule che non sono insulino-dipendenti dove il glucosio entra liberamente. Un fattore patogenetico importante in questa patologia è rappresentato dall'aumento della ossidazione dei gruppi sulfidrilici a livello del cristallino. La conseguente formazione di legami incrociati tra le varie molecole sarebbe responsabile della polimerizzazione delle proteine del cristallino in aggregati a più elevato peso molecolare. Il fenomeno è aggravato dalla tendenza delle proteine del cristallino a subire ossidazione sulfidrilica, per glicosilazione non enzimatica. Un ulteriore meccanismo che determina l'instaurarsi della cataratta è rappresentato dalla formazione dei polioli in eccesso; in presenza di elevate concentrazioni di glucosio, per la ridotta attività insulinica, viene attivato anche nel cristallino l'enzima aldoso-reduttasi che catalizza la trasformazione del glucosio e/o del galattosio in sorbitolo. L'eccessiva concentrazione di polioli determina, a sua volta, un rigonfiamento osmotico che richiama ioni sodio, in questo contesto si ha la precipitazione di cristalli che peggiora l'opacizzazione della lente. NEFROPATIA DIABETICA La nefropatia diabetica è una complicanza tardiva ed insidiosa del diabete mellito tipo I e di tipo II: è tardiva perché i primi segni compaiono dopo almeno 10 anni dal momento in cui è stato diagnosticato il diabete. La nefropatia diabetica è caratterizzata da:

- progressiva e lenta compromissione della funzionalità renale (fino a sfociare nell’insufficienza cronica);

- albuminuria; - diminuzione della velocità di filtrazione glomerulare (all’esordio la velocità di filtrazione glomerulare

è aumentata come conseguenza dell’attivazione del meccanismo di compenso); - pressione arteriosa elevata; - rischio cardiovascolare.

L’iperglicemia determina un aumento del glucosio filtrato dai glomeruli del rene. Poiché il corpo non può permettersi un’eccessiva perdita di zuccheri nelle urine, aumenta il suo riassorbimento nel tubolo contorto prossimale del rene, con un concomitante trasporto di ioni sodio (meccanismo di compenso). Il riassorbimento di ioni sodio richiama acqua e provoca un aumento del volume ematico circolante, che causa un aumento della pressione sanguigna ed una conseguente dilatazione dell’arteriola che alimenta i glomeruli renali. L’aumento della pressione nel glomerulo si traduce in un aumento della velocità di filtrazione glomerulare che, nel tempo, porta ad un deterioramento eccessivo dei nefroni, determinando una riduzione della velocità di filtrazione glomerulare. L’iperglicemia, però, causa anche la glicazione delle proteine, la formazione di sorbitolo e l’attivazione della PKCβ, tutti processi che modificano l’architettura del tessuto glomerulare, aumentando la permeabilità della parete dei capillari che lo costituiscono portando sclerosi del glomerulo. NEUROPATIA DIABETICA La neuropatia diabetica è un’alterazione della conduzione nervosa che porta a 2 tipi di disturbi:

perdita della sensibilità nervosa, che implica sia la perdita della sensazione del dolore sia delle funzioni;

sensazioni inesatte (parestesie, colori inesistenti). La causa di tale malattia non è chiara, sono state formulate varie ipotesi: - secondo l’ipotesi vascolare, un’alterata vascolarizzazione porta alla sofferenza del tessuto nervoso con conseguente rallentamento della velocità di conduzione del neurone; - secondo l’ipotesi assonale, la degenerazione di tipo Walleriano delle cellule nervose porta al rallentamento del trasporto assonico; - secondo l’ipotesi metabolica, l'incremento del sorbitolo causa una riduzione dell’inositolo a livello delle cellule di Schwann con conseguente riduzione dell’attività ATPasica che provoca un alterato rifornimento energetico, un danno strutturale e un deficit funzionale. Sembra che le varie ipotesi non si escludano a vicenda.

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GLUCOCORTICOIDI (CORTISOLO E CORTICOSTERONE) Il surrene è un organo endocrino che coordina alcune funzioni vegetative e neurovegetative, soprattutto quelle legate alla capacità di reazione allo stress. La sua zona corticale è divisa in 3 zone: 1) Una zona esterna o glomerulare che secerne mineralcorticoidi (aldosterone). In questa zona manca l’enzima 17-β-idrossilasi (responsabile della formazione del cortisolo e dell’estradiolo); 2) Una zona intermedia o fascicolata che secerne glucocorticoidi (cortisolo e cortisone); 3) Una zona interna o reticolare che secerne glucocorticoidi e ormoni sessuali (soprattutto quelli maschili). La secrezione del surrene è controllata dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene: l’ipotalamo, controllando la produzione degli ormoni surrenalici attraverso la produzione del CRH (o CRF, fattore di rilascio della corticotropina o ACTH), agisce a livello dell’adenoipofisi che libera ACTH (ormone adrenocorticotropo o corticotropina). Il meccanismo di regolazione sulla produzione di questi ormoni è di tipo feedback negativo: quando i fattori di rilascio ipofisari e ipotalamici stimolano la ghiandola bersaglio, quest’ultima raggiunge livelli alti di produzione ormonale e gli ormoni vanno ad agire direttamente sull’ipotalamo, bloccando il suo segnale all’ipofisi. La secrezione avviene secondo un ritmo circadiano (secrezione ormonale intermittente nell’arco delle 24 ore) e in base ad esso la mattina si registra un picco ormonale (ad esempio, cortisolo) determinato dallo stimolo luminoso: i neuroni provenienti dalla zona ottica inviano informazioni al nucleo genicolato dell’ipotalamo, inducendo la suddetta ipersecrezione. SINTESI DEGLI ORMONI STEROIDEI La prima tappa di sintesi degli ormoni steroidei vede la conversione del colesterolo in pregnenolone: questa reazione, catalizzata dall’enzima colesterolo desmolasi, prevede la rimozione di una catena laterale di 6 atomi di carbonio. Il pregnenolone è convertito, tramite ossidazione, in progesterone che, attraverso vie alternative, può formare tutti gli ormoni steroidei: i glucocorticoidi (cortisolo e corticosterone), i mineralcorticoidi (aldosterone) e i progestinici, tutti ormoni a 21 atomi di carbonio; gli androgeni (testosterone), sono a 19 atomi di carbonio e gli estrogeni (17-β-estradiolo) a 18 atomi di carbonio. COMPLESSO RECETTORE-ORMONE Gli ormoni steroidei, a differenza di quelli peptidici (ad esempio, insulina) che hanno bisogno di recettori di membrana, passano attraverso la membrana all’interno della cellula, dove interagiscono con il loro recettore intracellulare. Nel caso dei glucocorticoidi, il recettore si trova nel citosol, mentre nel caso degli estrogeni si trova nel nucleo. I recettori degli ormoni steroidei contengono:

- Un dominio C-terminale di interazione con l’ormone; - Un dominio “zinc finger” di legame col DNA; - Un dominio N-terminale implicato nell’attivazione della trascrizione.

L’ormone, entrato nella cellula, interagisce con il proprio recettore che normalmente è presente in forma inattiva legato a proteine HSP (Heat Shock Protein). Il legame con l’ormone induce un cambiamento conformazionale che stacca il recettore dalle HSP: il complesso attivato recettore-ormone dimerizza e si dirige verso il nucleo, dove interagisce tramite “zinc finger” con specifiche sequenze del DNA (i recettori steroidei hanno delle SRS che sono palindromi di sequenze presenti sul DNA), attirando sul DNA delle demetilasi che demetilano gli istoni (proteine associata al DNA rendendolo stabile) rendendo il DNA disponibile alla trascrizione modulata attraverso il dominio N-terminale. Ciò determina l’attivazione o l’inattivazione di specifici geni e la produzione delle corrispondenti molecole di mRNA. Nel caso dei glucocorticoidi si ha, ad esempio, l’attivazione del gene che codifica per Bax e l’inattivazione del gene che codifica per la fosfolipasi A2: in questo modo gli ormoni riescono a controllare la sintesi di specifiche proteine e a influenzare i processi metabolici della cellula. Una delle funzioni dei glucocorticoidi è di indurre apoptosi (sono stati per molti anni i farmaci più utilizzati nella terapia dei tumori). Il complesso recettore-ormone induce l’espressione di Bax (o Bcl-2, proteina pro-apoptotica) che, a livello dei mitocondri, provoca il rilascio di citocromo c che porta all’aumento intracellulare di calcio, responsabile dell’attivazione delle caspasi (la caspasi 9 attiva le caspasi 3 e 7, che causano la morte cellulare per apoptosi).

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I glucocorticoidi ad oggi sono gli antinfiammatori più forti perché sono in grado di inibire la cascata dell’acido arachidonico, bloccando la fosfolipasi A2. In definitiva i glucocorticoidi hanno azione pro-apoptotica e antinfiammatoria. RISPOSTA ALLO STRESS I glucocorticoidi rispondono a vari tipi di stress attraverso 2 vie:

- regolazione negativa delle cellule coinvolte nella risposta al danno; - regolazione adeguata, attraverso gluconeogenesi, della concentrazione di glucosio in condizioni di

digiuno, per consentire alla cellula di affrontare condizioni di stress senza un danno eccessivo. Lo stress agisce sull’ipotalamo, determinando la liberazione di CRH che porta alla liberazione di ACTH da parte dell’ipofisi; l’ACTH agisce sulla corteccia surrenale per produrre cortisolo. Il cortisolo a sua volta agisce sull’ACTH, attraverso un feedback negativo, per regolare in maniera adeguata i suoi livelli: quando c’è un livello molto basso di cortisolo, ci sarà un’elevata concentrazione di CRH e ACTH. Man mano che aumenta il livello di cortisolo, sarà inibito il suo rilascio di cortisolo (con concentrazioni molto alte di cortisolo, le cellule dell’ipofisi che producono ACTH possono andare incontro ad apoptosi). Il cortisolo agisce sul fegato, sul tessuto muscolare, sul tessuto adiposo e sui linfociti. Lo stress viene percepito da diverse aree della corteccia cerebrale:

- la corteccia sensoriale limbica ha una rappresentazione schematica degli organi interni e controlla l’omeostasi viscerale (eventuali danni agli organi interni) per il funzionamento degli ormoni. Tutto questo è connesso con il nucleo soprachiasmatico, responsabile del ritmo circadiano, ed è influenzato dall’attività riproduttiva, dalla pressione arteriosa e dalla temperatura corporea;

- ipotalamo e ippocampo controllano il rilascio di adrenalina e noradrenalina che hanno azione complementare a quella del cortisolo (aumento della glicemia).

In risposta allo stress, c’è il controllo e l’inibizione delle funzioni non richieste (funzioni riproduttive, reazioni immuni e reazioni infiammatorie). FUNZIONI DEI GLUCOCORTICOIDI - Stimolazione della gluconeogenesi, soprattutto nel fegato: questa via conduce alla sintesi di glucosio a partire da substrati non derivati da esosi (proteine, aminoacidi e lipidi). La stimolazione dell’espressione degli enzimi coinvolti nella gluconeogenesi è, probabilmente, la funzione metabolica più conosciuta dei glucocorticoidi; - Inibizione dell’uptake (introduzione) di glucosio nel muscolo e nel tessuto adiposo (meccanismo di conservazione del glucosio plasmatico), inducendo una ridotta affinità dei recettori per l’insulina nonostante i glucocorticoidi stimolino la produzione di insulina come conseguenza della iperglicemia; - Stimolazione della lipolisi nel tessuto adiposo: gli acidi grassi liberati dalla lipolisi vengono usati per la produzione di energia nel muscolo, ed il glicerolo rilasciato rappresenta un altro substrato per la gluconeogenesi. Tutto ciò può avere effetti chetogenici; - Stimolazione della lipogenesi in maniera indiretta come conseguenza del fatto che inducono rilascio insulinico. I glucocorticoidi hanno effetti sullo sviluppo fetale (promuovono la produzione del surfattante alla 32a

settimana, necessario per la normale funzione del polmone nella vita extrauterina), riducono l’assorbimento gastrointestinale di calcio e inibiscono lo sviluppo osseo (il paratormone che stimola l’azione degli osteoclasti, responsabili del riassorbimento osseo, è attivato da bassi livelli di calcio ematici); inoltre ritardano la riparazione delle ferite. EFFETTI SISTEMICI DEI GLUCOCORTICOIDI La loro funzione essenzialmente consiste nel garantire un aumentato rifornimento di glucosio attraverso la gluconeogenesi, quindi sintesi di glucidi a spese di lipidi e di proteine. È chiaro che questo porta ad alterazioni a livello di tutti i tessuti: - a livello del muscolo c’è la perdita di massa magra perché gran parte delle proteine che costituiscono il muscolo vengono catabolizzate per ottenere amminoacidi da utilizzare nella gluconeogenesi; - a livello del fegato avvengono tutti i fenomeni gluconeogenici;

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- a livello del tessuto adiposo c’è lipolisi (apparente in quanto si ha aumentata lipogenesi, dovuta a iperinsulinemia, accentuata dalla ritenzione idrica per cui le persone che producono cortisolo in eccesso o sono trattate con una quantità cospicua di cortisonici hanno un’obesità centrale); - a livello del sistema ematopoietico e linfatico c’è una riduzione del volume dei linfonodi e della capacità di sintetizzare anticorpi; - a livello del sistema nervoso c’è un incremento dell’eccitabilità; - a livello del rene c’è ritenzione di sodio, perdita di potassio e incremento dell’eliminazione di calcio; - a livello dell’apparato gastrointestinale c’è un’aumentata acidità gastrica (per questo è importante dare un inibitore della pompa protonica prima di somministrare cortisone) e i microtraumi causati dai movimenti gastrointestinali si riparano molto più lentamente (i pazienti ipercorticosurrenalici fanno quasi sempre feci nere a causa della formazione di ulcere); si riduce drammaticamente il riassorbimento del calcio e questo è causa di osteoporosi indotta; - a livello delle cellule del sangue c’è il controllo della risposta immune innata (granulociti e macrofagi) e della risposta immune acquisita o specifica(linfociti); - a livello osseo c’è riassorbimento causato sia dalla distruzione di proteine e amminoacidi necessaria per i fenomeni gluconeogenici, sia dall’apoptosi delle cellule mesenchimali da cui derivano gli osteoblasti. Nella vita adulta le ossa sono soggette ad un continuo rimodellamento. L’osteoporosi è il risultato di un disequilibrio tra l’attività degli osteoclasti e quella degli osteoblasti. L’iperparatiroidismo (secondario al ridotto assorbimento da parte del sistema gastro-intestinale e all’aumentata escrezione urinaria di calcio) e un’alterata funzione delle gonadi e della produzione di androgeni surrenalici contribuiscono all’eccessivo riassorbimento osseo. Il meccanismo d'azione dei glucocorticoidi è collegato a meccanismi nucleari di modulazione genica. Il recettore steroideo si lega al DNA e può attivare o inattivare il gene. Per questo motivo, si identificano 2 processi distinti chiamati transattivazione o transrepressione:

Con la transattivazione vengono attivati i geni codificanti per molecole pro-apoptotiche come Bax e per fattori antinfiammatori come INF-κβ (inibitore di NF-κβ) e l’annessina. L’annessina induce l’apoptosi dei linfociti e dei monociti e, in genere, inibisce la secrezione di citochine. Inoltre rallenta la trasformazione dei monociti in macrofagi. Infine induce l’apoptosi dei granulociti, inibendo la loro chemiotassi;

Con la transrepressione viene inattivato il fattore di trascrizione NF-κβ, che controllala secrezione di citochine e interleuchine (riduce drasticamente TNF-α, IL-1, IL-6 e IL-8, quindi le citochine pro-infiammatorie) e viene inattivato il fattore AP-1 che fisiologicamente induce proliferazione, differenziazione e sopravvivenza cellulare.

PATOLOGIA DA GLUCOCORTICOIDI Un’eccessiva o una ridotta secrezione di cortisolo può causare una serie di quadri patologici. L’iposecrezione porta al morbo di Addison, l’ipersecrezione al morbo di Cushing. MORBO DI ADDISON Il morbo di Addison è caratterizzato da iposecrezione di glucocorticoidi. È distinto in:

Primario (sindrome), in cui si ha la distruzione del parenchima ghiandolare. È conseguente a malattie autoimmuni (sindrome polighiandolare autoimmune PGA di tipo I, in cui l’insufficienza corticosurrenalica è associata ad ipoparatiroidismo primitivo e a candidiasi muco-cutanea oppure la sindrome di Schmidt associata a diabete di tipo 1, tireopatie autoimmuni, celiachia, alopecia e vitiligine), tubercolosi (fino a 50 anni fa era la causa più frequente) e sindrome di Waterhouse-Fredrichsen (setticemia causata da infezioni da meningococco). Si accompagna anche a iposecrezione di mineralcorticoidi;

Secondario (malattia), in cui il parenchima ghiandolare è integro. È dovuto al deficit di ACTH. La forma primaria è caratterizzata da alti livelli di ACTH (in quanto viene meno il meccanismo a feedback negativo in cui alte concentrazioni ormonali inibiscono l’ipotalamo e di conseguenza l’ipofisi a rilasciare ACTH) e da iperpigmentazione (morbo bronzino) perché l’ACTH deriva dalla pro-opiomelanocortina (POMC) così come l’MSH (ormone stimolante i melanociti che risulterà altrettanto aumentato). La forma secondaria si accompagna a bassi livelli o assenza di ACTH.

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Un paziente affetto dal morbo di Addison ha crisi ipoglicemiche a digiuno (perché i glucocorticoidi non essendo prodotti, non possono stimolare la gluconeogenesi) e ipotensione (causata da alterazioni dell’equilibrio sodio-potassio). I sintomi sono: fatica, debolezza, malessere generale, anoressia, vertigini, sincope (perdita di coscienza); a questi si associano sintomi gastrointestinali, nausea, vomito, dolori addominali, diarrea (probabilmente dovuti ad una carenza di elettroliti nel sangue). Altre manifestazioni sono mialgia, riduzione della libido, amenorrea, perdita peso, insufficienza cardiaca e shock. La diagnosi si effettua tramite ELISA, attraverso cui si dosano il cortisolo e l’ACTH. MORBO DI CUSHING Il morbo di Cushing è caratterizzato da ipersecrezione di glucocorticoidi. È è dovuto a vari fattori: incremento degli ormoni circolanti di origine esogena, tumori corticosurrenalici ipersecernenti, iperplasia surrenale bilaterale e aumentata secrezione di ACTH. In rapporto all’ACTH, si distinguono in:

ACTH-dipendente (Cushing secondario), il più diffuso, dovuto alla presenza di un adenoma ipofisario, o di un carcinoma polmonare a piccole cellule o di un feocromocitoma (tumore benigno della midollare del surrene associato alla produzione di catecolammine). In questi casi l’aumento di glucocorticoidi è correlato all’aumento di ACTH;

ACTH-indipendente (Cushing primario), dovuto ad adenoma, carcinoma e iperplasia nodulare del surrene (causa endogena) o a una terapia cortisonica (causa esogena). In questi casi si ha direttamente ipersecrezione di glucocorticoidi;

Pseudo-Cushing, che mima gli effetti del morbo di Cushing ma non presenta un’alterazione significativa dei livelli di glucocorticoidi.

Le manifestazioni sono:

- Redistribuzione dell’adipe (obesità centrale causata da lipolisi indotta dall’aumento di glucocorticoidi);

- “Striae rubrae” (c’è perdita dell’elasticità del tessuto connettivo perché l’aumento di glucocorticoidi interferisce con la sintesi di collagene. Nell’avventizia dei vasi la perdita di collagene causa un’aumentata fragilità e quindi microemorragie);

- “Faccia a luna piena” (infarcimento della bolla di Bichat); - Esagerato catabolismo proteico; - Assottigliamento della cute e degli annessi; - Tendenza a formare ecchimosi e rallentata riparazione delle ferite (a causa del rallentamento della

sintesi di collagene e del processo di neoangiogenesi); - Diabete mellito di tipo II; - Ipertensione arteriosa (i glucocorticoidi a livello renale causano ritenzione di sodio e quindi

ipertensione). I segni possono essere reversibili. MINERALCORTICOIDI (ALDOSTERONE) Il mineralcorticoide per eccellenza è l’aldosterone. Esso controlla, a livello dell’estremità distale dell’ansa di Henle e del tubulo contorto distale, il riassorbimento del sodio (che comporta riassorbimento idrico e conseguente espansione della massa circolante con aumento della pressione sanguigna) e l’escrezione del potassio. La regolazione della secrezione dei mineralcorticoidi viene data dal sistema renina-angiotensina, dai livelli di potassio (alti livelli stimolano la secrezione di aldosterone) e di sodio (bassi livelli). L’ACTH ha uno scarso effetto diretto sulla regolazione. Le cellule della macula densa (cellule dell’apparato iuxtaglomerulare) fungono da barocettori, cioè rilevano la concentrazione di cloruro di sodio. Quando la pressione arteriosa scende, la velocità di filtrazione glomerulare si riduce e il sodio viene riassorbito in quantità nettamente maggiore, quindi la concentrazione plasmatica di sodio si abbassa e le cellule della macula densa rilevano tale variazione, stimolando così le cellule iuxtaglomerulari a secernere renina. La renina, una serino-proteasi, cliva l’angiotensinogeno in angiotensina 1; quest'ultima, attraverso l’enzima ACE (prodotto nei polmoni), viene trasformata in angiotensina 2 che ha due azioni: induce vasocostrizione, che fa aumentare la pressione sanguigna, e induce la liberazione dell’aldosterone (mediante dei recettori

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tirosinchinasi sulla zona glomerulare del rene) che fa riassorbire il sodio che porta con sé acqua, con conseguente aumento della volemia e della pressione arteriosa. L’aldosterone, in conclusione, normalizza la pressione. L’angiotensina 2 ha due recettori: - il recettore AT1, accoppiato a proteine G, agisce attraverso un meccanismo trasduzionale che coinvolge la fosfolipasi C che idrolizza PIP2 (fosfatidilinositolodifosfato) formando IP3, che si lega ad un a proteina canale presente sul reticolo endoplasmatico, determinando l’apertura della proteina canale a cui segue la fuoriuscita di calcio. L’aumento della concentrazione di calcio è responsabile di effetti a breve e a lungo termine. Gli effetti a breve termine comportano vasocostrizione arteriolare, ritenzione idrosalina (dovuta ad un aumento della produzione e liberazione di aldosterone) e rilascio di catecolammine. Gli effetti a lungo termine comportano aumento della pressione glomerulare, ipertrofia vascolare e ipertrofia miocardica; L’aldosterone entra nelle cellule, controlla trascrizionalmente la produzione e l’espressione di ENaC (canale epiteliali del sodio) coinvolto nel riassorbimento del sodio e fa in modo che il sodio, dal lume tubulare, ritorni nel plasma. L’aldosterone stimola anche l’espressione di una serie di proteine, come SGK-1 e Nedd4-2, responsabili del controllo dell’ubiquitinazione di ENaC: attraverso questo meccanismo, il recettore AT1 può controllare il riassorbimento graduale del sodio. - il recettore AT2, anch’esso accoppiato a proteine G, agisce attraverso un meccanismo trasduzionale che comporta una riduzione dei livelli di cGMP; è stato dimostrato che la sua attivazione determina effetti sul sistema vascolare opposti a quelli mediati dal recettore AT1. È stato osservato, infatti, un suo ruolo nella vasodilatazione anche attraverso la formazione di PGI2, PGE2 e ossido nitrico, che contribuiscono alla riduzione della pressione arteriosa. PATOLOGIE DA MINERALCORTICOIDI Le patologie da mineralcorticoidi si distinguono in:

Ipersecrezione, in cui si riscontra l’iperaldosteronismo primario e secondario; - L’iperaldosteronismo primario, o sindrome di Conn, è indipendente dal sistema renina-

angiotensina, infatti la renina è normale o bassa. - L’iperaldosteronismo secondario, invece, è dipendente dal sistema renina-angiotensina,

infatti la renina è alta.

Sindrome di Liddle, causata dall’alterazione del meccanismo di riciclo dei recettori dell’angiotensina 2, in particolar modo AT1.

Iposecrezione, rara, conseguente ad un’alterazione della secrezione di renina. L’ipertensione endocrina è dovuta sostanzialmente ad un’iperattività dell’aldosterone e si cura con gli ACE inibitori, i calcio antagonisti per ottenere vasodilatazione e i diuretici. SINDROME DI CONN O IPERALDOSTERONISMO PRIMARIO La sindrome di Conn è dovuta all’eccessiva produzione di aldosterone conseguente alla autonoma iperattività (indipendente dal sistema renina-angiotensina) della corticale del surrene e causata da un adenoma aldosterone-secernente o da iperplasia surrenalica bilaterale. I sintomi della sindrome di Conn sono ipertensione saltuaria, ipopotassiemia (bassa concentrazione di potassio), cefalea, astenia e notturia (stimolo di urinare notturno). La terapia è basata sullo spironolattone. IPERALDOSTERONISMO SECONDARIO Le forme di iperaldosteronismo secondario, invece, sono osservabili nello scompenso cardiaco, nella sindrome nefrosica, nella cirrosi epatica, nella stenosi della arteria renale (l’aterosclerosi delle arterie renali causa un abbassamento di pressione a livello delle cellule dell’apparato iuxtaglomerulare, che continua a secernere renina, e quindi aldosterone, anche in condizioni di elevata pressione arteriosa negli altri distretti corporei) e nei tumori delle cellule dell’apparato iuxtaglomerulare secernenti renina. In tutte queste condizioni l’aumentata sintesi e secrezione di aldosterone da parte della corticale surrenale è conseguente all’eccessiva liberazione di renina, e causa un accumulo di liquidi negli spazi interstiziali (ad esempio, un’ascite).

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SINDROME DI LIDDLE La sindrome di Liddle (o pseudoaldosteronismo) è una malattia genetica, a trasmissione autosomica dominante, caratterizzata da ipertensione (anche piuttosto severa, presente già in età precoce) con livelli bassi o normali di aldosterone ed eccessiva perdita di potassio con le urine. La mutazione causa un difetto del sistema ubiquitina-proteasoma sul canale del sodio ENaC, controllato trascrizionalmente dall’aldosterone. Il dosaggio degli elettroliti nel sangue e nelle urine mostra:

- livelli plasmatici ridotti o normali di renina e aldosterone; - aumento dei livelli plasmatici di sodio; - diminuzione dell'escrezione urinaria di sodio e aldosterone ed aumento, invece, dell’escrezione

urinaria di potassio. Il quadro clinico è quindi simile a quello dell'iperaldosteronismo anche se il profilo ormonale assomiglia a quello dell'iporeninemia-ipoaldosteronismo: ciò è dovuto al fatto che c’è un sistema di recettori che devono essere continuamente riciclati; essendo tale riciclaggio inefficace, basse concentrazioni di aldosterone producono gli stessi effetti che produrrebbero alte concentrazioni di aldosterone in un soggetto normale. La differenza sta nel fatto che i soggetti affetti da sindrome di Liddle non sono sensibili allo spironolattone (antagonista dell’aldosterone). Un’altra causa di ipertensione legata al recettore dell’aldosterone è l’intossicazione da liquirizia, che contiene un inibitore della 11-β idrossisteroide deidrogenasi. Siccome il recettore dell’aldosterone può essere attivato anche dal cortisolo, nelle cellule normalmente funziona quest’enzima che distrugge il cortisolo in circolo, permettendo al recettore di legarsi unicamente all’aldosterone. Se viene inibito (come accade con l’assunzione di liquirizia), il cortisolo può mimare l’aldosterone e legarsi al suo recettore, emulando l’effetto dell’aldosterone stesso (aumento della pressione arteriosa). IPOALDOSTERONISMO L’ipoaldosteronismo è causato da atrofia del surrene che comporta un forte deficit di mineralcorticoidi: mancando l’aldosterone, nonostante ci sia renina, si perde sodio (iponatriemia o iposodiemia) in grandi quantità. Di conseguenza, si perde acqua e c’è una riduzione della volemia (ipotensione). Un altro segno della malattia è dato da iperpotassiemia (iperkaliemia). Si osserva anche in seguito a adrenalectomia oppure a terapie con eparina. RAPPORTO TRA RENINA, ALDOSTERONE E PRESSIONE ARTERIOSA NELLE PATOLOGIE CORRELATE AI MINERALCORTICOIDI Differenziamo queste patologie in base a diverse condizioni che le caratterizzano:

1) Non c’è renina, non c’è aldosterone e la pressione sarà bassa (perché non c’è sodio). Questo nel caso in cui ci siano deficit primitivi di secrezione di renina, fenomeno che si trova nelle malattie parenchimali renali e nell’intossicazione da farmaci;

2) C’è ipersecrezione di renina, non c’è aldosterone. C’è ipovolemia ma la pressione è compensata dall’incremento delle resistenze periferiche (per l’azione dell’angiotensina 2) e l’azione del cortisolo. Condizione tipica dell’ipoaldosteronismo;

3) La renina è bassa, l’aldosterone è elevato. È una condizione che si ritrova nell’iperaldosteronismo primario (sindrome di Conn) oppure l’ipertensione essenziale a bassa renina, l’intossicazione da liquirizia e alcune malattie renali;

4) Sia la renina che l’aldosterone sono alti, e la pressione è molto alta. È una condizione rara perché l’aldosterone, facendo salire la pressione, dovrebbe inibire a feedback la concentrazione di renina. È una condizione che si ritrova nell’ipertensione maligna, nei tumori renina-secernenti, nell’ipertensione da contraccettivi orali, nella cirrosi e nella sindrome nefrosica.

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GONADI Le gonadi svolgono 2 funzioni principali:

Gametogenica, responsabile della produzione di gameti con corredo aploide;

Endocrina, il cui bersaglio sono le gonadi stesse (secernono gli ormoni responsabili della differenziazione dei caratteri sessuali secondari).

Le gonadi maschili sono i testicoli, mentre quelle femminili sono le ovaie. Nell'uomo il testicolo contiene gameti rappresentati dagli spermatozoi e cellule epiteliali secernenti (di Leydig) o di sostegno (del Sertoli) che producono gli ormoni sessuali maschili. Nella donna, l’ovaio contiene gameti rappresentati dagli ovociti che sono in massima concentrazione alla nascita (circa 2 milioni) e da quel momento in poi possono solo diminuire. Questi sono presenti sotto forma di follicoli primordiali, all’interno dei quali trovate oociti primari che non sono ancora andati incontro alla prima fase meiotica e che quindi hanno ancora un corredo cromosomico diploide (questa situazione perdura fino alla pubertà). All’esterno del follicolo, ci sono le cellule della teca e della granulosa che producono gli ormoni estrogeni. Gli ormoni prodotti dalla componente endocrina nel testicolo sono principalmente il testosterone, il diidrotestosterone e ormoni peptidici inibitori, quali l’inibina (che inibisce la secrezione di FSH) e l’ormone antimulleriano (è secreto dalle cellule del Sertoli del testicolo fetale ed è responsabile della regressione dei dotti di Muller, strutture embrionali all’origine dell’utero, delle tube di Falloppio e della parte superiore della vagina); l’ovaio, al contrario, produce prevalentemente il 17-β-estradiolo (E2), l’estrone(E1), l’estriolo (E3), il progesterone (che serve a favorire l’annidamento della cellula uovo fecondata e a procurare tutto quello che serve per la normale evoluzione della gravidanza) e l’ormone antimulleriano (è secreto dalle cellule della granulosa dei follicoli ovarici fino alla menopausa e ha il compito di inibire il reclutamento dei follicoli primordiali fino a quando l’FSH non stimola la crescita del follicolo ogni ciclo mestruale). Gli ormoni sessuali si producono attraverso questa via di sintesi: il colesterolo si trasforma in pregnenolone, che può diventare progesterone oppure idrossi-pregnenolone: - il progesterone può diventare idrossi-progesterone e androstenedione, che a sua volta può dare testosterone o estrone; - l’idrossi-pregnenolone può diventare deidroepiandrosterone che si trasforma in androstenedione che, come detto prima, può dare testosterone o estrone. Testosterone ed estrone portano all’estradiolo e quindi poi all’estriolo. Il testosterone poi può prendere 2 strade nell’ovaio: a livello delle cellule della granulosa trova l’aromatasi che lo trasforma in 17-β-estradiolo oppure può subire dalla 5-α-reduttasi la riduzione, o l’idrossilazione, a diidrossitestosterone che ha un’affinità 10 volte maggiore per il recettore del testosterone ma è estremamente instabile e si ossida. Esiste un controllo da parte di mediatori tipici, le endorfine, la dopamina, la serotonina stessa che agiscono sull’ipotalamo inducendo la secrezione di GnRH, fattore di rilascio delle gonadotropine che agisce sull’ipofisi; l’ipofisi secerne 2 specifici ormoni, LH e FSH. Sono entrambi coinvolti sia nella gametogenesi che nella sintesi di ormoni, però in linea di massima l’FSH ha un ruolo prevalente sulla gametogenesi e l’LH sulla steroidogenesi, inibiscono la loro secrezione con un meccanismo a loop lungo: alti livelli di FSH, di LH e di ormoni steroidei inibiscono direttamente l’ipotalamo, che non secerne più GnRH. GONADI FEMMINILI L’ormone sessuale femminile più importante è il 17-β-estradiolo, prodotto dalle cellule della granulosa e dal follicolo ovarico. Queste 2 strutture secernono per lo più gli ormoni che servono alla maturazione dell’ovulo ma, essendo secreti nel sangue, agiscono su diversi tessuti: tube di Falloppio, utero, vagina, mammelle, ossa, sistema vascolare e reni. Il follicolo ovarico è una struttura molto complessa ed in evoluzione, dato che si sviluppa parallelamente alla maturazione dei caratteri sessuali e alla differenziazione sessuale stessa. Mentre nel maschio c’è una rigenerazione continua di spermatozoi, nella femmina gli ovociti non aumentano di numero dopo la nascita. Alla nascita l’ovaio è popolato da follicoli primordiali: dopo 65 giorni di vita intrauterina i follicoli primordiali sono in fase attiva di riproduzione e aumenteranno fino alla nascita (per poi differenziarsi in follicoli primari).

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Il follicolo primordiale è costituito da ovogonio, lamina basale e un singolo strato di cellule della granulosa; il follicolo primario si distingue perché compaiono 2 strutture membranose, la lamina basale all’esterno e la zona pellucida, che separa l’ovocita dallo strato singolo di cellule della granulosa. Con la differenziazione del follicolo si ha la formazione delle cellule della teca: fino alla comparsa della pubertà c’è una situazione di equilibrio, nel senso che un numero piccolo di cellule muore, un numero piccolo può andare incontro ad una parziale maturazione. Con la pubertà c’è una modificazione della soglia degli ormoni ipofisari e sessuali: sono necessarie dosi più alte di ormoni sessuali per inibire la secrezione di ormoni ipofisari. Gli ormoni ipofisari stimolano la steroidogenesi a livello delle cellule del follicolo ovarico: quando c’è un incremento di FSH e LH, compare il secondo strato di cellule della teca (che dipende essenzialmente dall’LH), le quali sintetizzano l’androgeno. Lo sviluppo progressivo delle cellule dello strato interno della granulosa è particolarmente evidente con il picco di FSH e LH con cui ha inizio il ciclo mestruale (dura 28 giorni), durante il quale un numero molto ridotto di follicoli secondari (a volte anche uno solo) si differenzia in terziario o follicolo di Graaf, caratterizzato essenzialmente dalla formazione dell’antro. Sotto la stimolazione di LH, le cellule della teca producono testosterone che, catalizzato dall’aromatasi, si trasforma in 17-β-estradiolo. Il follicolo di Graaf ha una cavità 8-9 volte più grande di quello secondario, le cellule della granulosa sono connesse all’ovocita ormai maturo attraverso un peduncolo rappresentato dalle cellule del cumulo ooforo: la pressione all’interno del liquido antrale aumenta per l’azione dell’estrogeno e dell’FSH ipofisario. Se uno dei due viene meno, non avviene l’esplosione del follicolo e quindi non ci può essere l’ovulazione. Una volta espulso l’ovocita, queste cellule collassano e si ha la formazione del corpo luteo che produce il progesterone necessario per l’annidamento dell’ovocita fecondato: se avviene la fecondazione, la produzione di progesterone è rilevata dalla placenta e si mantiene attiva; se non avviene la fecondazione, il corpo luteo va incontro ad atresia, diventando corpo albicans, e lo strato superficiale dell’endometrio si stacca, dando mestruazione. TRASCRIZIONE DEL SEGNALE DELL’ESTRADIOLO Il 17-β-estradiolo ha 2 recettori intracellulari (α e β), con localizzazione perinucleare. Secondo alcuni α è un oncogene e fa proliferare le cellule, β è un oncosoppressore e ha funzione di controllo. Questi recettori, in presenza dell’ormone, interagiscono con le sequenze ERE (Estrogen Responsive Element) a monte della TATA box dei geni responsabili della trascrizione ormonale. Il meccanismo d’azione degli estrogeni non agisce controllando esclusivamente la trascrizione dei geni, ma inducendo delle cascate di trascrizione in grado di controllare i geni attraverso diversi effettori. Le sequenze ERE non sono sempre presenti sulle cellule che dovrebbero essere potenzialmente coinvolte: questo fa pensare che la funzione regolatoria non funzioni soltanto attraverso vie trascrizionali genomiche ma anche attraverso vie di trasduzione non genomiche come la via di MAP chinasi che coinvolge Src, Ras, Raf, MEK, ERK. Questa via arriva sul complesso AP1 e controlla probabilmente geni critici come le cicline. Contemporaneamente, si è visto che il recettore è anche in grado di interagire con la subunità regolatrice (p85) della via di PI3K che attiva AKT in grado di regolare la sintesi di ciclina D1 sia attivamente che passivamente, regolando l’inibitore Fox1. Quindi ci sono meccanismi di controllo diretto della trascrizione e meccanismi di trasduzione non genomica, responsabili per esempio dell'azione proliferativa degli androgeni e degli estrogeni. EFFETTI NON RIPRODUTTIVI DEGLI ESTROGENI La produzione di estrogeni compare solo quando c’è un numero necessario di oociti maturi con cellule della teca e della granulosa, infatti, solo in questo caso si ha la produzione adeguata di estrogeni essenziale sia per l’ovulazione che per gli altri effetti. Gli estrogeni:

Promuovono la crescita cellulare di organi bersaglio, che non avviene direttamente ma attivando trasduttori di natura oncogena;

Agiscono sulla rigenerazione dell’osso, (motivo per il quale donne in menopausa non hanno una rigenerazione ossea adeguata) promuovendo l’azione degli osteoblasti e inibendo quella degli osteoclasti;

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Inducono vasodilatazione sul sistema vascolare. L’estradiolo, attraverso il suo recettore, interagisce con la subunità regolatrice (p85) di PI3K. P85 attiva l’ossido nitrico sintetasi (NOS) presente nelle caveole (una struttura della cellula costituita dalle caveoline dove il recettore dell’estrogeno arriva con un meccanismo calcio calmodulina dipendente): NOS produce un aumento di ossido nitrico con conseguente vasodilatazione. I livelli molto alti di NOS sono il motivo per cui le donne hanno una protezione maggiore contro l’aterosclerosi (oltre alle HDL più elevate e le LDL più basse): frequenti sono invece i problemi vasculopatici cerebrali, come TIA e ictus per eccesso di estrogeni. La protezione indotta dall’ossido nitrico riduce anche l’aggregazione piastrinica e l’adesione dei neutrofili;

Sul sistema nervoso promuovono la performance cognitiva, soprattutto la memoria breve, proteggono dalla morte cellulare e aumentano la sopravvivenza neuronale, per questo motivo si sta pensando di somministrare analoghi degli estrogeni per l’Alzheimer. I sistemi di segnalazione con meccanismi non genomici sono responsabili dell’azione neuroprotettiva e neurotrofica soprattutto nei neuroni dell’ippocampo: questo avviene attraverso un aumento del calcio intracellulare. Il recettore dell’estradiolo in parte aumenta il flusso di calcio e stimola la via calcio guidata, in parte agisce direttamente attraverso PI3K su Akt che inibisce l’adenilazione di Bcl2, il quale svolge una funzione antiapoptotica, incrementando la capacità di sopravvivenza del neurone. Il calcio agisce anche attraverso PKC che, interagendo con Src e con altre proteine, porta all’attivazione di Erk. Gli estrogeni hanno, tra le varie capacità, anche quella di aumentare il numero delle sinapsi che consente l’aumento delle funzioni cognitive, però solo in alcune condizioni: per esempio, i neuroni dell’ippocampo che si sviluppano con le sinapsi per induzione degli estrogeni, riducono notevolmente la formazione di nuove connessioni nella risposta sotto stress (serve ad eliminare la memoria neuronale dello stress). Qualcosa del genere succede anche nel sistema vascolare con l’utilizzo della terapia ormonale sostitutiva. Ad esempio, nelle donne in menopausa, la terapia a base di estrogeni se instaurata in tempo (quando il recettore è ancora presente) dà effetti positivi sulla vasodilatazione e sulla protezione dai fenomeni infartuali; se instaurata tardi (quando il recettore è meno presente), dà vasocostrizione, alterazione dei fenomeni infartuali, ma soprattutto instabilità delle lesioni aterosclerotiche. Anche a livello cerebrale se la terapia è precoce, si ha una protezione dei vasi, se non è precoce inizia la produzione di prostaglandine, mediatori dell’infiammazione, che determinano complicazioni.

EFFETTO DEGLI ESTROGENI SULLA GHIANDOLA MAMMARIA La ghiandola mammaria è costituita nella sua interezza da tessuto adiposo e da parenchima. Quando gli estrogeni agiscono sulla ghiandola mammaria, si ha la deposizione di tessuto adiposo e allo stesso tempo sviluppo di tessuti stromali e anche di un ampio sistema di dotti ghiandolari, mentre i lobuli e gli alveoli delle ghiandole mammarie si accrescono solo di poco. Gli estrogeni non sono però responsabili della produzione di latte: per fare questo è necessaria l’azione combinata del progesterone e della prolattina. Il progesterone non ha un’azione di proliferazione vera e proprio, ma determina piuttosto la differenziazione dei recessi terminali degli alveoli che si trasformano in acini; questi, quando arriva la prolattina (subito dopo il parto, stimolata dalla dopamina), sono pronti a produrre prima il colostro, poi il latte. Senza la presenza di estrogeni e progesterone la mammella sarebbe un organo atrofico: questa spiega perché gli estrogeni hanno un ruolo importante nei tumori ormono-dipendenti (carcinoma prostatico, nel 60-70% dei casi, e mammario, nel 7% dei casi). Non sono gli estrogeni che causano il tumore, ma giocano un ruolo importante nella progressione. Motivo per cui gli anti-estrogeni (come il Tamoxifene, adesso sostituito da farmaci meno tossici), sono utilizzati nel trattamento dei tumori ormono-dipendenti. TERAPIA A BASE DI ANTI-ESTROGENI NEI TUMORI ORMONO-DIPENDENTI Tale trattamento è impiegabile solo se è presente il recettore degli estrogeni e del progesterone: 1) Se c’è il recettore dell’estrogeno, bisogna vedere se funziona andando a dosare dei marker. Il marker più comune è il recettore del progesterone, in quanto è indotto dall’estrogeno. Se ci sono tutti e 2 i recettori, vuol dire che il recettore c’è e funziona e ciò implica che quel tumore è ormono-dipendente. La cura con gli anti-estrogeni è efficiente; 2) Se c’è il recettore dell’estrogeno ma non quello del progesterone, il recettore è in grado di legare ma non di attivare trascrizionalmente l’espressione del recettore del progesterone. Prima questo veniva considerato

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come un segno di malignità, poi con la scoperta degli effetti non genomici, si è capito che il recettore dell’estrogeno può ancora promuovere l’espressione di quello del progesterone e, quindi, vale la pena trattare il tumore con gli anti-estrogeni; 3) Se non c’è più il recettore dell’estrogeno, è un brutto segno perché il tumore non è ormono-dipendente ed è anche abbastanza indifferenziato. Non è trattabile con gli anti-estrogeni; 4) Se non c’è il recettore dell’estrogeno, ma c’è il recettore del progesterone, vuol dire che il recettore è mutato e funziona anche in assenza di ligando perché c’è un’attività proliferativa incontrollata dell’estrogeno (non è un buon segno). Le cose si sono complicate quando sono stati scoperti effetti non genomici ma strettamente collegati alla presenza di vie extranucleari attivate da fattori di crescita. Spesso questo effetto è compensato da un recettore ErbB-2 (recettore EGF o neo-oncogene). Infatti adesso nel tumore della mammella è obbligatorio fare anche la ricerca di ErbB-2, perché è un fattore di crescita importante che, controllando le vie che possono interferire con l’attività dei geni regolatori del recettore dell’estrogeno, può portare agli stessi effetti proliferativi. Infatti ErbB-2 è uno degli oncogeni che insiste sulla stessa via del recettore dell’estrogeno (Src chinasi, PI3K) e quindi può attivare le stesse vie di trasduzione. In questo caso, la terapia è basata sugli anticorpi contro ErbB2. Il tumore triplo negativo della mammella non presenta né i recettori per gli estrogeni, né i recettori per il progesterone, né il recettore per Erb-2: è associato ad un comportamento biologico più aggressivo rispetto alle altre neoplasie della mammella. È praticamente intrattabile. CICLO OVARICO Dopo la prima ovulazione tutti i mesi si avrà un’oscillazione costante degli ormoni ipofisari e gonadici che servono per l’espulsione dell’ovocita. Il ciclo ovarico viene diviso in 2 fasi: - la fase follicolare che precede l’ovulazione. I livelli di LH e FSH cominciano a salire, determinando un incremento dei livelli di estradiolo. La presenza di un picco contemporaneo di estradiolo, LH e FSH è essenziale perché si abbia lo scoppio del follicolo e quindi l’ovulazione; è necessario che alte concentrazioni di estrogeni, superiori ai 200 picogrammi/ml, determinino un feedback positivo (unico caso di feedback positivo tra ipofisi, ipotalamo e ghiandole bersaglio). - la fase lutea, che segue la fecondazione (senza, ci sarebbe la mestruazione). È caratterizzata dalla formazione del corpo luteo e dalla secrezione di progesterone. Quest’ormone è importante nella stabilizzazione iniziale dell’embrione; successivamente sarà la placenta e gli annessi embrionali a svilupparlo. La placenta è anche l'organo più importante per la produzione di estrogeni surrenalici che sono essenziali ad indurre il travaglio e promuovere lo sviluppo della mammella e la lattazione. PATOLOGIE DELL’OVAIO L’ipovarismo (o ipogonadismo) si distingue in:

Ipovarismo ipergonadotropo, in cui l’ovaio non funziona e c’è una compensazione da parte dell’ipofisi che secerne grandi quantità di ormoni ipofisari;

Ipovarismo ipogonadotropo, in cui l’ipofisi non funziona e l’ovaio non può produrre ormoni. Il primo sintomo è l’amenorrea (interruzione del flusso mestruale) che si distingue in primaria (sempre patologica, ad esempio la disgenesia delle gonadi nella malattia di Turner), presente nelle donne che non hanno mai avuto il menarca, e secondaria (patologica o fisiologica nella gravidanza e nella menopausa), in cui c’è una sospensione del flusso mestruale dopo almeno 2 mestruazioni, anche se regolari. L’amenorrea secondaria è patologica nell’iperprolattinemia, nell’anoressia nervosa, nello stress molto forte e nella sindrome dell’ovaio policistico.

L’ovaio policistico è dovuto allo sbilanciamento dei livelli di LH e FSH: - LH (ormone luteinizzante) aumenta la produzione di androgeni che dà mascolinizzazione/iperandrogenia (le donne con ovaio policistico manifestano acne e ipertricosi); - FSH (ormone follicolo stimolante), che è in quantità ridotte, non riesce a trasformare gli androgeni (la cui produzione è stimolata da LH) in estrogeni; non solo, fa aumentare il volume dell’antro follicolare, per cui il follicolo non scoppia e si creano le famose cisti.

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Gli elevati livelli di androgeni a livello del tessuto adiposo vanno incontro ad aromatizzazione, con produzione di estrogeni che, a differenza di ciò che succede nell’ovaio, nei tessuti periferici hanno un feedback negativo sulla produzione di FSH: il deficit della stimolazione follicolare si amplifica. GONADI MASCHILI La spermatogenesi è la gametogenesi maschile, cioè il processo di maturazione delle cellule germinali maschili che avviene nei testicoli (più precisamente nei tubuli seminiferi) quando l’individuo ha raggiunto la pubertà sotto lo stimolo degli ormoni FSH e testosterone. La spermatogenesi comincia dagli spermatogoni, cellule indifferenziate in attiva proliferazione prodotte in corrispondenza della membrana basale dei tubuli seminiferi, i quali sono protetti dalle cellule di Sertoli. Man mano che gli spermatogoni si differenziano e crescono, protrudono verso il lume. Con la pubertà e il rilascio degli ormoni ipofisari LH e FSH, gli spermatogoni si differenziano in spermatociti che vanno incontro a meiosi, per cui da una cellula diploide si formano 4 cellule aploidi (spermatidi). Gli spermatidi vanno incontro alla spermiogenesi per trasformarsi in spermatozoi, costituiti da una testa (acrosoma più nucleo), un collo e una coda (flagello). L’acrosoma dello spermatozoo è ricco di ialuronidasi necessarie per ledere la membrana dell’ovulo e fecondarlo. SECREZIONE DEL TESTOSTERONE L'ipotalamo stimola l'ipofisi anteriore, che rilascia LH e FSH; quest’ultimo agisce sulle cellule di Sertoli promuovendone la riproduzione, e stimolandole a produrre ABP (proteina che lega gli androgeni). Le cellule di Sertoli, a loro volta, producono inibina che inibisce la produzione di FSH (controllo a feedback negativo). Al contrario LH agisce sulle cellule di Leydig stimolandole a produrre testosterone, il quale con un meccanismo a feedback negativo blocca la produzione di LH. Il testosterone è responsabile dei cosiddetti effetti estetici (barba, peli pubici, crescita del pene, forte sudorazione): i livelli di testosterone sono bassissimi fino ai 12-13 anni, dopodiché hanno un incremento iperbolico che si associa alla comparsa dei caratteri sessuali maschili maturi. Sul sistema nervoso induce la formazione del cosiddetto fenotipo psichico maschile e stimolano la sintesi di sinapsi precoci (causa probabile di autismo); nella laringe determina l'abbassamento di un paio di toni della voce maschile; a livello plasmatico c’è un aumento dell’emoglobina e delle LDL a discapito delle HDL; a livello muscolare c’è un aumento della massa. La produzione degli androgeni dipende fortemente dall’attività fisica: l’esercizio può far aumentare i livelli fino al 185% (tornano normali nella fase di recupero); al contrario, in condizioni di stasi il testosterone può addirittura scomparire (probabilmente dovuto ad una ridotta clearance epatica e a modificazioni del flusso plasmatico testicolare). PATOLOGIE DEL TESTICOLO Gli androgeni sono fondamentali per la differenziazione sessuale. In assenza di androgeni:

- durante la vita fetale c’è pseudoermafroditismo maschile; - durante l’adolescenza e l’età adulta ci può essere un ipogonadismo ipergonadotropo se il

testicolo non funziona e ipogonadismo ipogonadotropo se l’ipofisi non funziona. Le caratteristiche fondamentali dell'ipogonadismo sono: ginecomastia, ipotrofia del pene e dello scroto, riduzione della massa muscolare, distribuzione ginoide (ai fianchi) del grasso e perdita dei peli. L’ipogonadismo maschile, se si riflette sulle cellule germinali porta infertilità, se si riflette sulle cellule steroidogenetiche (cellule di Leydig) causa un deficit androgenico e femminilizzazione. La causa più frequente di ipogonadismo ipergonadotropo è la sindrome di Klinefelter, una sindrome ipergonadotropica che, per compensare il malfunzionamento testicolare, presenta un’ipersecrezione di gonadotropine da parte dell’ipofisi (essendo il difetto cromosomico, la compensazione non risolve il malfunzionamento). Altre causa sono: la sindrome di Reifenstein (alterazione per attività o per il numero dei recettori del testosterone), l’anorchia e l’insufficienza secondaria testicolare. Le cause più frequenti di ipogonadismo ipogonadotropo sono: la sindrome da pubertà ritardata, l’eunucoidismo ed il deficit di LH e FSH.

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ALTERAZIONI GONADICHE PRIMITIVE Nelle alterazioni gonadiche primitive rientrano quelle condizioni in cui il danno primitivo si verifica nello sviluppo e nella differenziazione dalle cellule gonadiche primitive del testicolo od ovaio, per cui comprendono condizioni senza alterazioni del cariotipo 46XY o 46XX, oppure condizioni con alterazioni del cariotipo eterocromosomico (quando un cromosoma è diverso dagli altri, in particolare i cromosomi sessuali). Inoltre, esse includono l'ermafroditismo vero e le disgenesie gonadiche. ALTERAZIONI GONADICHE PRIMITIVE SENZA ALTERAZIONI DEL CARIOTIPO XX O XY Vi sono sindromi con assenza di cellule germinali in cui le gonadi sono assenti (agenesia) o costituite da altre cellule (cellule del Sertoli nel maschio infertile). Le mutazioni con perdita di funzione dei geni danno luogo a forme di agenesie o disgenesie di vario tipo caratterizzate da infertilità e malformazioni varie a seconda della gravità, del periodo dello sviluppo in cui hanno agito e della presenza di vie alternative per lo sviluppo delle strutture dipendenti (gonadi, rene, surrene). ALTERAZIONI DELLE GONADI NELLE GRANDI ANEUPLOIDIE ETEROCROMOSOMICHE - SINDROME DI KLINEFELTER La sindrome è caratterizzata dalla presenza di un cromosoma X soprannumerario, per cui il cariotipo più frequente è 47XXY ed è dovuto alla mancata disgiunzione meiotica nella gametogenesi. I soggetti affetti da questa sindrome sono fenotipicamente maschi con una delle suddette aneuploidie (variazione del numero di cromosomi). Presentano testicoli di piccole dimensioni (disgenesia), insufficiente virilizzazione, azoospermia e quindi sterilità. Presentano un aumento della statura media e un aumento plasmatico delle gonadotropine e, talvolta, ritardo mentale. La sindrome di Klinefelter può presentare disturbi della personalità, ipospadia (malformazione congenita degli organi genitali), ginecomastia e altre complicanze come un'alta incidenza del cancro della mammella e di leucemie. - SINDROME DI TURNER La sindrome di Turner è caratterizzata dalla monosomia del cromosoma sessuale X. Nella maggioranza dei casi il cariotipo è 45X o 45X0, con assenza completa di un cromosoma X. Come nella sindrome di Klinefelter, queste alterazioni cromosomiche sono associate ad errori nel corso della gametogenesi. Solitamente la mancata disgiunzione avviene nella spermatogenesi; questo implica la perdita del cromosoma sessuale paterno e, successivamente alla fecondazione, l'unione di questo gamete privo di cromosoma sessuale con uno normale contenente X. I segni e i sintomi variano tra le persone colpite: i più comuni sono collo corto e con pterigio (piega cutanea), attaccatura delle orecchie e dei capelli bassa, bassa statura e mani e piedi gonfi. In genere le donne con la sindrome non hanno il ciclo mestruale, non sviluppano le mammelle e non sono in grado di avere figli. Frequentemente si verificano difetti cardiaci, il diabete e ipotiroidismo. ERMAFRODITISMO VERO, O SINDROME OVOTESTICOLARE L’ermafroditismo vero si stabilisce precocemente nella gonade bipotenziale (non è avvenuta ancora la differenziazione sessuale). È una condizione intersessuale caratterizzata dalla contemporanea presenza di tessuto ovarico e di tessuto testicolare. Di conseguenza i genitali esterni sono ambigui o femminili (dipende dalla quantità di testosterone prodotto nel testicolo tra l’8a e la 16a settimana di gestazione). Sulla base della localizzazione e del tipo di tessuto gonadico si hanno 3 diverse forme:

Laterale: presenza di un testicolo da un lato e di un ovaio dall'altro, preferibilmente a sinistra;

Bilaterale: presenza di gonadi miste costituite entrambe da tessuto testicolare ed ovarico (ovotestis) in entrambi i lati;

Unilaterale: presenza di un ovotestis in un lato e di un testicolo o di un ovaio nell'altro. Nell'ermafroditismo vero, l'ovaio è generalmente in sede eutopica (normale), mentre il testicolo si può trovare in un punto qualsiasi del tragitto attraverso il quale avviene la sua discesa. Il cariotipo di questi soggetti può essere normale (46XX o 46XY) oppure presentare aneuploidie, mosaicismi e chimerismi (47XXY, 46XX/46XY, o 46XX/47XXY), per cui può essere presente il corpuscolo di Barr (a seconda della presenza o meno di un cromosoma X inattivato). La patogenesi più frequente è associata ad una mutazione del gene SRY, ma vi possono essere altre vie patogenetiche in cui si realizza la contemporanea attivazione delle 2 vie per la differenziazione del testicolo e dell'ovaio.

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Questo si potrebbe verificare in alcune forme di mosaicismo degli eterocromosomi: 1) la divisione di un ovulo seguita dalla fecondazione di ciascun ovulo aploide e dalla fusione dei due zigoti in una fase precoce dello sviluppo; 2) alternativamente un ovulo può essere fecondato da 2 spermatozoi cui segue un rischio di trisomia cromosomica in una o più cellule figlie; 3) si può avere la condizione di 2 ovuli fecondati da 2 spermatozoi che occasionalmente si fondono per formare una chimera tetragametica: infatti se si fondono uno zigote maschile e uno zigote femminile può esservi sicuramente il rischio di un individuo ermafrodita. DISGENESIA GONADICA PURA La disgenesia gonadica pura si stabilisce quando è definita la differenziazione verso il testicolo o verso l'ovaio (il cariotipo può essere XX o XY). Le principali alterazioni sono rappresentate da gonade bilaterale a stria, infantilismo sessuale, amenorrea primaria, senza segni della sindrome di Turner, livelli elevati di gonadotropine sieriche, aspetto generale eunucoide, statura normale o elevata. Altre forme di disgenesia gonadica si riscontrano nella sindrome di Turner maschile (mosaicismo XX/XY) e nelle sindromi pseudo-Turner, di Noonan o di Ullrich (pur con cariotipo normale XX o XY e rispettivo fenotipo femminile o maschile, sono presenti vari segni della sindrome di Turner insieme a malformazioni cardiovascolari). DISORDINI DELLA DIFFERENZIAZIONE DEGLI ORGANI SESSUALI SECONDARI I disordini della differenziazione degli organi sessuali secondari si stabiliscono per varie cause (gonadiche, extragonadiche o entrambe). Nelle alterazioni della differenziazione degli organi sessuali secondari rientrano gli pseudoermafroditismi maschili e femminili, le alterazioni della sintesi degli ormoni sessuali nel periodo dello sviluppo, le resistenze recettoriali, l'iperplasia congenita del surrene e la mascolinizzazione iatrogena (correlata a terapia o una conseguenza della terapia stessa). PSEUDOERMAFRODITISMI MASCHILI E FEMMINILI Gli pseudoermafroditismi sono disordini del differenziamento dipendenti da varie alterazioni delle gonadi.

Pseudoermafroditismi di tipo maschile: quando un soggetto fornito di testicoli presenta anomalie dei condotti genitali e i genitali esterni sono ambigui o femminili. È riconducibile ad una mancata azione del testosterone (o del diidrotestosterone) sull'apparato genitale durante la vita fetale, dalla maturazione del testicolo a quella degli organi sessuali secondari;

Pseudoermafroditismi di tipo femminile: quando un soggetto geneticamente femmina (46XX) con genitali interni femminili (trombe ed utero) presenta genitali esterni di tipo mascolineggiante. La mascolinizzazione dei genitali esterni avviene per azione di androgeni di produzione extragonadica ed è tanto più marcata quanto più precoce e più lunga è stata l'esposizione agli androgeni durante il periodo embrionale. Se l'azione dell'eccessiva quantità di androgeni si manifesta dopo la 12a settimana di gestazione (quando la vagina si è separata dal solco urogenitale) l'unica alterazione sarà l'aumento delle dimensioni del clitoride. Invece l'effetto precoce degli androgeni si manifesta solo sui genitali esterni e non su quelli interni, per il fatto che i dotti di Muller vanno incontro ad atrofia solo nel caso che il feto sia dotato di testicolo, per effetto del fattore anti-mulleriano. Nella maggior parte dei casi gli androgeni sono prodotti dal surrene, ma si sono osservati anche casi iatrogeni, conseguenti al trattamento con androgeni delle madri durante la gravidanza.

ALTERAZIONE DELLA SINTESI DEGLI ORMONI SESSUALI La sintesi di androgeni ed estrogeni è cruciale per lo sviluppo degli organi sessuali secondari e, quindi, per evidenziare il sesso fenotipico. a) Insensibilità testicolare alla gonadotropina corionica (hCG) e all'LH È una sindrome rara di pseudoermafroditismo maschile legata alla scarsa secrezione di testosterone, dovuta ad una mancata risposta durante la vita intrauterina delle cellule di Leydig all'hCG e/o all'LH per un difetto (assenza o mutazione) degli specifici recettori. Nel periodo embrionale il differenziamento sessuale nel maschio è controllato dal testosterone, la cui sintesi a sua volta è stimolata prima dall'hCG e poi dall'LH. Alla nascita, i soggetti con questa sindrome presentano genitali ambigui e vengono erroneamente catalogati come femmine. In questi pazienti la regressione dei dotti di Muller è completa e, inoltre, è assente la differenziazione dei dotti di Wolff.

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b) Errori congeniti nella biosintesi del testosterone nel testicolo e nel surrene Si tratta di sindromi che hanno in comune una iperplasia surrenalica, caratterizzate da un errore congenito del metabolismo degli ormoni surrenalici e degli androgeni. Generalmente riguarda la perdita di funzione di vie metaboliche comuni al testicolo e al surrene e appare specificamente colpito un enzima che agisce a monte delle vie metaboliche utili per la sintesi di questi ormoni nel testicolo. Quando la sindrome è completa, si osserva un blocco nel surrene della sintesi dei mineralcorticoidi, dei glucocorticoidi, degli estrogeni e degli androgeni. Clinicamente si presenta come pseudoermafroditismo maschile o femminile associato a insufficienza surrenalica. Pertanto, il fenotipo si presenta con genitali ambigui nei due sessi: mascolinizzazione nella femmina e femminilizzazione nel maschio. Alle ambiguità sessuali si accompagnano crisi di insufficienza surrenalica, con gravi alterazioni elettrolitiche. Il blocco enzimatico può essere a vari livelli:

- Deficienza della 17α-idrossilasi, che nella zona fascicolata del surrene catalizza la trasformazione del pregnenolone in 17-idrossipregnenolone e del progesterone in 17-idrossiprogesterone; di conseguenza viene bloccata la sintesi dei glucocorticoidi e degli androgeni, mentre viene mantenuta la via metabolica dei mineralcorticoidi. Anche il testicolo risulta danneggiato per la compromissione della sintesi del testosterone. In questi pazienti per l'eccessiva produzione di corticosterone e di deossicorticosterone si ha ipertensione, ipokaliemia ed alcalosi che causano un blocco della secrezione della renina, a sua volta responsabile di un aumento della secrezione di aldosterone. Alla nascita le femmine appaiono normali, mentre i maschi presentano genitali ambigui e fenotipo femminile; in età puberale ambedue presentano infantilismo sessuale ed ipertensione;

- Deficienza della 20-22 desmolasi o iperplasia surrenalica lipoidea (clinicamente il più grave dei difetti). La desmolasi converte il colesterolo in pregnenolone; pertanto, la mancata sintesi di questo metabolita è responsabile di una grave forma di pan-ipocorticosurrenalismo. In questi casi si evidenzia una marcata iperplasia (compensatoria) dei surreni che addirittura possono spostare i reni. I surreni vanno incontro progressivamente a infiltrazione lipidica e questo può accadere anche nei testicoli. È caratterizzata da pseudoermafroditismo maschile, infantilismo sessuale e insufficienza surrenalica. Nei maschi i genitali esterni sono ambigui, spesso femminili, mentre nelle femmine i genitali sono normali. Nei maschi spesso si osserva criptorchidismo (mancata discesa di uno o entrambi i testicoli) con ritenzione del testicolo in sede addominale o nel canale inguinale o in abbozzi di grandi labbra. I sintomi da insufficienza surrenalica sono molto gravi e la sopravvivenza in questi soggetti, se non trattati opportunamente, è molto problematica.

c) Errori congeniti della sintesi di testosterone solo nel testicolo - Deficienza della 17-20 desmolasi. Per questo difetto enzimatico si ha la mancata trasformazione di

17α-idrossipregnenolone in deidroepiandrosterone prima e poi in androstenedione. In questi pazienti è presente un basso livello ematico di androgeni e pertanto essi hanno genitali ambigui e testicoli ritenuti a vari livelli del loro tragitto di discesa. La patogenesi è più spesso legata a mutazioni di una delle forme del citocromo P450, il gruppo prostetico di molti enzimi con un ruolo chiave nella steroidogenesi. Uno di questi, il P450c17, codificato dal gene CYP17, è responsabile sia dell'attività 17-idrossilasi, sia di quella 17-20 liasi.

- Deficienza di β-idrossisteroidoreduttasi. La deficienza di β-idrossisteroidoreduttasi nel testicolo causa una riduzione della sintesi di testosterone e di estradiolo. La β-idrossisteroidoreduttasi catalizza la trasformazione del deidroepiandrosterone in androstenediolo, da cui deriva il testosterone; catalizza anche la trasformazione dell'androstenedione in testosterone. Durante la vita fetale, a causa della carenza di androgeni, legata alla deficiente funzione di questo enzima, si ha il mancato sviluppo dei genitali esterni, per cui i pazienti presentano genitali femminili ambigui con vagina a fondo cieco e testicoli ipoplasici ritenuti. Durante la pubertà si può avere ginecomastia per un eccesso di trasformazione periferica di steroidi C19 in estrogeni che modifica il rapporto estrogeni/androgeni.

RESISTENZE AGLI ANDROGENI (FEMMINILIZZAZIONE TESTICOLARE) I pazienti con questa sindrome (sindrome di Morris) sono geneticamente maschi, negativi per il corpuscolo di Barr, con caratteristiche fenotipiche femminili. È geneticamente trasmessa come carattere recessivo legato al sesso, essendo il gene per il recettore androgenico (RA) localizzato sul cromosoma X. La resistenza può essere totale (assenza o completa inattivazione del gene per il RA) o parziale. Questo influisce sulla femminilizzazione e sull'evoluzione dopo la pubertà.

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In questi soggetti i genitali esterni sono di tipo femminile con vagina a fondo cieco, utero assente. I condotti esterni ipoplasici sono di tipo maschile, i testicoli ritenuti nelle grandi labbra o in altri tratti del canale di migrazione. Istologicamente, il testicolo presenta dei tubuli sprovvisti di lume. Sono presenti cellule di Sertoli e spermatogoni. Le cellule di Leydig sono presenti e diventano iperplastiche alla pubertà. Questi testicoli se non asportati sviluppano tumori maligni. Lo sviluppo puberale di questi soggetti è di tipo femminile, menarca assente ed alti livelli ematici di testosterone e LH. DEFICIENZA DI 5α-REDUTTASI (SINDROME CON IPOSPADIA PERINEO-SCROTALE PSEUDO-VAGINALE) Altro esempio di femminilizzazione testicolare è rappresentato dalla debolezza (ridotta efficacia) dello stimolo androgenico che è presente in questa sindrome. L'enzima 5α-reduttasi, sia in sede cellulare che plasmatica, trasforma il testosterone in diidrotestosterone. La mancanza di quest'ultimo durante la vita fetale è responsabile dell'ambiguità dei genitali esterni, mentre i fenomeni di virilizzazione che si osservano alla pubertà dipendono dal fatto che i recettori per il diidrotestosterone vengono comunque stimolati dal testosterone che in maniera competitiva si lega ad essi. Pertanto, la carenza di funzione di 5α-reduttasi dà luogo a una sindrome clinica con ambiguità dei genitali esterni, con un pene di piccole dimensioni, ipospadia con scroto bifido, seno urogenitale aperto nel perineo e una tasca vaginale cieca. Nella pubertà compaiono i caratteri sessuali secondari maschili, con discesa dei testicoli nel solco labio-scrotale che possono dar luogo alla comparsa occasionale di spermatogenesi. Dopo la pubertà i livelli ematici di testosterone e di LH sono elevati, mentre quelli di diidrotestosterone sono bassi. IPERPLASIA CONGENITA DEL SURRENE L'iperplasia del surrene è caratterizzata dalla deficienza di funzione, determinata geneticamente, di uno o più enzimi responsabili della sintesi del cortisolo. I feedback positivi conseguenti al deficit di cortisolo portano all'iperproduzione di ACTH e all'iperplasia surrenalica. È una malattia autosomica recessiva, per cui entrambi i sessi possono essere coinvolti con conseguenze diverse in relazione all'apparato genitale. È un insieme di 6 sindromi, di cui nelle prime tre (Tipo I, II, III) il fenomeno della virilizzazione è preminente a causa della iperproduzione di androgeni durante la vita fetale e anche dopo la nascita. In questi casi la terapia cortisolica sostitutiva si è rivelata importante per bloccare l'eccesso di secrezione ipofisaria di ACTH. La diagnosi è possibile già alla nascita, perché il neonato di sesso femminile presenterà ambiguità degli organi genitali esterni, mentre il neonato di sesso maschile presenterà un'iperpigmentazione dello scroto da eccesso di secrezione di ACTH che attiverà i recettori del MSH {ormoni che stimolano i melanociti) in alcuni epiteli; infine, il pene si presenterà di dimensioni maggiori rispetto alla norma. Le altre sindromi con iperplasia surrenalica (tipo IV, V, VI) sono caratterizzate da incompleta mascolinizzazione nel maschio e scarso effetto virilizzante nella femmina. DEFICIENZA DELLA C21-IDROSSILASI La deficienza della C21-idrossilasi è la causa del 90% dei casi di iperplasia congenita della corteccia surrenale. La C21-idrossilasi fa parte di un complesso enzimatico localizzato nel reticolo endoplasmico liscio delle cellule delle zone glomerulare e fascicolata della corticale ed è responsabile dell’idrossilazione a livello del carbonio in posizione 21 sia del progesterone che del 17α-idrossiprogesterone. Si conoscono 2 varianti: il tipo I con totale deficienza enzimatica riguardante le cellule di ambedue le zone glomerulare e fascicolata, e il tipo II in cui il deficit enzimatico riguarda solo la zona fascicolata. La deficienza di tipo I è quella più grave perché è presente il blocco completo della sintesi di cortisolo e dei mineralcorticoidi, rispettivamente per la mancata formazione di 11-desossicortisolo dal 17-aidrossiprogesterone e di 11-desossicorticosterone dal progesterone. La mancata produzione di mineralcorticoidi causa una grave alterazione del ricambio idrico-salino che si manifesta già a pochi giorni dalla nascita, caratterizzato da un'eccessiva eliminazione di acqua ed elettroliti con le urine che porta rapidamente a disidratazione, iponatriemia, acidosi, ipovolemia e shock ipovolemico, più spesso la causa del decesso, in assenza di una terapia adeguata. Nelle femmine si osserva accentuata mascolinizzazione dei genitali, più evidente che nella forma parziale. Nel tipo II, essendo il difetto enzimatico limitato alla zona fascicolata, non si osservano alterazioni nella produzione di mineralcorticoidi, per cui i soli segni presenti sono la mascolinizzazione dei genitali delle femmine, e l'iperpigmentazione dell'area scrotale e l'ingrandimento del pene nei maschi. Il blocco enzimatico del 17α-idrossiprogesterone provoca un accumulo di quest'ultimo che viene trasformato in androgeni e la

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diminuita sintesi di desossicortisolo e cortisolo con meccanismo feedback stimola l'ipofisi ad un forte aumento della produzione di ACTH da cui derivano gli effetti iperplastici corticali. MASCOLINIZZAZIONE IATROGENA L'assunzione di farmaci a base di progesterone durante la gravidanza può causare la nascita di bambine con evidenti segni di virilizzazione. Questa può variare a seconda che il trattamento terapeutico sia avvenuto prima o dopo la 12a settimana di gravidanza: infatti i segni che si manifestano alla nascita possono andare dallo pseudoermafroditismo femminile all'aumento delle dimensioni del clitoride.

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CALCIO Il calcio è necessario per il corretto funzionamento di numerosi processi intracellulari ed extracellulari, compresa la contrazione muscolare, la conduzione dell'impulso nervoso, il rilascio ormonale e la coagulazione del sangue. In aggiunta, lo ione calcio svolge un ruolo esclusivo nei meccanismi di segnalazione intracellulare ed è coinvolto nella regolazione di numerosi enzimi. Poiché il calcio è presente nel citosol in concentrazioni molto basse, esso è straordinariamente adatto ad agire come secondo messaggero intracellulare. Nel muscolo scheletrico, aumenti transitori della concentrazione citosolica di calcio determinano un'interazione fra il calcio e le proteine leganti il calcio (troponina C e calmodulina) che dà inizio alla contrazione muscolare. La concentrazione intracellulare di calcio regola una varietà di altri processi cellulari mediante l'attivazione delle protein chinasi e la fosforilazione enzimatica. Il calcio è inoltre coinvolto nell'azione di altri messaggeri intracellulari, come cAMP e l'inositolo 1,4,5-trifosfato e media pertanto la risposta cellulare di numerosi ormoni, tra i quali l'adrenalina, il glucagone e la vasopressina. Le funzioni principali del calcio sono quelle extracellulari: la coagulazione, la mineralizzazione ossea e l’eccitabilità (la conduzione neuromuscolare). Il mantenimento dell'omeostasi del calcio è, perciò, di importanza cruciale. I livelli plasmatici totali normali del calcio sono compresi tra 8,8 e 10,4 mg/dl. Il calcio plasmatico totale è costituito per il 50% da calcio ionizzato (circa 4,7 mg/dl), per il 40% del calcio legato alle proteine plasmatiche (in primo luogo all'albumina); il rimanente 10% è costituito dal calcio complessato con il fosfato e il citrato. La concentrazione intracellulare di calcio è bassa (100 nM) rispetto a quella extracellulare (2.5 mM). Il calcio è conservato in compartimenti specifici (reticolo endoplasmatico, sarcoplasmatico, apparato di Golgi, mitocondri). In presenza di stimolazione, gli ioni calcio diffondono dall'interno dei compartimenti, nei quali sono conservati, nel citoplasma per attivare meccanismi intracellulari. Il metabolismo del calcio è strettamente correlato con quello del fosfato. Il fosfato entra a far parte delle membrane cellulari come fosfolipide, della matrice dell'osso come molecola di idrossiapatite, ed è inoltre coinvolto nelle reazioni energetiche della cellula poiché è un componente essenziale dell'ATP. Il fosfato partecipa a mantenere il pH dell'organismo entro un range limitato, entrando a far parte dei sistemi tampone (PBS, tampone fosfato salino). Il fosfato, a differenza del calcio, ha una concentrazione intracellulare poco più alta di quella extracellulare (1-2 mM contro 1mM). I livelli serici di fosfato sono compresi tra 2,4-4,1 mg/dl. Anche il magnesio ha un ruolo importante, sia a livello extracellulare (eccitabilità neuromuscolare, controllo della secrezione del paratormone), sia a livello intracellulare (è un cofattore molto importante). La sua concentrazione è più bassa (1,7-2,4 mg/dl). REGOLAZIONE DELL’OMEOSTASI DEL CALCIO Il metabolismo del calcio è influenzato dalla dieta, dalla sua mobilizzazione dall'osso, dal riassorbimento renale e dalle perdite intestinali. Il calcio è eliminato attraverso il rene. Il più importante fattore di regolazione è il paratormone (PTH) che influisce sulla regolazione diretta dei livelli di calcio; non meno importanti sono la vitamina D e la calcitonina (prodotta dalle cellule C della tiroide). La calcitonina ha azione antagonista rispetto al PTH (aumenta il riassorbimento osseo): gli effetti della calcitonina sul metabolismo osseo sono più deboli di quelli del PTH. È, invece, un importante marcatore tumorale: i tumori tiroidei maligni sono caratterizzati da un’alterazione dei livelli di calcitonina, utilizzata quindi come elemento diagnostico. PARATORMONE (PTH) Il PTH prodotto dalle paratiroidi (organi pari presenti in numero variabile da 4 a 6) agisce su 3 bersagli fondamentali, osso, rene e intestino. Nello specifico, PTH aumenta il rilascio del calcio a livello dell’osso (riassorbimento) e stimola la ritenzione di calcio a livello del rene (inducendo ipofosfatemia, eliminazione di fosfato). La sua azione sul rene determina l’attivazione della vitamina D che controlla l’assorbimento intestinale di calcio.

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PTH è un polipeptide di 84 amminoacidi che viene trasformato nella sua forma attiva a livello del fegato, tramite clivaggio dell’estremo carbossi-terminale. PTH viene prodotto in concentrazione quasi costante: se i livelli di calcio sono alti, PTH viene degradato nei lisosomi; se i livelli di calcio sono bassi, PTH viene inviato sull’apparato del Golgi e successivamente secreto. PTH ha 3 tipi di recettori, dei quali uno specifico, PTH2r, presente nel cervello, nel pancreas e nella placenta. PTHrP (peptide correlato al PTH) mostra un’omologia con il frammento N-terminale del PTH: a causa della sua somiglianza con PTH, è riconosciuto dai suoi stessi recettori e causa un aumento della concentrazione plasmatica di calcio e dell’escrezione del fosfato nelle urine. Il recettore del paratormone è un recettore di membrana a 7 ripiegamenti, legato ad una proteina G attivante, a sua volta legata ad una adenilato ciclasi: quando è stimolato, attiva l’adenilato ciclasi, induce un aumento del cAMP all’interno della cellula, si attiva la chinasi A e, insieme ad essa, i CRE (cAMP response element), fattori di trascrizione. Le mutazioni possono interessare il dominio transmembrana, il dominio extracellulare (unica, responsabile della condrodisplasia di Blomstrand) e il dominio intracellulare: sono spesso causa di pseudoipoparatiroidismi, condizioni in cui c’è PTH, ma non esplica la sua funzione perché il recettore è mutato. La valutazione della funzione paratiroidea comprende la misurazione dei livelli di PTH circolante con metodi radioimmunologici e, più raro, la misurazione dell'escrezione del cAMP totale o nefrogeno nelle urine. Ci sono 2 modi per far funzionare il PTH:

PTH si lega al suo recettore, collegato tramite il suo dominio intracellulare con una proteina G di tipo stimolatorio (Gs). La proteina Gs si attiva liberando la subunità α, legata a un GTP, e interagisce con l'adenilato ciclasi. Questo enzima effettore si attiva e forma cAMP, il quale a sua volta attiva la protein chinasi A (PKA) e, insieme ad essa, i CRE (cAMP response element), fattori di trascrizione;

PTH si lega al suo recettore, collegato tramite il suo dominio intracellulare con una proteina G di tipo stimolatorio (Gs). La proteina Gs si attiva liberando la subunità α, legata a un GTP, e interagisce con la fosfolipasi C. Questo enzima effettore si attiva e forma inositolo trifosfato (IP3) e diacilglicerolo (DAG): IP3 causa l’aumento intracellulare di calcio, mentre DAG l’attivazione della protein chinasi C (PKC).

Si attiva l’adenilto ciclasi o la fosfolipasi C a seconda dei tessuti su cui agiscono PTH e il suo recettore. A livello renale, il PTH:

- aumenta il riassorbimento di calcio a livello del tubulo contorto distale (il calcio viene riassorbito per il 65% a livello del tubulo contorto prossimale senza regolazione ormonale);

- riduce il riassorbimento di fosfato a prescindere dalla sua concentrazione plasmatica, quindi in un soggetto che si trova in ipofosfatemia l’aumento del PTH porta ad una ipofosfatemia ancora più accentuata;

- stimola l’attività della 1α-idrossilasi che attiva la vitamina D. A livello dell’intestino la sua azione è mediata dalla vitamina D attiva che aumenta l’assorbimento di calcio e fosfati. A livello dell’osso, il PTH aumenta il riassorbimento di calcio e fosfato e ne accentua il flusso verso i liquidi extracellulari, con un effetto rapido oppure uno lento:

- il primo effetto non dipende dalla sintesi proteica e corrisponde ad una permeabilizzazione dell’osso che libera fluido extracellulare osseo ricco di calcio e comporta un aumento della calcemia;

- il secondo effetto dipende dalla sintesi proteica e corrisponde al processo del rimodellamento osseo ad opera degli osteoblasti ed osteoclasti. In questo processo la prima fase riguarda l’osso non lamellare e porta ad un rimaneggiamento delle trabecole ad opera degli osteoclasti; la seconda fase porta alla formazione di osso compatto (osso lamellare) grazie alla deposizione di nuovi frammenti di matrice ossea ad opera degli osteoblasti. Entrambe le fasi sono controllate dal PTH che regola i meccanismi di azione. In caso di elevato PTH gli osteoclasti sono iperstimolati con il conseguente assottigliamento dell’osso lamellare e l’apertura delle trabecole ossee (si riscontra nell’osteoporosi).

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RIASSORBIMENTO OSSEO Il riassorbimento osseo ad opera degli osteoclasti avviene in 4 fasi:

1. L'adesione alla matrice da erodere avviene attraverso recettori integrinici ed è seguita dalla creazione di un microambiente isolato in cui far avvenire il riassorbimento;

2. Un’anidrasi carbonica trasforma anidride carbonica e acqua in ione bicarbonato e protoni. Lo ione bicarbonato viene scambiato con cloro. Cloro e protone vengono portati nel microambiente;

3. Una pompa protonica acidifica il microambiente e solubilizza i sali minerali, attaccando il calcio; 4. Serino-proteasi, come la catepsina K, erodono la matrice proteica.

VITAMINA D Le due più importanti vitamine D sono la D2 (ergocalciferolo) di provenienza vegetale, e la D3 (colecalciferolo) derivante dal colesterolo. Mentre la D2 è assumibile solo per via alimentare, la D3 viene prodotta anche a livello della cute a partire dal 7-deidrocolesterolo, tramite irradiazione ultravioletta. La vitamina D a livello del fegato subisce una prima reazione di idrossilazione catalizzata dalla 25 α-idrossilasi: il colecalciferolo viene trasformato in 25-idrossicolecalciferolo o calcidiolo, il quale passa nella circolazione generale e si lega ad una proteina trasportatrice specifica. A livello renale, il calcidiolo può subire 2 diverse reazioni di idrossilazione, catalizzate da differenti idrossilasi (la 1α-idrossilasi e la 24-idrossilasi), che danno origine, rispettivamente, all'1,25-diidrossicolecalciferolo (calcitriolo), la forma attiva, ed al 24,25-diidrossicolecalciferolo, la forma inattiva. Il paratormone controlla l’attività della 1α-idrossilasi a livello renale (viene stimolata anche dalla vitamina D stessa attraverso un meccanismo a feedback positivo). Il funzionamento dell'1,25-diidrossicolecalciferolo è anomalo per una vitamina in quanto agisce come un ormone steroideo: entra nelle cellule dei villi intestinali e si lega ad un recettore nucleare che va a stimolare la produzione di trasportatori del calcio, che consentono al calcio di attraversare la membrana basale e passare nello spazio interstiziale. L’assorbimento del calcio a livello intestinale può avvenire:

- per diffusione semplice e sfrutta il gradiente osmotico tra il lume intestinale e il torrente circolatorio; - per diffusione facilitata e dipende dalle concentrazioni intestinali dei trasportatori del calcio.

La diffusione facilitata è il meccanismo vitamina D dipendente. In assenza di vitamina D si ha rachitismo. PATOLOGIE DA ALTERAZIONI DELL’OMEOSTASI DEL CALCIO Il deficit di secrezione di PTH determina la condizione di ipoparatiroidismo, associato a ipocalcemia e iperfosforemia. L’ipocalcemia aumenta l’eccitabilità neuromuscolare, determinando una condizione nota come tetania (contrazione dei muscoli agonisti ed antagonisti che porta ad un irrigidimento fino alla paralisi dei muscoli respiratori e, quindi, morte). L’ipocalcemia cronica, inoltre, determina sofferenza del sistema nervoso centrale (visibili con l’elettroencefalogramma) ed alterazioni elettrocardiografiche specifiche (allungamento del tratto QT). La gravità dei sintomi dipende dalla severità e dalla cronicità dell’ipocalcemia. Una rapida diminuzione della calcemia favorisce la comparsa di crisi tetanica. Questa è solitamente preceduta da parestesie (formicolio) intorno alla bocca e alle mani. Successivamente possono comparire spasmi al volto ed agli arti. Caratteristica è la comparsa di mano ad ostetrico e nei casi più gravi di ipocalcemia, soprattutto nei bambini, può presentarsi anche spasmo laringeo. La tetania latente, invece, può essere messa in evidenza con la ricerca del segno di Chvostek (rapida contrazione dei muscoli dell’emivolto in risposta alla percussione del nervo facciale) e del segno di Trousseau (comparsa di mano ad ostetrico dopo pochi minuti di compressione sul braccio mediante sfigmomanometro). L’ipoparatiroidismo può essere primario o secondario.

Il primario è caratterizzato dalla mancanza delle paratiroidi, o per asportazione chirurgica o per mancata formazione (agenesia), che può essere isolata o associata ad alterazioni di altre ghiandole come il timo (sindrome di Di George). Forme sporadiche di ipoparatiroidismo primario possono

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riscontrarsi nel caso di malattie da accumulo di rame (morbo di Wilson) o di ferro (emocromatosi o talassemia). La produzione di anticorpi anti-paratiroidi determina, invece, il quadro di ipoparatiroidismo autoimmune che può essere isolato o associato ad altre malattie autoimmuni come il morbo di Addison, la gastrite atrofica e il diabete tipo 1. L’ipoparatiroidismo funzionale può essere causato da severa ipomagnesemia in quanto il magnesio è fondamentale per la normale secrezione di PTH. Sono inoltre segnalate delle forme familiari di resistenza al PTH (pseudoipoparatiroidismo) o di secrezione di PTH inattivo. L’ipoparatiroidismo idiopatico, infine, ha cause sconosciute.

Il secondario (da resistenza al PTH) è legato al deficit di vitamina D per scarsa esposizione solare, alterata attivazione epatica in gravi epatopatie (la 25-idrossilasi è prodotta dal fegato), malassorbimento e malattie renali. L’ipoparatiroidismo secondario porta a forme di rachitismo vitamina D dipendente. Lo pseudoipoparatirodisimo è di tipo 1A (deficit della proteina Gs e mutazioni del recettore), di tipo 1B (mancanza del recettore) e di tipo 2 (deficit di sintesi di cAMP): si perdono quantità eccessive di calcio nelle urine che si possono compensare con la dieta. All’ipoparatiroidismo secondario può associarsi ipocalcinuria nei pazienti trattati con agenti chelanti (EDTA e simili) che chelano il calcio e riducono la sua concentrazione nonostante i meccanismi di controllo

L’eccessiva secrezione di PTH determina la condizione di iperparatiroidismo. L’iperparatiroidismo può essere primario, secondario o terziario.

Il primario deriva da una iperfunzione delle paratiroidi stesse, in conseguenza di un adenoma principalmente, ma anche di iperplasia e carcinoma. L’adenoma è un tumore benigno e quindi comporta solo un’iperattività della ghiandola, a differenza del carcinoma che ne compromette la funzione. È più frequente nelle donne che negli uomini (colpisce maggiormente gli anziani).

Il secondario è una condizione in cui la secrezione di PTH è appropriata ma c’è una resistenza periferica all’azione di questo ormone. Tra le cause ci sono l’insufficienza renale cronica, il deficit di vitamina D e il malassorbimento di calcio (l’organismo risponde con maggiore secrezione di PTH).

Il terziario si osserva nei pazienti con iperparatiroidismo secondario cronico. Mentre il primario è caratterizzato da ipercalcemia, il secondario (e quindi il terziario) deriva dal tentativo di sopperire a ipocalcemia. L’effetto fondamentale dell’eccessiva secrezione di PTH è comunque l’ipercalcemia: osteopenia (sofferenza ossea che può evolvere in fratture), nefrocalcinosi (deposito di cristalli di fosfato di calcio a livello dei calici renali), ipertensione arteriosa, allungamento del tratto QT, potenziamento degli effetti tossici della digitale (farmaco per aumentare la capacità di contrazione del cuore), astenia e ipotrofia muscolare; spesso c’è poliuria polidipsia (sensazione di sete), segni neuropsichiatrici, ulcera peptica, stipsi, pancreatite e, in alcuni casi, calcificazioni di tessuti molli. All’ipercalcemia si associano ipofosfatemia e ipercalciuria.

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IPOFISI L’ipofisi è una piccola ghiandola endocrina situata alla base del cranio nella sella turcica (fossa ipofisaria scavata nello sfenoide), dietro al chiasma ottico e al di sotto del pavimento del III ventricolo. L'ipofisi consta di 2 parti: una parte anteriore, detta adenoipofisi, e una posteriore, detta neuroipofisi. L'attività dell’ipofisi è controllata dallo stesso ipotalamo, che produce e rilascia peptidi in grado di favorire od inibire il rilascio dei relativi ormoni ipofisari. Grazie ai fattori ipotalamici, quindi, il sistema nervoso controlla direttamente l'apparato endocrino; questa regolazione è permessa dal cosiddetto sistema portale ipofisario, una struttura vascolare che trasferisce all'adenoipofisi i fattori ipotalamici di rilascio ed inibizione.

L'ipofisi anteriore o adenoipofisi costituisce l'80% in peso della ghiandola pituitaria; secerne, dietro comando diretto dell'ipotalamo, una serie di ormoni detti tropine ipofisarie:

- ormone tiroideo-stimolante o TSH: prodotto dalle cellule tireotrope, ha come organo bersaglio la tiroide, nella quale stimola la produzione di ormoni tiroidei (T3 e T4, meglio noti come triiodotironina e tiroxina);

- ormone adrenocorticotropo o ACTH: prodotto dalle cellule corticotrope, stimola il rilascio di ormoni che agiscono nella porzione corticale del surrene, stimolando la secrezione di glucocorticoidi, come il cortisolo, che partecipano alla regolazione del metabolismo glucidico;

- ormone follicolo stimolante o FSH: prodotto dalle cellule gonadotrope, stimola le cellule follicolari ovariche a produrre estrogeni (estradiolo), mentre nel maschio controlla la spermatogenesi a livello testicolare;

- ormone luteo stimolante (luteotropo) o LH: prodotto dalle cellule gonadotrope, induce l'ovulazione e la trasformazione del follicolo che ha espulso l'ovulo in corpo luteo; le cellule di quest'ultimo producono progesterone in vista dell'eventuale gravidanza. Nell'uomo l'ormone luteotropo stimola le cellule interstiziali (del Leydig) a produrre androgeni (testosterone);

- prolattina o PRL: prodotta dalle cellule lattotrope, partecipa insieme ad altri ormoni (estrogeni, progesterone, glucocorticoidi e ormoni placentari) allo sviluppo della ghiandola mammaria e alla produzione di latte. Nel maschio stimola l'attività della prostata;

- ormone somatotropo o GH: prodotto dalle cellule somatotrope dell'ipofisi anteriore è noto anche come ormone della crescita o somatotropina (STH); espleta un effetto anabolizzante influenzando il metabolismo proteico e stimolando l'accrescimento corporeo (soprattutto a livello muscolare e scheletrico). Aumenta inoltre il catabolismo dei lipidi e risparmia glucosio.

L'ipofisi posteriore o neuroipofisi funziona da "deposito" per gli ormoni ipotalamici ADH ed ossitocina, prodotti dall’ipotalamo a livello del nucleo sopraottico (l’ADH) e paraventricolare (l’ossitocina).

- L'ADH, o ormone antidiuretico o vasopressina, aumenta la permeabilità del tubulo renale distale del nefrone, rendendolo permeabile all'acqua per ridurre la perdita idrica; inoltre, vasocostringe i vasi periferici alzando la pressione sanguigna. Viene perciò secreto in risposta a molti stimoli, specialmente all'aumentare degli elettroliti nel sangue o a una caduta del volume ematico o della pressione sanguigna. Viene perciò secreto in risposta a vari stimoli: quando la concentrazione di elettroliti sale intorno ai 280 mOsm (a partire dai 294 mOsm viene attivato anche il meccanismo della sete per compensare l’enorme perdita d’acqua) e quando i barocettori presenti a livello del glomo-carotideo, del seno aortico e dell’atrio destro sentono il calo della pressione e del volume ematico. Un deficit di ADH è responsabile del cosiddetto diabete insipido.

- L'ossitocina è responsabile della stimolazione del miometrio uterino durante il travaglio e del riflesso della suzione, in quanto contribuisce la formazione della montata lattea ((l’interazione dell’ossitocina con il recettore di membrana delle cellule miometriali promuove l’influsso di Ca++ dal reticolo sarcoplasmatico alla cellula, stimolando la contrazione). Al di fuori della gravidanza, nell'uomo stimola le cellule muscolari lisce della prostata e del seguente dotto eiaculatore.

La parte intermedia della ghiandola pituitaria, considerata parte integrante dell'adenoipofisi (pars intermedia), produce l'ormone melanotropo (MSH), che regola la sintesi e la distribuzione dei granuli di melanina nei melanociti.

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In genere, la regolazione dell'attività secretoria di ipotalamo ed ipofisi è soggetta a forme di feedback negativo. ADH (O VASOPRESSINA O ORMONE ANTIDIURETICO) ADH agisce in maniera diretta, controllando il riassorbimento di acqua a livello dei tubuli collettori e in maniera indiretta favorendo il riassorbimento di cloruro di sodio a livello della branca ascendente dell’ansa di Henle (l’aumento di sodio richiama più acqua). Un fattore di controllo è l’incremento della concentrazione di urea nell’interstizio midollare, che inibisce la permeabilità e il riassorbimento di sodio (meccanismo di feedback negativo). La velocità di filtrazione glomerulare è piuttosto sostenuta (125 ml/min): dei 180 litri che vengono prodotti dal rene, l’uomo ne riassorbe il 99%. Nel tubulo prossimale comincia il riassorbimento passivo di acqua, sodio, glucosio, amminoacidi e microelementi: tutto ciò che non è riassorbito passa nella branca discendente dell’ansa di Henle. Alla base del meccanismo di riassorbimento tubulare c’è il gradiente di concentrazione e la pressione osmotica che lo genera. Il riassorbimento selettivo di sodio che c’è nella branca ascendente dell’ansa di Henle determina una concentrazione maggiore di sodio nell’interstizio cellulare e quindi richiamo osmotico di acqua, con una pressione osmotica che porta l’acqua dalla zona ipotonica (poco concentrata) a quella ipertonica (molto concentrata), che in questo caso è lo spazio interstiziale extratubulare. L’acqua scende nell’ansa di Henle è risale per poi continuare nel tubulo distale dove avviene un ulteriore riassorbimento di sodio e di acqua controllato, questa volta, dall’ aldosterone; successivamente, riscende nel tubulo collettore e, di fronte ad un nuovo gradiente osmotico, è riassorbita, sotto il controllo di ADH. ADH agisce a livello dei tubuli collettori tramite 3 recettori:

- V1, il più comune, si ritrova sulle cellule muscolari lisce, nel fegato, sulle piastrine e nel SNC. È un recettore transmembrana associato a una proteina G e attiva PKC (protein chinasi C), che porta alla contrazione della muscolatura liscia vascolare, all’adesione piastrinica e alla neurotrasmissione;

- V2, il più importante, si ritrova sulla membrana vasolaterale delle cellule dei tubuli collettori. È un recettore transmembrana associato a una proteina G e attiva PKA (protein chinasi A), che porta all’aumento dell’espressione genica e della trascrizione dell’acquaporina 2;

- V3 si ritrova sulle cellule corticotrope dell’adenoipofisi. È un recettore transmembrana associato a una proteina G e attiva PKC (protein chinasi C), che porta alla secrezione di ACTH (ormone adrenocorticotropo).

Le acquaporine sono proteine transmembrana che si uniscono a formare pori preposti al passaggio dell’acqua. Ne esistono vari tipi, ma i più importanti sono l’acquaporina 2 (sintetizzata sotto stimolo dell’ADH) e l’acquaporina 3, localizzate sulla membrana apicale e basolaterale delle cellule dei tubuli collettori. DIABETE INSIPIDO Il diabete insipido si caratterizza per la presenza di poliuria ovvero l’emissione di elevate quantità di urine alla quale l’organismo risponde aumentando la sensazione della sete e quindi l’introito di liquidi (polidipsia). Esistono due forme di diabete insipido.

Il diabete insipido centrale è causato dal deficit di ADH. Si distinguono forme idiopatiche e forme acquisite. Le forme idiopatiche sono dovute alla scarsità di neuroni che producono ADH e si possono manifestare in forma familiare (solitamente sin dall’infanzia) o in forma sporadica (in età post-infantile). La forma più frequente è causata dalla mutazione del gene neurofisina 2. Le forme acquisite, invece, sono spesso secondarie a traumi o ad interventi chirurgici interessanti la regione ipotalamo-ipofisaria; il diabete insipido può, spesso, essere transitorio ma, in alcuni casi, può divenire permanente se viene distrutto più dell’80% delle fibre nervose producenti ormone antidiuretico.

Il diabete insipido nefrogenico è causato dalla resistenza del tubulo renale all’azione di ADH. Si distingue una forma congenita ed una acquisita. La forma congenita è causata da mutazioni del gene codificante per il recettore V2 o per l’acquaporina 2; la forma acquisita, invece, è spesso conseguenza di malattie renali croniche, del

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deficit cronico di potassio, di ipercalcemia o dell’uso di farmaci quali il carbonato di litio, usato nel trattamento delle psicosi.

È sempre presente polidipsia (si arriva ad introdurre fino a 10-15 litri di liquidi al giorno) e poliuria ipo-osmolare (si arriva ad urinare più di 10 litri al giorno). Per confermare la presenza di diabete insipido è necessario procedere al test dell'assetamento che consiste nella deprivazione idrica per 7-14 ore, durante il quale viene controllata l'osmolarità plasmatica ed urinaria. Un rapporto osmolarità urinaria/plasmatica inferiore a 1,0 conferma la presenza di un diabete insipido, un rapporto superiore a 1,5 è compatibile con una condizione di potomania (polidipsie psicogene). La distinzione fra il diabete insipido centrale ed il diabete insipido nefrogenico, invece, viene effettuata mediante la prova con desmopressina (test al DDAVP). L’iniezione di tale sostanza provoca entro 60 minuti una riduzione del flusso urinario (con aumento dell’osmolarità urinaria) nella forma centrale di diabete insipido, mentre non provoca alcun modifica in quello nefrogenico. SINDROME DA INAPPROPRIATA SECREZIONE DI ADH (SIADH) La sindrome da inappropriata secrezione di ADH (SIADH) è rappresentata dalla riduzione eccessiva del sodio extracellulare (iponatriemia) a causa di un esagerato riassorbimento di acqua a livello renale (l’ADH è in concentrazioni elevate). L’eziologia può essere paraneoplastica, soprattutto dovuta al carcinoma polmonare a piccole cellule (80% dei casi). È raro il disturbo primario ipofisario, per problemi nervosi (meningite, accidenti vascolari cerebrali), farmaci (antidepressivi triciclici) o per affezioni polmonari. I sintomi possono essere perdita di appetito, nausea, irritabilità, debolezza muscolare. IPOFISI-IPOTALAMO L’ipofisi rappresenta una vera e propria interfaccia tra i centri corticali (parte cognitiva del cervello) e le funzioni vegetative vere e proprie: essa trasforma l’impulso nervoso in segnale chimico che viene inviato agli organi effettori delle ghiandole endocrine che secernono ormoni specifici che controlleranno e determineranno le funzioni vitali. L’ipotalamo regola la funzione dell’ipofisi con fattori di rilascio o inibitori (anche se l’inibizione avviene quasi sempre mediante un’azione retrograda attraverso feedback negativo). Gli ormoni dell’adenoipofisi sono 7 e si suddividono in base alla loro natura in:

- ormoni glicoproteici come TSH, LH e FSH, costituiti tutti da una subunità α comune e un β specifica per il riconoscimento ormone-recettore;

- ormoni appartenenti al gruppo delle somatomammotropine come prolattina e GH; - ormoni derivati dalla propriomelanocortina (POMC) come ACTH, MSH, endorfine. La POMC ha la

potenzialità di generare le varie molecole grazie a clivaggi proteolitici: ACTH, α-MSH, β-MSH, ɣ-MSH e β-Encefalina (endorfina mediatore negativo del dolore). All'interno della POMC questi peptidi sono separati l'uno dall'altro da 2 o più aminoacidi che sono sedi di riconoscimento per il clivaggio. La secrezione di ACTH è controllata da CRF (fattore di rilascio della corticotropina). Il nucleo paraventricolare dell’ipotalamo contiene neuroni che liberano CRF nel sistema portale-ipofisario: agisce quindi sull’adenoipofisi stimolando il rilascio di ACTH. Quest’ormone presenta recettori sulle cellule della cortecciaa surrenalica, dove viene prodotto il cortisolo che inibisce la secrezione ulteriore di ACTH mediante feedback negativo. Nel momento in cui vene stimolata ACTH, c’è anche la produzione di adrenalina, noradrenalina e catecolammine dalla corteccia. Oltre al feedback negativo, la secrezione dei fattori di rilascio ipotalamici è influenzata dal ritmo circadiano: la secrezione di ACTH, è di conseguenza di cortisolo, è massima di prima mattina, per poi scendere e raggiungere il picco minimo a mezzanotte circa. Il ritmo circadiano è frutto di una regolazione di segnali provenienti dall’esterno: alcuni assoni non seguono il loro decorso normale fino all’area genicolata, ma si fermano a livello del nucleo soprachiasmatico, interagendo con il nucleo paraventricolare e regolando l’attività di secrezione del CRF. Lo stimolo più importante che regola la secrezione di ACTH è lo stress di natura emozionale o biochimica, (infiammazione o un trauma di natura fisica): la secrezione è massima durante lo stress. ACTH serve infatti a sequestrare tutte le risorse delle cellule per resistere allo stress.

Il feedback negativo che regola ipotalamo e ipofisi può essere corto e lungo. Nel corto, l’ormone prodotto dall’ipofisi modula il fattore liberato dall’ipotalamo che ne stimola la secrezione. Nel lungo, l’ipotalamo produce un ormone che stimola la secrezione di un ormone dell’ipofisi, che a sua volta promuove il rilascio

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di un ormone da parte di una ghiandola bersaglio e l’ormone liberato dalla ghiandola bersaglio influenza il funzionamento dell’ipotalamo. Nella regolazione delle gonadotropine si osserva un tipico esempio di feedback negativo a loop lungo. L’ipotalamo secerne il fattore di rilascio GnRH (fattore di rilascio delle gonadotropine) che agisce sull’ipofisi e stimola la secrezione di 2 diverse gonadotropine, LH e FSH (ormone luteinico ed ormone follicolo stimolante), che a loro volta agiscono sul loro bersaglio, le ovaie nelle donne, i testicoli nell’uomo. L’idea comune è che FSH controlli prevalentemente la funzione gametogenetica (formazione degli spermatozoi e maturazione del follicolo), e che LH controlli la steroidogenesi (sintesi di ormoni steroidei, ossia testosterone per i testicoli e 17-β-estradiolo per le ovaie). I 2 ormoni in realtà cooperano. LH regola la produzione di testosterone, però affinché il testosterone sia efficace deve essere concentrato ad elevati livelli all’interno dei tubuli seminiferi e per fare questo è necessario che venga secreta una proteina legante, ABP (androgen binding protein), la cui produzione è mediata da FSH. LH nel caso dell’ovaio è importantissimo per la sintesi del testosterone, però se non è presente FSH non viene attivata l’aromatasi che trasforma il testosterone in estradiolo. Se FSH non funziona adeguatamente, si ha accumulo di testosterone e una scarsa sintesi di estrogeni, con conseguente ipertricosi facciale nella donna. La secrezione delle gonadotropine avviene in maniera pulsatile: si hanno dei picchi di secrezione più o meno ad intervalli fissi di 20-40 minuti. Nei bambini i livelli degli ormoni sessuali sono bassi poiché servono solo a mantenere il tono delle ghiandole, quindi ci sono scariche di secrezione ogni 4-5 ore; nella pubertà, i livelli degli ormoni sessuali aumentano sensibilmente, quindi la frequenza delle scariche di secrezione è maggiore. C’è solo un caso di feedback positivo nell’asse ipotalamo-ipofisario, ed è quello che regola l’attività delle gonadotropine sugli ormoni prodotti dall’ovaio: i livelli di estradiolo, quando superano i 200 ng/ml, regolano positivamente la secrezione di FSH e LH da parte dell’ipofisi, agendo a monte su GnRH. ORMONE DELLA CRESCITA (GH) Un ormone tipicamente ipofisario è l’ormone della crescita (GH), o somatotropina. L’ipotalamo secerne sia il suo fattore di rilascio, GHRH, sia il suo fattore di inibizione, rappresentato dalla somatostatina (prodotta anche dalle cellule δ del pancreas e dalle cellule D antrali dello stomaco). La somatostatina è prodotta anche dalle cellule δ del pancreas e dalle cellule D antrali dello stomaco sotto forma di precursori, la pre-pro-somatostatina e la pro-somatostatina, trasformati da enzimi proteolitici nelle forme attive somatostatina 28 e 14. GH ha due modalità di azione:

una diretta, attraverso recettori di membrana legati a proteine G che attivano l’adenilato ciclasi; quindi, con un meccanismo ciclico-AMP dipendente, induce sul tessuto adiposo la mobilizzazione dei grassi;

una indiretta, mediata dal fegato. GH, secreto dall’ipofisi, agisce sul fegato provocando la sintesi di IGF (Insulin-like Growth Factor), che va ad agire sulla crescita cellulare e sulla sintesi di collagene e condroitin solfato, necessario per l’ossificazione (IGF agisce soprattutto sul tessuto muscolare liscio, sugli organi e sull’osso). IGF presenta una notevole somiglianza con l’insulina e sfrutta i suoi recettori dotati di attività tirosin-chinasica intrinseca:

- il recettore si autofosforila, si attiva e recluta SHC e Grb2 che funzionano da adattatori: SHC è fosforilato e si lega al dominio SH2 di Grb2, mentre Grb2 tramite il dominio SH3 lega ed attiva la proteina SOS. SOS è quindi portata nelle vicinanze della membrana plasmatica dove può legarsi a Ras che, grazie ad uno scambiatore di gruppi guaninici (GEF), sostituisce il GDP con il GTP e si attiva. A questo punto Ras attivata fosforila MEK (una serin-treonin-chinasi) che a sua volta fosforila MAPK;

- il recettore si autofosforila, la subunità αGTP attiva la PLCɣ con conseguente produzione di IP3 e DAG. DAG media l’associazione di PKC alla membrana cellulare; PKC, così posizionato, avvia una serie di fosforilazioni che terminano su Ras. Ras fosforila MEK (una serin-treonin-chinasi) che a sua volta fosforila MAPK.

MAPK (come ERK), attivata, trasloca nel nucleo dove attiva i fattori di trascrizione delle cicline e provoca proliferazione e crescita cellulare. L’accrescimento delle ossa è mediato principalmente da IGF con 2 azioni diverse: nella zona intermedia e nella zona prossimale induce espansione clonale (fase di proliferazione attiva che interessa soprattutto la piastra di accrescimento a livello dell’epifisi delle ossa lunghe), mentre nella zona distale induce maturazione del condrocito.

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Il GH agisce soprattutto sulle epifisi durante l’infanzia quando ancora le cartilagini sono particolarmente sensibili all’azione dell’ormone (le cellule staminali cartilaginee presentano numerosi recettori per IGF). Quindi si ha un picco di crescita massimo durante l’infanzia, scende durante la pubertà e poi si appiattisce.

L’azione di GH è regolata positivamente da vari fattori: - l’ipoglicemia (se c’è poco glucosio, l’insulina viene sostituita dal GH); - bassi livelli di acidi grassi liberi; - il sonno (soprattutto negli stadi 3 e 4); - l’ormone antidiuretico (ADH o vasopressina); - gli estrogeni; - gli amminoacidi liberi, soprattutto l’arginina.

Al contrario, quello che inibisce la secrezione di GH e: - l’iperglicemia; - condizioni che predispongono all’obesità; - eccesso di acidi grassi liberi;

somatostatina, inibitore diretto dell’azione del GH. PROLATTINA L’azione fondamentale della prolattina, non pensando all’accrescimento del parenchima mammario che è legato soprattutto ad estrogeni e progesterone (gli estrogeni fanno allungare i dotti ed il progesterone determina la proliferazione degli acini), è legata alla secrezione e alla sintesi del latte a livello della ghiandola mammaria. La secrezione è fortemente stimolata dal riflesso della suzione (in misura minore anche dagli estrogeni e dall’ormone di rilascio della tireotropina, TRH), e inibita dalla dopamina e dal progesterone. I livelli di prolattina restano elevati per tutta la vita intrauterina e si riducono ai valori minimi dopo la nascita, risultando bassi per tutta la vita nei soggetti di sesso maschile. Nei soggetti di sesso femminile, invece, i valori sono più elevati ed aumentano soprattutto nel corso della gravidanza fino a tutta la durata dell’allattamento (il riflesso della suzione stimola la produzione di latte), dopo il quale ritornano ai valori normali. Le conseguenze dell’iperprolattinemia nella donna possono portare ad amenorrea, (infatti si verifica subito dopo il parto con la sospensione del ciclo mestruale), o a galattorrea (eccessiva produzione di latte); nell’uomo possono portare a ipogonadismo, riduzione della libido, oligozoospermia (pochi spermatozoi) e ginecomastia. L’iperprolattinemia può essere causata da tumori benigni dell’ipofisi, da un’elevata sensibilità del tessuto alla prolattina e, in generale, da disendocrinopatie. Danni dell’ipofisi portano ad ipopituitarismo, suddivisibile in: - Pan-Ipopituitarismo, disfunzione totale dell’ipofisi, determinato da trombosi, neoplasie, sindrome di Sheehan (necrosi postpartum dell’ipofisi, dovuta ad un’ischemia grave) e sindrome di Simmons (poliadenomatosi ipofisaria); - Monotropo, disfunzione di un gruppo di cellule ipofisarie, determinato dalla malattia di Addison (insufficienza della corticale del surrene legata ad un deficit delle cellule che producono la melanocortina), da ipotiroidismo secondario e da ipogonadismo ipogonadotropo. La scarsa produzione di GH è uno dei segni caratteristici dell’ipopituarismo. Le cause possono essere:

- Primarie: aplasia, ipoplasia (pan-ipopituitarismo); difetti genetici (delezioni, mutazioni del gene); tumori intrasellari (adenomi, craniofaringiomi); distruzione non neoplastica (infezioni, traumi).

- Secondarie: idiopatica; post-infettiva; tumori ipotalamici; psicosociale.

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Si può avere anche una forma di resistenza periferica, rappresentata dal nanismo di Laron, in cui non manca GH, ma manca il recettore di GH per cui non si produce IGF ed è come se non ci fosse GH. Tutto questo si traduce in un deficit della crescita lineare del soggetto: il deficit di GH è quello responsabile del cosiddetto nanismo ipofisario, che si presenta con un fisico piuttosto armonico. Ma il nanismo non sempre dipende dalla carenza di GH, in quanto ci sono diversi ormoni che interferiscono sulla regolazione della statura e dell’accrescimento somatico in generale: gli ormoni tiroidei, i glucocorticoidi, androgeni ed estrogeni. Nel caso degli ormoni tiroidei, l’eccesso non fa crescere moltissimo, mentre il deficit si traduce in una riduzione della crescita lineare (che si presenta con un fisico non armonico), un mancato sviluppo mentale (che prende il nome di cretinismo) e una pseudo-pubertà precoce. Altri ormoni che possono interferire con la crescita sono i glucocorticoidi che interessano la crescita riducendo la crescita lineare dell’osso e ritardando la maturazione scheletrica (un soggetto ipertrattato con cortisolo può presentare un effetto di riduzione della statura). Per quanto riguarda gli ormoni sessuali, in concentrazioni normali stimolano la maturazione dell’osso e l’allungamento scheletrico; però sia androgeni che estrogeni, in eccesso, provocano una diminuzione dell’altezza perché inducono una precoce maturazione dell’osso (sono più bassi perché si ha una saldatura precoce delle epifisi). Il deficit invece causa uno sviluppo minore delle masse muscolari, però il soggetto in genere è un po’ più alto (raggiunge proporzioni scheletriche eunucoidi, con fianchi larghi e braccia e gambe piuttosto lunghe). Un caso particolare è il nanismo psicosociale (osservato, ad esempio, negli orfanotrofi rumeni) in soggetti che vivono in condizioni particolarmente gravose e non si secernono concentrazioni normali di GH, ma se si ripristinano delle condizioni minime di serenità, si osserva un recupero del profilo secretorio del GH. Ma ci sono anche condizioni in cui può verificarsi un eccesso di crescita, cioè nel gigantismo o acromegalia. Il gigantismo è il risultato di una secrezione che avviene nell’infanzia o nell’adolescenza: quando c’è un’ipersecrezione di GH prima che sia avvenuta la saldatura delle epifisi, l’IGF continua l’espansione e si ha l’allungamento oltre misura delle ossa lunghe. L’acromegalia invece è un’esagerata secrezione nell’adulto che interviene dopo la saldatura delle epifisi: le ossa non si allungano, ma i condrociti primari indotti a proliferare ispessiscono le ossa, sia lunghe che piatte. L’eccesso di GH si associa a una serie di disturbi: quasi sempre c’è diabete (a causa dell’aumento della gluconeogenesi), i soggetti possiedono lineamenti piuttosto grossolani (il GH non agisce solo sulle ossa, ma anche sui muscoli e fibroblasti, portando a degenerazione fibrotica del sottocutaneo che diventa spesso). Quasi sempre l’eccesso di GH è dovuto a tumori benigni dell’ipofisi, perché i tumori maligni sono non secernenti, mentre quelli benigni molto spesso esaltano le caratteristiche secretorie del tessuto di origine.

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TIROIDE La tiroide è una ghiandola formata da 2 lobi, posta a livello del collo, davanti alla laringe. Normalmente non si sente al tocco (se si sente durante la deglutizione, è segno di un’ipertrofia generalizzata o localizzata con gozzo, ingrossamento del collo). È una ghiandola a struttura lobulare che ha come unità funzionale il lobulo tiroideo, formato da un epitelio monostratificato che si moltiplica sotto l’azione di fattori di crescita specifici quali TSH (ormone ipofisario che si lega al suo recettore, attiva l’adenilato ciclasi e, attraverso cAMP, ne comporta la crescita). La prima fase non è una crescita vera e propria ma un’ipertrofia: l’epitelio diventa cilindrico (l’attività secretoria è più intensa), subentra l’effetto proliferativo e la tiroide si ingrossa. Nell’iperstimolazione della tiroide, le cavità del lobulo sono molto ridotte rispetto allo spessore delle pareti. La tiroide è molto importante: nella 10a settimana di vita intrauterina si ha il rilascio di TRH, fattore ipotalamico, e di TSH, che controlla l’attività della tiroide. Dalla fine della 10a fino alla 35a settimana, c’è la produzione di tireoglobulina, la glicoproteina che riempie le cavità dei lobuli; dalla 10a alla 12a settimana maturano le caratteristiche morfologiche della tiroide che diventa in grado di produrre T3 (triiodotironina) e T4 (tiroxina). Alla fine della 12a settimana inizia la sintesi vera e propria degli ormoni tiroidei e i livelli restano molto bassi fino alla 20a settimana, dopodiché iniziano ad aumentare e subentra controllo a feedback. La tiroide nasce come una piccola protrusione a livello dell’istmo tra la I e la II tasca faringea nella 4a settimana, poi si sposta in basso tra la III e la IV tasca e si stacca. In alcuni casi la tiroide può finire in posizione retrolinguale (impedendo la deglutizione) oppure intratracheale (occludendo la trachea): sono fenomeni ostruttivi. Può trovarsi anche in posizione intralinguale, sottolinguale e retrosternale dopo essere scesa di molto. Gli ormoni tiroidei sono peptidi costituiti da 2 anelli fenolici contenenti iodio, formatisi in seguito a processi ossidoriduttivi: le molecole di tirosina subiscono un processo di iodinazione, l’organificazione dello iodio con formazione di monoiodiotirosina (MIT) e diiodiotirosina (DIT) che, combinandosi tra loro su una molecola di tireoglobulina, formano T3 e T4. Quando inizia il processo di organificazione, è cominciata l’attività endocrina. Quasi contemporaneamente si stabiliscono le correlazioni funzionali tra ipotalamo, ipofisi e tiroide. ORMONI TIROIDEI T4 deriva dalla tetraiodinazione 3,5,3’,5’ della molecola di tironina (ottenuta dalla fusione di 2 tirosine, una delle quali perde la catena laterale). T4 può subire 2 destini: essere deiodinato in posizione 5’ (dall’enzima 5’ deiodinasi) e trasformato in T3 (dieci volte più attivo di T4) che controlla il feedback, oppure essere deiodinato in posizione 5 (dall’enzima 5 deiodinasi) e trasformato in rT3 (reverse T3), biologicamente inattivo, ma importante in diagnostica perché, se presente, indice di un corretto funzionamento della ghiandola. T3 può essere a sua volta riconvertito in rT2. Importante è l’apporto di iodio (una volta la sua carenza era la maggior causa di ipotiroidismo, ora con il sale iodato questo problema non si pone): una dieta normale ne introduce circa 500 μgr, di solito per la maggior parte escreto dai reni ma solo dopo che selettivamente le cellule tiroidi ne hanno rimosso un quinto dal sangue per la sintesi degli ormoni. Il nucleo paraventricolare dell’ipotalamo produce TRH che induce l’adenoipofisi a produrre TSH, il quale stimola la tiroide a sintetizzare T3 eT4. Con feedback negativo, T3 e T4 inibiscono l’ipofisi (T3 è l’unico in grado di agire sull’ipotalamo): man mano che cresce la concentrazione di T3 e T4 (fino a 200 nmol/l), si ha la totale inibizione della secrezione di TSH. TSH controlla varie cose: proliferazione delle cellule tiroidee, organificazione dello iodio e sintesi degli ormoni che, per poter essere sintetizzati, hanno bisogno di iodio captato come ione negativo dal sangue (TSH favorisce questa captazione mentre il tiocianato e lo ione clorato la inibisce). A questo punto è necessario che lo iodio sia ossidato da iodio negativo a iodio positivo per poter essere organificato: ciò avviene grazie alla perossidasi tiroidea che utilizza H2O2 come substrato (anche questa fase è stimolata da TSH e inibita dal tapazolo, farmaco tiroideo). Lo iodio ossidato viene incorporato nella tirosina, trasformandola in tironina: questa sintesi avviene nelle cellule follicolari, dove è presente la tireoglobulina sotto forma di colloide. Essenzialmente all’inizio avviene una iodinazione della tirosina, dopodiché si forma la monoiodotirosina (MIT) e la diiodotirosina (DIT), con la rimozione della catena laterale di una tirosina. Dalla sintesi di MIT e DIT

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si ha T3, dalla sintesi di 2 DIT si ha T4. A questo punto la cellula follicolare, attraverso i lisosomi, digerisce la tireoglobulina e libera T3 e T4. Una parte di ormone prodotto subisce subito deiodinazione per cui è nuovamente ridotto e reso disponibile per la perossidazione; la maggior parte viene liberato sotto forma di T3 e T4. A livello del polo vascolare del tireocita l’ormone è secreto nel torrente circolatorio. Lo iodio è responsabile dell’effetto di Wolf-Chaikoff: quando è in minime quantità, stimola la sua incorporazione e la iodinazione dell’ormone; quando aumenta, diminuisce la risposta della tiroide al TSH e inibisce l’ossidazione dello iodio. La tironina è un amminoacido modificato che entra nella cellula (gli amminoacidi normalmente non entrano nelle cellule). Il recettore degli ormoni tiroidei (equivale all’oncogene Erb-A) è un recettore intracitoplasmatico; si ipotizza che vi sia un recettore anche a livello dei mitocondri che controlla la fosforilazione ossidativa. Quello che è certo, è che il recettore sia intranucleare e un regolatore della trascrizione. Gli effetti degli ormoni tiroidei sono: -termogenesi; -aumento della sintesi e del catabolismo di proteine specifiche; -aumento del catabolismo dei carboidrati; -aumento della lipolisi e della concentrazione degli acidi grassi liberi; -aumento del metabolismo delle vitamine; -aumento della sensibilità alle catecolamine; -differenziazione di vari organi (soprattutto del sistema nervoso). IPERTIROIDISMO I sintomi dell’ipertiroidismo sono nervosismo, irritabilità, aumento della sudorazione, ansia, tremore alle mani, tachicardia (gli ormoni tiroidei aumentano l’affinità delle cellule alle catecolammine), aumento della frequenza respiratoria e insonnia. L’ipertiroidismo è caratterizzato dall’aumento dell’escrezione di calcio e di fosforo e dalla diminuzione della vitamina D3 plasmatica, quindi diminuisce il bilancio complessivo di calcio ed aumenta il riassorbimento osseo (indirettamente è indotta la secrezione di paratormone). Mentre l’ipertiroidismo è una condizione morbosa dovuta all’aumentata attività secretoria della tiroide, la tireotossicosi è il quadro clinico che si instaura in risposta all’esposizione dei tessuti agli ormoni tiroidei presenti in eccesso. Anche se sembrerebbero strettamente legate, ipertiroidismo e tireotossicosi non sono sempre condizioni associate: le alterazioni tissutali possono infatti dipendere dalla produzione di ormoni tiroidei da parte di altri tessuti, come le ovaie, dall’assunzione errata di ormoni tiroidei oppure da un aumentato rilascio ormonale da cellule tiroidee danneggiate. In tutti questi si ha tireotossicosi senza ipertiroidismo. L’azione tossica degli ormoni tiroidei a livello tissutale determina i sintomi tipici della tireotossicosi: dimagrimento eccessivo con appetito spesso aumentato, tachicardia, sudorazione, intolleranza al caldo, tremori, ansia, diarrea, insonnia e unghie e capelli fragili. Le cause di tireotossicosi associata ad ipertiroidismo sono:

- aumentata secrezione di TSH (rarissimo); - adenoma tossico di Plummer (forte secrezione di ormoni tiroidei); - morbo di Basedow-Flaiani-Graves; - gozzo tossico multinodulare (tanti adenomi).

Le cause di tireotossicosi non associata ad ipertiroidismo sono:

- assunzione di farmaci dimagranti; - produzione di anticorpi diretti contro componenti della cellula tiroidea con disfacimento del follicolo

e fuoriuscita di colloide e ormoni tiroidei (forma di tireotossicosi transiente nelle insufficienze tiroidee in cui persistono fenomeni infiammatori). Un esempio è la tiroidite di Hashimoto che porta a ipotiroidismo;

- produzione ectopica di ormoni tiroidei (ovaio, tumori metastatici secernenti).

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La prima cosa che avviene con l’aumento della sintesi degli ormoni tiroidei è la riduzione di TSH: nella manifestazione clinica, TSH è al di sotto della norma (arriva ad una soglia al di sotto della quale non può più scendere), mentre T3 e T4 sono fortemente aumentati. Quando entrambi gli ormoni iniziano ad avere valori che sono il triplo di quelli normali, ci sono chiaramente i segni della tireotossicosi. Il segno per diagnosticare l’ipertiroidismo è la diminuzione di TSH, quello per determinare la tireotossicosi è il forte aumento di T3 e T4 (T3 aumenta molto precocemente, T4 solo nella malattia conclamata).

L’adenoma tossico di Plummer (ipertiroidismo primario) è un’altra causa di tireotossicosi associata ad ipertiroidismo: si tratta di un tumore benigno secernente, in cui il recettore di TSH è sempre attivo anche in assenza di TSH a causa di una mutazione del recettore stesso (l’unica mutazione attivante nel dominio extracellulare è quella serina-treonina). Nella malattia conclamata i livelli di TSH sono molto bassi perché i livelli di T3 e T4 sono molto elevati, ma nonostante ciò il recettore continua ad essere stimolato.

Il morbo di Basedow (ipertiroidismo secondario) è la causa primaria di tireotossicosi associata ad ipertiroidismo: consiste nella presenza di anticorpi anti-recettori TSH. L’anticorpo si lega al recettore stimolandone l’attività anziché bloccarla. La conseguenza è un forte incremento di T3 e T4 con riduzione di TSH. Altri segni del morbo di Basedow sono l’edema pretibiale (caviglie gonfie e dure per l’assorbimento di acqua da parte dei glicosamminoglicani del sottocutaneo), l’esoftalmo (anomala sporgenza degli occhi dovuta all’aumento della concentrazione delle citochine coinvolte nella risposta umorale auto-immune, che riconoscono gli antigeni presenti nelle fibre muscolari retro-orbitarie e inducono una reazione infiammatoria che dà fibrosi che spinge avanti il globo oculare), eccessiva magrezza e collo gonfio. Nel morbo di Basedow c’è una sensibilizzazione verso alcuni tessuti (intolleranze, infezioni virali o fenomeni infiammatori aspecifici) che produce l’attivazione del sistema immune da parte delle cellule immunocompetenti residenti, quali cellule dendritiche, linfociti T residenti e macrofagi. Queste cellule iniziano a produrre citochine (interferone γ, interleuchine, TNF) che evocano l’espressione di molecole di adesione, le quali amplificano il fenomeno di attivazione del sistema immune anche nei tessuti extra-ghiandolari: si iniziano a produrre anticorpi che si legano ai recettori del TSH, i quali attivano i pathway coinvolti nella proliferazione e nella sintesi di ormoni e quindi si ha iperplasia e ipertrofia cellulare. La terapia si basa nella rimozione chirurgica o nella somministrazione di iodio 131 o farmaci antitiroidei. I farmaci anti-tiroidei riducono l’espressione di interleuchine e di altri fattori che richiamano le cellule e quindi incrementano gli anticorpi.

Un esame non invasivo per la diagnosi funzionale dell’attività tiroidea è la scintigrafia. Si basa sulla somministrazione per via endovenosa di un radiofarmaco (iodio 125, γ-emittente) che viene captato dalle cellule tiroidee consentendo una mappa della funzionalità per aree attraverso una γ-camera. La differenza tra il morbo di Basedow e l’adenoma tossico di Plummer è che in quest’ultimo, la riduzione dei livelli di TSH, dovuta ad un eccesso di ormoni tiroidei, fa sparire completamente la captazione nell’area non stimolata dall’adenoma. Il nodulo caldo (associato a neoplasia benigna) capta la radioattività e si distingue dal nodulo freddo che non la capta (potrebbe essere associato ad un fenomeno di fibrosi ma potenzialmente potrebbe nascondere anche una neoplasia maligna). IPOTIROIDISMO L’ipotiroidismo è una condizione morbosa caratterizzata da un’insufficiente azione degli ormoni tiroidei a livello tissutale che determina un rallentamento di tutti i processi metabolici. Nell’ipotiroidismo molto importante l’età di insorgenza del fenomeno:

- Se insorge in età pediatrica si può avere cretinismo, perché gli ormoni tiroidei sono importanti per la differenziazione del tessuto nervoso, e nanismo ipotiroideo (nanismo disarmonico) associato a pseudo-pubertà precoce;

- Se insorge in età adulta si ha sonnolenza, apatia, gozzo, bradicardia e bradipnea (diminuzione della frequenza respiratoria), stipsi, ipotensione e mixedema (edema mucoso dei tessuti, nella donna viene scambiato per cellulite).

Anche gli ipotiroidismi sono classificati in primario e secondario:

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primario tireoprivo in cui che c’è agenesia (mancato sviluppo embrionale) della tiroide, ipotiroidismo post-ablativo (tiroide rimossa per intervenire su un tumore) o forme di resistenza al TSH (modificazioni del dominio extra-cellulare del recettore).

TSH è essenzialmente un attivatore trascrizionale (come gli ormoni steroidei): TSH, oltrepassata la membrana, si lega al recettore nucleare liberatosi dalle proteine Heat Shock (HSP). Il recettore si lega al DNA come un monomero, un omodimero (legato ad un altro recettore) o un eterodimero (legato a TRAP, proteina associata al recettore degli ormoni tiroidei) e interagisce con specifiche sequenze HRE (hormone responsive elements), attivando la trascrizione di mRNA. In questo meccanismo è importante il ruolo di proteine co-attivatorie, che aumentano la trascrizione, mediate dal legame col recettore (soprattutto quando si ha l’eterodimero con TRAP). Mutazioni a livello dei recettori di TSH causano la sindrome da resistenza;

primario gozzigeno o tiroidite di Hashimoto in cui c’è deficit di iodio (molto raro), agenti anti-tiroidei (farmaci o alimenti come i cavoli), difetti congeniti della biosintesi di ormoni (deficit della perossidasi). Le persone con deficit di iodio hanno TSH elevato ma non riescono a secernere T3 e T4, per cui TSH aumenta ancora di più, il segnale si scarica sulla proliferazione e si hanno fenomeni di fibrosi che portano alla formazione del gozzo;

ipotiroidismo secondario trofoprivo in cui manca il TSH (a causa di un danno all’ipotalamo o all’ipofisi tipico della sindrome di Sheehan);

ipotiroidismo secondario dovuto alla resistenza periferica agli ormoni tiroidei. TIROIDITE DI HASHIMOTO La tiroidite di Hashimoto è la causa più frequente di ipotiroidismo. È un processo infiammatorio autoimmune, caratterizzato da un’infiltrazione cronica linfocitaria. Le cellule infiammatorie predominanti nel tessuto tiroideo sono linfociti B e T. I linfociti T vengono attivati contro le cellule tiroidee. Il meccanismo di attivazione non è noto ma, probabilmente, avviene per attivazione diretta da parte di tireociti che espongono, sulla superficie cellulare, delle molecole in grado di provocare l’attivazione dei linfociti. Una volta attivato, il linfocita T produce diverse citochine che rendono cronico il processo infiammatorio autoimmune. Alcune di queste citochine inducono, tra l’altro, l’espressione di Fas sulle cellule tiroidee e poiché i linfociti T citotossici esprimono in superficie il Fas ligando, quest’ ultimo, interagendo con il Fas espresso dai tireociti, determina l’apoptosi dei tireociti stessi. Quindi, il processo infiammatorio e l’infiltrazione linfocitaria determinano una riduzione della sintesi degli ormoni tiroidei tramite la distruzione apoptotica delle cellule. Si determina così, contemporaneamente, una riduzione della capacità di organificare lo iodio intratiroideo e un rilascio di tireoglobulina, T3 e T4 da parte dei tireociti lisati. Affinché si manifesti l’ipotiroidismo, è necessaria la distruzione di almeno il 90% del tessuto tiroideo. Per un certo periodo la tiroidite può essere asintomatica: c’è una situazione di stasi in cui si hanno valori normali di ormoni con esagerati livelli compensatori di TSH. Dopodiché si ha ipotiroidismo clinico con alti valori di TSH e T3 e T4 al di sotto della norma. Clinicamente gli autoanticorpi che si riscontrano nella tiroidite cronica sono quelli anti-tireoperossidasi e anti-tireoglobulina (nella tiroidite di Hashimoto gli anticorpi non sono rivolti contro i recettori di TSH). I sintomi sono:

- gozzo; - gonfiore delle braccia, delle gambe, dell'addome e del viso; - astenia; - disturbi di concentrazione; - ipercolesterolemia caratterizzata da un rallentamento del metabolismo (aumento di peso); - diversi disturbi della pelle (orticaria, rosacea); - dolori articolari e muscolari.

Il trattamento con levotiroxina è consigliato nel caso di gozzo che comprime le strutture adiacenti. Questo trattamento è efficace se il gozzo è di recente riscontro, mentre potrebbe dare scarsi risultati in un gozzo di vecchia data in cui si è già instaurato un certo grado di fibrosi irreversibile. Il trattamento chirurgico, invece, va intrapreso quando i sintomi compressivi permangono nonostante la terapia o quando vi è il sospetto di neoplasia.

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ALTERAZIONI DEL METABOLISMO PURINICO E PIRIMIDINICO GOTTA La gotta è un disordine del metabolismo purinico caratterizzato da iperuricemia e precipitazioni di urato monosodico nelle articolazioni (artrite acuta e cronica), nei tessuti periarticolari (tofi) e nel rene (nefropatia interstiziale). Tutte queste manifestazioni sono caratterizzate da iperuricemia. Nel plasma l'acido urico è presente come urato monosodico e la sua concentrazione nel siero normalmente non supera i 7 mg/dl nell'uomo e i 6 mg/dl nella donna fino alla menopausa, dopodiché il tasso può avvicinarsi a quello dell'uomo. Valori superiori possono accompagnarsi a una precipitazione di urato monosodico nei tessuti, data la sua bassa solubilità. L'iperuricemia è una manifestazione piuttosto comune e spesso è innocua: quando si accompagna alle caratteristiche lesioni articolari e tofacee, si parla di gotta. La gotta primaria colpisce soprattutto l'uomo. Normalmente la malattia incomincia a manifestarsi dopo i 30 anni e la massima incidenza si verifica tra i 50 e i 60 anni. La gotta primaria è una malattia multifattoriale dovuta a una combinazione di fattori genetici e ambientali:

- I fattori genetici sono l'alterazione dell'attività della fosforibosil-pirofosfato sintetasi (PRPP sintetasi) o dell'attività dell'ipoxantina-guanina fosforibosil transferasi (IGPRT);

- I fattori ambientali sono lo stile di vita, l'alimentazione ipercalorica, l'alcol, l'obesità, il diabete mellito, l'iperlipidemia, l'ipertensione arteriosa, l'aterosclerosi e le alterazioni ormonali.

Dal punto di vista clinico, la malattia passa attraverso quattro stadi: - iperuricemia asintomatica; - artrite gottosa acuta; - periodo intercritico tra i successivi attacchi; - gotta cronica tofacea.

L'attacco di artrite acuta gottosa si presenta all'improvviso, quasi sempre di notte, e colpisce solitamente l'articolazione delle dita, che si presenta tumefatta, arrossata e dolente. L'attacco è dovuto alla precipitazione di urato monosodico nell'articolazione e nei tessuti periarticolari. La patogenesi dell'attacco gottoso sembra essere la seguente: lo stato iperuricemico provoca depositi di urato monosodico nella sinovia. Microtraumi connessi con il lavoro dell'articolazione, provocando la rottura dei microtofi, causano un aumento dei cristalli di urato nel liquido sinoviale. Anche la più bassa temperatura all'interno dell'articolazione, rispetto al sangue circolante, favorisce la precipitazione in situ di urati. I cristalli di urato sono chemiotattici e in grado di attivare il complemento con la produzione di C3a e C5a, i quali portano ad accumulo di neutrofili e macrofagi nelle articolazioni e nelle membrane sinoviali. La fagocitosi dei cristalli induce il rilascio di radicali liberi tossici e di leucotrieni. La distruzione dei neutrofili provoca il rilascio di enzimi lisosomiali e i macrofagi liberano una varietà di mediatori infiammatori, tra i quali IL-6 e TNFα che amplificano ulteriormente la reazione infiammatoria e aumentano il danno alle strutture articolari. I depositi di cristalli di urato monosodico sono detti tofi: sono circondati da un infiltrato infiammatorio, con caratteristiche del granuloma da corpo estraneo, che si trova in vicinanza delle articolazioni colpite, nelle cartilagini dei padiglioni auricolari, nelle ossa, nel tendine di Achille e nel gomito. METABOLISMO PURINICO L'acido urico è il prodotto finale del metabolismo purinico nell'uomo. I nucleotidi purinici possono essere sintetizzati attraverso una sintesi de novo oppure attraverso un sistema di salvataggio che prevede il recupero delle basi puriniche (guanina, ipoxantina e adenina) che altrimenti sarebbero destinate alla conversione in acido urico. Ipoxantina e guanina, in presenza di 5-fosforibosil-pirofosfato (5-PRPP), sono convertite rispettivamente in IMP e GMP ad opera dell'ipoxantina-guanina fosforibosil transferasi; l'adenina, sempre in presenza di 5-PRPP, è convertita in AMP per l'intervento della adenina fosforibosil transferasi. Nel loro catabolismo i vari composti purinici sono convertiti in nucleotidi monofosfati e quindi degradati ad acido urico: GMP è degradato attraverso guanosina, guanina, xantina in acido urico; AMP è deaminato in IMP e degradato, attraverso inosina, ipoxantina e xantina, in acido urico.

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PATOGENESI DELL'IPERURICEMIA E DELLA GOTTA La patogenesi della gotta è strettamente legata ai fattori che causano iperuricemia. Poiché la concentrazione di acido urico nel sangue e nei liquidi biologici è determinata dall'equilibrio tra la velocità della sua produzione e quella della sua eliminazione, l'iperuricemia può essere il risultato di un'aumentata produzione di acido urico, di una diminuita escrezione renale di acido urico o di entrambi i fenomeni. L'iperuricemia e la gotta possono essere suddivise in forme primarie, cioè che non dipendono da altre malattie, e in forme secondarie dove l'iperuricemia o la gotta accompagnano altre malattie o sono indotte da alcol e da farmaci. Le forme primarie sono dovute a:

- iperproduzione o ipoescrezione idiopatica di acido urico; - iperproduzione associata a difetti enzimatici specifici (aumentata attività di 5-PRPP sintetasi) e

diminuita attività di ipoxantina-guanina fosforibosil transferasi. Le forme secondarie sono dovute a:

- glicogenosi di tipo I (Von Gierke); - sindrome di Lesch-Nyhan (assenza di ipoxantina-guanina fosforibosil transferasi); - linfomi, leucemie, mielomi e carcinomi ai quali si associa un aumentato turnover di acidi nucleici; N.B.: Queste prime 3 cause sono associate ad iperproduzione di acido urico. - malattie renali, chetoacidosi diabetica, somministrazione di diuretici (alle quali segue

un’ipoescrezione di acido urico). La causa dell'iperproduzione di acido urico non è ancora completamente nota, data la complessità di regolazione della biosintesi purinica. Tuttavia diverse osservazioni indicano che l'aumento della biosintesi purinica de novo è dovuto all'aumento delle concentrazioni intracellulari di 5-PRPP e del suo turnover. L'acido urico viene escreto per la maggior parte dal rene: i soggetti affetti da gotta presentano una diminuita escrezione renale di acido urico che può essere dovuta a una minore filtrazione, o ad un aumentato riassorbimento. DEFICIENZA DI IPOXANTINA-GUANINA FOSFORIBOSIL TRANSFERASI - SINDROME DI LESCH-NYHAN Alla nascita, i bambini con sindrome di Lesch-Nyhan appaiono sani e sembrano svilupparsi normalmente per vari mesi. Tuttavia, già a partire dalle prime settimane di vita, possono comparire talora i primi segni della malattia, quali la presenza nelle urine di "renella" (cristalli di acido urico) oppure episodi incontrollabili di coliche o di vomito. Fra il terzo e l'ottavo mese di vita è evidente un ritardo dello sviluppo motorio; fra l'ottavo mese e il primo anno di vita compare anche un ipertono muscolare. A partire dal secondo e terzo anno alcuni pazienti cominciano a mostrare l'aspetto più singolare di questo disturbo metabolico ossia una forte pulsione a mordersi le dita, le labbra, la mucosa buccale con perdita di tessuto e deturpazioni. Benché siano noti anche casi di sopravvivenza oltre il ventesimo o trentesimo anno di vita, la maggior parte dei soggetti malati non supera tale età. La malattia presenta un'eredità legata al cromosoma Xq26-27: ne risultano colpiti solo gli eterozigoti maschi, mentre le eterozigoti femmine trasmettono la malattia. La malattia è dovuta alla deficienza totale dell'enzima ipoxantina-guanina fosforibosil transferasi (IGPRT), che permette il recupero delle basi ipoxantina e guanina. La deficienza enzimatica comporta l'aumento della concentrazione intracellulare di 5-PRPP per suo diminuito consumo e ad un aumento della sintesi purinica de novo. Il meccanismo con cui la deficienza di IGPRT provoca i danni neurologici non è stato ancora identificato. DEFICIENZA DI ADENINA FOSFORIBOSILTRANSFERASI L'adenina fosforibosiltransferasi (APRT) catalizza la conversione dell'adenina in AMP in presenza di 5-PRPP. Gli eterozigoti hanno una diminuzione parziale di APRT nei tessuti e non presentano segni di malattia. Gli omozigoti non hanno l'enzima APRT e la malattia si presenta con calcolosi renale e i calcoli sono composti di 2,8-diossiadenosina. A causa della somiglianza chimica, la 2,8-diossiadenosina può essere confusa con l'acido urico e portare a una diagnosi non corretta. IMMUNODEFICIENZE CAUSATE DA DEFICIENZA DI ADENOSINA DEAMINASI Una deficienza di ADA (adenosina deaminasi) porta ad una patologia che si chiama SCID (Sindrome da immunodeficienza combinata). Si tratta di una malattia ereditaria, rara, in cui i bambini sono immunocompressi e non hanno risposta immunitaria.

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L’enzima ADA è importante perché degrada l’adenosina e converte la deossiadenosina (tossica per le cellule) in deossinosina (non tossica): in mancanza di ADA, si accumulano adenosina (provocando problemi, in quanto potente mediatore purinergico) e deossiadenosina, uccidendo i linfociti B e T ed esponendo l’organismo alle infezioni. L’accumulo di adenosina (e quindi deossiadenosina) provoca anche un accumulo di deossi-ATP che causa uno sbilanciamento del pool dei deossiribonucleotidi (deossiGTP, -CTP, -TTP), dannoso per la sintesi del DNA. L’accumulo di adenosina inibisce anche indirettamente le reazioni di transmetilazione del DNA. I bambini hanno un'elevata predisposizione ad infezioni batteriche, fungine (candidosi), virali e da protozoi già dalle prime settimane di vita e generalmente muoiono prima di due anni di età. I bambini colpiti da insufficienza di ADA possono essere trattati con varie terapie: il trapianto di midollo osseo, ottenuto da un fratello compatibile, o la terapia di sostituzione enzimatica utilizzando emazie contenenti ADA o farmaci a base di ADA bovino. XANTINURIA Sono conosciute due distinte forme di xantinuria: la prima, detta anche xantinuria classica (deficit di xantina deidrogenasi), è caratterizzata da un'aumentata escrezione urinaria di xantina, accompagnata da ipouricemia e diminuita escrezione renale di acido urico. Questa alterazione può presentarsi nell'infanzia e può provocare insufficienza renale; la seconda forma, caratterizzata da ulcere duodenali, miopatia, artropatia, rappresenta il 10% dei casi di xantinuria. In questa forma è presente una deficienza di tre enzimi: la xantina deidrogenasi, la solfito ossidasi e l'aldeide ossidasi. Entrambe le forme vengono ereditate in maniera autosomico recessiva. Non esistono specifiche terapie per questa patologia. ALTERAZIONI DEL METABOLISMO PIRIMIDINICO - OROTICOACIDURIA La più frequente alterazione del metabolismo pirimidinico è l'oroticoaciduria ereditaria. È dovuta ad una ridotta incorporazione dell'acido orotico (precursore della sintesi pirimidinica "de novo") nei nucleotidi pirimidinici. La malattia, rara, è trasmessa come carattere autosomico recessivo e si conoscono due varianti:

- Tipo I, causata da deficienza di orotato fosforibosil transferasi e orotidina-5'-fosfato decarbossilasi; - Tipo II, causata da deficienza della sola orotidina-5'-fosfato decarbossilasi.

In entrambe le forme l'acido orotico, che non può essere utilizzato per la biosintesi pirimidinica "de novo", viene escreto in grandi quantità con le urine. Data la sua scarsa solubilità in acqua, l'acido orotico cristallizza nelle vie urinarie formando calcoli ostruendone il flusso. La diminuita sintesi pirimidinica provoca anche una diminuzione della sintesi di DNA interferendo con il ciclo delle cellule a rapida crescita come le cellule eritroidi; infatti in questi malati vi è pure un'anemia ipocromica microcitica associata a un quadro eritroide midollare. Il trattamento con uridina risolve prontamente le anomalie ematiche e modifica la prognosi della malattia che altrimenti avrebbe esito fatale.

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ALTERAZIONI DELL'EQUILIBRIO ACIDO-BASE: ACIDOSI ED ALCALOSI L’abbassamento del pH del sangue al di sotto di 7,35 o l'innalzamento al di sopra di 7,45 sono la conseguenza immediata dei disordini dell'equilibrio acido base, mentre i quadri clinici che subentrano sono rispettivamente definiti acidosi ed alcalosi. Nel caso dell'acidosi si ha un'aumentata produzione o una ridotta eliminazione di acidi, oppure un’eccessiva perdita di basi; nel caso dell’alcalosi si ha una ridotta produzione o un'aumentata eliminazione di acidi, oppure un accumulo di basi. Quando la causa primaria risiede in un aumento o in una riduzione della concentrazione di C02 nel sangue, e quindi della sua pressione parziale (pC02), si parla rispettivamente di acidosi ed alcalosi respiratorie: l'eliminazione di C02 per via respiratoria risulta ridotta nell'acidosi ed aumentata nell'alcalosi. Quando, invece, la causa risiede in un'aumentata produzione di acidi fissi, cioè diversi dal volatile H2C03, o in una riduzione della loro eliminazione, si parla rispettivamente di acidosi ed alcalosi metaboliche. Queste, peraltro, possono rispettivamente subentrare in conseguenza della perdita o dell'accumulo di basi. La classificazione delle alterazioni in respiratorie e metaboliche è imprecisa: 1) perché la C02 è anch'essa un prodotto metabolico, tanto che un'acidosi da iperproduzione metabolica di C02 con caratteristiche di breve durata e di rapida reversibilità può occasionalmente manifestarsi in soggetti normali sottoposti a sforzi muscolari intensi e protratti; 2) perché non tutti i casi di disturbi dell'equilibrio acido-base, classificati come metabolici, trovano riscontro in un difetto del metabolismo, come nelle acidosi da ridotta escrezione di idrogenioni o da eccessiva perdita di ioni bicarbonato e nell'alcalosi causata dalla perdita eccessiva di HCl in conseguenza di vomito prolungato; 3) perché ciascuna modificazione inizialmente di tipo respiratorio può presentarsi associata ad una di tipo metabolico o viceversa dando luogo a disturbi misti. I parametri utilizzati nella diagnosi delle varie forme di acidosi e di alcalosi consistono nella valutazione nel sangue arterioso delle modificazioni del pH, della pC02 e della concentrazione degli HCO3

-.L'organismo è in grado di difendersi dalle conseguenze delle acidosi e delle alcalosi grazie a vari meccanismi di compenso, che possono portare alla cronicizzazione di esse, mentre la guarigione è possibile solo in seguito all'eliminazione delle cause responsabili della comparsa e della persistenza dei disturbi. ACIDOSI RESPIRATORIA Si parla di acidosi respiratoria quando l'alterazione dell'equilibrio acido base è causata da un difetto respiratorio responsabile della riduzione della ventilazione alveolare (ipoventilazione alveolare), che riduce l'eliminazione di C02 attraverso i polmoni determinando ritenzione di questa nel sangue arterioso. Come conseguenza immediata si verificano un innalzamento della pC02 (ipercapnia), un leggero aumento della concentrazione di HCO3

- e un abbassamento del pH (l'accumulo di C02 induce un aumento della concentrazione idrogenionica con abbassamento del pH e lieve incremento di HCO3

-). Sia l'aumento della pC02 che l'abbassamento del pH determinano uno stimolo alla ventilazione polmonare, che viene amplificato dalla ridotta p02 del sangue arterioso. Nei casi in cui l'ipercapnia (aumento della pC02) è di lunga durata, la sensibilità dei chemiocettori dei centri respiratori si riduce, causando un'ulteriore ritenzione di C02 e un ulteriore incremento dell'ipercapnia. Si può giungere fino al punto della mancata risposta dei centri respiratori all'ipercapnia con la conseguenza che i chemiocettori periferici possono essere stimolati soltanto dalla concomitante ipossia che, in assenza di un'adeguata somministrazione di miscele gassose ad elevato contenuto in 02, può essere letale. Se la somministrazione di O2 è eccessiva, annulla la stimolazione dei chemiocettori periferici, sensibili all'ipossia, con ulteriore riduzione dell'eliminazione respiratoria di CO2. Quando ciò accade interviene un obnubilamento del sensorio, che può culminare nel coma e nella morte. Al compenso iperventilatorio polmonare si aggiunge un ulteriore compenso da parte dell'epitelio tubulare del rene, che incrementa l'eliminazione degli idrogenioni ed il recupero del bicarbonato. Il compenso renale è in grado di incrementare l'eliminazione di H+ e la generazione degli HCO3

-. La cronicizzazione viene giudicata dalla normalizzazione del pH del sangue, associata ad un aumento degli HCO3

-. Le principali cause di acidosi respiratoria sono l’asfissia e numerosi processi che compromettono la

funzionalità polmonare, determinando generalmente ipoventilazione (estese fibrosi polmonari, broncopatie ostruttive, pneumopatie, asma bronchiale, ostruzioni delle vie aeree, versamenti pleurici) e depressione dei centri respiratori nervosi, indotti da morfina, alcol, barbiturici e anestetici.

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ALCALOSI RESPIRATORIA L'alcalosi respiratoria origina da una condizione opposta a quella che causa l'acidosi respiratoria, cioè da un'eccessiva eliminazione di CO2 per via alveolare (iperventilazione polmonare). Il deficit di CO2 nel sangue arterioso determina riduzione nel plasma della concentrazione degli HCO3

- ed innalzamento del pH. Il compenso è esercitato inizialmente dal tampone bicarbonato, che determina riduzione della concentrazione degli HCO3

- e quindi elevato pH (con riduzione della ventilazione polmonare); il rene, poi, riduce il riassorbimento del bicarbonato e l'escrezione degli idrogenioni con conseguente alcalinizzazione dell'urina. Come per l'acidosi, l'intervento del rene è piuttosto tardivo, ma molto efficace perché in grado di abbassare il pH del sangue, riportandolo, nei casi non gravi, a valori pressoché o del tutto normali, anche in presenza di una ridotta concentrazione di HCO3

- e di CO2. L'alcalosi respiratoria rappresenta una complicanza piuttosto frequente nei pazienti affetti da:

a) patologie dell'apparato respiratorio (asma, enfisema, polmonite, embolia polmonare); b) disturbi neurologici (alterazioni dei centri respiratori in conseguenza di processi flogistici); c) disturbi psichici (in particolare nell'isterismo durante le crisi, che causano iperventilazione emotiva); d) intossicazioni; e) soggiorno ad altitudine elevata in conseguenza dell'esposizione a ridotta pressione parziale dell'O2

nell'aria, che determina ipossia a cui consegue un'eccessiva risposta iperventilatoria; f) febbre alta persistente.

ACIDOSI METABOLICA L'acidosi metabolica, il disturbo più frequente e grave, ha un'eziopatogenesi estremamente varia e complessa. Tra le principali cause responsabili della sua comparsa ci sono:

- Aumentata produzione metabolica di acidi fissi, cioè combinati a sali e non volatili come la CO2, e derivati dal metabolismo dei lipidi e delle proteine;

- Ridotta escrezione renale di acidi fissi che si accumulano nell'organismo; - Perdita di basi, soprattutto ioni bicarbonato, indotta da cause esogene (uso incongruo di diuretici) o

endogene (diarrea profusa, fistole biliari o pancreatiche) o da patologie a carico del rene; - Intossicazioni da composti che nell'organismo sono convertiti in acidi (metanolo, glicole etilenico).

In queste condizioni si verificano un aumento della concentrazione di H+ ed una riduzione del bicarbonato. Le principali patologie che possono determinare la comparsa di acidosi metabolica sono: a) Diabete mellito scompensato, quando, a causa della deficiente stimolazione insulinica, la mobilizzazione degli acidi grassi dagli adipociti diventa eccessiva fino al punto che il fegato non riesce ad effettuarne la completa ossidazione. In queste condizioni si verifica, prevalentemente nel fegato, un'eccessiva formazione di acetil-CoA, dalla cui condensazione si forma acetoacetato dal quale derivano i corpi chetonici che si accumulano all'interno delle cellule, dando origine ad un eccesso di H+. Dalla decomposizione dell'acido acetoacetico, che avviene prevalentemente in corrispondenza degli alveoli polmonari e della vescica, si forma spontaneamente acetone, che viene eliminato rispettivamente con l'aria espirata e con l'urina; b) Digiuno prolungato, nel quale a causa della scarsa o mancata assunzione di carboidrati, l'organismo si trova costretto, ancora prima che le riserve di glicogeno si siano esaurite, a ricavare energia dal metabolismo dei lipidi e delle proteine con conseguente iperproduzione di corpi chetonici; c) Febbre elevata e prolungata, epatopatie, insufficienza circolatoria, nelle quali il fegato si impoverisce della sua riserva di glicogeno e ricava energia dal metabolismo dei lipidi e delle proteine; d) Avvelenamenti da glicole etilenico o da metanolo, dai quali si formano rispettivamente in eccesso acido ossalico ed acido formico; e) Shock, in quanto, a causa del difetto di perfusione tissutale che provoca ipossia, si instaura nelle cellule glicolisi anaerobia con produzione di acido lattico e conseguente accumulo di esso nel sangue e riduzione degli HCO3

-; f) Malattie che provocano diarrea con cui vengono perdute notevoli quantità di acqua e di bicarbonatoioni; g) Patologie renali, che intervengono con varia modalità nella genesi dell'acidosi metabolica. Nell'insufficienza renale, l'acidosi metabolica è provocata dalla deficiente escrezione della normale quantità di acidi fissi di origine metabolica. Anche nell'acidosi tubulare distale, l'acidosi metabolica è provocata dal deficit di escrezione tubulare di H+. Nell'acidosi tubulare prossimale è ridotto invece il riassorbimento di HCO3

-

; l'acidosi metabolica è quindi conseguenza dell'insufficiente riassorbimento di HCO3-.

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Nell'acidosi metabolica acuta, le modificazioni dei parametri consistono nell'abbassamento del pH e nella riduzione di ioni bicarbonato, dato che la concentrazione di CO2, e quindi la sua pressione parziale, rimangono, almeno nella fase iniziale, invariate o subiscono un lieve calo. La sintomatologia è data da turbe neurologiche, da collasso cardiocircolatorio e da iperventilazione alveolare, definita "fame d'aria", causata dalla stimolazione acidotica, che accelera l'eliminazione di CO2. È l'iperventilazione che, inducendo la transizione verso la forma cronica, porta all’abbassamento della pCO2 ed al rialzo del pH. In queste condizioni, a causa della forte riduzione di HCO3

-, il tamponamento degli H+ resta affidato ai tamponi non bicarbonato, all'eliminazione per via respiratoria della CO2, ed infine, nei casi non dovuti a patologie renali, all'intervento molto efficace del rene, che provvede al recupero ed alla rigenerazione del bicarbonato. Alla caduta del bicarbonato nel plasma, si associa l'aumento di altri anioni, soprattutto di CI- (acidosi metaboliche ipercloremiche). Anche nella fase cronica, da qualunque causa indotta, le manifestazioni cliniche sono molto simili: marcato aumento della ventilazione polmonare (respiro di Kussmaul), sonnolenza, stato stuporoso che nei casi più gravi culmina in coma. La riduzione della pC02, indotta dall'iperventilazione compensatoria, può causare la trasformazione di un'acidosi metabolica in alcalosi respiratoria. L'acidosi metabolica è essenzialmente causata da 2 meccanismi:

- accumulo nell'organismo di acidi fissi di origine endogena o di provenienza esogena; - ridotta o perduta capacità del rene ad eliminare idrogenioni, come avviene nell'insufficienza renale

cronica e nell'acidosi tubulare distale, o a riassorbire ioni bicarbonato, come avviene nell'acidosi tubulare prossimale.

Nel plasma il numero delle cariche elettriche positive deve essere uguale a quello delle cariche negative in modo da garantire una condizione di elettroneutralità. Nella pratica di laboratorio per determinare le eventuali variazioni delle molecole o ioni che con le loro cariche contribuiscono all'elettroneutralità si procede alla determinazione dell’intervallo o divario anionico (anion gap). Il risultato di quest'indagine è di grande ausilio per la diagnosi della causa primaria responsabile dell'insorgenza dell'acidosi metabolica, la quale può essere classificata in 2 tipi fondamentali, cioè con intervallo anionico normale e con intervallo anionico aumentato. ALCALOSI METABOLICA L'alcalosi metabolica è causata dall'aumentata eliminazione di idrogenioni per via digerente o renale o dall'accumulo nell'organismo di basi forti o anche di bicarbonato, per cui nel sangue si ha un innalzamento del pH, un incremento della concentrazione in HCO3

- ed un modesto aumento compensatorio della pC02. Frequentemente l'alcalosi metabolica si associa alla deplezione di ioni potassio per il fatto che H+ e Na+ passano dal compartimento extracellulare in quello intracellulare per compensare la perdita di K+: ciò determina acidosi e ritenzione di Na+ nel compartimento intracellulare ed alcalosi e deplezione di Na+ in quello extracellulare. Il compenso è esercitato in prima istanza dai sistemi tampone, che liberano H+, ed in seconda istanza dalla risposta ipoventilatoria, indotta dalla bassa concentrazione ematica di H+, che determina ritenzione di CO2 e di HCO3

- ed un certo grado di ipossia, la quale, oltre un certo livello, stimola la ventilazione polmonare che neutralizza la risposta compensatoria ipoventilatoria. Nel compenso, interviene, infine, il rene che provvede ad incrementare l'eliminazione di ioni bicarbonato. Il meccanismo compensatorio renale, pur essendo molto efficace, ha i suoi limiti in quanto nello scambio di H+ con Na+ si ha il riassorbimento tubulare di bicarbonato di sodio e di HCO3

-, che contribuisce ad aggravare la condizione di alcalosi. Le principali patologie responsabili di alcalosi metabolica sono: a) l'eccessiva ingestione di alcali, ad esempio di bicarbonato di sodio, per ridurre l'acidità gastrica; b) il vomito incoercibile, che induce grave perdita di HCl; c) l'esagerata escrezione di acidi con l’urina, come avviene nell'iperaldosteronismo, perché l'eccesso di aldosterone incrementa la secrezione nel liquido tubulare di idrogenioni, che sono scambiati con ioni sodio; d) l’uso incongruo di diuretici; e) l'accumulo intracellulare di idrogenioni. Sia le acidosi che le alcalosi, oltre che nelle forme semplici respiratorie e metaboliche, possono presentarsi in forme miste, causate dall'associazione o dalla sovrapposizione di un disordine con un altro. In questi casi non sempre è facile attribuire all'uno o all'altro disordine il ruolo primario, che può essere svelato solo dall'accurata anamnesi.

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Alcune alterazioni miste provocano effetti sinergici con conseguente aggravamento della condizione preesistente, come avviene per esempio nei pazienti affetti da acidosi respiratoria, in cui si manifesti anche un'acidosi metabolica o viceversa. Se, per esempio, un paziente affetto da una broncopatia ostruttiva è colpito da insufficienza renale, egli andrà incontro ad un aumento della concentrazione di idrogenioni e della pCO2 e ad un abbassamento della concentrazione di bicarbonato, cioè a fenomeni rispettivamente tipici dell'acidosi respiratoria e di quella metabolica. Si possono verificare anche alterazioni miste dell'equilibrio acido-base che inducono effetti antagonisti, che mimano nel loro insieme un effetto compensatorio. È questo il caso, per esempio, di pazienti affetti da una broncopatia ostruttiva, responsabile di acidosi respiratoria, i quali, in seguito all'uso incongruo di alcuni diuretici, sviluppano una condizione di ipopotassiemia, che è causa di alcalosi metabolica. In questi casi, il risultato dell'analisi di laboratorio può essere menzognero, risulta di grande ausilio l'accurata raccolta dell'anamnesi remota e prossima, che svela l'esistenza della condizione preesistente (ad esempio, la broncopatia ostruttiva) e della successiva (ad esempio, l'uso di diuretici). LA CLASSIFICAZIONE CLINICA DELLE ACIDOSI METABOLICHE ED IL DIVARIO ANIONICO (ANION GAP) Per anion Gap si intende la differenza o divario (gap), corrispondente fisiologicamente a 15 mEq/L, tra i cationi plasmatici (Na+ + K+), la cui somma è 145 mEq/L, e gli anioni plasmatici (HCO3

- + Cl-) la cui somma è 130 mEq/L (mEq/L = milliequivalenti su litro). La differenza è dovuta all'assenza tra gli anioni considerati, dei cosiddetti anioni residui (AR), rappresentati dalle basi coniugate degli acidi fissi. Il calcolo è utile per determinare la quantità di anioni residui, i quali, una volta sommati agli anioni Cl- e HCO3

- eguagliano i cationi. Tra questi, gli altri cationi di cui non si esegue il calcolo, quali ad esempio il Ca2+ e Mg2+, non giocano alcun ruolo perché nell'acidosi metabolica non subiscono variazioni. Tale differenza non influenza l'elettroneutralità in quanto è colmata da altri anioni che non sono presi in considerazione nel calcolo (ioni solfato, ioni fosfato e proteine). La determinazione degli anioni residui nei pazienti affetti da acidosi metabolica è utile per la comprensione delle cause responsabili della comparsa del disordine dell'equilibrio acido-base. Se un nuovo acido di origine endogena (acido lattico) o di origine esogena (acido formico) si accumula, esso si dissocia in: a) idrogenioni, che si combinano col bicarbonato con formazione di CO2 e H2O con la conseguenza che il livello del bicarbonato si abbassa ed il pH si sposta verso l'acidità; b) anioni, rappresentati dalla base coniugata degli acidi fissi, che si aggiungono agli anioni residui. In questa situazione la concentrazione degli HCO3

- è bassa mentre quella dei Cl- è normale. Poiché nella determinazione analitica i nuovi anioni non sono misurati, la differenza tra i cationi (Na+ + K+) e gli anioni misurati (Cl- + HCO3

-) aumenta. Ciò avviene nelle acidosi da ingestione di acidi esogeni, da iperproduzione di acido lattico e nelle chetoacidosi. Quando invece l'acidosi metabolica è causata da perdita per via renale o per via intestinale di bicarbonato, il livello plasmatico del bicarbonato cala, ma quello del cloruro aumenta perché la perdita di bicarbonato è compensata dal maggiore riassorbimento renale di cloruri, che contribuisce al mantenimento dell'elettroneutralità ed alla stabilita del gap anionico. Difatti, a differenza di quanto avviene nell'acidosi con AR elevato, non essendoci alcun carico di acidi fissi, il contenuto in AR, cioè in basi coniugate dei suddetti acidi, rimane immodificato. La conseguenza è che l'intervallo anionico risulta normale. Le acidosi con AR normale vengono pertanto anche definite ipercloremiche.

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GENERALITÀ SUI TUMORI La parola tumore viene dal latino "tumor" che significa gonfiore (si faceva riferimento al gonfiore causato da una infiammazione). Da anni rientra in ambito medico come sinonimo di neoplasia: esso indica una massa costituita da cellule (non solo in forma di tessuto o di organo, in quanto un tumore degli elementi del sangue presenta una componente liquida) che proliferano in maniera incontrollata senza uno scopo. La proliferazione è incontrollata nella misura in cui tutti i meccanismi che normalmente regolano un determinato tessuto vengono via via meno (c’è un programma genetico, legato al DNA, ed epigenetico, legato alla cromatina, alterato su più punti). È una massa caratterizzata da una proliferazione:

- Atipica; - Autonoma, perché funziona indipendentemente dalle normali regole dell'omeostasi; - Aggressiva, perché causa non solo scompensi a distanza, ma anche insufficienza d'organo per

mancanza o riduzione di cellule parenchimali. Si distinguono diversi tipi di crescita cellulare:

- Ipertrofia cellulare (aumento di volume cellulare) e d’organo (aumento del volume di un organo in relazione a una iperplasia o ad un’alterazione idroelettrolitica);

- Iperplasia (aumento del numero di cellule in un organo o in un tessuto); - Displasia (alterazione della replicazione cellulare non ancora incontrollata). Non è una condizione

tumorale, ma in determinate situazioni può costituire una predisposizione al tumore. In un tessuto a strati c’è una parte basale e vari strati più superficiali: c’è displasia quando si ritrovano negli strati più superficiali cellule proprie della parte basale. Un esempio è dato dalla displasia della cervice uterina (la displasia della cervice uterina di grado III è considerata tumore);

- Neoplasia, caratterizzata da una crescita incontrollata e afinalistica che persiste anche dopo la cessazione degli stimoli che l’hanno provocata.

Ipertrofia e iperplasia possono essere o meno patologiche. Displasia e neoplasia sono sempre patologiche. La metaplasia è invece una modificazione reversibile in cui un tipo cellulare differenziato viene sostituito da un altro differenziato (aree di metaplasia sono di occasionale riscontro nei tumori). La crescita tumorale rappresenta una proliferazione senza uno stimolo chiaramente evidenziabile. Le caratteristiche fondamentali sono:

- Progressione, in cui le cellule si dividono e accumulano mutazioni che conferiscono loro qualità aggressive nei confronti dei tessuti. L'evoluzione è costante nel tempo, quindi se non trattato il tumore può causare danno al tessuto, all'organo e quindi all'organismo. Le cellule tumorali hanno una proliferazione quasi sempre più veloce di quella di un tessuto normale. Supponendo che la proliferazione abbia una velocità di “2x” rispetto a quella delle cellule normali, con l’aggiunta di nuove alterazioni aumenta la capacità proliferativa di alcune cellule tumorali a “4x” (le “4x” hanno tutte le mutazioni delle “2x”). Ciò comporta una disomogeneità tra le cellule tumorali perché ci sono cellule “2x” e cellule “4x” e nel tempo le cellule “4x” potrebbero sostituire non solo le cellule sane ma anche quelle “2x” e perdere o acquisire nuove alterazioni: questa è la progressione. Tenendo conto che il tumore può progredire, individuandolo in tempo ci sono maggiori possibilità di debellarlo.

- Insensibilità alla regolazione. Una cellula neoplastica è meno differenziata rispetto alla controparte normale, cioè al tessuto normale da cui origina (la perdita della differenziazione cellulare è uno degli aspetti propri e tipici di un processo neoplastico). È una cellula che meno facilmente va incontro ai fenomeni di morte cellulare programmata (presenta alterazioni nella via apoptotica). Il tumore è una patologia personalizzata che può variare da individuo a individuo, motivo per cui è considerato incurabile: terapie possono funzionare bene per un paziente e per un altro no. È molto difficile (se non impossibile) definire il fattore tempo in oncologia, cioè stabilire al momento della diagnosi la datazione della patologia, in quanto l'andamento della progressione non è lineare e neanche la dimensioni danno informazioni su datazione e indice di proliferazione. Neanche indagini effettuate per altro scopo, anche se apparentemente negative (che non hanno evidenziato la presenza di masse), scongiurano del tutto l'eventualità che era presente una precedente condizione neoplastica, ma al massimo indicano che tale patologia era sotto il limite della rilevabilità diagnostica.

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I tumori hanno in genere una origine monoclonale (le cellule di uno stesso tumore hanno lo stesso pattern di espressione proteica): una singola cellula trasmette la mutazione alle figlie. Anche se il tumore origina da un’unica cellula, le interazioni che la cellula neoplastica è in grado di contrarre con il microambiente in cui essa si trova sono estremamente complesse e importanti. Una delle caratteristiche fondamentali che contraddistingue un processo neoplastico è la capacità di servirsi di una vascolarizzazione abnorme, quindi di una angiogenesi abnorme: le cellule tumorali producono fattori angiogenici (VEGF) che gli permettono la proliferazione (dove non ci sono vasi c’è necrosi del tessuto).

L’angiogenesi è un processo che viene attivato nello sviluppo di una neoplasia: esiste un momento critico nella storia naturale di una neoplasia che è la sua capacità di passare da una crescita che avviene indipendentemente da un supporto angiogenico ad hoc, come accade nelle primissime fasi dello sviluppo di un tumore, ad una crescita che invece dipende, successivamente, dallo sviluppo di un supporto vascolare. Questa fase, che prende il nome di switch angiogenetico, è estremamente critica perché, dalla sua attivazione, dipende la capacità di crescita della neoplasia attraverso il supporto metabolico che viene servito da questa vascolarizzazione abnorme che supporta il tumore. Soprattutto lo switch angiogenetico è critico per la neoplasia perché rappresenta il viatico alla capacità di metastatizzare.

Esistono parziali eccezioni alla monoclonalità, in quanto i soggetti con predisposizione ereditaria sviluppano tumori da più linee cellulari (ad esempio, poliposi intestinale). Ciò nonostante, anche in questa parziale eccezione alla regola, resta la monoclonalità del tumore, ossia nello stesso individuo si hanno tumori molteplici che condividono la stessa alterazione di base. Oggi c’è la teoria del double hit (del doppio colpo): il numero di mutazioni statisticamente rilevante per l'avanzamento tumorale è pari a 7, ma è stato dimostrato che, qualora le mutazioni riguardassero la via della trasduzione del segnale (Ras) o quella della trascrizione (c-Mic), ne basterebbero 2. Ras e c-Mic sono 2 oncogeni mutati nel 50% dei tumori umani e interagiscono tra loro. Ad ora, non si è in grado di diagnosticare un tumore nella sua fase iniziale, prima del double hit. Infine, tra le ultime riflessioni da fare, bisogna considerare che la progressione verso la malignità non è statica, ma dinamica: un tumore che avanza verso la malignità, avanza anche verso la disomogeneità molecolare e quella proliferativa. C’è un’eccezione all’autonomia della proliferazione della massa tumorale, rappresentata dai tumori ormono-dipendenti (prostata o mammella), la cui insorgenza e crescita è promossa o comunque favorita dagli ormoni. Un tumore finché è ormono-dipendente, è regolato, differenziato e sostanzialmente guaribile. Con l'acquisizione di progressive mutazioni, questa parziale dipendenza viene persa e la cellula comincia a diventare autonoma e dunque ormono-indipendente. Per vedere se un tumore è ormono-dipendente o meno si vede se i recettori per gli ormoni sessuali ci sono e sono funzionanti (ad esempio, per vedere se il recettore dell'estradiolo è funzionante, si valuta la presenza del recettore del progesterone, il cui gene è indotto alla trascrizione proprio dal recettore dell'estradiolo). Si osservano 4 casi:

- Presenza dei recettori degli estrogeni e del progesterone. Il tumore è ormono-dipendente e la terapia è antiormonale (tamoxifene);

- Assenza del recettore degli estrogeni e del progesterone. Il tumore è ormono-indipendente e la terapia prevede la chemio;

- Presenza del recettore degli estrogeni e assenza del recettore del progesterone. Il recettore dell'estradiolo c'è, ma è mutato e trascrizionalmente inattivo; dunque lega l'ormone ma non induce la sintesi del recettore del progesterone. La terapia è discussa;

- Assenza del recettore degli estrogeni e presenza del recettore del progesterone. Il recettore per l'estradiolo è mutato ma funziona, anche senza ligando. C'è attività non controllata.

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CLASSIFICAZIONE DEI TUMORI I tumori, sulla base di caratteristiche morfologiche, attività proliferativa e soprattutto del comportamento nei confronti dei tessuti limitrofi, si dividono in tumori benigni e maligni: in tutti e 2, le cellule neoplastiche differiscono dalle normali per l'acquisizione dell'autonomia replicativa. TUMORI BENIGNI I tumori benigni sono caratterizzati da cellule che si presentano molto simili alle cellule normali per caratteristiche morfologiche e funzionali: ciò nonostante differiscono da queste. Le cellule sono innanzitutto ben differenziate e hanno una proliferazione lenta. Hanno uno sviluppo di tipo espansivo: quando prendono origine dall'epitelio ghiandolare (adenomi) sono circondati da una capsula di connettivo fibroso, che li delimita dai tessuti circostanti avvolgendoli completamente. Le cellule tumorali benigne producono fattori di crescita per il connettivo e per l'endotelio vascolare, per cui formano un proprio stroma e un proprio letto vascolare, che rappresentano rispettivamente il loro sostegno meccanico e nutrizionale. Le cellule tumorali benigne hanno con i tessuti limitrofi un rapporto di contiguità, nel senso che le cellule neoplastiche non invadono e non infiltrano i tessuti vicini, ma si limitano a comprimerli. Ciò non significa che esse non possano essere fonte di danno: ad esempio, una compressione in area cranica può creare gravi fenomeni di ipertensione endocranica oppure, se altera uno dei centri vitali, come quello del respiro, il paziente non è più in grado di respirare e muore. I tumori benigni non danno mai metastasi, insorgono e permangono sotto forma di neoformazione localizzata: non recidivano, a condizione che la rimozione sia totale. Statisticamente, tutti i tumori benigni possono evolvere in maligni, (nonostante ciò esistono tumori benigni che non evolvono mai). È più possibile che un tumore nasca come maligno, piuttosto che evolva come tale. TUMORI MALIGNI I tumori maligni sono costituiti da cellule che si presentano diverse dalle corrispondenti cellule normali sotto tutti gli aspetti (morfologico, funzionale, comportamentale). Innanzitutto sono scarsamente differenziate: un tumore maligno viene definito anaplastico o fortemente indifferenziato quando il grado di differenziazione delle cellule che lo costituiscono è talmente basso da non consentire, sotto l'aspetto morfologico, l'individuazione del cariotipo da cui ha preso origine. Le cellule maligne hanno una proliferazione più veloce. Peculiare è il comportamento del tumore maligno nei confronti dei tessuti sani limitrofi che vengono dapprima infiltrati dalle cellule tumorali e poi distrutti, con la conseguenza che il tessuto proliferante neoplastico finisce col sostituirsi ad essi (invasività o metastatizzazione). La possibilità della recidiva nel caso di tumori maligni è molto elevata, considerando che non sempre si riesce a effettuare la rimozione chirurgica totale di tutte le cellule che costituiscono il tumore primario e dunque quelle superstiti possono dare origine alla formazione di un nuovo tumore. I tumori maligni generalmente danno metastasi e provocano cachessia (progressivo e rapido decadimento dell'organismo) che spesso si manifesta nella fase terminale della malattia neoplastica, anche se non mancano i casi in cui si manifesta precocemente. I tumori maligni hanno un problema di differenziamento: se l’origine è nella cellula matura, si ha perdita di differenziamento, se l’origine è nella cellula staminale (quindi indifferenziata), si ha acquisizione di differenziamento (seppur in minima quantità). Esistono cellule staminali in tutti i tessuti e gli organi che possono dar origine a un tumore. Naturalmente l’esempio più eclatante sono i tumori ematopoietici. Le cellule staminali, a seconda dell’influenza dell’ambiente intra ed extracellulare, possono proliferare e dividersi in 2 cellule figlie (alle quali trasmettono in modo non ereditario, ma epigenetico), oppure differenziarsi in cellule parenchimali mature. La caratteristica che distingue una neoplasia maligna da una benigna è la capacità di metastatizzare, vale a dire la capacità di alcune cellule tumorali di staccarsi dalla sede di insorgenza del tumore primitivo e, attraverso un processo estremamente complesso che sfrutta il sistema vascolare e la rete linfatica, di andare a localizzarsi in siti anche molto distanti dall’organo in cui il tumore primitivo è insorto. Questo processo prende appunto il nome di metastatizzazione e le colonizzazioni a distanza sono note come metastasi.

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La classificazione dei tumori è basata su 2 criteri: - Istogenetico, che prende in considerazione il tessuto dal quale il tumore ha avuto origine; - Prognostico, che si basa sull'identificazione della malignità o benignità del tumore.

Qualche volta si usa una nomenclatura più tradizionale, basata su: - Nome derivato dall'organo e non dal tessuto di origine (epatoma, timoma); - Nome coniato prendendo in considerazione aspetti istofunzionali del citotipo (immunoblastoma); - Apudomi, tumori derivati dalle cellule apud (elementi endocrini nello stroma dei vari organi); - Nome che deriva dallo studioso che lo identificò per primo (ad esempio, linfoma di Hodgkin).

La classificazione su base eziologica è impossibile sia perché le cause spesso non sono note, sia perché lo stesso agente oncogeno può indurre la comparsa di tumori differenti. La maggior parte dei tumori prende origine dall'epitelio e dal connettivo, anche se il connettivo è quantitativamente più rappresentato. Tra i tumori benigni dell'epitelio di rivestimento ricordiamo: 1. Polipo: costituito da una parte stromale centrale (in cui ci sono nervi, vasi sanguigni e linfatici) rivestita da cellule epiteliali che hanno le caratteristiche morfologiche dell'epitelio dal quale la neoformazione ha preso origine; 2. Papilloma: si distingue dal polipo perché dalla sua base d'impianto il peduncolo vascolo-connettivale si ramifica in varie direzioni con diramazioni periferiche molto sottili, rivestite da epitelio normale, conferendo alla neoformazione un aspetto arborescente. Non è raro il caso che i papillomi, in particolare quelli che prendono origine dall'epitelio transizionale della vescica, recidivino dopo asportazione o vadano incontro a trasformazione maligna, ed è per questa ragione che molti patologi considerano il papilloma vescicale una neoformazione potenzialmente maligna; 3. Verruca. I tumori benigni dell'epitelio ghiandolare si chiamano adenomi. Tipi particolari di adenomi sono il cistoadenoma, nel quale le strutture ghiandolari si dilatano formando strutture cistiche ripiene di secreto. Il fibroadenoma è una neoformazione mammaria benigna dove la proliferazione dell'epitelio ghiandolare si associa ad un parallelo sviluppo del connettivo stromale. È un tumore misto: con questo termine vengono indicati quei tumori alla cui costituzione partecipano cellule provenienti da 2 o più tessuti diversi. I nevi vengono considerati più che tumori benigni, amartomi, cioè neoformazioni risultanti dall'accumulo casuale di più tessuti: sono di solito presenti alla nascita o si manifestano nei primi anni di vita. Il nevo nevocellulare è quello che comunemente chiamiamo neo. I tumori maligni dell'epitelio di rivestimento si dividono in epiteliomi e carcinomi. Gli epiteliomi a loro volta si dividono in:

- Epitelioma basocellulare, così chiamato perché si ritiene prenda origine dalla proliferazione degli strati basali dell'epidermide;

- Epitelioma spinocellulare o carcinoma a cellule squamose.

Tumori del sistema nervoso

originano da cellule embrionali Medulloblastoma, Medulloepitelioma Spongioblastoma, Gliomatosi

originano da cellule nervose Neuroblastoma

originano dagli astrociti Astrocitomi (*), A.diffusi, A.pleomorfi, Xantoastrocitomi pleomorfi, A.desmoplastici infantili, A.subependimali a cellule giganti, Glioblastoma (**)

originano da cellule dell’oligodendroglia Gliomi

originano da cellule dell’ependima Ependimomi

originano da cellule delle guaine nervose Neurilemmomi Neuromi, Schwannomi, Neurofibromi

originano da cellule meningee Meningiomi Sarcomi meningei (*) con gradazione da I a IV col progredire dell’anaplasia individuata sulla base delle atipie citologiche (**) Inizialmente incluso nella categoria dei tumori embrionali. Successivamente si è compreso che il glioblastoma rappresenta la fase più anaplastica dell’astrocitoma.

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CLASSIFICAZIONE DEI TUMORI TESSUTO DI ORIGINE BENIGNI MALIGNI I. Tumori epiteliali Epitelio di rivestimento Papillomi, polipi, verruche Epiteliomi o carcinomi Epitelio ghiandolari Adenomi, fibroadenomi Adenocarcinomi II. Tumori connettivali Tessuto fibroso Fibroma Fibrosarcoma Tessuto adiposo Lipoma Liposarcoma Tessuto cartilagineo Condroma Condrosarcoma Tessuto osseo Osteoma Osteosarcoma Vasi sanguigni Emangioma Emangiosarcoma Tessuto muscolare liscio Leiomioma Leiomiosarcoma Tessuto muscolare striato Rabdomioma Rabdomiosarcoma, Sarcomi indifferenziati III. Tumori dei tessuti emopoietici e del sistema reticolo-istiocitario Tessuto linfoide Linfoma follicolare, Linfosarcoma,

Leucemia linfatica Granulociti Leucemia mieloide Monociti Leucemia monocita Tessuto reticolo-istiocitario Reticolosarcoma

Morbo di Hodgkin Eritrociti Eritremia Plasmacellule Mieloma multiplo o Plasmacitoma IV. Tumori del tessuto nervoso Tumore gliale Astrocitoma

Oligodendroglioma Ependimoma

Astrocitoma maligno, Oligodendroblastoma Ependimoblastoma

Cellule di Schwann Neurilemmoma Neurilemmoma maligno Meningi Meningioma Meningioblastoma Midollare surrenale Feocromocitoma V. Tumori embrionari Cellule del SNC Neuroepitelioma Medulloblastoma Cellule del SNP Ganglioneuroma Neuroblastoma Retina Retinoblastoma Rene Nefroblastoma Fegato Epatoblastoma Organi pelvici Rabdomiosarcomi Ovaio Teratoma ovarico Teratoma ovarico Testicolo Teratoma testicolare Teratoma testicolare Trofoblasto Mola idatiforme Corionepitelioma Resti di notocorda Cordoma VI. Altri tipi di tumori Melanoblasti Neo pigmentato benigno Melanoma maligno

GRADING - GRADAZIONE DEI TUMORI La gradazione è un livello che si applica solo ai tumori maligni e a quelli in cui il grado di differenziamento si associa a una migliore o una cattiva prognosi. Viene formulata dall'istopatologo con i numeri romani da I a IV. Se nel contesto di una neoplasia sono presenti aree con una differente gradazione, la gradazione del tumore viene espressa costantemente sulla base dell'area giudicata con la gradazione più elevata.

- GI: Tumori costituiti da cellule molto differenziate; - GII: Tumori costituiti da cellule con differenziazione di medio grado; - GIII: Tumori costituiti da cellule con differenziazione di basso grado; - GIV: Tumori costituiti da cellule indifferenziate; - GX: Tumori con grado di differenziazione non definibile.

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I principali parametri presi in considerazione nella gradazione di un tumore maligno sono il grado di differenziazione, la frequenza della mitosi (per avere un'idea della potenzialità invasiva della neoplasia) e il pleomorfismo cellulare e nucleare (caratteristica dei tumori ad elevata gradazione che riguarda non solo le variazioni di forma e di dimensioni delle cellule e dei nuclei, ma anche le modificazioni di colorabilità e la presenza di mitosi atipiche). IL SISTEMA TNM La classificazione TNM è una classificazione clinica prognostica, che segue alla diagnosi di tumore. Prende in considerazione i seguenti parametri:

- T (tumore): l'estensione del tumore primitivo nella sede anatomica in cui è insorto. L'aggiunta di numeri alla lettera (T1, T2, T3, T4) indica la progressiva estensione locale del tumore primitivo sulla base della determinazione del suo diametro. L'aggiunta di lettere minuscole ai numeri indica, in alcuni casi, l'invasione di particolari tonache. Si adoperano inoltre le seguenti sigle: T0, nel caso che in presenza di metastasi non si sia giunti all'identificazione del tumore primario; TX, nel caso che, sempre in presenza di metastasi, manchino i requisiti minimi per giungere alla definizione di tumore primario; Tis, per indicare il carcinoma in situ.

- M (metastasi): l'assenza o la presenza di metastasi a distanza. M0, assenza di segni di metastasi; M1, presenza di segni di metastasi, a sua volta divisa secondo le regioni anatomiche più colpite che vengono indicate con le prime 3 lettere del nome in lingua inglese dell'organo sede di metastasi (pulmonary=polmoni, osseus= scheletro, brain = encefalo); MX, eventuale presenza di metastasi non accertabili.

- N (linfonodo): l'invasione o meno da parte delle cellule tumorali dei linfonodi regionali e iuxtaregionali. N0, assenza di interessamento linfonodale; N1, N2, N3, coinvolgimento progressivo di linfonodi regionali; N4, interessamento dei linfonodi iuxtaregionali; NX, mancanza di requisiti minimi per definire lo stato dei linfonodi generali.

Un esempio: T1N0M0 = tumore verosimilmente maligno ancora molto localizzato. Le aree del corpo umano dove può insorgere un tumore sono distinte in regioni, sedi e sotto sedi. Ciascuna regione è identificata con un numero preceduto dalla sigla ICD-O (international classification of disease for oncology). Il numero di codice indicante la regione è seguito da un decimale che indica la sede e, talora, da un altro numero che indica la sotto sede. Facoltativamente è aggiunta alla sigla ICD-O la lettera C (fattore di certezza) seguita da un numero che sottintende la validità della classificazione a seconda della tecnica diagnostica adoperata. Il sistema TNM identifica alcuni simboli da aggiungere a quelli suddetti in casi particolari e cioè:

- ɣ, quando la classificazione TNM è eseguita nel corso o dopo l'esecuzione di una terapia; - r, quando si tratta di una recidiva; - a, quando la classificazione è per la prima volta effettuata nel corso dell'autopsia; - m, per indicare la presenza di tumori multipli.

La definizione dell’estensione del tumore sulla base di parametri istopatologici avviene secondo 2 tipi di stadiazione: la stadiazione clinica (cTNM), che si fa prima di un intervento chirurgico ed è basata esclusivamente su criteri radiologici; la stadiazione patologica (pTNM), basata sull’esame istopatologico post-operatorio. Infine, si prende in considerazione anche il fatto che dopo l'intervento chirurgico può residuare una porzione di tumore (R per residuo), che viene definita in varia maniera e cioè con:

- RX, quando la presenza di residui tumorali non può essere accertata; - R0, quando non sono presenti residui tumorali; - R1, quando sono presenti residui tumorali microscopici; - R2, quando sono presenti residui tumorali macroscopici.

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DIFFERENZE TRA CELLULA NEOPLASTICA E CELLULA NORMALE Il tumore differisce nella morfologia dal suo tessuto di origine:

1. Per le caratteristiche delle singole cellule. - Volume minore e forma alterata; - Rapporto nucleo/citoplasma alterato con nucleo ipercromico di dimensioni e numero

variabili; - Addensamento della cromatina e distribuzione dei pori nucleari irregolari; - Disgregazione del nucleolonema e aumento del volume e del numero dei nucleoli; - Alterazione della polarità e delle funzioni della membrana plasmatica; - Diminuzione delle dimensioni del RER e REL e aumento di polisomi e ribosomi; - Lisosomi giganti e bizzarri; - Centrioli abnormi e in eccesso; - Mitocondri di forma variabile e irregolare; - Presenza di cellule dette oncociti.

2. Per come sono organizzate e tenute insieme dallo stroma connettivale e irrorate dai vasi. Se consideriamo i carcinomi degli epiteli di rivestimento, la tipica organizzazione a strati progressivamente differenziati (dallo strato basale allo strato corneo) viene perduta e le cellule tumorali si trovano raggruppate in maniera più o meno disordinata in formazioni nodulari o cilindriche. Questo si realizza a causa delle alterazioni delle giunzioni cellula- cellula, delle placche focali di adesione e della polarità. Inoltre, un tumore non raggiungerà mai grandi dimensioni se non è capace di organizzare un efficiente stroma vascolare contemporaneamente alla sua stessa crescita: questo spesso non succede, motivo per il quale nel tumore sono presenti di regola focolai di necrosi.

3. Per come il tessuto è delimitato rispetto agli altri tessuti normali circolanti. L’insieme di queste differenze e alterazioni si definisce anaplasia morfologica. Danni genetici non letali (mutazioni) sono alla base del processo di cancerogenesi: possono essere acquisiti per l'azione di sostanze chimiche, radiazioni, virus e difetti ereditati nella linea germinale. Le mutazioni tumorali interessano 4 categorie di geni:

- geni che regolano l’apoptosi (i geni proapoptotici vengono inattivati, quelli antiapoptotici sono iperattivati o iperespressi);

- geni che regolano la riparazione del DNA; - oncogeni; - oncosoppressori.

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INVASIVITÀ NEOPLASTICA La caratteristica biologica che contraddistingue lo sviluppo del tumore maligno è rappresentata dalla capacità delle cellule neoplastiche di penetrare nei tessuti limitrofi, dapprima con un processo di infiltrazione, successivamente con distruzione del tessuto normale che viene sostituito da quello neoplastico. Questa strategia di diffusione viene definita invasività. Del fenomeno dell’invasività risultano responsabili essenzialmente fattori intrinseci della cellula che possono essere così elencati:

1. Modificazioni dell’adesività intercellulare. Il presupposto iniziale del fenomeno dell'invasività è il distacco della cellula dal tessuto neoplastico di cui fa parte, diminuendo la sua adesività omeotipica (riducendo l’espressione di CAM omofiliche) e aumentando la sua adesività eterotipica.

2. La seconda fase consiste nella secrezione di enzimi proteolitici (quali metalloproteasi) che degradano la matrice extracellulare, la membrana basale per poi arrivare alle cellule sane.

3. La locomozione della cellula neoplastica è garantita dai filamenti di actina, organizzati a formare lamellipodi, filopodi e stress fibers. Il modello attualmente accertato di motilità cellulare prevede: - protrusione dei lamellipodi nella direzione desiderata di un movimento; - ancoraggio della membrana al substrato sottostante attraverso adesioni focali; - contrazione della rete di fibre di stress di F-actina la quale genera una tensione sufficiente per la spinta in avanti delle cellule; - disassemblaggio delle adesioni focali nella parte posteriore delle cellule con retrazione e spinta nella direzione di migrazione (in linea di massima, il movimento delle cellule neoplastiche è più veloce del movimento delle corrispondenti cellule normali); - perdita dell’inibizione da contatto. Le cellule normali sono soggette per quanto riguarda la locomozione e l’attività moltiplicativa alla cosiddetta “inibizione da contatto” (smettono di crescere e replicarsi quando entrano a contatto le une con le altre), al contrario le cellule neoplastiche ne sono sprovviste. Inoltre si ritiene che la perdita dell’inibizione da contatto sia riportabile a modificazioni della superficie cellulare tra le quali assume un ruolo preminente l’espressione di molecole che fungono da recettori per una lectina vegetale, la concanavalina A. - produzione da parte delle cellule tumorali di fattori che inducono la formazione dello stroma e del sistema vascolare nel contesto del tumore.

ANGIOGENESI Col termine angiogenesi o neovascolarizzazione s’intende il processo che stimola l’attività proliferativa delle cellule endoteliali dando origine alla formazione di nuovi capillari. Il processo angiogenetico rappresenta una tappa obbligata nello sviluppo dei tumori solidi e consta di 2 fasi:

fase avascolare, tappa iniziale dello sviluppo neoplastico, in cui le cellule tumorali ricevono ossigeno e nutrienti per semplice diffusione;

fase vascolare, che coincide oltre che in un rapido sviluppo tumorale anche in una maggiore capacità invasiva in quanto le cellule tumorali, in assenza di un letto vascolare proprio, diventano in grado di produrre fattori angiogenetici (come VEGF), reprimendo i geni che codificano per tali fattori.

I fattori angiogenetici al momento noti sono FGF (fattore di crescita dei fibroblasti) 1 e 2, rispettivamente acido e basico; TGF-α e TGF-β; l’angiogenina e l’eparina; TNF-α e IL-1 α. Il passaggio da una fase all’altra prende il nome di switch angiogenetico e dalla sua attivazione dipende la capacità di crescita di un tumore. Lo switch angiogenetico rende quindi possibile la metastatizzazione. Il connettivo limitrofo all’area di sviluppo del tumore non è da considerarsi soltanto come ostacolo meccanico al processo invasivo, in quanto esso viene a costituire insieme alle cellule tumorali un sistema integrato che è sede di interazioni molto complesse. L’opinione più diffusa è che le cellule neoplastiche producano fattori che stimolano i fibroblasti (cellule fisiologicamente deputate alla sintesi dei costituenti dello stroma) ed i miofibroblasti i quali, oltre a produrre un eccesso di collagene, sono dotati di attività contrattile, fenomeno questo che può spiegare la retrazione della cute nelle aree dove ha luogo la crescita neoplastica.

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METASTATIZZAZIONE Una volta penetrate all’interno di un vaso ematico, le cellule neoplastiche circolano sotto forma di aggregati omotipici o eterotipici (emboli neoplastici) e vengono intrappolate nei principali distretti capillari dove si arrestano, permeano gli endoteli e si riversano nei tessuti extravascolari dando luogo alla formazione di focolai metastatici.

Il primo passo per lo stravaso delle cellule tumorali è l'adesione alle cellule endoteliali, mediato da molecole di adesione cellulare (CAM), che comprendono la famiglia I-CAM ed N-CAM (integrine), lectine di superficie cellulare e glicoproteine che si legano alle lectine espresse dalle cellule. Un ruolo fondamentale in questa fase del processo metastatico è svolto dalle piastrine e dalle selectine E e P degli endoteliociti: le cellule neoplastiche, per potere ancorarsi stabilmente agli endoteliociti, devono essere fornite di ligandi per le selectine E e P e devono possedere proprie selectine che riconoscano ligandi consensuali espressi dagli endoteliociti;

Dopo l'adesione alle cellule endoteliali, la cellula tumorale estende gli pseudopodi all'interno delle giunzioni intercellulari dell'endotelio o induce una retrazione delle cellule endoteliali, permettendo l'accesso alla membrana basale. La membrana basale è composta da fibronectina, laminina e collagene ed è generalmente un adesivo cellulare migliore per le cellule tumorali rispetto alla superficie delle cellule endoteliali, cosicché trauma e flogosi (che possono portare alla esposizione della membrana basale) possono facilitare l'adesione delle cellule tumorali. Il legame di queste cellule con le componenti della membrana basale è mediato da recettori di superficie cellulare, molti dei quali fanno parte delle integrine;

Nella terza fase avviene la digestione della membrana basale da parte di vari enzimi proteolitici prodotti dalle cellule tumorali, quali le metalloproteasi (MMP), la catepsina D e l'attivatore del plasminogeno che, idrolizzando le strutture stromali, aprono un varco alla penetrazione delle cellule neoplastiche nei tessuti extravascolari. Il comportamento invasivo di tali cellule non è correlato solo alla loro capacità di sintetizzare enzimi degradativi, ma soprattutto agli equilibri che si stabiliscono nel microambiente locale fra attivatori e inibitori delle attività enzimatiche capaci di modificare la matrice extracellulare.

Il numero delle cellule neoplastiche che si riversano nel torrente circolatorio è di gran lunga superiore a quello delle cellule in grado di formare focolai metastatici: infatti l’indice di mortalità tra le cellule neoplastiche è molto elevato. METASTASI La metastasi indica l’autotrapianto spontaneo di cellule neoplastiche che, distaccatesi dal tumore primitivo, raggiungono con varie modalità uno o più siti distanti da quello dove hanno preso origine e vi colonizzano formando una nuova neoformazione. Sono esclusive dei tumori maligni, in quanto i tumori benigni non metastatizzano mai perché le loro cellule, come le cellule normali, non sono in grado di sopravvivere e soprattutto replicare in un organo che non sia quello in cui si sono sviluppati. 1. Metastasi per contiguità In questo caso, non vi è trasporto a distanza delle cellule neoplastiche, in quanto la metastasi si sviluppa sulla superficie di un organo anatomicamente limitrofo a quello che è sede del tumore primitivo (da un labbro a un altro, dal fegato al pancreas). Una forma di metastatizzazione per contiguità è costituita dalla cosiddetta diffusione per innesto o "iatrogena", che ha luogo quando si verifica il trasporto accidentale delle cellule neoplastiche nel corso di un intervento chirurgico con guanti o ferri chirurgici. 2. Metastasi per via celomatica La disseminazione metastatica ha luogo nelle cavità seriose dell’organismo. Di queste, sono interessate dal processo di diffusione neoplastica la pleura, il peritoneo ed indirettamente il pericardio. Ne sono esempi i tumori polmonari, esofagei e mammari. La metastatizzazione nella pleura può diffondersi successivamente al pericardio. 3. Metastasi per via linfatica Sono le più note e riguardano qualunque organo che abbia una vascolarizzazione linfatica. Il coinvolgimento linfonodale segue la via di drenaggio linfatica. Poiché i carcinomi della mammella originano di solito nei quadranti superiori esterni, in generale disseminano prima nei linfonodi ascellari. La proliferazione delle

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cellule tumorali nei linfonodi può essere così rigogliosa da provocare un completo sovvertimento della loro struttura: a volte rimane solo la capsula della struttura originaria del linfonodo, essendo stato l’intero parenchima sostituito da micrometastasi. Il linfonodo sentinella è il primo linfonodo regionale che riceve il flusso linfatico dal tumore primitivo. Le cellule neoplastiche, dopo essere arrivate all'interno del linfonodo, possono anche essere distrutte da una risposta immunitaria tumore-specifica. Il drenaggio di detriti cellulari e/o antigeni tumorali provoca inoltre delle alterazioni di tipo reattivo all'interno dei linfonodi. Quindi, l'ingrandimento dei linfonodi può essere causato dalla diffusione e dalla crescita di cellule neoplastiche, nonché da iperplasia reattiva. Questo significa che l'ingrandimento linfonodale in vicinanza di un cancro non necessariamente indica la disseminazione della lesione primaria. 4. Metastasi per via ematica Tali metastasi sono lievemente più frequenti nei tumori maligni di origine connettivale. La pressione sanguigna fa morire numerose cellule tumorali, per cui c’è un vantaggio delle cellule sane. Le cellule tumorali hanno diverse possibilità di entrare nel circolo sanguigno: possono pervenire dalla linfa o in seguito a penetrazione diretta a livello dei capillari (piccole venule o arteriole) le cui pareti offrono meno resistenza alla loro penetrazione. All’arresto, attivo o passivo, delle cellule neoplastiche sulla parete endoteliale possono concorrere vari fattori:

- Attivo: entrano in azione i meccanismi adesivi mediati dalle integrine espresse dalle cellule endoteliali che trovano sulla superficie delle cellule neoplastiche il ligando specifico in cui è presente la sequenza RGD (catene amminoacidiche di varia lunghezza, caratterizzate dalla sequenza arginina - glicina - acido aspartico);

- Passivo: l’arresto dell’embolo avviene perché esso si intrappola in un capillare di diametro inferiore. Clinicamente sono stati stabiliti dei pattern metastatici per cui anatomicamente e statisticamente è possibile prevedere dove andranno a localizzarsi le metastasi. Esistono organi preferenziali, quali fegato (le metastasi epatiche sono addirittura più frequenti del tumore primitivo al fegato) e polmone. Le metastasi ossee sono invece molto frequenti nel tumore primitivo maligno della mammella e della prostata: compaiono dopo 10-20 anni dal tumore primitivo. Sono molto dolorose ed è la scintigrafia ad identificarle. Al momento della biopsia si riscontrano cellule riconducibili al tumore primario. 5. Metastasi paradosse Sono dette paradosse per il fatto che sono localizzate in sedi imprevedibili (a causa della presenza di interconnessioni tra vasi del sistema linfatico e vasi del sistema vascolare). 6. Metastasi canalicolare Questo tipo di invasione è caratteristico dei tumori ghiandolari: interessa il dotto escretore di una ghiandola esocrina in cui ha sede il tumore primario. Attraverso il dotto, le cellule tumorali possono raggiungere l'organo in cui il dotto sbocca. Ne sono esempi gli adenocarcinomi papilliferi della pelvi renale che, attraverso l'uretere, possono dare metastasi nella vescica. Tali metastasi sono più rare visto che non è un meccanismo che riguarda tutti gli organi. Concludendo, nell'uomo gli organi più soggetti a metastatizzazione sono il fegato, il polmone, lo scheletro e l’encefalo; non lo sono mai (o quasi) i muscoli striati cioè la milza, il rene, la tiroide, l’aorta, le valvole cardiache e le cartilagini. I fattori che concorrono all’attecchimento della metastasi sono:

- L’idoneità del terreno alla crescita neoplastica; - Formazione di uno stroma neoplastico; - Elementi angiogenetici che inducono alla formazione di un nuovo sistema vascolare.

Nell’uomo gli organi più soggetti a metastatizzazione sono il fegato (per la vascolarizzazione), il polmone (per l’ossigenazione), lo scheletro e l’encefalo; non lo sono mai (o quasi) i muscoli striati cioè la milza, il rene, la tiroide, l’aorta, le valvole cardiache e le cartilagini.

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ONCOGENI I geni che promuovono una crescita autonoma della cellula tumorale sono detti oncogeni, e le loro controparti fisiologiche sono dette proto-oncogeni. Gli oncogeni derivano da mutazioni nei proto-oncogeni e sono caratterizzati dalla capacità di promuovere la crescita cellulare in assenza dei normali segnali di promozione della crescita. I proto-oncogeni codificano per le proteine essenziali nei processi fisiologici. La conversione da proto-oncogeni a oncogeni avviene attraverso 2 meccanismi: alterazioni strutturali del prodotto proteico e alterazioni della regolazione della loro espressione. Le alterazioni strutturali possono essere causate da mutazioni puntiformi a carico del proto-oncogene che alterano la funzionalità del prodotto proteico finale; le alterazioni della regolazione possono essere causate da amplificazione genica a causa di errori durante il processo di replicazione del DNA, oppure alterazioni del controllo trascrizionale del proto-oncogene. I prodotti degli oncogeni, chiamati oncoproteine, somigliano ai prodotti normali dei proto-oncogeni, però sono spesso privi di importanti elementi regolatori interni e la loro produzione nelle cellule trasformate non dipende da fattori di crescita o da altri segnali esterni. In questo modo la crescita cellulare diventa autonoma. In condizioni fisiologiche, la proliferazione cellulare può essere schematizzata nei seguenti passaggi:

Legame di un fattore di crescita al suo specifico recettore. Attivazione transitoria e limitata del recettore del fattore di crescita che attiva le proteine incaricate

di trasdurre il segnale sulla superficie interna della membrana citoplasmatica. Trasmissione al nucleo del segnale trasdotto attraverso il citosol per mezzo di secondi messaggeri o

attraverso una cascata di molecole di trasduzione del segnale. Induzione e attivazione di fattori nucleari che iniziano la trascrizione del DNA. Ingresso e progressione della cellula nel ciclo cellulare e divisione cellulare.

Le proteine codificate dai proto-oncogeni possono funzionare come fattori di crescita o loro recettori, trasduttori di segnale, fattori di trascrizione o componenti del ciclo cellulare e le oncoproteine codificate dagli oncogeni di solito hanno le stesse funzioni delle loro controparti normali. Le mutazioni trasformano i proto-oncogeni in oncogeni cellulari attivi coinvolti nello sviluppo del tumore, in quanto le oncoproteine da essi codificate garantiscono alla cellula l’autosufficienza per la crescita. Le proteine codificate dagli oncogeni sono classificate in: fattori di crescita, recettori dei fattori di crescita, proteine trasduttrici del segnale, fattori di trascrizione, cicline e chinasi ciclino-dipendenti (CDK) e regolatori dell’apoptosi. 1) Fattori di crescita Per proliferare, le cellule normali hanno bisogno della stimolazione da parte dei fattori di crescita, e la maggior parte dei fattori crescita solubili è prodotta da un solo tipo cellulare che agisce su una cellula adiacente, per stimolarne la proliferazione (azione paracrina). Molte cellule tumorali invece acquisiscono la capacità di sintetizzare lo stesso fattore di crescita al quale sono responsive, generando un’autopromozione autocrina. Molti glioblastomi, ad esempio, secernono il fattore di crescita PDGF ed esprimono il recettore per il PDGF. Un esempio di questa categoria è rappresentato dall’oncogene C-SIS che codifica PDGF-β iperespresso in molti tumori umani come l’osteosarcoma. 2) Recettori dei fattori di crescita Sono stati individuati parecchi oncogeni che codificano per i recettori dei fattori di crescita. Per comprendere come le mutazioni si ripercuotano sulla funzione di questi recettori occorre ricordare che un gruppo di recettori dei fattori di crescita è rappresentato dalle proteine transmembrana dotate di un dominio esterno che lega il ligando e di un dominio citoplasmatico caratterizzato da attività tirosin-chinasica. Nelle forme normali di questi recettori la chinasi è transitoriamente attivata dal legame di uno specifico fattore di crescita, dopodiché si ha la rapida dimerizzazione del recettore e la fosforilazione in tirosina di molti substrati facenti parte delle cascate di trasduzione del segnale. Le versioni oncogene di questi recettori sono caratterizzate da dimerizzazione e attivazione costitutiva senza il legame con il fattore di crescita. Ne consegue che i recettori mutanti inviano continuamente segnali mitogeni alla cellula, anche in assenza del fattore di crescita nell’ambiente.

Oncogene RET Il proto-oncogene RET, un recettore ad attività tirosin-chinasica, offre un esempio di trasformazione per mezzo di mutazioni e riarrangiamenti genici. Il RET è normalmente espresso nelle cellule neuroendocrine,

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quali ad esempio le cellule C parafollicolari della tiroide, le cellule della midollare del surrene e nei precursori delle cellule della paratiroide. Mutazioni puntiformi nel proto-oncogene RET sono associate alle MEN (neoplasia multiendocrina) di tipo 2A e 2B ereditate in maniera dominante e ai carcinomi midollari familiari della tiroide. Di gran lunga più frequente rispetto alla mutazione dei protooncogeni è l’iperespressione della forma normale dei recettori dei fattori di crescita.

Oncogeni ERBB1 ed ERBB2 I casi meglio descritti riguardano due membri della famiglia del recettore per il fattore di crescita EGF. La forma normale di ERBB1, il gene del recettore dell’EGF, è iperespresso nel carcinoma squamocellulare del polmone, nei glioblastomi, nei tumori della testa e del collo. Analogamente, il gene ERBB2, il secondo membro della famiglia dei recettori dell’EGF, è amplificato nei tumori della mammella e negli adenocarcinomi umani dell’ovaio, del polmone, dello stomaco e delle ghiandole salivari. 3) Proteine trasduttrici del segnale Sono stati identificati molti esempi di oncoproteine capaci di mimare la funzione delle normali proteine citoplasmatiche trasduttrici dei segnali. La maggior parte di queste proteine è localizzata sul lato interno della membrana citoplasmatica, dove riceve segnali dall’esterno della cellula (ad esempio attraverso l’attivazione dei recettori dei fattori crescita) e li trasmette al nucleo. L’esempio migliore e più studiato di oncoproteine trasduttrici dei segnali è rappresentato dalla famiglia RAS di proteine leganti GTP, anche note come proteine G.

Oncogene RAS Le mutazioni puntiformi dei geni della famiglia RAS rappresentano una delle anomalie più comuni dei protooncogeni nei tumori umani. Il 15-20% circa di tutti i tumori umani contiene versioni mutate di proteine RAS. La proteina RAS gioca un ruolo importante nelle cascate di trasmissione del segnale a valle dei recettori per i fattori di crescita che inducono mitosi. Normalmente, le proteine RAS oscillano rapidamente tra uno stato attivato in cui trasmettono il segnale e uno stato quiescente. Nello stato inattivo, le proteine RAS legano il GDP. La stimolazione delle cellule da parte dei fattori di crescita porta alla fosforilazione di GDP a GTP e ai conseguenti cambiamenti conformazionali che generano la forma attiva di RAS. L’attivazione di RAS, a sua volta, stimola i regolatori della proliferazione a valle, come la cascata delle protein-chinasi attivate da mitogeni (MAP), che si riversano nel nucleo recando segnali per la proliferazione cellulare. I cicli di attivazione e inattivazione di RAS dipendono dallo scambio di nucleotidi (GDP per GTP) che attiva la proteina RAS e dall’idrolisi del GTP che converte la forma attiva di RAS legata al GTP nella forma inattiva legata al GDP. La rimozione del GDP e la sua sostituzione con GTP durante l’attivazione di RAS sono catalizzate da una famiglia di proteine con attività di rilascio della guanina. L’attività GTPasica intrinseca alle normali proteine RAS, per contro, è notevolmente accelerata dalle proteine attivanti la GTPasi (GAP). Queste proteine, ampiamente distribuite, si legano alla forma attiva di RAS e accrescono la sua attività GTPasica, portando all’interruzione della trasduzione del segnale. Le GAP, dunque, funzionano come “freni” per prevenire un’attività incontrollata delle proteine RAS.

Via fisiologica di RAS: Fisiologicamente le proteine RAS sono attaccate al versante citoplasmatico della membrana plasmatica; normalmente oscilla rapidamente tra uno stato inattivo (RAS-GDP) e uno attivo (RAS-GTP) responsabile della trasmissione del segnale. La stimolazione delle cellule da parte dei fattori di crescita porta alla fosforilazione del GDP a GTP, cambiamenti conformazionali che portano alla forma attiva di RAS (RAS-GTP). Una volta avvenuto il legame tra fattore di crescita e rispettivo recettore, il recettore si attiva, dimerizza e si autofosforila in tirosina, attivando la sua porzione intracitoplasmatica e reclutando proteine contenenti domini SH2. L’interazione della proteina RAS con il dominio del recettore tirosin-chinasico attivato non avviene direttamente ma è mediata da GRB2, proteina adattatrice che presenta domini SH2 e SH3. In condizioni di quiescienza i domini SH2 e SH3 di GRB2 formano un complesso inattivo con SOS, fattore che determina lo scambio di gruppi guanilici. In seguito ad uno stimolo proliferativo GRB2 tramite il dominio SH3 stabilisce un contatto con i gruppi fosfato della porzione intracitoplasmatica del recettore del fattore di crescita e quindi il complesso GRB2-SOS è traslocato sul lato interno della membrana plasmatica consentendo a SOS di interagire con RAS-GDP (forma inattiva): SOS determina lo scambio GDP→GTP, attivando RAS; tale attivazione è regolata dalla proteina GAP (proteina

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attivante la GTPasi). In una cellula normale l’attivazione di RAS è rapida e transitoria per 2 motivi: perché le proteine RAS hanno attività GTPasica intrinseca e perché quando il recettore viene attivato, vengono attivate proteine che hanno domini SH2, come le proteine della famiglia GAP, che attivano la GTPasi e favoriscono l’idrolisi del GTP in GDP. RAS attivato recluta vicino alla membrana la serin-treonin-chinasi citoplasmatica RAF1, che una volta attivata va a fosforilare una MAP-chinasi-chinasi, che a sua volta va a fosforilare una MAP-chinasi (ERK1 ed ERK2), che, quando attiva, trasloca dal citoplasma al nucleo dove promuove la trascrizione dei geni che sono coinvolti nella regolazione positiva del ciclo cellulare (ciclina D ed E) e inibisce gli inibitori del ciclo cellulare (p21 e p27).

Nelle cellule tumorali sono state identificate varie mutazioni puntiformi di RAS. I residui interessati sono localizzati sia nella sede di legame al GTP, sia nella regione enzimatica essenziale per l’idrolisi del GTP e riducono notevolmente l’attività GTPasica della proteina RAS. Le proteine RAS mutate rimangono intrappolate nella loro forma attivata legata al GTP e la cellula è costretta a una continua proliferazione. Ne consegue che gli effetti delle mutazioni nella proteina RAS sarebbero seguiti da mutazioni nelle GAP che non riescono ad attivare l’attività GTPasica e quindi a frenare le normali proteine RAS. In effetti, una mutazione inattivante della neurofibromina 1, una GAP, è associata alla neurofibromatosi di tipo 1. Il gene mutato NF1 nella neurofibromatosi codifica per una proteina GAP che risulterà mutata. La sua mutazione fa in modo che l’attività idrolitica di RAS venga notevolmente ridotta e quindi RAS si troverà sempre nella forma attiva. Le mutazioni del gene RAS rappresentano un evento iniziale nel processo di cancerogenesi.

Oncogene ABL Mutazioni responsabili di innescare un’attività oncogena si verificano in diverse tirosin-chinasi non associate a recettori. Un importante esempio di questo meccanismo oncogeno riguarda la tirosin-chinasi c-ABL. Nella leucemia mieloide cronica e in alcune leucemie linfoblastiche acute, il gene ABL viene traslocato dalla sua normale sede sul cromosoma 9 al cromosoma 22 (traslocazione 9-22 che porta alla formazione del cromosoma Philadelphia), dove si fonde con il gene BCR. Il gene che ne risulta codifica per una tirosin-chinasi BCR-ABL attiva e oncogena. Si è capito che la leucemia mieloide cronica si può curare mediante un inibitore della porzione AB dell'oncoproteina ABL/BCR (l'Imatinib). 4) Fattori di trascrizione Tutte le vie di trasduzione del segnale convergono sul nucleo, dove vengono attivati numerosi geni responsabili di regolare l’avanzamento ordinato della cellula attraverso il ciclo mitotico. I fattori di trascrizione contengono specifiche sequenze amminoacidiche che permettono loro di legarsi al DNA o di formare dimeri per legarsi al DNA. Il legame di queste proteine a specifiche sequenze nel DNA genomico attiva la trascrizione dei geni. Una crescita autonoma può dunque essere il risultato di mutazioni a carico dei geni che regolano la trascrizione. Molte oncoproteine, tra cui i prodotti degli oncogeni MYC, MYB, JUN, FOS e REL, fungono da fattori di trascrizione deputati a regolare l’espressione di geni promotori della crescita.

Oncogene MYC Il proto-oncogene MYC è espresso praticamente in tutte le cellule eucariotiche e appartiene alla categoria dei geni della risposta immediata, che vengono rapidamente indotti quando le cellule quiescenti ricevono un segnale di divisione. Dopo un aumento transitorio, l’espressione dell’mRNA di MYC diminuisce fino a ritornare al livello di base. L’iperespressione di MYC può determinare l’attivazione di un numero di punti di avvio superiore a quello necessario per la normale divisione cellulare o scavalcare i punti di controllo della replicazione, portando a un danno genomico e all’accumulo di mutazioni. Nei tumori vi è un’espressione persistente di MYC e talvolta un’iperespressione della proteina corrispondente. Nel linfoma di Burkitt, un’alterata espressione di MYC è causata dalla traslocazione del gene. MYC è amplificato anche in alcuni casi di carcinoma della mammella e del colon. 5) Cicline e chinasi ciclino-dipendenti (CDK) Il risultato finale di tutti gli stimoli di promozione della crescita è l’ingresso delle cellule quiescenti nel ciclo cellulare. I tumori maligni possono crescere in maniera autonoma se la regolazione dei geni che sovrintendono al ciclo cellulare viene alterata in conseguenza di mutazioni o amplificazioni. La progressione ordinata delle cellule attraverso le varie fasi del ciclo cellulare è orchestrata dalle chinasi ciclino-dipendenti (CDK), le quali sono attivate dal legame alle cicline. I complessi CDK-cicline fosforilano proteine bersaglio che guidano la cellula attraverso il ciclo cellulare. Terminato questo compito, i livelli di cicline decrescono

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rapidamente. Sono state identificate più di 15 cicline: le cicline D, E, A e B compaiono in successione durante il ciclo cellulare e legano una o più CDK. È facile comprendere come le mutazioni che alterano la regolazione dell’attività di cicline e CDK favoriscano la proliferazione cellulare. I geni della ciclina D sono iperespressi in molti tumori maligni; l’amplificazione del gene CDK4 è sovente riscontrata nei melanomi, nei sarcomi e nei glioblastomi. Mentre le cicline stimolano le CDK, i loro inibitori (CDKI), di cui esistono molti tipi, inibiscono le CDK ed esercitano un controllo negativo sul ciclo cellulare. La famiglia di CDKI CIP/WAF, composta da tre proteine chiamate p21, p27 e p57, inibisce ampiamente le CDK; la famiglia INK4 delle CDK1 composta da p15, p16, p18 e p19 esercita effetti selettivi sulla ciclina D/CDK4 e sulla ciclina D/CDK6. Le CDKI sono spesso mutate o inibite in molte neoplasie umane. Mutazioni germinali di p16 sono associate al 25% dei melanomi.23 Delezioni o inattivazioni di p16 acquisite somaticamente si trovano nei carcinomi pancreatici, nei glioblastomi, nei tumori maligni dell’esofago, nelle leucemie linfoblastiche acute e nei carcinomi del polmone.

Checkpoint del ciclo cellulare: Esistono due principali checkpoint, uno al passaggio G1-S e l’altro al passaggio G2-M. La fase S è il punto di non ritorno nel ciclo cellulare. Prima che una cellula prenda la decisione finale di replicarsi, il checkpoint G1-S verifica la presenza di eventuali danni del DNA e, nel caso in cui tali danni siano rilevati, determina l’avvio dei meccanismi di riparazione del DNA e dei meccanismi deputati ad arrestare il ciclo cellulare. Il checkpoint G1-S impedisce quindi la replicazione di cellule che presentino anomalie nel DNA, come mutazioni o rotture cromosomiche che sarebbero perpetuate nella progenie della cellula. Il DNA danneggiato può anche essere riparato dopo la replicazione almeno finché i cromatidi non siano separati. Il checkpoint G2-M, invece, controlla il completamento della replicazione del DNA e verifica che la cellula possa iniziare la mitosi.

6) Regolatori dell’apoptosi L’accumulo di cellule neoplastiche può essere il risultato non solo dell’attivazione di oncogeni promotori della crescita cellulare o dell’inattivazione di geni oncosoppressori che inibiscono la crescita, ma anche di mutazioni nei geni che regolano l’apoptosi.

Oncogene BCL2 Nel processo di apoptosi intervengono le proteine della famiglia BCL2, di cui alcune sono proapoptotiche e altre antiapoptotiche. Le proteine proapoptotiche BAX e BAK sono necessarie per l’apoptosi; la loro azione è inibita dai fattori antiapoptotici della stessa famiglia come BCL2 e BCL-XL. Un terzo gruppo di proteine (le cosiddette proteine BH3-only), comprendenti BAD, BID e PUMA, regola l’equilibrio tra i fattori pro- e antiapoptotici della famiglia BCL2. È stato osservato che circa l'85% dei linfomi a cellule B di tipo follicolare presentano una caratteristica traslocazione 14-18, in virtù della quale il gene BCL2 è traslocato dal cromosoma 18 al 14 e questo porta alla sua iperespressione. Ciò, a sua volta, rafforza l’azione antiapoptotica di BCL2/BCL-XL, proteggendo i linfociti dall’apoptosi e permettendo loro di sopravvivere per lungo tempo; si ha così un costante accumulo di linfociti B, con conseguente sviluppo di linfoadenopatie e infiltrazione midollare. I linfomi che iperesprimono BCL2 si sviluppano preferibilmente per la diminuzione della morte cellulare piuttosto che per l’aumento di proliferazione, per cui tendono a crescere lentamente rispetto a molti altri linfomi.

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ONCOSOPPRESSORI Mentre gli oncogeni inducono la proliferazione cellulare, i prodotti dei geni oncosoppressori frenano la proliferazione cellulare. Le proteine elaborate dai geni oncosoppressori formano una rete di controlli atti a prevenire la crescita incontrollata. In condizioni fisiologiche, gli oncosoppressori codificano per antioncoproteine che esercitano una serie di funzioni, tra le quali quella di produrre segnali negativi ai fini della progressione del ciclo cellulare, di cui determinano l’arresto. In condizioni fisiologiche, quindi, la regolazione del ciclo di replicazione cellulare dipende dall’equilibrio tra prodotti dei proto-oncogeni e prodotti degli oncosoppressori. Nelle cellule tumorali gli oncosoppressori vengono perduti (delezione genica), ossia subiscono mutazioni: ne deriva che in caso di delezione non vengono sintetizzate le proteine (antioncoproteine) che esercitano un freno alla moltiplicazione cellulare e, in caso di mutazione, i prodotti risultano alterati. Molti oncosoppressori, come RB e p53, fanno parte di un sistema di regolazione capace di riconoscere lo stress genotossico indotto da qualunque fonte e rispondono arrestando la proliferazione. La perdita della funzione degli oncosoppressori contribuisce alla crescita cellulare incontrollata. Le proteine prodotte dai geni oncosoppressori possono fungere da fattori di trascrizione, inibitori del ciclo cellulare, molecole di trasduzione del segnale, recettori di superficie e regolatori delle risposte cellulari ai danni del DNA.

Oncosoppressore RB RB è il primo gene oncosoppressore a essere stato scoperto e quindi il prototipo dei geni oncosoppressori. Fu individuato studiando una patologia rara, nel caso specifico il retinoblastoma. Circa il 60% dei retinoblastomi è sporadico e il restante 40% è ereditario (o familiare) e la predisposizione a sviluppare il tumore è trasmessa come carattere autosomico dominante. I pazienti con retinoblastoma familiare, inoltre, hanno anche un rischio notevolmente maggiore di sviluppare osteosarcomi e altri sarcomi dei tessuti molli. Per spiegare la doppia causa, ereditaria e sporadica, di una neoplasia apparentemente identica, Knudson propose la teoria dell’oncogenesi “a due colpi”: per provocare il retinoblastoma sono necessarie due mutazioni (colpi), a carico di entrambi gli alleli di RB. Nei casi familiari, i bambini ereditano una copia difettosa del gene RB nella linea germinale (primo colpo), mentre l’altra copia è normale. Il retinoblastoma si sviluppa quando l’allele normale di RB risulta mutato nei retinoblasti per effetto di una mutazione somatica spontanea (secondo colpo). Nei casi sporadici, entrambi gli alleli normali di RB devono subire una mutazione somatica nello stesso retinoblasto (due colpi). La proteina RB, il prodotto del gene RB, è una fosfoproteina nucleare espressa in maniera ubiquitaria e dotata di un ruolo fondamentale nella regolazione del ciclo cellulare. RB esiste in uno stato attivo ipofosforilato nelle cellule quiescenti e in uno stato inattivo iperfosforilato nelle cellule in transizione dalla fase G1 alla fase S del ciclo cellulare. L’avvio della replicazione del DNA richiede l’intervento dei complessi ciclina E-CDK2 e l’espressione della ciclina E è dipendente dai fattori di trascrizione della famiglia E2F. All’inizio di G1, RB si trova nella sua forma ipofosforilata attiva e lega, inibendoli, i fattori di trascrizione della famiglia E2F, prevenendo così la trascrizione della ciclina E. La proteina RB ipofosforilata blocca la trascrizione mediata da E2F in almeno due modi: anzitutto sequestra E2F, impedendone l’interazione con altri attivatori trascrizionali; in secondo luogo, recluta proteine rimodellanti la cromatina, come le istoni deacetilasi e le istoni metiltransferasi, che si legano ai promotori dei geni responsivi a E2F, come la ciclina E. I segnali mitogeni portano all’espressione della ciclina D e all’attivazione dei complessi ciclina D-CDK4/6, i quali fosforilano RB, inattivando la proteina e permettendo a E2F di indurre i geni bersaglio, come quelli della ciclina E. L’espressione della ciclina E quindi stimola la replicazione del DNA e la progressione attraverso il ciclo cellulare. Quando le cellule entrano nella fase S, sono costrette a dividersi senza ulteriore stimolazione da parte di fattori di crescita. Durante la successiva fase M, i gruppi fosfato vengono rimossi da RB a opera delle fosfatasi cellulari, con generazione della forma ipofosforilata di RB. I fattori E2F non sono i soli effettori dell’arresto mediato da RB in G1, ma anche RB controlla la stabilità dell’inibitore del ciclo cellulare p27. Se RB è assente (per effetto di mutazioni genetiche) o se la sua capacità di regolare i fattori di trascrizione E2F è inattivata, i freni molecolari del ciclo cellulare cessano di funzionare e le cellule progrediscono attraverso il ciclo cellulare. Le mutazioni dei geni RB individuati nei tumori sono localizzate in una regione della proteina RB chiamata “RB pocket” coinvolta nel legame con E2F.

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La perdita o la mutazione del gene RB nella linea germinale predispone all’insorgenza di retinoblastomi e, in minor misura, di osteosarcomi. Inoltre, mutazioni acquisite somaticamente sono state descritte nei glioblastomi, nel carcinoma a piccole cellule del polmone, nonché nei carcinomi della mammella e della vescica. Le proteine trasformanti di diversi virus oncogeni a DNA, animali e umani, sembrano agire almeno in parte neutralizzando l’azione inibitrice della crescita esercitata da RB. In questi casi, la proteina RB è funzionalmente messa fuori gioco tramite il legame con una proteina virale che le impedisce di agire come inibitore del ciclo cellulare: ad esempio, la proteina E7 del papillomavirus si lega alla forma ipofosforilata di RB. Il legame si verifica nella stessa RB pocket che normalmente sequestra i fattori di trascrizione E2F. La proteina RB, non potendo legare il fattore di trascrizione E2F, è funzionalmente inattiva e i fattori di trascrizione sono liberi di indurre la progressione del ciclo cellulare.

Oncosoppressore p53 Il gene p53 è il bersaglio più comune delle alterazioni genetiche presenti nei tumori umani (più del 50% dei tumori umani contiene mutazioni in questo gene). Nella maggior parte dei casi, le mutazioni interessano entrambi gli alleli di p53 e sono acquisite dalle cellule somatiche (non ereditate per via germinale), mentre più raramente alcuni individui ereditano un allele mutato di p53. Come per il gene RB, ereditare un allele mutato predispone gli individui a sviluppare tumori maligni, e quindi è sufficiente un solo altro “colpo” per inattivare il secondo allele normale. Questa condizione, definita sindrome di Li-Fraumeni, conferisce una probabilità 25 volte maggiore di sviluppare un tumore maligno entro i 50 anni di età rispetto alla popolazione generale. Lo spettro di tumori che si sviluppano nelle persone con la sindrome di Li-Fraumeni è piuttosto vario: i tipi più comuni sono i sarcomi, il carcinoma della mammella, le leucemie, i tumori cerebrali e i carcinomi della corteccia surrenale. La proteina p53 è un fattore trascrizionale che si trova al centro di una vasta rete di segnali deputati a rilevare lo stress cellulare, come il danno del DNA, l’accorciamento dei telomeri e l’ipossia e molte delle sue attività sono correlate alla sua funzione di fattore di trascrizione. Oltre che dalle mutazioni somatiche ed ereditarie, p53 può essere inattivata da altri meccanismi. Come per RB, le proteine trasformanti di diversi virus a DNA, inclusa la proteina E6 del papillomavirus, possono legarsi a p53 e promuoverne la degradazione. Inoltre si pensa che nella maggioranza dei tumori privi di una mutazione di p53, la funzione della via molecolare di p53 sia bloccata da una mutazione in un altro gene regolante la funzione di p53. MDM2 e MDMX, ad esempio, stimolano la degradazione di p53 e queste proteine sono frequentemente iperespresse nei tumori maligni in cui il gene che codifica per p53 non è mutato. La proteina p53 contrasta la trasformazione neoplastica mediante tre meccanismi collegati: l’arresto temporaneo del ciclo cellulare (quiescenza), l’arresto permanente del ciclo cellulare (senescenza) e la morte cellulare programmata (apoptosi). Nelle cellule sane, non sottoposte a stress, p53 ha un’emivita breve (20 minuti), a causa della sua associazione a MDM2, una proteina programmata per degradarla. Quando la cellula è stressata, ad esempio da un’aggressione al suo DNA, p53 va incontro a modificazioni post-trascrizionali che la liberano da MDM2 e ne accrescono l’emivita. Svincolata da MDM2, anche p53 viene attivata come fattore di trascrizione. Sono state identificate centinaia di geni la cui trascrizione è innescata da p53, i quali possono essere raggruppati in due ampie categorie: quelli che causano l’arresto del ciclo cellulare e quelli che causano l’apoptosi. Se il danno del DNA può essere riparato durante l’arresto del ciclo cellulare, la cellula ritorna a uno stato normale; se la riparazione fallisce, invece, p53 induce l’apoptosi o la senescenza. Un iniziatore chiave della via di segnalazione del danno del DNA è una proteina correlata alle chinasi: la protein-chinasi atassia-teleangectasia mutata (ATM). Come suggerisce il nome, il gene ATM fu in origine identificato come la mutazione germinale negli individui affetti da atassia-teleangectasia. I soggetti affetti da tale patologia, caratterizzata dall’incapacità di riparare determinati tipi di danno del DNA, presentano un’aumentata incidenza di cancro. Una volta attivata, ATM fosforila vari bersagli, compresi p53 e proteine implicate nella riparazione del DNA. L’arresto del ciclo cellulare mediato da p53 può essere considerato come la prima risposta al danno del DNA. Si verifica nella fase G1 avanzata ed è causato dalla trascrizione dipendente da p53 dell’inibitore di CDK, ossia p21, che inibisce i complessi ciclina-CDK e la fosforilazione di RB, impedendo così l’ingresso delle cellule nella fase G1. Questa pausa nel ciclo cellulare è utile, in quanto dà modo alle cellule di riparare il danno al DNA.

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Anche p53 favorisce il processo attivando alcune proteine come GADD45 che partecipa alla riparazione del DNA. La proteina p53 può stimolare le vie di riparazione del DNA anche mediante meccanismi indipendenti dalla trascrizione. Se il danno del DNA è riparato con successo, p53 stimola la trascrizione di MDM2, portando alla sua stessa distruzione e rimuovendo così il blocco del ciclo cellulare. Se il danno non può essere riparato, la cellula può entrare nella senescenza indotta da p53 o andare incontro all’apoptosi sempre diretta da p53. La senescenza indotta da p53 è un arresto permanente del ciclo cellulare caratterizzato da specifici cambiamenti nella morfologia e nell’espressione genica, che lo differenziano dalla quiescenza o dall’arresto reversibile del ciclo cellulare. La senescenza richiede l’attivazione di p53 e/o di RB e l’espressione dei loro mediatori, come gli inibitori di CDK. L’apoptosi di cellule con danno irreversibile del DNA indotta da p53 è l’ultimo meccanismo protettivo contro la trasformazione neoplastica. La proteina p53 dirige la trascrizione di diversi geni proapoptotici come BAX e PUMA. Non è ancora chiaro in che modo, esattamente, una cellula decida se riparare il proprio DNA o entrare in apoptosi. Sembra che l’affinità di p53 per i promotori e i potenziatori dei geni per la riparazione del DNA sia maggiore della sua affinità per i geni proapoptotici. La via della riparazione del DNA, dunque, è attivata per prima, mentre p53 continua ad accumularsi. Alla fine, in caso di mancata riparazione del danno del DNA, si verifica un accumulo di p53 sufficiente a stimolare la trascrizione dei geni proapoptotici.

Oncosoppressore APC I geni della poliposi adenomatosa del colon (APC) rappresentano una classe di oncosoppressori la cui principale funzione è di sottoregolare i segnali di stimolazione della crescita. Le mutazioni germinali nei loci di APC sono associate alla poliposi adenomatosa familiare, patologia per cui tutti gli individui nati con un allele mutante sviluppano migliaia di polipi nel colon durante l’adolescenza o comunque entro i trent’anni. Quasi certamente, almeno uno di questi polipi andrà incontro a una trasformazione maligna dando origine a un tumore del colon. Come per altri geni oncosoppressori, entrambe le copie del gene APC devono andare perse affinché si sviluppi il tumore. APC è un fattore della via di segnalazione WNT, che ha un ruolo importantissimo nel controllo del destino cellulare, dell’adesione e della polarità della cellula durante lo sviluppo embrionale. Un’importante funzione della proteina APC è la sottoregolazione della β-catenina. In assenza dei segnali provenienti da WNT, APC causa la degradazione della β-catenina, prevenendone l’accumulo nel citoplasma. Se il gene APC è inattivato, la b-catenina sopravvive e trasloca nel nucleo dove può attivare la trascrizione insieme a TCF, un fattore di trascrizione che stimola la proliferazione cellulare aumentando la trascrizione di c-MYC, ciclina D1 e altri geni. L’importanza della via di segnalazione APC/β-catenina nell’oncogenesi è dimostrata dal fatto che i tumori del colon dotati di geni APC normali presentano mutazioni nella b-catenina che ne prevengono la distruzione da parte di APC, permettendo alla proteina mutata di accumularsi nel nucleo.

TGFβ Nella maggior parte delle cellule epiteliali, endoteliali ed emopoietiche normali, TGFβ è un potente inibitore della proliferazione. Esso regola i processi cellulari legando un complesso serina-treonina-chinasi costituito dai recettori I e II del TGFβ. La dimerizzazione del recettore a seguito del legame col ligando porta all’attivazione della chinasi e alla fosforilazione del recettore SMAD; in seguito alla fosforilazione, il recettore di SMAD può entrare nel nucleo, legarsi a SMAD4 e attivare la trascrizione di geni, tra cui quelli degli inibitori delle CDK p21 e p15/INK4b. I segnali provenienti da TGFβ portano inoltre alla repressione di c-MYC, CDK2, CDK4 e delle cicline A e E. Come si può dedurre tali cambiamenti conducono a una ridotta fosforilazione di RB e all’arresto del ciclo cellulare. In molti tumori, gli effetti di inibizione della crescita esercitati dalle vie del TGFβ sono alterati da mutazioni nella via di trasduzione del segnale di TGFβ. Queste mutazioni possono colpire il recettore di tipo II di TGFβ o interferire con le molecole SMAD necessarie per trasdurre i segnali antiproliferativi dal recettore al nucleo. Mutazioni a carico del recettore di tipo II sono osservate nei tumori del colon, dello stomaco e dell’endometrio, mentre l’inattivazione mutazionale di SMAD4 è frequente nei tumori del pancreas.

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NF1 La neurofibromina, il prodotto proteico del gene NF1, contiene un dominio attivante una GTPasi che regola la trasduzione del segnale per mezzo delle proteine RAS. RAS è importante nella trasduzione del segnale, trasmette segnali di stimolazione della crescita, oscilla tra uno stato inattivo (legame con GDP) e uno attivo (legame con GTP). La neurofibromina promuove la conversione di RAS da uno stato attivo a uno inattivo. Una perdita funzionale di tale prodotto determina pertanto l’intrappolamento di RAS in uno stato attivo, con continua emissione di segnali.

NF2 La neurofibromina 2, anche chiamata merlina, è una proteina del citoscheletro codificata dal gene oncosoppressore NF2 (coinvolto nella patogenesi della neurofribromatosi di tipo 2). La mancanza di neurofibromina 2 conduce alla cancerogenesi: le cellule prive di tale proteina non sono in grado di creare giunzioni intercellulari stabili e si rivelano insensibili ai normali segnali di arresto della crescita generati dal contatto intercellulare.

WT1 Il gene WT1 è un gene oncosoppressore che codifica per una proteina implicata nelle prime fasi dello sviluppo embriologico del rene: se mutato, porta alla produzione di una proteina non funzionante, determinando un mancato controllo della differenziazione cellulare (tumore di Wilms o nefroblastoma).

BRCA1 e BRCA2 BRCA1 e BRCA2 sono coinvolti in molti processi cellulari: in particolare entrambi contribuiscono ai processi di riparazione del DNA ed alla regolazione trascrizionale in risposta ai danni al DNA. BRCA1 è una proteina coinvolta nella riparazione del DNA (mediante la trascrizione di alcuni geni), nella regolazione del ciclo cellulare e nell’apoptosi. BRCA1 mutato non permetterà lo svolgersi di queste funzioni: in particolare, l'overespressione di BRCA1 è in grado di stimolare inibitori del ciclo cellulare come p21 e fattori di risposta allo stress come GADD45. Mutazioni nel gene BRCA1 predispongono le donne al cancro alla mammella (più raro nell'uomo) e all'ovaio. BRCA2 ha un ruolo più diretto nella riparazione del DNA: forma un complesso con la proteina RAD51. Tale complesso è fondamentale per il mantenimento di una corretta divisione cellulare e dell’integrità dei cromosomi. Gli individui con mutazioni del BRCA2 hanno un rischio maggiore di sviluppare un tumore. POLI ADP-RIBOSIO POLIMERASI (PARP) PARP (Poli ADP-ribosio polimerasi) è stata trovata nel nucleo cellulare: il suo ruolo principale è quello di individuare e segnalare le rotture a singolo filamento del DNA (SSB) all’apparato enzimatico coinvolto nella riparazione degli SSB. L’attivazione di PARP consiste in un’immediata risposta cellulare a danni metabolici, chimici e indotti da radiazioni ai singoli filamenti di DNA. Quando PARP individua un SSB si lega al DNA e, dopo cambi strutturali, inizia la sintesi di catene di poli ADP-ribosio (PAR) che fungono da segnale per altri enzimi di riparazione del DNA come la DNA ligasi III (LigIII), DNA polimerasi β (polβ) e proteine scaffold (di sostegno). Dopo la riparazione, le catene PAR sono degradate dalla PARG (Poli ADP-ribosio glicoidrolase). Inoltre, NAD+ è necessario come substrato per generare i monomeri di ADP-ribosio. L'iperattivazione della PARP può esaurire le riserve di NAD+ cellulare e indurre un progressivo esaurimento di ATP (dal momento che l'ossidazione del glucosio è inibita) e morte cellulare per necrosi. A questo proposito, PARP è inattivata (scissa) dalla caspasi-3 (in un dominio specifico dell'enzima) durante l’apoptosi. Uno degli approcci che si è tentato di utilizzare è stato quello di utilizzare un inibitore di PARP nelle cellule tumorali: verrebbe così bloccato il sistema di riparazione e la cellula con alterazioni potrebbe morire. Ciò nonostante, si è capito che PARP non sempre funziona, anzi, funziona solo in pazienti che hanno BRCA1 mutato: cioè se c'è un danno completo ai meccanismi di riparazione, questo meccanismo può essere valido, in caso contrario no. Infatti mentre la fase 2 del clinical trial è stata abbastanza utile e vantaggiosa in quanto c'erano meno pazienti che nella 3 e una grande fetta di questi pazienti aveva BRCA1 mutato, nella fase 3 questo non accadeva.

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CANCEROGENESI La cancerogenesi è un processo che comprende 3 fasi: iniziazione, promozione e progressione. Iniziazione L'iniziazione consiste in una mutazione che converte una cellula normale in una neoplastica latente (riguarda più spesso i protooncogeni della famiglia RAS), dovuta all'esposizione delle cellule a una dose sufficiente di un agente cancerogeno (iniziante). L’iniziazione è irreversibile a meno che il sistema di riparazione del DNA non intervenga prima della replicazione. Una cellula iniziante è una cellula alterata, il che la rende potenzialmente capace di dare origine a un tumore, in quanto da sola non è sufficiente a determinarlo. L’agente iniziante è un agente chimico, fisico o biologico, capace di alterare in modo diretto e irreversibile la struttura e l’espressione del DNA della cellula. Promozione Affinché si abbia la comparsa di un tumore, è necessario che una cellula tumorale iniziata venga stimolata a proliferare. Gli agenti promuoventi sono capaci di stimolare la proliferazione di queste cellule oppure di indurre mutazioni del DNA, il più delle volte indirettamente tramite la formazione di ROS perché non legano DNA. La promozione è un evento reversibile e non ha importanza l’intervallo di tempo che la separa dall’iniziazione. L’agente promuovente è un fattore capace di influenzare in modo indiretto e reversibile l’attività proliferativa della cellula (non determina modificazioni strutturali del DNA ma influenza il comportamento cellulare). Progressione La progressione consiste nell’accumulo di ulteriori mutazioni che portano alla formazione di cellule tumorali sempre più invasive e indifferenziate (quindi passaggio da cellula benigna a maligna). CANCEROGENESI CHIMICA Le sostanze chimiche che iniziano la cancerogenesi (agenti inizianti) comprendono prodotti naturali e sintetici. La cancerogenesi avviene in 2 modi:

- azione diretta, agendo direttamente sul DNA; - azione indiretta, che richiede una trasformazione metabolica per produrre cancerogeni finali che

trasformano le cellule. La maggior parte delle trasformazioni metaboliche è operata dalle mono-ossigenasi citocromo P-450 dipendenti. I geni che codificano per questi enzimi sono estremamente polimorfi e si è visto che l’attività e l'inducibilità di questi enzimi varia tra i diversi individui.

La caratteristica principale dei cancerogeni è che sono composti elettrofili altamente reattivi (mancano di elettroni) capaci di reagire con siti nucleofili (ricchi di elettroni) nelle cellule bersaglio. Tali reazioni non enzimatiche portano alla formazione di legami covalenti (prodotti di addizione) tra il cancerogeno chimico e un nucleotide del DNA. Il principale bersaglio dei cancerogeni chimici è il DNA: essi infatti sono dei potenti mutageni. Il potenziale mutageno dei cancerogeni chimici è valutato con il test di Ames, che sfrutta la capacità di una sostanza chimica di indurre mutazioni nel batterio Salmonella Typhimurium. Va sottolineato che ogni classe di cancerogeni tende a indurre un particolare tipo di danno al DNA. È ancora necessario specificare che non tutte le variazioni indotte da un agente cancerogeno sul DNA portano all'iniziazione, perché la maggior parte dei danni al DNA può essere riparato da enzimi cellulari. Quindi, i danni al DNA indotti dai fattori ambientali sono di gran lunga più frequenti rispetto al numero di tumori che effettivamente si sviluppano, almeno fino a quando i meccanismi di riparazione sono intatti. Questo è dimostrato dalla rara malattia ereditaria xeroderma pigmentoso, che è associata ad un difetto della riparazione del DNA e ad un forte aumento della suscettibilità alle neoplasie cutanee causate dai raggi UV e da alcun sostanze chimiche. Infine, per fa sì che tali modificazioni siano ereditabili, il filamento di DNA danneggiato deve essere replicato. Quindi, affinché l'iniziazione si verifichi, le cellule alterate dal cancerogeno devono andare incontro almeno ad un ciclo di replicazione in modo che le modificazioni al DNA diventino fisse e permanenti.

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Nei tessuti che sono normalmente quiescenti, lo stimolo mitotico può essere dato dal cancerogeno stesso, poiché molte cellule muoiono a causa degli effetti tossici del cancerogeno chimico, stimolando così la rigenerazione delle cellule sopravvissute. In alternativa, la proliferazione cellulare può essere provocata dalla concomitante esposizione ad agenti biologici come virus e parassiti, fattori alimentari o influenze ormonali. Promozione della cancerogenesi chimica La cancerogenicità di alcune sostanze chimiche è amplificata dalla successiva somministrazione di agenti promuoventi che di per sé non sono cancerogeni. Tali agenti portano alla proliferazione e all'espansione clonale di cellule iniziate (mutate). Il processo di promozione tumorale comprende: proliferazione di cellule preneoplastiche, acquisizione di ulteriori mutazioni e trasformazione maligna. Un esempio di agenti promuoventi è il TPA, un estere del forbolo. Cancerogeni chimici Tra i cancerogeni chimici vi sono:

1. Agenti alchilanti ad azione diretta Tali sostanze non necessitano di attivazione e sono deboli cancerogeni. Sono importanti perché molti farmaci ricadono in questa categoria: alcuni sono farmaci antineoplastici che però inducono ad esempio leucemie. Alcuni agenti alchilanti, invece, inducono Immunosoppressione (come la ciclofosfamide) e vengono pertanto utilizzati nel trattamento di disordini immunologici, come l'artrite reumatoide. Gli effetti terapeutici di tali agenti alchilanti vengono messi in atto proprio mediante l'interazione diretta con il DNA: è proprio questa azione a renderli però anche cancerogeni.

2. Idrocarburi aromatici policiclici Tali sostanze necessitano di attivazione metabolica e sono tra i più potenti agenti cancerogeni ad oggi noti. Sulla cute causano neoplasie cutanee, iniettati sottocute inducono sarcomi, introdotti in un organo specifico inducono neoplasie locali. Gli idrocarburi policiclici sono di particolare interesse come cancerogeni poiché sono prodotti dalla combustione del tabacco e in particolare sono presenti nel fumo di sigaretta: si ritiene che favoriscano lo sviluppo dei tumori del polmone e della vescica. Gli idrocarburi aromatici policiclici sono anche prodotti da grassi animali nel processo di cottura delle carni e sono presenti nelle carni e nei pesci affumicati.

3. Ammine aromatiche e coloranti azoici La cancerogenicità della maggior parte delle ammine aromatiche e dei coloranti azoici si esercita principalmente nel fegato, dove si forma il cancerogeno finale per l'azione dei sistemi del citocromo P-450 ossigenasi. Ciò nonostante, la β-naftilamina è fortemente responsabile dei tumori vescicali in lavoratori fortemente esposti al colorante anilina e nell'industria della gomma. Quello che succede è che dopo l'assorbimento questa sostanza è idrossilata in forma attiva e poi detossificata per coniugazione con l'acido glicuronico. Se escreta con l'urina, il coniugato non tossico viene scisso dall'enzima glucoronidasi urinaria (presente negli esseri umani, una delle poche specie a contenerla) con il rilascio del reagente elettrofilo, provocando il tumore vescicale. Alcuni coloranti azoici sono usati come coloranti alimentari e sono stati fortemente regolati a livello federale negli Stati Uniti per la possibilità che essi possano essere pericolosi per l'uomo.

4. Cancerogeni naturali I cancerogeni naturali sono prodotti da piante e microrganismi. Tra essi, ricordiamo l'aflatossina b1, una micotossina prodotta dall'aspergillus flavus che cresce in mais, riso, arachidi impropriamente conservati. Essi sono strettamente correlati soprattutto ai carcinomi epatocellulari.

5. Nitrosammine e amidi Questi cancerogeni possono formarsi nel tratto gastroenterico dell'uomo e possono così contribuire all'induzione di alcune forme di tumore, in particolare del carcinoma gastrico. Vengono prodotti nello stomaco dalla metabolizzazione di ammine e nitrati impiegati come conservanti, che vengono convertiti in nitriti dai batteri.

6. Agenti vari 7. Molte altre sostanze chimiche sono state indicate come cancerogene, tra cui:

- asbesto, a cui è associata un'alta incidenza di carcinomi broncogeni; - fumo; - cloruro di vinile, al quale si associa l'emangiosarcoma al fegato (in genere molto raro);

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- cromo, nichel; - molti insetticidi, molto probabilmente cancerogeni animali.

8. Promotori della cancerogenesi chimica Essi possono essere:

- agenti esogeni, fumo di sigaretta o infezioni virali; - agenti endogeni, i più gravi, come ormoni e sali biliari.

L'assunzione di grosse quantità di grassi con la dieta è stata associata ad un aumentato rischio di cancro del colon. Questo può essere in relazione con l'aumentata sintesi di acidi biliari che possono agire da promotori nei modelli sperimentali di cancro al colon. Il consumo di alcool aumenta più di 10 volte il rischio di sviluppare tumori maligni del cavo orale, di laringe e faringe probabilmente perché agisce come agente promuovente.

CANCEROGENESI DA RADIAZIONE Molti studi epidemiologici indicano che i raggi UV solari inducono un aumento di incidenza del carcinoma squamocellulare, del carcinoma basocellulare e, probabilmente, del melanoma della cute. Il grado di rischio dipende dal tipo di raggi UV, dall'intensità dell'esposizione e dall'entità del mantello protettivo di melanina della cute che è capace di assorbire i raggi solari. I soggetti di origine europea con pelle chiara che si ustionano se si espongono al sole (senza abbronzarsi) e coloro che vivono in località dove sono esposti a una grande quantità di luce solare presentano la più alta incidenza di tumori maligni cutanei al mondo. I raggi UV in base alla lunghezza d'onda sono divisi in:

- UVA (315-400nm); - UVB (280 - 315 nm), che si ritiene siano responsabili dei tumori della cute; - UVC (100-280nm), che non sono considerati significativi poiché sono filtrati dallo strato di ozono che

circonda la terra. Gli effetti generali dei raggi UV prevedono: inibizione della divisione cellulare, inattivazione di enzimi, induzione di mutazioni e, in dose sufficiente, la morte cellulare. La cancerogenicità degli UVB è attribuita alla formazione di dimeri pirimidinici nel DNA. Questo tipo di danno è riparato dal sistema di riparo per escissione di nucleotidi. È stato ipotizzato che in caso di eccessiva esposizione solare, la capacità del sistema NER sia sopraffatta e quindi i danni al DNA non possono essere riparati. Questo, in alcuni casi, porta al cancro. Come gli altri oncogeni, gli UVB causano anche mutazioni in oncogeni e in geni oncosoppressori (Ras e p53). Le radiazioni ionizzanti sono tutte cancerogene. Molti dei pionieri che hanno contribuito allo sviluppo dei raggi X hanno ad esempio sviluppato neoplasie cutanee. Ancor più eloquenti sono i dati relativi ai sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Inizialmente, in questi pazienti c'è stato un marcato incremento dell'incidenza di leucemie, dopo un intervallo medio di latenza di 7 anni. Successivamente è aumentata l'incidenza di molti tumori solidi con periodo di latenza più lungo (cancro della mammella, del colon, della tiroide e del polmone). È stato documentato che persino l'irradiazione terapeutica è cancerogena. Tumori della tiroide si sviluppano in circa il 9% degli individui esposti durante l'infanzia a radioterapia della testa e del collo. Nell'uomo c'è una gerarchia nella suscettibilità dei differenti tessuti a sviluppare tumori indotti dalle radiazioni. Le più frequenti sono le leucemie, eccetto la leucemia linfatica cronica; segue il tumore della tiroide, ma solo nei giovani. In posizione intermedia ci sono i tumori della mammella, del polmone e delle ghiandole salivari. CANCEROGENESI DA MICROORGANISMI Tutte le cellule che contengono un nucleo possono essere infettate da un virus. Il materiale genetico inserito dal virus codifica per la sintesi “de novo” di peptidi che verranno poi incorporati dentro nuove particelle virali. Alcuni di questi peptidi vengono presentati alle cellule T citotossiche attraverso molecole del sistema MHC di classe I, presente su tutte le cellule. Le cellule T citotossiche, insieme con le cellule Natural Killers (NK), uccidono le cellule infette. Alcune cellule possono sfuggire al controllo del sistema immunitario e promuovere la crescita tumorale.

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Nelle infezioni batteriche, invece, i peptidi antigenici vengono generati per degradazione dei microbi nelle cellule fagocitiche. Molti virus a DNA e a RNA sono risultati oncogeni per gli animali e l'evidenza che alcune forme di tumori umani siano di origine virale sta diventando sempre più forte. I virus trasformanti a DNA si associano stabilmente al genoma della cellula ospite. Il virus integrato non è in grado di completare il suo ciclo replicativo poiché i geni virali indispensabili alla replicazione vengono interrotti durante il processo di Integrazione del DNA virale. I geni virali che vengono trascritti nelle prime fasi del ciclo replicativo virale (geni precoci) sono importanti per la trasformazione. Essi sono infatti espressi nelle cellule trasformate. Fra i diversi virus umani a DNA, 4 sono di particolare interesse in quanto implicati nell’insorgenza di neoplasie nell’uomo:

Papilloma virus umano (HPV) Sono circa 70 i tipi geneticamente diversi di HPV. Alcuni di essi causano papillomi squamosi benigni. Nelle verruche benigne e nelle lesioni preneoplastiche il genoma dell’HPV rimane allo stato episomale (non integrato), mentre nei carcinomi esso è generalmente integrato nel genoma della cellula ospite. Questo indica che l’integrazione del DNA virale è importante per la trasformazione maligna. Inoltre, sebbene il sito di integrazione del DNA virale nei cromosomi della cellula ospite sia casuale, il tipo di integrazione è clonale (è lo stesso in tutte le cellule che compongono una determinata neoplasia). Una volta avvenuta l’integrazione, ha inizio la trascrizione di geni virali precoci come E6 ed E7. I prodotti di tali geni si legano, rispettivamente, alle proteine p53 e pRb inattivandole. Sembra comunque che l’infezione da HPV costituisca solo un evento iniziante, e che per la trasformazione maligna sia necessaria l’acquisizione di altre mutazioni somatiche quali quelle che si determinano in seguito a fumo di sigaretta, infezioni microbiche concomitanti, deficit nutrizionali ed alterazioni endocrine.

Epstein-barr virus (EPV) L’EBV, un membro della famiglia degli herpesvirus, e implicato nella patogenesi di 4 tipi di neoplasie umane:

- La forma africana del linfoma di Burkitt, traslocazione (8;14); - Il linfoma a cellule B dei soggetti immunodepressi, in particolare quelli infettati dall’HIV ed

in quelli che hanno subito un trapianto d’organo; - Alcuni casi di malattia di Hodgkin; - I carcinomi nasofaringei.

Sembra che diversi geni virali siano in grado di modificare i normali segnali proliferativi e di sopravvivenza delle cellule infettate in maniera latente (il virus non si replica e le cellule non vengono uccise). L’EBV da solo non ha una azione oncogena diretta, ma agisce semplicemente come mitogeno policlonale delle cellule B favorendo il verificarsi della traslocazione t (8;14) e di altre mutazioni che liberano i sistemi di controllo della crescita. Non bisogna comunque dimenticare che cofattori genetici e/o ambientali contribuiscono sempre alla formazione dei tumori.

Virus dell'epatite B (HBV) Studi epidemiologici suggeriscono l’esistenza di una stretta correlazione tra infezione da virus dell’epatite B (HBV) ed insorgenza dell’epatocarcinoma. È verosimile che l’effetto dell’HBV sia indiretto e forse multifattoriale: - provocando un danno cronico al fegato con conseguente iperplasia rigenerativa, l’HBV aumenta il numero di cellule a rischio di subire successive alterazioni genetiche; - l’HBV codifica per la proteina HBx che altera il normale controllo della crescita delle cellule infettate; - HBx lega p53 e sembra interferire con la sua azione sopprimente la crescita.

Herpes virus del sarcoma di Kaposi Il virus della leucemia umana a cellule T di tipo 1 (HTLV-1) è associato ad una forma di leucemia/linfoma a cellule T che è endemica in certe zone del Giappone e del bacino caraibico, ma che altrove si manifesta in forma sporadica. Come il virus dell’AIDS, ha un marcato tropismo per le cellule T CD4+, e perciò questo sottogruppo di cellule è il principale bersaglio della trasformazione neoplastica. L’HTLV-1 è associato anche ad una malattia neurologica demielinizzante chiamata paraparesi spastica tropicale. I meccanismi molecolari della trasformazione delle cellule T non sono chiari. Nelle cellule leucemiche, comunque, l’integrazione virale è di tipo clonale.

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La patogenesi della leucemia/linfoma causata dal virus HTLV-1 prevede che il virus infetti molte cellule T ed inizialmente causa una proliferazione policlonale sostenuta da una stimolazione autocrina e paracrina. Quando una cellula T proliferante sviluppa ulteriori mutazioni, allora si produce una leucemia/linfoma a cellule T di tipo monoclonale. CANCEROGENESI PARASSITARIA La schistosomiasi è una parassitosi causata da diverse specie di vermi. È ampiamente diffusa in molti paesi della fascia tropicale (Africa, America centromeridionale, alcune zone del Medio Oriente, dell’India e di diversi paesi dell’Estremo Oriente). Le uova di questi vermi vengono eliminate nelle acque attraverso le feci e le urine di persone infette e si sviluppano nelle stesse acque fino allo stadio di larva. L’uomo si contagia in occasione di bagni in corsi e bacini di acqua dolce contaminati dalle forme larvali infestanti del parassita. Queste ultime penetrano attraverso la pelle in maniera silente o dando luogo a fugaci manifestazioni cutanee pruriginose. Dopo la penetrazione, il microrganismo entra nel circolo sanguigno, migra attraverso i polmoni e si impianta infine nel plesso venoso drenante l'intestino o la vescica. Altra causa può essere l’infezione da Helicobacter pylori: crescenti evidenze indicano la presenza di un’associazione tra l’infezione gastrica causata dal batterio e l’incidenza di linfomi e carcinomi dello stomaco. L’infezione cronica da H. pylori induce la produzione di cellule T reattive contro il batterio stesso, che a loro volta attivano una popolazione policlonale di cellule B mediante la produzione di fattori solubili

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EPIGENETICA Non sono solo le mutazioni a carico del DNA ad avviare il processo tumorale, ma anche le alterazioni dei suoi sistemi di regolazione. Il cancro è una malattia causata da alterazioni del DNA che possono essere innate, casuali oppure insorgere in seguito all'azione di agenti esterni (cancerogeni). Negli anni si è capito che questo modello è riduttivo, perché probabilmente c'è qualcos'altro che influisce sulla probabilità di andare incontro alla malattia e che, in caso di cancro, determina le sue caratteristiche cliniche: a parità di mutazioni del DNA, uno stesso tumore può assumere forme diverse e gradazioni che possono andare dalla malattia cronica (poco pericolosa) al tumore che insorge improvvisamente e in poche settimane non lascia scampo. Questo quid, identificato ormai da diversi anni, ma ancora in gran parte da esplorare, è ciò che i ricercatori chiamano epigenetica. Per epigenetica si intendono le modificazioni che intervengono non direttamente sulla sequenza del DNA del gene in studio (cioè sulla successione di basi che lo compongono), ma sulla sua struttura (cioè sulla forma tridimensionale che acquista nella cellula grazie anche alla combinazione con particolari proteine); tali modificazioni consentono al DNA stesso di essere mantenuto intatto nel nucleo della cellula e, quando occorre, essere trascritto fedelmente. Il DNA è infatti avvolto intorno a proteine dette istoni e in questo modo forma la cromatina, una struttura che si presenta in diversi stati di compattezza a seconda della sua attività: una cromatina aperta (cioè poco compatta, eucromatina) è indice di una fase di trascrizione dei geni, mentre una cromatina chiusa (eterocromatina) indica una fase silente. Lo stato della cromatina e l'attività degli istoni sono regolati a loro volta da altre proteine prodotte anch'esse da geni che, se alterati, possono avere ripercussioni negative su tutto il sistema di replicazione cellulare, fino alla perdita di controllo e alla proliferazione tumorale. L'epigenetica studia appunto l'insieme di questi fenomeni che a volte diventano patologici, e i metodi più efficaci per intervenire su di essi quando ve ne sia la necessità. Un tratto epigenetico è un fenotipo stabilmente ereditabile che risulta da cambiamenti a livello cromosomico, cambiamenti dell’accessibilità cromosomica che non dipendono da mutazioni o da alterazioni della sequenza di DNA. L’epigenoma è l’insieme delle modificazioni della cromatina che influenzano l’espressione genica indipendentemente dalla sequenza del DNA (è quel tipo di regolazione che decide che un gene sia on oppure off). Sono regolazioni ereditarie, ma durante la vita di una cellula, a seconda dell’accessibilità della cromatina, l’epigenoma può cambiare ed è pertanto plastico. A conferma di questa teoria, sono stati effettuati numerosi studi su gemelli omozigoti e si è visto che in quelli più giovani l'epigenoma è molto simile, invece nei più anziani l'epigenoma è completamente diverso. Quindi hanno stesso genoma ma differente epigenoma. Nel 2011 è stato presentato il progetto internazionale Genoma del Cancro, ideato dal Consorzio internazionale Icgc (International Cancer Genome Consortium) allo scopo di creare una mappatura delle mutazioni del genoma (sequenziato nel 2001) e dell’epigenoma dei diversi tipi di tumore conosciuti. Si può studiare il genoma di uno specifico tumore, in quel giorno e in quel momento, e sapere esattamente quali sono le alterazioni genomiche ed epigenomiche di quel paziente (in quel giorno e in quel momento). Questo tipo di medicina è una medicina di precisione poiché sapendo esattamente tutte le alterazioni del tumore che una persona ha in quel momento, si ha la possibilità di fare un sequenziamento su una metastasi, avendo un motivo molecolare di tutti gli oncogeni, di tutti gli oncosoppressori e di tutte le alterazioni possibili di quel tumore, così da stabilire quale sia la migliore terapia per quel paziente anche se magari non è quella che normalmente si fa per quel tipo di tumore. È fondamentale, per la classificazione dei genomi ed epigenomi tumorali, avere genomi ed epigenomi di referenza (per capire se qualcosa è alterato o mutato, bisogna paragonarlo a qualcosa che non lo sia). Il genoma varia non nella sequenza, ma nell’espressione dei geni, a seconda del tessuto, del parenchima e del tipo cellulare: per conoscere come viene espresso il DNA, si fa un esperimento di espressione genica che tiene conto del sequenziamento dell’mRNA e di ogni altro tipo di RNA. In questo caso, sebbene una persona abbia sempre lo stesso DNA (salvo casi genetici particolari), il gene expression sarà diverso. Fisiologicamente fa parte della specializzazione cellulare, in quanto una cellula epatica e una cellula renale hanno lo stesso DNA, ma fanno cose differenti: l’mRNA espresso dall’una e dall’altra nella stessa persona sarà diverso perché sono attivi geni diversi.

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L’espressione genica nelle cellule varia in funzione della specializzazione e del differenziamento cellulare, ma la stessa cellula può cambiare fisiologicamente la sua espressione genica non perché la cellula pensi, ma per qualcosa che ne regola l’accessibilità, ad esempio lo “scivolamento” del DNA sugli istoni per cui i nucleosomi possono avvicinarsi o allontanarsi tra di loro.

Il nucleosoma è l'unità fondamentale della cromatina (DNA e istoni) ed è costituito da un centro proteico, formato da 8 proteine istoniche, attorno al quale si avvolge il DNA. Ogni centro nucleosomico contiene infatti 2 istoni H2A, 2 istoni H2B, 2 istoni H3 e 2 istoni H4.

Per produrre una proteina è necessario leggere l'informazione contenuta in un filamento di DNA. Perché ciò sia possibile la cromatina deve aprirsi e la doppia elica sciogliersi, per poi richiudersi e ricompattarsi una volta ottenuto lo stampo dell'informazione genetica sotto forma di RNA. Gli istoni giocano un ruolo chiave nel regolare questo meccanismo di apertura e lettura del DNA, ma, essendo anch'essi composti da proteine, vengono ovviamente prodotti sulla base di informazioni contenute nel DNA. Tutte le modificazioni che avvengono a carico degli istoni possono influenzare il modo con cui la cellula produce le proteine, e, di conseguenza, il modo in cui si comporta, pur non modificando direttamente la fonte dell'informazione, cioè il DNA. Ogni alterazione o cambiamento del DNA è di pertinenza della genetica, mentre eventuali modificazioni a carico degli istoni vengono studiate dall’epigenetica. Il risultato di una mutazione epigenetica può però essere molto simile a quello di una modificazione genetica, poiché trasforma il comportamento cellulare (che è il motivo per cui le alterazioni epigenetiche sono anche all'origine di alcuni tumori). Il “genome browser” per il genoma umano è l’HG130. Tra il 2014 e il 2015 sono stati fatti i primi epigenomi di referenza, tenendo presente le prime 7 modifiche istoniche (ce ne possono essere centinaia), e sorprendentemente le cellule di un determinato tessuto, similare, hanno epigenomi simili. Questo dimostra l’ereditarietà e il ruolo dell’epigenoma nella differenziazione del tessuto perché “quel tessuto è quel tessuto” e nient’altro. Bisogna ipotizzare che in qualche modo si erediti una sorta di codice che non è quello genetico, ma un codice di diversità, plastico, regolabile, in cui le regolazioni dell’espressione genica in un determinato tessuto o in un particolare strato del tessuto, sono regolate più o meno sempre nella stessa maniera se il tessuto è sano. LE MODIFICAZIONI EPIGENETICHE Le 3 principali modificazioni epigenetiche sono:

1. Metilazione del DNA (metiloma), che avviene a carico delle citosine, nelle isole CpG (aree ricche in citosina e in guanina): la metilazione delle citosine in un gene porta in genere al suo silenziamento (le aree ipermetilate sono aree di bassa espressione genica). La metilazione del DNA si eredita: quando il DNA si duplica, si apre e l’enzima DNA-metil-trasferasi1 (DNMT-1) è deputato fisiologicamente a rimetilare l’elica copia al momento della sintesi della stessa. Questo significa che anche a livello gametico è presente questa regolazione e si può ereditare dalla madre o dal padre nella posizione in cui era presente originariamente (può cambiare nel corso della vita della cellula, perché il gruppo metile sul DNA può essere rimosso o può essere aggiunto dalle DNA-metil-trasferasi-3A e 3B). La metilazione del DNA non è stata del tutto dimostrata a livello scientifico (come nel caso delle altre modificazioni ereditarie, quali l’acetilazione, la metilazione istonica, la ribosilazione e l’ubiquitinazione). Aree di ipometilazione e di ipermetilazione fanno esprimere in maniera patologica dei geni e ne bloccano altri: questo può essere la causa di una metastasi e può rendere un fenotipo più maligno, a parità di genotipo tumorale. Al momento sono noti soltanto meccanismi di regolazione indiretta della metilazione del DNA, senza l’esistenza verificata di un enzima che agisca per via diretta: questi meccanismi però si possono modificare. Ci sono terapie vecchie, ma rivisitate, che modificano la metilazione del DNA nei tumori o comunque in pazienti che hanno delle alterazioni della metilazione del DNA come in pre-leucemia;

2. Imprinting genomico, che serve per regolare il dosaggio genico e si basa sul fatto che un gene o un gruppo di geni in una data regione lungo un cromosoma, viene metilato e dunque inattivato (si dice che il gene è imprinted), a seconda che derivi dalla madre o dal padre. Questo serve per creare un equilibrio: ad esempio, una porzione del gene paterno imprinted può promuovere la crescita fetale,

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quello materno può controllare la crescita fetale. Al meccanismo di imprinting sono associate diverse patologie:

- perdita dell'allele non soggetto a imprinting, che porta all'assenza di proteina; - perdita dell'impriting, che porta al livello di proteina raddoppiato rispetto al normale. Le

sindromi Prader-Willi e Angelman sono un esempio eccellente dell’imprinting come malattia. Entrambe sono il risultato di una delezione (nella maggior parte dei casi) nella stessa area del cromosoma 15. Prader-Willi è la sindrome che si instaura se ereditata dal padre, Angelman se ereditata dalla madre. Fenotipicamente sono patologie diverse, evidenti dai sintomi, a seconda che l'area deleta sia ereditata dal padre o dalla madre, pur riguardando genotipicamente un'area simile, ma non identica, del cromosoma 15.

3. Modificazioni della cromatina, ovvero del pacchetto nucleosomale (istoni e DNA). Tra le sue modificazioni ci sono:

- acetilazione delle lisine istoniche (mono-di-tri-metilazione); - metilazione delle arginine (mono-di-metilazione) e delle lisine istoniche; - fosforilazione di serine, treonine, etc.; - sumoilazione delle lisine istoniche; - ubiquitinazione.

Da sottolineare che ogni metilazione esclude l'altra se si trova sulla stessa lisina. Che tali modificazioni della cromatina diano luogo a un codice istonico o a una via di trasduzione del segnale è ancora un enigma. Esistono enzimi "scrittori" (writer) che sono artefici di queste modifiche, enzimi che "leggono" (reader) queste modifiche ed enzimi che “cancellano” (eraser) queste modifiche. Writer, reader ed eraser sono alterati nei tumori umani. Fino a poco tempo fa la metilazione istonica si riteneva irreversibile, ma 3-4 anni fa si è scoperto l'enzima PAD4 (Protein Arginine Deaminases 4) che fa sì che la mono-metil-arginina diventi citrullina e metilammonio. È stata la prima reazione descritta di demetilazione. Ci sono anche altri enzimi come LSD1 che catalizza la demetilazione della lisina. Questo enzima demetila però solo le lisine in posizione 4 e in posizione 9 dell'istone H3. Tale enzima è alterato nel carcinoma della prostata.

Esiste dunque, una forte correlazione tra metilazione e regolazione dell'espressione genica: quello che succede è che quando il DNA viene metilato, è capace di legare particolari proteine, le quali a loro volta sono capaci di reclutare diverse HDAC (deacetilasi istonica). La cromatina viene deacetilata, si chiude e si compatta. In tal caso, la trascrizione è repressa. Quello che comunque si sa per certo è che aree di ipo ed ipermetilazione sono associate sia ad invecchiamento cellulare, sia a eventi tumorali. Nel 2004 è stata pubblicata su Nature una catalogazione delle malattie genetiche: ci sono vari tipi di cancro e leucemie che possono essere considerati malattie epigenetiche. La metilazione può intervenire su questi eventi silenziando vari geni:

- ciclo cellulare (Rb, INK4); - trasduzione del segnale (APC); - apoptosi (caspasi-8); - riparo del DNA (BRCA1); - risposta ormonale (recettori di estrogeno e progesterone).

Ciò nonostante, non è solo questione di metilazione: le aree di acetilazione e deacetilazione sono state rilevate nei tumori. Geni codificanti per diverse HAT (acetil-transferasi istoniche) si trovano traslocati, amplificati, sovraespressi e/o mutati in diversi tumori:

- mutazioni missenso o associate all’acetil-transferasi P300 tronca non funzionale si trovano associate a tumori del colon/retto e gastrici;

- gli individui con mutazione che inattiva l’attività HAT di CBP comporta un aumentato rischio di tumori (CBP è la proteina legante CREB, fattore di trascrizione cellulare che si lega a determinate sequenze di DNA, dette elementi di risposta cAMP, aumentando o diminuendo la trascrizione di geni implicati nella proliferazione, differenziazione e sopravvivenza cellulare);

- la perdita di eterozigosi attorno al locus di CBP è associata a carcinomi epatocellulari;

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- traslocazioni della acetil-transferasi P300 e di CBP, risultanti dalla fusione in frame con diversi geni, sono associate a diversi tumori ematologici.

Quanto all'HDAC (deacetilasi istonica), è coinvolto in: - linfoma non-Hodgkin, in cui il repressore trascrizionale LAZ3 è sovraespresso e causa repressione

trascrizionale anomala (HDAC dipendente) con conseguente trasformazione tumorale; - la leucemia acuta mieloide M2, associata con traslocazione (8-21) che genera una proteina di fusione

AML1/ETO che agisce come un potente repressore trascrizionale dominante tramite reclutamento di HDAC.

La leucemia promielocita acuta (PML) è una leucemia molto rara e aggressiva, causata da una traslocazione 15-17 che coinvolge il gene PML e il RARα (recettore dell'acido retinoico). La funzione di PML è stata scoperta da Paolo Pandolfi e, in alcuni casi, esso ha funzione di oncosoppressore. A seguito di tale traslocazione, si formava però una proteina di fusione PML-RARα: essa reprime i geni normalmente attivati da RARα mediante metilazione e reclutamento di un co-repressore contenente attività HDAC (di deacetilazione). Conduceva a morte. La prima cosa che si pensò di fare fu quella di somministrare acido retinoico in dosi farmacologiche e non fisiologiche: PML assume una conformazione particolare di modo che la parte di RARα legata alla deacetilasi degli istoni la sgancia. Staccatasi la deacetilasi, per l’affinità e per come la proteina si struttura tridimensionalmente, arrivano delle acetilasi: la cromatina si apre e può partire la trascrizione di moltissimi geni che dipendono da RAR. Segue la fase di differenziamento verso il mielocita. Il paziente sta meglio, cioè guarisce per qualche giorno: ciò nonostante, basta che ci sia una sola cellula che abbia una mutazione nel dominio di risposta al ligando di RARα che tutto questo non accade più: quando ciò si capì, si pensò di dare l'acido retinoico insieme ad un ciclo di chemioterapia a base di antracicline, per bloccare possibili cellule che davano resistenza. In seguito, il ricercatore inglese Artur Zenit trovò un paziente che non rispondeva a questo trattamento: andando ad analizzare i geni coinvolti in questi pazienti, vide che essi avevano un'altra traslocazione, che si verifica nello 0,0001% dei pazienti con leucemia promielocitica acuta, ossia la traslocazione 11-17. Tale traslocazione portava alla formazione di un'altra proteina di fusione PLZF-RARα: oggi si sa che il paziente non risponde al trattamento perché non solo nel RAR, ma anche nella porzione PLZF è presente un altro complesso inibitore (dunque una regione dove si possono legare deacetilasi) su cui ovviamente l'acido retinoico non ha alcun effetto. Tale forma di leucemia promielocitica acuta fu trovata in una bambina. Considerato che essa era oramai in fase terminale, a scopo puramente compassionevole, le fu somministrata una medicina innovativa: un inibitore delle deacetilasi, in particolare il butirrato di sodio. Esso era un inibitore a base di acidi grassi a catena corta che veniva somministrato a dosi millimolari, quindi funzionava male: ciò nonostante era al momento l'unico disponibile. Per sei mesi la bambina guarì, ma poi morì a causa di una recidiva con una serie di complicazioni. LE ISOLE CpG E LE AREE DI IDROSSIMETILAZIONE Le isole CpG regolano la repressione genica (le aree ricche in citosina e guanina sono aree inespresse). Alcuni ricercatori, a partire dal 2010, hanno visto che aree ipermetilate, in alcuni casi, corrispondono a zone di alta espressione genica. Si parla di “sesta base” e di “mistero della sesta base” (quest’anno è diventato della settima base, perché c’è la formilazione), perché in alcune di queste aree le citosine metilate sono idrossilate. Esiste cioè una reazione biochimica che aggiunge un gruppo ossidrile al gruppo metile (delle citosine): si parla quindi di idrossimetilazione delle citosine e si dice che l’idrossimetilazione delle citosine “marca un’area aperta”. Questo complesso di regolazione in grado di scrivere sul DNA metilato (solo se è metilato) è mutato nei tumori. In particolare, la mutazione sta nel sito catalitico e dà luogo ad alcuni tipi di leucemie molto aggressive. Esiste un clinical trial, che al momento nel modello murino funziona, che consiste in una molecola in grado di riconoscere solo la molecola mutata. Oggi si pensa che molto probabilmente l’idrossimetilazione rappresenti una sorta di semaforo che serve per dire ai complessi, nel tempo, di rimuovere la metilazione. Si potrebbe pensare che se farmacologicamente si somministra qualcosa che iperacetila o ipermetila tutto, si provoca un danno anche sul normale. Tuttavia la regolazione di una cellula tumorale non è normale: la cellula normale ha un epigenoma molto stabile ed è in grado di controbilanciare tutto nell’ordine dei minuti, mentre la tumorale non è capace o lo è molto meno.

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LA TRASMISSIONE DELLE MUTAZIONI EPIGENETICHE È stato dimostrato che le mutazioni che riguardano i fenomeni epigenetici possono essere trasmesse alle cellule figlie. Ciò apre un importante capitolo sull'importanza dello stile di vita sulla predisposizione al cancro, che ha implicazioni che vanno al di là della possibilità di cura delle singole forme di tumore: si è sempre ritenuto che le mutazioni acquisite durante la vita non potessero essere ereditate dalla progenie, ma ora si sa che non è così. Non sono solo le sequenze inscritte nel DNA, sulle quali l'individuo non ha possibilità di intervento, a determinare il rischio di malattia di figli e nipoti, ma anche l'ambiente in cui si vive e gli stili di vita che si adottano. Se si confermeranno i risultati degli studi che identificano nelle mutazioni epigenetiche l'origine di patologie come il cancro, ogni individuo avrà una responsabilità in più nel condurre la propria vita in modo sano e nell'aderire ai consigli di prevenzione. Qualche prova scientifica in questo senso già esiste, sebbene si tratti di un argomento ancora controverso. In una lontana cittadina del nord della Svezia, spulciando i registri delle nascite e dei decessi, è stato dimostrato che gli effetti di un ambiente negativo si riflettono sulle generazioni future. Gli episodi di carestia occorsi durante la vita dei nonni influenzano infatti l'aspettativa media di vita dei nipotini, dimostrando così che un effetto ambientale può essere ereditato. Questo cambia radicalmente le idee (non solo sul cancro), anche se bisogna ancora comprendere come ciò sia possibile. In ogni caso, il mutamento di prospettiva è tale per cui si inizia a pensare che le mutazioni epigenetiche e quelle del DNA rispettino una precisa gerarchia, e non è detto che sia il DNA al primo posto: molti gruppi di ricerca nel mondo stanno cercando di capire il peso reale dell'epigenetica. Le mutazioni epigenetiche, che probabilmente sono presenti in tutti i tumori, sono farmacologicamente reversibili e si può intervenire quindi efficacemente. TERAPIA EPIGENETICA La terapia epigenetica si basa sul fatto che se c'è una metilazione erronea o un rimodellamento della cromatina, si potrebbe intervenire dando un inibitore che dovrebbe rimuovere il blocco della trascrizione. Per alcuni tumori, in effetti, utilizzando questo tipo di approccio c'è la riacquisizione della funzione genica persa. Non esistono inibitori enzimatici buoni della DNA metiltransferasi: la 5-aza-2'-desossicitidina inibisce la metilazione del DNA perché fa in modo che la citosina non possa essere più metilata. Il problema di tale terapia sono gli effetti collaterali. Altri farmaci che fanno parte della terapia epigenetica sono inibitori degli istoni deacetilasi: sono tantissimi e in particolare uno, il SAHA, che è stato approvato nel 2006 per il trattamento di un tipo di linfoma cutaneo, in monoterapia e in terapia di combinazione. miRNA IN TUMORI SOLIDI UMANI I miRNA (o microRNA) sono piccole molecole di RNA non codificanti in grado di regolare l’espressione genica agendo a livello post-trascrizionale. La loro funzione è quella di legare molecole di RNA bersaglio inducendo l’inibizione della traduzione o la degradazione dell’mRNA, modulando un ampio spettro di processi fisiologici. I miRNA regolano l’espressione genica utilizzando la rete di meccanismi cellulari coinvolti nel fenomeno dell’RNA interference, svolgendo funzioni endogene una volta attribuite esclusivamente agli small interfering RNA (siRNA). I trascritti primari dei miRNA sono molecole lunghe anche alcune centinaia di basi, mentre i miRNA maturi, attivi, sono molecole a singolo filamento di alcune decine di nucleotidi (21-23 nucleotidi). Geni codificanti per miRNA costituiscono il 2% dell’intero genoma e si stima che fino a un terzo degli mRNA umani codificanti sarebbero suscettibili a questa rete di regolazione. Geni chiave, o essenziali, per una determinata funzione cellulare potrebbero essere fortemente trascritti ma tradotti in misura decisamente minore. Questo effetto potrebbe essere dovuto proprio alla modulazione negativa della traduzione ad opera dei miRNA. In tal modo la cellula può disporre di un notevole numero di mRNA ma, allo stesso tempo, è in grado di controllare la produzione delle proteine. I miRNA possono garantire questa modulazione senza interferire con l’attività trascrizionale o i processi di maturazione degli mRNA.

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L’azione dei miRNA, se da un lato può inibire la traduzione di una determinata proteina, dall’altro può, nel contempo, portare all’aumento di espressione di un gene se l’azione del miRNA comporta l’inibizione di una proteina con azione regolatoria negativa. Diversi meccanismi portano all’alterata espressione dei miRNA nelle neoplasie umane, sebbene la maggior parte degli studi riportino le aberrazioni cromosomiche come causa primaria. Il ruolo fisiopatologico dei miRNA nell’oncogenesi e nello sviluppo tumorale può essere spiegato con l’alterazione della regolazione dell’attività di oncogeni o oncosoppressori da parte di queste molecole. Ad esempio il target di miRNA-15 e miRNA-16 è stato identificato essere Bcl-2, gene antiapoptotico, la cui attivazione è considerata essere cruciale per i processi oncogenici nei linfomi umani, leucemie e carcinomi del polmone. La perdita dei miRNA connessi con questo gene è correlata con l’overespressione di Bcl-2. I miRNA costituiscono anche un possibile strumento per la target-therapy, funzionante su una rete di geni modulati da miRNA. Difatti il fenotipo fisiologico di una cellula può essere modulato dall’attività di un limitato numero di miRNA. Sebbene esistano alcuni lavori che cercano di tipizzare diverse tipologie di tumore in base all’espressione caratteristica dei miRNA, ancora poco si conosce sulla loro effettiva espressione nei tumori solidi. Le informazioni ottenute possono dare un’ulteriore spinta per la classificazione e la tipizzazione di queste neoplasie, permettendo inoltre una migliore conoscenza dei processi neoplastici di trasformazione e oncogenesi.

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LEUCEMIE Le leucemie sono tumori maligni del sistema emolinfopoietico, caratterizzati dall'invasione vascolare. Esse risultano dalla mutazione somatica di una singola cellula emopoietica, la cui progenie costituisce il clone leucemico. Si parla di leucemia quando l’invasività midollare arriva al 15-20% e fa sì che ci siano dei blasti nel sangue periferico (per blasti si intendono cellule monoclonali immature, bloccate ad un certo livello); quando l’invasività midollare è più bassa (del 2-3%), senza alcun coinvolgimento del sangue periferico, si ha la sindrome mielodisplastica, un'alterazione citoarchitetturale del midollo che in alcune condizioni può essere considerata pre-tumorale. La diagnosi di questa sindrome è difficile e si può ottenere con un prelievo midollare, che è una procedura invasiva che di routine non si esegue. Il termine leucemia viene dal greco e fa riferimento al sangue bianco, lattescente: in genere si vedono in provetta grumi bianchi che si attaccano alle pareti. La caratteristica principale delle leucemie è che sono dovute a cellule staminali midollari che si bloccano ad un certo stadio differenziativo, senza ancora che ne sia conosciuta con certezza la motivazione. Questo dunque le differenzia dai tumori solidi in cui, invece, la cellula maligna va incontro ad una graduale perdita di differenziamento. Ciò nonostante, oggi sono state trovate nei tumori solidi cellule staminali neoplastiche che arrestano il loro differenziamento. Questo è fondamentale in ambito terapeutico in quanto le terapie da adoperare sono profondamente diverse. Le leucemie, ad oggi, rappresentano il principale modello di studio dei tumori: nelle leucemie le cellule si possono selezionare una ad una con vari sistemi, nei tumori solidi ciò non è possibile per la presenza di una struttura connettivale che fa parte del tumore e che è addirittura oggi valutata come capace di creare un ambiente tumorale. Non è un caso che oggi le terapie dei tumori solidi siano volte a scardinare non solo la singola cellula tumorale, ma tutto l'ambiente. Possiamo innanzitutto suddividere le leucemie in:

- acute, quando la sopravvivenza spontanea si misura in giorni (hanno un indice proliferativo molto elevato);

- croniche, quando la sopravvivenza spontanea si misura in anni (hanno un indice proliferativo molto basso).

LEUCEMIE ACUTE Le leucemie acute sono definite come tumori maligni del sistema emolinfopoietico, originanti da cellule staminali residenti nel midollo. Sono prodotte da alterazioni geniche spesso multiple che determinano:

- difetto di maturazione (tali cellule non maturano); - difetto di proliferazione (tali cellule proliferano in modo incontrollato).

Le leucemie acute sono caratterizzate dall'accumulo di blasti nel midollo, nei tessuti e nel sangue. Come conseguenza, ci sarà una insufficiente produzione di cellule mature (eritrociti, granulociti e piastrine). La sintomatologia sarà chiaramente legata a questi eventi:

- sintomatologia tumorale, da infiltrazione e accumulo in organi e tessuti; - sintomatologia da insufficienza midollare.

Il paziente può essere anemico e avere una ridotta concentrazione di piastrine e globuli bianchi: è quindi soggetto a numerose infezioni. I sintomi sono: stanchezza, debolezza, immunodeficienza, lividi anche in seguito di urti banali (per carenza di piastrine). Quando si manifesta la sintomatologia, oramai il midollo già non riesce a mettere in atto meccanismi di compensazione: la cosa più probabile è che la persona si rivolga al medico già con una situazione molto grave. Per effettuare la diagnosi, non basta un prelievo di sangue periferico, ma è fondamentale il prelievo midollare: solo in questo modo si ha diagnosi certa e si può iniziare la terapia. I criteri classificativi delle leucemie acute sono: - morfologici: il buon ematologo tramite striscio e colorazione dei blasti (a seguito di prelievo midollare) può già intuire la diagnosi. In seguito, la prima caratteristica che si va a vedere è la morfologia delle cellule. Questo lo fa l'ematologo nella stessa giornata del prelievo, perché ovviamente in caso di leucemia acuta, bisogna intervenir nel minor tempo possibile; - immunofenotipici: si fa l'immunofenotipo attraverso la valutazione di tutti i CD (cluster of differentiation, gli antigeni) per vedere il grado di differenziamento delle cellule dal punto di vista immunologico. Anche

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questo viene fatto in tempi molto rapidi, anche perché la terapia inizia il giorno stesso della diagnosi. Questo non vale per le persone più anziane con patologie aggiuntive (diabete) che potrebbero essere messe in pericolo dalla terapia (ad esempio cortisonica); - cromosomici: si analizza il fenotipo cromosomico, che si basa sulla presenza di alterazioni cromosomiche microscopicamente rilevabili. Le alterazioni cromosomiche teoricamente sono molto più frequenti nelle leucemie che nei tumori solidi: questo concetto è in parte vero ed è dovuto al fatto che la maggior parte degli studi e dei risultati ottenuti sono stati effettuati sulle leucemie (negli ultimi anni, numerose alterazioni cromosomiche sono state dimostrate anche nei tumori solidi); - genotipici: si vede il genotipo e le sue alterazioni geniche specifiche (geni di fusione, delezioni geniche). Sono note diverse alterazioni citogeniche che si associano a tipi particolari di leucemie: un esempio è il cosiddetto cromosoma Philadelphia, presente nel 95% dei casi di leucemia mieloide cronica, ma anche nelle leucemie acute. La differenza sta nel fatto che trovare questo cromosoma nella leucemia mieloide cronica è positivo, nella leucemia acuta costituisce un carattere prognostico negativo. La presenza del cromosoma anomalo è dovuta ad una traslocazione 9/22: l'errore genetico porta alla giustapposizione di 2 geni ben definiti (BCR e ABL) con creazione di un prodotto di fusione ibrido (BCR-ABL) avente attività tirosin-chinasica svincolata dai meccanismi di regolazione e responsabile del vantaggio di crescita acquisito della cellula. Un ricercatore ha messo a punto un trattamento per bloccare la chinasi quando ABL sta con BCR, ma non da solo (terapia tumore-selettiva). L'Imatinib è un farmaco prodotto dalla Novartis proprio per il trattamento della leucemia mieloide cronica, della leucemia linfoblastica acuta e di pochi altri tumori maligni. In generale, per inquadrare le leucemie acute dobbiamo valutare:

- clinica; - emocromo; - citologia/istologia del midollo; - fenotipo immunologico; - genotipo (citogenetica, biologia molecolare).

Possiamo distinguere le leucemie acute in:

linfoidi (LAL in Italia, ALL in tutto il mondo). Sono più frequenti in età pediatrica: in genere la prognosi per i bambini con tale leucemia è benevola, viceversa nell'adulto;

mieloidi (LAM in Italia, AML in tutto il mondo). Sono più frequenti nell'adulto e sia nell'adulto che nel bambino sono poco trattabili perché recidivano.

Le leucemie acute linfoidi possono essere classificate: 1. morfologicamente - classificazione FAB (Francese Americana Britannica):

- L1, linfoblasti piccoli, morfologicamente omogenei (bambini); - L2, linfoblasti morfologicamente eterogenei (adulti); - L3, linfoblasti iperbasofili e vacuolati (rari, meno del 5%).

2. Immunofenotipicamente: - LAL della Linea B (pre-B /pro-B/ B-matura); - LAL della Linea T (pre-T/pro-T/T-matura). Si riconoscono con anticorpi monoclonali diretti verso i marcatori di linea B e linea T.

Le leucemie acute mieloidi, la cui frequenza aumenta con l'età (60-65 anni) e si distinguono in: - leucemie acute “de novo”; - leucemie acute secondarie (a sindromi mielodisplastiche, ad esposizione ad agenti oncogeni, ecc.).

I quadri clinico-patologici sono prevalentemente quelli dell’insufficienza midollare (anemia, emorragie, infezioni). L’interessamento del sistema nervoso centrale è raro. Le leucemie acute mieloidi possono essere classificate con criteri morfologici (FAB) e immunofenotipici:

- M0 mieloblastica senza maturazione; - M1 mieloblastica con minima maturazione mieloide; - M2 mieloblastica con distinta maturazione mieloide; - M3 promielocitica. Questa leucemia, che rappresenta il 10-15% delle leucemie acute, è caratterizzata

nel 99,9% dei casi da una traslocazione 15/17 che si concretizza con una proteina di fusione che si chiama PML/RARα. Essendo RARα un recettore, questo risponde ad un ligando, l'acido retinoico. Si è pensato quindi di somministrare a dosi farmacologiche l'acido retinoico che si lega a RARα; PML

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(un oncosoppressore) si attiva e torna nel nucleo (dove normalmente dovrebbe stare). La cellula così si ristabilisce. Ovviamente, se muta la regione di RARα che lega l'acido retinoico può causare recidiva; pertanto la terapia con acido retinoico è coadiuvata con una chemio adibita ad eliminare eventuali cellule che non rispondono al ligando. In Asia e negli USA questa non è la terapia standard che si fa invece con il triossido di arsenico (veleno). Questo è dovuto al fatto che tale sostanza a basse dosi (poco nocive per l'organismo), è capace di alterare la struttura della proteina PML/RARα ed è quindi tumore-selettiva. La guarigione avviene nella quasi totalità dei casi;

- M4 mielo-monoblastica; - M5 monoblastica; - M6 eritroblastica; - M7 megacarioblastica.

LEUCEMIE CRONICHE Anche le leucemie croniche possono essere distinte in linfoidi e mieloidi a seconda dell'origine. Quello che le differenzia dalle leucemie acute è l'esordio, che è più lento. Nella leucemia linfoide cronica (LLC), la morfologia delle cellule sembra normale: le cellule sono più orientate verso il differenziamento, tuttavia l'immaturità c'è ed è evidente soprattutto a livello immunologico. Infatti, antigenicamente sono in fase precoce di differenziazione linfoide (quindi immaturi) ed appartengono alla linea B o più raramente (5%) alla linea T. Elementi essenziali per la diagnosi sono:

- linfocitosi periferica associata ad un aumento dei linfociti nel midollo osseo; - linfoadenopatia multipla con o senza splenomegalia/epatomegalia.

Compare in genere in pazienti con età maggiore di 50 anni. La suddivisione in stadi è abbastanza clinica. Gli esami di laboratorio sono gli stessi delle altre leucemie. La prognosi dipende dalla stadiazione, dalle aree linfonodali interessate, dalla presenza o entità della splenomegalia, dal conteggio dei prolinfociti e dei linfociti, dal tempo di raddoppiamento blastico, dall’età, dal sesso, dalla risposta al trattamento e dalle anomalie del cariotipo. La leucemia mieloide cronica (LMC) è una sindrome mieloproliferativa cronica, caratterizzata da:

- marcata leucocitosi con granulociti immaturi nel sangue periferico e nel midollo osseo; - splenomegalia; - presenza del cromosoma Philadelphia (traslocazione 9/22) nel 90% dei casi; - riduzione o assenza della fosfatasi alcalina leucocitaria in più del 90% dei casi.

La leucemia mieloide cronica è in genere caratterizzata da 3 fasi: cronica, accelerata, crisi blastica. La fase cronica può durare diversi anni e può essere agevolmente controllata. La complicazione più grande è il sopraggiungere della crisi blastica che rappresenta la trasformazione verso un quadro di leucemia acuta. In un anziano la fase acuta compare troppo tardi (il paziente può anche morire prima per altre cause). Ovviamente un adulto e un anziano con una leucemia acuta possono avere avuto in precedenza un quadro cronico. Questo non vale per i bambini. La terapia standard di prima battuta, sia nell'acuta che nella cronica, non è mai il trapianto di midollo: infatti dopo il trapianto non si può più effettuare la chemioterapia (cosa grave nel caso in cui la leucemia sia recidiva). Al trapianto si arriva in terza/quarta battuta.

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POLICITEMIE E POLIGLOBULIE Le policitemie e le poliglobulie sono condizioni patologiche caratterizzate da:

- aumento degli eritrociti; - aumento dell’emoglobina; - aumento dell’ematocrito.

In genere, il termine policitemia è usato per definire il morbo di Vaquez, mentre il termine poliglobulia è usato per tutte le patologie in cui l’aumento di eritrociti non è dovuto ad una abnorme produzione midollare (cosa che si verifica nella policitemia). Policitemia La policitemia è una patologia relativamente rara, prevalentemente dell’età adulta (dopo i 50 anni), caratterizzata da iperproliferazione delle 3 serie cellulari midollari, con eritrocitosi (più spiccata), leucocitosi e piastrinosi. Studi recenti hanno dimostrato che si tratta della proliferazione neoplastica clonale di una cellula emopoietica pluripotente. Queste cellule tumorali derivanti dalla staminale progredirebbero verso gli stadi maturi, non come nelle leucemie, in cui c'è un blocco negli stadi immaturi. Segni tipici sono:

- astenia, cefalea, vertigini; - colorito rosso porpora al viso ed alle mani, associato a prurito; - aumento degli eritrociti (primario, non dovuto a aumento dell’eritropoietina), dell’emoglobina,

dell’ematocrito; - splenomegalia.

I rischi del paziente sono quindi associati alla maggiore viscosità del sangue. Poliglobulia assoluta La poliglobulia assoluta è una patologia secondaria a ipossia tissutale dovuta a malattie croniche polmonari, emoglobinopatie, riduzione della ventilazione alveolare, lunghi soggiorni a grandi altezze (altitudine). È un caso fisiologico, non patologico (una sorta di adattamento dell'organismo). Poliglobulia falsa La poliglobulia falsa è una patologia causata dalle classiche condizioni in cui il volume plasmatico è ridotto (shock, ustioni severe, diarree profuse). Per questo motivo è detta falsa, in quanto non dovuta ad un aumento primario delle cellule emopoietiche o dell’eritropoietina. Particolare è la poliglobulia da stress (sindrome di Gaisbock) che si accompagna ad ipertensione. Anche qui la poliglobulia è dovuta solo alla diminuzione del volume plasmatico.

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LINFOMI Il linfoma è una neoplasia primaria delle cellule linfoidi, più precisamente un gruppo eterogeneo di tumori maligni che coinvolgono i linfonodi e l'apparato linfoghiandolare in genere, comprendente anche linfociti B, linfociti T e relativi precursori. Erroneamente, per la presenza di alcune espressioni cellulari e fenotipiche affini, si tende a confondere il linfoma con la leucemia; in realtà, mentre la leucemia è un tumore del midollo osseo in cui le cellule maligne non si localizzano in un particolare locus, il linfoma prevede la localizzazione della massa tumorale in una precisa area linfoide (generalmente si presenta in un dato tessuto linfatico periferico). I linfomi registrano un'incidenza molto elevata, tant'è che si configurano tra i tumori maligni più frequenti su scala mondiale: non solo rappresentano il 5% delle neoplasie maligne, ma costituiscono anche la quinta causa di decesso per cancro. Purtroppo, per il 70% dei linfomi la causa scatenante è sconosciuta; per il rimanente 30%, i linfomi possono essere favoriti da immunodeficienza (ad esempio, associata ad HIV o in seguito ad un trapianto d'organo), malattie autoimmuni (ad esempio, artrite reumatoide) ed infezioni batteriche (Helicobacter pilory) e virali (virus di Epstein-Barr che provoca il linfoma di Burkitt). Anche altri tumori possono innescare i linfomi, così come le radiazioni e le sostanze chimiche in generale (correlate alle neoplasie solamente nell'1% dei casi). Un esempio di linfoma è quello alla milza, tumore che si manifesta prevalentemente negli anziani, è molto difficile da diagnosticare ed il più delle volte viene sottostimato; di norma, il linfoma alla milza è correlato a piastrinopenia (quantità di piastrine circolanti inferiore a 150.000/mm3), linfocitosi anemica (linfocitosi associata ad anemia), splenomegalia e predisposizione genetica. Nella WHO Classification, l'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) affina il lavoro eseguito precedentemente da REAL (acronimo di Revised European-American Lymphoma), e classifica i linfomi in 5 grandi categorie, ognuna delle quali risulta costituita da svariate sottoclassi: - Linfoma dei precursori dei linfociti B (leucemia dei precursori B); - Linfoma dei linfociti B maturi (tra cui il linfoma follicolare, mantellare, cutaneo e il linfoma di Burkitt); - Linfoma dei precursori dei linfociti T (leucemia dei precursori T); - Linfoma dei linfociti T e NK maturi (tra cui, leucemia a grandi linfociti T granulari, papulosi linfomatoide,

sindrome di Sézary); - Linfoma di Hodgkin (a prevalenza linfocitaria nodulare e classico, con i sottotipi sclerosi nodulare,

deplezione dei linfociti, cellularità mista e ricco di linfociti). Ai tumori delle prime 4 categorie ci si riferisce quotidianamente come linfomi non Hodgkin. Questa classificazione dei linfomi è l'ultima, aggiornata nel 2008. Prima di allora, i linfomi erano suddivisi in base alla pericolosità, ripartizione complessa poiché si avvaleva di principi relativamente soggettivi: un linfoma poteva esplodere nelle sue manifestazioni in modo più o meno aggressivo in base al soggetto. Le catalogazioni precedenti non erano dunque chiare, e provocavano confusione poiché i criteri di riconoscimento delle diverse neoplasie erano dubbi e non definiti. L'attuale classificazione dei linfomi, invece, basata su parametri cellulari, morfologici, anatomici ed istologici, appare indiscutibile. Un'ulteriore classificazione dei linfomi è realizzata in base al decorso clinico: si distinguono i linfomi dolenti e aggressivi da quelli indolenti. I linfoidi dolenti e aggressivi presentano un decorso rapido con un immediato indebolimento dello stato di salute della persona affetta. Se non vengono curati tempestivamente conducono alla morte. Fortunatamente, se diagnosticato in tempo, il linfoma aggressivo può guarire definitivamente (ad esempio, la maggior parte dei linfomi che interessano i linfociti T). I linfomi indolenti, invece, si manifestano senza comportare lesioni gravi a livello dell'organismo, tanto che i soggetti affetti potrebbero non accorgersi della neoplasia anche per alcuni anni (ad esempio, neoplasie dei linfociti B). Le neoplasie non aggressive, seppur tali, presentano una difficile e complessa terapia risolutiva, ed il paziente difficilmente riesce a guarire del tutto.

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Il quadro clinico-patologico del linfoma presenta un decorso pressoché standardizzato: - Stadio I, in cui vi è l’interessamento di una sola regione linfonodale o di un solo organo o di un sito extranodale; - Stadio II, in cui vi è l’interessamento di 2 o più regioni linfonodali dallo stesso lato del diaframma (sopra o sotto); - Stadio III, in cui vi è l’interessamento di 2 o più distretti linfonodali da entrambi i lati del diaframma, inoltre vi può essere anche interessamento della milza; - Stadio IV, in cui vi è l’interessamento disseminato di uno o più organi. La localizzazione midollare definisce sempre uno stadio IV. I sintomi che fungono da campanello d'allarme per il soggetto affetto possono essere molteplici in base al linfoma e alla variabilità degli aspetti clinici: consistente ed inspiegabile diminuzione del peso corporeo in pochi mesi, sudorazione eccessiva e sovrabbondante durante la notte, febbre superiore ai 38°C. I linfomi possono essere curati mediante radioterapia, chemioterapia oppure entrambe: grazie a questi trattamenti, affinati negli ultimi anni, le possibilità di sopravvivenza sono decisamente aumentate. Tuttavia, gli effetti collaterali che derivano dalle terapie suddette possono essere anche molto spiacevoli e determinare, per esempio, la sterilità. La medicina, comunque, sta studiando metodi innovativi più precisi, atti a sconfiggere solo le cellule maligne, senza intaccare quelle sane, allo scopo di creare meno effetti collaterali possibili. Alcune ricerche per sconfiggere i linfomi stanno perfezionando metodiche d'immunoterapia: si tratta di sostanze biologiche in grado di stimolare il sistema immunitario dell'organismo per la sola distruzione delle cellule colpite da linfoma.

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ANEMIE Con il termine anemia si definisce la diminuzione della quantità totale di emoglobina. La formazione dell'emoglobina avviene nel midollo osseo simultaneamente a quella degli eritrociti immaturi. In un globulo rosso vi sono 350 milioni di molecole di emoglobina e ognuna trasporta 4 molecole di O2. I valori normali sono 14-18 g/dl per l'uomo e 12-16 g/dl per le donne. Questo significa che nel caso di anemia per l’uomo avremo livelli di emoglobina inferiori a 13 g/dl, per la donna avremo livelli di emoglobina inferiori ai 12 g/dl. In base al livello di emoglobina viene definito il grado di anemia:

- anemia lieve: emoglobina più bassa del normale, ma maggiore di 10 g/dl; - anemia moderata: emoglobina minore di 10 g/dl, ma maggiore di 8 g/dl; - anemia grave: emoglobina minore di 8 g/dl.

Le anemie sono spesso accompagnate da una riduzione del numero di globuli rossi: esistono anemie microcitiche (da deficit di ferro, ad esempio) in cui i globuli rossi sono normali come numero. In altri casi i globuli rossi sono addirittura aumentati (β talassemie, ad esempio). I segni e i sintomi principali prevedono pallore, astenia, debolezza, crampi, mal di testa, dolore muscolare, tachicardia, dispnea da sforzo, facile irritabilità, insonnia, disturbi da diminuita ossigenazione e dolore precordiale di tipo anginoso (dolore costrittivo-gravativo al cuore con un senso di oppressione). I valori diagnostici di anemia sono dati dal valore dell’ematocrito, dalla concentrazione dell’emoglobina nel sangue e dal numero dei globuli rossi. Il primo esame che si fa è l'emocromo per valutare la parte corpuscolata del sangue e il suo rapporto con la parte liquida. Esso ci informa sulla:

- quantità degli eritrociti e la loro dimensione, forma e contenuto di emoglobina; - quantità totale e vari tipi di globuli bianchi o leucociti; - quantità delle piastrine.

I valori principali che vengono fuori con questo esame sono:

MCH (contenuto cellulare medio di emoglobina);

MCHC (concentrazione cellulare media di emoglobina);

RDW (coefficiente di variazione di volume dei globuli rossi);

MCV (volume corpuscolare medio). Questo parametro ci dice se i globuli rossi sono normali, troppo grandi oppure troppo piccoli. Valori alti sono dovuti ad alcolismo, anemia megaloblastica, enteriti, metastasi, sferocitosi. Valori bassi sono dovuti ad anemia ferro-priva, morbo di Cooley, talassemia, tumori maligni.

HCT (ematocrito), che misura la percentuale dei globuli rossi rispetto alla frazione liquida del sangue. Valori superiori sono dovuti ad alcolismo, diabete, policitemia, poliglobulia, uso di diuretici, ustioni, vomito, disidratazione. Valori inferiori sono dovuti ad anemie, carenza di ferro, carenza di vitamina B12, cirrosi epatica, leucemie, tumori maligni.

CLASSIFICAZIONE DELLE ANEMIE Una classificazione su base fisiopatologica delle anemie è la seguente: 1. Anemie dovute a difetti di maturazione degli eritrociti.

- Anemie da carenza di ferro. - Anemie megaloblastiche. - Anemie sideroblastiche.

2. Anemie da disordini genetici della maturazione degli eritrociti. - Talassemie. - Anemia sideroblastica congenita. - Anemia diseritropoietica congenita.

3. Anemie dovute a difetti della proliferazione dei precursori degli eritrociti. - Anemie aplastiche.

4. Anemie emolitiche.

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VALORI ESAMI DEL SANGUE Sideremia: quantità di ferro nel sangue non legato a proteine di trasporto (valori normali 50-160 μg/dl). Transferrina (valori normali 200-360 mg/dl). Ferritina: proteina di deposito del ferro (valori normali 20-200 μg/dl). Emocromo: valori normali maschio-femmina sono:

Maschio Femmina

Ematocrito 40-54% 38-47%

Emoglobina 14-18 g/dl 12-16 g/dl

Eritrociti/μl 4-6 milioni 4-5 milioni

Leucociti/μl 4000-10000 per mm3 di cui: basofili 0,1-2% eosinofili 1-6%

neutrofili 40-75% linfociti 20-50% monociti 2-8%

Piastrine/μl 150000-400000 per mm3

ANEMIE DOVUTE A DIFETTI DELLA MATURAZIONE DEGLI ERITROCITI Anemie ferroprive Il deficit di ferro è la causa più frequente di anemia. Nel periodo neonatale (anemie ipocromiche ferroprive del lattante) l'eziologia è da ricercarsi in un difetto di apporto in seguito a regime latteo prolungato/frequente, in una nascita prima del termine, in emorragie neonatali o in carenze di ferro della madre. Nella prima adolescenza l'anemia ferropriva è la conseguenza di una maggior richiesta in rapporto alla crescita corporea. Nell’adulto le cause possono essere un eccesso di perdita, per lo più dovuta a sanguinamento cronico (per lo più a livello digestivo o genitale) oppure una carenza di apporto (in genere per difetti di assorbimento). La carenza di ferro blocca l’eritropoiesi: inizialmente si sfruttano le riserve di ferro ma, quando queste si esauriscono, si determina una riduzione del tasso di ferro sierico, un aumento della transferrina plasmatica e una riduzione della ferritina plasmatica. L'anemia, inizialmente, può essere normocromica, ma, una volta che si instaura un deficit severo del ferro, viene interessata l'eritropoiesi, l'anemia diventa ipocromica e compare la microcitosi. Anemie megaloblastiche Le anemie megaloblastiche sono di solito causate da deficit di vitamina B12 o di acido folico. Questa carenza determina un difetto primitivo nel metabolismo del DNA e quindi nella proliferazione e nella maturazione cellulare. L'effetto è più evidente nei tessuti in attiva proliferazione: midollo osseo, epiteli e gonadi. Il principale effetto sul sistema emopoietico è la produzione di eritrociti di forma anomala (eritropoiesi megaloblastica) che porta ad un tipo di anemia in cui i globuli rossi sono più grandi (macrociti). L'alterazione del metabolismo del DNA si riflette anche nella maturazione dei globuli bianchi e delle piastrine. La causa maggiore dell'anemia è la maturazione abnorme e la distruzione intramidollare dei precursori eritrocitari. L'eritropoiesi totale del midollo è aumentata fino a tre volte la norma, ma l'effettiva produzione di eritrociti è inferiore. Poiché i globuli rossi che passano nel sangue periferico non sopravvivono a lungo, si instaura il quadro di un'anemia severa. Con appropriato trattamento con acido folico o vitamina B12 c'è un rapido ritorno all'eritropoiesi normoblastica. Il deficit della B12 (che causa il quadro clinico di anemia megaloblastica noto come anemia perniciosa) è dovuto ad atrofia della mucosa gastrica che determina un deficit di fattore intrinseco. Nell'anemia perniciosa vi è anche una specifica sindrome neurologica dovuta ad un processo degenerativo del midollo spinale caratterizzato da lesioni degenerative delle colonne laterali e dorsali. Il deficit di acido folico può essere dovuto ad un ridotto apporto (per una dieta povera in frutta o verdura), per un ridotto assorbimento (per malattie che coinvolgono il digiuno come il morbo celiaco) o per un aumentato fabbisogno (come accade in gravidanza). Questo deficit produce un'anemia macrocitica con emopoiesi megaloblastica identica a quella che si ha con la carenza di vitamina B12.

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Gli effetti sulla mucosa gastrointestinale e sulla pelle sono identici nei due deficit, ma la carenza di acido folico di rado produce sintomi neurologici. Anemie sideroblastiche Molti precursori di eritrociti normali (sideroblasti) contengono granuli di ferro nel loro citoplasma. Vi sono alcuni tipi di anemie in cui vi è un accumulo patologico di ferro in queste cellule, distribuito a modo di anello o "collare" intorno al nucleo: sono i sideroblasti ad anello. Si tratta di un gruppo eterogeneo di disordini noti come anemie sideroblastiche: il ferro è presente nei mitocondri, che sono danneggiati ed alterati nella loro struttura. Esistono forme congenite, molto rare, legate al cromosoma X, e forme acquisite primarie (idiopatiche) e secondarie (per l’assunzione di farmaci o sostanze tossiche). Frequentemente in questi pazienti vi sono due popolazioni cellulari, una normocromica e l'altra ipocromica. ANEMIE DA DISORDINI GENETICI DELLA MATURAZIONE DEGLI ERITROCITI Talassemie L'emoglobina dell'adulto è un tetramero caratterizzato da 2 catene α e 2 catene β. I geni per le catene α sono localizzati sul cromosoma 16: ci sono 2 copie di geni per genoma aploide, dunque in tutto 4 copie per genoma diploide. Del gruppo α fanno parte le catene α1, α2 e ζ. I geni per le catene β sono localizzati sul cromosoma 11: c’è 1 copia per genoma aploide, dunque in tutto 2 copie. Del gruppo β fanno parte le catene β, ɣ, δ ed ε. Il tipo di emoglobina cambia a seconda dell'età del soggetto:

- Nel periodo embrionale ci sono le emoglobine ζ2ε2, ζ2ɣ2 e α2ε2. In questo periodo le catene ζ si comportano come quelle α;

- Nel periodo fetale c’è l’emoglobina α2ɣ2 (o emoglobina fetale HbF). In questo periodo comincia la sintesi delle catene β;

- Nell’adulto ci sono HbA (emoglobina normale composta da 2 catene α e 2 β), HbA2 (composta da 2 catene α e 2 δ, che cominciano a formarsi durante le ultime fasi di sviluppo fetale, i cui livelli sono sempre mantenuti molto bassi) e una piccola quota di HbF (emoglobina fetale) persistente. Nei mesi successivi alla nascita c'è uno switch tra le catene ɣ e le catene β: le prime scendono a picco, le seconde salgono.

Quando c’è una riduzione delle sintesi delle catene globiniche (difetto quantitativo) si parla di talassemie. Le talassemie sono un gruppo di anemie ereditarie (con modalità autosomica recessiva) comuni nei paesi mediterranei (si parla di anemia mediterranea) caratterizzate da una difettosa sintesi delle catene α e β. I difetti genetici che determinano tali alterazioni sono diversi: delezioni o inserzioni di uno o più nucleotidi con uno spostamento della cornice di lettura; anomalie nello splicing; mutazioni nel segnale di poliadenilazione; interruzione prematura (per mutazioni non senso). Ne esistono 2 forme:

α-talassemia, causata da un difetto di produzione di catene α (sintesi ridotta o assente) e un eccesso di catene β, le quali non sanno con chi associarsi in quanto nell'adulto non vengono sintetizzate catene α-simili (presenti invece nell'embrione). L'eccesso di catene β può portare alla formazione:

- nell'adulto di emoglobina H (formata da 4 catene β), non funzionale; - nel neonato di emoglobina di Bart (formata da 4 catene ɣ).

Il midollo presenta iperplasia eritroide e l'anemia è dovuta al fatto che queste emoglobine sono instabili e causano emolisi marcata. Vi sono 4 condizioni cliniche a seconda dei geni mutati:

- portatore silente di α-talassemia (3 geni sani e 1 mutato); - portatore classico (2 geni sani e 2 mutati), per cui alla nascita sono presenti quantità notevoli

di emoglobina di Bart e nell'adulto porta microcitosi e riduzione del contenuto medio di emoglobina (MCH);

- malattia da emoglobina H (3 geni su 4 sono mutati), caratterizzata da anemia ipocromica e microcitica e splenomegalia (occorre una continua sorveglianza e una terapia antibiotica per combattere le infezioni ricorrenti);

- idrope fetale (4 geni su 4 mutati), situazione poco compatibile con la vita che causa aborto. Contrariamente alle β-talassemie, in genere le trasfusioni non sono necessarie, anche se in alcuni casi (complicanze o gravidanza) sono indispensabili. L'eccezione è però rappresentata dall'idrope fetale, in cui i neonati trasfusi in maniera regolare sin dalla nascita hanno la stessa sopravvivenza di pazienti affetti da β-talassemia major.

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β-talassemia, causata da un difetto di produzione di catene β e dunque da un eccesso di catene α (che si possono associare alle catene ɣ o δ, determinando un incremento della percentuale relativa di emoglobina fetale HbF ed HbA2). A seconda della gravità della mutazione, esistono 2 tipi di β-talassemie:

- talassemia minor (tratto talassemico), eterozigote (alleli β+ e β0). È quasi asintomatica, c'è una lieve anemia e policitemia, i globuli rossi sono leggermente più piccoli rispetto al normale (anemia microcitica). Un soggetto eterozigote, sotto stress fisico, diventa anemico. È l'anemia più frequente in Italia. Nell'elettroforesi dell’emoglobina si osserva un aumento di HbA2 che può rappresentare dal 4 all'8% dell'emoglobina totale. I livelli di emoglobina fetale possono essere normali o leggermente aumentati. L'importanza di differenziare il tratto talassemico dall'anemia sideropenica dipende dal fatto che, mentre quest'ultima trae beneficio dalla somministrazione di ferro, la prima può esserne peggiorata. La distinzione può essere fatta valutando il dosaggio del ferro sierico, la capacità totale di legare il ferro e la ferritina sierica;

- talassemia major (morbo di Cooley), omozigote. È più grave rispetto alla talassemia minor ed il quadro clinico è più severo. È un'anemia marcatamente ipocromica e microcitica. Le catene α in eccesso possono precipitare all'interno del globulo rosso danneggiandolo, inducendo emolisi periferica. I globuli rossi danneggiati devono essere eliminati dalla milza, dunque il soggetto malato ha splenomegalia e ciò induce un aggravamento dell'anemia. Se c’è emolisi, il midollo tenta in ogni modo di creare nuova emoglobina e il ferro viene consumato di più (c'è carenza di ferro). Inoltre l'HbF sottrae parte delle catene α alla precipitazione, ma ha una maggiore affinità per l'ossigeno rispetto all'HbA e questo produce ipossia tissutale e aumento di produzione dell'eritropoietina. A livello midollare si osserva una iperplasia midollare per compensare la produzione di globuli rossi piccoli. Dunque sono caratterizzate da policitemia (i globuli rossi aumentano, ma sono vuoti, immaturi, in quanto non contengono abbastanza emoglobina per trasportare l'ossigeno). È una grave anemia dell'età pediatrica (0-6 mesi, quando si verifica lo switch ɣ-β). Il quadro ematologico prevede:

Emoglobina 4-6 g/dl; Globuli rossi 2 milioni per mm3; Anisopoichilocitosi (riscontro nello striscio di sangue periferico di globuli rossi dalla

forma e volume variabili - dacriocita, eritrocita a forma di lacrima); HbF al 70-90%; HbA2 superiore a 3-5%;

I sintomi clinici sono pallore, febbricola, irritabilità, turbe dell'alvo, infezioni ricorrenti ed epatosplenomegalia. La terapia è trasfusionale (ogni 20 giorni). La necessità delle trasfusioni può portare ad un sovraccarico di ferro, che si può accumulare in alcuni organi tra cui fegato e cuore: i pazienti devono essere sottoposti a terapia con dei chelanti del ferro per via endovenosa o per via orale.

La β-talassemia ed anche l’α-talassemia sono esempi di emoglobinopatie che possono rientrare nelle anemie emolitiche (come l'anemia falciforme in omozigosi). L'evento eziopatologico per le β-talassemie è un'alterata sintesi emoglobinica, mentre per l’anemia falciforme è un'alterazione di sequenza. ANEMIE DOVUTE AD ALTERAZIONI DELLA PROLIFERAZIONE DEI PRECURSORI DEGLI ERITROCITI A questo gruppo appartengono le anemie ipoplastiche ed aplastiche. Esse si possono classificare in:

a) Anemie aplastiche o ipoplastiche associate ad alterazioni del midollo osseo con coinvolgimento della serie bianca e delle piastrine.

- Anemia aplastica congenita o anemia di Fanconi. - Anemia aplastica acquisita. b) Aplasie o ipoplasie degli eritrociti. - Forma congenita o anemia di Diamond- Blackfan. - Forme acquisite primarie.

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Anemia aplastica L’anemia aplastica è caratterizzata da una riduzione di tutti gli elementi figurati del sangue per cui è anche definita pancitopenia. Viene distinta in una forma congenita ed in una acquisita. L'anemia aplastica o ipoplastica congenita o anemia di Fanconi è una forma rara. Sebbene sembri essere dovuta ad un difetto ereditario della proliferazione cellulare, spesso si manifesta solo nell'adolescenza. È caratterizzata da una pancitopenia associata ad anomalie congenite quali un difetto di pigmentazione cutanea, ipoplasia renale, difetti ossei (compresa la mancanza del radio) e microcefalia. L'alterazione di base risiede nei meccanismi di riparazione del DNA. L'anemia aplastica acquisita è idiopatica quando non si riesce a risalire alla sua causa. Le forme secondarie riconoscono svariate cause: possono essere dovute a farmaci (o perché vi è ipersensibilità individuale verso di essi e dunque agiscono anche a piccole dosi, o perché somministrati ad alte dosi), virus (virus dell'epatite) o radiazioni ionizzanti (che esercitano il loro effetto sui tessuti in attiva proliferazione come il midollo, provocandone distruzione ad alte dosi). Ipoplasie ed aplasie degli eritrociti (anemia di Blackfan-Diamond) L’anemia di Blackfan-Diamond è un'anemia forse su base autoimmunitaria caratterizzata da marcata riduzione o completa assenza dei precursori degli eritrociti, con normale numero di bianchi e piastrine. Nelle forme familiari, la modalità di trasmissione è autosomica dominante e sono stati individuati finora 6 geni responsabili, tutti codificanti per proteine strutturali del ribosoma (dove avviene la sintesi delle proteine). Nel 50% dei pazienti, però, il difetto genetico non è ancora stato individuato. I pazienti richiedono, per sopravvivere all'anemia che si manifesta alla nascita, trasfusioni continue. Alcuni rispondono bene ai corticosteroidi e agli androgeni spesso con totale remissione della malattia. L'incremento dell'enzima adenosina deaminasi eritrocitaria è un parametro biochimico tipico di questa anemia e può essere rilevato con un semplice esame del sangue. L’aplasia eritrocitaria selettiva acquisita è rara. Può essere acuta, di solito secondaria ad infezioni virali, o cronica (in associazione a tumori del timo o in pazienti con lupus eritematoso sistemico). Le anemie iporigenerative sono causate da un’insufficiente produzione midollare con ridotto numero di reticolociti per diminuzione dei precursori eritropoietici. ANEMIE EMOLITICHE Le anemie emolitiche sono caratterizzate da:

- accorciamento della vita media degli eritrociti e dunque prematura distruzione dei globuli rossi; - accumulo di prodotti del catabolismo dell'emoglobina; - aumento dell'eritropoiesi nel midollo osseo, nel tentativo di compensare la perdita di emazie.

L'emolisi può verificarsi: - intravascolarmente, a livello delle cellule danneggiate (il complemento si fissa ad esse); - extravascolarmente, a livello del sistema mononucleato-macrofagico, che può verificarsi quando i

globuli rossi sono danneggiati o resi estranei dall'organismo e perdono la loro plasticità (sferocitosi ereditaria o anemia falciforme).

Nell'emolisi intravascolare, si ha emoglobinemia (anormale presenza di emoglobina in circolo). L'emoglobina liberata in circolo si lega all'aptoglobina, formando un complesso che viene eliminato dal sistema reticolo-endoteliale (la diminuzione del livello sierico di aptoglobina è un indice caratteristico di emolisi intravascolare). Se viene superata la capacità plasmatica di legare l'emoglobina, questa compare nel plasma in forma libera ed è rapidamente ossidata a metaemoglobina: sia l'emoglobina che la metaemoglobina vengono escrete attraverso il rene conferendo un colore rosso-bruno alle urine (emoglobinuria). Le cellule dei tubuli renali prossimali possono riassorbire e catabolizzare molta della emoglobina filtrata, ma una parte passa nelle urine. Il ferro che viene liberato dall'emoglobina può accumularsi all'interno delle cellule tubulari, dando luogo ad emosiderosi dell'epitelio dei tubuli renali. Quanto ai gruppi eme, circa l'80% dell'eme liberato dall'emoglobina è convertito a bilirubina, causando ittero. Nelle anemie emolitiche la bilirubina sierica non è coniugata. Nell'emolisi extravascolare non compaiono emoglobinemia ed emoglobinuria. Tuttavia, il catabolismo degli eritrociti nelle cellule fagocitarie può dare luogo ad anemia ed ittero indistinguibili da quelli causati da

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un'emolisi intravascolare. Inoltre, una certa quota di emoglobina riesce a sfuggire alle cellule fagocitarie e quindi i livelli plasmatici di aptoglobina subiscono una riduzione. Alcune alterazioni morfologiche sono caratteristiche delle anemie emolitiche causate sia da meccanismi intra che extravascolari: l'anemia e la ridotta tensione di ossigeno tissutale stimolano un incremento della produzione di eritropoietina che conduce ad un notevole aumento del numero di normoblasti nel midollo. L'accelerata eritropoiesi compensatoria porta a una marcata reticolocitosi nel sangue periferico. Gli elevati livelli di bilirubina, quando questa è eliminata attraverso il fegato, promuovono la formazione di calcoli pigmentari. Con il passare del tempo, i globuli rossi fagocitati o l'emoglobina possono causare emosiderosi. Classificazione delle anemie emolitiche Le cause di un'aumentata velocità di distruzione degli eritrociti sono spesso monofattoriali e nessuna classificazione è completamente soddisfacente. Si usa dividerle in:

- Anemie emolitiche congenite (dovute ad alterazioni genetiche che interessano la membrana o le vie metaboliche che producono energia o l'emoglobina);

- Anemie emolitiche acquisite (da alterazioni sia della membrana che del metabolismo). Anemie emolitiche congenite Si possono dividere in 3 gruppi:

a) Anemie emolitiche da deficit enzimatici che causano un'anomalia del metabolismo energetico; b) Emoglobinopatie; c) Anemie emolitiche da alterazioni della membrana eritrocitaria.

Anemie emolitiche da deficit enzimatici Gli enzimi i cui deficit possono essere associati ad anemia emolitica sono enzimi dello shunt degli esosomonofosfati e del metabolismo del glutatione (glucosio-6-fosfato deidrogenasi), enzimi della glicolisi (piruvato chinasi) ed enzimi del metabolismo dei nucleotidi (adenilato chinasi e pirimidina 5'-nucleotidasi). Il deficit della glucosio-6-fosfato deidrogenasi (G-6-PD) è un carattere patologico legato al cromosoma X: la sua carenza lascia gli eritrociti poco protetti contro gli agenti ossidanti. Questo enzima riduce il NADP+ a NADPH ossidando il glucosio 6-P. Il NADPH fornisce il potere riducente che converte il glutatione ossidato in glutatione ridotto, che protegge contro il danno ossidativo catalizzando la distruzione di composti ossidanti come l'H2O2. Il deficit di glucosio 6-P deidrogenasi si manifesta in seguito all'esposizione ad un agente ossidante, come farmaci o a radicali liberi prodotti nel corso di infezioni. L’infezione o l'esposizione all'agente ossidante provoca l'ossidazione dei gruppi sulfidrilici delle catene globiniche, che porta alla denaturazione dell'emoglobina ed alla formazione di precipitati (corpi di Heinz): essi possono danneggiare la membrana e, aderendo ad essa, diminuire la deformabilità degli eritrociti. L'insieme di queste modificazioni predispone i globuli rossi al sequestro nei cordoni splenici e alla distruzione per eritrofagocitosi. Il deficit di piruvato chinasi si eredita come tratto autosomico recessivo e determina un'inefficiente produzione di ATP da parte degli eritrociti maturi. La marcata riduzione dell'ATP è una delle maggiori cause di accorciamento della vita media degli eritrociti. Infatti, essa determina un deficit funzionale della pompa Na+/K+ con la perdita di potassio che supera l'entrata del sodio. Si ha una diminuzione della pressione osmotica intracellulare con perdita di acqua, riduzione del volume eritrocitario e prematura distruzione nella milza. Emoglobinopatie L’emoglobinopatia più importante è la drepanocitosi o anemia falciforme. L’anemia falciforme è caratterizzata da un difetto qualitativo dell’emoglobina che comporta un difetto funzionale: l’emoglobina presente in questi pazienti è detta HbS e presenta la sostituzione della valina con l’acido glutammico in posizione 6 della catena β dell’emoglobina. La forma deossigenata di questa emoglobina precipita sotto forma di cristalli detti tattoidi. Il termine falciforme si riferisce alla forma che gli eritrociti assumono nei capillari in cui la pressione di ossigeno è bassa. La trasformazione falcemica avviene infatti solo a bassa pressione di ossigeno, perifericamente, ed è reversibile: allo stato deossigenato l’HbS è meno solubile dell’HbA e l’emoglobina polimerizza creando i tipici globuli rossi falciformi. Con l’aumento dei globuli rossi falciformi, aumenta la viscosità del sangue e la circolazione è conseguentemente rallentata con aumentata captazione di ossigeno da parte dei tessuti. Anche se il globulo rosso falciforme riassume un aspetto normale una volta riossigenato,

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esso è molto più fragile e tende ad emolisi: in questi pazienti è presente emolisi continua e diminuzione del tempo di sopravvivenza degli eritrociti. I pazienti omozigoti presentano una grave anemia emolitica cronica. I segni e sintomi prevedono disturbi generali e comuni a tutti i tipi di anemie: cefalea, affaticamento, tachicardia, pallore, crampi notturni. Inoltre ci sono lesioni della cute e annessi cutanei, lesioni alle mucose del cavo orale e atrofia della mucosa vaginale. Emoglobine instabili Le emoglobine instabili sono disordini rari dovuti alla sostituzione di aminoacidi nella regione della tasca dell'eme o in aree critiche che causano distorsione della molecola. In alcuni casi queste varianti di emoglobina sono il risultato della delezione di uno o più aminoacidi, con produzione di una catena globinica instabile che tende a precipitare negli eritrociti con formazione di inclusioni rigide (corpi di Heinz). Questo causa danno alla membrana. Anemie emolitiche da alterazioni della membrana eritrocitaria Se un globulo rosso deve sopravvivere nella circolazione, è necessario che sia in grado di conservare la sua forma e la permeabilità, ma al tempo stesso che sia plastico quando attraversa il microcircolo. La plasticità delle cellule dipende soprattutto dal rapporto superficie/volume che, a sua volta, dipende dall'integrità della membrana. Un esempio di alterazione della membrana è rappresentato dalla sferocitosi ereditaria, una malattia a trasmissione autosomica dominante. A causa di un difetto genetico della membrana, non ancora chiarito, determina alcune anomalie:

- aumento della permeabilità al sodio con aumento della velocità della glicolisi, che deve fornire maggior energia per pompare l'eccesso di sodio fuori dalla cellula;

- alterazione della normale composizione lipidica della membrana; - modificazione del citoscheletro dovuta ad una alterata interazione spettrina-proteina 4.1 per un

difetto a livello della spettrina. La conseguenza è un citoscheletro friabile ed un'instabilità della membrana.

Tali alterazioni determinano eritrociti sferici, meno deformabili e più facilmente soggetti a sequestro splenico con successiva distruzione. Il dato morfologico più rilevante di questa malattia è la forma sferica dei globuli rossi insieme alla splenomegalia, che si verifica per la congestione dei cordoni di Billroth che gli sferociti hanno difficoltà a lasciare, a causa della loro forma sferoidale e della ridotta plasticità di membrana. Anemie emolitiche acquisite Le anemie emolitiche acquisite possono classificarsi in anemie emolitiche su base immunitaria e non. Anemie emolitiche su base immunitaria Le anemie emolitiche su base immunitaria sono caratterizzate dalla distruzione degli eritrociti dovuta ad anticorpi. Si distinguono:

- anticorpi caldi, IgG 7S con una temperatura ottimale a 37°C. Non agglutinano gli eritrociti e di solito non fissano né attivano il complemento. Sono perciò classificati come anticorpi incompleti;

- anticorpi freddi, IgM 19S con una temperatura ottimale a 4°C. Sono classificati come completi, cioè causano agglutinazione e attivano il complemento.

La presenza di anticorpi antieritrocitari può essere individuata con il test di Coombs, utilizzato per rilevare la presenza di anticorpi fissati sulla superficie dei globuli rossi (test diretto) oppure di anticorpi liberi nel siero (test indiretto). Questo tipo di anemie si dividono in:

- anemie emolitiche da isoanticorpi (malattia emolitica del neonato), un gruppo di condizioni patologiche che sono la conseguenza del passaggio transplacentare di anticorpi materni diretti verso antigeni eritrocitari fetali nel sangue del feto con distruzione degli eritrociti durante la vita fetale;

- anemie emolitiche da trasfusioni con sangue incompatibile; - anemie emolitiche autoimmuni, caratterizzate dalla produzione di autoanticorpi diretti contro

antigeni della membrana eritrocitaria con conseguente riduzione della sopravvivenza dei globuli rossi. Possono essere distinte in anemie da anticorpi freddi, indotte dalla presenza di IgM che reagiscono meglio con i determinanti eritrocitari a bassa temperatura, e da anticorpi caldi, indotte dalla presenza di IgG che interagiscono con la membrana eritrocitaria a temperatura corporea.

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Anemie emolitiche non immuni acquisite Gli eritrociti possono essere prematuramente distrutti attraverso l'azione di stress meccanici, agenti chimici, infezioni o per alterazioni acquisite della membrana. La membrana degli eritrociti può essere alterata nell'emoglobinuria parossistica notturna (EPN): la membrana è più sensibile alla lisi da parte del complemento, che è più attivo ai valori bassi di pH che si raggiungono durante la notte. La malattia sembra dovuta ad un'alterazione acquisita di un clone di cellule staminali totipotenti.

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EMOSTASI - MALATTIE DEL SANGUE L'emostasi è un meccanismo che serve a creare un equilibrio: mantiene nei vasi il sangue non coagulato in uno stato fluido, e induce la formazione di un coagulo, dove sia presente un danno vascolare (intrinseco o estrinseco all’organismo). Il processo emostatico è:

- localizzato (dove c’è necessità); - molto veloce sia nella formazione del coagulo per evitare la fuoriuscita del sangue dai vasi, sia

nell’eliminazione del coagulo quando non serve più; - ben definito.

È un sistema di equilibro dinamico che fa in modo che non avvengano emorragie e trombosi o che avvengano il meno possibile. I componenti principali dell'emostasi sono:

- vasi (in particolare l'endotelio); - piastrine (derivano dai megacariociti che a loro volta derivano dai megacarioblasti, sono le prime

componenti cellulari che possono opporre una barriera solida ad un eventuale danno vascolare quindi formare il primo tappo se c’è un danno. Il tappo si chiama trombo piastrinico);

- fattori di coagulazione (stabilizzano il coagulo creato dal primo tappo piastrinico. Il coagulo è più stabile quando le piastrine sono coadiuvate dai fattori della coagulazione);

- sistema fibrinolitico (taglia i ponti di fibrina in modo da disfare il coagulo quando non serve più); - sistema di controllo (inibitori ed attivatori che tamponano varie reazioni in modo da stimolare o

indurre fisiologicamente la fase coagulativa, o quella fibrinolitica quando è necessario). Alterazioni di questi livelli modificano l'equilibrio, causando patologie di tipo emorragico o trombotico. Il processo emostatico consta di 4 fasi (essendo un sistema in equilibrio è difficile categorizzare gli eventi in termini di tempo, in quanto avvengono contemporaneamente):

1. Fase vascolare. In seguito al danno si attua un riflesso iniziale di vasocostrizione, sostenuto dalla secrezione locale di fattori come l'endotelina (di derivazione endoteliale). L'effetto è transitorio. I vasi possono avere sia un ruolo antitrombotico che trombofilico. Le cellule endoteliali, cellule a diretto contatto col sangue, hanno capacità antitrombotiche, mentre le cellule muscolari e connettivali, che possono entrare in diretto contatto col sangue in seguito a un danno, hanno capacità trombofiliche. La spiegazione è ovvia: in condizioni fisiologiche, è importante che le cellule endoteliali evitino la formazione di coaguli per consentire il normale flusso sanguigno; in condizioni patologiche invece, è importante che le cellule muscolari e connettivali portino alla formazione del coagulo. Le capacità antitrombotiche sono dovute a:

- produzione di sostanze vasodilatanti (ossido nitrico, mediatore dell’infiammazione acuta, e angiotensinasi A e C, che regolano la pressione a livello vascolare);

- produzione di sostanze che riducono l’adesione piastrinica (prostacicline); - produzione di sostanze anticoagulanti (antitrombina 3, trombomodulina, proteina S,

attivatore del plasminogeno, inibitore del fattore tissutale). 2. Fase piastrinica. La lesione endoteliale espone la matrice subendoteliale (in particolare il collagene)

permettendo alle piastrine di aderire (l'aumento dell'adesione è determinato anche dal contemporaneo rilascio del fattore di Von Willebrand da parte delle cellule endoteliali), attivarsi innescando delle vie di trasduzione del segnale e quindi cambiare di forma (shape change) con l'emissione di pseudopodi (assumono una forma stellata). In seguito, le piastrine rilasciano nel sangue il contenuto dei granuli secretori che si dividono in:

- granuli α, che esprimono la molecola di adesione P-selectina sulla loro membrana e contengono fibrinogeno, fattore V e fattore VIII, PDGF, VEGF e TGFβ;

- granuli δ (o nanodensi), che contengono ioni calcio, ADP, istamina e serotonina. Il calcio non è un fattore della coagulazione perché è uno ione: tuttavia la sua presenza è necessaria affinché le reazioni della fase coagulativa avvengano velocemente. Istamina e serotonina sono 2 neurotrasmettitori nonché mediatori chimici principali dell’infiammazione acuta (quando c’è un danno vascolare infatti c’è angioflogosi).

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In seguito all’aggregazione piastrinica favorita meccanicamente dallo shape change, dal rilascio dei fattori presenti nei granuli e da alcune glicoproteine di membrana (GP2b-3a), si ha la formazione del tappo emostatico primario. Le piastrine ovviamente sono in grado di fare tutto ciò non autonomamente ma perché riconoscono una serie di recettori per macromolecole (tra cui trombina, collagene, fattore di Von Willebrand, immunoglobuline) e per sostanze a basso peso molecolare (tra cui ADP, prostacicline, trombossani, farmaci vari).

3. Fase coagulativa. Prevede l'attivazione della cascata coagulativa (13 fattori plasmatici presenti normalmente nel sangue sotto forma di zimogeni) e la formazione del definitivo tappo emostatico secondario, costituito dalla fibrina (prodotta dal fibrinogeno, fattore I, per attivazione della trombina) che mantiene coese tutte le piastrine.

4. Fase fibrinolitica. Mediante la produzione di plasmina (che deriva dalla degradazione enzimatica del suo precursore plasminogeno), avviene la scissione della fibrina e dunque l'eliminazione del coagulo.

MALATTIE EMORRAGICHE DIPENDENTI DAI FATTORI VASALI

Insufficiente o mancata costrizione del lume vasale L’insufficiente o mancata costrizione del lume vasale si verifica prevalentemente nella teleangectasia ereditaria emorragica (o malattia di Rendu-Osler), una patologia genetica rara a carattere autosomico dominante, in cui vi è l'alterazione della componente elastica di tutti i vasi. Questa ridotta elasticità porta ad eventi di ectasia, una permanente dilatazione soprattutto dei piccoli vasi. Di conseguenza, c'è una marcata o incoordinata risposta agli stimoli vasocostrittori. Un simile difetto vasomotorio è stato osservato in pazienti con diminuzione o mancanza genetica dei recettori per gli agenti vasocostrittori o anche per eccessiva liberazione locale dei loro antagonisti vasodilatatori. Anche un deficit di produzione di endotelina potrebbe essere coinvolto in una insufficiente vasocostrizione. Risposte simili a quella della teleangectasia si osservano in: - iperelastosi, abnorme presenza di elastina nella parete vasale che rende la vasocostrizione inefficace; - amiloidosi, in cui la sostanza amiloide si accumula negli spazi perivasali e rende rigida la parete.

Alterazioni della funzione della cellula endoteliale La malattia di Von Willebrand si presenta nel 95% dei casi come una malattia ereditaria autosomica dominante e riguarda l'assenza o la perdita di funzione del fattore di Von Willebrand (vWF), la proteina ponte necessaria all'adesione piastrinica. Questa proteina è prodotta quasi esclusivamente dalle cellule endoteliali e si accumula in granuli noti come corpi di Weibel-Palade: una volta secreta, essa circola nel sangue come complesso multimerico associato al fattore VIII della coagulazione, al riparo dell'attacco delle proteasi plasmatiche, soprattutto della proteina C, l'enzima più attivo sul fattore VIII. Esistono 3 principali varianti cliniche:

- il tipo I o forma classica dovuto a inefficiente sintesi di fattore di Von Willebrand da parte della cellula endoteliale ed è caratterizzato da bassi livelli plasmatici sia del fattore di Von Willebrand (non sintetizzato) sia del fattore VIII (degradato dalle proteasi);

- il tipo II può essere dovuto ad alterata polimerizzazione del fattore di Von Willebrand o al mancato legame al fattore VIII;

- il tipo III è la forma più rara, autosomica recessiva, con livelli plasmatici molto bassi o indosabili del fattore di Von Willebrand, mentre quelli del fattore VIII sono fortemente diminuiti.

La sintomatologia è dovuta a difetti dell’adesione piastrinica e della coagulazione. I sintomi appaiono molto gravi negli omozigoti, meno gravi o, a volte, inapparenti negli eterozigoti. È stata descritta anche la perdita di funzione dei recettori del fattore di Von Willebrand presenti normalmente sulle piastrine e sulle molecole della matrice extracellulare della membrana basale: in questo caso i livelli plasmatici del fattore di Von Willebrand e del fattore VIII appaiono del tutto normali.

Alterata produzione di prostaglandine e prostacicline La mancata produzione di metaboliti dell'acido arachidonico può essere dovuta ad un difetto genetico o ad una perdita di funzione di uno degli enzimi della sintesi di prostaglandine e trombossani (è frequente l'assenza di una specifica isomerasi, la prostaciclina sintetasi). Tali enzimi possono anche essere inibiti da farmaci. La sintesi di prostacicline appare diminuita nella sindrome di Moschowitz, nel diabete e nell'aterosclerosi.

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L'aumento delle prostacicline (tipico dell'insufficienza renale) può essere responsabile di manifestazioni emorragiche non facilmente spiegabili, la cui patogenesi potrebbe comprendere una forte inibizione dell'aggregazione piastrinica da parte delle prostacicline.

Alterazioni del turnover delle cellule endoteliali Fattori di crescita, ormoni a corto raggio e meccanismi locali (giunzioni comunicanti) permettono di sostituire rapidamente cellule endoteliali necrotiche o invecchiate. L'alterazione dell'equilibrio tra distruzione e riparazione delle cellule endoteliali è evidente con la formazione di petecchie, piccole emorragie sottocutanee e sottomucosali. La distruzione delle cellule endoteliali può avvenire per: - avitaminosi (scorbuto); - attivazione del complemento sulla superficie della cellula endoteliale (complessi immuni); - varie citochine come TNFα, IL-1β e IL-6, liberate dai macrofagi attivati. In particolare, TNFα ha azione necrotica sull'endotelio, grazie alla formazione di un trimero che, inserito nella membrana, produce un poro per il passaggio di ioni e acqua, ma soprattutto attiva una potente via apoptotica; - esotossine; - deficienza di fattori di crescita per l'endotelio.

Alterazioni delle altre componenti della parete vasale Si tratta di alterazioni del collagene subendoteliale: infatti, molecole abnormi di collagene non permettono l'adesione e la risposta piastrinica. Le manifestazioni emorragiche più gravi dovute a questo meccanismo si osservano nella sindrome di Elhers-Danlos e nell'osteogenesi imperfetta. Riguardano inoltre anche le alterazioni o la mancanza di recettori sulle strutture subendoteliali per il fattore di Von Willebrand e per altri fattori della coagulazione.

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MALATTIE EMORRAGICHE DIPENDENTI DALLE PIASTRINE Le malattie emorragiche dipendenti dalle piastrine si classificano in: - piastrinopenie o trombocitopenie, in cui si ha riduzione del numero di piastrine nel sangue circolante; - trombocitopatie o piastrinopatie, in cui c’è alterazione della struttura e/o della funzione delle piastrine; - trombocitosi o piastrinosi, in cui c’è aumento del numero di piastrine oltre la soglia del range di normalità (150-450 x 103/μl). Le cause possono essere genetiche o acquisite. Vi sono condizioni in cui la stessa alterazione piastrinica si può manifestare per una causa genetica, per l'azione di un agente esogeno o per il concorso di ambedue. Esiste una grandissima correlazione tra piastrinopatie e piastrinopenie: si possono trovare piastrinopenie isolate (la funzione è mantenuta ma il numero è ridotto) e più difficilmente piastrinopatie pure (la funzione è alterata ma il numero no). PIASTRINOPENIE La piastrinopenia è:

lieve, se le piastrine sono 100 - 150 x 109/l;

media, se le piastrine sono 50 - 100 x 109/l;

grave, se le piastrine sono 20-50 x 109/l. Le piastrinopenie possono essere classificate in diversi gruppi:

Da ridotta produzione di megacariociti (I gruppo) I megacariociti non vengono prodotti o ne vengono prodotti di meno. La causa è midollare. Questo può infatti verificarsi per: - aplasie midollari congenite come nell’anemia di Fanconi (malattia genetica che interessa il midollo osseo e comporta una ridotta produzione delle cellule del sangue) e nella sindrome TAR (piastrinopenia con assenza del radio). La sindrome TAR rappresenta un'associazione rara di trombocitopenia e aplasia bilaterale del radio, descritta per la prima volta nel 1929, ma definita come sindrome molto più tardi. Ricordiamo a tal proposito che la patologia genetica non è sempre congenita. - cause acquisite idiopatiche e secondarie per agenti fisici, chimici e infettivi. Questo può verificarsi a seguito di neoplasie midollari o infiltrazione neoplastica del midollo.

Da ridotta produzione di piastrine (II gruppo) Il numero di megacariociti è uguale o aumentato per compensazione. In questo gruppo rientrano il deficit di vitamina B12 o acido folico (cause acquisite, comporta anche anemia megaloblastica) e la sindrome di Wiskott-Aldrich (ereditaria). Quest’ultima è una patologia legata al cromosoma X, per questo colpisce solo pazienti di sesso maschile. Le manifestazioni principali sono: ematemesi (vomito di sangue), melena (feci di colorito scuro), emorragie cerebrali, eczema, infezioni ricorrenti fino ad arrivare alla sepsi. È classificata fra le immunodeficienze primitive combinate essendo presenti difetti a carico sia dei linfociti T che di quelli B. La sindrome di Wiskott-Aldrich deriva dalle mutazioni nel gene che codifica per la proteina WASP (Wiskott-Aldrich Syndrome Protein): tale proteina mantiene integro il citoscheletro ed è coinvolta nella trasduzione del segnale (come sia responsabile della normale funzione di linfociti e piastrine non è chiaro). In questa categoria rientra anche l’anomalia di May-Hegglin caratterizzata dalla presenza di megapiastrine (superiori a 2-4 μm): in questa patologia è alterata una miosina non muscolare, necessaria al rilascio delle piastrine dal megacariocita, ma presente anche in altre cellule extramidollari, come quelle cocleari dell'orecchio (a questa malattia si associa sordità congenita o precoce). Inoltre, in questa categoria rientra la trombocitopenia amegacariocitaria alla quale si può associare la fusione di radio e ulna quando è coinvolto un omeogene responsabile della loro morfogenesi.

Da aumentata distruzione di piastrine (III gruppo) A livello midollare c’è un aumento della produzione dei megacariociti ma una sopravvivenza piastrinica fortemente ridotta. L’emivita può essere alterata per un difetto intrinseco o estrinseco delle piastrine. Le cause di aumentata distruzione delle piastrine sono distinte in immuni e non immuni.

- Tra le immuni vanno classificate, come patologie da difetto estrinseco delle piastrine, la porpora trombocitopenica autoimmune idiopatica (o morbo di Werlhof) e le porpore trombocitopeniche da farmaci;

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- Tra le non immuni, come patologie da difetto estrinseco delle piastrine, vanno classificate i trombi di fibrina, proteasi intravascolari e anomalie della parete vasale;

- Tra le non immuni, come patologie da difetto intrinseco delle piastrine, va classificata la sindrome di Bernard-Soulier.

La porpora trombocitopenica autoimmune idiopatica (o morbo di Werlhof) è legata all’attività di immunoglobuline che si comportano come autoanticorpi e si fissano specificamente alla membrana piastrinica, riconoscendo antigeni di membrana costituiti dalla GP1b, GP2b o GP3a. I macrofagi, poi, possedendo i recettori per il frammento Fc delle immunoglobuline catturano, fagocitano e digeriscono le piastrine circolanti ricoperte dagli autoanticorpi: ciò porta alla piastrinopenia per una loro aumentata distruzione, soprattutto nella milza e nel fegato (con conseguente splenomegalia). La forma acuta del morbo di Werlhof è tipica dell'infanzia e dell'adolescenza mentre la forma cronica è tipica dell'adulto. La forma acuta colpisce i bambini e si sviluppa in genere dopo un'infezione virale; dura poche settimane e guarisce spontaneamente senza una terapia specifica (a volte viene curata con corticosteroidi e/o immunoglobuline endovena ad alte dosi). La forma cronica colpisce gli adulti tra i 20 e i 40 anni (è prevalente nel sesso femminile) e si sviluppa dopo una lunga storia di sindromi emorragiche di tipo piastrinico o a seguito di leucemia linfatica cronica. La complicanza più pericolosa è una emorragia a livello cerebrale, con arresto cardiocircolatorio. La maggior parte dei casi è asintomatica; negli altri casi compaiono i sintomi caratteristici della trombocitopenia (petecchie, sanguinamenti delle mucose o della pelle, etc.) e occasionalmente febbre dovuta alla reazione autoimmunitaria. In entrambi i casi per la diagnosi è richiesto un esame del midollo. Le porpore trombocitopeniche autoimmuni da farmaci sono caratterizzate dal fatto che il farmaco (o un suo metabolita) può legarsi direttamente a una proteina piastrinica, inducendo una risposta immune, oppure legarsi a una proteina plasmatica inducendo la formazione di anticorpi. In questo caso alla piastrina si lega direttamente l'immunocomplesso così originato. A seconda del tipo di anticorpo o di immunocomplesso, la reazione sarà di attivazione del complemento con piastrinolisi o di opsonizzazione con fagocitosi da parte del sistema macrofagico. La sindrome di Bernard-Soulier è un insieme di disturbi a carattere autosomico recessivo riguardante le piastrine, in particolare il recettore del fattore di von Willebrand della coagulazione del sangue, composto dalle glicoproteine GP1b, GP5 e GP9. La causa che comporta tale sindrome è una mutazione del DNA riguardanti i 3 geni codificanti per le 3 glicoproteine, localizzati sui cromosomi 17/22 e 3. La sindrome è molto rara: la mutazione causa un deficit quantitativo o qualitativo del complesso glicoproteico in questione. Ciò determina un'alterazione funzionale piastrinica, con deficit di adesione-aggregazione. Non è chiaro come provochi la macrotrombocitopenia. Fra i sintomi e i segni clinici ci sono trombocitopenia ed emorragie a vari livelli (e quindi anche epistassi ed ecchimosi più o meno intense) che possono manifestarsi anche in seguito a piccoli traumi successivi. Il complesso di glicoproteine di membrana (GP1b/GP5/GP9) che costituisce il recettore per il fattore di Von Willebrand, necessario per l'emostasi primaria fisiologica, consente alle piastrine di aderire e di formare il tappo emostatico primario. Inoltre, i componenti di questo complesso glicoproteico non solo permettono il riconoscimento e il legame con il fattore di Von Willebrand con il loro dominio extracellulare, ma con i loro domini intracellulari permettono interazioni con il citoscheletro piastrinico: questo è il motivo per cui è possibile che siano direttamente coinvolti nelle alterazioni della morfologia e della maturazione piastrinica (piastrine giganti e sferoidali). La diagnosi si basa sull'allungamento del tempo di sanguinamento, la presenza di piastrine molto grandi (macrotrombocitopenia), diminuzione del numero di piastrine, assenza dell'aggregazione piastrinica indotta dalla ristocetina, espressione ridotta o assente del complesso GP1b/GP5/GP9. In genere sono necessarie trasfusioni piastriniche.

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Da ricordare, infine, che a volte le piastrine non vengono distrutte, ma perdute, attraverso emorragie o prelievi multipli di sangue.

Da aumentato consumo di piastrine (IV gruppo) Nell’eccessivo consumo di piastrine, tale che il midollo non riesce ad attuare meccanismi di compensazione, rientra la CID (coagulazione intravascolare disseminata). La CID è una patologia tromboemorragica acquisita, molto complessa, causata da setticemia (infezione sistemica), cancro, shock, complicanze ostetriche (ad esempio, la morte fetale dopo la 5a settimana con ritenzione in utero), traumi e ustioni. È caratterizzata dallo squilibrio tra l'attivazione dei fattori dell'emostasi e l'attivazione dei fattori che la controllano, tra cui il sistema fibrinolitico. Nella CID è operante un meccanismo patogenetico specifico dove sono attivati, contemporaneamente, la produzione di trombina e il sistema fibrinolitico: ciò significa che il paziente può morire per malattia trombotica e/o per sindrome emorragica.

- Se prevale l'attivazione dei processi coagulativi e appare modesta la produzione di plasmina, il quadro clinico prevalente sarà quello di una malattia trombotica disseminata.

- Se prevale l'attività del sistema fibrinolitico, si manifesta una sindrome emorragica. Uno dei sintomi più comuni è il sanguinamento, talvolta da più parti del corpo. Possono verificarsi sanguinamenti dalle mucose (della bocca o del naso) e da altre zone esterne (altri sintomi sono diminuzione della pressione arteriosa, formazione di lividi, sanguinamento dal retto o dalla vagina, comparsa di macchie rossastre sulla pelle). Gli esami di laboratorio mostrano:

- diminuzione delle piastrine o trombocitopenia; - un tempo di protrombina PT e un tempo di tromboplastina parziale PTT (rispettivamente tempo di

formazione del coagulo fibrinico per via estrinseca ed intrinseca) notevolmente allungati; - il fibrinogeno e fattori della coagulazione (V e VIII) notevolmente ridotti. Questo è dovuto al fatto che

in presenza di un abnorme quantità di plasmina e di trombina, sia il fibrinogeno che la fibrina vanno incontro a digestione enzimatica. La diminuzione del fibrinogeno plasmatico e la presenza di fibrinopeptidi hanno valore patognomico per la diagnosi di tale sindrome. Alcuni fibrinopeptidi, inoltre, sono dotati di notevole attività chemiotattica per cui sono responsabili della leucocitosi caratteristica di questa sindrome, dove l'attivazione dei granulociti neutrofili è un fattore che aggrava ulteriormente il danno tissutale.

Si può guarire nelle fasi iniziali, quando la trombosi è presente ma è contenuta e l'emorragia è in un organo non vitale: la terapia cerca di riequilibrare dall'esterno questo sistema, ma non è facile.

Da emarginazione e sequestro delle piastrine (V gruppo) L’emarginazione e il sequestro delle piastrine si può verificare in caso di emangiomi, che reclutano piastrine in una determinata area: in genere gli emangiomi si associano a patologie a livello renale o neurologico. Queste piastrinopenie possono esser definite false in quanto le piastrine sono efficientemente prodotte, normali nella funzione, non vengono distrutte, né perdute. Ciò nonostante, esse vengono sequestrate in uno o più distretti dell'organismo, venendo a mancare in altri distretti. Sono dovute a condizioni come ipotermia, cirrosi e glicogenosi. ALTERAZIONI PIASTRINICHE NELLE SINDROMI MIELOPROLIFERATIVE Le sindromi mieloproliferative sono la policitemia vera, la trombocitemia essenziale, la metaplasia mieloide e la leucemia mieloide cronica: sono tutte caratterizzate da un aumento, a volte imponente, del numero di piastrine e di altri componenti midollari. Sono spesso associate a proliferazioni clonali tumorali e ad aumentata produzione di specifici fattori di crescita, soprattutto eritropoietina, trombopoietina e fattore delle cellule staminali (stem cell factor). Le piastrine in queste condizioni presentano numerose alterazioni funzionali e morfologiche: possono essere piastrine giganti, senza pseudopodi anche dopo stimolazione con vari agenti aggreganti, possono essere diminuiti i granuli o essere presenti granuli giganti. Biochimicamente, possono essere evidenziati numerosi difetti legati a varie deficienze enzimatiche o di proteine citoscheletriche.

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PIASTRINOPATIE Le piastrinopatie si possono classificare in base a varie fasi della risposta piastrinica:

Alterazioni genetiche dell’adesività e delle modificazioni di forma - Sindrome di Bernand-Soulier; - Pseudo-malattia di Von Willebrand, in cui è alterato il recettore piastrinico GP1b, che presenta maggiore

affinità per il fattore di Von Willebrand; - Patologie da alterata adesione al collagene. Morfologicamente le piastrine appaiono molto simili a quelle

della sindrome di Bernard-Soulier, ma al microscopio elettronico non mostrano le tipiche interazioni con i polimeri di collagene. Tale difetto piastrinico può dipendere dalla mancanza di recettori della membrana piastrinica per il polimero di collagene. Clinicamente, le manifestazioni emorragiche eventualmente presenti sono simili a quelle osservate nell'osteogenesi imperfetta e nella sindrome di Ehlers-Danlos, dove sono presenti alterazioni della molecola di collagene.

Alterazioni acquisite dell’adesività e delle modificazioni di forma Sono caratterizzate dagli stessi aspetti clinici delle analoghe malattie genetiche, ma la differenza sta nel fatto che le cause sono esogene: - uremia e malattie epatiche gravi (l’accumulo di metaboliti del ciclo dell'urea nella cellula epatica sembra

responsabile dell'alterata adesione per interferenze dirette con il fattore di Von Willebrand); - presenza di macroglobuline abnormi e di IgM monoclonali (tali molecole possono competere con il

fattore di Von Willebrand); - sindromi mieloproliferative (in cui sono presenti alterazioni della membrana piastrinica); - malattia di Von Willebrand acquisita (situazione autoimmune causata dalla presenza di anticorpi

neutralizzanti il fattore di Von Willebrand o anche dall’aumentata distruzione di tale fattore da parte di proteasi eccessivamente attivate).

Alterazioni dell'aggregazione primaria - Tromboastenia di Glanzmann A seguito di mutazioni puntiformi, macrodelezioni o inversioni, c’è assenza o riduzione del complesso glicoproteico GP2b/3a, recettore per il fibrinogeno, indispensabile per l'aggregazione piastrinica. Il quadro clinico è caratterizzato da:

- mancata modificazione di forma e inibita aggregazione dopo stimolazione da agenti aggreganti; - inibito legame con il fibrinogeno e mancata formazione di contatti tra le piastrine; - facili emorragie alle mucose e alla cute in seguito a traumi normalmente insignificanti.

A livello molecolare sono state identificate diverse varianti (alcune interessano solo uno dei 2 geni che codificano le 2 subunità dell'integrina). In una delle forme della malattia di Glanzmann, detta anche atrombia essenziale, è stata dimostrata la deficienza di α-actinina (presente nel muscolo striato, nel muscolo liscio e nei complessi focali di adesione) che costituisce un sistema di ancoraggio necessario per la funzione meccano-contrattile dei filamenti di actina. Le caratteristiche particolari delle piastrine a riposo in questo caso sono minime e prevedono una forma tendenzialmente sferoidale e un sistema canalicolare ipertrofico e dilatato.

Alterazioni genetiche dell'aggregazione secondaria Tra le alterazioni genetiche dell'aggregazione secondaria vi sono: - Alterazioni proprie dei granuli. Alterazioni che coinvolgono una qualunque proteina responsabile della biogenesi dei granuli causano la malattia del pool metabolico o di deposito, in cui sono del tutto assenti i granuli densi, e la malattia delle piastrine grigie, in cui manca una delle subpopolazioni di α-granuli e, in particolare, granuli di deposito contenenti varie sostanze come il fibrinogeno, il fattore piastrinico IV, il PAF. - Deficienze enzimatiche della sintesi delle prostaglandine. Gli enzimi chiave nelle piastrine sono la fosfolipasi A2 per la sintesi di acido arachidonico dai fosfolipidi, la ciclossigenasi (la deficienza di ciclossigenasi è spesso chiamata sindrome aspirin-like) e la trombossano-sintasi. Mutazioni che alterano queste proteine bloccano l'aggregazione secondaria.

Alterazioni acquisite dell'aggregazione secondaria Le alterazioni acquisite dell’aggregazione secondaria sono dovute a farmaci che hanno la capacità di inibire specificamente uno degli enzimi chiave della sintesi delle prostaglandine. Composti come l'acido acetilsalicilico (aspirina) inibiscono irreversibilmente in vivo la ciclossigenasi, col risultato che se dato ad alte dosi, o in condizioni di difficile emostasi, può allungare notevolmente il tempo di emorragia (l’aspirina inibisce

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la produzione del trombossano A2). L'aspirina è un ottimo antiaggregante: la differenza con la cardioaspirina sta nella dose (minore nella seconda). Anche la mancanza del fibrinogeno è responsabile dell'alterata formazione dei contatti tra le piastrine nell'aggregazione secondaria. N.B.: Piastrinopatie associate a piastrinopenie sono presenti nella sindrome di Wiskott-Aldrich, nella piastrinopenia con assenza del radio (TAR), nella sindrome di May-Hegglin, nella malattia di Bernard-Soulier e nella tromboastenia di Glanzmann. FASE COAGULATIVA - CASCATA COAGULATIVA La fase coagulativa è la fase che riveste maggiore importanza nel processo emostatico. L’attivazione della cascata coagulativa avviene in presenza di cofattori; tra questi c’è il fattore tissutale o tromboplastina, che attiva il fattore VII il quale, a sua volta, attiva il fattore X. Quest’ultimo, in presenza di calcio e fattore V attivato, consente la trasformazione del fattore II (protrombina) in fattore II attivato (trombina): la trombina è responsabile della trasformazione del fibrinogeno in fibrina. Ci sono 2 vie principali che attivano il processo di coagulazione: la via estrinseca e la via intrinseca, che convergono poi a livello del fattore X per dare origine alla via comune. La via estrinseca è più rapida dal momento che sono minori i fattori coagulativi che ne prendono parte. È attivata nel momento in cui una lesione vasale produce la liberazione di fosfolipidi e del fattore tissutale (tromboplastina); gli altri fattori attivati sono i fattori plasmatici VII, X e V. La via estrinseca porta alla formazione di un coagulo in un tempo molto breve, quantificabile in pochi secondi. La via intrinseca è così denominata perché i fattori che ne fanno parte sono sempre circolanti a livello ematico. Si attiva quando il sangue viene a contatto con la matrice extracellulare. La formazione di un coagulo attraverso questa via richiede un periodo di tempo di alcuni minuti; essa inizia con l’attivazione del fattore XII (fattore di Hageman) e comprende, oltre ai fattori che prendono parte alla via estrinseca, anche i fattori XI, IX e VIII. In condizioni normali il meccanismo di coagulazione viene attivato soltanto a livello locale, ovvero dov’è avvenuto il danno vasale, e per il tempo necessario ad arrestare il flusso emorragico; nelle altre sedi dell’organismo il sangue mantiene la sua normale fluidità. Questo controllo è necessario affinché non si verifichi una coagulazione eccessiva che potrebbe portare a fenomeni trombotici. Il controllo della coagulazione è deputato a varie sostanze presenti nel flusso sanguigno: sostanze anticoagulanti (proteina C, la proteina S e l’antitrombina III) e la plasmina. Un’anomalia che interessi o le pareti dei vasi o le piastrine o i fattori della coagulazione può provocare un processo patologico (emorragie, trombosi). Quando la capacità coagulativa è ridotta, le manifestazioni principali sono rappresentate da ecchimosi, ematomi, epistassi e, più raramente, ematuria ed emorragie gastrointestinali. Viceversa, nel caso di formazione di coaguli, si possono verificare ostruzioni parziali o totali di vasi sanguigni con tutte le conseguenze del caso (ictus, infarto, etc.). MALATTIE EMORRAGICHE DIPENDENTI DA ALTERAZIONI DELLA COAGULAZIONE Le malattie emorragiche dipendenti da alterazioni della coagulazione sono le più frequenti.

Deficienze genetiche della sintesi delle proteine coagulative La sintesi delle proteine della coagulazione è controllata da geni non associati tra loro, per lo più localizzati in cromosomi diversi (quindi le eventuali deficienze si presentano isolate). - Emofilia A È la più comune malattia emorragica genetica. È caratterizzata dalla deficienza del fattore VIII dovuta a grandi e piccole delezioni, amplificazione di sequenze ripetute, mutazioni puntiformi. La deficienza si può presentare completa o parziale: nei casi gravi o completi, l'attività del fattore VIII scende al di sotto dell'1% di quella normale. L'emofilia A viene trasmessa dal cromosoma X come carattere recessivo:

- nella femmina non si manifesta la malattia, ma viene trasmessa al 50% della prole;

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- i maschi con l'allele patologico manifestano la malattia con vari gradi di severità a seconda della penetranza del gene e trasmettono il gene mutato a tutte le figlie femmine, ma a nessuno dei maschi.

La terapia dell'emofilia A è stata per anni attuata con concentrati di plasma in pazienti sani. Purtroppo con questa via ci può essere trasmissione di vari tipi di virus come HIV, epatite B e C. Tecniche di biologia molecolare hanno permesso la produzione di proteine ricombinanti umane necessarie a questi pazienti, senza i pericoli derivanti invece dalla terapia precedente. - Emofilia B È una malattia emorragica nella quale manca l'attività del fattore IX, legata al cromosoma X come carattere recessivo. Presenta le stesse caratteristiche dell'emofilia A dalla quale è indistinguibile. In ambedue i casi di emofilia, l'alterazione della sequenza coagulativa si manifesta per la mancata attivazione del fattore X e quindi blocco del sistema intrinseco. Il sistema estrinseco si presenta normalmente attivato. - Emofilia C È una malattia emorragica autosomica dominante (può essere presente nelle donne), caratterizzata da un deficit del fattore XI.

Deficienze acquisite delle proteine coagulative Tra le deficienze acquisite delle proteine coagulative vi sono: - Deficienze acquisite dai fattori dipendenti dalla vitamina K. La mancanza di vitamina K può essere dovuta a carenze alimentari (K1) o a deficiente produzione da parte della flora batterica intestinale (K2), come si verifica nel corso di terapie antibiotiche prolungate e improprie. La carenza di vitamina K rende inattiva la carbossilasi epatica: questo enzima aggiunge gruppi ɣ-carbossilici all'acido glutammico dei fattori coagulativi nascenti, rendendoli funzionali (soprattutto fattori VII, IX e X). La sindrome emorragica che si manifesta può essere molto grave, ma viene rapidamente risolta mediante somministrazione di vitamina K. - Deficienze dei fattori di coagulazione nelle malattie epatiche. Dato che la cellula epatica sintetizza quasi tutte le proteine della coagulazione, un danno anatomico o funzionale agli epatociti può rapidamente portare a una grave sindrome emorragica, ulteriormente aggravata dalla CID che più facilmente si scatena per la mancata sintesi degli inibitori sia della coagulazione che della plasmina (antitrombina III, proteina S e proteina C). - Malattie emorragiche indotte da sostanze anticoagulanti. Nelle terapie anticoagulanti si utilizzano soprattutto 2 classi di farmaci: composti cumarinici (competono con la vitamina K a livello della carbossilasi inattivandola) e l'eparina (presente nei granuli di basofili e mastociti) che attiva l’antitrombina (l’eparina da un lato si lega ad essa e dall'altro alla membrana delle cellule endoteliali). L'antitrombina III attivata inattiva la trombina e i fattori XII, IX, X e XI della coagulazione.

Inattivazione da anticorpi dei fattori coagulativi Le proteine della coagulazione presentano numerosi antigeni. L'innescarsi di complessi autoimmuni, o in seguito a trasfusioni multiple, ad esempio, può indurre la formazione di autoanticorpi neutralizzanti verso uno o più fattori. L'inattivazione che ne consegue è responsabile di manifestazioni emorragiche. ALTERAZIONI DEL CONTROLLO DELLA COAGULAZIONE Il controllo della coagulazione si avvale di 2 principali sistemi:

- inattivazione e demolizione proteolitica delle diverse attività enzimatiche e della fibrina; - sistema di anti-proteasi che regola negativamente l’attività proteolitica.

Rientrano in questo gruppo:

Deficienze degli inibitori della plasmina Il principale inibitore della plasmina è l'α2-antiplasmina, ma anche l'α2-macroglobulina. La loro deficienza, genetica o acquisita, permette un'azione eccessiva della plasmina: seguono eccessiva fibrinolisi e manifestazioni emorragiche da consumo dei fattori, specialmente del fibrinogeno. Tutte queste malattie vengono indicate con il termine generale di sindromi iperfibrinolitiche.

Deficienze, genetiche e acquisite, dell'antitrombina III

CID (coagulazione intravascolare disseminata)

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TROMBOSI Se l’equilibrio emostatico si sposta in senso pro-coagulativo, si ha trombosi, un processo patologico in cui si forma una massa solida o semisolida (coagulo di sangue) detta trombo, costituita da cellule e fibrina. Il trombo si può formare in un vaso indenne (per alterazioni genetiche) o in un vaso danneggiato (a seguito di aterosclerosi): il trombo riduce o ostruisce del tutto il lume di un vaso, producendo diverse alterazioni, tra le quali la stasi ematica e l'anossia ischemica. La patogenesi della trombosi è basata sulla triade di Virchow:

1. Alterazioni dell'endotelio vasale Quando l'endotelio viene danneggiato, si liberano ADP e detriti di membrana con fosfolipidi e fattore tissutale; parallelamente viene inibita la sintesi di prostacicline e ossido nitrico e vengono esposte le strutture subendoteliali, soprattutto collagene. In questo modo viene favorita l'aggregazione piastrinica e l'attivazione della cascata coagulativa. Le cause sono:

- placca ateromasica che si è ulcerata; - processi infiammatori dei vasi (vasculiti); - cause infettive, tra cui infezioni da batteri Gram- e attivazione della via alternativa del complemento

da parte del lipopolisaccaride endotossico. In quest'ultimo caso le cellule endoteliali vengono danneggiate fino alla lisi;

- cause meccaniche, come traumi, interventi chirurgici e ipertensione; - cause tossiche e chimiche, come farmaci, sali biliari e mezzi di contrasto radiologici, oltre che

iperlipidemia e ipercolesterolemia; - cause immunologiche, per anticorpi specifici contro componenti dell'endotelio mediante

l'attivazione del complemento o la formazione di immunocomplessi. Tali immunocomplessi tendono a localizzarsi dove il flusso è più turbolento e irregolare.

Esiste anche una risposta cellulare che si avvale di linfociti citotossici che possono danneggiare le cellule endoteliali direttamente con la liberazione di perforine, oppure indirettamente, con la liberazione di citochine, inclusi fattori che richiamano e attivano i macrofagi.

2. Alterazioni di componenti ematiche relative all'emostasi Le alterazioni di componenti ematiche relative all'emostasi sono divise in 3 principali categorie: - aumentata attività dei fattori dell'emostasi per aumento del numero di piastrine (piastrinosi) che si verifica nelle sindromi mieloproliferative, o per aumento dei fattori di coagulazione (nella necrosi cellulare, nei traumi e negli interventi chirurgici, a seguito della liberazione di notevoli quantità di tromboplastina tissutale). La mutazione di Leiden è una mutazione specifica del gene che codifica per il fattore V della coagulazione e che rende tale proteina resistente alla scissione da parte della proteina C; - deficit del controllo dell'attivazione dell'emostasi per mancanza di inibitori (antitrombina III, proteina C e proteina S); - deficit dell’attività fibrinolitica per deficienza di plasmina assoluta (deficienza del plasminogeno o di attivatori del plasminogeno) o funzionale (abnorme livello di inibitori di plasmina).

3. Alterazioni emodinamiche Normalmente, il flusso di sangue è laminare e gli elementi figurati del sangue si dispongono al centro del vaso, senza mai entrare in contatto con l'endotelio: i globuli rossi si dispongono più al centro, le piastrine, più piccole, si dispongono nelle zone periferiche (non toccano la parete del vaso grazie alla repulsione elettrostatica tra le membrane delle cellule). Il flusso può essere alterato per differenti cause: stasi ematica, bruschi cambiamenti di direzione del flusso (biforcazioni vasali) e formazione di vortici. L'alterazione del flusso causa lo spostamento degli elementi figurati del sangue (in particolare delle piastrine) in periferia. Il flusso nelle arterie è molto più rapido di quello nelle vene: ciò significa che il completo sviluppo del trombo arterioso è più difficile, perché nelle arterie le piastrine che man mano aderiscono, vengono strappate via dal flusso veloce. Pertanto, solo quando il flusso arterioso rallenta notevolmente, le piastrine aderiscono fermamente e il trombo cresce. I trombi arteriosi si formano prevalentemente a livello dei vasi lesi per eventi aterosclerotici o infiammatori. Quando i trombi arteriosi si formano in una cavità cardiaca o nel lume aortico, in genere aderiscono alla struttura della parete sottostante (trombi murali): le sedi più comuni sono le arterie coronariche, le cerebrali e le femorali.

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Nelle vene, la velocità del sangue già lenta, è ulteriormente rallentata fino alla stasi quasi totale, specialmente nelle vene con decorso tortuoso e pieno di valvole. Pertanto, i trombi venosi frequentemente iniziano nelle tasche con valvole venose delle vene degli arti inferiori. I disturbi delle vene degli arti inferiori sono maggiormente frequenti nelle donne (a causa di gravidanza e parto naturale). Inoltre, poiché questi trombi si formano in un ambiente così statico, essi tendono a contenere più eritrociti intricati e sono perciò noti anche come trombi da stasi o rossi. Tutto ciò porta alla flebite (infiammazione delle vene), motivo per il quale le trombosi venose vengono chiamate flebotrombosi. I sintomi sono gli stessi dell'infiammazione: paziente caldo, rosso, con gonfiore e dolore. I trombi venosi sono più frequenti. La patogenesi di un trombo è la seguente: l'endotelio vasale subisce un danno, le cellule necrotiche liberano ADP, il vaso espone la membrana basale e il collagene sottostante. Come conseguenza, si attivano le piastrine che aderiscono all'endotelio danneggiato, si aggregano e liberano il contenuto dei loro granuli (ADP, calcio, serotonina, prostaglandine, PAF): si forma il trombo bianco, che costituisce la parte iniziale del trombo formato solo da piastrine. Nel frattempo localmente il meccanismo della coagulazione viene attivato completamente: insieme con le piastrine ci sono polimeri di fibrina che, quando costituiscono un reticolo stabile e abbondante, trattengono globuli rossi e leucociti, formando una lamina rossa. Le strie di Zahn sono laminazioni macroscopicamente evidenti, caratterizzate dall'alternanza di strati chiari di piastrine mischiati con un po' di fibrina e strati più scuri contenenti un maggiore numero di globuli rossi. Si forma così il trombo variegato. Un trombo è formato da:

- testa, punto di attacco all'endotelio danneggiato, costituita da piastrine e fibrina; - corpo, nelle vene prevalentemente rosso, nelle arterie prevalentemente piastrinico. Il corpo si può

estendere e può raggiungere una notevole lunghezza, soprattutto nelle vene; - coda, costituita da fibrina e globuli rossi nei trombi venosi.

La lunghezza dei trombi dipende dalla velocità del flusso, dal deficit del sistema fibrinolitico e dalla rapidità dell'attivazione della cascata coagulativa. I destini del trombo sono 3:

- dissolvimento, ovvero lisi con ripristino del flusso (riperfusione); - occlusione definitiva con cicatrizzazione; - riorganizzazione del trombo con formazione di nuovi vasi che ricanalizzano il vaso e ripristinano

parzialmente il flusso ematico. Generalmente, le piastrine 12-24 ore dopo l'aggregazione, vanno in lisi e vengono sostituite da un reticolo di fibrina e da globuli rossi in esso intrappolati. Il citoscheletro contrattile delle piastrine è responsabile della contrazione del trombo e della retrazione del coagulo. Il trombo può essere invaso da macrofagi e neutrofili attratti da potenti stimoli chemiotattici, come i fibrinopeptidi derivati dalla lisi della fibrina. Tali cellule fagocitano tutti i detriti cellulari e parte dei prodotti della fibrinolisi, favorendo la lisi del trombo. Nel frattempo, entro 6-7 giorni, migrano anche angioblasti e fibroblasti. Queste cellule proliferano grazie a vari fattori di crescita e si ha l’organizzazione del trombo da parte dei fibroblasti che produce un ispessimento dell'intima (analogo a quello dell'aterosclerosi) e la riparazione dell'endotelio. In conclusione, il trombo può essere rapidamente e totalmente digerito con riparazione del vaso, oppure può essere organizzato con riparazione cicatriziale e parziale ricanalizzazione. Le 2 principali complicanze della formazione del trombo sono: - occlusione del vaso, che provoca l'arresto totale o parziale dell'afflusso del sangue e quindi dell'ossigeno ai tessuti irrorati da quel vaso. Se il vaso è funzionalmente terminale e non vi sono possibilità di formare circoli collaterali, il tessuto va in necrosi (infarto); se invece l'occlusione è parziale o ci sono circoli collaterali che parzialmente irrorano il tessuto, questo subisce danni più o meno gravi (ipotrofia o atrofia dell’intero tessuto o organo); - formazione di emboli, a seguito del distacco o frammentazione del trombo: tali emboli ostruiscono i vasi, in particolare quelli della microcircolazione, situati a distanza della sede di formazione del trombo e provocano danni ai tessuti. Gli emboli possono, ad esempio, causare morte improvvisa (se interessano rami importanti delle coronarie) o nefrosclerosi (negli anziani).

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Le conoscenze sulla patogenesi della trombosi hanno facilitato la diagnosi: ad esempio, con la determinazione del tasso di utilizzazione del fibrinogeno e delle piastrine, è possibile determinare se un trombo è di tipo venoso o arterioso e quindi decidere il trattamento farmacologico più adeguato. Nella trombosi arteriosa assumono un ruolo più rilevante i farmaci antiaggreganti piastrinici, mentre la trombosi venosa può essere più efficacemente affrontata con eparina, altri anticoagulanti e attivatori del sistema fibrinolitico. Recentemente è risultata efficace la rimozione meccanica del trombo mediante angioplastica (catetere munito di palloncino) e successivo posizionamento di uno stent (supporto tubulare a rete per evitare la riocclusione), eventualmente impregnato di fattori anti-proliferativi e antitrombotici a lento rilascio. I maggiori progressi degli ultimi anni, tuttavia, sono stati raggiunti nella prevenzione della malattia trombotica, grazie sa un'attenta valutazione dei rischi connessi alle varie concause, tra cui il controllo della colesterolemia, della dieta e del peso, l’astensione dal fumo e uno stile di vita non stressante con opportuna attività fisica.

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CLASSIFICAZIONE DEL RIGETTO DEI TRAPIANTI 1. Iperacuto Il rigetto iperacuto si verifica dopo poche ore o minuti dal trapianto: mentre il rene ben trapiantato riacquista il suo colorito e produce urine normali, il rene rigettato è cianotico e produce poche urine ricche di sangue. Le caratteristiche sono:

- deposito di immunoglobuline e complemento a livello della parete vasale; - lesioni della parete vasale con formazione di trombi; - accumulo di neutrofili in arteriole, glomeruli e capillari peritubulari;

Il tutto porta a necrosi renale. La causa è una reazione antigene anticorpo a livello dell'endotelio vascolare. 2. Acuto Il rigetto acuto può essere: - Cellulare, si verifica nei primi mesi dopo il trapianto. È caratterizzato da ipercreatininemia (dovuta ad insufficienza renale) e, istologicamente, da infiltrati di cellule mononucleate. Le cellule CD8+ possono danneggiare l'endotelio vasale determinando endoteliti; - Umorale, si manifesta soprattutto con lesione dei vasi sanguigni, dovuta ad anticorpi anti-donatore, causando vasculite necrotizzante. 3. Cronico Mentre il rigetto acuto è controllato ultimamente con la terapia immunosoppressiva, quello cronico è diventato una delle cause di insuccesso di trapianto. Tali pazienti mostrano una ipercreatininemia nell'arco di 4-6 mesi. È caratterizzato da:

- alterazioni vascolari; - fibrosi interstiziale; - atrofia tubulare.

METODI PER AUMENTARE LA SOPRAVVIVENZA DEL TRAPIANTO Nel rigetto dei trapianti gli antigeni HLA sono i bersagli principali: minimizzando la disparità tra HLA del donatore e HLA del ricevente, dovrebbe migliorare la sopravvivenza del trapianto. È necessaria la terapia immunosoppressiva, soprattutto attraverso la ciclosporina: essa blocca la trascrizione del fattore nucleare delle cellule T attivate, necessario per la trascrizione dei geni delle citochine, in particolare il gene per l'IL-2. Anche se l'immunosoppressione ha portato miglioramenti, ha aumentato anche la suscettibilità a infezioni. Per limitare gli effetti sfavorevoli dell'immunosoppressione si sta realizzando una tolleranza donatore-specifica nelle cellule T del ricevente. Ad esempio, quello che si sta facendo negli animali da laboratorio è evitare che le cellule T del ricevente ricevano segnali costimolatori dalle cellule dendritiche durante la fase iniziale di sensibilizzazione: questo si può realizzare interrompendo l'interazione tra le molecole B7 sulle cellule dendritiche del donatore e i recettori CD28 sulle cellule T dell'ospite. Sono stati inoltre sperimentati anticorpi che bloccano il ligando di CD40. Inoltre, somministrando cellule del donatore al ricevente si possono prevenire reazioni al trapianto: questo approccio può causare a lungo termine un chimerismo misto, in cui il ricevente vive con le cellule iniettate del donatore. TRAPIANTO DI ALTRI ORGANI SOLIDI Oltre al rene, possono essere trapiantati molti altri organi: fegato, cuore, polmoni e pancreas. Ovviamente i pazienti che necessitano di trapianto di cuore o di fegato sono severamente compromessi e tali organi devono adattarsi allo spazio che avevano gli organi precedenti nel ricevente, dunque le cose fondamentali sono disponibilità e dimensione dell'oggetto donato. Addirittura, non si esegue il matching HLA: ciò nonostante la reazione di rigetto non è così energica. Il motivo molecolare non è conosciuto. Inoltre, con l'immunosoppressione, le reazioni di rigetto possono essere enormemente ridotte. TRAPIANTO DI MIDOLLO OSSEO Nel trapianto di midollo osseo si manifestano 3 problemi principali:

- reazione del trapianto contro l'ospite (GVH); - rigetto del trapianto; - immunodeficienza.

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La reazione del trapianto contro l'ospite si presenta in tutti i casi in cui cellule immunologicamente competenti o i loro precursori sono trapiantati in riceventi immunologicamente deficitari, e le cellule trasferite riconoscono alloantigeni nell'ospite. Quando questi ospiti ricevono cellule normali di midollo osseo da donatore allogenico, le cellule T immunocompetenti del donatore riconoscono gli antigeni HLA del ricevente come estranei e reagiscono contro di essi. Sia le cellule T CD4+ sia le CD8+ riconoscono e attaccano i tessuti dell'ospite. Nella pratica clinica, la reazione del trapianto contro l'ospite può essere così grave che il trapianto di midollo osseo viene eseguito solo tra donatori e riceventi HLA-compatibili. La reazione del trapianto contro l'ospite acuta si verifica dopo giorni o settimane, dopo trapianto di midollo osseo allogenico. Gli organi più interessati sono:

- cute, rush (sfogo) generalizzato e nei casi gravi desquamazione; - fegato, in cui la distruzione dei dotti biliari porta a ittero; - intestino, in cui le ulcerazioni della mucosa provocano diarrea emorragica.

Nonostante i consistenti danni tissutali, i tessuti colpiti non sono intensamente infiltrati da linfociti. L'immunodeficienza accompagna frequentemente la reazione del trapianto contro l'ospite. Può essere dovuta a:

- terapia; - trattamento mieloablativo in preparazione al trapianto; - ritardo nel ripopolamento del sistema immunitario del paziente; - aggressione delle cellule immunitarie dell'ospite da parte dei linfociti trapiantati.

I soggetti colpiti sono immunodepressi e sono facile preda di infezioni (soprattutto da citomegalovirus). La reazione del trapianto contro l'ospite cronica può seguire la fase acuta della malattia o si può manifestare in modo insidioso. In questo caso troviamo pazienti con estese lesioni cutanee, epatopatia cronica e stenosi esofagea. Il sistema immune è devastato, con involuzione del timo e deplezione dei linfociti nei linfonodi. Poiché la reazione del trapianto contro l'ospite è mediata dai linfociti T contenuti nel midollo osseo del donatore, la deplezione di cellule T del donatore prima della trasfusione elimina la malattia. Ciò nonostante, la reazione del trapianto contro l'ospite è migliorata, ma aumentano l'incidenza di insuccessi del trapianto e le recidive. Si ritiene che le cellule T non solo siano i mediatori della reazione del trapianto contro l'ospite ma siano anche necessarie per l'attecchimento delle cellule staminali di midollo osseo trapiantate e per il controllo delle cellule leucemiche (effetto trapianto versus leucemia). I meccanismi responsabili del rigetto di midollo osseo allogenico sono poco conosciuti. Sembra che essi siano mediati da cellule NK e da cellule T che sopravvivono nell'ospite irradiato. Le cellule NK reagiscono contro le cellule staminali allogeniche perché queste ultime non hanno molecole self MHC di classe I e quindi non riescono a trasmettere il segnale inibitore alle cellule NK.

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IL GENOMA UMANO Tutte le cellule hanno nel loro nucleo un identico patrimonio genetico, con una sola piccola eccezione che riguarda i riarrangiamenti somatici dei linfociti B e T. Quello che differenzia le varie linee di cellule è l'uso delle sequenze di DNA, che fa sì che una cellula epatica utilizzi parti del genoma differenti da quelle che sono utilizzate, ad esempio, da un neurone. Ogni cellula contiene 2 copie di tale corredo cromosomico, un corredo di origine materna ed uno di origine paterna. Il numero di basi di un genoma determina anche la quantità di DNA presente nel nucleo di una cellula. In ogni cellula tale quantità ammonta a circa 6 picogrammi di DNA, molto simile alla quantità di DNA ritrovata nelle cellule di altri mammiferi, come ad esempio il topo che ha un contenuto di DNA molto simile all'uomo (2.716.949.182 coppie di basi). La quantità di DNA è indicata come C-value. Si potrebbe ipotizzare che quanto più complesso sia un essere vivente tanto più lunga debba essere la sequenza di DNA nucleare. Tale affermazione è solo in parte vera: ad esempio, un ascomiceta (Candida albicans) ha un genoma di circa 16 milioni di basi, mentre un insetto (Drosophila melanogaster) ha un genoma di circa 180 milioni di basi; il genoma del mais, invece, contiene circa 2,4 miliardi di basi in 10 cromosomi. La differenza potrebbe risiedere nel numero di geni presenti, mentre molte basi di genoma potrebbero essere rappresentate da elementi di DNA di giunzione o riempitivo definito DNA spazzatura (junk DNA). Il progetto genoma umano ha consentito, grazie allo sforzo congiunto di molti laboratori in tutto il mondo, di conoscere la intera sequenza del DNA umano. PROGETTO GENOMA Il Progetto genoma umano fu concepito nel 1984 con l'obiettivo di determinare la sequenza nucleotidica di tutto il genoma umano nucleare. Tuttavia i primi dati di mappatura e riordinamento dei cloni furono prodotti solo nel 1990. Il genoma mitocondriale, molto più piccolo (16.569 coppie di basi), era già stato sequenziato nei primi anni ‘80. Il progetto fu finanziato dai governi e da alcune charities di tutto il mondo e rappresenta, ad oggi, il più grande e complesso esempio di collaborazione scientifica mondiale. La strategia di sequenziamento fu di tipo gerarchico: furono isolati lunghi frammenti di DNA da clonare in cosmidi, cromosomi artificiali in lievito (YAC) o cromosomi artificiali batterici (BAC). Il passaggio successivo fu quello di riordinare i cloni in sequenza in rapporto ai diversi cromosomi. Un secondo progetto di sequenziamento, possibile grazie ad un avanzamento tecnologico, fu quello portato a termine nel 1998 da una società privata diretta da Craig Venter. Il sequenziamento fu di tipo shot-gun, basato sulla strategia di sequenziare sia per intero piccoli segmenti di DNA sia le sole estremità di frammenti più lunghi ed infine riordinare il tutto al computer. Entrambi i progetti produssero una bozza di sequenza del genoma umano nel 2001 ed i risultati furono pubblicati in parallelo sulle due maggiori riviste scientifiche Nature e Science, nel febbraio dello stesso anno. Tali bozze non costituirono la sequenza completa dell'intero genoma, ma coprirono oltre l'80% delle sequenze includendo le regioni eucromatiniche, mentre le regioni eterocromatiniche (ad alta ripetitività) non furono sequenziate. Tali regioni sono costituite in gran parte o da sequenze alle estremità dei cromosomi (telomeri) o da sequenze pericentromeriche con basso contenuto genico. Il progetto genoma umano si concluse poi formalmente nell'aprile 2003 quando furono rese disponibili ad accesso gratuito le sequenze di DNA che corrispondono alla porzione eucromatinica dei 22 autosomi, del cromosoma X e del cromosoma Y. L'ultima release è datata febbraio 2009: il totale delle basi sequenziate ammonta a 3.101.788.170 di coppie di basi per genoma aploide maschile. Cromosoma: il cromosoma è un’unità discreta del genoma che contiene numerosi geni ed è visibile come entità morfologica soltanto durante la divisione cellulare. Ciascun cromosoma è costituito da una molecola molto lunga di DNA e da una massa di proteine approssimativamente uguale. I cromosomi sessuali sono i cromosomi X e Y la cui combinazione determina il sesso dell’individuo: XX nelle femmine e XY nei maschi. Fenotipo: il fenotipo è l’insieme delle caratteristiche morfologiche e fisiologiche dell’individuo che sono determinate sia dal patrimonio genetico, sia dai fattori ambientali. Genotipo: il genotipo rappresenta la costituzione genetica dell’individuo e viene rivelato dall’analisi di tipo molecolare. Polimorfismo: il polimorfismo è un segmento di DNA che ha più di una forma (allele), ognuna delle quali ha una frequenza pari almeno all’1% nella popolazione. Se la frequenza è inferiore si parla di variante. Un polimorfismo di per sé non determina alcuna patologia ma in combinazione con altri potrebbe influenzarne la suscettibilità

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GENI Un gene è stato definito come un tratto di DNA che, una volta trascritto, produce una proteina o un RNA funzionale. La difficoltà nel definire un gene è anche data dalla molteplicità di trascritti da una stessa regione genomica. Questo porta a definire un gene anche come l'unione di sequenze genomiche che codificano per un set coerente di prodotti funzionali potenzialmente sovrapponibili. È stato creato un consorzio denominato CCDS (NCBI Consensus Coding Sequence database) che ha il compito di definire i singoli geni codificanti. Nella specie umana risultano esserci 23.739 geni codificanti con una distribuzione cromosomica alquanto disomogenea. Infatti i geni del cromosoma 19 hanno una spaziatura media di 36.000 coppie di basi, mentre quelli del cromosoma 13 di circa 300.000 coppie di basi e quelli del cromosoma Y addirittura di oltre 1.1 milioni di coppie di basi. Quindi esistono cromosomi a maggiore o minore densità genica con un rapporto di oltre 30 volte. La grandezza totale del genoma umano aploide è di 3.070.000.000 basi di cui 2.843.000.000 sono di eucromatina. Per identificare ciò che è trascritto occorre identificare l’RNA prodotto da tutte le cellule di un uomo in tutte le fasi del suo sviluppo. Per fare ciò sono state generate genoteche di copie del RNA presenti in ciascun tessuto dette DNA copia o cDNA, utilizzando l’enzima trascrittasi inversa, prodotto soprattutto dai retrovirus, necessario per la loro replicazione: esso catalizza la trasformazione del RNA in cDNA, ossia l'inverso di quello che fa la RNA polimerasi DNA-dipendente. Nei laboratori si utilizzano copie modificate di tali trascrittasi inverse ottenute con le tecniche del DNA ricombinante allo scopo di ottimizzarne le caratteristiche. Il cDNA prodotto da ciascuna cellula rappresenta quindi la porzione di genoma utilizzata; ogni cDNA diverso è prodotto da un gene diverso e contare i cDNA equivale a contare i geni. Per arrivare a tale scopo fu intrapreso il progetto EST (expressed sequence tags) che consiste nel sequenziare una porzione di ciascun cDNA utile per poter identificare il gene di origine. La scelta dei cDNA da sequenziare è assolutamente casuale. Un secondo metodo è bioinformatico con algoritmi quali GENSCAN o GENEFISH che possano predire dal DNA quello che è gene rispetto a quello che non è un gene. Tali algoritmi si basano sull'identificazione di fasi di lettura (ORF, open reading frame) piuttosto lunghe che non possono essere generate dal puro caso. Un terzo sistema di analisi coinvolge la cosiddetta genomica comparativa che utilizza il confronto fra le sequenze di DNA di varie specie partendo dal presupposto reale della conservazione delle sequenze dei geni e della non conservazione delle regioni di collegamento. Negli ultimi anni lo studio completo degli RNA è possibile con la messa a punto di tecniche di sequenziamento dette di prossima generazione (NGS, next generation sequencing). Con le tecniche NGS sono stati mappati e quantificati i trascrittomi registrando la frequenza con cui ogni gene è rappresentato nel campione di sequenza (Seq-RNA). Questo fornisce una misura digitale della presenza e la prevalenza di trascritti di geni noti o sconosciuti. Allele: L’allele è una delle forme alternative di un gene. Per ciascun locus autosomico un individuo possiede 2 alleli, uno derivato dal padre e l'altro dalla madre. Locus: il locus indica la posizione in cui risiede un gene su un cromosoma; può essere occupato da uno qualsiasi degli alleli del gene in questione. Zigote: lo zigote negli eucarioti definisce la cellula uovo fecondata, a partire dalla fase in cui si appaiano i cromosomi dei pronuclei maschile e femminile fino all’inizio del processo di segmentazione. Eterozigote: l’eterozigote è un individuo che ha almeno una base di DNA di differenza tra i 2 alleli di un certo gene. Omozigote: l’omozigote è un individuo che porta due alleli identici di un gene specifico sui due cromosomi omologhi. ESONI - INTRONI La maggior parte delle sequenze codificanti è discontinua, composta da segmenti di RNA che dopo la trascrizione sono rimossi mediante un processo molecolare noto come splicing: i segmenti rimossi sono denominati introni, mentre quelli non rimossi esoni. Con lo splicing la cellula toglie via dal trascritto primario di RNA delle sequenze inutili e salda i pezzi in modo sequenziale. Ogni esone può essere codificante o non codificante, mentre l'introne, che costituisce il segmento rimosso, comunque non può essere tradotto. Tutti gli esoni occupano circa 27 megabasi di genoma, cioè circa lo

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0,9% del genoma umano totale; tuttavia meno dell'1% delle malattie genetiche è causato da mutazioni di sequenze non codificanti. Questo significa che le sequenze codificanti hanno un peso relativo di oltre 10.000 volte superiore rispetto alle sequenze non codificanti nel causare malattie mendeliane o monogeniche. Malattia mendeliana: qualsiasi patologia che segue le leggi di trasmissione ereditaria ipotizzate da Gregor Mendel si definisce mendeliana (malattie monogeniche); le patologie non mendeliane sono quelle ad eredità poligenica. Nel genoma umano ci sono circa 165.000 esoni, cioè in media 7 per ciascun gene interrotto, ma ci sono molti trascritti non interrotti come pure trascritti composti da centinaia di esoni. La lunghezza media di ciascun esone è di circa 200 nucleotidi, mentre le dimensioni degli introni variano molto, da pochi nucleotidi a mezza megabase. La maggiore complessità del genoma umano non va cercata solo nel numero dei geni ma anche nella loro possibilità di dar vita a prodotti proteici alternativi. Il meccanismo principale è lo splicing alternativo. Si calcola che la quasi totalità dei geni umani pluriesonici ha più di una variante di splicing e alcuni geni come la tropomiosina arrivano a produrre oltre 800 varianti diverse a partire da un solo gene. Altri meccanismi sono legati alla possibilità di tradurre o meno gli mRNA in proteine. Quest'aspetto non è scontato. Le cellule si riservano sempre la possibilità di non tradurre un RNA in proteina o tradurne una parte più piccola o di frammentare la proteina prodotta in pezzi più piccoli con funzione differente. DNA RIPETUTO Le sequenze ripetute di DNA possono essere suddivise in 2 categorie: ripetizioni disperse, distribuite in tutto il genoma in maniera apparentemente casuale, e ripetizioni in tandem le cui le unità sono collocate in sequenza. Esistono 4 tipi principali di elementi ripetuti dispersi: le SINEs (Short INterspersed Elements), le LINEs (Long INterspersed Elements), gli LTR (Long Terminal Repeat) e i trasposoni a DNA. Una caratteristica interessante è che ogni tipo sembra essere derivato da un elemento trasponibile, ossia un segmento di DNA che è in grado di muoversi in tutto il genoma da un locus all'altro. Molti di questi elementi lasciano copie di se stessi quando si spostano, il che spiega come si siano propagati a tutto il genoma. Ci sono 2 classi principali di elementi trasponibili: quelli che hanno un intermedio di RNA e quelli che non lo hanno. LINEs, SINEs e gli LTR sono esempi della prima classe, mentre i trasposoni sono semplicemente dei segmenti di DNA che si spostano da una zona all'altra dei cromosomi. Le SINEs sono lunghe 75-500 coppie e possono contenere i promotori per la RNA polimerasi III. Si classificano in elementi Alu (circa 1.1 milioni di copie nel genoma), MIR (393.000 copie) e MIR3 (75000 copie). Complessivamente, le sequenze ripetute rappresentano il 44% del genoma umano, circa 1400 megabasi di DNA. Il DNA microsatellite è un esempio di elementi di DNA ripetuti in tandem. In un microsatellite l'unità di ripetizione è di 1-5 coppie di basi. Queste sono distribuite nell'intero genoma negli eucarioti e sono generate da uno scivolamento durante la replicazione del DNA; il loro tasso di mutazione sembra essere controllato dall'efficienza del sistema di mismatch repair. Sebbene la maggior parte delle variazioni di lunghezza dei microsatelliti sembri neutrale, alcune mutazioni in tratti particolari hanno un ruolo nelle malattie genetiche umane. Il tipo più comune di sequenze microsatelliti sono le ripetizioni di un dinucleotide, con circa 140000 copie nel genoma in cui frequentemente si ripete il motivo CA/GT (citosina-adenina/guanina-timina). I dinucleotidi sono utilizzati per l'analisi di linkage e altri studi genetici, in quanto la loro lunghezza varia tra gli alleli, permettendo così di tracciare la segregazione dei cromosomi. Tratti omopolimerici come ad esempio AAAAA (5 adenina) sono anche molto comuni (circa 120.000 in totale). TRASFERIMENTO DELLA INFORMAZIONE GENETICA Il trasferimento di una corretta informazione genetica, sia in termini qualitativi che quantitativi, è di fondamentale importanza sia per la crescita e sopravvivenza dell'individuo, sia per la conservazione della specie. La precisione di questo trasferimento è assicurata dalla mitosi, che ripartisce equamente il DNA duplicato alle cellule figlie nella replicazione delle cellule somatiche, e dalla meiosi nelle cellule germinali finalizzata alla riorganizzazione della informazione genetica parentale ed alla produzione di gameti aploidi. Lo sviluppo delle cellule germinali e la produzione dei gameti (gametogenesi) segue dinamiche e modalità differenti nei due sessi.

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MEIOSI I cromatidi sono le 2 subunità di cui sono costituiti i cromosomi, 2 filamenti identici di DNA uniti in un punto detto centromero costituito da eterocromatina. Durante la metafase del ciclo cellulare i cromosomi sono altamente compattati mediante avvolgimenti e anse della cromatina. I cromosomi vengono duplicati durante la fase S del ciclo cellulare, che segue la fase G1 (gap 1) e precede la fase G2 (gap 2). L'insieme di queste 3 momenti costituisce l'interfase che a sua volta precede la mitosi o la meiosi. La meiosi è un processo di divisione mediante il quale una cellula eucariota con corredo cromosomico diploide dà origine a 4 cellule con corredo cromosomico aploide. La prima fase, detta riduzionale, prevede:

- Profase I: ciascun cromosoma si duplica e le 2 parti restano strettamente associate. Questi sono chiamati cromatidi fratelli. Il crossing-over avviene in questa fase;

- Metafase I: i cromosomi omologhi si allineano al piano equatoriale; - Anafase I: le coppie omologhe si separano e i cromatidi fratelli restano uniti; - Telofase I: le 2 cellule figlie contengono solo un cromosoma di ciascuna coppia.

La seconda fase, detta equazionale, prevede: - Profase II: il DNA delle 2 cellule figlie non si replica; - Metafase II: i cromosomi si allineano al piano equatoriale; - Anafase II: i centromeri si dividono e i cromatidi fratelli migrano separatamente a ciascun polo; - Telofase II: la 2a divisione cellulare è completa; si ottengono 4 cellule figlie aploidi (23).

IL CORREDO CROMOSOMICO Il cariotipo rappresenta l'insieme delle caratteristiche che identificano un corredo cromosomico: in particolare, il numero di cromosomi, la loro grandezza relativa e la lunghezza delle braccia del cromosoma. È analizzato bloccando i cromosomi in metafase con l'uso della colchicina: ogni cromosoma si presenta replicato in 2 cromatidi fratelli tenuti insieme dal centromero. Il centromero è una zona del cromosoma, più sottile di altre, che svolge un ruolo fondamentale, durante la divisione cellulare (meiosi e mitosi), nel garantire la corretta distribuzione dei cromosomi nelle cellule figlie. È il punto in cui le fibre del fuso si attaccano per far separare i cromosomi durante la divisione cellulare. I cromosomi umani sono 46. Questo è il normale corredo diploide (23 di derivazione paterna e 23 di derivazione materna). Del corredo cromosomico fanno parte 22 coppie di autosomi e 2 cromosomi sessuali o gonosomi o eterosomi (XX oppure XY). In ciascun cromosoma si distinguono un braccio corto p (petit) ed un braccio lungo q (lettera successiva a p). Inoltre nei cromosomi si distinguono l'eucromatina che è meno condensata e contiene il DNA codificante e l'eterocromatina, più condensata che contiene solo DNA non codificante. Autosoma: Ogni cromosoma non sessuale è un autosoma. Una cellula diploide ha 2 copie di ciascun autosoma. Le cellule somatiche (tutte le cellule dell’organismo eccetto quelle della linea germinale) umane possiedono 22 coppie di autosomi e 2 cromosomi sessuali. All'estremità di ciascun cromosoma sono presenti i telomeri che comprendono ripetizioni multiple della sequenza TTAGGG e che servono a preservare le sequenze interne dei cromosomi durante la replicazione del DNA. I centromeri sono invece regioni specializzate di DNA che forniscono il sito di ancoraggio del fuso mitotico. La lunghezza dei cromosomi decresce all'aumentare del numero, ma vi sono eccezioni nella numerazione e soprattutto nel contenuto genico.

- 7 cromosomi sono detti metacentrici, perché hanno il centromero in posizione centrale (i cromosomi 1, 2, 3, 16, 17, 18, 19).

- 12 cromosomi sono detti submetacentrici, con il centromero che non è centrale, né vicino ad un'estremità (i cromosomi 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 20, X, Y).

- 5 sono detti acrocentrici, con il centromero vicino ad un'estremità (i cromosomi 13, 14, 15, 21, 22). Questi cromosomi hanno tutti i geni localizzati nel braccio lungo (q), mentre nel braccio corto (p) è solo presente eterocromatina.

Nella specie umana non sono presenti cromosomi telocentrici, cioè con centromeri localizzati ad un'estremità, come invece nel topo. N.B: il cromosoma 19 è ad alta densità genica; il cromosoma Y è a bassa densità genica.

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Esistono variazioni strutturali del cariotipo non patologiche, conosciute come eteromorfismi citogenetici e riguardano i 4 cromosomi più ricchi di eterocromatina (1, 9, 16 e Y). Ad esempio, si può osservare una variazione pericentromerica del cromosoma 9 definita come 9qh+ o l’inversione 9inv. Per ogni dubbio, è importante il confronto con il cariotipo di entrambi i genitori.

Isocromosoma: condizione che avviene quando il braccio corto di un cromosoma viene perso e il braccio rimanente viene duplicato, per cui si ha un cromosoma costituito da 2 braccia lunghe o da 2 braccia corte.

ANALISI DEL CARIOTIPO I cromosomi rappresentano l’organizzazione più elevata della cromatina, sono depositari del DNA genomico totale e contengono sia regione a DNA ripetitivo trascrizionalmente silente, sia unità funzionali trascritte, cioè i geni. Ogni cromosoma contiene specifici geni in specifiche regioni (loci). Le cellule somatiche hanno un corredo cromosomico diploide (46 cromosomi): di questi 44 sono autosomi (22 coppie di omologhi, identici nei 2 sessi), gli altri 2 sono eterocromosomi o cromosomi sessuali (maschio XY, femmina XX). Il maschio, per i geni del cromosoma X è definito emizigote (presenta una sola copia di geni del cromosoma X). I cromosomi diventano visibili al momento della metafase del ciclo cellulare perché in questa fase la cellula ha già duplicato il proprio DNA, ogni cromosoma appare costituito da 2 cromatidi fratelli, tenuti insieme dal centromero. I cromosomi presentano un braccio corto p e un braccio lungo q e il centromero tra essi: in base alla posizione del centromero cambia la morfologia dei cromosomi: metacentrici, submetacentri, acrocentrici (nell’uomo il centromero non è mai estremamente telomerico). I cromosomi presentano un’estremità di 6 coppie di basi ripetute (TTAGGG) definita telomero, con lo scopo di proteggere le estremità dei cromosomi e impedire la fusione coda-coda. Il cariotipo umano normale è definito dalla formula 46,XY nel maschio e 46,XX nella femmina. Esistono delle variazioni strutturali del cariotipo non patologiche definite eteromorfismi citogenetici e riguardano i cromosomi più ricchi di eterocromatina (1, 9, 16 e Y). L’eterocromatina è la regione più condensata del cromosoma, formate da sequenze ripetute e inattive trascrizionalmente, per cui eventuali anomalie strutturali nei cromosomi ricchi di eterocromatina non hanno effetti patologici. L’analisi del cariotipo è un’analisi genomica generale che permette (senza avere alcuna informazione pregressa) di avere una visualizzazione complessiva dell’assetto cromosomico umano (visualizzare più geni contemporaneamente). Per l’analisi del cariotipo si può ricorrere a qualsiasi cellula somatica purché sia nucleata e la condizione indispensabile è che le cellule da analizzare devono essere in mitosi. Si ricorre in genere alle cellule del sangue periferico facilmente accessibili tramite prelievo venoso, oppure ai fibroblasti cutanei, oppure agli amniociti per una diagnosi cromosomica prenatale attraverso amniocentesi, oppure su cellule di midollo osseo. Per esaminare i cromosomi, la procedura prevede l’arresto della divisione cellulare in metafase con inibitori del fuso mitotico (come ad esempio la colchicina) e nel colorare i cromosomi. Sono stati sviluppati numerosi metodi di colorazione che consentono l’identificazione di ciascun singolo cromosoma sulla base di una distribuzione di bande chiare e scure: - Bandeggio G (più comunemente usato) che prevede una proteolisi limitata seguita dalla colorazione Giemsa; questo metodo è specifico per l’eucromatina e mette in evidenza bande scure ricche in A/T e bande chiare ricche in C/G (queste ultime sono le regioni più ricche di geni). - Bandeggio R (reverse) che prevede la denaturazione al calore seguita dalla colorazione Giemsa; anche questo metodo è specifico per l’eucromatina e mette in evidenza bande scure ricche in C/G e bande chiare ricche in A/T (è complementare al bandeggio G). - Bandeggio Q sovrapponibile al bandeggio G e colora selettivamente anche il braccio lungo del cromosoma Y nella porzione eterocromatica. - Bandeggio C che è specifico per l’eterocromatina che risulta più scura; si ricorre a questo tipo di colorazione in seguito a colorazione G o R per analizzare regioni eterocromatiche. Il bandeggio standard mette in evidenza circa 400 bande e ciò implica che mediamente risultano apprezzabili solo i riarrangiamenti cromosomici che muovono almeno 5 megabasi di DNA. Per mutazioni più piccole è necessaria l'analisi mediante FISH o array CGH.

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L’analisi del cariotipo può essere sia prenatale che postnatale: è più semplice quella postnatale mediante prelievo di sangue, analizzando i linfociti che sono portati facilmente in mitosi per poi bloccarli in metafase per essere analizzati. L’analisi prenatale si fa tramite amniocentesi e villocentesi. DIAGNOSI PRENATALE La diagnosi prenatale di malattia genetica può essere definita, in termini generali, come un procedimento finalizzato all’accertamento dell'eventuale presenza nel feto o nell'embrione (nel caso della diagnosi pre-impianto) di una condizione patologica geneticamente determinata. L’amniocentesi consiste nel prelevare del liquido amniotico dall'utero, dove si trovano cellule fetali (derivanti dalle vie respiratorie e urinarie del feto) che possono essere anche utilizzate per analisi molecolari. Il prelievo si esegue tra la 15a e la 18a settimana di gestazione sotto controllo ecografico per accertare la posizione della placenta, la quantità di liquido amniotico, le dimensioni e la vitalità del feto e la presenza di eventuali malfunzioni fetali. L’abortività ripetuta non è indicazione alla amniocentesi, a meno che uno dei due genitori non sia portatore di una traslocazione bilanciata, possibile causa degli aborti. È universalmente attribuito un rischio di abortività legata alla sola procedura pari allo 0,5% (1:200), rischio che aumenterebbe se il prelievo è effettuato prima della 15a settimana. La negatività al test, tuttavia, non significa normalità cromosomica o assenza di difetti genetici. Tra le indicazioni principali per l'amniocentesi ci sono: età materna superiore ai 35 anni, un precedente figlio affetto da anomalia cromosomica, una patologia genetica in famiglia, test effettuati dal siero della gestante che indichino un rischio aumentato di un’anomalia cromosomica fetale. Questi ultimi sono test di screening (ovvero di valutazione della probabilità di malattia) e non esami diagnostici. Essi forniscono solo indicazioni circa l’opportunità di approfondire, o meno, in donne di età inferiore a 35 anni le indagini su possibili anomalie cromosomiche del feto. Tra i test più noti ci sono la determinazione dell’αFP (α-fetoproteina) nel siero materno, il duotest, il tritest e il quadritest. L’ αFP è una proteina simile all’albumina prodotta dal fegato fetale. Valori bassi indicano un rischio aumentato di trisomia 21, mentre valori aumentati un rischio di difetti del tubo neurale. La villocentesi (CVS=chorionic viIlus sampling) è una procedura effettuata tra la 10a e la 12a settimana di gestazione mediante la quale sono aspirati alcuni milligrammi di placenta fetale. I villi costituiscono uno strato placentare interposto tra la decidua basale che aderisce alla parete uterina e il piatto coriale posto esternamente sul lato fetale della placenta. Nei villi sono presenti moltissime cellule in attiva riproduzione che permettono di studiare il cariotipo. L'aspirazione avviene per via vaginale o transaddominale. Il tessuto aspirato viene selezionato al microscopio per eliminare materiale di provenienza materna e poi è testato per le patologie genetiche presenti nella famiglia e per eventuali anomalie cromosomiche. Alla villocentesi è attribuito un rischio di abortività legato alla sola procedura pari all'1% (1:100). Quindi è praticabile solo se la donna ha un rischio riproduttivo maggiore di 1:100. Il duotest (doublé screen) include la valutazione del PAPP-A (Pregnancy Associated Plasma Protein A) e la frazione libera della gonadotropina corionica (free- βHCG). Viene effettuato tra la 10a e la 13a settimana di gravidanza dal siero della gestante. Valori di PAPP-A inferiori a 0,5 MoM (multipli della mediana) se combinati a free-βHCG maggiore di 2 MoM, indicano un rischio di trisomia 21. Valori bassi di PAPP-A si associano invece a free-βHCG normale nella sindrome di Turner e minore di 0,5 MoM nelle trisomie 13 e 18 e nella triploidia materna. La free-βHCG invece aumenta considerevolmente nella triploidia patema. Tale analisi si integra con la valutazione della translucenza nucale (NT) fetale a 12-14 settimane che, per via ecografica, rileva l’aumento di liquido nucale nei feti affetti da trisomia 13, 18, 21, da sindrome di Turner e da triploidia patema. Anche altre cromosomopatie con difetti cardiaci congeniti possono comportare un aumento di NT. Il tritest (triple screen) che si esegue tra la 12a e la 15a settimana di gestazione determina l’αFP nel siero materno, l’estriolo non coniugato (uE3) e la βHCG. La valutazione combinata con altri parametri (età materna, peso etc.) consente di individuare le donne con rischio statistico aumentato di partorire un feto affetto da difetti di chiusura del tubo neurale (TND, spina bifida), da trisomia 21 o da trisomia 18. Con valori bassi di αFP e di uE3 associati a valori molto alti di βHCG è molto probabile che il bambino sia affetto da sindrome di Down e, conseguentemente, può essere opportuno eseguire l’amniocentesi. Se, invece, ci sono valori di αFP, di free-βHCG e di uE3 inferiori almeno alla metà di quelli normali, il feto potrebbe essere portatore della sindrome di Edwards, malattia ad esito infausto caratterizzata dalla trisomia del cromosoma 18.

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Il quadritest (quad screen) è effettuabile più tardivamente tra la 15a e la 18a settimana. Aggiunge al tritest la misurazione dei livelli di inibina. CARATTERI COMPLESSI La penetranza di un carattere mendeliano (come una malattia genetica o una qualsiasi altra caratteristica non necessariamente patologica) è completa se il 100% degli individui portatori di una data variazione della sequenza di DNA esprime il carattere; è invece incompleta, quando vi sono individui che non esprimono il carattere (valore inferiore al 100%). Se tale valore è prossimo al 100% (o lo diviene nel corso del tempo), il carattere mendeliano è ancora riconoscibile come tale; tuttavia, se la penetranza scende al 20-30% o ancora più in basso, il carattere cessa di essere riconosciuto come mendeliano o addirittura se ne perde di vista il contributo genetico. In tal caso anche la ricorrenza familiare verrà meno: si parlerà di carattere multifattoriale o complesso, in cui l'effetto combinato delle innumerevoli variazioni di DNA e dell'ambiente è decisivo nel determinare se tale carattere sarà espresso oppure no. Man mano che la penetranza di un carattere diventa sempre più incompleta, cessa di essere considerato come carattere mendeliano, e si parlerà di carattere multifattoriale o complesso. I caratteri genetici possono essere classificati in continui (l'altezza, la pressione sanguigna, etc.) ed in discontinui o dicotomici (il labbro leporino, la spina bifida, etc.) che possono esserci o meno. Ci sono 2 modi per analizzare malattie ad eredità multifattoriale:

- Analisi parametrica: si effettua attraverso un modello matematico di trasmissione per cercare determinati indizi. È limitata alla famiglia studiata e si può applicare in modo efficiente solo alle malattie monogeniche;

- Analisi non parametrica: non si effettua attraverso un modello matematico di trasmissione, infatti non si applica alle malattie monogeniche ma a quelle poligeniche e multifattoriali. Si vanno a vedere i fattori di rischio comuni in base alla genetica. Si prendono numerose coppie di fratelli con la stessa malattia (in modo da raggiungere la significatività statistica) e si valuta la probabilità di aver ereditato determinati alleli. Vi sono 2 concetti: identità di stato (cioè la prova di avere un determinato allele) e identità di discesa (sapere da quale genitore proviene quell’allele).

L’eterogeneità genetica è definita come un fenotipo identico o molto simile determinato da mutazioni in geni differenti: è di frequente riscontro e rappresenta una complicazione per i test genetici che risultino negativi. Infatti l'assenza di mutazioni in un gene può dipendere da un test imperfetto oppure dalla presenza di una mutazione in un altro gene non studiato perché non noto. Ad esempio, la distrofia muscolare dei cingoli può essere causata da mutazioni in almeno 24 geni differenti. Più eterogeneo in assoluto è il ritardo mentale con un numero di geni possibili stimato intorno a 1600. Esempi di eterogeneità genetica sono rappresentati dal ritardo mentale e dalla retinite pigmentosa in cui centinaia di geni differenti possono essere responsabili. Eterogeneità allelica: l’eterogeneità allelica si riferisce alla presenza di quadri clinici simili o identici dovuti a mutazioni diverse dello stesso gene. La poligenicità è definita come un fenotipo che è il risultato della combinazione di varianti in più geni differenti, è alla base dei tratti complessi e illustra bene la predisposizione genetica a malattie molto comuni. ANALISI DI LINKAGE L’analisi di linkage permette di determinare la posizione cromosomica di un locus responsabile di una determinata malattia/carattere genetico rispetto a marcatori polimorfici molecolari la cui localizzazione è nota (studia l’esistenza di una correlazione significativa dal punto di vista statistico tra una particolare regione cromosomica e il fenotipo osservato). Si effettua studiando il DNA di un nucleo familiare in cui è presente una condizione genetica che si trasmette in maniera mendeliana. Per mettere in relazione un gene ad una malattia bisogna innanzitutto individuare dei marcatori lungo i cromosomi, ovvero qualcosa che consenta di tracciare un dato cromosoma e vedere come questo si muove all’interno di una famiglia. Perché questo sia possibile, è necessario che il marcatore sia polimorfico, ovvero che presenti delle variabilità nella popolazione (è singolare per ogni persona). I tipici marcatori utilizzati sono gli SNP (polimorfismi a singolo nucleotide) o i microsatelliti (sequenze ripetute in tandem, in genere dinucleotidiche).

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Questi elementi sono distribuiti su tutti i cromosomi per cui se c’è la possibilità di tracciare una serie di marcatori a posizione nota su un cromosoma, questi lo rendono tipizzabile (è come un codice che identifica ciascun cromosoma). Nell’analisi di linkage di una famiglia, quindi, si può seguire la segregazione dei cromosomi perché molto probabilmente uno dei due cromosomi omologhi del figlio conserva il pathway di marcatori del genitore. Ovviamente, si considerano marcatori molto vicini tra loro perché non ci deve essere segregazione indipendente (le 2 sequenze devono essere trasmesse insieme nella stessa posizione). Essendo i cromosomi tracciati, è possibile stabilire se una data regione cromosomica si muove insieme alla malattia all’interno di una famiglia: se questo avviene molto probabilmente quella regione cromosomica contiene il gene responsabile della malattia. C’è però la possibilità che questo fenomeno si verifichi per caso. Per calcolare la significatività statistica di questa correlazione (tra gene sconosciuto e regioni cromosomiche che si ripetono nella famiglia), si calcola il LOD score. Il LOD score è il logaritmo delle probabilità. Se il rapporto tra la probabilità di nascere con un certo valore di linkage e la probabilità di nascere senza linkage (quindi senza correlazione) è di mille a uno si dice che il LOD score è 3 (il logaritmo in base 10 di 1000 è 3), e la probabilità che l’evento sia casuale è di un millesimo. È improbabile dunque che il fenomeno sia casuale. Per convenzione, un LOD score maggiore di 3 è prova di linkage. L’analisi di linkage è un’analisi parametrica. LOD score Il metodo LOD score (calcolo del logaritmo della probabilità) è un test statistico utilizzato per analizzare i rapporti di associazione tra i geni (linkage) nella popolazione. Il LOD score confronta:

- la probabilità di riscontrare i valori osservati se i 2 loci sono effettivamente sullo stesso cromosoma, con una determinata frequenza di ricombinazione;

- la probabilità di ottenere gli stessi risultati se i 2 loci non sono associati, quindi esclusivamente per caso.

L'analisi computerizzata del LOD score è un metodo semplice per determinare il linkage tra i tratti Mendeliani (o tra un tratto ed un marker, o 2 markers). Il LOD score è calcolato come:

NR è il numero di prole non-ricombinante; R è il numero di prole ricombinante; 0.5 al denominatore indica che ogni allele completamente unlinked ha il 50% di possibilità di ricombinare a causa dell'assortimento indipendente; θ è la frazione ricombinante ed è uguale a R/(NR + R). I risultati sono espressi come log10 del rapporto delle 2 probabilità e per convenzione, un LOD score più grande di 3 è considerato prova di linkage (un LOD score maggiore di 3 indica una probabilità di 1000:1 che il linkage osservato non avvenga per caso), mentre un LOD score più basso di 2 è considerato sufficiente per escludere la probabilità di linkage. GWAS (STUDIO DI ASSOCIAZIONE GENOME-WIDE) Gli studi di associazione stabiliscono la relazione statistica tra le variabili genetiche della popolazione e un dato fenotipo. Vengono utilizzati per scoprire la componente genetica di malattie comuni non ereditarie (diabete mellito, malattia coronarica). I GWA (genome wide association) sono studi di associazione che analizzano coorti di individui (quindi non famiglie) selezionate in maniera da essere quanto più omogenee per tutta una serie di parametri (età, sesso, etnia): esse differiscono soltanto per il fenotipo che si intende seguire. I GWA si utilizzano soprattutto per le malattie multifattoriali (quindi non con una trasmissione mendeliana tipica) in cui si sospetta ci possa essere un fattore di suscettibilità che favorisca la comparsa di un determinato fenotipo.

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Si utilizzano sempre marcatori polimorfici ma, a differenza dell’analisi di linkage, sono caratterizzati da una variabilità biallelica (cioè ciascuno può risultare in omozigosi o in eterozigosi per un allele): questi sono gli SNP (polimorfismi a singolo nucleotide), cioè le variazioni di una singola base nella sequenza di DNA. Gli SNP sono abbondanti nel genoma (attualmente sono più di 20 milioni) e facili da individuare e descrivere. Si effettua la genotipizzazione (esame della sequenza di DNA) di ciascun individuo su un chip su cui sono analizzati gli SNP, mediante estensione di una singola base con un nucleotide a fluorescenza. Tutti i colori sono poi letti mediante scansione laser e le basi sono assegnate. Il discorso è analogo all’analisi di linkage: si selezionano SNP altamente polimorfici, quindi ad elevata eterozigosità (per cui ci si aspetta una differenza di base sui 2 alleli nella stragrande maggioranza dei soggetti, anche se ci sono pure alleli in omozigosi); si traccia il cromosoma e si seguono gli eventi di ricombinazione e come questi si associano alla condizione patologica. Questi studi per avere una significatività statistica analizzano un numero molto elevato di soggetti sia come popolazione di riferimento sia come popolazione affetta. Queste 2 coorti di individui devono essere selezionate in maniera opportuna perché l’unico elemento di differenza dovrebbe essere la presenza o meno di quel determinato fenotipo che si sta seguendo (le coorti devono essere quanto più omogenee possibili per ridurre i rumori di fondo, ovvero tutto quello che può dipendere da altri fattori che può perturbare lo studio). Nel caso in cui non fosse omogenea la popolazione di riferimento (ad esempio, individui di diversa etnia), ci sarebbe l’errore di I tipo o di stratificazione del campione, che può dare falsi positivi. Per ridurre i margini di errore è stata fissata una soglia di significatività statistica che corrisponde a 5x10-8 SNP (ci possono essere polimorfismi che si associano per caso). Questi studi in genere portano all’identificazione di un SNP o di quello che si chiama aploblocco (un insieme di SNP posti in stretta vicinanza lungo il cromosoma e per questo cosegreganti), associati a quel fenotipo. Ma questo ci dice molto poco perché spesso questi marcatori possono essere anche delle varianti introniche quindi non necessariamente varianti a cui si possa associare un significato genetico. Difficilmente sono studi pienamente conclusivi (cioè che danno una risposta chiara). I GWA sono un’analisi non parametrica e sono più efficaci dell'analisi di linkage quando le varianti che conferiscono suscettibilità sono comuni, mentre sono meno efficaci se le varianti sono rare. I punti critici dei GWA sono i seguenti:

- se minimizzare l’eterogeneità (per cui ci sono vantaggi e svantaggi perché un tratto genetico potrebbe essere valido in una popolazione e non valido in un'altra perché ci sono fattori aggiuntivi che complicano l’analisi dei dati);

- se focalizzarsi su casi familiari o casi isolati; - se scegliere o meno casi ad insorgenza precoce.

Manhattan plot: II risultato di uno studio GWA contenente migliaia di dati può essere raffigurato con il Manhattan plot. Le coordinate genomiche sono visualizzate lungo l'asse delle X con colori diversi in rapporto ai differenti autosomi dall’1 al 22 (negli studi GWA non sono di solito genotipizzati i cromosomi sessuali); sull'asse delle Y è riportata la significatività statistica (LOD). Quando sul grafico c’è un picco, questo corrisponde ad un’associazione rilevabile. CITOGENETICA MOLECOLARE Per superare il limite dell’analisi del cariotipo che visualizza un difetto genetico maggiore di 5 milioni di basi e vedere alterazioni più piccole di 5 milioni di basi sono state messe a punto tecniche di citogenetica molecolare come la FISH (ibridazione in situ fluorescente) e l’array CGH (ibridazione genomica comparativa su array). Nelle tecniche di citogenetica molecolare si utilizzano sonde molecolari grazie alle quali si possono diagnosticare anomalie strutturali quantitative dei cromosomi di piccole dimensioni (da 5 milioni a 100 kilobasi). FISH La tecnica FISH è applicata sui cromosomi; la tecnica si basa sul principio di complementarietà dei 2 filamenti di DNA. Utilizza sonde di DNA che riconoscono sequenze specifiche di regioni cromosomiche. Il limite di risoluzione della FISH per identificare i cambiamenti cromosomici è nell’ordine di 100000/200000 coppie di basi.

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La procedura prevede che il DNA a doppio filamento della sonda nota venga simultaneamente tagliato da una DNasi e ricucito dalla DNA polimerasi in presenza di nucleotidi trifosfato (A, C, G e T) marcati con fluorocromo; successivamente il DNA della sonda e il DNA cromosomico (oggetto di analisi) vengono denaturati (i 2 filamenti si staccano): i filamenti singoli del DNA della sonda e di quello cromosomico si ibridano in caso di complementarietà e il segnale viene rilevato al microscopio a fluorescenza; se la sonda non trova complementarietà l’ibridazione non avviene e al microscopio a fluorescenza non avremo alcun segnale. Le sonde utilizzate sono i cosmidi (40 kilobasi), BAC (200 kilobasi) e YAC (500 kilobasi). La FISH è ritenuta affidabile quando le sonde sono di dimensioni superiori a 40 kilobasi; con sonde più piccole di 40 kilobasi il segnale fluorescente è troppo debole e poco distinguibile da un artefatto. La FISH quindi esplora anomalie cromosomiche quantitative tra 4-6 milioni di basi a 40 kilobasi. I campioni utilizzati nella FISH sono campioni prenatali (cellule ottenute dall’amniocentesi, dalla villocentesi), linfociti del sangue periferico, biopsie di tumori e sezioni tissutali. La FISH viene utilizzata per individuare anomalie cromosomiche di tipo numerico (aneuploidie) per dimostrare piccole microdelezioni, per traslocazioni complesse non evidenziabili dall’analisi del cariotipo e per analisi dell’amplificazione di geni. La colorazione del cromosoma è un’estensione della FISH e prevede la preparazione di sonde per interi cromosomi. Il numero di cromosomi che possono essere rilevati contemporaneamente mediante chromosome painting è limitato dalla disponibilità di coloranti fluorescenti che emettano segnali a differenti lunghezze d’onda. ARRAY-CGH L’Array-CGH è un’analisi genomica generale. Rispetto alla FISH che richiede una conoscenza di una o più regioni cromosomiche specifiche che si sospettano alterate nel DNA testato, l’Array-CGH non richiede una conoscenza di regioni cromosomiche specifiche in quanto è un’analisi genomica globale. L’Array-CGH è una tecnica sviluppata per identificare anomalie cromosomiche di tipo numerico (aneuploidie) a carico dei cromosomi o anche variazioni (variazioni del numero di copie - CNV) del contenuto di piccole porzioni cromosomiche, come duplicazioni/amplificazioni (presenza di copie in eccesso di segmenti di DNA), o delezioni (perdite di porzioni di genoma). Queste anomalie del DNA possono essere la causa di diverse patologie quali, ad esempio, sindromi malformative, ritardo mentale, autismo, epilessia e tumori. Il principio su cui si basa la tecnica dell’Array-CGH è la comparazione quantitativa del DNA in esame (o DNA test del paziente, estratto dalle cellule fetali, in caso di diagnosi prenatale, o dal prelievo ematico in caso di diagnosi post-natale) e del DNA genomico di riferimento proveniente da un soggetto sano (reference DNA). Procedimento della tecnica: - si utilizza un supporto solido (array) sul quale sono legate numerose sonde di DNA che corrispondono all’intero genoma umano; questo permetto di rilevare variazioni nel numero di copie di un determinato gene; - il DNA estratto dal paziente viene marcato con un fluorocromo rosso, il DNA estratto dal soggetto sano viene marcato con un fluorocromo verde; - i 2 DNA marcati vengono miscelati e messi a contatto col supporto solido (array); - se allo spot sull’array si lega maggior DNA del paziente (marcato rosso) vuol dire che è presente un maggior numero di copie di un determinato gene di un determinato locus genico del DNA del paziente rispetto al numero di copie dello stesso gene presente nel DNA del soggetto sano (marcato verde), quindi sull’array avremo uno spot di colore rosso; - viceversa se allo spot sull’array si lega minor DNA del paziente (marcato rosso) vuol dire che è presente un minor numero di copie di un determinato gene di un determinato locus genico del DNA del paziente

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rispetto al numero di copie dello stesso gene presente nel DNA del soggetto sano (marcato verde), quindi sull’array avremo uno spot di colore verde; - se invece il numero di copie di un determinato gene di un determinato locus genico è uguale sia nel DNA del paziente (marcato rosso) che nel DNA del soggetto sano (marcato verde), sull’array avremo uno spot di colore giallo. Di conseguenza avremo che nel caso di amplificazione di un numero di copie di un determinato gene di un determinato locus genico nel DNA del paziente avremo un eccesso di segnale del marcatore rosso; invece nel caso di una delezione nel DNA del paziente avremo un eccesso di segnale del marcatore verde. CGH La procedura è la medesima dell’Array-CGH; in questa tecnica il DNA del paziente e quello del soggetto sano sono fatti ibridare con cromosomi in metafase e viene utilizzata preferenzialmente per studiare l’assetto cromosomico generale delle cellule cancerose (valutare l’espressione o la diminuzione di oncogeni e oncosoppressori). Nell’’Array-CGH il DNA del paziente e quello del soggetto sano vengono fatti ibridare con l’array sul quale sono presenti tutte le sequenze nucleotidiche di DNA corrispondenti alle differenti regioni cromosomiche dell’intero genoma umano. PCR

La PCR (o reazione a catena della polimerasi) si basa su un processo di copiatura di un frammento di DNA a partire da 2 sequenze di innesco (primers), una DNA polimerasi termostabile e deossinucleotidi trifosfato. Sono necessari cicli di temperatura in cui il DNA si denatura, l’innesco si lega alla sequenza bersaglio ed infine la polimerasi ricopia il DNA a partire dall’innesco. I cicli di reazione sono in genere 25-30 e sono prodotti mediante 3 fasi termiche dette denaturazione, annealing (ibridazione dei primer) e polimerizzazione. Dopo ogni ciclo la quantità di DNA copiata raddoppia, perché ogni copia è stampo di una nuova copia e alla fine del processo da ogni molecola di DNA possono essere generate centinaia di milioni di copie. Tale quantitativo è visualizzabile direttamente mediante fluorescenza su gel di agarosio. SOUTHERN BLOT Il termine blotting indica la procedura con cui si trasferiscono e si fissano in modo irreversibile gli acidi nucleici o le proteine su una matrice solida (membrana di nitrocellulosa o di nylon). Il Southern blot è una tecnica che ci permette di analizzare un DNA genomico per verificare la presenza di un gene di interesse; permette solo di individuare il gene ma non di isolarlo, motivo per cui si tratta di una tecnica soltanto analitica. Il Southern blot prevede che il DNA genomico sia tagliato con diversi enzimi di restrizione; i frammenti vengono successivamente separati in base alla loro grandezza mediante elettroforesi su gel di agarosio. Il DNA viene denaturato così da ottenere frammenti a singola elica (condizione fondamentale per permettere l’ibridazione con una sonda marcata di DNA), che vengono trasferiti su un filtro di nitrocellulosa per capillarità così da ottenere una replica del gel. I frammenti trasferiti sul nylon vengono ibridati con una

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sonda marcata: se avviene l’ibridazione viene captato un segnale (il gene in esame è presente), viceversa se non avviene l’ibridazione non c’è segnale. Nella Southern blot è necessario confrontare un campione di DNA normale con il DNA in esame. È utile per individuare malattie da espansione di triplette (ad esempio, X fragile, a cui non puoi applicare la PCR perché le regioni espanse sono ricche di citosina e guanina unite tra loro da 3 legami a idrogeno, motivo per cui la temperatura di denaturazione sarebbe troppo alta e il DNA si destabilizzerebbe) e malattie da delezioni. NORTHERN BLOT Il Northern blot rappresenta la tecnica mediante la quale le molecole di RNA, separate elettroforeticamente, vengono trasferite da un gel di agarosio a una membrana di nitrocellulosa o nylon. L’RNA è successivamente ibridato con una specifica sonda marcata che evidenzia il target di interesse. La tecnica permette di valutare il modello di espressione genica in termini sia qualitativi (presenza o assenza del trascritto, lunghezza dell’mRNA) sia semi-quantitativi (valutazione rispetto ai livelli di espressione di un gene di riferimento). Con la Northern blot si analizza se e quanto è espresso un gene. SEQUENZIAMENTO DI PRIMA GENERAZIONE - SANGER Per sequenziamento si intende stabilire la successione di nucleotidi (A, C, G, T) che costituiscono una determinata regione genomica: in questo modo è possibile ottenere il maggior numero di informazioni in relazione alla suddetta regione genomica. Il sequenziamento può essere utilizzato per diagnosticare mutazioni in una determinata regione genomica (è usato prevalentemente per visualizzare mutazioni puntiformi). Le mutazioni possono essere identificate confrontando la sequenza nucleotidica presa in esame (appena sequenziata) con una sequenza nucleotidica campione (presente nel database). Il metodo di Sanger è un metodo enzimatico (utilizza la DNA polimerasi) basato sulla sintesi enzimatica di molecole di DNA che terminano in corrispondenza di specifici nucleotidi; prevede l’utilizzo di nucleotidi modificati (dideossinucleotidi trifosfato - ddNTP) per interrompere la reazione di sintesi enzimatica del DNA in specifiche posizioni lungo la sequenza del DNA in esame. Il dideossinucleotide non presenta il gruppo OH in posizione 3’ (presenta una H) e nel momento in cui viene incorporato in un filamento di DNA che si sta estendendo, ne blocca la replicazione a causa dell’impossibilità di aggiungere nucleotidi per l’assenza del gruppo OH. Il metodo di Sanger consta di 3 fasi: 1) preparazione del campione: la regione genomica di DNA che si vuole sequenziare deve essere amplificata per avere più copie identiche dello stesso filamento e ciò può essere ottenuto tramite PCR o tramite clonaggio. Considerando il caso della PCR, per effettuarla dobbiamo conoscere le basi nucleotidiche che si trovano all’inizio e alla fine della regione genomica che dobbiamo amplificare e poi sequenziare. In questa fase si applica una PCR standard, alla fine della quale otteniamo un aumento esponenziale del numero di copie di DNA iniziale che è stato amplificato. 2) reazione di sequenziamento: prima denaturiamo il DNA amplificato, poi i filamenti di DNA vengono separati e posti in provetta; aggiungiamo un solo primer (per avere un aumento lineare dei frammenti di DNA da sequenziare), la DNA polimerasi, deossinucleotidi (dNTP - A, C, G e T) e i dideossinucleotidi (ddNTP - A, C, G e T marcati inizialmente radioattivamente e poi successivamente con 4 fluorocromi differenti, a basse concentrazioni rispetto ai dNTP perché in questo modo viene favorito un sufficiente allungamento del filamento neosintetizzato per permettere il sequenziamento). La DNA polimerasi non fa distinzione tra dNTP e ddNTP, motivo per cui possono essere incorporati in diverse posizioni del filamento che si sta allungando. Alla fine si ottengono diversi frammenti di diversa lunghezza che verranno separati in maniera automatizzata mediante elettroforesi capillare (quando erano marcati radioattivamente, i ddNTP i frammenti venivano separati mediante elettroforesi su gel di poliacrilammide). 3) elettroforesi capillare: si ottiene un elettroferogramma in cui osserviamo una serie di picchi la cui sequenza corrisponde alla sequenza del frammento di DNA di interesse. Quando il picco è definito, il software ti indica la base; quando 2 picchi sono sovrapposti e quindi il software non è in grado di distinguerli troviamo un N: tale N può indicare una mutazione puntiforme se singola, oppure una delezione/inserzione che sfalsa la cornice di lettura se multipla.

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SEQUENZIAMENTO DI NUOVA GENERAZIONE - NGS (NEXT GENERATION SEQUENCING) La NGS, a differenza del sequenziamento Sanger, consente di sequenziare moltissimi frammenti di DNA misto in parallelo: si tratta di un vantaggio in quanto nel momento in cui si estrae il DNA da un qualsiasi tessuto (sangue, capelli, saliva), otteniamo DNA globale che rappresenta l’insieme dei geni e delle sequenze inter-geniche che sono presenti in un determinato corredo cromosomico. Il campione di DNA viene preparato attraverso un processo di frammentazione casuale (meccanica o enzimatica tramite enzimi di restrizione), ottenendo frammenti casuali di diversa lunghezza. A tali frammenti vengono aggiunte delle sequenze predefinite, note come adattatori, necessarie per ancorare e immobilizzare i frammenti ad un supporto (dove ci sono sequenze nucleotidiche complementari all’adattatore) sul quale avrà luogo la reazione di sequenziamento. I frammenti risulteranno uguali alla estremità (per la presenza degli adattatori a sequenza nota) e diversi al centro. Si costruisce un primer complementare all’adattatore (uguale ad ogni adattatore). Si denatura il DNA in esame e si inseriscono sul supporto i frammenti di DNA da analizzare legati agli adattatori a cui si lega il primer (posto in quantità sufficiente per coprire l’intero supporto), DNA polimerasi e i deossinucleotidi marcati con fluorocromo di colore diverso per ogni nucleotide. La DNA polimerasi aggiunge i deossinucleotidi marcati al primer (la reazione di volta in volta viene bloccata per la presenza del fluorocromo): il software contemporaneamente legge i colori emessi dal fluorocromo in ogni singola posizione in un determinato istante (come se facesse una fotografia istantanea), dopodiché allontana il fluorocromo e la procedura si ripete aggiungendo di volta in volta i nucleotidi. In questo modo si ha contemporaneamente amplificazione e sequenziamento Il sequenziamento dell’esoma rappresenta una strategia efficace per sequenziare in maniera selettiva le regioni codificanti del genoma. Permette di definire un quadro patologico preciso per un buon numero di patologie genetiche. L’esoma è la parte del genoma formato da esoni che rappresentano la porzione codificante del DNA. Pur essendo solo l’1% di tutto il materiale genetico, esso è costituito da oltre 30 megabasi di DNA ed è responsabile di quasi tutta la costruzione dell’organismo umano. Considerando che il 99% delle malattie genetiche ha mutazioni in regioni esoniche e che gli esoni costituiscono appena l’1% del genoma, il sequenziamento è mirato agli esoni ed è più efficace del sequenziamento totale. Il sequenziamento dell’esoma è l’approccio attualmente più utilizzato in quanto meno costoso e molto più semplice rispetto al sequenziamento dell’intero genoma, quest’ultimo infatti, se da una parte può identificare anche mutazioni nelle regioni non codificanti, dall’altra ha costi molto elevati e comporta l’identificazione di un numero di varianti così elevato da renderne difficile l’interpretazione. Procedimento: si basa sulla cattura delle regioni codificanti e delle giunzioni introne-esone, che vengono separate dal resto del DNA e quindi amplificate selettivamente. La principale metodica di cattura prevede l’ibridazione del DNA di interesse in fase solida, che si avvale dell’uso di un supporto (array) su cui sono depositate sonde complementari alle sequenze esoniche. Il DNA genomico viene frammentato e coniugato ad adattatori che contengono le sequenze dei primer; il passo successivo consiste nell’ibridazione dei frammenti di DNA (coniugati all’adattatore) sull’array, dove si legano alle sequenze complementari. Dopo l’eliminazione del DNA non ibridato (gli introni) mediante una serie di lavaggi, il DNA ibridato (gli esoni) viene amplificato con PCR e sequenziato con le tecniche di nuova generazione. Il problema del sequenziamento dell’esoma è di carattere etico in quanto sequenziando, in ambito diagnostico, tutte le regioni codificanti si possono rilevare predisposizioni ad altre malattie diverse da quelle per cui si era proceduto con l’analisi iniziale. MLPA L'MLPA (Multiplex Ligation Probe Amplification) è una metodica di analisi quantitativa basata sulla PCR e si utilizza per identificare CNV (variazioni del numero di copie dei segmenti del DNA, dovute a delezioni o duplicazioni) non rilevabili con le tecniche di sequenziamento. Consente l'amplificazione di più DNA target attraverso una coppia di primer uguali per tutte le sonde in esame. Si utilizzano 2 sonde oligonucleotidiche per ogni DNA target: le sonde sono costruite in modo tale da essere contigue nella regione del DNA da analizzare e contengono alle estremità i primer. Inoltre in una delle 2 sonde è presente una sequenza stuffer di lunghezza variabile per ogni coppia di primer.

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Procedimento: inizialmente viene denaturato il DNA target; successivamente vengono fatte ibridare le 2 sonde al DNA target: se l’ibridazione è possibile (perché c’è la complementarietà delle sequenze nucleotidiche) avviene la ligazione delle 2 sonde ad opera delle ligasi. L’amplificazione tramite PCR, utilizzando la coppia di primer (uno dei quali è marcato con un fluorocromo), avviene esclusivamente per i prodotti ottenuti dalla ligazione, legati in posizioni differenti sul DNA target. Tali prodotti sono discriminabili perché hanno lunghezza diversa a causa della variabilità della sequenza stuffer (quindi ci sono tanti segmenti di DNA di lunghezza diversa ma nota, essendo noti primer e stuffer). I prodotti ottenuti sono separati tramite elettroforesi capillare: ciascun frammento è tracciabile per la presenza del fluorocromo. Si ottiene un grafico con vari picchi ognuno dei quali corrisponde ad una coppia di sonde; l'altezza del picco è proporzionale alla quantità di DNA target presente sul genoma: - se c’è una delezione in eterozigosi, il picco risulta di altezza dimezzata rispetto al picco atteso; - se c’è una delezione in omozigosi, si avrà la mancanza del picco; Allo stesso modo, in caso di duplicazione il picco sarà più alto rispetto a quello atteso. Questa tecnica è poco costosa e molto efficiente. IL CROMOSOMA X E LA SUA INATTIVAZIONE L’inattivazione del cromosoma X interessa tutte le femmine e consiste nella disattivazione di uno dei 2 cromosomi sessuali X: il cromosoma viene reso inerte dal punto di vista trascrizionale tramite impacchettamento in un’unità densa di eterocromatina a formare il corpo di Barr. L’inattivazione avviene nell’embrione allo stadio di blastocisti: il cromosoma X inattivato è scelto a caso tra quello di derivazione materna e paterna. L’inattivazione è sotto il controllo di una regione chiamata XIC situata sul braccio lungo del cromosoma X (Xq). In questa regione è presente il gene Xist che codifica per un RNA non codificante di 17000 nucleotidi. Xist viene overespresso nell’X da inattivare e il suo RNA ricopre tutto il cromosoma formando una specie di compartimento chiuso in cui i fattori trascrizionali non possono accedere. Si ha quindi l’inattivazione che avviene tramite compattamento della cromatina. I geni presenti nelle cosiddette regioni PAR sfuggono all’inattivazione. Le 2 regioni PAR (pseudo-autosomal regions) sono presenti sia sul cromosoma X sia sul cromosoma Y e servono al crossing-over tra gli eterocromosomi. Le regioni PAR contengono geni che non sono inattivati, perché il doppio dosaggio è assicurato in entrambi i sessi. PAR1 ha 24 geni, PAR2 ha solo 4 geni. Mutazioni o delezioni del gene SHOX (Short Stature Homemobox-Containing) nella regione PAR1 causa ritardo di crescita e bassa statura.

La bassa statura di donne con sindrome di Turner (cariotipo 45, X0) è il risultato di una sola copia di SHOX (anche il quarto metacarpo corto). La maggiore statura nelle sindromi di Klinefelter (cariotipo 47,XXY) e del triplo X (cariotipo 47,XXX) potrebbe essere il risultato di 3 copie di SHOX.

Inoltre circa il 15% dei geni umani presenti sul cromosoma X sfugge all'inattivazione, mentre nel topo questa è un'evenienza rara (solo 6 geni in tutto). La cosa interessante è che esiste una tessuto-specificità e che alcuni geni sono parzialmente inattivati e sono espressi dal 50 fino al 10%. ANOMALIE CROMOSOMICHE NUMERICHE Un'anomalia cromosomica numerica (o aneuploidia) è un fenomeno per cui il numero totale dei cromosomi in una cellula non è esatto (nell'uomo 46), ma vi sono uno o più cromosomi in eccesso (47 o più) o in difetto (45). L'aneuploidia è, nella maggior parte dei casi, causa di morte intrauterina ma si riconoscono alcune condizioni che possono arrivare fino alla nascita ed anche ad una vita adulta. Queste sono le aneuploidie più lievi, perché tutte le altre sono selezionate negativamente. 45 CROMOSOMI

Sindrome di Turner La sindrome di Turner (TS) definisce un complesso fenotipo umano femminile, dovuto a completa o parziale assenza del secondo cromosoma sessuale, monosomia X (45, X0). Dipende da un errore nella spermatogenesi nell'80% dei casi e non è correlata con l'età dei genitori. Un precedente figlio con sindrome di Turner non aumenta il rischio riproduttivo previsto per una coppia di pari età. È l'unica monosomia compatibile con la vita, anche se il 98% di tutti i feti monosomici TS va incontro ad aborto spontaneo.

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L'incidenza della sindrome di Turner negli aborti spontanei è circa il 7-10%, mentre alla nascita è 1:2500 femmine. Non è chiaro perché il cariotipo 45,X0 sia letale in utero ed invece compatibile con la sopravvivenza postnatale. Anche se si identifica la sindrome come monosomia del cromosoma X, questa è di fatto responsabile solo di circa il 45% dei casi di sindrome di Turner. Negli altri casi si trova un mosaicismo (45,X0/46,XX) e/o un anormale cromosoma X o Y (delezione, isocromosoma X, cromosoma dicentrico). Un basso livello di mosaicismo somatico Turner, inferiore al 2%, è di normale riscontro nella popolazione. La delezione di una copia del gene SHOX {Short Stature Homeobox-containing) è la causa genetica della bassa statura nelle pazienti TS, che mediamente hanno circa 20 cm di altezza in meno rispetto alle sorelle non TS. Tale gene non subisce inattivazione, perché si trova in una regione comune (PAR1) sul braccio corto del cromosoma X (Xp) e sul braccio corto del cromosoma Y. Delezioni isolate di Xp portano solo bassa statura. Le bambine TS sono trattate con l’ormone GH per anni: questo porta ad un miglioramento della statura di 5-6 cm, ma se il trattamento è più tardivo porta anche ad una esagerata crescita dei piedi. Sul cromosoma X, specie a Xq, vi sono inoltre numerosi geni collegati al mantenimento della funzione ovarica. Sono stati associati a menopausa precoce le premutazioni del gene FMR1 (Fragile X Mental Retardation-1) e le mutazioni in eterozigosi del gene BMP15 (Bone morphogenetic protein 15). In assenza di una copia del cromosoma X, l'ovaio va rapidamente incontro ad atresia (malformazione congenita). Tipicamente, nella sindrome di Turner la menopausa precede il menarca. Le ovaie sono allungate e formate da tessuto stromale privo di follicoli: gli ovociti sono spesso andati in apoptosi prima dei 2 anni di vita. L'insufficienza ovarica prepuberale porta ad amenorrea primaria, sterilità e carenza di estrogeni. In meno del 10% dei casi, la pubertà può verificarsi e sono possibili gravidanze con un aumentato rischio di perdita fetale, dovuta ad anomalie cromosomiche o malformazioni cardiache congenite. Anche in rapporto all'eterogeneità del genotipo, il fenotipo si manifesta in modo molto variabile tanto che nella pratica clinica non è possibile riconoscere molte delle caratteristiche somatiche della sindrome. Queste sono: patologie dell'orecchio medio (otite media ricorrente) che sfociano nella sordità, il linfedema con rigonfiamento delle mani e dei piedi, lo pterigio del collo (presenza di pliche cutanee con aspetto di sfinge), il quarto metacarpo (anulare) sensibilmente più corto, una mandibola più piccola (micrognazia), un torace largo con aumento degli spazi intercostali, l'attaccatura bassa delle orecchie, l'attaccatura bassa dei capelli. Si possono anche riscontrare cardiopatia sinistra (valvola aortica dicuspide, coartazione aortica), ipertensione e anomalie renali. I soggetti TS presentano talvolta lievi disturbi legati alla coordinazione visivo-spaziale. Sia l'intelligenza sia l'aspettativa di vita sono normali, a meno che non ci siano complicazioni cardiovascolari letali, quali dissezione aortica. In tal caso l'aspettativa di vita si riduce mediamente di circa 10 anni. L’analisi genetica si basa sulla metodica Southern blot.

Sindrome di Noonan Esiste anche uno pseudo-Turner (nelle donne) o Turner maschile (negli uomini). È la sindrome di Noonan, una sindrome dismorfica trasmessa come carattere autosomico dominante, in una parte dei casi dovuta a mutazioni missenso del gene PTPN11 sul cromosoma 12q24.1. Questo codifica per la protein fosfatasi non recettoriale 11 che, a causa di mutazioni che colpiscono il dominio Src-homology 2 (SH2), acquisisce una conformazione più attiva e quindi diviene allele dominante. Le caratteristiche principali includono una bassa statura dovuta all’ormone GH, dismorfismo facciale, malformazioni cardiache, deformità del torace e pterigio. 47 CROMOSOMI, TRISOMIE AUTOSOMICHE La trisomia è data dalla presenza di 3 cromosomi omologhi piuttosto che i normali 2: il numero totale dei cromosomi umani diviene pertanto 2n+1=47. Il rischio di un feto trisomico aumenta con l'età materna mentre il rischio di ricorrenza è circa doppio se la donna ha avuto un precedente figlio trisomico. La trisomia può avvenire a carico di un qualsiasi cromosoma. La più frequente trisomia è a carico del cromosoma 16 che tuttavia porta ad aborto spontaneo nel 1° trimestre. Le trisomie autosomiche più frequenti nei nati sono nell'ordine: la trisomia 21 (sindrome di Down), 18 (sindrome di Edwards), 13 (sindrome di Patau), 9 e 8. Le trisomie autosomiche rappresentano circa il 50% delle cause di aborto spontaneo da alterazione citogenetica.

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In tutte le trisomie, ed in genere nelle aneuploidie, il fenotipo sindromico presenta una significativa variabilità tra gli affetti. Spesso molti segni sono non penetranti e si riscontrano solo in una frazione di soggetti. Questo fenomeno ha una sua spiegazione nella variabilità allelica dell'espressione genica. Se si moltiplica per 3 un'espressione genica bassa, il prodotto non supera la soglia patologica. Se invece si moltiplica per 3 un'espressione genica alta, il prodotto più facilmente determinerà un carattere fenotipico patologico. Questo ragionamento vale per ciascuno dei geni del cromosoma in triplice copia, determinando una diversificazione dei fenotipi.

Trisomia 21 - Sindrome di Down. La sindrome di Down è la più frequente trisomia alla nascita e la più frequente causa di ritardo mentale. Nel 95% dei casi è dovuta alla presenza di un cromosoma 21 in più per errata disgiunzione cromosomica durante l'oogenesi, che è più frequente nelle madri di età avanzata. L'errore avviene più frequentemente nella meiosi materna 1. Solo nel 7% dei casi da non disgiunzione è di origine paterna. Nel 5% dei casi, invece, è dovuto a traslocazione di parte del cromosoma 21 su altri cromosomi (il rischio di ricorrenza in quest'ultimo caso è molto maggiore). La trisomia 21 comporta un dosaggio triplo dei 282 geni codificanti del cromosoma 21, l’autosoma più vuoto. Nonostante questo, circa il 70% delle gravidanza di feti con cariotipo 47,+21 va incontro ad aborto spontaneo. Molte caratteristiche della malattia si riscontrano anche negli individui che presentano una copia in più della banda cromosomica 21q22. Alla nascita i bambini presentano peso inferiore alla norma, ipotonia, taglio mongolico degli occhi, bocca piccola aperta da cui protrude la lingua, orecchie piccole con attaccatura bassa. Le mani sono corte e tozze, con indice, medio e anulare della stessa lunghezza ed il palmo presenta un'unica piega di flessione. Spesso si associano cardiopatie congenite o atresia duodenale. Comune è il ritardo mentale, di grado molto variabile con deficit del linguaggio e della memoria. Le tappe di apprendimento seguono fasi ritardate. La motricità è sfasata di circa 12-18 mesi e la manipolazione di 1-4 mesi. Lo sviluppo cognitivo è compromesso soprattutto in relazione alla capacità di astrarre. Il test prenatale si effettua con la tecnica NIPT, che si basa sul conteggio di frammenti dei cromosomi di interesse (in questo caso 21) presenti nel sangue materno.

Trisomia 18 (Sindrome di Edwards) e Trisomia 13 (Sindrome di Patau) Le altre 2 trisomie che possono portare in una piccola percentuale di casi alla nascita sono la trisomia 18 (sindrome di Edwards) e la trisomia 13 (sindrome di Patau). È da ricordare come questi cromosomi siano anch'essi piuttosto vuoti, con 350 e 385 geni codificanti, rispettivamente. In entrambi i casi giunge a termine meno del 2% dei concepimenti e di questi il 33% muore nel primo mese ed il 50% entro 2 mesi. Si riscontrano combinazioni di oltre 100 anomalie differenti. Sindrome di Edwards. Nella trisomia 18 (nel 90% dei casi la non-disgiunzione è materna) i sintomi sono peso sotto la norma, difficoltà di suzione, ipotonia; idrocefalo, epilessia, malformazioni cardiache, sinclinodattilia (dita fuse e deviate lateralmente), unghie poco sviluppate, piedi a calcagno prominente, gambe incrociate. Sindrome di Patau. Nella trisomia 13 (nel 90% dei casi la non-disgiunzione è materna) i sintomi sono peso sotto la norma, difficoltà di suzione, oloprosencefalia (malformazione del prosencefalo da separazione incompleta), microcefalia, cecità e sordità, occhi che possono fondersi, labiopalatoschisi (80%), epilessia, malformazioni cardiache, sinclinodattilia, piedi a calcagno prominente. 47 CROMOSOMI, TRISOMIE DEI CROMOSOMI SESSUALI Le trisomie dei cromosomi sessuali sono XXY (Klinefelter), XXX (triplo X) e XYY. Sono tutte patologie cromosomiche poco severe per le quali interviene una compensazione genica.

Sindrome di Klinefelter La sindrome di Klinefelter (KS) descrive un gruppo di disordini cromosomici, in cui in un cariotipo maschile vi è almeno un cromosoma X in più: è la sola trisomia nota in cui circa il 50% dei casi è causato da una non disgiunzione nella 1a divisione meiotica paterna. Un precedente figlio con la sindrome non aumenta significativamente il rischio riproduttivo previsto per una coppia di pari età. Tuttavia, la probabilità di non disgiunzione della X materna aumenta con l'avanzare dell'età.

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Il 50% dei casi di sindrome di Klinefelter è abortito spontaneamente. La diagnosi è spesso effettuata in utero e si osserva un aumento significativo nella percentuale di gravidanze 47,XXY diagnosticate e non interrotte, questo perché la sindrome di Klinefelter non è severa ed è trattabile. L'aneuploidia 47,XXY è di gran lunga il cariotipo di più comune riscontro, con una prevalenza alla nascita di circa 1:600 maschi. Circa il 15% dei casi ha un cariotipo a mosaico XY/XXY. Altre aneuploidie responsabili di della sindrome sono la 48,XXYY (1:17.000), 48,XXXY (1:50.000) e 49,XXXXY. Manifestazioni più evidenti della sindrome, tra cui il ritardo mentale, sembrano essere associate ad un crescente numero di cromosomi sessuali. Inoltre ci sono casi con cariotipo 46,XX dovuti alla traslocazione tra la regione di cromosoma Y (contenente il gene SRY) ed il cromosoma X durante la meiosi paterna. La sindrome risulta compensata dal fatto che i soggetti hanno la stessa inattivazione di uno dei due cromosomi X delle donne e quindi una compensazione del dosaggio genico X. I soggetti KS non mostrano alcun dismorfismo facciale e hanno una maggiore crescita staturale tra i 5-8 anni di età, con arti più lunghi. Si potrebbe attribuire questa maggiore crescita al dosaggio triplicato del gene SHOX su Xp, che sfugge all'inattivazione. Una caratteristica comune ai KS sono i bassi livelli di testosterone, con aumento di estradiolo, degli ormoni ipofisari follicolo stimolante (FSH) e luteinizzante (LH). Il testicolo alla pubertà resta piccolo con atrofia dell'epitelio tubulare e scarsità delle cellule di Leydig. Sebbene i soggetti KS siano in genere azoospermici, vi sono state alcune segnalazioni di gravidanza non assistita, in casi di KS a mosaico. Grazie alla tecnica dell'iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi estratti in profondità dai testicoli di pazienti KS, le probabilità di avere un figlio aumentano. In assenza di diagnosi prenatale, alcuni segni possono indirizzare verso la diagnosi. Nella prima infanzia si può osservare ipospadia (meato uretrale in posizione anomala), pene più piccolo, criptorchidismo (mancata discesa dei testicoli). Più tardi anche ritardo del linguaggio, difficoltà di apprendimento, o problemi comportamentali. La diagnosi della sindrome di Klinefelter in un adolescente si fa con una valutazione endocrinologica per ritardato o incompleto sviluppo puberale con aspetto eunucoide, ginecomastia (mammelle) e testicoli piccoli. Gli adulti KS sono spesso identificati per l'infertilità o per un carcinoma della mammella che ha un'incidenza molto più elevata. La terapia sostitutiva con androgeni dovrebbe iniziare durante la pubertà per mantenere concentrazioni sieriche sufficienti di testosterone. L'intelligenza dei casi 47,XXY è in un range di normalità, purché siano forniti ai ragazzi con sindrome di Klinefelter tutti gli stimoli ambientali e la terapia ormonale. Gli effetti sul fisico e il ritardo nello sviluppo cognitivo aumentano con un numero extra di cromosoma X, e ogni extra X è associata ad un quoziente di intelligenza (IQ) che diminuisce di circa 15-16 punti, con riduzione particolare delle capacità espressive. L'attesa di vita è normale.

Sindrome del triplo X La sindrome del triplo X (47,XXX) ha un'incidenza di 1:1000 nate. Le donne con triplo X sono solo un po' più alte e presentano l'inattivazione di 2 cromosomi X e quindi 2 corpi di Barr. Hanno figli con cariotipo normale.

Sindrome di Jacobs La disomia Y (47,XYY) o sindrome di Jacobs ha un'incidenza di 1:1000 nati. Il fenotipo è normale e la statura è leggermente aumentata. In passato questo assetto cromosomico è stato associato ad un comportamento socialmente pericoloso con una maggiore tendenza a commettere reati contro la persona. Questa è una tesi che oggi non trova conferme. MOLA IDATIFORME La mola idatiforme è caratterizzata dal rigonfiamento cistico dei villi coriali, accompagnato da proliferazione trofoblastica di grado variabile. Si possono identificare 2 tipologie di mola benigna non invasiva, denominate rispettivamente completa e parziale. La maggior parte delle donne con mola parziale e completa precoce presenta un'interruzione spontanea della gravidanza. Mola completa La mola completa origina dalla fecondazione di un ovocita che ha perso il suo corredo cromosomico, per cui il materiale genetico è completamente di derivazione paterna. Il 90% dei casi possiede un quadro 46,XX diploide, derivato dalla duplicazione del materiale genetico di uno spermatozoo. Il restante 10% origina dalla fecondazione di un ovocita vuoto da parte di 2 spermatozoi (46,XX e 46,XY).

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Dal punto di vista istologico quasi tutti i villi sono ingrossati ed edematosi e vi è iperplasia del trofoblasto; l'embrione muore molto precocemente. Le pazienti hanno un rischio del 2,5% di sviluppare un successivo coriocarcinoma. Mola parziale La mola parziale origina dalla fecondazione di un ovocita da parte di 2 spermatozoi: il cariotipo è triploide (69,XXY - si eredita un corredo cromosomico materno e 2 paterni) o raramente tetraploide (92,XXXY). Sebbene le mole parziali abbiano un maggior rischio di malattia molare persistente, non si ritiene abbiano un rischio aumentato di coriocarcinoma. 69 CROMOSOMI, TRIPLOIDIA La triploidia consiste nella presenza di 3 corredi cromosomici aploidi invece di 2; il numero totale dei cromosomi umani è pertanto 3n=69. Il cariotipo più comune è 69,XXY (60% dei casi) poi 69,XXX (40%) mentre è raro il cariotipo 69,XYY. Tre differenti meccanismi possono produrre la triploidia: - la dispermia (quando un ovocita aploide viene fecondato da 2 spermatozoi aploidi); - la diandria (quando un ovocita aploide viene fecondato da uno spermatozoo diploide in cui la non disgiunzione si è verificata durante la anafase I o II); - la diginia (si ha quando un ovocita diploide viene fecondato da uno spermatozoo aploide in cui la non disgiunzione si è verificata durante la anafase I o II). La triploidia rappresenta il 15% delle anomalie cromosomiche negli aborti, mentre alla nascita la prevalenza è 1:10000 con una scarsa sopravvivenza.

Triploidia di tipo I Nella triploidia di tipo I, da corredo soprannumerario paterno, il feto è microcefalico e la placenta ingrossata.

Triploidia di tipo II Nella triploidia di tipo II, da corredo soprannumerario materno, il feto presenta invece ritardo di crescita con macrocefalia relativa e la placenta è poco sviluppata. La triploidia rappresenta il 15% delle anomalie cromosomiche negli aborti, mentre alla nascita la prevalenza è 1:10000 con una scarsa sopravvivenza. ANOMALIE CROMOSOMICHE STRUTTURALI Traslocazioni, inserzioni, inversioni Le traslocazioni sono anomalie cromosomiche strutturali, causate da riarrangiamenti di pezzi tra cromosomi non omologhi. Un gene di fusione può essere creato quando la traslocazione unisce 2 geni separati, evento comune nelle cellule maligne. Le traslocazioni possono essere bilanciate o sbilanciate:

- Nelle bilanciate non c’è perdita di informazione genica. In tali casi nessuna regione cromosomica è assente, ma è solo trasferita su un altro cromosoma; - Nelle sbilanciate l’informazione genica è aumentata o diminuita. Quando le regioni cromosomiche coinvolte sono ampie, l'anomalia risulta incompatibile con la vita, mentre quando sono più piccole risultano di più difficile identificazione mediante analisi del cariotipo standard.

Le traslocazioni robertsoniane coinvolgono i cromosomi acrocentrici (13, 14, 15, 21 e 22) che contengono un braccio corto privo di geni che, con la fusione dei bracci lunghi di 2 cromosomi acrocentrici, può essere perduto. Quindi la traslocazione robertsoniana è bilanciata e di per sé non provoca un fenotipo patologico, ma condiziona fortemente il rischio riproduttivo. Può causare la sindrome di Down (4%). Le traslocazioni si formano in genere durante la meiosi femminile e comportano infertilità maschile o abortività ripetuta. La più frequente traslocazione robertsoniana è la rob (13q14q) che è il più comune riarrangiamento cromosomico umano Le inserzioni sono un tipo di traslocazione che comporta 3 punti di rottura: i primi 2 per far venir fuori un segmento interstiziale di cromosoma ed il 3° nel punto in cui il segmento si deve inserire. Le inserzioni, pur rare, comportano il massimo rischio riproduttivo, con molti aborti. Minore è la lunghezza del segmento inserito e maggiore è il rischio. Le inversioni, rare, prevedono 2 punti di rottura su un cromosoma con reintroduzione dello stesso segmento, ma invertito. Le inversioni pericentriche dei cromosomi 1, 9, 16 e Y (il segmento invertito

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contiene il centromero) sono eteromorfismi citogenetici di normale riscontro in soggetti sani. L'eterozigote per un'inversione è un soggetto normale. RISCHIO RIPRODUTTIVO DI UNA TRASLOCAZIONE In una traslocazione c’è un rischio riproduttivo perché è possibile produrre gameti sbilanciati. Alla meiosi i cromosomi traslocati si appaiano formando tetravalenti. La segregazione può avvenire:

- in maniera alternata, con la produzione di gameti normali o con traslocazione bilanciata; - in maniera adiacente, con la produzione di gameti con traslocazione sbilanciata (nella segregazione adiacente 1) o con trisomia (nella segregazione adiacente 2).

Inoltre è importante il sesso del genitore portatore della traslocazione: è maggiore il rischio nella donna rispetto all'uomo (gli spermatozoi hanno il 7,5% di difetti contro 1% degli ovociti, ma sono selezionati). Inoltre ogni rischio aumenta se il difetto è stato accertato a partire da un figlio precedente con cariotipo sbilanciato. ANOMALIE SUBMICROSCOPICHE Il disordine genomico submicroscopico è una patologia causata da acquisizione, perdita, o alterazione di uno o più geni contigui le cui variazioni di dosaggio possono produrre effetti fenotipici. La base molecolare è rappresentata da riarrangiamenti genomici, quali duplicazioni, delezioni, inversioni, senza grosse alterazioni del cariotipo (minore di 5 megabasi) e per questo submicroscopici. Delezioni del cromosoma X nei maschi si manifestano fenotipicamente come sindrome da geni contigui. Al contrario, in caso di delezioni autosomiche in eterozigosi, molto spesso il dosaggio dimezzato non è causa di malattia. Quando si osserva una sindrome da delezione è risolutivo trovare la stessa sindrome causata da una mutazione puntiforme in uno solo dei geni. Se questa non si trova, la sindrome esiste solo come somma di più difetti indipendenti funzionalmente, o sindrome da geni contigui. DELEZIONI

Sindrome di Di George La delezione 22q11.2 o sindrome di Di George è la più frequente sindrome da microdelezione, con un'incidenza di 1 su 4000-5000 nati. La delezione comprende 3 megabasi ed almeno 30 geni. Mutazioni puntiformi del gene TBX1 possono portare a CATCH-22, 5 tratti fenotipici:

- Cardiac defect (tetralogia di Fallot, un’anomalia cardiaca); - Abnormal faces (anomali facciali); - Thymic hypoplasia (ipoplasia del timo con deficit delle cellule T, quindi severa immunodeficienza); - Cleft palate (palatoschisi); - Hypocalcemia (ipocalcemia).

Il profilo del paziente affetto dalla sindrome è piatto, le rime palpebrali sono strette; presenta epicanto, viso ipotonico, ipertelorismo, radice del naso prominente, padiglioni auricolari malformati (faccia da gatto). La delezione 22q11.2 è ereditata come tratto autosomico dominante, nel 93% degli affetti è nuova mentre è ereditata da un genitore solo nel 7% dei casi: la delezione è causata da un difetto nello sviluppo di strutture embrionali (III e IV tasca branchiale) da cui derivano il timo e le paratiroidi (inferiori e superiori). Il difetto embriogenetico riguarda il differenziamento delle cellule della cresta neurale, determinanti nello sviluppo della struttura di queste tasche, da cui si formano cartilagini, muscoli e vasi sanguigni, causando principalmente ipoplasia del timo e delle paratiroidi, anomalie cardiache e caratteristiche facciali comuni. L’analisi genetica si basa sulla metodica FISH e/o CGH Array.

Sindrome del “Cri du chat” La sindrome del “Cri du chat" (sindrome da delezione 5p) prende il nome dal caratteristico pianto monotono per un abnorme sviluppo della laringe nei bambini affetti. È dovuto ad una delezione in eterozigosi della regione cromosomica 5p15.2 che porta ad aploinsufficienza alcuni geni chiave per lo sviluppo cerebrale. Il bambino è sotto peso ed ipotonico, ha il viso con testa piccola, sella nasale ampia, mandibola piccola (micrognazia), aumento della distanza interoculare (ipertelorismo), epicanto (piega cutanea che copre l’angolo interno dell’occhio). Il quoziente intellettivo è spesso minore di 50 e, tra tali individui, la frequenza

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della malattia è di 1:350, mentre nella popolazione generale è di 1:20000- 50000. L'80% dei casi è dovuto a nuove mutazioni. L’analisi genetica si basa sulla metodica FISH. N.B.: l’ipertelorismo può essere riferito a qualsiasi organo pari, ma in genere si riferisce agli occhi. La malformazione è dovuta a un maggiore sviluppo relativo delle ali dello sfenoide, per cui le orbite sono più distanziate tra loro: in tal caso la radice del naso è allargata.

Sindrome di Williams-Beuren La delezione 7q11.23 o sindrome di Williams-Beuren ha una prevalenza alla nascita di 1:7500-20000, ma può non essere diagnosticata. È una malattia genetica dovuta ad una delezione interstiziale in eterozigosi della regione 7q11.23, che comprende 1,6 megabasi da 21 geni contigui, tra cui il gene dell'elastina, della LIM kinase 1 (LIMK1), del CLIP-115 che lega i microtubuli, e dei fattori di trascrizione GTF2I e GTF2IRD. I bambini con sindrome di Williams presentano lieve o medio ritardo mentale (IQ tra 41 e 80) con scarsa capacità di concentrazione, ritardo nell'apprendimento del linguaggio che con gli anni diventa esagerata loquacità, data da una personalità amichevole e affettuosa. I bambini Williams danno facilmente confidenza anche a sconosciuti e sono ansiosi perché preoccupati per il benessere altrui: sono state descritte ipersensibilità ai suoni, memoria visiva e uditiva spesso fuori dal comune. Ricordano persone, luoghi e motivi musicali ed hanno predisposizione ad imparare le lingue e la musica. Hanno una statura più bassa di circa 10 cm, hanno spesso ipercalcemia, stenosi periferica delle arterie polmonari e stenosi aortica sopravalvolare. Altre alterazioni sono la faccia da elfo, occhi blu con pattern stellato dell’iride, strabismo, bocca larga e guance piene, micrognazia. L’analisi genetica si basa sulla metodica FISH.

Sindrome di Wolf Hirschhorn La delezione 4p16.3 o sindrome di Wolf Hirschhorn è una delezione de novo di circa 4 megabasi; le delezioni sono più frequenti nella linea germinale maschile; la trasmissione è autosomica dominante. La delezione 4p16.3 è in una regione critica di 165 kilobasi di molti geni contigui in eterozigosi. La sindrome è caratterizzata da scarso accrescimento, ritardo mentale, ipotonia, labbro leporino e conformazione ad elmo di guerriero greco. L’analisi genetica si basa sulla metodica CGH Array.

Sindrome di Smith-Magenis La sindrome di Smith-Magenis è una malattia sporadica da delezione 17p11.2 del gene RAI1 (acido retinoico indotto, nel 90% dei casi). L’allele che contiene il gene RAI1 è ipomorfo (c’è aploinsufficienza del gene, poiché la mutazione riduce la quantità di prodotto genico o la sua qualità funzionale). Altre cause sono microdelezioni o mutazioni frameshift del gene RAI1. Il prodotto genico di RAI1 è prodotto in risposta all’acido retinoico ed è importantissimo nelle prime fasi dello sviluppo per la differenziazione del sistema nervoso. I sintomi sono ritardo mentale con autolesionismo (onicotillomania), disturbi del sonno per deficit della melatonina (sonno notturno discontinuo con sonno diurno), brachicefalia e ipoplasia della parte centrale della faccia, brachidattilia (mani e piedi piccoli), bassa statura, ipotonia, alterazioni cardiache e renali. L’analisi genetica si basa sulla metodica FISH.

Sindrome di Mowat-Wilson La sindrome di Mowat-Wilson è causata dalla delezione del cromosoma 2q22 che contiene il gene ZEB2 (Zinc finger E-box-binding homeobox 2). Sono state riportate nei pazienti con quadro clinico caratteristico più di 100 delezioni/mutazioni: si tratta spesso di delezioni dell'intero gene o di mutazioni troncanti. È caratterizzata da un fenotipo facciale caratteristico (fronte alta e bombata, ipertelorismo, occhi grandi e infossati, lobi delle orecchie grandi e prominenti), ritardo mentale moderato-grave, crisi epilettiche e malformazioni congenite variabili, cardiopatie congenite, assenza del corpo calloso e anomalie oculari. TETRALOGIA DI FALLOT La tetralogia di Fallot (detta anche sindrome del bambino blu) è una malformazione cardiaca congenita caratterizzata da 4 elementi anatomici:

- difetto del setto interventricolare; - aorta a cavaliere (origine biventricolare dell'aorta, che si trova a cavallo fra i due ventricoli, sopra il

difetto interventricolare); - stenosi sottovalvolare e valvolare polmonare; - ipertrofia del ventricolo destro, come conseguenza degli altri difetti.

Questa patologia si sviluppa poiché, già in fase embrionale, la parte superiore e quella inferiore del cuore non combaciano provocando un’ostruzione all'efflusso verso l'arteria polmonare, con le conseguenze sopra

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indicate. Il bambino è cianotico, con cianosi periferica (aumentata richiesta di sangue da parte dei tessuti) e centrale (di origine polmonare o cardiaca). Le dita a bacchetta di tamburo si formano per il miscelamento di sangue (sangue non completamente ossigenato) dovuto al difetto interventricolare. La terapia medica si propone di curare le crisi ipossiche mediante ossigenoterapia, β-bloccanti e bicarbonato e di prevenire l’endocardite batterica. La terapia chirurgica può essere in un primo tempo palliativa (anastomosi fra circolo sistemico e circolo polmonare) quando le crisi ipossiche sono minacciose per la vita e, in seguito, intervento radicale in età prescolare. CONSULENZA GENETICA ED ALBERI GENEALOGICI La consulenza genetica è una comunicazione informata ed appropriata. Per essere informata deve partire dall'individuazione di un difetto genetico in un paziente e dal calcolo del rischio per gli altri componenti della famiglia; per essere appropriata deve saper stabilire un rapporto di fiducia e di confidenza senza essere direttiva, cioè non deve indirizzare la famiglia verso un unico obiettivo, ma lasciare libertà di valutazione e di scelta. La consulenza genetica può riguardare:

- la diagnosi di una malattia genetica clinicamente manifesta; - il rischio riproduttivo di una coppia in epoca pre-concezionale; - la diagnosi prenatale; - la predizione di una malattia genetica futura; - la suscettibilità genetica.

Quando si conosce il tipo di patologia genetica, si può anche determinare la probabilità che una determinata persona avrà ereditato quel tratto genetico responsabile della patologia o potrebbe averlo trasmesso ai propri figli. La modalità di trasmissione delle malattie genetiche alle generazioni successive può essere ben stabilita. Spesso purtroppo la patologia non è identificata con certezza e la storia familiare è vaga, senza una diagnosi precisa. In linea di massima ci sono 2 grandi categorie di patologie genetiche: monoalleliche, dovute alla mutazione di una sola copia di DNA, e bialleliche, dovute a mutazioni di entrambe le copie di DNA. Inoltre un'ulteriore distinzione va fatta tra patologie a penetranza completa (in genere disordini mendeliani) e quelle a penetranza incompleta, o circoscritta. La consulenza genetica cerca di stabilire quali membri della famiglia sono interessati e quali possono essere portatori, e quindi calcolare la probabilità di ogni altra persona nella famiglia (anche non ancora nata) di essere un portatore o di ereditare la malattia. La raccolta dei dati relativi all'ereditarietà di una sospetta patologia genetica è riassunta in un codice universale compreso da qualunque medico nel mondo. È indispensabile indicare i componenti dell'albero genealogico secondo regole standard:

- i soggetti di sesso maschile sono indicati con un quadrato ed i soggetti di sesso femminile con un cerchio, se il sesso non è conosciuto, o non rilevante, si usa un rombo;

- una linea orizzontale unisce i 2 genitori, da essa parte una linea perpendicolare che si dirige in basso verso i simboli dei figli;

- i cerchi, i quadrati ed i rombi sono anneriti quando si indicano gli affetti, sono vuoti ad indicare i non affetti, hanno all'interno un puntino quando i soggetti sono portatori (carriers) non affetti;

- i defunti sono tracciati con una linea obliqua che attraversa il simbolo, mentre gli aborti sono indicati con simboli di dimensioni ridotte;

- i gemelli non identici sono collegati in alto da 2 linee oblique a cui si aggiunge un tratto orizzontale che li unisce in caso di gemelli identici;

- i figli adottivi sono tra parentesi quadre. Carrier: Un individuo che è portatore non affetto di un’alterazione genica recessiva: ha un allele con una mutazione recessiva che è compensato nella funzione dall'altro allele normale. È anche definito così il portatore sano di una traslocazione cromosomica bilanciata. Gemelli dizigoti: i gemelli dizigoti originano dalla fecondazione di 2 ovociti da parte di 2 spermatozoi diversi e condividono il 50% del loro patrimonio genetico come i fratelli. Gemelli monozigoti: i gemelli monozigoti derivano dallo stesso zigote e hanno quindi patrimonio genetico identico.

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PENETRANZA ED ESPRESSIVITÀ La penetranza è la frequenza con cui gli individui che hanno un dato genotipo esprimono un fenotipo. È definita completa se tutti gli individui con lo stesso genotipo esprimono il fenotipo, incompleta se vi sono individui che non lo esprimono. La penetranza completa è tipica delle malattie mendeliane, cioè quelle in cui la mutazione di uno specifico gene è di per sé sufficiente a determinare la patologia che si eredita secondo le leggi di Mendel. La penetranza può essere dipendente dall'età: ad esempio, nella corea di Huntington il fenotipo clinico si manifesta solo dopo un'età soglia (ad esempio 55 anni) e quindi la penetranza giovanile è zero, mentre quella senile è completa. La penetranza al di sotto del 20% fa dubitare del carattere mendeliano e porta a considerare il fenotipo come una variabile in funzione dell'interazione con altri geni o con l'ambiente. Si parla in tal caso di penetranza incompleta, che equivale alla manifestazione patologica solo in presenza di un fattore patologico genetico o ambientale. L'espressività è l'insieme delle caratteristiche cliniche individuali di una patologia genetica, che possono presentarsi in maniera diversa da persona a persona, anche nella stessa famiglia. Ad esempio, in una condizione autosomica dominante, come il rene policistico, alcuni affetti sviluppano insufficienza renale in età adulta, mentre altri hanno solo alcune cisti renali che non influenzano in modo significativo la funzione renale. Nella fibrosi cistica alcuni individui sono affetti da pancreatite, mentre in altri ciò non avviene. RAPPORTO GENOTIPO-FENOTIPO Il rapporto genotipo-fenotipo è una delle relazioni più complesse da definire. In letteratura ci sono decine di migliaia di pubblicazioni che tentano di stabilire una correlazione tra la sequenza di DNA e la patologia mostrata. La correlazione è complessa anche nel caso più semplice come, ad esempio, patologie mendeliane a penetranza completa, perché mutazioni identiche possono dar luogo a fenotipi differenti mentre mutazioni ipoteticamente molto diverse possono esprimere fenotipi sovrapponibili. Livelli di complessità maggiori si riscontrano con patologie a penetranza incompleta o in patologie multifattoriali. Anche se gli studi di associazione sull'intero genoma hanno identificato marcatori che sono associati con malattie comuni a componente genetica, la nostra capacità di prevedere tali fenotipi resta praticamente nulla. CLASSI DI MUTAZIONI DEL DNA Classificazione funzionale Le variazioni della sequenza di DNA sono classificate in 6 categorie: 1) Variazioni che non modificano né la quantità, né la qualità funzionale del prodotto genico, che pertanto risulta invariato e normalmente localizzato: in tal caso si produce un allele equivalente; 2) Variazioni che riducono la quantità di prodotto genico e/o la sua qualità funzionale: tali variazioni producono un allele ipomorfo. Di regola, tali alleli sono silenti e recessivi ma possono essere causa di malattia se in emizigosi: ad esempio, gli alleli ipomorfi del gene della distrofina localizzato sul cromosoma X determinano la distrofia muscolare di Becker nei maschi, in quanto hanno una singola copia del gene.

Emizigosi: condizione di un gene presente in singola copia come avviene nel caso di aneuploidia o nel caso di geni localizzati sul cromosoma sessuale singolo; Eterozigosi: condizione in cui vi è una coppia di alleli diversi per un dato gene. Gli alleli occupano gli stessi loci sui cromosomi omologhi corrispondenti; Omozigosi: condizione in cui vi è una coppia di alleli uguali per un dato gene. Gli alleli occupano gli stessi loci sui cromosomi omologhi corrispondenti.

3) Variazioni in cui c’è delezione della sequenza codificante del gene che produce un allele amorfo (assente). La mutazione azzera il prodotto o la funzione del gene. L'allele amorfo causa in emizigosi una malattia genetica quando colpisce una funzione genica essenziale (ad esempio, distrofia muscolare di Duchenne); in eterozigosi è presente in un portatore sano e non dà malattia, o si può avere aploinsufficienza se il dosaggio genico dell’altro allele non mutato è insufficiente a mantenere lo stato di salute.

Aploinsufficienza è l’insufficiente quantità di prodotto genico causata da una mutazione in eterozigosi. La mutazione è di tipo allele amorfo o ipomorfo.

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4) Variazioni che aumentano la quantità o funzione di un prodotto genico e producono un allele ipermorfo. L’allele è associato ad un tratto genetico dominante, in quanto l’aumentata espressione non può essere compensata dall’eterozigosi. Un esempio classico è l'aumentata funzione del recettore per FGF3 (fattore di crescita dei fibroblasti) che causa l'acondroplasia (nanismo dismorfico, a trasmissione autosomica dominante). 5) Variazioni che danno un prodotto o una funzione genica nuovi, producono un allele neomorfo. Questo allele è associato ad un tratto genetico dominante, in quanto l’aumentata espressione non può essere compensata dall’eterozigosi. L’allele neomorfo è causa di molte forme di neoplasia (un esempio è il cromosoma di fusione Philadelphia che determina la comparsa di proteine di fusione BCR-ABL in casi di leucemia mieloide cronica). 6) Variazioni che colpiscono un gene il cui prodotto proteico funziona in cooperazione con altre proteine producono un allele antimorfo (o dominante negativo). Tali mutazioni rendono la proteina di disturbo a tutte le altre pur essendo queste ultime perfettamente normali. Un esempio è dato dal collagene in cui più geni (e 2 alleli per ogni gene) contribuiscono alla formazione delle proteine, ciascuno producendo una parte delle catene di base. Una mutazione in un solo allele produce un effetto negativo complessivo.

Allele dominante e recessivo: L’allele dominante determina il fenotipo della prima generazione. L’allele recessivo ricompare in seconda generazione.

Classificazione strutturale Le mutazioni puntiformi (o sostituzioni) avvengono di continuo nel DNA delle cellule e molte sono riparate. Alcune sono determinate dall'azione di mutageni chimici o fisici (i raggi UV, ad esempio, provocano la sostituzione TT/CC). Nella linea germinale maschile la frequenza delle mutazioni puntiformi nei gameti è più elevata. Tutte le mutazioni de novo sono in eterozigosi o in emizigosi se si verificano nei cromosomi sessuali maschili. Tali mutazioni si dividono in

- mutazioni silenti, quando l’aminoacido non cambia; - mutazioni missenso quando un aminoacido è sostituito da un altro; - delezioni/inserzioni in frame, delezione o inserzione di uno o più aminoacidi; - mutazioni nonsenso quando un codone di un aminoacido è sostituito da un codone di stop; - mutazioni nonstop quando al contrario un codone di stop è sostituito da un codone di un aminoacido; - mutazioni frame-shift, quando in seguito a delezione o inserzione di un numero di nucleotidi non divisibile per 3 si ha slittamento della cornice di lettura; - mutazioni di splicing, quando le mutazioni sono a carico di sequenze di regolazione dello splicing.

La maggior parte delle mutazioni puntiformi è costituito dalle transizioni (sostituzioni pirimidina-pirimidina oppure purina-purina), ma ci sono in minor parte anche le trasversioni (sostituzioni pirimidina-purina oppure purina-pirimidina, che di solito producono una mutazione nonsenso). L’abbondanza delle transizioni è dovuta dalla metilazione del DNA, che consiste nel legame covalente di gruppi metilici alle basi azotate di DNA. Questo processo avviene principalmente a livello di una citosina seguita da una guanina (definita CpG): la metilazione è associata a una ridotta trascrizione dei geni e può essere causa di mutazione della citosina in timina. Ogni volta che in un gene è collocata la sequenza CpG, quel punto è a rischio transizioni. La maggior parte delle mutazioni puntiformi non altera il fenotipo perché:

- il nuovo aminoacido non altera la funzione della proteina; - la mutazione in eterozigosi è compensata dall’altro allele; - il gene non è indispensabile perché la sua funzione è svolta da un altro gene simile.

Le inserzioni e/o delezioni frameshift, invece, causano una distorsione della struttura del DNA se presenti su una sola elica. La variazione è costituita spesso dalla perdita o acquisizione di un singolo nucleotide, ma possono essere persi o acquisiti fino a 5-6 nucleotidi e anche di più. L'aspetto più importante è la localizzazione:

- se è intronica, è senza conseguenze; - se è intronica fiancheggiante un esone, può non includere l'esone nell’mRNA; - se è esonica, produce sempre un allele amorfo e raramente un allele ipomorfo, perché determina frameshift (scivolamento della cornice di lettura) dell’mRNA, che è appunto codificato a triplette esatte e non ammette scivolamenti.

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Un caso a parte si verifica con le inserzioni e/o delezioni in-frame di un numero esatto di triplette perché non c'è frameshift. Ad esempio, nella fibrosi cistica l'allele patologico più frequente (amorfo/ipomorfo per mancata localizzazione) è rappresentato dalla delezione di una tripletta esatta, ma nella maggioranza dei casi le alterazioni di singole triplette producono alleli equivalenti. Esistono anche indel in cui delezione ed inserzione sono contemporanee con conseguenze quasi sempre importanti. Un caso di apparenti indel multipli è rappresentato dalla conversione genica, in cui avviene lo scambio di segmenti tra geni o pseudogeni ad alto grado di omologia, con conseguenze imprevedibili. I riarrangiamenti genomici sono frequenti per la presenza di elementi ripetuti che facilitano la ricombinazione tra segmenti omologhi con la delezione di un lungo tratto di sequenza di DNA, che può includere un gene grande o più geni contigui. Il gene più predisposto a tali riarrangiamenti è quello della distrofina, in cui i 3/4 dei casi di malattia sono dovuti a delezioni o duplicazioni che colpiscono esoni multipli del gene. I riarrangiamenti genomici sono stati sottovalutati come causa di malattia fino all’avvento dell’array CGH che permette di scoprire anche delezioni o duplicazioni intrageniche in eterozigosi e CNV. Le duplicazioni segmentali (note anche come LCR, low copy repeats) sono blocchi di poche sequenze ripetute con omologia reciproca molto alta. Rappresentano circa il 6% del genoma umano e sono maggiormente concentrate nelle regioni pericentromeriche e subtelomeriche. Spesso sono duplicati nell’ambito di una stessa regione cromosomica a distanza di poche megabasi e possono causare delezioni, duplicazioni, inversioni e traslocazioni. Alcune sindromi collegate a questi disordini genomici sono la sindrome di DiGeorge, di Williams-Beuren e la Smith-Magenis. Le variazioni del numero di copie (CNV) sono variazioni del numero di ripetizioni di una sequenza di DNA. Possono essere delezioni o duplicazioni che portano ad un cambiamento del numero di copie di una specifica regione cromosomica. Possono avere una dimensione che varia da 1 kilobase a diverse megabasi. Queste varianti strutturali quantitative spesso coinvolgono 1 o più geni e comprendono complessivamente più nucleotidi per genoma rispetto al numero totale di SNP (polimorfismi a singolo nucleotide). Si stima che circa il 12% del genoma sia coperto da CNV: sebbene queste varianti in alcune regioni del genoma non hanno alcuna conseguenza fenotipica, altre possono causare malattie genetiche. MALATTIE DA SPLICING

Progeria di Hutchinson-Gilford La progeria di Hutchinson-Gilford è causata da una mutazione de novo in eterozigosi sul cromosoma 1 (1q23) del gene lamina A. La mutazione non cambia l'aminoacido glicina G608G, ma introduce un sito donor di splicing GGT che fa perdere 50 aminoacidi alla proteina (la mutazione del gene riguarda lo splicing dell’RNA). La lamina A codificata dal gene mutato contiene un gruppo farnesilato alla fine, che viene incorporato nella struttura della costruzione della lamina nucleare con un effetto dominante negativo, per cui tutta la lamina del nucleo è compromessa (ciò avviene in particolare nelle mesenchimali come adipociti, fibroblasti e cellule muscolari). I sintomi sono invecchiamento precoce, bassa statura, pelle rugosa, calvizie, assenza di tessuto adiposo, diabete, cataratta, aterosclerosi ed infarto. La morte avviene mediamente intorno agli 11 anni di età. PATOLOGIA MENDELIANA MONOALLELICA Le mutazioni monoalleliche possono causare disordini a trasmissione dominante o recessiva legata al cromosoma X negli uomini. EREDITÀ AUTOSOMICA DOMINANTE L’eredità autosomica dominante è dovuta a mutazioni degli autosomi in eterozigosi: è sufficiente un allele mutato affinché si manifesti la patologia, indipendentemente dal sesso. Se uno solo dei 2 genitori è affetto (ed è eterozigote), trasmette la mutazione (la malattia) al 50% della prole. Il rischio riproduttivo è ovviamente indipendente dal partner dell'affetto e dalla sua provenienza geografica. Alcune patologie a trasmissione autosomica dominante presentano il fenomeno dell'anticipazione, cioè un'espressività della malattia ad un'età più precoce nel figlio rispetto al genitore.

Anticipazione: L’anticipazione è un fenomeno per cui, per alcune malattie ereditarie che si manifestano in età adulta, si osserva, con il passare delle generazioni, un esordio più precoce e/o

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un aggravamento dei sintomi nei soggetti affetti. È tipica delle malattie causate dall’espansione di triplette (come la corea di Huntington).

Si trasmettono solo i caratteri autosomici dominanti che consentono la riproduzione dell'individuo, altrimenti il carattere si estingue con l'individuo affetto e la malattia si ritrova solo come nuova mutazione. Questo avviene anche quando la malattia annulla la capacità riproduttiva (fitness nulla). In altri casi, la riproduzione dell'affetto è consentita, ma è svantaggiata (fitness ridotta) e la patologia è nella maggior parte dei casi dovuta a mutazioni de novo (assenti nei genitori). Una parte delle mutazioni de novo è legata all'invecchiamento dei gameti e, almeno per quello che riguarda le mutazioni intrageniche piccole o puntiformi, è atteso un maggior contributo paterno. Nella linea germinale maschile il ciclo cellulare ha infatti una durata di circa 2 settimane: questo vuol dire che i gameti maschili con gli anni subiscono più divisioni, il che equivale a più possibilità di errori di replicazione di DNA. Esistono studi che dimostrano una correlazione significativa tra età paterna avanzata ed insorgenza di mutazioni puntiformi de novo che sono causa di malattia autosomica dominante nel figlio, quale neurofibromatosi o acondroplasia.

Neurofibromatosi di tipo I o morbo di von Recklinghausen La neurofibromatosi di tipo I, detta anche morbo di von Recklinghausen, è una delle più comuni malattie genetiche con una prevalenza alla nascita di 1:3000. È causata da mutazioni in eterozigosi del gene NF1 sul cromosoma 17q che si trasmettono con modalità autosomica dominante a penetranza completa dopo i 12 anni ed espressività variabile. Le mutazioni sono non-senso, missenso, alterazioni dei siti di splicing, delezioni o inserzioni. Tutte causano la perdita di funzione dell’allele colpito (allele amorfo). Nel 50% dei casi la malattia non è ereditata, ma è causata da mutazioni de novo a cui è particolarmente sensibile il gene NF1. Il gene NF1 (oncosoppressore) codifica per la neurofibromina-1 che interferisce con Ras perché è omologa a GAP, il quale favorisce l’idrolisi del GTP in GDP, importante nella trasduzione del segnale. La patologia è caratterizzata da almeno 2 tra i seguenti segni: macchie caffelatte, noduli di Lisch (amartomi dell'iride), neurofibromi, lentigginosi ascellare o inguinale, lesione ossea distintiva (displasia dello sfenoide, assottigliamento della corticale delle ossa lunghe), glioma ottico o un parente di primo grado con neurofibromatosi.

Sindrome di Marfan La sindrome di Marfan è causata da mutazioni in eterozigosi sul cromosoma 15q21 del gene FBN1 che codifica per la fibrillina. Il gene FBN1 è composto da 65 esoni. La maggior parte delle centinaia di differenti mutazioni è costituita da mutazioni missenso (che cambiano un singolo amminoacido della proteina) preferibilmente a carico delle cisteine. La sindrome di Marfan è causata da alleli amorfi in eterozigosi che causano aploinsufficienza; ha un'incidenza alla nascita di circa 1:5000 e si trasmette come carattere autosomico dominante, ma nel 25% dei casi la malattia è il risultato di una mutazione de novo. La fibrillina è il maggiore elemento costitutivo delle microfibrille extracellulari che hanno una distribuzione capillare sia nel tessuto elastico sia nel connettivo non elastico. La ridotta o anomala fibrillina-1 porta alla debolezza del tessuto, con aumentata produzione del fattore di crescita TGF-β e la perdita delle interazioni cellula-matrice. Si definisce sindrome e non malattia perché è costituita da un insieme di segni clinici apparentemente non collegati, ma che si osservano contemporaneamente nei pazienti, così di frequente da essere riconosciuti come un'unica patologia. I segni cardinali sono:

- l’aneurisma aortico prossimale; - la lussazione del cristallino; - la crescita eccessiva delle ossa lunghe.

La crescita eccessiva e sproporzionata delle ossa lunghe (braccia, gambe, dita) è la manifestazione più evidente, si associa una deformità della gabbia toracica causata dalla crescita eccessiva delle costole che spingono lo sterno anteriormente o posteriormente. Un segno facile da ricordare è l'aracnodattilia (dita a forma di zampe di ragno per la crescita eccessiva e l'assottigliamento delle dita). In contrasto con molti altri disturbi del tessuto connettivo, come la sindrome di Ehlers-Danlos, i pazienti con sindrome di Marfan hanno in genere una pelle normale ed elastica, ma presentano spesso strie atrofiche. Tra le tante diverse manifestazioni cliniche della sindrome di Marfan, il coinvolgimento cardiovascolare merita una particolare attenzione, a causa del suo impatto sulla prognosi. È cruciale valutare eventuali aneurismi della radice aortica che va sostituita chirurgicamente per evitare il rischio di dissezione aortica e morte. Tuttavia, le valutazioni più recenti della sindrome di Marfan riportano un'aspettativa di vita quasi

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normale, indicando che in questi ultimi anni c'è stato un miglioramento nel riconoscimento e nel trattamento di questa condizione.

Acondroplasia L'acondroplasia è una forma di nanismo dismorfico che ha un’incidenza alla nascita di 1:35000. Le caratteristiche più evidenti sono gli arti corti, la testa sproporzionatamente più grossa, la fronte prominente e il naso appiattito. L'altezza media raggiunge 130 cm nei maschi e 125 cm nelle femmine. Il termine indica l'assenza di formazione di cartilagine. La mutazione è in eterozigosi e consiste in un’arginina che sostituisce una glicina (G380R) nel recettore 3 del FGF (fattore di crescita dei fibroblasti). Il gene FGFR3 è localizzato sul braccio corto del cromosoma 4 (4p16.3), circa 1,3 megabasi più telomerico rispetto al gene della corea di Huntington. L'acondroplasia si trasmette come carattere autosomico dominante a penetranza completa. Dal momento che gli affetti raramente hanno figli, nel 90% dei casi la patologia è causata da una mutazione de novo che colpisce preferenzialmente quel codone perché contiene un dinucleotide CpG e quindi è metilabile ed ipermutabile. Questa specifica mutazione conferisce una funzione aumentata al recettore dell’FGF (allele ipermorfo) che è una tirosinchinasi di membrana. In risposta all’FGF il recettore dimerizza e si fosforila, trasducendo un segnale con la funzione di rallentare la proliferazione dei condrociti e quindi la crescita ossea.

Ipocondroplasia L'ipocondroplasia ha caratteristiche simili all'acondroplasia, ma di gravità minore con un coinvolgimento craniofacciale inferiore. L'altezza può risultare ai limiti della norma e la malattia viene spesso non diagnosticata. L'ipocondroplasia è meno omogenea: circa il 70% dei casi è dovuto alla sostituzione N540K del gene FGFR3, mentre non si conosce la mutazione nel restante 30%.

Rene policistico autosomico dominante dell’adulto (ADPKD) Il rene policistico autosomico dominante dell'adulto ha un'incidenza di 1:1000 e costituisce la causa più frequente di insufficienza renale. I pazienti sono eterozigoti per una mutazione del gene PKD1 sul cromosoma 16p13 (nella regione cromosomica dei geni delle α-globine) che codifica per la policistina-1 nell'85% dei casi o del gene PKD2 sul cromosoma 4 che codifica per la policistina-2. Mentre la policistina-1 ha una funzione connessa alle interazioni tra le cellule e con la matrice extracellulare, la policistina-2 è un canale permeabile al calcio. Le modificazioni che si verificano in questa malattia sono legate alla funzione del calcio come secondo messaggero, che in questa malattia risulta avere delle concentrazioni anomale a causa delle mutazioni sulla policistina-1 (o sulla 2) che fanno parte di un complesso che regola la concentrazione del calcio intracellulare. Lo screening delle mutazioni del gene PKD1 è reso difficile sia dalle dimensioni del trascritto, sia dalla presenza nella stessa area genomica di almeno 3 pseudogeni dall'esone 1 al 34, i quali potrebbero far ritenere che il meccanismo principale di mutazione possa essere la conversione genica, ma le mutazioni sono tutte differenti (anche rispetto alle sequenze duplicate). Gli alleli sono amorfi (grandi delezioni, codoni di stop, mutazioni di splicing, frameshift) anche se sono state trovate molte mutazioni missenso. Con il rene policistico entra in gioco l'ipotesi del modello 2-hit: una cisti renale sarebbe il risultato di 2 mutazioni somatiche che si verificano nei 2 cromosomi di una stessa cellula. Nei pazienti invece che hanno già un allele mutato, la mutazione del secondo allele è più frequente (quindi formerebbe numerose cisti). Le cisti renali bilaterali aumentano di dimensioni e numero nell'arco di decenni, provocano lo spostamento e la distruzione del parenchima renale adiacente, portando all'insufficienza renale nella metà dei casi. Le cisti possono anche essere localizzate in altri organi quali fegato e pancreas.

Sindrome di Apert o acrocefalosindattilia La sindrome di Apert o acrocefalosindattilia ereditaria è un disordine congenito raro a carattere ereditario autosomico dominante e penetranza incompleta. Si tratta di una mutazione de novo in eterozigosi sul cromosoma 10 (10q26) del gene FGFR2 (la mutazione è Cys755Gly - cisteina, glicina). Questo gene codifica per il recettore 2 per l'FGF (fattore di crescita per i fibroblasti) e un suo difetto causa craniosinostosi (volta cranica a forma conica), craniostenosi (brachicefalia), ipertensione endocranica, ritardo mentale, ipoplasia della parte centrale della faccia, sindattilia (fusione) delle dita delle mani e dei piedi, sordità e atrofia ottica. L'incidenza della malattia è di 1:65000 alla nascita. La sindrome è allelica con quelle di Pfeiffer e di Crouzon. N.B.: la sindattilia è un disordine del differenziamento che avviene tra la 6a e l'8a settimana di gestazione in cui alcune dita restano unite. Sono più spesso coinvolti il medio e l'anulare. Può essere completa o

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incompleta, nel caso in cui le falangi distali restano separate. Nella sindattilia semplice le dita sono unite da tessuto molle, nella forma complessa è interposto tessuto osseo o cartilagineo, nella forma complicata altre anomalie sono presenti. Nel 50% dei casi è bilaterale. Può essere sindromica.

Sindrome di Pfeiffer La sindrome di Pfeiffer è causata da una mutazione de novo in eterozigosi sul cromosoma 10 (10q26) del gene FGFR2 (la mutazione è Cys342Arg - cisteina, arginina); alcuni pazienti presentano la mutazione Pro252Arg del gene FGFR1. I recettori 1 e 2 per l’FGF segnalano alle cellule immature l'impulso a diventare cellule ossee durante lo sviluppo embrionale. La mutazione dei geni FGFR1 o FGFR2 ne altera la funzione e provoca una segnalazione prolungata, che può promuovere la fusione prematura delle ossa del cranio e influenzare lo sviluppo delle ossa delle mani e dei piedi.

Sindrome di Crouzon La sindrome di Crouzon è causata da una mutazione de novo in eterozigosi sul cromosoma 10 (10q26) del gene FGFR2 (la mutazione è Cys342Tyr - cisteina, tirosina).

Sindrome di Waardenburg La sindrome di Waardenburg è causata da una serie di mutazioni non-senso sul cromosoma 2q del gene PAX3. I sintomi caratteristici sono: sordità bilaterale (o deficit uditivo di vario livello), modifiche nella pigmentazione (sia dei capelli che della pelle), anomalie nello sviluppo dei tessuti derivati dalla cresta neurale, allargamento della base del naso, lateralizzazione del canto mediale dell'occhio e diverso colore degli occhi (eterocromia), di solito uno marrone e l'altro blu. La sindrome è ereditaria, a trasmissione autosomica dominante, e ne esistono 4 tipi differenti, determinati dalle diverse caratteristiche fisiche. I tipi più comuni sono il tipo 1 e il tipo 2.

Distrofia facio‐scapolo‐omerale o malattia di Landouzy‐Déjérine La distrofia facio-scapolo-omerale è a trasmissione autosomica dominante, causata nel 90% dei casi dalla delezione di un frammento di DNA nella regione subtelomerica del cromosoma 4 (4q35), con la formazione di un allele ipomorfo. Se ne conoscono 2 forme: - forma classica, esordisce tra i 7 e i 15 anni, con debolezza dei muscoli orbicolari dell’occhio e della bocca, che rende impossibile chiudere gli occhi con forza, fischiare e gonfiare le gote. Successivamente, con una lenta progressione, vengono interessati i muscoli periscapolari (scapola alata), i pettorali, i bicipiti ed i tricipiti brachiali e peroneali; scarsamente coinvolti, invece, sono i muscoli deltoidi e quelli dell’avambraccio. Tale distribuzione dell’ipostenia tende a restare immodificata anche per molti anni e, solo nelle fasi più tardive, vi può essere compromissione dei muscoli prossimali degli arti inferiori e del cingolo pelvico; - forma infantile, in cui l’esordio è precoce (intorno ai 2 anni) e la distribuzione dell’ipostenia (riduzione della forza muscolare) ricalca quella dell’adulto, ma con un maggior grado di severità. Generalmente la compromissione dei muscoli facciali è tale da dar luogo a completa amimia. La perdita della deambulazione per interessamento dei muscoli degli arti si verifica intorno ai 10 anni. Caratteristica è la marcata lordosi lombo‐sacrale di tipo compensativo (scompare, infatti, appena il bambino si siede). La mutazione interessata è stata ritrovata in circa il 3% degli italiani, in gran parte sani (ha penetranza bassissima).

Sinpolidattilia La sinpolidattilia (SPD) o sindattilia di tipo II è una malformazione congenita rara distale degli arti, caratterizzata dall'associazione tra sindattilia (fusione delle dita) e polidattilia (presenza di un dito soprannumerario). Nella maggior parte dei casi interessa bilateralmente il III e il IV dito della mano e il IV e il V dito dei piedi. Altri segni sono la clinodattilia (curvatura permanente del dito) del V dito della mano, la camptodattilia (deformità del dito solitamente bilaterale) e/o la brachidattilia (brevità delle dita). La sinpolidattilia è trasmessa come carattere autosomico dominante e sono stati identificati 3 loci: SPD1 (gene HOXD13, cromosoma 2q31), SPD2 (gene FBLN1, cromosoma 22q13.31) e SPD3 (cromosoma 14q11.2-q12).

Sindrome Baraitser-Winter La sindrome Baraitser-Winter (BWS) è una sindrome malformativa con dismorfismi facciali (sutura metopica a cresta, ipertelorismo oculare e ptosi palpebrale, naso largo con punta grande o piatta, sopracciglia arcuate, microcefalia), progressivo irrigidimento articolare e deficit cognitivo di gravità

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variabile, spesso con grave epilessia. I tratti del viso diventano più grossolani durante la tarda infanzia o l'adolescenza. Può essere presente labio/palatoschisi. La crescita è lievemente ritardata e la statura finale è inferiore alla norma. Il deficit cognitivo varia da lieve a profondo e correla con la gravità delle anomalie cerebrali. È una malattia a trasmissione autosomica dominante, geneticamente eterogenea da mutazione eterozigote in uno dei 2 geni che codificano per le actine espresse ubiquitariamente: ACTB, localizzato sul cromosoma 7 (7p22) e ACTG1 sul cromosoma 17 (17q25). Tutte le mutazioni sono missenso e probabilmente agiscono con un guadagno di funzione, in quanto le delezioni di questi geni non causano il fenotipo della sindrome Baraitser-Winter. La diagnosi è confermata dal sequenziamento del DNA di ACTG1 e ACTB. PATOLOGIA MENDELIANA BIALLELICA ED EREDITÀ AUTOSOMICA RECESSIVA Le mutazioni bialleliche possono causare disordini a trasmissione autosomica recessiva: sono necessari 2 alleli mutati autosomici. In tale modalità di trasmissione, entrambi i genitori sono portatori del gene mutato (di solito eterozigoti per la mutazione, quindi non affetti): la mutazione di ciascun genitore viene trasmessa al 50% dei figli, ma solo il 25% è omozigote (2 alleli mutati identici) o eterozigote composto (2 alleli mutati in modo diverso) e quindi affetto. Il rischio riproduttivo è in relazione al partner ed alla sua provenienza geografica.

Eterozigote composto: eterozigote per 2 mutazioni diverse di uno stesso gene che causa una patologia recessiva (quindi, nonostante sia un eterozigote, sviluppa la malattia come se fosse omozigote recessivo).

Se la malattia a trasmissione autosomica recessiva è grave in età fertile e limita o annulla la capacità riproduttiva (fitness bassa), le mutazioni non si estinguono comunque perché i portatori sani sono molto più numerosi degli affetti.

Fibrosi cistica La fibrosi cistica è una malattia genetica autosomica recessiva, causata da una mutazione sul cromosoma 7 (7q31.2, ossia regione 3, banda 1, sottobanda 2) del gene CFTR, che codifica per una proteina che funziona come canale per il cloro. La proteina CFTR trasporta fisiologicamente gli ioni cloruro attraverso le membrane cellulari a livello della membrana apicale delle cellule epiteliali di vie aeree, pancreas, intestino, ghiandole sudoripare, ghiandole salivari e vasi deferenti. I segni distintivi della fibrosi cistica sono pelle salata, scarsa crescita e scarso aumento di peso nonostante una normale assunzione di cibo, accumulo di muco denso e appiccicoso, infezioni polmonari frequenti e tosse o mancanza di respiro. I maschi possono non essere fertili a causa dell'assenza congenita dei vasi deferenti. I sintomi spesso compaiono durante l'infanzia, come l'ostruzione intestinale a causa di ileo patologico da meconio nei neonati. Le complicanze cardiorespiratorie sono la causa più comune di morte. La più frequente mutazione nella popolazione è una delezione di 3 nucleotidi (CTT), che provoca la perdita dell'aminoacido fenilalanina codificato dal codone 508 (la mutazione è detta Δ F508). La manifestazione piena della patologia si verifica soltanto negli individui omozigoti (che presentano cioè mutazioni in entrambi gli alleli del gene CFTR). In tali individui l'alterazione della secrezione da parte delle cellule epiteliali di ioni cloro porta a un conseguente maggior riassorbimento di sodio e acqua (da cui il muco più secco). Negli eterozigoti vi è solo una leggera sintomatologia e i soggetti affetti presentano un bilancio ionico funzionale, ma espellono più difficilmente acqua dalle cellule. La fibrosi cistica è la più comune malattia autosomica recessiva tra le persone di etnia caucasica. La maggior parte dei casi viene diagnosticata a partire dai 6 mesi di età. La fibrosi cistica si riscontra nei maschi e nelle femmine allo stesso modo. Per ragioni non ancora chiare, i dati hanno dimostrato che i maschi tendono ad avere una speranza di vita più lunga rispetto alle femmine, tuttavia studi recenti suggeriscono che questo divario non esiste più, probabilmente ciò è dovuto al miglioramento dei servizi sanitari, mentre un recente studio ha individuato un legame tra l'ormone femminile estrogeno e peggiori condizioni della malattia. La penetranza è di solito del 100% degli omozigoti con mutazioni gravi, ma la gravità della malattia è variabile con forme più lievi, senza insufficienza pancreatica o con moderata insufficienza respiratoria. La fibrosi cistica può essere diagnosticata grazie a molti metodi diversi, tra cui lo screening neonatale, il test del sudore e test genetici. La prognosi è migliorata grazie alla diagnosi precoce attraverso lo screening, un migliore trattamento e grazie all'accesso alle cure sanitarie.

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Atrofia muscolare spinale (SMA) L'atrofia muscolare spinale è una malattia che colpisce le cellule nervose delle corna anteriori del midollo spinale da cui partono i nervi diretti ai muscoli, che trasmettono i segnali motori (detti anche motoneuroni). Nella sua forma più comune, è una malattia autosomica recessiva, ossia si può manifestare solo se il soggetto affetto eredita da entrambi i genitori mutazioni del gene coinvolto nella patologia. Nel caso in cui entrambi i genitori siano portatori, la probabilità, per ogni concepimento, che la mutazione venga trasmessa da entrambi al nascituro è del 25%. Esistono anche alcune forme estremamente rare di SMA che possono manifestarsi come forma autosomica dominante. L'atrofia muscolare spinale rappresenta il secondo disordine neuromuscolare più frequente in età pediatrica. L'incidenza complessiva di tutte le forme di SMA è stimata essere di 1:10000 nati vivi. La prevalenza delle forme di SMA di tipo II e III è stimata essere di 1:25000. In Italia, tuttavia, esistono regioni dove la diffusione della malattia conosce punte massime e queste medie vengono totalmente stravolte. La malattia è causata da una mutazione sul cromosoma 5 (5q12.13, regione caratterizzata da una elevata instabilità genomica con sequenze ripetute, pseudogeni, delezioni e duplicazioni invertite) del gene che codifica per la proteina di sopravvivenza dei motoneuroni. Il gene responsabile della SMA, definito SMN (Survival Motor Neuron), è presente in 2 copie altamente omologhe: una telomerica, SMN1, e una centromerica, SMN2. È stato ormai definitivamente chiarito che la patogenesi della malattia è riconducibile alla perdita in omozigosi della copia telomerica del gene SMN deleto in maniera specifica nel 95% dei soggetti con SMA a prescindere dal fenotipo clinico. Un altro gene coinvolto nella patogenesi della malattia è il gene NAIP (Proteina Inibitrice dell'Apoptosi Neuronale), presente in più copie nella regione SMA, ma una sola di esse è funzionale; sembra che grandi delezioni, coinvolgenti anche il gene NAIP, siano correlabili con la forma più grave della malattia. Nella regione SMA è stato successivamente identificato ed isolato un terzo gene duplicato, p44, la cui delezione è presente in circa il 15% dei pazienti affetti da SMA; il ruolo di questo gene nella patogenesi delle SMA è ancora controverso. Di solito per diagnosticare la SMA viene fatto un semplice prelievo di sangue che sarà analizzato, per cercare una mutazione del gene SMN1. Se i sintomi esistono ma non viene dimostrata nessuna mutazione del gene, una biopsia muscolare e/o una elettromiografia (EMG), può essere necessaria per confermare la diagnosi. A seconda dell'età di inizio dei primi sintomi nell'individuo si distinguono 4 forme: La SMA di tipo I (acuta) è anche chiamata Sindrome di Werdnig-Hoffman. La diagnosi dei bambini affetti viene fatta nei primi mesi di vita; può manifestarsi anche una mancanza di movimenti fetali nei mesi finali di gravidanza (SMA di tipo 0). La malattia è di tipo degenerativo e il bambino affetto non è mai in grado di reggere autonomamente la testa o di compiere i normali progressi fisici e motori. La deglutizione e l'alimentazione possono essere difficoltose e il bambino può mostrare difficoltà a inghiottire la propria stessa saliva. C'è una debolezza generale nei muscoli respiratori intercostali e accessori. Il petto può apparire rimpicciolito, incavato o deformato in seguito alla respirazione diaframmatica (addominale). Nel caso in cui la diagnosi sia fatta entro i primi 6 mesi di età, con un corretto supporto respiratorio e fisioterapico, il decorso della malattia può differire significativamente a seconda del bambino. La SMA di tipo II (cronica) ha una diagnosi quasi sempre formulata prima dei 2 anni di età, con una netta maggioranza di casi diagnosticati entro i 15 mesi. I bambini affetti da questo tipo riescono a stare seduti senza bisogno di sostegno, sebbene normalmente non siano in grado di raggiungere la posizione seduta senza aiuto. Ad un certo punto potrebbero essere in grado di stare in piedi. Questo avviene prevalentemente con l'aiuto di tutori o con supporti per posizione eretta. Problemi di alimentazione e di deglutizione generalmente non sono caratteristici del tipo II; tuttavia, in alcuni pazienti si possono verificare e si può dunque rendere necessario l'uso di un sondino per l'alimentazione. Le fascicolazioni della lingua vengono riscontrate meno frequentemente, ma è comune riscontrare un tremore nelle dita in estensione. Anche i bambini affetti da questo tipo utilizzano la respirazione diaframmatica. La SMA di tipo III (lieve) o malattia di Kugelberg-Welander (atrofia muscolare spinale giovanile) ha una diagnosi che viene effettuata in un arco di tempo che va dai 18 mesi all’adolescenza. I pazienti affetti possono stare in piedi da soli e camminare, ma possono avere qualche difficoltà a camminare o ad alzarsi da una posizione seduta o piegata. È possibile riscontrare tremore nelle dita in estensione ma raramente si osservano fascicolazioni della lingua.

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La SMA di tipo IV colpisce gli adulti e i sintomi iniziano a manifestarsi dopo i 35 anni; si caratterizza per un inizio insidioso e una lenta progressione. I muscoli bulbari, che si utilizzano per la deglutizione e per la funzione respiratoria, raramente vengono colpiti. EREDITÀ RECESSIVA DI ALLELI PRIVATI La consanguineità è la probabilità che un soggetto abbia nello stesso locus entrambi gli alleli identici per origine (possibile solo se i genitori sono parenti) ed è il fattore di rischio per ogni patologia recessiva. In caso di consanguineità è attesa l'omozigosi (2 alleli identici) anche se la mutazione ritrovata è rarissima. La consanguineità tra genitori costituisce un importante fattore di rischio per la prole. Infatti i cugini di primo grado condividono 1/8 del patrimonio genetico ed hanno un rischio riproduttivo raddoppiato per patologie recessive. MALATTIE RECESSIVE LEGATE AL CROMOSOMA X Le malattie a trasmissione legate al cromosoma X sono causate da mutazioni a carico di geni localizzati sul cromosoma X. Se la mutazione è recessiva, i maschi che ricevono il cromosoma X mutato sono affetti mentre le femmine che ereditano la mutazione sono in genere non affette o poco affette, perché sono costituite da un mosaico di cellule mutate e normali in rapporto a quale dei 2 cromosomi X è stato inattivato. Se la mutazione è dominante, le femmine che ricevono una sola copia del gene mutato sono affette e spesso i maschi non sono vitali. Le malattie recessive legate a mutazioni in geni localizzati sul cromosoma X sono monoalleliche e colpiscono i soggetti di sesso maschile che sono emizigoti (una sola X), mentre le donne sono portatrici sane (eterozigoti). Tuttavia il doppio cromosoma X femminile, a differenza degli autosomi, ha la particolarità di non essere espresso da entrambi gli alleli per il fenomeno dell'inattivazione. Questo significa che nella metà delle cellule sarà presente una condizione normale e nell'altra metà una condizione patologica. Alterazioni di quest'equilibrio possono produrre uno sbilanciamento dell'inattivazione del cromosoma X e portare ad una malattia manifesta.

Albinismo oculare di tipo I L’albinismo oculare è caratterizzato da ipopigmentazione oculare, a cui sono associate le anomalie oculari tipiche di tutte le forme di albinismo. L’albinismo oculare di tipo 1 è, al momento, l’unico tipo geneticamente accertato. È ereditato in modo recessivo X-linked, con maschi affetti e femmine portatrici. I maschi affetti mostrano anomalie oculari, tipico di tutte le forme di albinismo, e un fenotipo pigmentario albinotico leggermente evidente. Le femmine portatrici possono mostrare (80% dei casi) minimi segni oculari: aree punteggiate di trasparenza dell’iride e pigmentazione a mosaico dell’epitelio pigmentato della retina. È causato da mutazioni sul cromosoma X (Xp22.3) del gene OA1 (muta un pezzo di introne in esone), che codifica per la proteina GPR143, una glicoproteina integrale della membrana melanosomale, che sembra regoli la biogenesi dei melanosomi, agendo da sensore delle dimensioni melanosomali, ed abbia un ruolo anche nel trasporto dei melanosomi.

Distrofia muscolare di Duchenne e Becker La distrofia muscolare di Duchenne (DMD) e la distrofia muscolare di Becker (BMD) sono malattie alleliche, dovute a difetti differenti di uno stesso gene. Esse sono dovute a mutazioni sul cromosoma X (Xp21) del gene della distrofina, composto da 79 esoni, soggetti a splicing co-trascrizionale. Inoltre una grande varietà di isoforme di mRNA sono dovute al fenomeno dello splicing alternativo. La distrofina è assente nella distrofia muscolare di Duchenne (allele amorfo) e ridotta o alterata nella distrofia muscolare di Becker (allele ipomorfo). Le mutazioni più frequenti (80% dei casi) sono grandi delezioni, eterogenee nella posizione, che cancellano uno o molti esoni insieme alle lunghissime sequenze introniche fiancheggianti. Altre mutazioni (20%) sono grandi duplicazioni, piccole inserzioni o delezioni e sostituzioni non-senso. La distrofia muscolare di Duchenne è già presente nella stessa famiglia in circa la metà dei casi, mentre deriva da una mutazione de novo nell'altra metà. La teoria di Monaco illustra come delezioni possano portare alla distrofia muscolare di Duchenne o a quella di Becker non in funzione della loro estensione, ma del possibile mantenimento della cornice di lettura

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delle sequenze codificanti che residuano. La teoria di Monaco: Le delezioni intrageniche del gene della distrofina mandano fuori cornice la lettura delle triplette quando gli esoni cancellati contenevano un numero di nucleotidi che non è multiplo esatto di 3 (1,2,4,5,7,8,10,11 etc.). Se invece le delezioni non alterano la cornice di lettura, e viene perso un numero di nucleotidi codificanti multiplo di 3, si osserva la distrofia muscolare di Becker. Questa regola è detta di Monaco. La regola non vale se si perdono domini proteici essenziali o se lo splicing alternativo compensa alcune delezioni. Possono essere colpite anche le donne in circa l'1% dei casi quando una traslocazione reciproca X-autosoma interrompe il gene della distrofina: in tal caso viene sempre inattivato il cromosoma X normale e, pertanto, l'unico allele della distrofina teoricamente utilizzabile risulta interrotto. Allo stadio di blastocisti le cellule che inattivano il cromosoma X normale sono le uniche che contribuiranno all'embrione. Questo avviene perché l'inattivazione del cromosoma X con la traslocazione porta ad uno scompenso genico maggiore e letale. In tal caso la donna sarà affetta da distrofia muscolare di Duchenne per l'assenza della distrofina che non può provenire né dall'allele inattivo, né dall'allele. L'isoforma muscolare della distrofina è ancorata sul versante interno del sarcolemma. Ha una forma a bastoncello ed è parte del complesso distrofina-glicoproteine, composto da distroglicani, sarcoglicani e sintrofine. Quando la distrofina è assente l'intero complesso è ridotto o assente nel muscolo. Il gene della distrofina è il più lungo del genoma umano (circa 2.220.000 nucleotidi) e sono necessarie oltre 16 ore per trascriverne l’RNA. Il gene della distrofina è molto complesso e contiene 8 promotori indipendenti e 2 siti di poliadenilazione. Le distrofie muscolari sono malattie degenerative del muscolo, spesso progressive. Sono caratterizzate da variazione dello spessore delle miofibrille, aree di degenerazione e rigenerazione, con nuclei centralizzati. Il muscolo presenta aree infiammatorie e processi di necrosi e col tempo è sostituito da tessuto adiposo e fibroso. La distrofia muscolare di Duchenne è caratterizzata già alla nascita da elevatissimi valori di enzimi sierici (CPK 100x, transaminasi 5x, LDH 5x) di provenienza muscolare. Successivamente, nel bambino che ha già imparato a camminare, si osserva una difficoltà crescente ad alzarsi dal pavimento (segno di Gowers, il bambino si aiuta con le mani per alzarsi perché i muscoli del tronco non lo sorreggono), a salire le scale e poi nella deambulazione, sintomi di un danno muscolare progressivo che porterà alla sedia a rotelle intorno ai 10-14 anni di età e poi a difficoltà respiratorie, scoliosi e problemi posturali e alterazioni cardiache. Mediante opportune terapie respiratorie, ortopediche e farmacologiche (cortisonici, etc.) l'aspettativa e la qualità di vita sono molto migliorate ed oggi molti pazienti affetti da distrofia muscolare di Duchenne superano i 35 anni di età. Per attenuare il segnale di stop provocato dalle mutazioni non-senso la ricerca si sta indirizzando verso la gentamicina e il PTC124 (ataluren), farmaci in grado di far tradurre l’mRNA oltre il codone di stop prematuro attraverso un meccanismo noto come read through, che consiste nell'introdurre erroneamente un altro amminoacido nella catena senza interruzione della traduzione nei ribosomi. I cortisonici sono utilizzati come stabilizzatori delle membrane e inibitori della fibrosi (quando viene distrutto, il muscolo viene sostituito da una cicatrice fibrosa). Si usano oligomorfolino capaci di legarsi ai siti di splicing che cercano, facendo saltare altri esoni allo splicing, di ripristinare la cornice di lettura. La sindrome di Duchenne colpisce nell’infanzia (2-6 anni) e i sintomi sono debolezza generalizzata, danno muscolare prima agli arti e poi al tronco, polpacci ingrossati. La progressione è lenta ma inesorabile. Colpisce tutti i muscoli volontari. La sopravvivenza è fino a 25-30 anni. La sindrome di Becker colpisce nell’adolescenza o dopo e i sintomi sono identici alla sindrome di Duchenne ma più attenuati. Vi è coinvolgimento cardiaco significativo. La progressione è più lenta e variabile con buona aspettativa di vita. L’analisi genetica si basa sulla metodica PCR (tutte le delezioni in maniera semplice), MLPA (come PCR, ma in maniera quantitativa) e CGH Array (CNV, delezioni e duplicazioni).

Emofilia L'emofilia è una patologia recessiva legata al cromosoma X che comporta alterazioni della coagulazione: Nella forma A è causata da una mutazione sul cromosoma X (Xq28) del gene che codifica per il fattore VIII della coagulazione. Il disordine coagulativo è presente nei maschi ed assente o quasi nelle femmine che sono invece portatrici. Le mutazioni del gene sono molto eterogenee: nel 42% delle forme gravi si trova un'inversione dovuta ad una ricombinazione delle sequenze dell'introne 22 con altre sequenze simili,

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mentre le piccole mutazioni sono meno della metà dei casi (alleli amorfi o ipomorfi severi). Nelle forme di emofilia lieve o moderata si identificano quasi solo mutazioni puntiformi (alleli ipomorfi). Gli individui affetti sviluppano un fenotipo variabile di emorragia nelle articolazioni e nei muscoli, ecchimosi e sanguinamento prolungato delle ferite. La terapia sostitutiva con fattore VIII è da anni impiegata utilizzando una varietà dì preparati da plasma umano o fattore VIII ricombinante. Purtroppo un 10-15% di pazienti produce anticorpi neutralizzanti.

Sindrome di Kennedy o atrofia muscolare spinale e bulbare (SBMA) L'atrofia muscolare spinale e bulbare, o sindrome di Kennedy, è una rara forma di atrofia muscolare spinale a ereditarietà eterosomica recessiva dovuta a una mutazione del gene che codifica per il recettore degli androgeni sul cromosoma X (Xq11.12): è caratterizzata dall’espansione di ripetizioni di triplette CAG che codificano per la glutammina; da 9 a 36 ripetizioni si parla di normalità, da 38 a 62 di malattia. La sindrome ha un’incidenza annuale di 1:500.000 nati. La malattia si presenta con atrofia muscolare, astenia, manifestazioni neurologiche di tipo bulbare (a carico dell'apparato fonatorio, del meccanismo della deglutizione e della respirazione). EREDITÀ A TRASMISSIONE AUTOSOMICA SIA DOMINANTE CHE RECESSIVA

Distrofie muscolari dei cingoli Le distrofie muscolari dei cingoli (LGMD) costituiscono un gruppo eterogeneo di malattie genetiche (stessa malattia provocata da geni diversi, ovvero eterogeneità genetica) che coinvolgono la muscolatura dei cingoli, sia pelvico (inferiore) che scapolare (superiore). Il decorso clinico è estremamente variabile, con forme gravi ad insorgenza precoce e rapida progressione e forme di minore entità che permettono agli individui che ne sono affetti una quasi normale aspettativa di vita e di autonomia motoria. Queste forme di distrofie possono essere trasmesse con meccanismo autosomico (cioè colpiscono entrambi i sessi) sia dominante (di solito uno dei genitori affetti trasmette la malattia al 50% dei figli) che recessivo (entrambi i genitori devono essere portatori non affetti del gene malattia perché il 25% dei figli sia malato). La causa è di solito dovuta a mutazioni in geni diversi, dominanti o recessivi: la mutazione genica provoca una ridotta presenza o la completa assenza della proteina corrispondente, che non può più svolgere il proprio lavoro. Il quadro clinico è caratterizzato da debolezza dei muscoli del cingolo pelvico, con difficoltà nel salire le scale, nel rialzarsi da terra e nel correre speditamente. I sintomi correlati alla debolezza muscolare degli arti superiori sono di solito più tardivi. Ad essi si associa un aumento dei valori della creatinkinasi, di entità variabile. Le forme dominanti sono di solito più benigne e relativamente rare, rappresentando meno del 10% di tutte le distrofie dei cingoli. Le forme recessive sono molto più frequenti e presentano un’incidenza di 1:15000. La più recente classificazione utilizza la proteina carente per individuare la specifica forma di distrofia dei cingoli. Calbainopatia. La calbainopatia o LGMD2A (forma più frequente di distrofia autosomica recessiva) è causata da una mutazione sul cromosoma 15 (15q15) del gene che codifica per l'enzima proteolitico calpaina-3 (CAPN3) correlato al complesso delle proteine del sarcolemma. Disferlinopatia. La disferlinopatia o LGMD2B (forma di distrofia autosomica recessiva) è causata da una mutazione sul cromosoma 2 (2p12.14) del gene che codifica per la disferlina, una proteina transmembrana coinvolta nei processi di riparazione delle membrane, nella differenziazione dei mioblasti e nella tubulogenesi. La diagnosi di disferlinopatia può riguardare pazienti che fino a pochi mesi prima dell’insorgenza della debolezza muscolare avevano praticato attività sportiva, spesso a livello agonistico. L’attività pregressa influenza negativamente il decorso e l’evoluzione della patologia perché sviluppa un processo infiammatorio. Spesso questa distrofia è confusa con la polimiosite. LGMD2H. La LGMD2H (forma di distrofia autosomica recessiva) è causata da una mutazione sul cromosoma 9 (9q31-q33) del gene che codifica per TRIM32, una ubiquitina ligasi (questa mutazione è coinvolta anche nella sindrome di Bardet-Biedl). LGMD2C/2D/2E/2F. Le LGMD2C/2D/2E/2F (forme di distrofia autosomica recessiva) sono sarcoglicanopatie perché rispettivamente dovute a mutazioni dei sarcoglicani β, α, ɣ e δ.

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MUTAZIONI DINAMICHE Le mutazioni dinamiche sono espansioni di brevi sequenze nucleotidiche ripetute (in genere trinucleotidi). Esse vengono definite dinamiche poiché sono instabili e possono variare di dimensioni nella trasmissione alla prole. Quando il numero di ripetizioni supera una lunghezza soglia, l’amplificazione diventa patogenetica. In base alla localizzazione si possono distinguere 2 categorie di mutazioni dinamiche:

- ripetizioni di triplette CAG situate nella regione codificante di un gene; - ripetizioni di 3 o più nucleotidi in regioni non codificanti.

Nel primo caso, le proteine codificate contengono un tratto di poliglutammine di dimensioni variabili ma che raramente supera le 100 unità. Nel secondo caso, gli alleli mutati presentano un numero elevato di unità che possono superare anche l’ordine delle migliaia di ripetizioni, localizzate nella regione del promotore, in un introne o nella sequenza 3’UTR; la sequenza codificante non viene alterata. Il meccanismo responsabile dell’espansione delle triplette non è del tutto conosciuto: l’ipotesi più accreditata è quella dello slittamento della DNA polimerasi, secondo cui a causa della presenza delle sequenze ripetute i 2 filamenti complementari non si appaiano perfettamente e l’errato appaiamento può determinare errori nel corso della replicazione, con formazione di delezioni o di duplicazioni delle sequenze ripetute.

Premutazione (alterazione intermedia): gli individui che possiedono premutazione sono portatori sani perché nelle generazioni successive le ripetizioni possono aumentare e causare la mutazione completa (ad esempio, sindrome dell’X fragile). Espansione (mutazione dinamica): si definisce espansione una mutazione che consiste nella ripetizione di una particolare sequenza di basi di DNA (di regola 3) fino a molte copie in più rispetto ad un allele normale.

MUTAZIONI DINAMICHE IN REGIONI NON CODIFICANTI

Sindrome dell’X fragile o di Martin-Bell Circa il 2% della popolazione presenta ritardo mentale (QI minore di 70). Una parte dei ritardi mentali è sindromico, cioè associato ad altri disturbi o malformazioni. La principale causa di ritardo mentale sindromico è la trisomia del cromosoma 21 e la seconda è la sindrome dell’X fragile. II ritardo mentale legato al cromosoma X (XLMR) è geneticamente eterogeneo con 202 loci responsabili di forme che si sovrappongono clinicamente (46 geni sono stati identificati); il locus che contribuisce alla frazione maggiore causa la sindrome di Martin-Bell, oggi nota come sindrome del X fragile. La prevalenza è di 1 maschio su 1250 nati, ma anche alcune donne possono essere severamente affette. Il ritardo mentale può essere da lieve a severo (QI tra 20 e 70): tipico è il deficit di memoria a breve termine di informazioni complesse. Gli affetti presentano inoltre un evidente ritardo nel linguaggio, ridotte abilità visuospaziali, ipersensibilità agli stimoli, iperattività con deficit di attenzione e hanno un comportamento autistico. Il ritardo mentale si associa a una testa più grande (macrocefalia) con fronte, mento ed orecchie sporgenti. Inoltre nei maschi dopo la pubertà i testicoli sono ingrossati (macrorchidismo) con un volume maggiore di 30 ml (valori normali: 20-25 ml). In alcuni soggetti si verifica il prolasso della valvola mitrale a seguito di anomalie connettivali che possono comportare anche iperlassità articolare e piede piatto. La peculiarità del meccanismo di trasmissione della sindrome dell’X fragile è stata descritta con il paradosso di Sherman: il 20% dei maschi avevano la X associata alla sindrome e non presentavano il fenotipo, ma Io trasmettevano (normal transmitting males = NTM); il 30% delle femmine erano portatrici, ma anche affette. Questo paradosso fu risolto con la scoperta della base molecolare del sito fragile. Il sito fragile è una rottura o una costrizione dei cromosomi in metafase che insorge quando le cellule sono esposte ad una perturbazione della replicazione del DNA: esistono siti fragili comuni, presenti in tutti gli individui e siti rari, presenti in una piccola parte della popolazione. La maggior parte dei siti rari è indotta dalla deprivazione di folati, mentre altri sono indotti da distamicina A (che lega il solco minore del DNA nelle regioni ricche di A/T) o bromodeossiuridina (BrdU). I siti fragili comuni sono indotti dall'afidicolina (antibiotico inibitore della DNA polimerasi) o dalla 5-azacitidina. I siti fragili sono su tutti i cromosomi e prendono il nome della banda cromosomica, in questo caso fraX (q27.3); la nomenclatura HUGO chiama questo sito FRAXA, cioè il primo sito fragile identificato sul cromosoma X.

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Si scoprì che le mutazioni non erano stabili ed identiche all'interno di ciascuna famiglia, ma instabili e dinamiche, con un elemento variabile costituito da una tripletta CCG ripetuta da pochi elementi fino ad alcune migliaia di ripetizioni (sito fragile). La tripletta ripetuta, tuttavia, si trova all'interno del 5'UTR del gene FMR-1 (fragile-X mental retardation 1) sul cromosoma X (Xq27.3) e quindi questa ripetizione (espansione) non altera la sequenza codificante di FMR-1 che in teoria potrebbe essere tradotto ugualmente. In realtà con l'espansione si crea una regione genomica con un'abbondanza relativa di citosine (C) seguite da guanine (G) nella sequenza del DNA (CpG). Questo porta alla mediazione dei dinucleotidi CpG che induce un silenziamento della trascrizione. In pratica il gene FMR-1 più è espanso, più viene spento. Chi ha da 6 a 50 triplette è normale (il soggetto non ha nessun rischio, le ripetizioni sono stabili nell’individuo e variabili nella popolazione), chi ha da 59 a 250 triplette ha una premutazione (clinicamente non è affetto, ma possiede un allele che in una sola generazione può diventare mutazione piena; il più corto allele descritto che in una sola generazione è diventato mutazione piena è di 59 triplette), chi ha oltre 250 triplette ha una mutazione (la regione è completamente metilata e le ripetizioni sono instabili anche nell’individuo). Le premutazioni si espandono maggiormente quando sono trasmesse dalla madre. Una portatrice sana con premutazioni ha un maggiore rischio di menopausa precoce POF (premature ovarian failure). Il gene FMR-1 è all'interno di un deserto genico: quindi il fenotipo non è da geni contigui. Mutazioni puntiformi o delezioni di FMR-1 causano un fenotipo identico alle espansioni e questo dimostra che il ruolo del gene non è importante nelle prime fasi dello sviluppo, quando le triplette non sono ancora metilate, ma nelle cellule differenziate, soprattutto nelle spine dendritiche, quando FMR-1 regola la traduzione degli mRNA, funzione cruciale per la plasticità sinaptica e la maturazione neuronale; FMRP è una RNA-binding protein selettiva associata con i poliribosomi ed espressa nei neuroni; inoltre FMR-1 interagisce con gli mRNA e con il pathway dei miRNA. Nel X fragile le spine dendritiche sono immature e lunghe.

Distrofia miotonica di tipo 1 o di Steinert La distrofia miotonica o di Steinert (DM1) è la più comune forma di distrofia muscolare dell'adulto (1:8000) caratterizzata da un danno muscolare che inizia alle estremità distali e difetti di conduzione cardiaci. Caratteristico è il fenomeno miotonico: questo consiste nell'incapacità di rilassare i muscoli dopo una contrazione muscolare a freddo. Alla distrofia miotonica possono associarsi cataratta, ipotiroidismo, diabete e alterazioni comportamentali. È trasmessa come carattere autosomico dominante associato all'espansione di una tripletta CTG nel 3' non tradotto (UTR) del gene dystrophia myotonica protein kinase (DMPk) sul cromosoma 19 (19q13.3). Gli individui normali hanno 5 triplette, i non affetti a rischio di espansione hanno oltre 20 triplette, gli affetti lievi 50-80, i gravi anche 2000 e più. È caratterizzata dal fenomeno dell'anticipazione, con possibilità di forti espansioni solo attraverso la linea germinale femminile, fino ad arrivare, in figli di donne miotoniche, alla grave forma congenita con ipotonia neonatale, ritardo mentale e motorio. Le espansioni determinano la formazione di molecole di RNA ricche di CUG che si ripiegano in strutture a forcina, sequestrando nel nucleo fattori di splicing quali muscleblind-like1 (MBNL1). Questo sequestro altera i processi di splicing alternativo, facendo esprimere trascritti embrionali. Un trattamento basato sull'aumento dei livelli di MBNL1 ripristina lo splicing corretto nel modello murino.

Distrofia miotonica di tipo 2 Nella distrofia miotonica di tipo 2 analogamente c'è un difetto del gene ZNF9 (zinc finger protein 9) sul cromosoma 3 (3q21). Il numero di ripetizioni va da 75 ad oltre 11000, ma in questo caso non sembra esserci differenza nella gravità della patologia o nella precocità di esordio. Il fenomeno dell'anticipazione in questa forma sembra essere meno significativo (lieve anticipazione). I pazienti presentano dolori muscolari, affaticamento, rigidità, debolezza ai muscoli prossimali dell'arto inferiore (è infatti definita distrofia miotonica prossimale).

Atassia di Friedreich L'atassia di Friedreich è una malattia causata da un'anomalia genetica che comporta nel tempo un danno progressivo del sistema nervoso. Si tratta della forma più comune di atassia ereditaria. In Europa ha un’incidenza di 1:50000 (fino ai 20 anni). Tale malattia è causata dalla mutazione del gene FRDA localizzato sul cromosoma 9 (9q13.21) che codifica per una proteina denominata fratassina (che avrebbe il compito di smaltire i metaboliti di rifiuto dei processi energetici all'interno del mitocondrio): l'individuo affetto ha un numero esuberante di triplette

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GAA ripetute, in un introne adiacente al gene, che impediscono l'adeguato srotolamento del DNA che favorisce la sintesi della fratassina, che infatti è deficitaria. La sintomatologia è molto variabile da persona a persona: dipende essenzialmente dal livello di anomalia genetica ed è correlata all'età di insorgenza. In generale la malattia inizia a dare disturbi dell'equilibrio, per cui il soggetto affetto ha difficoltà a correre, a mantenere la postura in luoghi bui ed affollati, perde progressivamente i riflessi osteotendinei agli arti inferiori, la deambulazione si fa progressivamente impacciata, iniziano a comparire disturbi della coordinazione che comportano difficoltà a scrivere, a parlare, a deglutire. Non raramente il soggetto si deve dotare di una sedia a rotelle. Nelle forme più acute si associa una grave cardiopatia e il diabete. MUTAZIONI DINAMICHE IN REGIONI CODIFICANTI

Atassie spinocerebellari (SCA) Il termine atassia indica un gruppo di malattie neurodegenerative caratterizzate dalla perdita progressiva della capacità di coordinare il cammino. Spesso chi ne è affetto presenta anche una cattiva coordinazione dei movimenti delle braccia e degli occhi, oltre che una difficoltà nell’articolare le parole. Il cervelletto è l’organo principalmente colpito. Le forme genetiche di atassia a trasmissione autosomica dominante sono chiamate atassie spinocerebellari (SCA): queste malattie vengono classificate sulla base dei sintomi clinici e, più recentemente, del locus genico coinvolto. Un soggetto affetto ha il 50% di probabilità di trasmettere la malattia, che ha un’incidenza di 1:30000. Al momento sono noti 33 loci e 20 geni associati alla malattia: in Italia le forme più frequenti sono la SCA1 e la SCA2 (riguardano circa il 40% delle famiglie), ma sono stati descritti anche casi di SCA3, SCA6, SCA7, SCA8, SCA12, SCA17. La diagnosi avviene in seguito di una visita neurologica, seguita da una risonanza magnetica del cervello; grazie a specifiche analisi del sangue si possono escludere le forme non ereditarie, dovute ad altre cause come per esempio l’abuso di alcool, il deficit di alcune vitamine, la sclerosi multipla, malattie vascolari e sindromi paraneoplastiche. La ricostruzione della storia familiare, con l’identificazione di altri casi all’interno dell’albero genealogico, permette di definire la natura ereditaria della malattia. In una parte delle forme è noto il gene e sono disponibili dei test molecolari, utili anche in caso di diagnosi prenatale. A conferma dell’ampia eterogeneità genetica, attualmente in circa la metà delle famiglie con atassia spinocerebellare non si riesce a identificare il gene responsabile. Al momento non esistono terapie specifiche, se non cure palliative, mirate ad alleviare i sintomi. L'atassia spinocerebellare (SCA) è una malattia neurologica a eziologia genetica. Può essere classificata in diversi tipi, ciascuno con determinati sintomi e cause. Tra queste vi sono:

SCA ASPETTATIVE DI VITA MUTAZIONE

SCA1 15 anni dopo l’esordio Espansione della ripetizione CAG nella regione del gene atassina1 sul cromosoma 6 (6p23)

SCA2 Più di 20 anni dopo l’esordio Espansione della ripetizione CAG nella regione del gene atassina2 sul cromosoma 12 (12q23.24)

SCA3 10 anni dopo l’esordio Espansione della ripetizione CAG nella regione del gene atassina3 sul cromosoma 14 (14q21)

SCA6 Più di 25 anni dopo l’esordio Espansione della ripetizione CAG nella regione del gene CACNA1A sul cromosoma 19 (19p13)

SCA7 20 anni dopo l’esordio Espansione della ripetizione CAG nella regione del gene atassina7 sul cromosoma 3 (3p21.1)

SCA8 Durata della vita normale Espansione della ripetizione CTG (poliglutammina) nella regione del gene atassina8 sul cromosoma 13 (13q21)

SCA12 Durata della vita normale Espansione della ripetizione CAG nella regione del gene PPP2R2B sul cromosoma 5 (5q31.32)

SCA17 Durata della vita normale Espansione della ripetizione CAG nella regione del gene TBP (proteina legante TATA box) sul cromosoma 6 (6q27)

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Corea di Huntington Alla base della corea di Huntington (dal greco, danza) vi è una degenerazione programmata geneticamente dei neuroni dei gangli basali (nuclei caudato e pallido) e della corteccia. Ha un’incidenza di 1:10000 e presenta il fenomeno dell'anticipazione. Si trasmette nel 97% dei casi come carattere autosomico dominante associato al gene huntingtina sul cromosoma 4 (4p16.3). Solo il 3% dei casi è dovuto a mutazioni de novo. In tutti i casi c'è un'espansione dinamica della tripletta CAG che codifica per la glutammina. Il numero massimo di CAG per un soggetto non a rischio è fino a 28, tra 29 e 39 CAG la malattia si potrebbe presentare alla generazione successiva (premutazione), oltre 39 CAG il soggetto è considerato affetto anche se la patologia non si è ancora manifestata. La Huntingtina con poliglutammina forma aggregati nei neuroni causandone la morte. Il paziente presenta all'inizio sintomi psichiatrici quali depressione, irritabilità, difficoltà a prendere decisioni, poi presenta movimenti incontrollati simili a una danza e demenza. Pur con una grande variabilità individuale, la malattia avanza inesorabilmente fino alla morte. Tentativi terapeutici sono in corso con la cistamina che inibisce la transglutaminasi coinvolta nella formazione degli aggregati. IMPRINTING GENOMICO Solitamente l’espressione di un allele non dipende dal fatto che sia stato ereditato dalla madre o dal padre. Tuttavia alcuni geni sono particolari poiché l’espressione di un allele dipende dalla sua origine parentale: per alcuni geni viene espresso l’allele materno per altri quello paterno. A questo fenomeno si dà il nome di imprinting genomico. L’imprinting genomico indica l’espressione differenziale di materiale genetico a seconda che esso sia stato trasmesso dal padre o dalla madre. I geni soggetti a imprinting sono presenti in duplice copia, ma di essi viene espressa una sola copia. Nei geni soggetti a imprinting paterno, la copia fornita dal padre viene silenziata; nei geni soggetti a imprinting materno, la copia fornita dalla madre viene silenziata. Un errato imprinting o un'espressione non appropriata di questi geni sono alla base di diverse malattie genetiche umane. L'imprinting è dovuto a modificazioni epigenetiche (non correlate alla sequenza primaria di DNA) e comporta l'aggiunta di un gruppo metile (CH3) in posizione 5 di un residuo di citosina nel DNA che precede immediatamente un residuo di guanina (CpG). La metilazione del DNA è stabilita e mantenuta da DNA metiltransferasi. In seguito a queste, tutti i geni soggetti alla metilazione sono espressi in maniera diversa a seconda dell'origine materna o paterna del cromosoma di cui fanno parte. L'esempio classico di imprinting genomico è rappresentato da due sindromi dismorfiche associate a difficoltà di apprendimento, note come sindrome di Prader Willi e sindrome di Angelman. DISOMIA UNIPARENTALE La disomia uniparentale è l’ereditarietà di due cromosomi omologhi da un solo genitore; è causata principalmente da eventi di non-disgiunzione, seguiti da meccanismi di correzione di trisomie o monosomie. Alcune disomie hanno effetti fenotipici diversi dettati dal sesso del genitore che ha fornito la coppia di cromosomi.

Sindrome di Prader-Willi La sindrome di Prader-Willi (PWS) è una patologia caratterizzata da bassa statura, obesità, ipogonadismo e difficoltà di apprendimento. L’incidenza alla nascita è di circa 1:12500 in entrambi i sessi. I neonati presentano ipotonia che impedisce la corretta suzione, e, di conseguenza, mostrano un difetto di crescita corretto con l'alimentazione forzata. Successivamente da 1 a 6 anni di età, hanno un aumento di peso estremamente rapido, con conseguente obesità. Mostrano un ritardo psicomotorio e soprattutto mangiano e bevono di continuo e non sono mai sazi (iperfagia). Sono comportamenti comuni il furto o l'accaparramento di alimenti. Con l'adolescenza la dieta deve essere controllata rigorosamente altrimenti vanno incontro a morte precoce (30 anni) per complicanze dell'obesità. Inoltre i soggetti con sindrome di Prader-Willi sono infertili a causa di organi sessuali non adeguatamente sviluppati. La patologia è causata dall’assenza della regione cromosomica 15q11-q13 di origine paterna. Differenti sono i difetti di base che portano alla mancanza di questa regione:

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- delezione/microdelezione della regione 15q11-q13 sul cromosoma di origine paterna (75% dei casi), visibile mediante citogenetica convenzionale, FISH o CGH Array. Questa particolare regione è sottoposta ad imprinting parentale e risulta attiva nel cromosoma paterno mentre è inattiva in quello materno; - disomia uniparentale materna (25% dei casi). C’è la presenza di 2 copie di origine materna su entrambi i cromosomi 15, risultando entrambe inattive anche se possono essere uguali o diverse. Questo significa che entrambi i cromosomi 15 sono ereditati dalla madre. Tale situazione è l'equivalente funzionale di una delezione nel cromosoma 15 paterno. La regione critica della porzione prossimale del cromosoma 15 include il gene SNRPN e altri geni adiacenti perché tale regione ha l’imprinting materno.

Sindrome di Angelman La sindrome di Angelman (AS) è caratterizzata da epilessia, gravi difficoltà di apprendimento, un'andatura instabile, tremori, convulsioni, lingua sporgente, assenza di linguaggio, frequenti esplosioni incontrollate di riso, e un aspetto felice. La malattia diventa clinicamente evidente 12-24 mesi dopo la nascita. L'aspettativa di vita può essere normale con un controllo farmacologico. È interessante notare che il 70% degli individui ha una delezione interstiziale della stessa regione del cromosoma 15 (15q11-q13) coinvolta nella sindrome di Prader-Willi, ma in questo caso sul cromosoma di origine materna. In un ulteriore 2-3% dei casi può essere dimostrata la disomia uniparentale paterna (ciò significa che entrambi i cromosomi 15 sono ereditati dal padre). Al contrario della sindrome di Prader-Willi esiste il gene dell'Angelman: infatti, in circa il 10% dei casi, sono state identificate mutazioni puntiformi in UBE3A, che codifica per un'ubiquitina ligasi espressa nel cervello dal cromosoma 15 di origine materna. Non è chiaro perché le mutazioni di UBE3A possano portare alle caratteristiche cliniche della sindrome, ma potrebbe verificarsi un'alterazione dei processi di demolizione ubiquitina-mediate di alcune proteine, in particolare dove è massima l'espressione di UBE3A, e cioè le cellule dell'ippocampo e del Purkinje nel cervelletto. In circa il 2% degli individui con sindrome di Prader-Willi e in circa il 5% degli individui con sindrome di Angelman vi sono anomalie del processo di imprinting. Questo ultimo gruppo è associato con un rischio di recidiva. Nel caso della sindrome di Angelman, se la madre non affetta (perché ad esempio ha ereditato dal padre la mutazione di UBE3A) è portatrice della mutazione, il rischio di ricorrenza (avere un secondo figlio affetto) è del 50%. Paradossalmente anche in caso di test genetici negativi per la mutazione c'è un rischio di ricorrenza apprezzabile a causa di mosaicismo gonadico. Infine ci sono rari casi di traslocazioni della porzione prossimale del braccio lungo del cromosoma 15 (15q). A seconda se la traslocazione è trasmessa dal padre o dalla madre, i figli affetti all'interno della famiglia presenteranno la sindrome di Prader-Willi o di Angelman.

Sindrome di Beckwith-Wiedemann (BWS) La sindrome di Beckwith-Wiedemann è una malattia genetica caratterizzata da iperaccrescimento, predisposizione ai tumori e malformazioni congenite (macroglossia, macrosomia fetale, ernia ombelicale, indentature del padiglione auricolare). L'incidenza è uguale nei due sessi, fatta eccezione per i gemelli monozigoti (significativa preponderanza femminile). La sindrome è causata dall’alterazione dell’imprinting di alcuni geni che risiedono sul cromosoma 11 (11p15.5), sebbene siano possibili altre cause come la disomia uniparentale paterna o delezioni/inversioni del cromosoma 11. La diagnosi può essere confermata dai test molecolari; tuttavia la negatività dei test non esclude la sindrome.

Sindrome di Silver-Russell La sindrome di Silver-Russell è un raro disturbo della crescita (5 casi ogni milione di nascite). Le cause sono eterogenee: - nel 20% dei casi vi è una disomia uniparentale materna del cromosoma 7 o mutazioni a carico del gene GRB10 localizzato sul braccio corto del cromosoma 7 (7p); - nel 30% dei casi vi è ipometilazione del gene H19 localizzato sul cromosoma 11 (11p15) in una regione soggetta a imprinting; - nel restante numero di casi le cause sono sporadiche. Il quadro clinico è caratterizzato da anomalie del volto (come l’aspetto triangolare con una fronte ampia), micrognazia (sviluppo anomalo della mandibola), anomale dei denti e bocca larga con entrambi gli angoli delle labbra verso il basso, mancanza di appetito. La crescita è ritardata e i pazienti raggiungono un’altezza

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finale ridotta (150 cm negli uomini, 140 cm nelle donne): il corpo è asimmetrico e le mani possono essere caratterizzate da sindattilia e clinodattilia. EREDITÀ RECESSIVA DI ALLELI COMUNI Se la malattia a trasmissione autosomica recessiva è grave in età fertile e limita o annulla la capacità riproduttiva (fitness bassa), le mutazioni non si estinguono comunque perché i portatori sani sono 10- 10000 volte più numerosi degli affetti. Le mutazioni autosomiche recessive in genere si trasmettono da 100-1000 generazioni, mentre le mutazioni de novo sono rare. Per questa ragione le mutazioni hanno una firma etnica che caratterizza una località di origine e un fondatore comune eterozigote sano. L'alto numero di portatori è un fattore di rischio per l'eterozigosi composta (2 mutazioni differenti nei 2 alleli). Questo potrebbe essere causato da una fitness migliore degli eterozigoti nei confronti di un fattore negativo, come ad esempio la maggiore resistenza alla malaria dei portatori di talassemia. Un numero maggiore di eterozigoti composti si produce quando nella popolazione sono presenti molti alleli mutati differenti (ad esempio, β-talassemia). EMOGLOBINOPATIE EREDITARIE Le emoglobinopatie ereditarie sono tra i disordini mendeliani più comuni come risultato di maggiore vantaggio relativo degli eterozigoti nei confronti delle infezioni malariche. Circa il 7% della popolazione mondiale è portatore eterozigote di mutazioni dei geni delle globine, responsabili di diversi fenotipi clinici che comprendono l'inefficace produzione di globuli rossi (talassemie) o le anemie emolitiche (emoglobinopatie). I sintomi variano per diverse patologie: nell’anemia falciforme, per esempio, i globuli rossi tendono ad assumere una forma diversa quando l'emoglobina è deossigenata, con conseguente danno d'organo e problemi circolatori, mentre nelle α o β-talassemie vi è una ridotta sintesi di catene α o β dell'emoglobina che si traduce in anemia ipocromica microcitica, un emocromo anormale con globuli rossi nucleati e minore quantità di emoglobina A. I geni coinvolti sono HbA1, HbA2, HBB, HBZ, HBQ1, HBG1, HBG2, HBD, HBE1, con i primi 3 che svolgono il ruolo più importante. HbVar è un database di varianti dell'emoglobina umana e talassemie che comprende circa 1500 voci, di cui l’81% sono mutazioni di sostituzione, il 13% sono piccole delezioni/inserzioni, mentre il 4% sono delezioni più grandi (minori di 200 coppie di basi), o eventi di fusione. EREDITÀ RECESSIVA DI ALLELI PRIVATI Esistono alterazioni genetiche private, cioè presenti con un solo allele mutato al mondo. A queste variazioni non corrisponderebbe alcuna malattia genetica clinicamente manifesta, se i tratti recessivi rimanessero in eterozigosi. Tuttavia all'interno di una comunità chiusa i tratti recessivi possono combinarsi. È la consanguineità il fattore di rischio per ogni patologia recessiva. In caso di consanguineità è attesa l'omozigosi (2 alleli identici) anche se la mutazione ritrovata è rarissima. Consanguineità: la consanguineità è una condizione che si riferisce all'avere in comune almeno un antenato. La consanguineità tra genitori costituisce un importante fattore di rischio per la prole. Infatti i cugini di primo grado (che hanno 2 nonni in comune) condividono 1/8 del patrimonio genetico ed hanno un rischio riproduttivo raddoppiato per patologie recessive. MUTAZIONI DEL DNA MITOCONDRIALE La più nota funzione dei mitocondri è la generazione di energia attraverso il metabolismo ossidativo che produce ATP. Gli elettroni generati dal ciclo di Krebs dall'ossidazione dell'acetil-CoA sono trasportati lungo i quattro complessi (I-IV) fino all'ATP sintasi (complesso V). Una parte delle proteine dei complessi mitocondriali è codificata, trascritta e tradotta dai mitocondri stessi. Il DNA mitocondriale (mtDNA) è presente in 2-10 copie in ciascun mitocondrio. È costituito da una sequenza circolare di 16569 coppie di basi. Non ha istoni, né introni, codifica per 37 geni, di cui 22 sono tRNA, 13 sono proteine della fosforilazione ossidativa e 2 sono rRNA. Viene ereditato esclusivamente per via materna senza ricombinazione, in quanto l'mtDNA degli spermatozoi è ubiquitinato e distrutto dopo la fecondazione. Pertanto l'analisi del mtDNA permette di tracciare la storia genetica delle popolazioni attraverso le donne. Se tutte le molecole di mtDNA sono identiche si parla di omoplasmia, viceversa si definisce eteroplasmia la presenza di mtDNA con differenze nella sequenza. L'eteroplasmia è ricorrente e comporta un'espressività

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variabile tra persone affette della stessa famiglia. Tuttavia ci sono anche variazioni patologiche in omoplasmia. Le malattie mitocondriali al momento riconosciute comprendono: La sindrome di MELAS (encefalomiopatia mitocondriale con acidosi lattica e episodi simili ad ictus), in cui c’è mutazione A3243G nel tRNA della leucina, caratterizzata da miopatia, crisi epilettica, episodi di ischemia cerebrale e cefalea che a lungo portano a deficit motori e mentali; La sindrome di MERF (epilessia mioclonica con fibre rosse sfilacciate), in cui c’è mutazione A8344G nel tRNA della lisina. I segni clinici sono sordità, atrofia ottica, bassa statura, atassia, debolezza muscolare e meno spesso demenza; La sindrome di Kearns-Sayre, malattia neuromuscolare dovuta alla delezione di grosse porzioni di mtDNA, può essere ereditata solo da madre malata, che la trasmetterà a tutta la progenie. Porta a progressiva diminuzione delle forze e nei maggiori casi paralisi totale, a causa della perdita della piena funzionalità dei movimenti di occhi, muscoli e cuore, cosa che conduce gradualmente ad un esito fatale; La neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON) è una malattia neurodegenerativa mitocondriale a trasmissione materna caratterizzata da una riduzione bilaterale acuta o subacuta della visione centrale che si manifesta più di frequente in giovani adulti di sesso maschile: non tutti i soggetti che presentano mutazioni del mtDNA sviluppano la malattia (penetranza incompleta). La trasmissione attraverso donne sane e la prevalenza nel sesso maschile è stata notata nella maggior parte delle famiglie ed ha fortemente suggerito un errore nel genoma del DNA mitocondriale (mtDNA). Tutte le mutazioni provocano difetti dei geni delle subunità del complesso I della catena respiratoria nel mtDNA: MT-ND1, MT-ND4 e MT-ND6. Attualmente sono riconosciute come causa della gran parte dei casi familiari e sporadici di LHON nel mondo 3 mutazioni patogenetiche primarie: nelle posizioni 11778/ND4, 3460/ND1 e 144484/ND6; Una quarta mutazione nella posizione 14459/ND6 è patogenetica per la variante fenotipica LHON/distonia/malattia di Leigh.

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TABELLA RIASSUNTIVA MALATTIE

ANOMALIE CROMOSOMICHE NUMERICHE 45 CROMOSOMI

Sindrome di Turner Sindrome di Noonan

47 CROMOSOMI, TRISOMIE AUTOSOMICHE Trisomia 21 - Sindrome di Down. Trisomia 18 (Sindrome di Edwards) Trisomia 13 (Sindrome di Patau)

47 CROMOSOMI, TRISOMIE DEI CROMOSOMI SESSUALI Sindrome di Klinefelter Sindrome del triplo X Sindrome di Jacobs

DELEZIONI Sindrome di Di George Sindrome del “Cri du chat” Sindrome di Williams-Beuren Sindrome di Wolf Hirschhorn Sindrome di Smith-Magenis Sindrome di Mowat-Wilson

MALATTIE DA SPLICING Progeria di Hutchinson-Gilford

EREDITÀ AUTOSOMICA DOMINANTE Neurofibromatosi di tipo I o morbo di von Recklinghausen Sindrome di Marfan Acondroplasia Ipocondroplasia Rene policistico autosomico dominante dell’adulto (ADPKD) Sindrome di Apert o acrocefalosindattilia Sindrome di Pfeiffer Sindrome di Crouzon Sindrome di Waardenburg Distrofia facio‐scapolo‐omerale o malattia di Landouzy‐Déjérine Sindrome Baraitser-Winter

EREDITÀ AUTOSOMICA RECESSIVA Fibrosi cistica Atrofia muscolare spinale (SMA)

MALATTIE RECESSIVE LEGATE AL CROMOSOMA X Albinismo oculare di tipo I Distrofia muscolare di Duchenne e Becker Emofilia Sindrome di Kennedy o atrofia muscolare spinale e bulbare (SBMA)

EREDITÀ A TRASMISSIONE AUTOSOMICA SIA DOMINANTE CHE RECESSIVA Distrofie muscolari dei cingoli

MUTAZIONI DINAMICHE IN REGIONI NON CODIFICANTI Sindrome dell’X fragile o di Martin-Bell Distrofia miotonica di tipo 1 o di Steinert Distrofia miotonica di tipo 2 Atassia di Friedreich

MUTAZIONI DINAMICHE IN REGIONI CODIFICANTI Atassie spinocerebellari (SCA) Corea di Huntington

IMPRINTING GENOMICO E DISOMIA UNIPARENTALE Sindrome di Prader-Willi Sindrome di Angelman Sindrome di Beckwith-Wiedemann (BWS)

MUTAZIONI DEL DNA MITOCONDRIALE

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ANOMALIA CROMOSOMICA NUMERICA (O ANEUPLOIDIA)

Turner

monosomia X (45, X0) errore spermatogenesi 80%, non correlata ad età genitori, figlio già affetto non incide mosaicismo (45,X0/46,XX) isocromosoma X

Analisi del cariotipo Southern blot

Fenotipo femminile; unica monosomia compatibile con la vita (98% si ha aborto spontaneo) delezione di una copia del gene SHOX (non subisce inattivazione perché si trova nella regione PAR1 su Xp) è la causa genetica della bassa statura nelle pazienti (< 140 cm – trattate con GH); Su Xq vi sono geni collegati al mantenimento della funzione ovarica; in assenza di una copia di X vi è atresia dell’ovaio e amenorrea primaria Otite media che sfocia nella sordità, linfedema con rigonfiamento delle mani e dei piedi, pterigio del collo, anulare più corto, micrognazia, torace largo con aumento degli spazi intercostali, attaccatura bassa delle orecchie e dei capelli, ipertensione e anomalie renali e cardiocircolatorie, intelligenza e aspettativa di vita normali, ma con complicazioni cardiovascolari letali l'aspettativa di vita si riduce di circa 10 anni.

Noonan 12q

mutazioni missenso gene PTPN11 che codifica per protein fosfatasi non recettoriale 11 le mutazioni causano allele ipermorfo Autosomica dominante

bassa statura dovuta all’ormone GH, dismorfismo facciale, malformazioni cardiache, deformità del torace e pterigio,

TRISOMIE AUTOSOMICHE

Down Trisomia 21 (95% non disgiunzione meiosi 1 materna, 7% non disgiunzione paterna, 5% traslocazione robertsoniana 21-14 21 è l’autosoma più vuoto)

Nipt

i bambini presentano peso sotto la norma, ipotonia, taglio mongolico degli occhi, bocca piccola aperta da cui protrude la lingua, orecchie piccole con attaccatura bassa, mani corte e tozze, con indice, medio e anulare della stessa lunghezza e unica piega di flessione; cardiopatie congenite o atresia duodenale; ritardo mentale e motricità e manipolazione ritardati. Il rischio aumenta con l’età materna; il rischio raddoppia con un figlio già affetto, 70% feti trisomici va incontro ad aborto spontaneo Down-Alzheimer: la copia in più del cromosoma 21 porta a una sovraespressione del precursore della proteina amiloide (APP) che alcuni enzimi trasformeranno nella β-amiloide responsabile delle placche tipiche dell’Alzheimer Rischio leucemie (10 volte in più) e tumore testicolare (4 volte in più)

Edwards Trisomia 18 (non disgiunzione materna)

peso sotto la norma, difficoltà di suzione, ipotonia; epilessia, malformazioni cardiache, sinclinodattilia (dita fuse e deviate lateralmente), grave ritardo mentale e psicomotorio Il rischio aumenta con l’età materna; il rischio raddoppia con un figlio già affetto, 50% muore entro i primi 2 mesi

Patau Trisomia 13 (non disgiunzione materna)

peso sotto la norma, difficoltà di suzione, ipotonia; epilessia, malformazioni cardiache, sinclinodattilia (dita fuse e deviate lateralmente), grave ritardo mentale e psicomotorio Il rischio aumenta con l’età materna; il rischio raddoppia con un figlio già affetto, 50% muore entro i primi 2 mesi

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TRISOMIE DEI CROMOSOMI SESSUALI

Klinefelter

47,XXY (basta almeno una X in più) mosaicismo XY/XXY 46,XX da traslocazione (gene SRY dell’Y su X durante meiosi paterna)

dosaggio triplicato gene SHOX su Xp (causa maggior crescita) 50% dei casi è causato da una non disgiunzione nella meiosi 1 paterna. Un precedente figlio con la sindrome non aumenta il rischio riproduttivo previsto per una coppia di pari età, ma la probabilità di non disgiunzione della X materna aumenta con l'avanzare dell'età. Colpisce solo i maschi

ritardo mentale associato ad un crescente numero di cromosomi sessuali (QI diminuisce di 15 punti ogni X extra); bassi livelli di testosterone, aumento di estradiolo, FSH e LH. Prima infanzia: ipospadia, pene più piccolo, criptorchidismo. Adolescente: distribuzione ginoide del tessuto adiposo, ginecomastia e testicoli piccoli. Adulti: infertili o incidenza maggiore di cancro alla mammella.

Triplo X 47,XXX

donne un po' più alte e presentano l'inattivazione di 2 cromosomi X e quindi formazione di 2 corpi di Barr

Jacobs (disomia Y)

47,XYY

fenotipo solitamente normale, una percentuale non stimabile presenta alta statura e ritardo psicomotorio

DELEZIONI

Di George 22q

sindrome da microdelezione (la delezione comprende 3 megabasi ed almeno 30 geni, alcuni di questi in condizioni di aploinsufficienza); Mutazioni puntiformi gene TBX1 che portano a CATCH-22 90% mutazione de novo (in eterozigosi) 10% autosomica dominante La ricorrenza del difetto genetico di base è condizionato dalla presenza di almeno 3 LCR (low copy repeats)

FISH CGH Array MLPA

CATCH-22: tetralogia di Fallot (difetto setto interventricolare, aorta a cavaliere, stenosi sottovalvolare e valvolare polmonare, ipertrofia ventricolo destro), anomali facciali (Faccia da gatto con epicanto, ipertelorismo, naso prominente, padiglioni auricolari malformati;), ipoplasia del timo (causa immunodeficienza), palatoschisi, ipocalcemia Il difetto embriogenetico riguarda il differenziamento delle cellule della cresta neurale da cui derivano III e IV tasca branchiale (da cui si formano timo e paratiroidi), cartillagini, muscoli e vasi sanguigni

Cri du chat 5 p

Delezione in eterozigosi causa aploinsufficienza nei geni chiave per lo sviluppo cerebrale 80% mutazioni de novo Trasmissione sconosciuta

FISH

(dal pianto monotono per abnorme sviluppo della laringe); peso sotto la norma, ipotonia, testa piccola, sella nasale ampia, micrognazia, ipertelorismo, epicanto. Q. I. minore di 50

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Williams-Beuren 7p

microdelezione in eterozigosi di una regione che comprende: gene dell'elastina LIM kinase 1 CLIP-115 fattori di trascrizione

FISH CGH Array MLPA

lieve o medio ritardo mentale (IQ tra 41 e 80) con scarsa capacità di concentrazione, esagerata loquacità, personalità amichevole e affettuosa, statura più bassa di circa 10 cm, ipercalcemia; faccia da elfo (occhi blu, strabismo, bocca larga e guance piene); difetti cardiaci

Wolf Hirschhorn 4p

Delezione de novo di circa 4 MB in una regione critica di 16 MB (più frequenti nella linea germinale maschile) Autosomica dominante

CGH Array FISH (per delezioni inferiori a 2 Mb)

scarso accrescimento, ritardo mentale, ipotonia, labbro leporino e conformazione ad elmo di guerriero greco

Smith-Magenis 17p

Delezioni (o microdelezioni o mutazioni frameshift) del gene RAI1 le mutazioni causano allele ipomorfo, c’è aploinsufficienza Il prodotto genico di RAI1 è prodotto in risposta all’acido retinoico ed è importantissimo nelle prime fasi dello sviluppo del sistema nervoso Trasmissione sconosciuta

FISH

ritardo mentale con autolesionismo, sonno notturno discontinuo con sonno diurno (per deficit melatonina), brachicefalia e ipoplasia della parte centrale della faccia, mani e piedi piccoli, bassa statura, ipotonia, alterazioni cardiache e renali

Mowat-Wilson 2q

Delezione del gene ZEB2 Autosomica dominante

fronte alta e bombata, ipertelorismo, occhi grandi e infossati, lobi delle orecchie grandi e prominenti, ritardo mentale moderato-grave, crisi epilettiche, cardiopatie congenite

MALATTIE DA SPLICING

Progeria di Hutchinson-Gilford 1q

mutazione de novo in eterozigosi del gene LMN-A (la mutazione non cambia l’amminoacido glicina ma cambia il sito donatore dello splicing, facendo perdere 50 amminoacidi alla proteina) che codifica per la lamina A la mutazione del gene LMN-A causa un allele antimorfo (ha effetto dominante negativo) La lamina A codificata dal gene mutato possiede un gruppo farnesile che non essendo rimosso compromette tutta la lamina nucleare

invecchiamento precoce, bassa statura, pelle rugosa, calvizie, assenza di tessuto adiposo, diabete, cataratta, aterosclerosi ed infarto. La morte avviene mediamente intorno agli 11 anni di età

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PATOLOGIA MENDELIANA MONOALLELICA

EREDITÀ AUTOSOMICA DOMINANTE

Neurofibromatosi tipo I 17q

mutazioni in eterozigosi del gene NF1 che codifica per neurofibromina-1 (NF1 è un oncosoppressore che inattiva RAS idrolizzando il GTP in GDP) mutazioni in eterozigosi possono essere non-senso, missenso, alterazioni dei siti di splicing, delezioni o inserzioni, che causano allele amorfo 50% mutazioni de novo 50% autosomica dominante Penetranza completa dopo i 12 anni Espressività variabile

almeno 2 tra i seguenti segni: macchie caffelatte, noduli di Lisch (amartomi dell'iride), neurofibromi, lentigginosi ascellare o inguinale, displasia dello sfenoide, assottigliamento della corticale delle ossa lunghe, glioma ottico o un parente di primo grado con neurofibromatosi

Marfan 15q

Mutazioni missenso in eterozigosi del gene FBN1 che codifica per la fibrillina (ridotta o anomala porta alla debolezza del tessuto, con aumentata produzione di TGF-β e la perdita delle interazioni cellula-matrice) Le mutazioni causano allele amorfo, c’è aploinsufficienza 75% autosomica dominante 25% mutazioni de novo

aneurisma aortico prossimale, lussazione del cristallino, crescita eccessiva delle ossa lunghe (deformità della gabbia toracica causata dalla crescita eccessiva delle costole e aracnodattilia) aspettativa di vita quasi normale se il coinvolgimento cardiovascolare non è grave

Acondroplasia 4p

Mutazioni missenso (sostituzione di una glicina con una arginina) in eterozigosi del gene FGFR3 che codifica per il recettore 3 di FGF Le mutazioni causano allele ipermorfo 10% Autosomica dominante a penetranza completa 90% mutazione de novo (che colpisce quel codone perché contiene un dinucleotide CpG e quindi è metilabile ed ipermutabile)

Craniosinostosi. Nanismo dismorfico (arti corti, testa più grossa), fronte prominente e naso appiattito. L'altezza media è 130 cm nei maschi e 125 cm nelle femmine; cartilagine assente

Ipocondroplasia 4p

Mutazioni missenso (sostituzione di una asparagina con una lisina) in eterozigosi del gene FGFR3 che codifica per il recettore 3 di FGF (70%)

simili all'acondroplasia, ma di gravità minore con un coinvolgimento craniofacciale inferiore

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Rene policistico 16p 4q

Mutazioni in eterozigosi del gene PKD1 (16p) che codifica per policistina-1 e del gene PKD2 (4q) che codifica per policistina-2 Le mutazioni (delezioni, non-senso, frameshift, splicing, missenso) causano allele amorfo Alla base delle mutazioni sembra esserci una conversione genica (gene/pseudogene) Malattia ad espressività variabile (alcuni hanno insufficienza renale, altri poche cisti renali) Policistina 1 e 2 fanno parte di un complesso che regola la concentrazione di calcio intracellulare

cisti renali bilaterali che aumentano di dimensioni e numero nell'arco di decenni, provocando insufficienza renale nella metà dei casi. Le cisti possono anche essere localizzate in altri organi quali fegato e pancreas

Apert o acrocefalosindattilia 10q

Mutazione missenso (sostituzione di cisteina con una glicina) de novo in eterozigosi del gene FGFR2 che codifica per il recettore 2 per l'FGF Le mutazioni causano allele ipermorfo

craniosinostosi, brachicefalia, ipertensione endocranica, ritardo mentale, ipoplasia della parte centrale della faccia, sindattilia, sordità e atrofia ottica

Pfeiffer 10q

Mutazione missenso (sostituzione di cisteina con una arginina) de novo in eterozigosi del gene FGFR2 che codifica per il recettore 2 per l'FGF Mutazione missenso (sostituzione di prolina con una arginina) de novo in eterozigosi del gene FGFR1 che codifica per il recettore 1 per l'FGF Le mutazioni causano allele ipermorfo

craniosinostosi, brachicefalia, ipertensione endocranica, ritardo mentale, ipoplasia della parte centrale della faccia, sindattilia, sordità e atrofia ottica

Crouzon o disostosi craniofacciale

10q

Mutazione missenso (sostituzione di cisteina con una tirosina) de novo in eterozigosi del gene FGFR2 che codifica per il recettore 2 per l'FGF Le mutazioni causano allele ipermorfo

craniosinostosi, brachicefalia, ipertensione endocranica, ritardo mentale, ipoplasia della parte centrale della faccia, sindattilia, sordità e atrofia ottica, esoftalmo e testa a trifoglio

Waardenburg 2q

mutazioni non-senso (anche delezioni e frameshift) del gene PAX3

sordità bilaterale, modifiche nella pigmentazione (sia dei capelli che della pelle), anomalie nello sviluppo dei tessuti derivati dalla cresta neurale, allargamento della base del naso, eterocromia (marrone/blu)

Distrofia facio-scapolo-omerale 4q

delezione di DNA nella regione subtelomerica che causa allele ipomorfo

forma classica (tra i 7 e i 15 anni): impossibile chiudere gli occhi con forza e fischiare e gonfiare le guance; compromissione lenta dei muscoli del cingolo scapolare e di quello pelvico; nelle fasi tardive anche dei muscoli prossimali degli arti inferiori; forma infantile (intorno ai 2 anni): riduzione della forza muscolare simile a quella dell’adulto, ma più severa: la compromissione dei muscoli facciali è tale da dar luogo a completa amimia.

Baraitser-Winte 7p 17q

Mutazioni missenso in eterozigosi del gene ACTB (7p) e del gene ACTG1 (17q) che codificano per actine espresse ubiquitariamente Le mutazioni causano allele ipermorfo

sequenziamento del DNA di ACTG1 e ACTB

dismorfismi facciali (ipertelorismo e ptosi palpebrale, naso largo con punta piatta, microcefalia), progressivo irrigidimento articolare e deficit cognitivo di gravità variabile. La crescita è lievemente ritardata e la statura finale è inferiore alla norma.

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PATOLOGIA MENDELIANA BIALLELICA

EREDITÀ AUTOSOMICA RECESSIVA

Fibrosi cistica 7q

Mutazioni del gene CFTR che codifica per proteina che funziona come canale per il cloro La mutazione più frequente è Δ F508 (delezione in frame del codone 508 che codifica per la fenilalanina) e causa allele amorfo Penetranza completa Espressività variabile

screening neonatale test del sudore test genetici

Gli omozigoti e gli eterozigoti composti presentano il quadro classico di fibrosi cistica con manifestazioni respiratorie e pancreatiche Gli eterozigoti hanno solo una leggera sintomatologia pelle salata, scarsa crescita e scarso aumento di peso nonostante una normale assunzione di cibo, accumulo di muco denso e appiccicoso, infezioni polmonari frequenti o mancanza di respiro. Assenza congenita dei vasi deferenti nel maschio causa sterilità. Le complicanze cardiorespiratorie sono la causa più comune di morte.

Atrofia muscolare spinale (SMA) 5q

Il gene responsabile SMN è localizzato in una regione duplicata e invertita, per cui SMN è presente in 2 copie: una telomerica, SMN1, e una centromerica, SMN2.

Prelievo di sangue o biopsia muscolare per cercare la mutazione

colpisce i motoneuroni delle corna anteriori del midollo spinale A seconda dell'età di inizio dei primi sintomi nell'individuo si distinguono 4 forme: SMA di tipo I è la forma più grave. L’insorgenza dei sintomi avviene entro i primi 6 medi di vita o già in utero per riduzione dei movimenti fetali. I bambini presentano marcata ipotonia e debolezza muscolare tali da non essere capaci di stare seduti senza appoggio. A volte la debolezza dei muscoli respiratori è tale da richiedere la ventilazione assistita. SMA di tipo II è una forma intermedia. L’insorgenza dei sintomi avviene tra i 6 e i 18 mesi di vita con debolezza muscolare che interessa prevalentemente i muscoli prossimali degli arti inferiori. I pazienti sono in grado di mantenere la posizione seduta, ma non sono in grado di camminare. SMA di tipo III è una forma lieve. L’insorgenza dei sintomi avviene tra i 18 mesi e i 18 anni. I pazienti sono in grado di camminare e l’esordio della debolezza muscolare è graduale. Hanno un’aspettativa di vita quasi normale. SMA di tipo IV è la SMA dell’adulto. Si manifesta dopo i 18 anni ed è una forma rara, geneticamente eterogenea.

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MALATTIE RECESSIVE LEGATE AL CROMOSOMA X

Albinismo oculare di tipo I Xp

Mutazioni (muta un pezzo di introne in esone) del gene OA1 che codifica per proteina della membrana degli organelli dove è contenuta la melanina (maschi affetti, femmine portatrici)

Maschi: anomalie oculari e un fenotipo pigmentario albinotico Femmine portatrici: minimi segni oculari (80%)

Distrofia muscolare di Duchenne e Becker Xp

Mutazioni del gene della distrofina (il più grande del genoma) che nella Duchenne causano allele amorfo e nella Becker causano allele ipomorfo Secondo la teoria di Monaco: - Delezioni intrageniche del gene della distrofina di un numero di nucleotidi non multiplo di 3 alterano la cornice di lettura e si osserva la Duchenne; - Delezioni intrageniche del gene della distrofina di un numero di nucleotidi multiplo di 3 non alterano la cornice di lettura e si osserva la Becker. Le mutazioni sono: 80% grandi delezioni; 20% duplicazioni, inserzioni o mutazioni non-senso 50% recessiva X linked 50% mutazioni de novo N.B.: anche le donne possono avere malattia nell'1% dei casi quando una traslocazione bilanciata X-autosoma interrompe il gene della distrofina: viene sempre inattivato il cromosoma X normale (l’inattivazione di quello con la traslocazione porterebbe ad uno scompenso genico maggiore e quindi letale) e l'unico allele della distrofina teoricamente utilizzabile risulta interrotto.

PCR MLPA CGH Array

malattie degenerative del muscolo, che presenta aree infiammatorie e processi di necrosi e col tempo è sostituito da tessuto adiposo e fibroso. Duchenne: alla nascita vi sono elevati valori di creatinkinasi, transaminasi e lattato deidrogenasi di provenienza muscolare. Il bambino, che ha già imparato a camminare, verso i 7 anni mostra difficoltà ad alzarsi perché i muscoli del tronco non lo sorreggono (segno di Gowers) e poi a camminare (sedia a rotelle intorno ai 10-14 anni di età); poi ha difficoltà respiratorie e cardiache. Hanno ipertrofia del polpaccio. I pazienti superano i 35 anni di età. Becker: colpisce nell’adolescenza o dopo e i sintomi sono identici alla sindrome di Duchenne ma più attenuati. Vi è coinvolgimento cardiaco significativo. La progressione è più lenta e variabile con buona aspettativa di vita.

Emofilia Xq

Mutazioni del gene che codifica per il fattore VIII della coagulazione Le mutazioni sono: inversioni che causano allele amorfo, mutazioni puntiformi che causano allele ipomorfo

Emorragia nelle articolazioni e nei muscoli, ecchimosi e sanguinamento prolungato delle ferite

Kennedy (atrofia muscolare spinale e bulbare) Xq

Mutazione del gene che codifica per il recettore degli androgeni La mutazione è dinamica (espansione di ripetizioni di triplette CAG che codificano per la glutammina; da 38 a 62 ripetizioni c’è malattia) Recessiva X linked

La malattia si presenta con atrofia muscolare, astenia, disturbi nell'apparato fonatorio, nel meccanismo della deglutizione e nella respirazione. Si è pensato di trattare i sintomi neuromuscolari con inibitori del testosterone

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EREDITÀ A TRASMISSIONE AUTOSOMICA SIA DOMINANTE CHE RECESSIVA

Distrofie muscolari dei cingoli

autosomica dominante (un genitore affetto trasmette la malattia al 50% dei figli) o recessivo (entrambi i genitori portatori trasmettono la malattia al 25% dei figli): la causa è dovuta in geni diversi, dominanti o recessivi

è caratterizzato da debolezza dei muscoli del cingolo pelvico, con difficoltà nel salire le scale, nel rialzarsi da terra e nel correre. I sintomi correlati alla debolezza dei muscoli del cingolo scapolare sono più tardivi. Vi è un aumento dei valori della creatinkinasi di origine muscolare Le forme dominanti sono di solito più benigne e relativamente rare. Le forme recessive sono molto più frequenti.

Calpainopatia 15q

gene che codifica per l'enzima proteolitico calpaina-3 autosomica recessiva

Disferlinopatia 2p

gene che codifica per la disferlina autosomica recessiva

MUTAZIONI DINAMICHE IN REGIONI NON CODIFICANTI

X fragile (Martin-Bell) Xq Il sito fragile è una costrizione dei cromosomi in metafase che insorge quando le cellule sono esposte ad una perturbazione della replicazione del DNA (come può essere la deprivazione di folati) I siti fragili sono su tutti i cromosomi: quello dell’X prende il nome di sito fraXA

Mutazioni dinamiche del gene FMR1 con espansione della tripletta CCG nel 5’UTR del gene (nonostante si trovi in una regione non codificante, ne altera la lettura perché l’espansione provoca la metilazione delle citosine nel promotore del gene, con conseguente silenziamento della sua espressione) Da 5 a 50 triplette, il soggetto è normale, Da 50 a 200 triplette ha una premutazione (clinicamente non è affetto, ma possiede un allele che in una sola generazione può diventare mutazione completa), Oltre 200 triplette ha una mutazione completa (la regione è completamente metilata). Una mutazione completa non insorge mai direttamente ma è necessario il passaggio attraverso una premutazione: ciò fa sì che gli affetti aumentino di generazione in generazione (paradosso di Sherman). L’instabilità delle premutazioni si manifesta specificamente nella meiosi femminile, per cui se una portatrice di premutazione trasmette alla progenie l’allele espanso, vi è alta probabilità che questo si espande fino a dare mutazione completa: - maschi con premutazione avranno figli sani e figlie portatrici della premutazione; - femmine con premutazione avranno al 50% figli con mutazione completa, per cui se saranno maschi avranno inevitabilmente la sindrome, se saranno femmine risulteranno moderatamente affette solo in un terzo dei casi (per l’inattivazione casuale dell’X). Nell’X fragile i dendriti sono immaturi e quindi mancano le connessioni tra i neuroni; questo avviene perché la proteina FMRP codificata dal gene FMR1 (una RNA binding protein espressa nei neuroni che trasporta gli mRNA dal nucleo ai ribosomi posti in periferia) viene a mancare.

Southern blot

È la seconda causa di ritardo mentale (QI tra 20 e 70). Il ritardo mentale si associa a macrocefalia con fronte, mento ed orecchie sporgenti deficit della memoria a breve termine, ritardo nel linguaggio, ridotte abilità visuospaziali, iperattività e comportamento autistico; prolasso della valvola mitrale e piede piatto. Maschi: testicoli ingrossati; Femmine: menopausa precoce POF (premature ovarian failure).

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Distrofia miotonica di tipo 1 o di Steinert 19q

Mutazioni dinamiche del gene DMPk con espansione della tripletta CTG nel 3’UTR del gene Tra 5 e 30 triplette, il soggetto è normale Tra 30 e 50 triplette, il soggetto ha una premutazione Oltre 50 triplette, il soggetto ha mutazione completa Autosomica dominante, con fenomeno dell’anticipazione L’mRNA ricco di CUG che si forma nei pazienti affetti è alterato, lungo e non riesce ad uscire dal nucleo, per cui vi forma degli aggregati, sequestrano proteine coinvolte nello splicing: ciò altera i processi di splicing cellulare.

Southern blot

L’esordio è tardivo Vi è il fenomeno miotonico: incapacità di rilassare i muscoli dopo una contrazione muscolare a freddo. Si associano cataratta, ipotiroidismo, diabete e alterazioni comportamentali.

Distrofia miotonica di tipo 2 3q

Mutazioni dinamiche del gene ZNF9 con espansione della tetrapletta CCTG in una regione non codificante del gene Autosomica dominante, con lieve fenomeno dell’anticipazione L’mRNA ricco di CCUG che si forma nei pazienti affetti è alterato, lungo e non riesce ad uscire dal nucleo, per cui vi forma degli aggregati, sequestrano proteine coinvolte nello splicing: ciò altera i processi di splicing cellulare

dolori muscolari, affaticamento, rigidità, debolezza ai muscoli prossimali dell'arto inferiore

Atassia di Friedreich 9q

Mutazioni dinamiche del gene FRDA con espansione della tripletta GAA in una regione non codificante del gene. Il gene FRDA codifica per la Fratassina (smaltisce i rifiuti dei processi energetici) Autosomica recessiva

disturbi dell'equilibrio, difficoltà a correre; con il passare del tempo vi sono difficoltà a scrivere, a parlare, a deglutire.

MUTAZIONI DINAMICHE IN REGIONI CODIFICANTI

Atassia spinocerebellare (SCA)

Mutazioni dinamiche con espansione di tripletta in una regione codificante del gene Autosomica dominante

malattie neurodegenerative caratterizzate dall’incapacità di coordinare il cammino, i movimenti delle braccia e degli occhi, e difficoltà nell’articolare le parole. Il cervelletto è l’organo principalmente colpito. In Italia le forme più frequenti sono SCA 1 e SCA 2

SCA 1 6p

Mutazioni dinamiche del gene atassina1 con espansione della tripletta CAG in una regione codificante del gene

SCA 2 12q

Mutazioni dinamiche del gene atassina2 con espansione della tripletta CAG in una regione codificante del gene

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Corea di Huntington 4p

Mutazioni dinamiche del gene huntingtina con espansione della tripletta CAG in una regione codificante del gene Fino a 30 triplette, il soggetto è normale Tra 30 e 40 triplette, il soggetto ha una premutazione Oltre 40 triplette, il soggetto ha mutazione completa 97% Autosomica dominante a penetranza completa 3% mutazioni de novo La proteina huntingtina con poliglutammina forma aggregati nei gangli basali della corteccia, causandone la morte

PCR radioattiva Considerando che le triplette ripetute si trovano in regioni codificanti, con un’analisi genetica si può prevedere quando comparirà la malattia

Sintomi psichiatrici (depressione, irritabilità, difficoltà a prendere decisioni); movimenti incontrollati simili a una danza e demenza. La malattia avanza inesorabilmente fino alla morte.

IMPRINTING GENOMICO E DISOMIA UNIPARENTALE

Prader-Willi 15q

Il denominatore comune è che manca il contributo paterno della regione 70% microdelezione della regione 15q di origine paterna 20% disomia uniparentale materna (entrambi i cromosomi 15 sono di origine materna) Restanti casi: delezioni del centro dell’imprinting e traslocazioni

Test di metilazione con Southern blot e PCR metilazione-specifica Recentemente MLPA FISH per disomie e microdelezioni

I neonati presentano ipotonia che impedisce la corretta suzione, difetto di crescita corretto con l'alimentazione forzata. Successivamente c’è un aumento di peso rapido, con conseguente obesità (mangiano e bevono di continuo senza essere sazi); ritardo psicomotorio. Se la dieta non è controllata vanno incontro a morte precoce (30 anni) per complicanze dell'obesità. Inoltre i soggetti sono infertili a causa di organi sessuali non adeguatamente sviluppati.

Angelman 15q

Il denominatore comune è che manca il contributo materno della regione 70% microdelezione della regione 15q di origine materna (viene deleto anche il gene OCA2 responsabile dell’albinismo oculo-cutaneo) 2% disomia uniparentale paterna (entrambi i cromosomi 15 sono di origine paterna) 4% delezioni del centro dell’imprinting 10% mutazioni puntiformi del gene UBE3A sull’allele materno che codifica per un ubiquitina ligasi espressa nel cervello Restanti casi: traslocazioni

Test di metilazione con Southern blot e PCR metilazione-specifica Recentemente MLPA FISH per disomie e microdelezioni

epilessia, andatura instabile, ritardo mentale, assenza di linguaggio, eccessivo buonumore, aspetto felice. La malattia diventa clinicamente evidente 12-24 mesi dopo la nascita. L'aspettativa di vita può essere normale con terapia farmacologica.

Beckwith-Wiedemann 11p

60% difetti dell’imprinting 20% disomia uniparentale paterna (entrambi i cromosomi 11 sono di origine paterna)

Analisi del cariotipo MLPA

iperaccrescimento, predisposizione ai tumori e malformazioni congenite (ad esempio, macroglossia).

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Silver-Russell 11p

30% ipometilazione del gene H19 su 11p in regione soggetta a imprinting (l’eccesso di espressione di H19 è compatibile con il ritardo della crescita) 20% disomia uniparentale materna (entrambi i cromosomi 7 sono di origine materna)

anomalie del volto (testa triangolare con fronte ampia), micrognazia, anomalie dei denti e bocca larga con gli angoli delle labbra verso il basso, mancanza di appetito. La crescita è ritardata (altezza finale di 150 cm negli uomini e 140 cm nelle donne)

MUTAZIONI DEL DNA MITOCONDRIALE

Parte di proteine dei complessi mitocondriali sono codificate, trascritte e tradotte dai mitocondri stessi mtDNA è in ciascun mitocondrio; è fatto da una sequenza di 16000 coppie di basi; codifica per tRNA, proteine della fosforilazione ossidativa e rRNA mtDNA è ereditato per via materna perché il mtDNA degli spermatozoi è ubiquinato e distrutto dopo la fecondazione mtDNA non ha istoni né introni eteroplasmia: quando mitocondri a mtDNA mutato coesistono con mitocondri a mtDNA integro omoplasmia: quando i mitocondri hanno tutti mtDNA mutato gli effetti patologici delle mutazioni mitocondriali colpiscono soprattutto i tessuti ad alto consumo energetico come tessuto nervoso, della muscolatura striata e liscia

MELAS Mutazioni puntiformi di geni codificanti enzimi della catena respiratoria Mutazioni puntiformi di geni codificanti per tRNA

encefalomiopatia, acidosi lattica, crisi epilettiche, episodi di ischemia cerebrale e cefalea che a lungo portano a deficit motori e mentali

MERF Mutazioni puntiformi di geni codificanti per tRNA

sordità, atrofia ottica, bassa statura, debolezza muscolare e demenza

Kearns-Sayre Delezione di grosse porzioni di mtDNA

progressiva diminuzione delle forze, paralisi totale, perdita della funzionalità dei movimenti di occhi, muscoli e cuore, che conduce gradualmente a morte

Neuropatia ottica ereditaria di Leber

Mutazioni puntiformi di geni codificanti enzimi della catena respiratoria

riduzione bilaterale della visione centrale che si manifesta più di frequente in giovani adulti di sesso maschile

Sindrome di Leigh Mutazioni puntiformi di geni codificanti enzimi e subunità della catena respiratoria

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PATOLOGIE DA RIDUZIONE E DA AUMENTO DELLA PRESSIONE ATMOSFERICA Il valore della pressione atmosferica (o barometrica) a livello del mare è di 760 mmHg (1 atmosfera) e diminuisce all’aumentare dell’altitudine. Piccole variazioni della pressione atmosferica sono del tutto prive di effetti dannosi sull’organismo, che invece si manifestano quando esse superano una certa soglia, determinando in caso di riduzione le ipobaropatie, ed in caso di aumento le iperbaropatie. IPOBAROPATIE La pressione atmosferica ridotta comporta a livello alveolare la riduzione delle pressioni parziali dei gas presenti nell’aria inspirata: la pO2 alveolare è normalmente di 104 mmHg e determina effetti patologici quando raggiunge i 67 mmHg (come avviene a 3000 mt di altitudine). Difatti, l’abbassamento della pressione

parziale dell’02 fa sì che si riduca nel sangue arterioso la percentuale di saturazione dell’emoglobina. La riduzione della saturazione dell’emoglobina comporta una ridotta cessione dell’ossigeno ai tessuti, i quali vanno incontro ad una condizione di grave sofferenza, definita ipossia ipossica, caratterizzata inizialmente da senso di stanchezza e di sonnolenza, da cefalea, da nausea e da confusione mentale. Essa può anche manifestarsi sotto forma di euforia. Il perdurare dello stato ipossico porta al coma e quindi alla morte. La comparsa dell’ipossia ipossica può essere prevenuta se al posto dell’aria si respira ossigeno puro per il fatto che negli alveoli lo spazio occupato dall’azoto, che costituisce i 4/5 dell’aria atmosferica, è occupato dall’ossigeno con conseguente aumento della pO2 alveolare. Il meccanismo di compenso allo stato di ipossia da parte dell’organismo prevede l’attivazione dei chemiocettori (cardio-aortici e seno-carotidei), che stimolano i centri nervosi ad aumentare l’ampiezza e la frequenza degli atti respiratori (iperventilazione). Questa forma di compenso, che incrementa gli scambi respiratori, da un lato determina un aumento della tensione alveolare e conseguentemente arteriosa dell’O2, ma dall’altro favorisce l’eliminazione della CO2 con la conseguenza che nel sangue viene turbato l’equilibrio acido-base per abbassamento della pCO2 ematica ed innalzamento del pH, condizione definita alcalosi respiratoria, che a sua volta, anziché eccitare, deprime i centri respiratori. L’alterazione dell’equilibrio acido-base viene corretta dal rene, che provvede ad eliminare l’eccesso di bicarbonato, mentre il persistere della condizione ipossica da ridotta P02 alveolare continua ad eccitare i centri respiratori determinando iperventilazione polmonare. Inoltre, il persistere dello stato ipossico induce anche la stimolazione dell’eritropoiesi, tramite la liberazione di eritropoietina e la tachicardia, la quale facilita l’ossigenazione dell’emoglobina, facendo passare un maggior numero di eritrociti a livello dei capillari polmonari. Tuttavia, il compenso di lunga durata all’ipossia ipossica, che è alla base dell’acclimatazione, può provocare per la continua stimolazione all’increzione di eritropoietina una condizione di policitemia con un aumento dell’ematocrito, che dal valore normale (36-46% nella donna e 38-52% nell’uomo) può raggiungere quello del 75%, con un marcato aumento della viscosità del sangue. Si distingue:

- Il mal di montagna acuto, che colpisce persone che hanno raggiunto rapidamente altitudini elevate soggiornandovi per alcuni giorni e compiendo attività lavorative o sportive. Esse rischiano di morire se non vengono trasportate rapidamente a bassa quota. La sintomatologia iniziale, causata dalla riduzione della pO2, consiste in vertigini, cefalea, nausea da ipertensione endocranica, e può culminare nella comparsa di edema cerebrale e di edema polmonare.

- Il mal di montagna cronico, caratterizzato dall’aumento del numero di eritrociti, del valore dell’ematocrito e della viscosità ematica, con ipertensione polmonare, ipertrofia cardiaca destra, insufficienza cardiaca e rischio di morte se il soggetto non viene trasportato a bassa quota.

IPERBAROPATIE L’uomo si trova esposto ad un’aumentata pressione barometrica:

- quando si immerge in profondità in apnea o con l’ausilio di respiratori; - in camere pressurizzate iperbariche.

Nel caso delle immersioni l’innalzamento della pressione ambientale è causato dal fatto che alla pressione atmosferica si somma quella idrostatica esercitata dal peso della massa d’acqua sovrastante con la

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conseguenza che l’aumento risulterà tanto più elevato quanto maggiore sarà la profondità raggiunta nell’immersione. È stato calcolato che per ogni 10 mt di profondità si ha l’aumento di un’atmosfera. Le leggi che regolano le variazioni di volume e di solubilità dei gas in rapporto alla pressione a cui le persone sono sottoposte sono:

- La legge di Boyle, la quale stabilisce che, a temperatura costante, il volume di un gas si modifica in maniera inversamente proporzionale alla pressione a cui esso è sottoposto (con l'aumento della pressione un gas riduce il volume da esso occupato);

- La legge di Henry, la quale stabilisce che, a temperatura costante, la solubilità di un gas in un liquido è direttamente proporzionale alla pressione a cui esso è sottoposto (con l’aumento della pressione un gas solubilizza maggiormente);

- La legge di Dalton, la quale dimostra che la pressione totale esercitata da una miscela di gas deriva dalla somma delle pressioni parziali che ogni singolo gas che la costituisce eserciterebbe se fosse presente da solo in egual volume.

L’iperventilazione effettuata prima di un’immersione in apnea, determina inizialmente un innalzamento della pO2 alveolare, che provoca una maggiore diffusione di 02 nel sangue; successivamente, però, durante l’immersione, la sua concentrazione nel sangue si riduce progressivamente (ipossiemia) perché viene ceduto ai tessuti senza poter essere sostituito da un successivo apporto respiratorio. Nel contempo continua nell’organismo la produzione di C02 che non può essere espulsa per via polmonare per cui si accumula nel sangue e negli alveoli (ipercapnia), dove l’aumento della sua pressione parziale può talora raggiungere un livello tale da determinare il suo rientro dai polmoni nel sangue e, talora, perfino la sua cessione dal sangue ai tessuti. L’ipercapnia stimola il centro respiratorio che risponde con l’invio di segnali di contrazione ai muscoli respiratori (in particolare al diaframma) che vengono percepiti dai sommozzatori, i quali, se esperti, comprendono che è giunto il momento della risalita perché, in caso contrario, l’apertura della bocca per il riflesso respiratorio li obbligherebbe ad ingerire acqua con rischio di annegamento. Inoltre l’azoto, con l’aumentare della pressione, passa nel sangue dove, a causa della sua elevata concentrazione nell’aria inspirata, si discioglie in maggiore quantità in confronto agli altri gas. Dal sangue l’azoto diffonde ai tessuti molto vascolarizzati (muscoli e fegato) e poi a quelli poco vascolarizzati (tessuti adiposo e osseo): questo gas provoca disturbi quando la sua concentrazione supera un certo limite. Tutte le conseguenze si verificano perché con l’aumento della pressione una maggiore quantità di gas si scioglie nel sangue (legge di Henry). Nel contempo, però, per l’aumento della pressione idrostatica, si verifica la riduzione di volume dei gas (legge di Boyle), che interessa gli organi che contengono aria nel loro interno (i polmoni e l’orecchio collegato alla tuba di Eustachio e l’intestino), che rischiano di collassarsi. La malattia da decompressione (MDD) Quando l’emersione avviene rapidamente, l'azoto in soluzione nel sangue passa velocemente allo stato aeriforme, formando piccole bolle che vengono trasportate nel torrente circolatorio. Si manifesta l'embolia gassosa che è pericolosa in quanto le bolle possono confluire formando bolle di maggiori dimensioni. Di queste, quelle presenti nel sangue arterioso possono raggiungere tutti gli organi e fermarsi in corrispondenza dei capillari di diametro inferiore, determinandone l'occlusione con conseguente danno ischemico (molto grave nel tessuto nervoso); quelle presenti nel sangue venoso raggiungono il cuore e confluiscono nelle sue cavità formando una grossa bolla con la conseguenza che il cuore, pompando a vuoto, riesce ad espellere una quantità limitata di sangue. L'embolia gassosa dei sub si manifesta entro le 6 ore dall’emersione ed è definita malattia da decompressione (MDD). Per la prevenzione della MDD è sufficiente far avvenire l’emersione lentamente, cioè in modo che risulti graduale il passaggio dell’azoto dallo stato liquido a quello aeriforme. La terapia dei soggetti con sintomi da MDD viene effettuata nelle camere iperbariche. Tossicità dell'azoto durante l'immersione La pericolosità dell’azoto solubilizzato nel sangue e nei tessuti si manifesta anche con la cosiddetta narcosi da azoto, ora definita “Sindrome neuropsichica da profondità”: a pressione elevata, l’azoto si combina facilmente con l’ossigeno formando protossido di azoto, che esercita un’azione tossica sul SNC responsabile di un’iniziale euforia, alla quale subentra uno stato di sopore simile a quello che si verifica nell’abuso di alcol. L’euforia iniziale induce una sensazione di sicurezza che invita a prolungare la permanenza in acqua, mentre il successivo stato confusionale pregiudica l’attività decisionale (il gas che agisce sul doppio strato lipidico della membrana plasmatica delle cellule nervose altera l’eccitabilità e la trasmissione di segnali).

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Tossicità dell'ossigeno durante l'immersione Con l'aumentare della pressione barometrica anche la pO2 alveolare si innalza. In queste condizioni a livello capillare l'ossigeno viene erogato ai tessuti ad una pressione superiore a quella normale e ciò comporta un incremento della sua concentrazione nel sangue venoso. L’esagerata ossigenazione del sangue provoca intossicazione iperossica (da O2) ed ebbrezza di ossigeno, ovvero un senso di eccitazione accompagnata da disturbi auricolari e visivi, nausea, convulsioni e coma. La patogenesi di questi effetti tossici non è stata del tutto chiarita, ma si pensa sia causata dalla produzione di ROS in quantità tale da non poter essere eliminati da sistemi enzimatici fisiologicamente preposti a tale operazione (perossidasi, catalasi, superossido dismutasi): la perossidazione dei lipidi della membrana plasmatica delle cellule della glia e dei neuroni sarebbe responsabile della comparsa dei sintomi. La sintomatologia regredisce dopo l’emersione. È anche possibile per scopi terapeutici la somministrazione di O2 a pressione superiore a quella normale. L'indicazione principale si ha nella rianimazione dei neonati prematuri che vengono mantenuti in culle iperbariche nelle quali la pressione del gas non deve superare i 140 mmHg, perché, se superati, si ha la cosiddetta fibrosi retrolenticolare (l'insufficiente vascolarizzazione induce la formazione di tessuto connettivo fibroso dietro al cristallino). Tossicità dell'anidride carbonica durante l'immersione Quando l’immersione avviene col sussidio di respiratori non si verificano significativi aumenti della pCO2 nel sangue (ipercapnia). Gli effetti tossici da C02 sono provocati in questo caso da un difettoso funzionamento delle attrezzature che riduce o blocca l’eliminazione del gas espirato (si manifestano quando la pressione alveolare di questo gas supera gli 80 mmHg con acidosi e depressione dei centri nervosi, che induce la comparsa di uno stato letargico che può risultare letale). PATOLOGIE DA ACCELERAZIONE GRAVITAZIONALE L’uomo è sempre sottoposto alla forza di gravità (forza G), che fa sì che tutti i corpi in caduta libera raggiungano la superficie terrestre con una velocità che subisce durante il percorso un’accelerazione costante, definita accelerazione di gravità, la cui unità di misura (indicata con la lettera g) ha un valore medio di 9,8 m/s2. In determinate condizioni, quali violenti cambiamenti di velocità o di direzione, la forza G può subire modificazioni che ne fanno variare l'intensità:

- Un’accelerazione è considerata positiva quando comporta un aumento della velocità (aumenta la forza che preme sull'organismo in direzione testa-piedi) ed in questo caso l’unità che ne misura l’entità è definita g positivo (+g);

- L’accelerazione è considerata negativa quando comporta una riduzione della velocità (aumenta la forza che preme sull’organismo in direzione piedi-testa) ed in questo caso l’unità che ne misura l’entità è definita g negativo (-g).

- L'accelerazione è considerata radiale quando la sua direzione avvolge il corpo in senso sia destrogiro che levogiro: essa, quindi, può essere sia in senso piedi- testa che in senso testa-piedi;

- Un’accelerazione è considerata trasversa quando è diretta in senso perpendicolare all’asse maggiore del corpo.

Lo stress da accelerazione consiste nell’insieme delle modificazioni a cui va incontro l’organismo in conseguenza di un rapido cambiamento della velocità. Sulla base della direzione con cui l’accelerazione raggiunge il corpo, possono manifestarsi 4 diversi tipi di stress da accelerazione:

- Stress da accelerazione positiva, tanto più grave quanto maggiore è la statura perché negli individui alti è maggiore la distanza tra il cuore ed i piedi e tra il cuore e la testa. Essa inizia intorno a + 2,5g con una sopportabile sensazione di maggiore aderenza al sedile, ma diventa imponente quando si raggiungono i +4g con durata superiore ai 15 secondi a causa del ristagno di sangue nelle vene degli arti inferiori, che riduce il rientro ematico al cuore. Gli organi contenuti nelle cavità toracica e addominale vengono spinti verso il basso e la pressione sanguigna subisce un brusco calo che può provocare ipossia cerebrale, che si manifesta inizialmente con la cosiddetta red-out (visione rossa), causata dalla caduta delle palpebre e dalla rotazione dei bulbi oculari, a cui fanno rapidamente seguito la scomparsa della vista (black-out) e deficienze motorie che ostacolano il movimento. L’incoscienza interviene a +5g;

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- Stress da accelerazione negativa, che causa la comparsa di sintomi causati dalla tendenza del sangue e degli organi interni a subire una spinta in direzione piedi-testa, con la sensazione di sollevamento dal sedile. Il volto si arrossa per il maggiore afflusso di sangue inducendo congestione dei vasi che può provocare emorragie a livello dei capillari e delle piccole vene, che si verificano in genere quando si superano i -3g. Quando la forza è compresa tra -3 e -4g, compare la sensazione di protrusione degli occhi fuori dalle orbite e quella di prurito alle palpebre per il rigonfiamento dei piccoli vasi. Vi può essere una perdita temporanea della visione o una visione rossa (red-out), che può culminare in incoscienza. La sofferenza cardiaca deriva dal fatto che il cuore riceve dai vasi della parte inferiore del corpo una quantità di sangue superiore a quella che riesce ad espellere;

- Stress da accelerazione radiale, simile alle precedenti nel senso che essa, pur avvolgendo il corpo in senso destrogiro o levogiro, può decorrere sia dalla testa ai piedi che dai piedi alla testa. La componente rotatoria di questa accelerazione aggrava la sintomatologia a causa degli spostamenti bruschi a cui va incontro l’endolinfa dei canali semicircolari, che provocano vertigini e nausea;

- Stress da accelerazione trasversa, che non provoca effetti imponenti perché gli spostamenti subiti dal sangue e dagli organi risultano limitati, essendo la lunghezza degli assi trasversi del corpo (dorso ventrale e latero-laterale) nettamente inferiore a quella dell’asse longitudinale.

La prevenzione nei confronti della comparsa degli effetti indotti dalle accelerazioni gravitazionali è ridurne al minimo la durata. Cinetosi o cinetopatie Le cinetosi o cinetopatie, definite anche malattie da movimento, sono riconducibili all’azione sull’organismo di brusche accelerazioni positive e negative lineari ed angolari di una certa intensità, che si verificano durante il percorso in mezzi di trasporto, per cui si parla di mal d’auto, di treno, di mare, d’aereo, caratterizzate dalla comparsa di vertigini, nausea e vomito, che cessano col cessare delle sollecitazioni. L’uomo è conscio dell’orientamento del suo corpo e degli arti sia quando è fermo che durante il movimento, grazie alle informazioni che propriocettori, statici e dinamici, presenti nella cute, nei muscoli striati, nei tendini e nelle capsule articolari, inviano attraverso varie vie al sistema nervoso, che provvede ad elaborarle. Al mantenimento dell’equilibrio ed alla sensazione di orientamento concorrono inoltre i segnali inviati da recettori presenti nell’organo della vista e soprattutto da quelli presenti nell’apparato vestibolare. PATOLOGIE DA ELEVATA O BASSA TEMPERATURA AMBIENTALE Il calore è una forma di energia che assorbita o ceduta da un sistema ne fa variare la temperatura senza produrre lavoro. I meccanismi di trasferimento del calore sono la conduzione, la convezione e l’irraggiamento. La temperatura normale oscilla tra i 35,8 e i 37,2°C. La natura corporea risulta dall'equilibrio di termogenesi e termodispersione:

- La termogenesi si realizza con reazioni metaboliche esotermiche, attraverso la produzione di ATP che viene idrolizzato ad ADP;

- La termodispersione avviene per irradiazione nel 70% dei casi, conduzione, convezione ed evaporazione nel 30% dei casi. Gli scambi avvengono nella cute (90%) e nei polmoni (10%).

Quando la temperatura corporea sale intorno ai 41°C si hanno convulsioni, mentre dai 42-43°C subentra danno cerebrale e morte neuronale. Quando la temperatura corporea si abbassa:

- intorno ai 32-33°C, si ha perdita di conoscenza; - intorno ai 30°C si ha poichilotermia, nel senso che vengono rallentate tutte le funzioni vitali; - sotto i 29°C si verifica una lenta fibrillazione atriale dovuta ad una dissociazione tra il pacemaker

atriale e il fascio di conduzione ventricolare (atri e ventricoli non vanno più alla stessa frequenza). Successivamente, a temperature più basse, subentra anche la fibrillazione ventricolare, un aumento della frequenza al di sopra di 200 battiti al minuto che fa perdere l'efficacia di contrazione (il cuore vibra, non pompa più e c’è una condizione di pre-morte).

Le alterazioni della termoregolazione prevedono: - Ipertermie, ovvero colpo di sole e colpo di calore; - Ipotermie, ovvero congelamento e assideramento.

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Colpo di sole o insolazione L’esposizione della testa scoperta al sole per molte ore può essere causa del colpo di sole o insolazione, caratterizzato da cefalea, alterazioni psichiche, ipertermia ed esito infausto. All’esame autoptico si riscontrano alterazioni delle meningi e dei ventricoli cerebrali, che si presentano iperemici (l’iperemia è l’aumento del flusso sanguigno in una determinata parte del corpo). La patogenesi è sconosciuta. Colpo di calore II colpo di calore colpisce quando alla temperatura ambientale elevata (anche oltre i 40°C) si associa un alto grado di umidità. Il rischio aumenta con gli sforzi muscolari che incrementano la produzione endogena di calore (termogenesi). La sintomatologia, che può anche condurre a morte, è molto grave: innalzamento della temperatura corporea fino a 44°C, vertigini, convulsioni, perdita della coscienza, coma. Il meccanismo patogenetico consiste nell’alterazione dell’equilibrio idrosalino, causata dall’eccessiva sudorazione, che risulta inefficace per un’adeguata termodispersione. La perdita di acqua e di sali col sudore produce ipovolemia (riduzione della massa di sangue circolante), ipotensione e aumento della viscosità del sangue. Meno grave del colpo di calore è il cosiddetto esaurimento da calore, caratterizzato da ipotensione, insufficienza cardiocircolatoria e cefalea che subentrano ad una esagerata risposta termodispersiva, con violenta sudorazione e diffusa vasodilatazione superficiale. Congelamento Il congelamento assume gravità diverse a seconda dell'intensità del freddo e della durata di esposizione, interessando prevalentemente le estremità del corpo (mani, piedi, orecchie, naso). Alla sensazione di bruciore provocata dall’esposizione prolungata al freddo subentra quella di riduzione o perdita della sensibilità, che può culminare in completa anestesia della regione cutanea interessata, che inizialmente impallidisce per vasocostrizione, ma poi assume un colore rosso bluastro per vasodilatazione passiva, seguita da vaso-paralisi, che riduce la circolazione locale del sangue e blocca la cessione di ossigeno ai tessuti (congelamento di 1° grado). Se l’esposizione continua, si ha liberazione di citochine pro-flogistiche con formazione di essudato che rende la zona edematosa (congelamento di 2° grado). La prolungata ischemia diventa responsabile di necrosi tissutale (congelamento di 3° grado), che può esitare in gangrena. Si ricordano 2 patologie localizzate da esposizione prolungata a bassa temperatura:

- Il piede da trincea o da immersione, che si manifesta per prolungata esposizione alla bassa temperatura (superiore a 0°), in maniera simile al congelamento, con accentuazione di edema;

- L’eritema pernio (o geloni), che colpisce le falangi delle dita di soggetti esposti cronicamente al freddo e privi di adeguata protezione. È caratterizzata da fenomeni locali di vasocostrizione, stasi venosa e flogosi essudativa, di rado responsabile di ulcerazione.

Assideramento La permanenza di lunga durata in un ambiente a bassa temperatura provoca alterazioni generali, definite assideramento, causate dall’insufficienza dei meccanismi termoregolatori con la conseguenza che la temperatura corporea si abbassa progressivamente (ipotermia) fino alla soppressione di tutte le attività metaboliche e della funzione cardiocircolatoria. La morte interviene quando la temperatura corporea si abbassa al di sotto dei 25°C. I sintomi sono graduali: all’iniziale forte sensazione di freddo subentra uno stato di apatia, che si trasforma rapidamente in sonnolenza che impedisce ogni capacità reattiva. AZIONE LOCALE DEL TRASFERIMENTO DI ENERGIA TERMICA Le lesioni provocate dal trasferimento di calore sono dette ustioni o scottature. Esse si verificano quando la temperatura dell’area colpita supera i 40-45°C e la loro gravità dipende, oltre che dall’estensione e dalla profondità della lesione, dalla durata del contatto con la sorgente di calore e dalla modalità del trasferimento del calore (il calore umido risulta più dannoso di quello secco). Le ustioni si classificano in:

- 1° grado, inducono vasodilatazione e quindi la formazione di un eritema diffuso e tumefazione; - 2° grado, inducono infiammazione e quindi la formazione di una bolla includente essudato sieroso; - 3° grado, inducono necrosi secca o umida e quindi la formazione di un’escara o crosta; - 4° grado, inducono combustione e quindi la carbonizzazione.

Le lesioni superficiali guariscono con una completa restitutio ad integrum, mentre quelle profonde danno origine a cheloidi (cicatrici), per ipertrofia e iperplasia delle cellule del connettivo dermico, che causano tumefazioni fornite di margini irregolari con digitazioni ramificate molto deturpanti.

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Oltre che da corpi solidi, da liquidi surriscaldati e dalla fiamma, le ustioni sono prodotte dalle scariche elettriche, dall’esposizione prolungata alla luce solare o dai raggi ultravioletti generati da sorgenti artificiali, da materiali radioattivi e dai caustici. Frequentemente vengono definite ustioni anche le lesioni da freddo per la similitudine del quadro istopatologico indotto dalla reazione flogistica. Le proteine cutanee denaturate dall’azione del calore vengono riconosciute come estranee dai recettori Toll-like, espressi in particolare dai macrofagi, dai polimorfonucleati e dalle cellule dendritiche, che rispondono alla stimolazione innescando una reazione infiammatoria, la cui gravità risulta proporzionale all’entità dello stimolo. Le ustioni sono considerate:

- maggiori, quando la regione ustionata occupa nell’adulto più del 25% della superficie cutanea totale (o più del 15% se l’ustione è di 3° grado) e più del 15% nel bambino;

- intermedie, quando l’estensione coinvolge il 15- 25% della superficie cutanea totale se l’ustione è di 1° o 2° grado ed il 3-10% se, invece, è di 3°;

- minori, quando l’estensione della lesione è inferiore a quelle sopraindicate. Le persone che subiscono un grave insulto termico possono andare incontro ad uno shock neurogeno, ma il rischio maggiore è quello dello shock ipovolemico, che può manifestarsi a distanza di tempo dall’incidente, a causa dell’ipovolemia conseguente alla perdita di acqua, di elettroliti e di proteine plasmatiche con l’essudato che dalla superficie cutanea ustionata si versa all’esterno; è pertanto necessario, in questi casi, prevenirne la comparsa con un’adeguata somministrazione di liquidi, di elettroliti e specialmente di plasma.

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PATOLOGIE DA ASSORBIMENTO DA RADIAZIONI La radiazione è l’energia che si propaga nello spazio senza l'aiuto di un substrato materiale. Si distinguono in radiazioni elettromagnetiche e corpuscolate. Le radiazioni elettromagnetiche (REM) sono dotate di 2 proprietà fondamentali, la lunghezza d’onda λ e la frequenza, e si propagano nello spazio sotto forma di fotoni (quanti di energia con massa uguale a 0), muovendosi con velocità pari a quella della luce. Le radiazioni corpuscolate sono particelle subatomiche, fornite di massa e di carica elettrica, che si muovono con velocità prossima a quella della luce. Esse comprendono:

- elettroni o negatroni (a carica negativa); - positroni (a carica positiva); - protoni (nucleo dell'atomo di H a carica positiva); - deuteroni (nuclei dell'idrogeno pesante o deuterio, a carica positiva); - particelle α (nuclei di elio a doppia carica positiva); - neutroni (emessi in alcuni processi di decadimento radioattivo e nella fissione nucleare); - mesoni (particelle subatomiche a carica positiva o negativa).

Nella collisione, le radiazioni cedono la loro energia agli atomi ed alle molecole presenti nelle cellule e nei fluidi dell’organismo, che le assorbono con conseguenze che variano a seconda della quantità di energia assorbita e del tempo di esposizione. Sotto questo aspetto, le radiazioni sono suddivise in radiazioni non ionizzanti (con energia inferiore a 10 eV) e ionizzanti (con energia superiore a 10 eV). La ionizzazione consiste nell’espulsione di un elettrone dall’orbita in cui ruota che, una volta libero, diventa uno ione negativo, mentre l’atomo privato dell’elettrone diventa uno ione positivo. Radioattività di base La radioattività di base è rappresentata da:

- le radiazioni cosmiche, di cui i maggiori costituenti sono protoni, ioni di elio e altri elementi che raggiungono continuamente la terra, ma durante il loro percorso interagiscono con atomi presenti nell’aria causando emissione di elettroni, raggi ɣ e mesoni;

- le radiazioni terrestri, causate dalla disintegrazione di minerali radioattivi della crosta terrestre; - le radiazioni che provengono da esseri viventi, normalmente presenti ma del tutto insignificanti.

A queste radiazioni di origine naturale si sono aggiunte quelle che provengono dalle sorgenti artificiali costruite dall’uomo (in particolare i raggi X di applicazione diagnostica e terapeutica), le quali hanno contribuito a raddoppiare la quantità di radiazioni che bersagliano l’uomo. L’eccessiva esposizione ad alcune forme di radioattività naturale costituisce un fattore di rischio. Azione patogena delle radiazioni non ionizzanti Le radiazioni non ionizzanti fanno parte dello spettro elettromagnetico con l’esclusione dei raggi X e ɣ: comprendono onde radio, microonde, radiazioni infrarosse, radiazioni luminose visibili e radiazioni ultraviolette. Le radiazioni ultraviolette sono radiazioni eccitanti in quanto nella collisione con la materia, l'energia ceduta (non sufficiente a determinare l'espulsione di un elettrone dall'atomo) è in grado di far saltare l'elettrone da un'orbita interna (dotata di minore energia) ad una esterna (fornita di maggiore energia), con la conseguenza che l'atomo si eccita e diventa reattivo. Le radiazioni ultraviolette naturali emesse dal sole con λ al di sotto di 290 nm (fornita di maggiore energia e pertanto la più dannosa) è assorbita dall’ozono. Delle radiazioni che raggiungono la superficie cutanea, alcune sono riflesse, altre sono assorbite dai cromofori cutanei ed altre ancora trasmesse agli strati più profondi. I cromofori cutanei (rappresentati da diverse molecole epidermiche e dermiche) subiscono un incremento di energia vibrazionale che ne induce lo stato di eccitazione, responsabile di danno diretto e indiretto (quando i cromofori bersagliati trasmettono energia ad altre molecole). I fenomeni dannosi sono:

- reazioni fotodinamiche, quando richiedono la presenza di O2, con conseguente formazione di ROS che provocano un danno ossidativo;

- reazioni non fotodinamiche quando il danno, in assenza di 02, è provocato nelle molecole limitrofe alla emissione di radiazioni per effetto termico o per formazione di fotoaddotti.

La sensibilità cutanea dell’uomo alle radiazioni solari, in particolare a quelle ultraviolette, è elevata per i soggetti con carnagione chiara e scarsa per quelli con carnagione scura.

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Le radiazioni UV sono più penetranti di quelle luminose; nello spettro elettromagnetico la loro banda, compresa tra i 200 ed i 400 nm è suddivisa in 3 regioni:

- UVC (λ compresa tra 200 e 290 nm), dotate di azione battericida e trattenute dall’ozono; - UVB (λ compresa tra 290 e 320 nm), che sono le maggiori responsabili dell’eritema, del

fotoinvecchiamento e della comparsa di mutazioni; - UVA (λ compresa tra 320 e 400 nm), assorbite da molecole esogene fluorescenti.

Gli effetti indotti dall’irradiazione ultravioletta sulla cute sono immediati nel caso di una sola o di poche esposizioni prolungate, o a distanza nel caso di esposizioni ripetute costantemente nel tempo. Gli effetti immediati si manifestano con una reazione infiammatoria a carico della cute e della congiuntiva che si risolve rapidamente. Sulla superficie cellulare sono presenti fotocettori che trasducono il segnale tramite l’attivazione del fattore di trascrizione NF-κβ, che determina il rilascio di citochine proflogistiche. Le radiazioni UV sono assorbite dalla melanina che, pertanto, esercita un’azione protettiva. Nelle esposizioni ripetute nel tempo si verificano nella cute alterazioni irreversibili simili a quelle prodotte dall’invecchiamento (le radiazioni UV stimolano la sintesi delle metalloproteasi che modificano le molecole di collagene): gli epidermiociti rispondono con fenomeni di iperplasia che possono culminare in cheratosi (aumento dello strato corneo dell'epidermide) ed i melanociti rispondono con un incremento della melaninogenesi. La peggiore alterazione determinata dalla luce ultravioletta è sicuramente l'azione su purine e pirimidine che vengono modificate strutturalmente producendo dimeri tra anelli pirimidinici adiacenti in una stessa catena polinucleotidica. In particolare, la presenza di dimeri di timina viene rilevata come una distorsione della doppia elica e, se possibile, riparata. Laddove questo non avviene, la presenza del dimero impedisce la duplicazione del tratto di DNA in cui esso è contenuto. Questo accade perché le basi sono molto vicine tra di loro e non si offrono come stampo. Tra gli altri principali danni al DNA ritroviamo:

- alterazioni chimiche delle basi (inserimento dell’uracile al posto della citosina, inserimento dell'8-ossiguanina, formazione di addotti, legami covalenti tra le catene);

- alterazioni durante la duplicazione (delezione, inserzione, A-G mismatch, T-C mismatch); - rottura singola catena o doppia catena.

Questi danni possono causare mutazioni che inducono la comparsa di carcinomi basocellulari o spinocellulari e di melanomi specialmente nei soggetti portatori di mutazioni a carico di geni che codificano per gli enzimi preposti alla riparazione del DNA. I meccanismi principali di riparo prevedono:

- riparo per escissione di base, che coinvolge un singolo nucleotide; - riparo per escissione di nucleotidi, che si attua per risolvere danni che coinvolgono filamenti lunghi

da 2 a 30 nucleotidi, come quelli dovuti alla costituzione dei dimeri di timina; - riparo per ricombinazione, in caso di rottura della doppia catena; - mismatch repair, anche detto riparo dell'appaiamento errato, che corregge la formazione di

nucleotidi non correttamente appaiati. Azione patogena delle radiazioni ionizzanti Le radiazioni ionizzanti comprendono i raggi X, ɣ e le radiazioni corpuscolate. Sono in grado di indurre negli atomi con cui collidono l’espulsione di un elettrone dall’orbita più esterna in cui esso ruota. Questo fenomeno è definito ionizzazione primaria perché provoca la formazione di una coppia di ioni, uno positivo e l’altro negativo. Se quest’ultimo ha assorbito una quantità di energia superiore a quella sufficiente a determinare la sua espulsione, durante il suo percorso la cede agli altri costituenti della materia con cui entra in collisione (ionizzazione secondaria). La difesa contro le radiazioni ionizzanti è data dalla schermatura con lastre di piombo, mentre la difesa contro i ROS, prodotti in seguito ai danni delle radiazioni, è data dai composti riducenti contenenti gruppi sulfidrilici, come il glutatione, e da diversi enzimi, come la superossido dismutasi, la catalasi e la perossidasi. Gli effetti patologici indotti dalle radiazioni ionizzanti sono numerosi e la loro gravità dipende dalla quantità di energia radiante assorbita dalle cellule o dall’intero organismo. Le cellule maggiormente sensibili all’esposizione da radiazioni ionizzanti sono le cellule staminali e quelle proliferanti. Le ricerche condotte con dosaggi di radiazioni ionizzanti inferiori ai 5 Gray, che consentono generalmente la sopravvivenza cellulare, hanno permesso di stabilire che il danno dei vari costituenti cellulari consegue sia all’azione diretta (interazione con le molecole bersaglio) che a quella indiretta (stress ossidativo) e che esso diventa responsabile di effetti immediati (acuti) e di effetti che si manifestano a distanza di tempo.

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Tra le molecole cellulari che subiscono il danno immediato, il DNA costituisce il bersaglio preferenziale: esso va incontro a rotture di uno o di tutti e 2 i suoi filamenti, ad appaiamento anomalo di basi, ad ossidazione delle stesse, a formazione di legami con proteine, un insieme di eventi che diventa responsabile di mutazioni e della comparsa di anomalie cromosomiche. Tuttavia, Io stress ossidativo, oltre a danneggiare vari costituenti cellulari, induce anche fenomeni che assumono rilevanza ai fini della riparazione del danno al DNA e della sopravvivenza cellulare, quali:

- l’attivazione di p53, che bloccando il ciclo cellulare consente alla cellula di innescare i meccanismi di morte per apoptosi se il danno del DNA è grave, o di provvedere alla riparazione dello stesso quando il danno è contenuto;

- l’attivazione del fattore trascrizionale NF-κβ, che favorisce l’attivazione di numerosi geni, compresi quelli che codificano per le molecole dei sistemi enzimatici preposti alla riparazione del DNA.

Sia l’apoptosi che la riparazione del danno subito dal DNA assumono un ruolo preventivo su alcuni effetti tardivi, soprattutto per quanto riguarda la cancerogenesi. Tra gli effetti tardivi, che generalmente conseguono all’irradiazione eseguita per motivi terapeutici e che si manifestano anche a distanza di qualche decennio, i più frequenti, oltre all’infertilità, sono la cancerogenesi, la cataratta e la fibrosi. Patologie conseguenti allo scoppio di bombe atomiche o ad incidenti nei reattori nucleari La cosiddetta malattia da raggi inizia con astenia, nausea, vomito, diarrea, eritema, alla quale fa seguito un periodo di latenza di una o 2 settimane alle quali segue la malattia conclamata, che si manifesta con sindrome cerebrale, gastrointestinale ed emopoietica. Coloro che riescono a superare la malattia, restano esposti al rischio degli effetti a distanza, quali l’insorgenza di neoplasie e la fibrosi che coinvolge vari organi. Quando la dose assorbita di radiazioni ionizzanti supera i 5-6 Gray, la morte, preceduta da fenomeni neurologici e psichici, sopravviene nell’arco di qualche ora per rapida caduta della pressione sanguigna ed insufficienza cardiaca conseguente alla liberazione massiccia di molecole vasoattive, che inducono perdita di liquidi ed elettroliti. Onde elettromagnetiche Le onde elettromagnetiche rappresentano il fenomeno fisico attraverso il quale l’energia elettromagnetica può trasferirsi per propagazione. Sono costituite da 2 grandezze che variano periodicamente nel tempo: il campo elettrico ed il campo magnetico, tra di loro in fase e perpendicolari. Quando un’onda elettromagnetica incontra un ostacolo, penetra nella materia e cede la propria energia producendo una serie di effetti diversi a seconda della sua frequenza. Le onde sorgenti di elettrosmog sono quelle aventi frequenze che vanno da 30 a 300 GHz, a loro volta suddivise in campi elettromagnetici a frequenze estremamente basse (ELF), radiofrequenze (RF) e microonde (MO). Gli effetti nocivi dei campi magnetici si distinguono in effetti acuti ed effetti cronici. Gli effetti acuti sono di breve periodo e possono manifestarsi come diretta conseguenza di esposizioni al di sopra di una certa soglia: l’esposizione ad alte frequenze causa opacizzazione del cristallino, anomalie alla cornea, ridotta produzione di liquido seminale, alterazioni delle funzioni neurali e neuromuscolari, alterazioni dell’apparato muscolare; l’esposizione a basse frequenze (50 Hz) causa effetti sul sistema visivo e sul sistema nervoso centrale, stimolazione di tessuti eccitabili, extrasistolia e fibrillazione ventricolare. Gli effetti cronici possono manifestarsi anche dopo lunghi periodi di latenza, come conseguenza di esposizioni a livelli bassi di campo elettromagnetico per periodi prolungati. I dati scientifici disponibili non forniscono alcuna prova diretta che l’esposizione alle alte frequenze induca o favorisca la comparsa di tumori. Altri studi ipotizzano che l’esposizione a basse frequenze (ELF) provochi un aumento del rischio di contrarre patologie neoplastiche come la leucemia infantile. MISURA DELLA RADIOATTIVITÀ La radioattività si misura in termini di disintegrazione atomica. L'unità di misura per eccellenza è il bequerel (1 bequerel corrisponde ad una disintegrazione al secondo); l'unità di misura usata in precedenza era il Curie (Ci) definita come la quantità di radioattività presente in 1 gr di radio. Questa unità è molto più grande del bequerel, perché in 1gr di radio avvengono 37 miliardi di disintegrazioni al secondo (perciò 1 Ci corrisponde a 37 miliardi di Bq. Per effettuare le misure si è utilizzato un contatore Geiger, che rivela le radiazioni ionizzanti che lo attraversano e che ionizzano le molecole di gas che si trovano al suo interno (quindi i colpi al minuto). Le DPM (disintegrazioni per minuto) si calcolano moltiplicando i colpi al minuto per il coefficiente di efficienza del contatore.

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I fotomoltiplicatori, invece, valutano l'effetto fotoelettrico, fenomeno fisico caratterizzato dall'emissione di elettroni da una superficie, solitamente metallica, quando questa viene colpita da una radiazione elettromagnetica, ossia da fotoni aventi una certa frequenza d'onda. L’effetto fotoelettrico evidenzia la natura quantistica della luce: nella radiazione elettromagnetica l’energia non è distribuita in modo uniforme sull’intero fronte dell’onda ma è concentrata in singoli quanti di energia, i fotoni, e ogni fotone interagisce singolarmente con un elettrone, al quale cede la sua energia. Ma perché si verifichi l’effetto fotoelettrico è necessario che il fotone abbia un’energia sufficiente a rompere il legame elettrico che tiene legato l’elettrone all’atomo. La soglia minima di energia del fotone si determina in base alla relazione di Einstein E=hf=h(c/λ) (dove h è la costante di Planck, f è la frequenza, λ è la lunghezza d'onda e c la velocità della luce). In altri termini l’elettrone può uscire dal metallo solo se l’energia del fotone è almeno uguale al lavoro di estrazione. Il valore soglia varia in base al tipo di materiale considerato (in genere metalli) e dipende, pertanto, dalle sue caratteristiche atomiche. Quanto all'esposizione alle radiazioni, per la misura delle radiazioni ionizzanti si utilizza il Roentgen, che indica la dose di raggi X o ɣ che ionizza un cm3 di aria in condizioni standard di pressione, temperatura e umidità; il Gray (Gy) indica la dose di radiazioni ionizzanti che provoca nei tessuti un assorbimento di energia pari a 1 Joule. È stata creata un'altra unità, la LET (Linear Energy Transfer), che rappresenta la misura del numero di ionizzazioni che le radiazioni causano durante la loro penetrazione attraverso 1 μm di tessuti biologici. I raggi X e ɣ posseggono un basso LET, che è invece maggiore per le particelle β ed ancora più elevato per le particelle α. Tenendo presente che a parità di dose le radiazioni corpuscolate causano un danno maggiore in confronto ai raggi X e ɣ, sono stati introdotti sistemi di misura che prendono in considerazione non tanto la dose assorbita quanto l'effetto biologico indotto dall’uno o dall'altro tipo di radiazioni ionizzanti. La RBE (Relative BiologicaI Effectiveness) esprime l’efficacia biologica relativa di un tipo di radiazione in confronto a un’altra di pari energia: quanto più alta è RBE, tanto più danneggiante è la radiazione. Altre unità di misura ancora usate sono:

- Il rad (Radiation Absorbed Dose), che indica la quantità di radiazioni ionizzanti che in un grammo di tessuti produce un assorbimento di energia pari a 100 erg (l'effetto biologico varia a seconda del tipo di radiazione). 1 Gray corrisponde a 100 rad;

- il rem (Roentgen Equivalent Man), che corrisponde alla quantità di radiazioni che causa nell'uomo lo stesso effetto biologico di 1 rad di raggi X o y.

Per Dose equivalente (H) si intende il prodotto rad (dose assorbita) x RBE. EFFETTO COMPTON ED EFFETTO COPPIA L’effetto Compton, o scattering incoerente, accade quando un fotone ɣ primario interagisce con un elettrone libero o degli orbitali più esterni (debolmente legato al nucleo) cedendo parte della sua energia. Come risultato si ha l'emissione di un elettrone con una sua energia cinetica e di un fotone ɣ secondario (ɣ Compton) di energia che si propaga in direzione diversa rispetto a quella del ɣ originario secondo un angolo di scatter che dipende dall'energia ceduta all'elettrone. L'effetto coppia, detto anche effetto fotonucleare, accade per fotoni di energia superiore a 1.022 MeV, corrispondente alla massa delle 2 particelle che vengono generate dal fenomeno. Il fotone, interagendo col campo di forza del nucleo, scompare con la contemporanea creazione di 2 particelle: un elettrone e un positrone; tutta l'energia oltre la soglia di 1.022 MeV è distribuita in ugual misura tra le 2 particelle sotto forma di energia cinetica. L'elettrone così prodotto può provocare ionizzazioni, mentre il protone va incontro ad annichilazione, con la conseguente produzione di 2 radiazioni ɣ dirette in direzioni diametralmente opposte. LE APPLICAZIONI MEDICHE DELLE RADIAZIONI Le applicazioni mediche delle radiazioni appartengono a 2 categorie fondamentali: la radiodiagnostica e la radioterapia. L’uso delle radiazioni nella diagnostica include la radiografia a raggi X, la tomografia assiale computerizzata (TAC), la scintigrafia con impiego di traccianti radioattivi, le analisi RIA in vitro e la MOC. La radioterapia, che sfrutta la capacità delle radiazioni di distruggere i tessuti patologici, è ampiamente utilizzata soprattutto per la cura del cancro.

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In Medicina Nucleare gli isotopi radioattivi vengono utilizzati in associazione a sostanze che si localizzano in specifici distretti corporei: si comportano da traccianti e sono in grado di mettere in evidenza sia le caratteristiche morfologiche che le capacità funzionali dei tessuti. Le immagini del corpo umano, ottenute tramite rilevamento dei fotoni o delle particelle emessi dal radionuclide iniettato, trovano applicazione sia nella diagnostica che nella terapia. Un isotopo radioattivo viene scelto in funzione delle sue specifiche proprietà nucleari. In particolare, si utilizzano radionuclidi in grado di emettere:

- Radiazioni ɣ o β+ nella diagnostica. La scintigrafia, mediante ɣ-camera, di tessuti e strutture anatomiche consente di evidenziarne eventuali anomalie morfologiche o funzionali;

- Radiazioni β- per la terapia. Un esempio di particolare interesse è quello del Re-186/188, emettitore β-ɣ che, se legato a specifici anticorpi o altre sostanze ad attività recettoriale, può consentire sia il trattamento in loco di masse tumorali che studi di biodistribuzione. In base alla localizzazione del radiofarmaco mediante imaging in vivo, è possibile inoltre studiare il danno genotossico in particolari distretti corporei.

Il primo radiofarmaco introdotto nella pratica clinica è stato lo Iodio-131 (131I), utilizzato nello studio delle patologie tiroidee; ad oggi, il radionuclide di gran lunga più utilizzato è il Tecnezio-99m. I radiofarmaci vengono somministrati direttamente al paziente, per via orale o endovenosa. Tali somministrazioni non causano danni in quanto le dosi impiegate sono basse e i radioisotopi impiegati hanno tossicità ed energia molto bassa. PATOLOGIE DA TRASFERIMENTO DI ENERGIA ELETTRICA La corrente elettrica è rappresentata dal flusso ordinato di cariche elettriche attraverso materiali che ne permettono il trasporto. I corpi che consentono il passaggio della corrente elettrica sono definiti conduttori (metalli, acqua), quelli che invece la impediscono sono detti coibenti o isolanti (legno, gomma, vetro, plastica). I tessuti che costituiscono il corpo umano si comportano da conduttore. Si conoscono vari tipi di corrente elettrica:

- continua, caratterizzata da un flusso di corrente di intensità e direzione costanti nel tempo; - alternata, caratterizzata da un flusso di cariche che nel conduttore va incontro a periodiche variazioni

del verso e dell’intensità per cui si verifica una inversione (alternanza) di polarità che avviene con determinata frequenza;

- faradica, caratterizzata da una fase di bassa intensità e lunga durata che si alterna con una fase di alta intensità e breve durata.

Per circuito elettrico si intende il percorso chiuso in cui la corrente elettrica fluisce: quando il percorso della corrente viene interrotto, il circuito viene definito aperto; l’apparecchio in grado di aprire e di chiudere il circuito è l’interruttore. I parametri che misurano le caratteristiche della corrente elettrica sono il voltaggio e l’intensità. Tenendo presente che l’intensità è direttamente proporzionale al voltaggio e inversamente proporzionale alla resistenza, la gravità del danno da corrente elettrica non è data solo dal voltaggio ma anche dal rapporto tra quest’ultimo e la somma delle resistenze che essa incontra durante il suo passaggio nell’organismo, cioè dall’intensità. La corrente elettrica continua è meno pericolosa di quella alternata. La resistenza del corpo umano al passaggio della corrente non è omogenea. Nelle cellule la membrana plasmatica, a causa del ricco contenuto in lipidi (cattivi conduttori), offre una notevole resistenza al passaggio della corrente elettrica che, però, determina in essa la comparsa di fori, attraverso i quali si verificano abnormi scambi di acqua, elettroliti e molecole che possono indurre morte cellulare per necrosi (elettroporazione). Nell’organismo, la maggiore resistenza al transito della corrente elettrica è offerta dalla cute. Si comportano, invece, da buoni conduttori la muscolatura striata e quella cardiaca ed i vasi sanguigni a causa del loro elevato contenuto in acqua. In linea generale, a livello dei vari organi la resistenza è tanto minore quanto maggiore è la vascolarizzazione dell’organo attraversato dalla corrente. I vasi sanguigni, quindi, per il loro contenuto liquido si comportano da buoni conduttori.

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Nell’attraversare il corpo la corrente elettrica segue un percorso la cui direzione diventa responsabile dei danni agli organi da essa attraversati. Ad esempio, molto gravi sono le conseguenze del passaggio della corrente attraverso l’encefalo, che vanno da attacchi convulsivi con perdita di coscienza, a fenomeni emorragici e ad interferenza col funzionamento di centri di importanza vitale, da cui la morte per incapacità respiratoria o per arresto cardiaco. Gli effetti causati dalla corrente elettrica durante l’attraversamento del corpo sono di 3 tipi:

- l’effetto termico, noto come effetto Joule (la quantità di calore prodotto è direttamente proporzionale alla resistenza, al quadrato dell’intensità ed alla durata della percorrenza), è responsabile della comparsa di ustioni;

- l'effetto elettrochimico si determina perché il corpo si comporta come un conduttore elettrolitico per la presenza in esso di acqua e di elettroliti;

- l’effetto biologico o fisiologico consiste nella stimolazione esasperata di funzioni fisiologiche (gli aspetti più significativi riguardano il sistema nervoso, la muscolatura striata e quella cardiaca).

Oltre che dalla tensione e dall’intensità, il grado di pericolosità della corrente alternata dipende dalla frequenza, risultando le basse frequenze (50-60 Hz), più pericolose di quelle elevate, tanto che per una scarica di corrente alternata con tensione di 220 Volt e con frequenza al di sopra di 500 Hz il pericolo di morte è generalmente inesistente. Il minore effetto patogeno della corrente alternata ad elevata frequenza dipende dal fatto che il rapidissimo alternarsi della polarità induce effetti elettrochimici e biologici di minore intensità. Da ciò l’applicazione delle correnti a frequenza molto elevata per scopi terapeutici; in particolare per l’effetto termico da esse indotto, sono usate per la diatermia. Quando il corpo è attraversato da una corrente elettrica a bassa frequenza (fino a 100 Hz) a livello cellulare si verificano fenomeni di polarizzazione e depolarizzazione delle membrane cellulari che risultano particolarmente evidenti nella muscolatura striata ed in quella cardiaca. La contrazione tetanica della muscolatura striata è responsabile dell’incapacità di retrarre la mano quando questa viene a contatto con un conduttore con la conseguenza che, per la maggiore durata del contatto, il danno risulta di maggiore gravità. Si possono inoltre manifestare spasmo della muscolatura bronchiale e fibrillazione ventricolare che possono causare la morte (rispettivamente per asfissia e asistolia). L’esito letale può anche essere prodotto dal blocco funzionale dei centri cardiaco e respiratorio quando la corrente attraversa l’encefalo. Per quanto concerne gli effetti indotti dalla corrente elettrica continua sull’organismo, sono principalmente di tipo elettrochimico e biologico e risultano meno gravi di quelli prodotti dalla corrente alternata a parità di amperaggio e di durata del contatto. Oltre alle lesioni da acidi e da alcali in corrispondenza rispettivamente del polo positivo e di quello negativo (necrosi coagulativa da acidi e colliquativa da alcali), la corrente elettrica continua a livello cellulare determina polarizzazione della membrana plasmatica ed anche rottura di questa ed alterazioni dell’equilibrio elettrolitico intracellulare. In cardiologia, la corrente continua è adoperata per ristabilire un ritmo normale in un cuore fibrillante o per fare riprendere l’attività contrattile ad un cuore che si è arrestato (defibrillazione). La corrente faradica determina soprattutto un effetto biologico; quella a bassa frequenza viene adoperata in terapia per ottenere stimolazione dei muscoli e dei nervi, mentre quella a più elevata frequenza diventa responsabile di conseguenze simili a quelle determinate dalla corrente alternata. La folgorazione La folgorazione si verifica quando l’uomo è colpito da una potente scarica elettrica sia nel caso che abbia formato un corto circuito con un conduttore di una linea elettrica ad alta tensione, sia nel caso che sia stato colpito da un fulmine, cioè da una scarica elettrica ad altissima frequenza. L’intensità elettrica del fulmine è elevatissima, risultando compresa tra i 10 ed i 200 kiloampere. La morte, che interviene per fibrillazione cardiaca o per spasmo laringo-bronchiale, è la conseguenza più frequente della folgorazione, anche se non mancano i casi di sopravvivenza alla stessa. PATOLOGIE DA TRASFERIMENTO DI ENERGIA MECCANICA I traumi fisici sono definiti superficiali quando soltanto la cute risulta lesionata e profondi quando, invece, sono coinvolti organi sottostanti al rivestimento cutaneo. Gli effetti locali che conseguono ai traumi variano nella loro intensità a seconda della natura del corpo contundente, dell’energia dell’urto, dell’estensione della lesione e degli organi coinvolti; quando, però, il trauma è molto intenso, oltre ai danni localizzati si producono

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effetti generali (shock traumatico) che coinvolgono l’apparato cardiocircolatorio ed il SNC provocando ipotensione e perdita della coscienza. II trauma più lieve subito dal rivestimento cutaneo è l’abrasione o escoriazione, cioè la perdita dello strato più superficiale di un epitelio composto a cui non segue sanguinamento perché i vasi sanguigni, che decorrono nel connettivo, sono stati risparmiati; l’ecchimosi o contusione è provocata da una forza che agisce sul rivestimento cutaneo esercitando una compressione in grado di ledere la parete dei vasi del derma e del tessuto sottocutaneo, senza però determinare alcuna soluzione di continuo della cute: il sangue infiltra rapidamente i tessuti che assumono un colore nerobluastro (livido). I traumi che provocano una soluzione di continuo della cute e ledono i vasi del derma, producendo fuoriuscita di sangue sono definiti ferite. II sangue fuoriuscito dai vasi lesionati, che viene versato all’esterno, può determinare la comparsa di anemia e nei casi più gravi la morte, se l’emorragia non viene prontamente arrestata. All’arresto dell’emorragia, concorrono sia i meccanismi coagulativi che il fenomeno della contrazione della ferita. Il sangue riempie il fondo della ferita dove rapidamente coagula: il coagulo ed i detriti cellulari agiscono da stimoli infiammatori per cui in corrispondenza dei margini della lesione si instaura un processo flogistico acuto, nel corso del quale i fagociti invadono l’area occupata dal coagulo ed inglobano i componenti di questo (fibrina cellule ematiche e detriti cellulari). Durante questo intervento di pulizia, inizia la proliferazione sia dei fibroblasti, che gradualmente riempiono l’area occupata dal coagulo, che delle cellule endoteliali che daranno origine ad una nuova rete vascolare in sostituzione di quella distrutta. Infine, a conclusione del processo riparativo delle ferite cutanee, si ha la proliferazione delle cellule dell’epidermide che ricoprono il connettivo neoformato. L’intero processo che comporta la guarigione della ferita costituisce la cicatrizzazione. Durante il processo di guarigione delle ferite possono insorgere complicanze tra le quali:

- Infezioni, in quanto la ferita costituisce il punto d’ingresso per molti microorganismi; - Deiscenza, cioè rottura delle ferite in via di cicatrizzazione; - Formazione del cheloide, che dà origine ad una cicatrice esuberante e deturpante per formazione di

un eccesso di connettivo provocato da fattori di crescita attivi sui fibroblasti; - Le lesioni di continuo di un tratto dello scheletro (fratture).

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PATOLOGIE DA AGENTI CHIMICI Gli agenti chimici possono essere causa di danno per l’organismo sia quando vengono a contatto con la superficie cutanea o la attraversano (per una soluzione di continuo o per morso di animali o per puntura o per inoculazione), sia quando penetrano in esso attraverso una delle vie d’ingresso (apparati digerente e respiratorio). In ogni caso l’entità del danno dipende anche dalla risposta immunitaria dell’organismo, responsabile dell’innesco di fenomeni di ipersensibilità immediata o ritardata. Il danno può essere suddiviso in 2 tipi: diffuso e selettivo; il 1° causato da proprietà comuni a gruppi di agenti chimici, quali ad esempio gli acidi e le basi, il 2° indotto dalla capacità di alcuni agenti chimici, definiti veleni o tossici, di alterare specifiche molecole dell’organismo. Inoltre, il danno può essere acuto quando si manifesta immediatamente dopo la penetrazione nell’organismo dell’agente chimico, oppure cronico quando la penetrazione avviene lentamente. L’azione lesiva esercitata dagli agenti chimici sulle molecole dell’organismo può avvenire direttamente, per proprietà insite nella loro struttura molecolare, o indirettamente, per l’intervento di molecole derivate dalla trasformazione metabolica a cui essi vanno incontro nell’organismo, favorita da un insieme di sistemi enzimatici (non causano solo reazioni di attivazione della tossicità, ma anche di detossificazione). Sotto il termine di xenobiotici sono comprese le sostanze chimiche con struttura molecolare diversa da quelle che costituiscono l’organismo: quando si accumulano, costituiscono un grave fattore di rischio per la salute, per cui vengono collettivamente indicate come inquinanti. DANNO DIFFUSO DA AGENTI CHIMICI Gli agenti chimici sono in grado di provocare variazioni del pH, solubilizzazione di costituenti cellulari e denaturazione delle proteine. Le cellule sono molto sensibili alle variazioni del pH. Se queste sono di lieve entità, i sistemi tampone entrano in azione e riportano il pH ai valori fisiologici. Se ciò non avviene, si instaurano, in caso di abbassamento del pH, la condizione di acidosi e, in caso di innalzamento, la condizione di alcalosi. Sia l’abbassamento che l’innalzamento del pH del liquido intracellulare sono seguiti da conseguenze molto gravi, che possono determinare la morte cellulare per necrosi. Gli acidi forti diluendosi coi liquidi dell’organismo producono calore e determinano nella cute e nelle mucose ustioni anche gravi che, a causa della disidratazione dei tessuti indotta dalla evaporazione dell’acqua, formano escare secche (placche di materiale necrotico). Anche le basi forti a contatto con i tessuti superficiali sviluppano calore e provocano ustioni con la differenza che, a causa del loro potere idrolitico, inducono la macerazione dei tessuti. Si formano così escare molli che, come quelle secche, formano cicatrici retratte e deturpanti. Il danno varia a seconda che si tratti di solventi di lipidi o di solventi di sostanze e composti idrofilici. I solventi dei lipidi danneggiano le cellule in quanto estraggono i lipidi e, in conseguenza della loro perdita, le membrane vanno incontro ad una completa disorganizzazione della loro struttura, che provoca lisi cellulare. La lisi osmotica è indotta dalla permanenza delle cellule in soluzioni acquose ipotoniche: le cellule richiamano acqua rigonfiandosi fino al punto consentito dall’elasticità della loro membrana per poi scoppiare. Se immerse in soluzioni ipertoniche, le cellule si raggrinziscono per fuoriuscita di acqua del compartimento intracellulare, richiamata dall’eccesso di ioni presente nella soluzione in cui sono immerse. La denaturazione delle proteine, oltre che dagli acidi e dalle basi, è indotta anche da sostanze organiche, sali e ioni metallici. DANNO SELETTIVO DA AGENTI CHIMICI I veleni o tossici sono capaci di indurre un danno selettivo nelle cellule dell’organismo. La selettività del danno consiste nella capacità del veleno di interagire, direttamente o tramite un prodotto della sua trasformazione metabolica, con un determinato costituente alterandolo nella struttura e nella funzione. La penetrazione nell’organismo avviene attraverso una delle vie di ingresso (per ingestione, inalazione, iniezione cutanea o endovenosa). L’azione tossica è legata alla dose, con la conseguenza che gli effetti sono tanto più gravi quanto più elevata è la dose; sotto questo aspetto anche i farmaci possono comportarsi da veleni. La dose minima letale è la quantità di veleno, riferita ad unità di peso corporeo (generalmente kg), in grado di determinare la morte in un determinato tempo.

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L’avvelenamento, cioè l’effetto che subentra nell’organismo in seguito all’assunzione di un veleno, può essere acuto o cronico: il primo consegue all’assunzione di un veleno in dose tale da produrre immediatamente i suoi effetti, il secondo consegue invece all’esposizione protratta al veleno in piccole dosi, che possono risultare anche prive di effetti immediati. Gli effetti determinati da un avvelenamento possono essere locali o sistemici e dipendono dal tipo di danno prodotto: generalmente interessano uno o più apparati dell’organismo. Quasi tutti i veleni sono esogeni, cioè estranei all’organismo il quale, però, è in grado esso stesso di produrre composti tossici (veleni endogeni), che vengono neutralizzati, a meno che non siano prodotti in eccesso, determinando autointossicazioni. Molti veleni non sono attivi direttamente ma indirettamente perché l’organismo è in grado di metabolizzarli dando origine a derivati tossici o di formare composti tossici coniugando un composto esogeno con uno endogeno, processo noto col termine di sintesi letale. L’organismo possiede meccanismi capaci di allontanare il veleno in esso penetrato e meccanismi capaci di detossificare diversi composti tossici (attività detossificante) con processi di sintesi, che hanno un risultato opposto a quelli determinanti la sintesi letale e che, pertanto, vengono definite sintesi protettive. L’azione tossica espletata da alcuni veleni può essere ridotta o anche eliminata con la somministrazione di composti definiti antidoti. REAZIONI ENZIMATICHE DEGLI XENOBIOTICI Le reazioni enzimatiche che hanno per substrato gli xenobiotici sono di 3 tipi diversi e sono definite reazioni di fase I, reazioni di fase II e reazioni di fase III. Reazioni di fase I Le reazioni di fase I, o di funzionalizzazione, sono rappresentate da processi di ossidazione, di riduzione e di idrolisi delle molecole xenobiotiche lipofile, che diventano idrosolubili in seguito all’introduzione o all’esposizione in esse di gruppi idrofilici, il che le rende allontanabili attraverso i sistemi escretori dell’organismo. I prodotti derivati dalle reazioni di fase I sono escreti come tali o sono sottoposti a reazioni di fase II, che incrementano ulteriormente la loro idrosolubilità. Le reazioni di ossidazione e di riduzione sono catalizzate dai sistemi monoossigenasi dipendenti dal citocromo P450 e monossigenasi flaviniche. Le reazioni di riduzione sono catalizzate anche dalle alcool e aldeidi deidrogenasi, dalle catalasi, dalle superossidodismutasi e dalle chetoreduttasi. Le reazioni di idrolisi sono catalizzate anch’esse da numerosi enzimi sia microsomiali che plasmatici, quali quelli che idrolizzano esteri ed amidi. Un cenno particolare meritano le epossidoidrolasi, localizzate in maggiore quantità nel REL degli epatociti, responsabili della trasformazione di epossidi (potenti cancerogeni) in diidrodioli meno attivi sotto l’aspetto della capacità di formare addotti col DNA. Sistema delle monoossigenasi dipendenti dal citocromo P450 É costituito da una superfamiglia di cromoproteine enzimatiche contenenti il gruppo eme in cui il ferro è di solito allo stato ferrico (Fe3+). Quando il ferro del gruppo prostetico è ridotto allo stato ferroso (Fe2+), il citocromo P450 assume la proprietà di combinarsi con I’02 e con il CO2 (si chiama P450 perché assorbe la luce alla lunghezza d'onda compresa tra 447 e 452 nm). Gli enzimi di questo sistema sono presenti come proteine transmembrana, soprattutto nella membrana del REL e nella membrana mitocondriale interna degli epatociti. Sistema delle monoosigenasi flaviniche FAD-dipendenti (FMO) È situato prevalentemente nel REL degli epatociti, ma anche in quello degli pneumociti e delle cellule renali ed è costituito da 5 enzimi che, come quelli del sistema dipendente dal citocromo P450, richiedono NADPH e 02, per cui i 2 sistemi condividono molti substrati. In ciascun enzima sono presenti 2 regioni, delle quali una lega il FAD e l'altra il NADPH. Preferenzialmente gli enzimi del sistema delle monossigenasi flaviniche FAD-dipendenti catalizzano l'ossidazione dì substrati azotati e solforati. Reazioni di fase II Le reazioni di fase II, o di coniugazione, coniugano una molecola endogena allo xenobiotico o ad un suo derivato, formatosi in una reazione di fase I, o ad una molecola liposolubile dell’organismo, formando un complesso dotato di notevole idrosolubilità e, quindi, facilmente allontanabile con le escrezioni. Le molecole

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endogene più frequentemente utilizzate nelle reazioni di fase II sono l’acido glicuronico, il glutatione, diversi aminoacidi, gruppi metilici ed acetilici. Reazioni di fase III Queste reazioni, non del tutto identificate, si svolgono prevalentemente nel citosol delle cellule della mucosa intestinale. Esse possono essere schematicamente suddivise in 2 gruppi:

- Reazioni di deconiugazione che provvedono a riformare composti tossici da metaboliti di composti endogeni ed esogeni precedentemente detossificati nel fegato da reazioni di fase I e di fase II;

- Le reazioni del secondo gruppo effettuano il trasporto dal compartimento intracellulare a quello extracellulare di xenobiotici, soprattutto farmaci, ed anche di molecole endogene tossiche o loro derivati formatisi in reazioni di I o di II fase. L’estrusione di tali molecole è operata da proteine transmembrana, che agiscono come pompe, il cui funzionamento richiede consumo dell’energia fornita dall’idrolisi di ATP: si tratta dei cosiddetti trasportatori ABC (ATP Binding Cassette), che sono molecole transmembrana fomite di 2 domini citoplasmatici per il legame con l’ATP e di 2 domini transmembrana, ognuno fornito di 6 α-eliche, che delimitano un canale attraverso il quale avviene l’estrusione della molecola da eliminare. L’espressione in eccesso di tali trasportatori nelle cellule di molti tumori maligni diventa responsabile della resistenza a molti chemioterapici a causa della facilità con cui le cellule espellono dal loro interno i farmaci.

RADICALI LIBERI I radicali liberi sono specie chimiche contenenti un elettrone spaiato, cioè non accoppiato ad un altro in un orbitale elettronico e capaci di esistenza autonoma. La loro marcata instabilità comporta una vita estremamente corta, dell’ordine di millisecondi, a causa della facilità con cui avviene il loro decadimento, e un’elevata reattività, causata dalla necessità di portare il loro strato esterno ad una configurazione stabile col riacquisto di uno elettrone o più elettroni. L’equilibrio viene conquistato dai radicali liberi col furto di un elettrone a spese di atomi o di molecole integri (ad esempio, acidi nucleici, carboidrati, lipidi, proteine), con cui vengono a contatto: ciò trasforma i radicali liberi in atomi o molecole integri e gli atomi o le molecole privi dell’elettrone in radicali liberi. Quando nell’organismo la produzione di radicali liberi supera un certo limite, viene innescata una serie di reazioni concatenate che procurano un danno ossidativo alle molecole dell’organismo in quanto la perdita di un elettrone costituisce un’ossidazione che, se massiccia, provoca nelle molecole modificazioni irreversibili (non tutti i radicali liberi sono ossidanti). Nella formazione dei radicali liberi alcuni metalli, quali il ferro ed il rame, agiscono da catalizzatori, per cui sono definiti metalli di transizione: si tratta di elementi con orbitali interni incompleti di elettroni. In condizioni fisiologiche tutte le cellule dell’organismo producono nel corso di numerose reazioni metaboliche una piccola quantità di radicali liberi ai quali non è stata imputata la comparsa di effetti patologici sia perché la quasi totalità di essi decade rapidissimamente, sia perché i superstiti diventano preda dei meccanismi difensivi (enzimi ed antiossidanti) a diffusione ubiquitaria nell’organismo (a volte una lieve ossidazione favorisce la fosforilazione di molecole recettoriali ed enzimatiche, che si ripercuote positivamente nelle funzioni cellulari, quindi i radicali liberi possono avere effetti positivi). La formazione di radicali liberi subisce un aumento sotto l’influenza di fattori esogeni, quali ad esempio l’inquinamento atmosferico, il fumo, l’esposizione a radiazioni ionizzanti e/o fattori endogeni (stress, malattie, intossicazioni ed esagerata attività fisica). FORMAZIONE DEI RADICALI LIBERI La produzione fisiologica di radicali liberi avviene nel corso di vari processi biologici, tra i quali la fosforilazione ossidativa, che si verifica durante la respirazione cellulare, nel corso della quale si generano piccole quantità di derivati radicalici dell’02 per il fatto che una piccolissima quota di elettroni passa attraverso la catena di trasporto mitocondriale e riesce a sfuggire ed a reagire con l’ossigeno molecolare, la cui completa riduzione ad acqua richiede 4 elettroni (02 + 4e- + 4H+ → 2H20). Se nella catena respiratoria la riduzione della molecola 02 è incompleta, si formano varie specie reattive dell’02, i ROS. Anche durante la cosiddetta esplosione respiratoria che si verifica nella fagocitosi dei microrganismi, l’attivazione del complesso enzimatico NADPH ossidasi porta, in presenza di ossigeno, alla formazione di ROS.

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I radicali liberi si formano anche nel corso di reazioni catalizzate dalla ossido nitrico sintetasi, che generano ossido nitrico, dal quale derivano le specie reattive dell’azoto, gli RNS. Un’eccessiva produzione di radicali liberi è indotta dall’esposizione dell’organismo agli xenobiotici, dalla presenza di un processo infiammatorio nel corso del quale la NADPH ossidasi esalta la produzione di specie reattive dell’02, nel corso della riperfusione di organi in cui si è verificata una condizione ischemica e soprattutto dall’esposizione alle radiazioni. Le radiazioni eccitanti, fornite di energia non superiore a 10 eV, inducono negli atomi da esse colpiti lo strappo di un elettrone da un orbitale interno ad uno più esterno, fornito di maggiore energia (fenomeno dell’eccitazione dell’atomo); questo assorbimento induce anche la formazione di radicali liberi e di forme reattive dell’02. Più potenti, perché fomite di energia superiore a 10 eV, sono le radiazioni ionizzanti, così definite perché inducono negli atomi con cui collidono (azione diretta) il fenomeno della ionizzazione, cioè l’espulsione dall’orbitale più esterno di un elettrone, che una volta libero diventa ione negativo (e-), mentre la parte residua dell’atomo (o della molecola) diventa ione positivo. La ionizzazione coinvolge tutte le molecole delle cellule ed in particolare l’acqua che è il bersaglio più facilmente raggiungibile dall’energia radiante. La ionizzazione dell’acqua diventa responsabile dell’azione indiretta delle radiazioni ionizzanti sulle molecole strutturali delle cellule perché il danno che queste subiscono consegue alla loro collisione con gli ioni o con i radicali liberi. SPECIE REATTIVE DERIVATE DALL'OSSIGENO (ROS O ROI) I ROS che assumono maggiore importanza sono i seguenti:

- l’anione superossido (o radicale superossido o superossido anione); - il perossido di idrogeno (o acqua ossigenata); - il radicale libero ossidrile.

Essi si formano durante la riduzione tetravalente dell’O2 ad acqua quando questo processo risulta incompleto. I ROS si possono formare anche nel corso delle reazioni redox, nelle quali il ferro funziona da catalizzatore. L’ossigeno singoletto (102) è un’altra forma reattiva dell’O2, che si comporta da forte ossidante pur non essendo un radicale in quanto non ha elettroni spaiati: si forma quando la molecola di O2 assorbe energia sufficiente ad indurre un’inversione di spin di uno degli elettroni spaiati, associata ad uno spostamento in un diverso orbitale; si forma anche per dismutazione spontanea del radicale superossido o per interazione di quest’ultimo col radicale idrossile o con l’acqua ossigenata. SPECIE REATTIVE DERIVATE DALL'AZOTO (RNS) Le principali specie reattive derivate dall’azoto (RNS) sono l’ossido nitrico o monossido di azoto ed alcuni suoi derivati tra cui il perossinitrito. L’ossido nitrico si forma dall’ossidazione dell’arginina operata dalla ossido nitrico-sintetasi (NOS) di cui si conoscono 3 isoforme enzimatiche delle quali 2, la NOS di tipo endoteliale e la NOS di tipo neuronale sono espresse costitutivamente, mentre la NOS di tipo infiammatoria è indotta dalle citochine proflogistiche ed è espressa dalle cellule endoteliali e dai macrofagi. L’ossido nitrico ha un’emivita molto breve, è allo stato gassoso e diffonde con molta rapidità attraverso le membrane. Esso agisce sia come neurotrasmettitore che come secondo messaggero perché attiva la guanilato-ciclasi con produzione di cGMP, che agisce da vasodilatatore facendo rilassare la muscolatura liscia della parete vasale. Inoltre, l’ossido nitrico inibisce l’adesione e l’aggregazione delle piastrine ed interviene in molte fasi della reazione infiammatoria. La sua funzione radicalica consiste, come quella dei ROS, nel produrre un danno ossidativo, che viene definito nitrosativo, ad una serie di molecole substrato. L’organismo si difende dalla nitrosazione con gli stessi meccanismi antiossidanti attivi sui ROS. MECCANISMI DI DIFESA CONTRO I RADICALI LIBERI La difesa antiossidante a disposizione dell’organismo è enzimatica e non enzimatica. Tra i composti enzimatici si ricordano la famiglia delle superossidodismutasi (SOD), costituita da una forma citosolica, una mitocondriale e una extracellulare. La reazione catalizzata dalle SOD è detta di dismutazione perché consiste nell’ossidazione e nella contemporanea riduzione del substrato, rappresentato da 2 radicali

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superossido anione, di cui uno diventa ossigeno molecolare perché viene privato di un elettrone, che viene trasferito al secondo, il quale successivamente lega 2 idrogenioni diventando perossido di idrogeno. In tal modo viene bloccato il processo di formazione dei ROS. Il perossido di idrogeno, infatti, è il substrato di altri enzimi: catalasi, glutatione perossidasi e perossidasi. La catalasi (ossidoreduttasi del perossido di idrogeno), presente specialmente nei perossisomi, catalizza la degradazione del perossido di idrogeno secondo una reazione che comporta la formazione di acqua e di ossigeno molecolare. La glutatione perossidasi è un enzima attivo su numerosi substrati che utilizzano il glutatione ridotto come donatore di elettroni, per cui la loro attività dipende dalla disponibilità di questo tripeptide contenente gruppi sulfidrilici, formato da acido glutammico, glicina e cisteina. Nella reazione di perossidazione il gruppo tiolico SH viene ossidato a gruppo disolfuro che può, a reazione avvenuta, essere ritrasformato a gruppo SH per azione dell’enzima glutatione reduttasi. La perossidasi è rappresentata da un gruppo di emoproteine, presenti nei globuli bianchi, che catalizzano la demolizione del perossido di idrogeno soltanto in presenza di un substrato riducente, come per esempio il nitrito e il citocromo c. Tra i composti non enzimatici, definiti antiossidanti, di origine sia endogena che esogena, si ricordano l’acido ascorbico o vitamina C, i tocoferoli, la vitamina A ed i suoi precursori (carotenoidi), ed il glutatione. Gli antiossidanti riescono a impedire, o almeno a ritardare, l’ossidazione da parte dei radicali liberi. Gli antiossidanti idrofili esercitano la loro azione protettiva nel citosol, mentre quelli idrofobici agiscono in corrispondenza delle membrane cellulari. Gli antiossidanti possono essere distinti in vari tipi in riferimento al loro meccanismo d’azione:

- Gli antiossidanti “chain breakers” sono distinti in 2 categorie perché inattivano i radicali liberi col trasferimento ad essi di un atomo di idrogeno (HAT) o di un elettrone (SET) in modo da stabilizzare il loro equilibrio chimico rompendo la catena di ossidazioni che è alla base della propagazione dei radicali liberi nell’organismo. Difatti, essi si trasformano in radicali più stabili dei substrati e quindi meno reattivi. Questo è il caso della vitamina E che è il più potente antiossidante liposolubile. Essa reagisce sia con i ROS (azione diretta) sia con le specie radicaliche derivate dall’ossidazione dei lipidi e dei fosfolipidi da esse propagata (azione indiretta);

- Gli antiossidanti ‘free radicals scavengers” (spazzini di radicali liberi), si distinguono dai precedenti perché dotati di una spiccata affinità per i radicali liberi di diretta formazione nell’organismo competendo con i lipidi ed i fosfolipidi nelle reazioni di ossidazione che li trasformano in radicali molto stabili non reattivi. Tra di essi si ricordano i tocoferoli e i composti fenolici.

- Gli antiossidanti “metal scavenger” agiscono da agenti chelanti sequestrando i metalli di transizione e, quindi, riducendo l’energia di attivazione nella fase iniziale della perossidazione lipidica. Il più potente è l’EDTA (acido etilendiaminotetracetico).

DANNI MOLECOLARI PRODOTTI DAI RADICALI LIBERI Tutte le molecole costitutive delle cellule possono essere danneggiate direttamente dai radicali liberi ed indirettamente dai derivati che si producono nella catena delle reazioni radicaliche, ma il danno prevalente è subito dai fosfolipidi e dagli acidi grassi polinsaturi presenti nella membrana plasmatica e nelle membrane degli organuli cellulari. Il danno perossidativo si realizza attraverso 3 fasi successive:

- Fase di iniziazione, che consiste nell’attacco da parte dei radicali liberi iniziatori, che provoca in questi il distacco di un atomo di idrogeno da un gruppo metilenico adiacente ad un doppio legame, determinando la formazione del radicale dell’acido grasso, nel quale il carbonio del suddetto gruppo metilenico ha un elettrone spaiato;

- Fase di propagazione, in cui il radicale dell’acido grasso subisce un riarrangiamento molecolare con formazione di una struttura a doppi legami coniugati che, combinandosi con l’ossigeno, forma un radicale perossidico dell’acido grasso, il quale reagisce con un acido grasso adiacente, distaccando da esso un atomo di idrogeno. La trasformazione in radicale dell’acido grasso bersagliato si associa alla trasformazione del perossido dell’acido grasso bersagliante in idroperossido. Si verifica così un accumulo di idroperossidi, mentre i radicali perossidici innescano una reazione a catena che comporta la propagazione della reazione alle molecole lipidiche adiacenti;

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- Fase di conclusione, che coincide con la completa destabilizzazione delle strutture lipidiche e con la degradazione degli idroperossidi in molecole di peso molecolare inferiore, soprattutto in aldeidi molto reattive, che contribuiscono ad amplificare il danno strutturale delle membrane.

Le alterazioni subite dalla membrana plasmatica determinano la perdita delle funzioni da essa svolte che può culminare nella morte cellulare, preceduta dall’influsso dì ioni calcio e sodio e dalla fuoriuscita di ioni potassio. Il danno della membrana mitocondriale provoca il rigonfiamento dei mitocondri, disaccoppiamento delle fosforilazioni dalle ossidazioni; il danno della membrana lisosomiale produce la fuoriuscita degli enzimi. I carboidrati, i polisaccaridi e le proteine non sfuggono all’azione dei radicali liberi e vengono frammentati. Negli acidi nucleici i radicali liberi possono provocare la frammentazione delle catene polinucleotidiche, l’ossidazione, l’alchilazione, l’idrolisi, l’appaiamento errato (mismatch), tra le quali la più frequente è l’idrossilazione della guanina in posizione C8. Nel DNA i danni che coinvolgono una sola elica possono essere generalmente riparati, mentre quelli che compromettono la doppia elica non lo sono. Si tratta di lesioni gravi che, se non vengono riparate e se non causano morte cellulare, si trasmettono alla progenie cellulare stabilizzandosi e dando luogo a mutazioni che, se presenti nelle cellule germinali, possono essere trasmesse alla prole mentre, se presenti nelle cellule somatiche, possono culminare in un processo neoplastico. MALATTIE CORRELATE ALLA FORMAZIONE DI RADICALI LIBERI Diverse patologie sono correlate all’eccessiva formazione di radicali liberi e/o alla loro ridotta eliminazione da parte dei meccanismi scavenger dell’organismo.

Invecchiamento L’invecchiamento rappresenta l’evoluzione fisiologica del percorso vitale e non una malattia. La correlazione tra l’accumulo di danni molecolari progressivamente indotti dai radicali liberi nelle cellule e l’accelerazione nella comparsa e nel mantenimento delle alterazioni riscontrabili nelle stesse durante la senilità spiega i fenomeni di usura a cui vanno incontro le cellule dell’organismo nell’invecchiamento.

Tumori Il ruolo dei radicali liberi nella cancerogenesi è esercitato dalla loro capacità di indurre mutazioni nel DNA, il cui accumulo nel genoma rappresenta il fattore eziologico essenziale dì tutte le malattie neoplastiche. A ciò si aggiunge che nelle reazioni di biotrasformazione di molti cancerogeni chimici si ha la produzione di radicali liberi. Da aggiungere che l’azione lesiva dei radicali liberi sul DNA viene sfruttata anche negli approcci terapeutici, effettuati sia con chemioterapici che con energia radiante.

Aterosclerosi L’ossidazione delle lipoproteine a bassa densità (LDL), e precisamente della loro componente lipidica, provocata dai radicali liberi (in particolare dai ROS), l’iperlipidemia e l’infiammazione, nel corso della quale si incrementa la produzione di radicali liberi, rappresentano i fattori eziopatogenetici essenziali nella formazione della placca aterosclerotica. I diretti responsabili delle alterazioni molecolari che inducono la trasformazione delle LDL nelle forme ossidate sono le aldeidi, derivate dagli idroperossidi che si formano nel corso della perossidazione degli acidi grassi polinsaturi dei fosfolipidi da esse trasportati, che reagiscono coi gruppi amminici dei residui lisinici presenti nella catena proteica dell’apolipoproteina.

Malattie neurodegenerative II collegamento delle malattie neurodegenerative, che insorgono nell’età adulta e avanzata, con l’azione lesiva esercitata dai radicali liberi si basa, oltre che sul notevole metabolismo aerobio dei neuroni, anche sulla suscettibilità di questi al danno ossidativo, esasperata dalla carenza nel SNC di meccanismi antiossidanti e dalla abbondanza di acidi grassi polinsaturi, facilmente perossidabili. La correlazione più immediata riguarda la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), una malattia paralizzante, caratterizzata da progressiva morte dei motoneuroni, e precisamente la sua forma familiare, che è legata a mutazioni del gene che codifica per la SOD1. Questo enzima nella forma mutata assume al posto della sua attività antiossidante una attività proossidante, che incrementa la presenza dei ROS, invece di impedirne la rimozione. Nel morbo di Alzheimer o demenza senile, malattia caratterizzata da perdita della memoria recente e da un progressivo deterioramento di tutte le funzioni cognitive e comportamentali ed istologicamente dalla presenza di depositi di β-amiloide nei neuroni di alcune regioni cerebrali, la correlazione col danno da radicali liberi è controversa: essa si basa sul reperto istopatologico di danno ossidativo nei neuroni delle regioni

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alterate dalla presenza di placche amiloidotiche e sulla contemporanea presenza di focolai infiammatori nei quali si verifica un’iperproduzione di radicali liberi. Nel morbo di Parkinson, che si manifesta con fenomeni progressivamente ingravescenti di discinesia (alterazione dei movimenti volontari e involontari), causati dalla progressiva distruzione dei neuroni dopaminergici della substantia nigra, è stato riscontrato un aumento dell’attività perossidasica lipidica ed un incremento ritenuto reattivo della SOD (superossidodismutasi). Questa alterazione è stata collegata al meccanismo patogenetico della malattia per il fatto che nei suddetti neuroni la produzione di radicali liberi si esalta nel corso del metabolismo della dopamina, la cui autossidazione produce un eccesso di ROS.

Diabete mellito Nei pazienti affetti da diabete mellito l’elevato livello di glucosio nel sangue è risultato frequentemente associato ad una ridotta attività antiossidante e ad una elevata produzione di ROS. Ciò si verifica perché il glucosio in elevata concentrazione può autossidarsi inducendo la produzione di ROS che diventano responsabili di fenomeni ossidativi dei costituenti di molte cellule ed in particolare di quelle nervose e di quelle endoteliali, da cui la comparsa della neuropatia e della vasculopatia diabetica. Le alterazioni perossidative delle molecole cellulari costituiscono, nel loro insieme, uno stimolo che richiama le cellule protagoniste del processo flogistico, in particolare monociti/macrofagi, che con la loro produzione di ROS amplificano il danno.

Fibrosi La fibrosi non è una malattia, bensì un processo proliferativo abnorme del connettivo che si addiziona a quello riparativo negli organi colpiti da processi infiammatori cronici di lunga durata, quali ad esempio le epatiti, l’artrite reumatoide, le pneumoconiosi (provocata dall’inalazione di polveri), inducendo un aumento considerevole dello stroma connettivale a discapito di quello parenchimale, le cui cellule vengono danneggiate fino alla necrosi e progressivamente sostituite da connettivo. La fibrosi è causata dalla persistenza degli stimoli che innescano il processo riparativo e/o dalla presenza di reazioni autoimmunitarie ed è essenzialmente sostenuta dai segnali proliferativi sui fibroblasti esercitati da fattori di crescita (TGF-β, FGF, PDGF) rilasciati dalle cellule protagoniste del processo flogistico. In tutti gli organi in cui si è sviluppata fibrosi, è stata riscontrata un’iperproduzione di radicali liberi, associata a fenomeni amplificatori di perossidazione lipidica, il cui livello è frequentemente correlabile all’intensità del processo. Inoltre l’eccesso di radicali liberi rappresenta di per sé, tramite l’attivazione dei fattori di trascrizione NF-κβ e AP-1, uno stimolo alla sintesi di citochine infiammatorie e di fattori di crescita stimolanti la proliferazione dei fibroblasti. Lesioni da riperfusione dopo ischemia L’iperproduzione di radicali liberi nella genesi del danno cellulare che subentra in conseguenza della riattivazione della circolazione del sangue in un organo affetto da ischemia di una certa durata, ma non ancora culminata in infarto, assume un ruolo patogenetico di primaria importanza.

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IMMUNITÀ SPECIFICA (O ACQUISITA) L'immunità cellulo-mediata è una risposta da parte del sistema immunitario che non coinvolge gli anticorpi. Essa protegge il corpo:

- mediante l'attivazione di linfociti T citotossici antigene-specifici, che sono in grado di danneggiare le cellule che presentano sulla propria superficie epitopi di antigeni estranei, come ad esempio cellule infettate da virus o da batteri intracellulari e cellule tumorali che presentano antigeni tumorali;

- mediante l'attivazione di macrofagi e cellule NK, attivazione che consente loro di distruggere agenti patogeni intracellulari;

- stimolando le cellule a secernere tutta una serie di citochine, che influenzano la funzionalità delle altre cellule coinvolte nelle risposte immunitarie specifiche e naturali.

L'immunità cellulo-mediata è rivolta soprattutto alla rimozione di microbi che sopravvivono alla fagocitosi ed ai microbi che infettano cellule non fagocitiche. L'immunità umorale costituisce parte della risposta immunitaria adattativa ed è mediata dalla secrezione di anticorpi prodotti nelle cellule dei linfociti B differenziatisi in plasmacellule. Gli anticorpi prodotti si legano alla superficie di antigeni come virus, batteri e sostanze non proprie dell'organismo. L'immunità umorale si riferisce alla produzione di anticorpi, ed a tutti i processi che la accompagnano: attivazione dei linfociti Th2 e produzione delle citochine, formazione dei centri germinali e mutamento dell'istotipo, maturazione e generazione delle cellule della memoria. Si riferisce anche alla funzione effettrice degli anticorpi, che include la neutralizzazione delle tossine e dei germi patogeni, l'attivazione del sistema del complemento, la produzione di opsonine per la promozione della fagocitosi e l'eliminazione degli elementi patogeni. LE IMMUNODEFICIENZE Le immunodeficienze sono causate dalla perdita della capacità di rispondere agli stimoli antigenici e/o ai microorganismi per un difetto delle componenti del sistema immunitario; si classificano in primarie (congenite) e secondarie (acquisite). Le primarie sono causate da mutazioni a carico di geni che controllano il sistema immunitario e si manifestano clinicamente con infezioni ricorrenti nei bambini, anche se anomalie più lievi possono evidenziarsi in età più avanzata. Le secondarie sono la conseguenza di altre malattie, o insorgono per effetto di fattori ambientali (malnutrizione) o di particolari terapie farmacologiche. La maggior parte delle immunodeficienze si accompagna ad un’aumentata suscettibilità alle infezioni e ad un’aumentata incidenza di neoplasie e di malattie autoimmuni. DEFICIT DELL'IMMUNITÀ UMORALE

Agammaglobulinemia congenita legata al sesso o agammaglobulinemia di Bruton L’agammaglobulinemia di Bruton è caratterizzata dalla totale assenza di immunoglobuline (Ig) nel siero. È causata dalla mutazione del gene BTK localizzato nel cromosoma X (Xq), che codifica per una tirosinchinasi, detta Btk (tirosinchinasi di Bruton), membro della famiglia delle Tec chinasi. Questa proteina è espressa nei neutrofili e nei linfociti B, ma in questi pazienti il deficit si ripercuote solo nei linfociti B, la cui maturazione si arresta allo stadio di linfocita pre-B nel midollo osseo (alcuni pazienti presentano alcuni linfociti B maturi suggerendo che i segnali trasmessi da queste chinasi non sono necessari in maniera assoluta). È dunque probabile che Btk sia necessaria per la trasduzione del segnale dal recettore dei linfociti pre-B al nucleo, che è determinante per la loro maturazione. La malattia colpisce solo gli individui di sesso maschile, mentre le donne, che sono portatrici sane, presentano un fenotipo normale con livelli anticorpali inalterati. I soggetti affetti da agammaglobulinemia di Bruton sono asintomatici sino all’età di 6 mesi, per la presenza di Ig di origine materna; successivamente, iniziano a presentare un’elevata suscettibilità alle infezioni. La mancata produzione di anticorpi determina l’assenza di immunità di lunga durata per cui i pazienti vanno incontro a frequenti ricadute della stessa malattia infettiva. Le caratteristiche della forma classica di questa malattia sono la normale presenza di linfociti pre-B nel midollo osseo, l’assenza di linfociti B in circolo e negli organi linfoidi secondari, la normale presenza di linfociti T (e quindi di immunità cellulo-mediata), linfonodi e tonsille atrofici con assenza di follicoli primari e secondari.

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Ipogammaglobulinemia transitoria dell'infanzia L’Ipogammaglobulinemia transitoria dell'infanzia è una malattia caratterizzata da bassi livelli di IgG, con normali o ridotti livelli di IgA ed IgM, dovuta ad un ritardato sviluppo dei linfociti B, per cui la fisiologica ipogammaglobulinemia che accompagna i primi mesi di vita si presenta accentuata. Nei due terzi degli individui affetti si determina entro i 2 anni di vita la completa normalizzazione dei livelli di Ig (prima le IgM, poi le IgG e le IgA).

Immunodeficienza variabile comune L’Immunodeficienza Variabile Comune (IVC) è un gruppo eterogeneo di immunodeficit, sia in forma congenita che acquisita, che possono coinvolgere tutte le classi di Ig o soltanto le IgG e le IgA. Le cause non sono ancora note: probabilmente alcune forme sono da attribuire a difetti genetici che comprendono mutazioni a carico di geni che codificano molecole coinvolte nella sopravvivenza (recettore di BAFF e TACI) ed attivazione (CD19 e CD81) dei linfociti B, e nella cooperazione T-B (ICOS). Nel sangue e nei tessuti linfatici i linfociti B sono in numero normale, tuttavia essi non sono in grado di differenziarsi in plasmacellule e ciò comporta un’alterata suscettibilità alle infezioni. In seguito al blocco della differenziazione dei linfociti B, questi si accumulano nei tessuti linfoidi con conseguente splenomegalia e linfadenomegalia e, talora, con iperplasia del sistema linfatico intestinale. I pazienti affetti hanno un rischio maggiore di sviluppare malattie autoimmuni e neoplasie.

Deficit selettivo delle sottoclassi delle IgG Il deficit selettivo delle sottoclassi di IgG determina un’aumentata suscettibilità alle infezioni. La causa è sconosciuta, benché evidenze sperimentali suggeriscano un’alterata differenziazione dei linfociti B o dello switch (scambio) isotipico. I pazienti vanno incontro ad infezioni polmonari recidivanti.

Deficit selettivo di IgA Il deficit selettivo di IgA è l’immunodeficienza anticorpale più comune in Europa. È caratterizzato da livelli di IgA secretorie e sieriche estremamente bassi: la patogenesi consiste in un blocco della differenziazione terminale dei linfociti B che esprimono IgA di membrana verso plasmacellule IgA-secernenti, dovuto probabilmente ad un difetto intrinseco dei linfociti B o ad un’alterata cooperazione fra linfociti T e B. Il deficit può essere congenito o acquisito in seguito all’azione di determinati farmaci o ad infezioni avvenute durante la vita uterina (ad esempio, virus della rosolia, toxoplasma o citomegalovirus). La maggior parte dei pazienti è asintomatica; tuttavia, alcuni presentano un’elevata incidenza di malattie allergiche ed una maggiore suscettibilità a sviluppare malattie autoimmuni.

Deficit dello switch isotipico (Sindrome da iper IgM) I deficit dello switch isotipico, noti come sindrome da iper IgM, sono caratterizzati da una normale maturazione dei linfociti B e T, elevati livelli sierici di IgM e ridotta concentrazione sierica di IgG ed IgA. I pazienti affetti risultano suscettibili ad infezioni batteriche. La patogenesi è riconducibile a difetti della cooperazione T-B o dello switch isotipico. La forma più comune è la sindrome da iper IgM legata al cromosoma X, causata da mutazioni del gene che codifica per CD154, espresso sui linfociti T attivati, che lega CD40 espresso sui linfociti B: questo legame innesca sia la proliferazione dei linfociti B che lo switch isotipico e la formazione dei centri germinativi. In presenza di un deficit di CD154, pertanto, non può avvenire il legame tra linfociti T e B e quindi lo switch isotipico (lo switch isotipico avviene quando le cellule B native, stimolate da anticorpi, producono prima IgM e poi, se l’antigene è una proteina, IgG, IgA ed IgE). I pazienti affetti presentano anche difetti dell’immunità cellulo-mediata dovuti all’incapacità dei linfociti T di attivare i macrofagi infettati attraverso il legame tra CD154 e CD40 espresso su queste cellule; la mancata attivazione dei macrofagi causa anche una ridotta produzione di GM-CSF da parte di questi ultimi con conseguente neutropenia. Una sindrome simile a quella descritta è causata da mutazioni a livello di altri 2 geni: il primo codifica per CD40, il secondo codifica per l’enzima AID (attivazione indotta della deaminasi), fondamentale per lo switch isotipico. Queste mutazioni sono trasmesse con modalità autosomica recessiva. La sindrome da iper IgM è stata riscontrata anche in pazienti con displasia ipoidrotica ectodermica, caratterizzata da immunodeficienza, assenza di ghiandole sudoripare ed anomalie nello sviluppo dei capelli e dei denti. Questa malattia è causata da mutazioni a livello di un gene detto NEMO (NF-κβ Essential Modulator) che codifica per una proteina della trasduzione intracellulare del segnale di attivazione che conduce alla trascrizione di NF-κβ.

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DEFICIT DELL'IMMUNITÀ CELLULO-MEDIATA Ipoplasia timica congenita (Sindrome di Di George)

La Sindrome di Di George, presente fin dalla nascita, si caratterizza per l’assenza del timo e delle paratiroidi a causa di un anomalo sviluppo della 3a e della 4a tasca faringea. I pazienti presentano tetania neonatale, ipocalcemia e un’aumentata suscettibilità alle infezioni da batteri, virus, funghi e protozoi. La sindrome di Di George è dovuta a delezioni del cromosoma 22 (22q11), che interessano un certo numero di basi: il gene compreso in questo intervallo di DNA, è chiamato TBX1 e codifica per il fattore di trascrizione T-box 1. Con l’assenza del timo, i linfociti T non possono maturare e manca sia la produzione di anticorpi dipendente dai linfociti T sia l’immunità cellulo-mediata (tali pazienti hanno poche Ig sieriche). Di solito la funzionalità a carico dei linfociti T si normalizza entro il 5° anno di età, probabilmente grazie alla presenza di residui timici. IMMUNODEFICIENZA GRAVE COMBINATA (SCID) La SCID è la forma più grave di immunodeficit congenito essendo caratterizzata da una grave insufficienza dell’immunità sia umorale che cellulo-mediata. Le varie forme di SCID possono essere autosomiche recessive o legate al cromosoma X. Per definizione, la SCID è una malattia dell’infanzia, poiché l’immunodeficit è così grave che determina la morte entro il 1° anno di vita. Il quadro clinico è caratterizzato da episodi di polmonite, diarrea cronica ed infezioni persistenti da Candida che colpiscono bocca, esofago e cute del viso. I linfociti B possono essere assenti o in numero normale, mentre i linfociti T sono fortemente ridotti o totalmente assenti. In base alla modalità di trasmissione e al tipo di difetto identificato, si riconoscono varie forme di SCID.

SCID con ipoplasia emopoietica generalizzata (disgenesia reticolare) È la forma più grave di SCID poiché al deficit dei linfociti T e B si associa l’agranulocitosi. Questi pazienti muoiono di infezioni entro pochi giorni dalla nascita, per assenza sia dell’immunità specifica che di quella naturale mediata dai neutrofili. Probabile causa di tale malattia è un difetto differenziativo della cellula staminale totipotente.

SCID da deficit dei meccanismi di riarrangiamento del DNA Sono causate da alterazioni a carico dei meccanismi di riarrangiamento del DNA nei linfociti durante la maturazione. Difetti dei geni RAG-1 o RAG-2 causano l’arresto della maturazione dei linfociti a causa dell’incapacità di riarrangiare i geni per i recettori degli antigeni, TCR e BCR, per cui in questi pazienti si verifica una completa assenza di linfociti T e B. Sono presenti anche difetti a livello del gene che codifica per l’enzima proteinchinasi DNA-dipendente (DNA-PKCs), che si lega alle strutture a forcina a livello delle rotture delle eliche del DNA, durante il processo di riarrangiamento dei geni per TCR e BCR; difetti a livello del gene che codifica per la proteina Artemis, funzionalmente simile alla DNA-PKCs; difetti a livello del gene che codifica per la proteina CERUNNOS/KLF e per la proteina LIG4 (DNA ligasi 4).

SCID con deficit delle molecole MHC di classe I e/o di classe II (Sindrome del linfocita nudo) Questa forma di SCID è caratterizzata dall’assenza delle molecole MHC di classe I e/o II. La trasmissione ereditaria è di tipo autosomico recessivo. Si ritiene che le mutazioni interessino un gene regolatore con azione transattivante che controlla l’espressione delle molecole MHC (i cui geni sono presenti invece nel cromosoma 6): i pazienti affetti sono privi di tutte le funzioni del sistema immune. Nella sindrome del linfocita nudo l’espressione delle molecole MHC di classe II è ridotta o assente, per cui i linfociti T CD4 non possono essere positivamente selezionati e quindi non maturano. Sono necessari almeno 4 geni diversi (gruppi A, B, C, D) per la normale espressione dei geni MHC di classe II: uno di questi, chiamato transattivatore di MHC di classe II, o CIITA, è il gene mutato nel gruppo A.; i geni mutati nei gruppi B, C e D sono chiamati RFXANK, RFX5 e RFXAP. Questi geni codificano 3 proteine che fanno parte del complesso RFX, che controlla la trascrizione legandosi ad una sequenza chiamata X-box, presente nel promotore di tutti i geni MHC di classe II.

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SCID a trasmissione ereditaria eterocromosomica La SCID legata al cromosoma X è la forma più comune di SCID. È una malattia ereditaria che colpisce solo i maschi (le donne portatrici sono esenti da qualsiasi alterazione del sistema immune a causa di una forma peculiare di inattivazione del cromosoma X su cui è localizzato il gene alterato). Questo immunodeficit è causato dalla mutazione del gene IL2RG che codifica per la catena ɣ comune del recettore per IL-2, IL-4, IL-7, IL-9, IL-15 e IL-21, di fondamentale importanza per la funzionalità del recettore in quanto da essa dipende la trasduzione del segnale generato dal legame con le rispettive linfochine e dall’internalizzazione del complesso citochina-recettore. La conseguenza è il blocco maturativo dei linfociti T e dei linfociti NK. Inoltre, come in tutti i gravi deficit dei linfociti T, i pazienti con SCID legata all’X non hanno risposte anticorpali efficaci verso molti antigeni, anche se i linfociti B sembrano normali. La SCID legata all’X è così grave che i bambini che la ereditano possono sopravvivere solo in un ambiente completamente sterile, a meno che non vengano somministrati anticorpi e non siano sottoposti a trapianto di midollo osseo.

SCID con deficit di adenosina deaminasi (ADA) Questa malattia, ereditata con modalità autosomica recessiva, viene diagnosticata col dosaggio dell’attività dell’enzima ADA nei globuli rossi. ADA, codificato da un gene localizzato sul cromosoma 20, catalizza la conversione della adenosina e della deossiadenosina in inosina e 2’deossiinosina. Il deficit enzimatico è causato da una mutazione o delezione del gene ADA: la sintomatologia è da attribuire all’accumulo intracellulare di metaboliti nucleotidici, particolarmente tossici per i linfociti T in fase di maturazione. In questi pazienti anche i linfociti B sono compromessi. La malattia si manifesta nei primi mesi di vita con diarrea persistente, malassorbimento, candidosi orale ed infezioni ricorrenti a carico dell’apparato respiratorio. DEFICIT ASSOCIATI AD ALTRE ANOMALIE

Atassia Teleangectasica L’Atassia Teleangectasica è una malattia ereditaria con modalità di trasmissione autosomica recessiva, causata da una mutazione del gene ATM che codifica per una chinasi implicata nella riparazione del DNA. È caratterizzata da immunodeficit (sia dell’immunità umorale che di quella cellulo-mediata), teleangectasia oculocutanea e atassia cerebellare. Nei linfociti di alcuni pazienti si riscontrano delezioni e traslocazioni cromosomiche, che spesso colpiscono i loci delle Ig e del TCR.

Sindrome di Wiskott-Aldrich La sindrome di Wiskott-Aldrich è una malattia X-linked, caratterizzata da infezioni ricorrenti, emorragie secondarie a piastrinopenia ed eczema cutaneo. Tutti i sintomi compaiono precocemente nei primi mesi di vita. Peculiarità di questa sindrome è la discrepanza tra i normali livelli di Ig nel sangue periferico e l’assoluta incapacità di risposta anticorpale verso gli antigeni di natura polisaccaridica, il che rende questi pazienti particolarmente suscettibili ad infezioni polmonari ricorrenti. La sindrome è causata da una mutazione del gene WAS localizzato sul cromosoma X, codificante la proteina WASP, che interagisce con proteine adattatrici quali Grb-2, il complesso proteico Arp2/3 coinvolto nella polimerizzazione dell’actina, e proteine G a basso peso molecolare che regolano l’organizzazione dell’actina nel citoscheletro (funzione importante per l’efficacia della collaborazione tra linfociti T e B). WASP inoltre lega domini SH3 che hanno affinità per proteine implicate nella trasduzione del segnale. Il timo è morfologicamente normale ma vi è una deplezione dei linfociti T nel sangue periferico e nei linfonodi. C’è una perdita variabile dell’immunità cellulare: i livelli di IgM sono bassi, quelli di IgG normali, quelli di IgA e IgE sono elevati.

La sindrome linfoproliferativa legata al cromosoma X Il virus di Epstein-Barr (EBV) è un herpes virus che infetta l’uomo e che, dopo l’infezione primaria, rimane latente nei linfociti B per il resto della vita. L’EBV può trasformare i linfociti B: nell’uomo normalmente la trasformazione non avviene, perché l’infezione è controllata e mantenuta allo stato latente dai linfociti T citotossici specifici. In condizioni di immunodeficienza dei linfociti T, questo meccanismo viene meno e si sviluppa un linfoma a linfociti B potenzialmente letale. Una delle situazioni in cui ciò avviene è una rara immunodeficienza, la sindrome linfoproliferativa legata al cromosoma X, che si verifica in seguito a mutazioni del gene SH2D1A che codifica per la proteina SAP. Il dominio SH2 della proteina SAP interagisce con le code citoplasmatiche dei recettori transmembrana, SLAM (che è espressa sui linfociti T attivati) e 2B4 (che si trova sui linfociti T, B e NK).

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SAP recluta una tirosinchinasi su questi recettori innescando l’attivazione di una cascata intracellulare che inibisce la produzione di IFN-ɣ. Con l’assenza di SAP, i pazienti affetti producono una maggiore quantità di IFN-ɣ in risposta ad infezione da EBV, rispetto ai soggetti normali. DEFICIT DEI FAGOCITI La rapida localizzazione dei fagociti nei siti di invasione microbica costituisce la prima linea di difesa dell’ospite. Il periodo di tempo critico per l’arrivo dei fagociti nel sito di invasione nella cute è di 2-4 ore.

Deficit di adesione dei leucociti (LAD) L’arrivo dei fagociti nel sito di invasione non può avvenire se i leucociti non esprimono un corredo normale di molecole di adesione. Il deficit di adesione leucocitaria di tipo I è una malattia a trasmissione autosomica recessiva caratterizzata da infezioni batteriche ricorrenti, con incapacità a produrre essudato purulento e una normale cicatrizzazione. La patogenesi è dovuta ad una mutazione del gene ITGB2 localizzato sul cromosoma 21, che codifica per la molecola CD18, la subunità β2 delle integrine: di conseguenza si ha una diminuita o assente espressione delle integrine β2, essenziali nell’adesione dei leucociti ad altre cellule (ad esempio, LFA-1). Il deficit di adesione leucocitaria di tipo II non è dovuto ad un’alterata espressione delle integrine β2, ma ad una mutazione del gene che codifica per il trasportatore di GTP-fucosio: ciò determina un mancato ingresso del fucosio nell’apparato di Golgi ed il normale svolgimento del processo di fucosilazione. Risulta compromessa l’espressione di tutte le proteine fucosilate (Sialil-Lewis X, ligando di E e P-selectina espresse su cellule endoteliali attivate da citochine) sulla membrana dei neutrofili. Il deficit di adesione leucocitaria di tipo III è caratterizzata da immunodeficit e disfunzione piastrinica, causata dalla mutazione del gene FERMT3, che codifica per una proteina delle cellule ematopoietiche.

Sindrome di Giobbe (Job) Il quadro clinico della sindrome di Giobbe è caratterizzato dalla formazione di ascessi ricorrenti, infezioni polmonari ed è frequentemente complicato dalla comparsa di un grave eczema. L’esame immune rivela un aumento della concentrazione plasmatica di IgE, con presenza di IgE specifiche verso allergeni di origine inalatoria e alimentare e verso antigeni microbici (ad esempio, Staphylococcus aureus). Frequentemente è presente un deficit di chemiotassi dei neutrofili e dei monociti: si pensa che il difetto principale della malattia non sia intrinseco ai neutrofili od ai monociti, ma, piuttosto, causato dall’istamina, che viene liberata in notevole quantità in conseguenza della reazione tra le IgE ed i relativi allergeni di origine batterica. Nel 70% dei pazienti, si riscontrano mutazioni del gene STAT3, che svolge un ruolo chiave nella trasduzione del segnale di un’ampia gamma di citochine ed è cruciale per la regolazione mediata da IL-6 delle cellule Th17 (sottoinsieme delle cellule T helper), necessarie per il controllo delle infezioni micotiche e batteriche extracellulari.

Sindrome di Chediak-Higashi La Sindrome di Chediak-Higashi è una malattia a trasmissione autosomica recessiva, caratterizzata da albinismo e aumentata suscettibilità alle infezioni dell’apparato respiratorio, della cute e del sottocutaneo, causate da cocchi piogeni o da altri microrganismi, quali gli enterobatteri gram-, Aspergillus o Candida. Nel sangue dei pazienti affetti si riscontra intensa neutropenia associata a trombocitopenia. I neutrofili hanno una normale capacità di ingestione e di metabolismo ossidativo, ma una ridotta capacità battericida, dipendente, verosimilmente, da una diminuita capacità di formazione del fagolisosoma. Anche la capacità locomotoria e le risposte chemiotattiche dei neutrofili risultano ridotte. La maggior parte dei pazienti muore entro la prima decade di vita per complicanze infettive. La malattia è causata da mutazioni nel gene regolatore del traffico lisosomiale LYST, che causano una riduzione della fusione tra fagosoma e lisosoma nei fagociti, una riduzione della formazione dei melanosomi nei melanociti ed alterazione della struttura dei fagosomi nelle cellule nervose e nelle piastrine.

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Malattia granulomatosa cronica (MGC) La malattia granulomatosa cronica costituisce un gruppo eterogeneo di malattie a trasmissione ereditaria (una forma viene ereditata con modalità autosomica recessiva, un’altra, sempre recessiva, è legata al cromosoma X). La malattia è caratterizzata da gravi e ricorrenti infezioni ad opera di batteri e funghi, che colpiscono cute, apparato respiratorio, linfonodi, fegato e milza, frequentemente ad esito fatale in quanto difficilmente contrastabili dalla terapia antibiotica. I neutrofili, i monociti e gli eosinofili dei pazienti affetti hanno normali capacità fagocitiche ma non presentano l’esplosione respiratoria: il difetto fondamentale consiste nella deficiente produzione di anione superossido, fortemente battericida, per alterata funzionalità della NADPH ossidasi. Il sistema dei fagociti mononucleati di milza, fegato, linfonodi e polmoni è quello più colpito: nei siti di infezione si ha un accumulo di cellule che fagocitano i microrganismi senza riuscire ad ucciderli, da cui la formazione recidivante di ascessi nei linfonodi, nel fegato, nel polmone e nel derma. Si osserva, inoltre, la formazione di granulomi costituiti da cellule giganti plurinucleate, macrofagi, linfociti e plasmacellule, in seguito al rilascio di microrganismi vivi da parte dei fagociti e al conseguente richiamo di nuove cellule fagocitarie.

Deficit di glutatione sintetasi Il deficit di glutatione sintetasi si manifesta negli eritrociti e nei leucociti, ma non causa un aumento di episodi infettivi. La chemiotassi, la fagocitosi e il test al nitroblu di tetrazolio risultano normali ma è presente un deficit nella capacità battericida, verosimilmente dovuto all’assenza dell’azione protettiva del glutatione sull’accumulo di perossido di idrogeno dentro la cellula. L’aumento dello stress da ROS provoca un danneggiamento dei microtubuli e della formazione del fagolisosoma. Tale deficit è ereditato con modalità autosomica recessiva.

Deficit di glucosio-6-P deidrogenasi (G6PD) Il deficit di G6PD determina una riduzione dell’attività battericida: il G6PD catalizza il primo evento nello shunt degli esoso monofosfato, essenziali per il mantenimento della quota di NADPH. La malattia colpisce prevalentemente i maschi, mentre nelle femmine eterozigoti i livelli dell’enzima sono estremamente variabili. I pazienti con un livello di G6PD inferiore al 5% presentano un deficit grave dell’esplosione respiratoria con infezioni ricorrenti e talora fatali, mentre quelli con deficit dell’attività enzimatica contenuto entro il 25% non mostrano una particolare suscettibilità alle infezioni.

Deficit di mieloperossidasi I pazienti con deficit di mieloperossidasi non mostrano segni clinici evidenti. Infatti, nonostante manchi un meccanismo ossigeno-dipendente importante per l’uccisione dei batteri, esistono molteplici meccanismi alternativi che sopperiscono adeguatamente a tale deficit. L’enzima è assente nei neutrofili e nei monociti (per alterazione del gene che è localizzato sul cromosoma 17), mentre è presente negli eosinofili dal momento che in tali cellule viene codificato da un Iocus differente. L’alterazione molto probabilmente deriva da un difetto di formazione della promieloperossidasi (il precursore della mieloperossidasi). La diagnosi viene eseguita utilizzando l’analisi istochimica per l’attività perossidasica dei neutrofili e dei monociti negli strisci di sangue. DEFICIT DEL COMPLEMENTO: CONSIDERAZIONI GENERALI Il sistema del complemento è uno dei principali meccanismi effettori dell’immunità umorale e innata: è costituito da numerose proteine solubili e di membrana, che interagiscono tra loro e con altre componenti del sistema immunitario generando una serie di proteine funzionali all’eliminazione dei microrganismi. Le proteine del complemento sono normalmente presenti in circolo sotto forma di precursori inattivi. Le vie di attivazione sono 3: la via classica, la via alternativa e la via lectinica. In tutte e 3 le vie, l’evento centrale dell’attivazione del complemento, è il clivaggio di C3. I deficit del complemento sono trasmessi con modalità autosomica recessiva, con l’eccezione del deficit del C1 inibitore, trasmesso con modalità autosomica dominante, e del deficit di properdina (o fattore P), trasmesso con modalità eterocromosomica.

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Il quadro clinico dei pazienti con deficit di componenti del complemento si caratterizza per un’aumentata suscettibilità alle infezioni, per la presenza di diverse forme di malattie reumatiche o per manifestazioni angioedematose. Il deficit di C3, componente essenziale della via classica e della via alternativa, comporta un’aumentata suscettibilità alle infezioni da batteri capsulati (streptococco, pneumococco e Haemophilus influenzae), contro i quali l’opsonizzazione da parte di C3 è una tappa fondamentale nella difesa dell’ospite. I deficit dal C5 al C9, responsabili della lesione di membrana attraverso cui si attua la funzione battericida e batteriolitica del complemento, non compromettono l’opsonizzazione dei batteri per cui i pazienti affetti non sono suscettibili a quelle infezioni batteriche nei confronti dei quali la principale difesa è costituita dall’opsonizzazione, ma sono suscettibili alle infezioni da batteri gram-, tra cui le Neisserie, nei confronti dei quali è importante l’integrità dell’attività battericida del siero. I deficit di C1, C2 e C4 comportano un’aumentata incidenza di malattie autoimmuni, quali il lupus eritematoso sistemico (LES), le glomerulonefriti e le vasculiti, che invece sono rare nei pazienti con deficit di altri componenti complementari. Esistono però delle differenze tra il LES osservato nei pazienti con deficit di componenti complementari e quello osservato in assenza di tale tipo di deficit. Il LES osservato in pazienti con deficit di componenti del complemento si caratterizza per un inizio precoce, spesso nell’infanzia, con una compromissione renale e pleuropericardica minore, con rari depositi di Ig e di C3 nella giunzione dermoepidermica e con assenza di anticorpi anti-DNA. Il deficit di C2 è il più frequente tra quelli su base ereditaria. Le manifestazioni cliniche vanno dalla condizione asintomatica, alla presenza di un’aumentata incidenza di malattie infettive e/o di malattie autoimmuni, tra cui il LES e il lupus discoide. Il deficit di C1 inibitore, secondo difetto genetico del sistema del complemento trasmesso per via autosomica dominante, provoca angioedema ereditario. Il meccanismo patogenetico non è ancora del tutto chiaro: le zone più colpite sono la cute, l’apparato respiratorio e gastroenterico. IMMUNODEFICIT SECONDARI O ACQUISITI Le immunodeficienze secondarie o acquisite sono quelle dovute ad un coinvolgimento secondario del sistema immune. Ci sono immunodeficienze secondarie a:

- neoplasie ed emolinfopatie; - invecchiamento, si è ipotizzato che la generale riduzione delle capacità proliferative delle cellule di

un organismo senescente e la diminuita capacità di riparare i danni al genoma cellulare possono essere alla base della comparsa di questo immunodeficit;

- malnutrizione, la riduzione di assunzione di proteine, la loro mancanza o perdita causa una riduzione della produzione di Ig e fattori del complemento, modificazioni della funzionalità dei macrofagi e alterazione della immunità cellulo-mediata, con conseguente immunodeficit;

- trattamento con farmaci; - trattamenti chirurgici o a traumi (nel meccanismo patogenetico di questo immunodeficit giocano un

ruolo fondamentale le citochine rilasciate dalle cellule del sistema monocito-macrofagico e dai neutrofili);

- infezioni virali, l’attivazione dei meccanismi di difesa antivirale (legati alla produzione di IFN-α e IFN-β che inibiscono la replicazione virale, all’attivazione dei linfociti CD8+ citotossici e dei linfociti NK, e alla produzione di anticorpi specifici) e l’infezione virale diretta delle cellule del sistema immune possono causare immunodeficit.

Sindrome dell'immunodeficienza ACQUISITA (AIDS)

L’AIDS (sindrome dell’immunodeficienza acquisita) è una infezione causata dal retrovirus non trasformante HIV, il quale è rivestito da un doppio strato di molecole lipidiche, che deriva dalla membrana delle cellule infettate. In questo strato sono inserite diverse proteine, alcune delle quali originano dalle cellule dell'ospite mentre altre sono proteine virali. Ogni virione presenta delle proiezioni glicoproteiche (gp) formate dalla gp120 e dalla gp41 che svolgono un ruolo cruciale nel legame dell'HIV alle cellule bersaglio. Le proteine strutturali più interne sono 4, denominate p24, p17, p9 e p7. Ognuna di esse deriva da una proteina situata immediatamente sotto l'involucro che circonda la parte centrale o capside, che contiene il materiale genetico.

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Il genoma dell'HIV è costituito da 2 filamenti di RNA a cui risulta legata la trascrittasi inversa che trascrive l'RNA virale in DNA, l'integrasi e una proteasi. L'ingresso di HIV nelle cellule avviene attraverso un complesso formato da gp120 e gp41. La proteina gp120 lega con elevata affinità la molecola CD4 (il virus ha un tropismo per i linfociti T CD4, le cellule dendritiche ed i macrofagi). Dopo il legame con CD4, gp120 subisce delle modificazioni conformazionali per cui, affinché il virus possa penetrare nella cellula, è necessario che leghi una molecola aggiuntiva che funge da corecettore, presente sulla membrana della cellula bersaglio. La scelta del corecettore utilizzato dal virus dipende dalla variante di gp120 espressa, per cui le variazioni a carico di gp120 sono alla base del differente tropismo dei ceppi virali. In seguito al legame di gp120 a CD4 ed al corecettore, gp41 subisce una modificazione conformazionale che a sua volta determina l'esposizione di una regione chiamata peptide di fusione che penetra nella membrana cellulare consentendo la fusione fra l’envelope virale e la membrana cellulare e la successiva penetrazione del virus. Nella cellula ospite, l'RNA virale viene replicato in cDNA (DNA complementare) grazie alla trascrittasi inversa. Il cDNA può rimanere nel citoplasma o entrare nel nucleo dove viene integrato nel genoma della cellula ospite come provirus per azione dell'enzima virale integrasi. La replicazione virale continua a basso livello, in alcuni casi per parecchi anni, durante i quali il virus rimane in apparente fase latente. Il genoma di HIV ha una regione LTR (long terminal repeat) ad ogni estremità, necessaria per l'integrazione virale e presenta siti di legame per proteine regolatrici. Quando il fattore di trascrizione NF-κβ, attivato dai linfociti T o dai macrofagi, si lega a una regione promoter presente in LTR, attivando la trascrizione del provirus da parte della RNA polimerasi dell'ospite. Questi eventi sono estremamente importanti nella patogenesi dell'AIDS poiché rappresentano il meccanismo principale mediante il quale la fase di latenza dell'infezione da HIV si conclude e viene avviata la replicazione virale. Ne consegue quindi che negli individui sieropositivi, infezioni ricorrenti potenziano la replicazione virale ed aumentano la diffusione dell'infezione. La trasmissione dell’infezione da HIV avviene attraverso varie modalità: nella maggioranza dei casi la trasmissione è sessuale, mentre nei restanti casi l’infezione è trasmessa per via materno-fetale (trasmissione verticale) o attraverso derivati del sangue (includendo la strumentazione contaminata). La maggior parte degli individui infettati da HIV progredisce verso l’AIDS sebbene l’1% dei soggetti infettati non sviluppi la malattia. I pazienti affetti presentano un numero di linfociti T CD4 aumentato, non necessitano di terapia e sebbene abbiano una viremia persistente nel tempo, non sviluppano malattia nell’arco di 10-15 anni. Fasi dell'infezione da HIV Il decorso dell’infezione da HIV evolve in 3 stadi: una fase acuta, una fase di latenza piuttosto variabile e, infine, una fase caratterizzata dalla comparsa della sintomatologia tipica dell’AIDS. Infezione acuta La fase acuta della malattia si sviluppa nel 50-70% dei pazienti con infezione primaria da HIV, dopo circa 3-6 settimane, ed è caratterizzata da una sindrome simile ad una mononucleosi acuta, con sintomi aspecifici quali febbre, tumefazioni linfonodali e sfogo roseoliforme. Essa si accompagna alla comparsa transitoria di antigenemia p24, viremia e sintesi di anticorpi dapprima anti-p24 e anti-gp55, e successivamente verso tutte le componenti proteiche del virus. In questo stadio precoce dell’infezione, avviene la disseminazione del virus nell’organismo. Lo sviluppo della risposta immune determina la caduta della viremia, ma non l’eliminazione della replicazione virale: il virus prolifera ed è presente a livello dei linfonodi, anche se non si riesce a svelarne la presenza nel plasma. Fase cronica asintomatica o di latenza La durata di questo stadio è variabile, in media da 3 a 7 anni. Durante questa fase il virus rimane contenuto negli organi linfoidi ed il numero di linfociti T CD4 rimane relativamente costante poiché la loro perdita è compensata dalla loro produzione. I pazienti rimangono asintomatici. Entro 2-6 mesi dal contagio, la concentrazione plasmatica del virus si stabilizza ad un livello che differisce da paziente a paziente: il livello di viremia ed il numero di linfociti CD4 nel sangue rappresentano importanti indicatori prognostici di malattia. Sono evidenziabili nel siero anticorpi diretti verso tutte le proteine virali, e tutti i pazienti presentano un graduale e costante deterioramento del sistema immune che si manifesta con la deplezione di linfociti T CD4+.

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Il paziente inizia a diventare suscettibile ad infezioni da parte di altri microorganismi e le risposte immuni/infiammatorie nei confronti di questi ultimi determinano la produzione di una grande quantità di citochine che stimolano la replicazione ed accelerano la produzione dell’HIV e la distruzione del tessuto linfoide. Si innesca pertanto un circolo vizioso per cui, nel tentativo di eradicare altri microorganismi patogeni il sistema immunitario accelera paradossalmente la propria distruzione ad opera dell’HIV. Fase delle manifestazioni cliniche o AIDS L’esito finale del progressivo deterioramento del sistema immune è l’AIDS. In questo stadio la distruzione dei tessuti linfoidi è completa ed il numero di linfociti CD4 circolanti si riduce al di sotto della soglia di 200 cellule/mm3 di sangue. In questa fase la viremia aumenta nuovamente a causa dell’incontrollata replicazione del virus in serbatoi diversi dai linfonodi. La fase di AIDS viene classificata in differenti sottotipi:

- AIDS related complex (ARC), caratterizzato da dimagrimento, sudorazioni notturne, febbricola; - AIDS Dementia Complex (ADC), caratterizzato da disturbi della memoria recente ed evolve con

rallentamento dell’attività mentale e, successivamente, con stato stuporoso e coma; - Complicazioni infettive, dovute sia alla compromissione dell’azione helper dei T linfociti, che a danni

a carico dei B linfociti; - Neoplasie secondarie, come il sarcoma di Kaposi, i linfomi cerebrali e i linfomi non-Hodgkin; - Altre complicanze, come la Wasting syndrome caratterizzata da perdita di peso maggiore del 10%

del peso corporeo, con diarrea cronica, astenia e febbre continua o intermittente per almeno 30 giorni in assenza di altre malattie.

Immunosoppressione da HIV Nei pazienti con infezione da HIV, l’immunosoppressione è dovuta ai difetti sia quantitativi che funzionali dei linfociti T CD4+, per meccanismi diretti o indiretti. Tra i meccanismi diretti vi è l’uccisione delle cellule per azione del virus e la formazione dei sincizi. L’azione citotossica del virus può essere la conseguenza dell’accumulo di DNA virale non inserito nel nucleo o dell’inibizione della sintesi proteica in seguito all’infezione virale. La formazione di sincizi si ha per fusione tra la membrana di una cellula infetta con un linfocita T CD4+ sano, con la formazione di una cellula gigante multinucleata. Tra i meccanismi indiretti vi è l’omologia strutturale delle proteine gp120 e gp41 dell’HIV con alcuni determinanti delle molecole MHC di classe II. Pertanto, anticorpi diretti verso queste proteine potrebbero cross-reagire con le molecole MHC di classe II, impedendo il legame tra i linfociti CD4+ e le APC (antigene presentante le cellule), con conseguente inibizione della funzione mediata da tali cellule nel riconoscimento dell’antigene. Meccanismi di evasione della risposta immune da parte dell'HIV L’HIV è il prototipo dei microorganismi capaci di evadere la risposta immune dell’ospite: ciò dipende dal fatto che l’HIV presenta un elevato tasso di mutazioni a causa della scarsa precisione della trascrittasi inversa. In questo modo, il virus può sfuggire al riconoscimento da parte degli anticorpi o dei linfociti T generati prima dell’insorgenza delle mutazioni.

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IL COMPLESSO MAGGIORE DI ISTOCOMPATIBILITÀ DELL'UOMO Il complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), o HLA, è un gruppo di geni localizzato sul braccio corto del cromosoma 6 (6p). L'MHC è formato da molecole collocate sulla superficie cellulare che agiscono come antigeni: a contatto col sistema immunitario, generano una risposta immunitaria poiché riconosciute come estranee. Il sistema è alla base del rigetto nel trapianto. Se le cellule del tessuto trapiantato non hanno i medesimi antigeni HLA del ricevente (ovvero il tessuto non è HLA-compatibile), il tessuto viene riconosciuto come estraneo, offensivo, e rigettato. Per questa ragione, per mezzo di un procedimento detto di tipizzazione tissutale, prima delle operazioni si accerta che i 2 soggetti (donatore e ricevente) siano HLA-compatibili. Ogni molecola MHC contiene una tasca posta nella porzione extracellulare e una coppia di domini Ig legati alla membrana cellulare. La tasca, che è costituita da 2 α-eliche appoggiate su un foglietto-β costituito da 8 filamenti, è la regione che contiene gli amminoacidi polimorfici che determinano le differenze fra MHC. I domini Ig, che non sono polimorfi, contengono il sito di legame per i recettori dei linfociti T. I linfociti T helper CD4+ riconoscono solo MHC di classe II, mentre i linfociti CD8+ solo le MHC di classe I e solo con il legame al complesso peptide-MHC essi possono innescare la risposta immunitaria. Le molecole MHC di classe I sono costituite da 2 catene legate non covalentemente: la catena α e la catena β2-microglobulina che non è codificata nel MHC. La tasca per il legame del peptide è contenuto nella catena α. Le molecole MHC di classe II sono costituite da 2 catene legate non covalentemente: la catena α e la catena β entrambe codificate dal MHC. La tasca per il legame con il peptide è costituita per metà da una e per metà dall'altra: ogni catena contribuisce con una α-elica e 4 filamenti del foglietto β. Nella porzione extracellulare ogni catena possiede un dominio Ig (α2 e β2) di cui β2 contiene il sito di legame per CD4. Le molecole MHC non sono capaci di discriminare fra peptidi self e non self: si legano a qualsiasi peptide che abbia subito un processamento. La capacità di riconoscere o meno come self un peptide esposto appartiene ai linfociti T, capacità che viene acquisita durante la maturazione. Le 2 classi di molecole MHC sono espresse in modo differente dalle cellule dell'organismo:

- classe I, su quasi tutte le cellule nucleate, la sua presenza o meno è uno dei metodi per stabilire se una cellula è self o meno;

- classe II, sulle cellule che presentano l'antigene quindi cellule dendritiche, macrofagi e linfociti B. L'espressione cambia anche durante la risposta immunitaria. Svariate citochine come IFN-α, IFN-β e IFN-ɣ inducono l'aumento di MHC di classe I in risposta ad agenti virali. IFN-ɣ è anche responsabile dell'aumento di MHC di classe II sui macrofagi. L'aumento di espressione di MHC di classe II può venire anche da stimoli di recettori specializzati per legare antigeni (Toll-Like Receptor e anticorpi per i linfociti B). In particolare, le citochine aumentano l'espressione stimolando la trascrizione dei geni agendo su fattori di trascrizione. Tali fattori, una volta attivati, legano una proteina detta CIITA. La mancanza di questi fattori provoca la sindrome del linfocita nudo in quanto manca l'espressione delle molecole MHC. Le APC trasformano gli antigeni proteici in peptidi da associare a MHC di classe I o II. In base all'origine della proteina, dal citosol o dallo spazio extracellulare, i peptidi formati vengono legati alle MHC rispettivamente di classe I e classe II. Il complesso così formato viene poi espresso sulla superficie cellulare per il riconoscimento da parte dei linfociti T. L'associazione tra il dimero MHC e il peptide antigenico è necessaria per garantire stabilità alla molecola. Esistono alcune malattie che risultano colpire con maggiore frequenza individui con un certo aplotipo HLA. Per alcune l'associazione è piuttosto forte, per altre più sfumata. Non sono noti i motivi di questo fatto. Fra le malattie che presentano questa associazione si possono segnalare la spondilite anchilosante, il diabete mellito di tipo I, l'artrite reumatoide, la celiachia e la sclerosi multipla. ALLOREATTIVITÀ L’alloreattività è la risposta dei linfociti T contro varianti alleliche delle molecole MHC della stessa specie; i meccanismi che interessano l’interazione TCR-MHC (TCR è il recettore dei linfociti T) sono 3:

- Il primo prevede delle modificazioni strutturali del sito di legame del TCR con possibilità che un singolo recettore possa riconoscere differenti complessi MHC-peptide;

- Il secondo prevede che TCR riconosca differenti complessi MHC-peptide modificando l’orientamento del legame;

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- Il terzo si riferisce a delle sequenze amminoacidiche dei vari peptidi che presentano omologia nella sequenza assicurando da un lato il legame con le diverse molecole MHC e dall’altro lato l’attivazione del TCR.

IL MECCANISMO DEL RIGETTO DEI TRAPIANTI Le molecole MHC allogeniche di un trapianto vengono presentate ai linfociti T alloreattivi del ricevente in 2 modi diversi:

- Riconoscimento diretto, che presuppone il riconoscimento di molecole MHC integre allogeniche espresse su APC del donatore presenti nel trapianto. Questa forma di riconoscimento è una conseguenza della similarità strutturale tra le molecole MHC allogeniche e quelle autologhe;

- Riconoscimento indiretto, che presuppone la processazione delle molecole MHC del donatore da parte delle APC del ricevente e la presentazione dei peptidi che ne derivano in associazione alle molecole MHC self.

Le modalità di rigetto di organi solidi trapiantati sono 3: iperacuto, acuto e cronico. Il rigetto iperacuto è un processo irreversibile che in poco tempo porta alla distruzione dell’organo trapiantato; è causato dalla presenza nel ricevente di anticorpi preformati diretti contro gli antigeni HLA del donatore. Nelle fasi immediatamente successive al trapianto si osserva una deposizione di anticorpi sull’endotelio dell’organo trapiantato con successiva fissazione del complemento e danno cellulare con un quadro di angioflogosi necrotizzante. Il rigetto acuto si verifica in un periodo di tempo variabile dalle 2 settimane sino ad un anno dal trapianto. Dopo aver riconosciuto come estranei gli antigeni di istocompatibilità di classe II presenti sulle cellule dendritiche del donatore, i linfociti T helper vanno incontro ad un processo di attivazione secernendo citochine che stimolano i linfociti B a produrre anticorpi contro gli antigeni HLA presenti sulle cellule dell’organo trapiantato, e attivano i macrofagi e i linfociti T CD8 che svolgono funzioni effettrici, danneggiando direttamente le cellule trapiantate. Il danno a cui va incontro l’organo trapiantato è, quindi, sia anticorpo-mediato che cellulo-mediato ed il quadro istologico è quello di una istoflogosi cronica infiltrativa. Il rigetto cronico si osserva non prima di 3 mesi dal trapianto, generalmente dopo un anno. La fibrosi è probabilmente causata dall’attivazione dei macrofagi e dalla conseguente produzione dei fattori di crescita delle cellule mesenchimali, quali il fattore di crescita di derivazione piastrinica (PDGF) che stimola la proliferazione dei fibroblasti e la sintesi di collagene. II quadro istologico del rigetto cronico è caratterizzato da fibrosi del tessuto trapiantato, con perdita della sua normale architettura. Gli anticorpi inducono il rigetto acuto mediante meccanismi diversi da quelli messi in atto dai linfociti T, sia attraverso la fissazione del complemento che determina danno nel tessuto, sia mediante il reclutamento di macrofagi e neutrofili che causano un ulteriore danno endoteliale e inoltre viene indotta l’espressione di antigeni sulle cellule endoteliali che mediano il rimodellamento delle arterie e delle membrane basali, con conseguenti lesioni che determinano la perdita della funzione dell’organo trapiantato. Il trattamento farmacologico che segue un trapianto di organo prevede l’utilizzo di farmaci che inibiscono l’immunità cellulare come gli inibitori della calcineurina, l’acido micofenolico, la rapamicina ed il prednisone, garantendo una sopravvivenza a lungo termine dell’organo trapiantato. La tipizzazione HLA e il cross-match sono necessari per identificare il grado di compatibilità/incompatibilità tra ricevente e donatore. Il sistema HLA ed il trapianto di rene Il trapianto di rene viene effettuato prelevando l’organo sia da un vivente che da un cadavere. Nel rene si osserva un’ampia distribuzione delle strutture HLA di classe II che sui glomeruli, sui capillari intertubulari, sulle venule, sulle cellule dendritiche interstiziali e sulle cellule dei tubuli prossimali ma non sull’endotelio dei grossi vasi o sui tubuli distali. Percentuali di sopravvivenza del trapianto superiori al 90% ad un anno si ottengono se il donatore ed il ricevente sono fratelli HLA identici; mentre se solo un aplotipo è condiviso, la percentuale di sopravvivenza scende.

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Il sistema HLA ed il trapianto di midollo osseo Il trapianto di midollo osseo consiste nella sostituzione di un midollo osseo malato o non funzionante con cellule staminali sane in grado di rigenerare tutte le cellule del sangue, ricostituendo le normali funzioni ematologiche ed immunologiche. Il trapianto può essere autologo o allogenico: il primo consiste nell’infusione di cellule staminali midollari od ematiche dello stesso paziente; il secondo interessa l’infusione di cellule staminali da un individuo ad un altro. In queste condizioni il problema della compatibilità non consiste nell’evitare il rigetto del trapianto da parte del ricevente, il quale viene pesantemente immunodepresso, ma consiste nell’evitare la reazione delle cellule immunocompetenti del donatore contro gli antigeni d’istocompatibilità del ricevente, ossia la reazione del trapianto verso l’ospite (GVHR) e la malattia da reazione contro l’ospite (GVHD). Il donatore ideale è un fratello gemello monozigote o, in assenza, un fratello HLA identico, in modo da ottenere la massima compatibilità possibile. Anche nei casi in cui c’è la compatibilità HLA, è possibile che la ricostituzione delle cellule ematopoietiche non si verifichi, perché l’attecchimento dipende dal numero e dalla funzionalità delle cellule staminali trasfuse. La GVHD può essere acuta (1-2 mesi dopo il trapianto) e cronica (2-3 mesi dopo il trapianto). La forma acuta si manifesta principalmente con sintomi a carico della cute, del tratto gastroenterico e del fegato e soprattutto con un grave immunodeficit che ne giustifica l’elevata letalità. L’incidenza e la gravità della malattia dipendono da vari fattori quali il grado di compatibilità tra donatore e ricevente, il trattamento pre-trapianto e la quantità di cellule immunocompetenti trasfuse. La forma cronica è molto diversa da quella acuta e può essere localizzata o generalizzata (sclerodermia, cirrosi biliare primitiva o epatite cronica attiva autoimmune). I pazienti leucemici che necessitano di un trapianto di midollo osseo e non hanno un donatore HLA identico, possono avere il trapianto aploidentico da donatori familiari che condividono con il ricevente un solo aplotipo HLA. Tutti i riceventi di un trapianto di midollo osseo da donatore aploidentico sono ad alto rischio di reazioni T cellulo-mediate e della GVHD. Fino al 1990, questo tipo di trapianto registrava scarsi indici di successo poiché i linfociti T alloreattivi del donatore, riconoscendo le molecole MHC del ricevente, causavano un’elevata incidenza di GVHD grave. Invece, con la deplezione dei linfociti T del donatore aploidentico da una parte si preveniva la GVHD, dall’altra però si induceva un elevato rischio di rigetto a causa della mancata sintesi da parte dei linfociti T allogenici di fattori favorenti l’attecchimento delle cellule trapiantate. Altre cellule del sistema immune influenzano positivamente l’esito del trapianto di cellule ematopoietiche e sono le cellule NK del donatore in quanto prevengono la recidiva della leucemia e allo stesso tempo prevengono la GVHD ed il rigetto del midollo trapiantato. Sono 3 le situazioni che giocano un ruolo favorevole all’esito del trapianto stesso:

- uccisione dei blasti (cellule immature presenti nel midollo osseo) leucemici; - uccisione delle cellule dendritiche mature e immature, responsabili dell’induzione della GVHD; - uccisione mirata delle cellule ematopoietiche del ricevente per prevenire la reazione di rigetto del

midollo. PREVENZIONE E TRATTAMENTO DEL RIGETTO DEL TRAPIANTO Il farmaco immunosoppressore attualmente più diffuso è la ciclosporina, che inibisce l’azione della calcineurina, e conseguentemente l’attivazione di NFAT (fattore di trascrizione dei linfociti T) con il blocco della trascrizione genica dell’IL-2 e di altre citochine. Un altro metabolita di origine fungina, utilizzato in clinica a scopo immunosoppressivo, è l’FK-506 (Tacrolimus), che si comporta come la ciclosporina. Un altro agente immunosoppressivo è la Rapamicina che lega l’FK-506: il complesso non inibisce la calcineurina ma si lega ad un’altra proteina cellulare MTOR, inibendola (MTOR è responsabile della proliferazione dei linfociti T). Oltre all’impiego della terapia immunosoppressiva, trovano largo impiego anche anticorpi diretti contro antigeni di superficie dei linfociti T in grado di bloccare l’attivazione linfocitaria o anticorpi in grado di interagire con citochine coinvolte nella risposta immunologica (IL-2) oppure nel danno tissutale che si osserva in alcune malattie immunomediate. Il più utilizzato è un anticorpo monoclonale (di origine murina) diretto

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contro il CD3 dei linfociti T; in vivo questo anticorpo è in grado di attivare il complemento svolgendo un’azione litica sui linfociti T o agendo da opsonina per favorirne la fagocitosi. I linfociti T che sfuggono a tale azione sono comunque resi anergici a causa della ridotta espressione del CD3 dovuta all’aggregazione recettoriale e alla sua conseguente endocitosi.

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LE REAZIONI IMMUNOPATOGENE Una reazione di ipersensibilità o immunopatogena è una risposta immunitaria dannosa che provoca alterazioni tissutali e può causare gravi patologie. Deriva dall’interazione di un antigene (endogeno o esogeno) con anticorpi umorali oppure deriva da reazioni immunitarie cellulo-mediate. IPERSENSIBILITÀ DI TIPO I: REAZIONI ANAFILATTICHE ED ATOPICHE L’ipersensibilità di tipo I è caratterizzata dalla rapida comparsa delle manifestazioni patologiche quando un individuo, precedentemente sensibilizzato dal contatto con un particolare antigene, viene una seconda volta in contatto con lo stesso. Tipi di reazione sono le manifestazioni anafilattiche ed atopiche. L’anafilassi è caratterizzata dalla formazione, in corso di risposta secondaria, di IgE specifiche verso l’antigene piuttosto che di IgG, come normalmente succede. L’anafilassi è indotta da 2 inoculazioni distanziate del medesimo antigene, l’anafilattogeno, la prima con effetto sensibilizzante, la seconda con effetto scatenante. La sintomatologia che insorge esclusivamente nella fase scatenante è riportabile a 2 fenomeni essenziali:

- vasodilatazione ed aumento della permeabilità capillare; - contrazione della muscolatura liscia.

Nell’uomo l’anafilassi generalizzata o shock anafilattico si manifesta con pallore, perdita di coscienza, respiro superficiale e frequente, insensibilità agli stimoli esterni, polso impercettibile e notevole ipotensione; la morte può sopravvenire in pochi minuti. Le forme attenuate sono caratterizzate da nausea, vomito, orticaria gigante e dispnea asmatiforme. L’anafilassi può essere locale o generalizzata: la locale si ha in caso di ingestione o inalazione di proteine eterologhe, la generalizzata in caso di somministrazione per via ematica. Le proteine in grado di evocare nell’organismo la comparsa di reazioni di ipersensibilità di I tipo sono dette allergeni, molte dei quali sono in realtà apteni (molecole che si legano in modo specifico all’anticorpo o al recettore di un linfocita ma che non possono evocare una risposta immunitaria), privi di per sé di capacità sensibilizzante, ma in grado di acquisirla coniugandosi con un costituente dell’organismo, in genere una molecola proteica. L’allergia è una reattività che si scatena in seguito alla penetrazione di un antigene nell’organismo che si manifesta con una eccessiva sintesi di IgE, al posto di IgG. L’atopia indica l’abnorme capacità di alcuni individui a sviluppare ipersensibilità di tipo I, distinguendosi dagli individui normali che non lo fanno. I soggetti atopici esibiscono sia un maggior numero di eosinofili ematici che un più elevato livello sierico di IgE, che vanno incontro ad un ulteriore aumento nella fase di sensibilizzazione. È bene tenere presente che nei soggetti normali si ha un incremento della risposta in IgE solo in risposta all’infestazione da elminti, tanto che si ritiene che il ruolo fisiologico dì questa classe di immunoglobuline sia quello della difesa verso questi parassiti la cui distruzione è affidata agli eosinofili. Le IgE specifiche per alcuni antigeni superficiali di questi parassiti si fissano con il loro frammento Fc, oltre che sugli specifici recettori (FceR) dei mastociti, anche su quelli espressi sulla superficie degli eosinofili. Questi ultimi interagiscono, tramite i frammenti Fab delle IgE esposti sulla loro membrana plasmatica, con gli antigeni superficiali dei parassiti. L’interazione è seguita dal rilascio da parte degli eosinofili di molecole tossiche per i parassiti. Il substrato genetico delle manifestazioni allergiche, responsabile dell’eccessiva risposta secondaria IgE verso alcuni antigeni non è sufficiente per la comparsa delle manifestazioni patologiche in quanto è necessaria la ripetuta presa di contatto con allergeni. Sono stati individuati diversi loci di suscettibilità per le manifestazioni allergiche, alcuni dei quali sono anche associati con il rischio di comparsa di malattie autoimmuni. Si tratta di una condizione poligenica, indotta dall’abnorme espressione di diversi geni e non di un solo. Tra gli effetti fenotipici del genotipo allergico ci sono:

- HLA di classe II in grado di presentare preferenzialmente peptidi, derivati dagli allergeni; - linfociti T helper forniti di un recettore che interagisce con il complesso HLA di classe II-peptide

allergenico; - eccessiva biosintesi di una o più citochine (IL-3, IL-4, IL-5, IL-13); - eccessiva biosintesi dei recettori per una o più delle suddette citochine o per altre molecole coinvolte

nelle reazioni di ipersensibilità di tipo I, quali ad esempio quella del recettore che interagisce con il frammento Fc delle IgE.

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La reazione allergica prevede 2 fasi: la sensibilizzazione e lo scatenamento. Nella sensibilizzazione è necessario il contatto con l’allergene che deve essere dotato di attività proteolitica per clivare le giunzioni tra le cellule epiteliali, guadagnando l’accesso al network delle cellule dendritiche. Gli allergeni possono penetrare nell’organismo per via inalatoria (polline, forfora animale, polvere, etc.), per via alimentare (pesce, latte, uova, etc.) e per via transcutanea (punture di insetti, farmaci, etc.). Un ruolo importante è attribuito alle cellule epiteliali che, oltre a svolgere la funzione di mantenimento dell’integrità della barriera fisica, esprimono recettori come i Toll like receptor (TLR) e, a seguito dell’interazione con l’allergene, producono la linfopoietina stromale timica (TSLP), il GM-CSF, IL-25 ed IL-33; tali citochine inducono una risposta di tipo Th2, inibendo la produzione dell’IL-12 che è una citochina chiave per la differenziazione in senso Th1, inducendo il rilascio di chemochine in grado dì reclutare i linfociti Th2. Inoltre queste citochine attivano i mastociti ed i basofili, che rappresentano un’importante fonte di IL-4 che amplifica ulteriormente la differenziazione dei linfociti T naive in senso Th2, dando avvio alla fase di sensibilizzazione. I basofili ematici e tissutali fungono anche da APC in grado di indurre la differenziazione dei linfociti T naive in senso Th2 in risposta agli allergeni e agli elminti. I basofili producono grandi quantità di IL-4 ed IL-13, quest’ultima partecipa alla reazione allergica inducendo la formazione di muco, il reclutamento degli eosinofili e di altre cellule infiammatorie mediante la produzione di eotassina. Punto chiave nella fase di sensibilizzazione è la produzione di IgE allergene-specifiche da parte dei linfociti B mediata dall’IL-4 e dall’IL13. Le IgE rappresentano in condizioni fisiologiche una minima frazione delle Ig totali ed esplicano i loro effetti biologici legando un recettore ad alta affinità per la regione Fc (FcεRI), presente su mastociti e basofili. Dopo la fase di sensibilizzazione, che si conclude con l’adesione della porzione Fc delle IgE allergene-specifiche sulla membrana delle cellule effettrici, è necessario un secondo contatto con l’allergene per avere la fase di scatenamento. Tale allergene deve essere bivalente perché deve legarsi con un frammento Fab di una IgE adesa alla membrana mastocitaria e con un frammento Fab di una seconda IgE, sempre adesa alla membrana mastocitaria in posizione limitrofa alla precedente. Si determina così la formazione di un ponte tra 2 IgE contigue adese alla membrana plasmatica delle cellule bersaglio. Le cellule effettrici di queste reazioni sono i basofili ematici, i mastociti mucosali o connettivali e gli eosinofili. Tutti i tipi di mastociti contengono idrolasi acide, quelli localizzati a livello delle mucose contengono modeste quantità di istamina, quelli localizzati a livello connettivale contengono elevate quantità di istamina. Entrambi sono in grado di rilasciare sia prostaglandine D2 che leucotriene C4, risultanti dal metabolismo dell’acido arachidonico; inoltre i mastociti mucosali hanno uno sviluppo T dipendente, al contrario di quelli connettivali. I mastociti contengono elevati livelli di TNF-α preformato che può essere immediatamente rilasciato in seguito alla stimolazione del mastocita, insieme all’IL-1α, modulando l’espressione di molecole di adesione sulle cellule degli endoteli vascolari, determinando, nelle fasi tardive di alcune reazioni allergiche, infiltrazione leucocitaria. A seguito dell’interazione dell’allergene con i frammenti Fab di 2 IgE adese in posizione limitrofa sulla membrana plasmatica delle cellule effettrici, si libera il contenuto dei granuli e si ha la sintesi ex-novo dei mediatori di natura lipidica. I principali mediatori rilasciati sono l’istamina e i prodotti del metabolismo dei fosfolipidi di membrana da parte della fosfolipasi A2 (prostaglandine, leucotrieni e PAF). L’istamina svolge la sua azione agendo su 4 diversi tipi di recettori (H1, H2, H3 e H4) distribuiti su cellule muscolari lisce, linfociti, terminazioni nervose, mastociti. Gli effetti dell’interazione istamina-recettore sono mediati da variazioni di livelli intracellulari di nucleotidi ciclici (cGMP e cAMP). I principali effetti indotti dal rilascio dell’istamina nelle reazioni di ipersensibilità sono:

- dilatazione delle arteriole; - aumento della permeabilità capillare con conseguente edema; - ipotensione; - broncocostrizione.

Le prostaglandine derivano dal metabolismo dell’acido arachidonico liberato dai fosfolipidi di membrana per azione della fosfolipasi A2: l’enzima coinvolto è la cicioossigenasi (COX). Esse causano aumento della permeabilità vascolare, vasodilatazione periferica, ipotensione, broncocostrizione e azione chemiotattica sui neutrofili.

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Le leucotrieni, prodotte tramite l’enzima 5-lipoossigenasi, hanno azione chemiotattica, causando contrazione della muscolatura liscia, aumento della permeabilità vascolare, vasodilatazione, secrezione di muco da parte delle cellule delle vie aeree. Il PAF (fattore attivante le piastrine) deriva dal metabolismo dei fosfolipidi di membrana ed in particolare dalla fosfatidilcolina. Esso viene sintetizzato da mastociti, basofili, neutrofili ed eosinofili, cellule NK, fibroblasti, monociti macrofagi e cellule endoteliali. Il PAF determina broncocostrizione, effetto chemiotattico sugli eosinofili e basofili, iperreattività bronchiale all’istamina e ipotensione per rilassamento della muscolatura liscia vascolare. Il PAF concorre alla comparsa della fase tardiva della reazione attivando i leucociti infiammatori. Anche gli eosinofili svolgono un molo importante nelle reazioni di ipersensibilità di tipo I, infatti vengono reclutati nel sito di flogosi dove rilasciano alcuni mediatori, fra cui leucotriene C4, PAF, ma soprattutto la Proteina Basica Maggiore (MBP), la Proteina Cationica degli eosinofili (ECP) e la perossidasi (EPO), mediatori del danno tissutale.

Asma bronchiale L’asma è una malattia caratterizzata da attacchi acuti di dispnea indotti da agenti diversi o dall’esercizio fisico, accompagnati da segni clinici di ostruzione bronchiale, totalmente o parzialmente reversibili tra un attacco e l’altro e accompagnata da iperresponsività bronchiale non specifica (irritabilità), caratterizzata dalla tendenza alla costrizione bronchiale in risposta a vari stimoli. I fenomeni responsabili dell’asma sono:

- il diffuso restringimento dei bronchi di grosso e medio calibro per contrazione della muscolatura bronchiale;

- la presenza di secrezioni dense che formano tappi di muco a livello dei bronchi; - l’edema della mucosa e della sottomucosa.

Istologicamente il reperto tipico è un infiltrato cellulare della mucosa bronchiale costituito da eosinofili, mastociti, macrofagi e linfociti. L’asma è spesso associata all’atopia, termine con il quale si indica una predisposizione genetica di alcuni individui a sintetizzare preferenzialmente IgE in risposta ad uno stimolo antigenico, di solito per via inalatoria. Manifestazioni allergiche associate sono la rinite o febbre da fieno, la congiuntivite allergica e la dermatite atopica. In pazienti con asma atopico o altre forme di asma allergico, l’inalazione dell’allergene provoca una reazione di broncocostrizione immediata, con un picco dopo 15-20 minuti dal contatto con l’allergene e una ripresa in circa 1 ora; tale reazione è accompagnata dalla liberazione di istamina, prostaglandine 2 e leucotriene C4. Alcuni pazienti possono andare incontro ad una reazione tardiva che sembra essere associata alla presenza degli eosinofili attivati, i quali vengono attratti nel sito di flogosi in seguito all’azione dell’IL-5 che li rende più sensibili all’azione chemiotattica di PAF e di C5a; inoltre l’IL-3 e l’IL-5 determinano un’aumentata espressione di molecole di adesione. Nei granuli degli eosinofili sono contenute proteine cationiche (ECP) e basiche (MBP) che contribuiscono al danno delle cellule dell’epitelio bronchiale stimolato dall’IL-13. Uno stato di iperresponsività protratto nel tempo porta alla cronicizzazione della malattia (male asmatico) ed al progressivo aggravamento della sintomatologia, con proliferazione delle cellule muscolari lisce bronchiali, angiogenesi, fibrosi e proliferazione dei nervi. IPERSENSIBILITÀ DI TIPO II: REAZIONI CITOTOSSICHE L’ipersensibilità di tipo II consiste nell’interazione tra anticorpi circolanti (IgM o IgG) ed antigeni di superficie cellulare o su di essa presenti. A tale reazione segue la distruzione delle cellule bersaglio che può essere dovuta alla lisi mediata dal complemento o da cellule killer grazie al processo di opsonizzazione. Le reazioni citotossiche riguardano prevalentemente cellule del sangue circolante e cellule endoteliali. Più frequentemente sono coinvolti i globuli rossi i quali presentano sulla membrana cellulare diversi sistemi antigenici, di cui 2 sono altamente immunogeni (il sistema AB0 e quello Rh). Le reazioni di ipersensibilità di tipo II più note sono la reazione da incompatibilità trasfusionale AB0, la malattia emolitica del neonato e le reazioni di ipersensibilità indotte da farmaci.

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Reazione da incompatibilità trasfusionale AB0 Il sangue umano si classifica in 4 gruppi sanguigni a seconda della presenza o assenza di determinati agglutinogeni sulla membrana dei globuli rossi e di determinati anticorpi anti-globuli rossi (agglutinine) nel siero:

- Gruppo A, presenza dell’agglutinogeno A sui globuli rossi e di agglutinine anti-B nel siero; - Gruppo B, presenza dell’agglutinogeno B sui globuli rossi e di agglutinine anti-A nel siero; - Gruppo AB, presenza di tutte e 2 gli agglutinogeni sui globuli rossi ed assenza di agglutinine anti-A e

anti-B nel siero; - Gruppo 0, assenza di agglutinogeni sui globuli rossi e presenza di agglutinine anti-A e anti-B nel siero.

Le strutture antigeniche AB0 vengono ereditate come carattere autosomico mendeliano e sono codificate da 3 geni su ciascuno dei 2 cromosomi: gene A, gene B, gene H (i primi 2 codominano). Le strutture chimiche che determinano la specificità di gruppo sono delle sostanze complesse di tipo glicolipidico sulla membrana dei globuli rossi o di tipo glicoproteico nelle secrezioni; in entrambi i casi la specificità è determinata dalla componente glucidica terminale della macromolecola, di cui fanno parte 3 zuccheri: N-Acetil-D-Galattosamina, il D-Galattosio e l’L-Fucosio. Eccetto lo zucchero terminale, le catene glucidiche sono identiche. Quindi i geni del locus AB0 agiscono codificando enzimi del tipo glucosiltransferasi, capaci di inserire zuccheri differenti su una catena la cui estremità terminale è rappresentala da L-Fucosio. Le agglutinine gruppo-specifiche (anti-A e anti-B) presenti nel plasma appartengono alla classe IgM e sono considerate anticorpi naturali in quanto la loro comparsa non è legata ad una stimolazione; l’immunizzazione inapparente avviene ad opera di antigeni eterogenetici (cioè sintetizzati da specie diverse con in comune tutti o parte dei gruppi determinanti) presenti in batteri della flora intestinale o in cellule vegetali introdotte con l’alimentazione. La reazione trasfusionale da incompatibilità AB0, che si manifesta a seguito di una trasfusione di sangue AB0 incompatibile, determina la reazione emolitica acuta intravascolare: le agglutinine anti-A e anti-B attivano rapidamente il complemento, causando non solo l’emolisi intravascolare con conseguente emoglobinuria e danno renale, ma anche l’attivazione della cascata coagulativa ed il rilascio di ammine vasoattive. Questi eventi possono provocare alterazioni vasomotorie e/o coagulazione intravascolare disseminata (CID), nonché insufficienza cardiovascolare e renale, ipotensione e shock. La reazione trasfusionale da incompatibilità AB0 può essere provocata sia dalla reazione tra le isoagglutinine del ricevente ed i rispettivi agglutinogeni espressi sulla superficie dei globuli rossi del sangue trasfuso, sia dalla reazione delle isoagglutinine del sangue trasfuso con gli agglutinogeni espressi dai globuli rossi del ricevente. La seconda è generalmente meno imponente della prima non solo perché le isoagglutinine presenti nel sangue trasfuso vengono diluite nel sangue del ricevente, ma anche perché esse sono presenti in numero limitato in confronto al numero dei globuli rossi presenti nel sangue del ricevente. In caso di indisponibilità di sangue dello stesso gruppo sanguigno, è possibile ricorrere a trasfusioni di sangue appartenente ad un altro gruppo in cui non siano contenuti eritrociti esprimenti agglutinogeni riconoscibili dalle agglutinine anti-A ed anti-B del ricevente. I soggetti di gruppo 0 sono stati, pertanto, definiti donatori universali perché i loro eritrociti sono privi di agglutinogeni A e B. I soggetti di gruppo AB, invece, sono stati definiti riceventi universali in quanto possono ricevere sangue appartenente a qualsiasi gruppo, essendo essi privi di agglutinine anti-A ed anti-B. Malattia emolitica del neonato II sistema Rh è costituito da un mosaico di antigeni chiamati C, c, D, E, e. La positività Rh è determinata dalla presenza dell’antigene D, di gran lunga il più immunogeno dei 5 antigeni. Gli antigeni del sistema Rh sono codificati da 2 geni altamente omologhi: uno codifica per la proteina D mentre l’altro codifica per le restanti. La determinazione del fenotipo si effettua cimentando i globuli rossi dell’individuo con i diversi anticorpi anti-C, anti-D, anti-E, anti-c e anti-e separatamente. Dalla positività o dalla negatività della reazione è possibile individuare gli antigeni presenti e prospettare il fenotipo. Gli anticorpi anti Rh non si trovano come anticorpi naturali ma la loro produzione può essere stimolata in un organismo Rh negativo dal contatto con eritrociti Rh positivi: ciò si verifica nelle reazioni trasfusionali con sangue Rh incompatibile e nell’incompatibilità materno-fetale, causata dalla produzione di anticorpi anti Rh da parte della madre Rh negativa verso gli eritrociti del feto Rh positivi.

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Normalmente la circolazione materna e quella fetale non sono completamente separate dalla barriera placentare e piccole quantità di sangue fetale passano nella circolazione materna e stimolano la formazione di anticorpi anti Rh della classe IgM: l’immunizzazione può avvenire anche in occasione del parto. Nel corso di una seconda gravidanza Rh incompatibile, il passaggio di globuli rossi fetali alla madre determina una risposta secondaria da parte della madre, già sensibilizzata all’antigene D durante la prima gravidanza, con conseguente massiva produzione di IgG anti Rh (anti-D) che, attraversando la barriera placentare, raggiungono la circolazione fetale e causano la malattia emolitica del neonato. I globuli rossi del neonato, opsonizzati dalle IgG anti Rh di origine materna, vengono rapidamente fagocitati dai macrofagi splenici senza emolisi intravascolare, dato che lo scarso numero di antigeni Rh espressi dal globulo rosso non consente l’attivazione del complemento né la agglutinazione diretta dei globuli rossi. L’entità del danno nella incompatibilità materno-fetale varia. Si possono riscontrare cioè:

- morte intrauterina, tra la 25a e la 35a settimana di gravidanza; - idrope fetale (accumulo di fluidi); - ittero grave neonatale con danno cerebrale.

Per evidenziare la presenza di anticorpi anti Rh si esegue il test di Coombs, che utilizza un siero anti IgG umane (siero di Coombs). Il test evidenzia sia la presenza di anticorpi materni anti Rh adesi ai globuli rossi del feto o del neonato (test di Coombs diretto) che la presenza degli stessi nel siero della madre (test di Coombs indiretto). Poiché, a differenza degli anticorpi diretti verso gli antigeni del sistema AB0, gli anticorpi anti-Rh non inducono agglutinazione dei globuli rossi, la presenza di essi è svelabile soltanto con il test di Coombs diretto. Il test è positivo quando la reazione induce agglutinazione dei globuli rossi, indice del fatto che su di essi sono adesi anticorpi anti Rh. Col test di Coombs indiretto, invece, si mettono in evidenza gli anticorpi anti Rh presenti nel siero della madre: questo viene dapprima incubato con globuli rossi Rh positivi in modo che gli anticorpi materni, se presenti, possano legarsi ai corrispondenti antigeni e, quindi, ai globuli rossi così trattati viene aggiunto il siero di Coombs che induce agglutinazione di essi soltanto se nel siero materno sono presenti anticorpi anti Rh. Negli ultimi decenni la malattia da incompatibilità è divenuta di raro riscontro essendo possibile prevenire la isoimmunizzazione materna somministrando alle madri Rh negative che partoriranno un figlio Rh positivo una dose di immunoglobuline umane anti-D entro 72 ore dal parto. Per quanto riguarda la pratica trasfusionale si ricorda che è indispensabile evitare la trasfusione di sangue Rh+ in riceventi Rh-. Reazioni di ipersensibilità di tipo II indotte da farmaci Alcuni farmaci possono dar luogo a reazioni di ipersensibilità di tipo II: per esempio, la penicillina e i suoi derivati metabolici fungono da apteni, si legano alle strutture proteiche di membrana dei globuli rossi, inducendo la sintesi di anticorpi che si legano alle cellule, provocando la lisi per attivazione del complemento. Nella maggioranza dei casi, si tratta di forme autolimitanti che regrediscono con la sospensione della somministrazione del farmaco ma in alcuni casi la patologia non regredisce alla sospensione del farmaco. IPERSENSIBILITÀ DI TIPO III L’ipersensibilità di tipo III è caratterizzata dalla formazione di immunocomplessi che, attivando il complemento e provocando il richiamo e l’attivazione delle cellule polimorfonucleate, determinano danno nel tessuto in cui si depositano. Nei primi giorni (7°-15° giorno) dopo l’inoculazione dell’antigene sono presenti immunocomplessi in eccesso di antigene, solubili, in grado di attivare il complemento con la formazione dei fattori C3a e C5a, che liberano sostanze vasoattive da parte delle piastrine con aumento della permeabilità vasale; successivamente si formano immunocomplessi all’equivalenza che hanno la maggiore tendenza a precipitare ma sono facilmente fagocitabili e normalmente non attraversano la parete endoteliale; infine si formano immunocomplessi con eccesso di anticorpo che hanno funzioni biologiche simili ai precedenti. L’induzione della patologia da immunocomplessi dipende da:

- l’antigene che deve essere fortemente immunogeno, in quantità sufficientemente elevata e presente per un periodo di tempo sufficientemente lungo;

- caratteristiche degli immunocomplessi (i più voluminosi sono fagocitati, i più piccoli depositati); - clearance degli immunocomplessi, che dipende da fagocitosi efficiente e dal complemento.

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Le malattie da immunocomplessi si manifestano a carico di alcuni organi (rene, articolazioni) che ne favoriscono la deposizione. L’antigene solubile si complessa con l’anticorpo lungo le pareti dei vasi: questo complesso attiva il complemento per via classica o alternativa e vengono rilasciati i fattori C3a e C5a, pro-infiammatori e chemiotattici, che richiamano piastrine e neutrofili; questi ultimi fagocitano gli immunocomplessi, liberando enzimi lisosomiali quali catepsine D ed E, elastasi, collagenasi che determinano lesioni nei differenti organi bersaglio. Gli immunocomplessi possono essere visualizzati nei tessuti danneggiati mediante tecniche di immunofluorescenza, inoltre gli immunocomplessi circolanti si evidenziano mediante il test di fissazione del C1q ma il loro ritrovamento non permette di confermare o di escludere la diagnosi sia perché gli immunocomplessi dosati in circolo non sono necessariamente causa di malattia, sia perché, anche in caso di patologia, è possibile non trovare livelli elevati di immunocomplessi in circolo. Modelli sperimentali di malattie da immunocomplessi sono la Reazione di Arthus e la Malattia da siero acuta e cronica. Reazione di Arthus La reazione di Arthus rappresenta la manifestazione sperimentalmente indotta degli effetti locali cutanei delle reazioni da immunocomplessi; è come una vasculite acuta, caratterizzata da danno a livello delle pareti vasali, indotta dalla somministrazione di antigene nella cute di un animale iperimmunizzato. La lesione si sviluppa rapidamente e consiste in edema, emorragia e necrosi. Malattia da siero La malattia da siero è caratterizzata da lesioni vascolari, articolari, cardiache, renali e cutanee che compaiono in seguito all’iniezione di un siero eterologo; la reazione induce glomerulonefrite e vasculite. La glomerulonefrite comprende un gran numero di lesioni flogistiche a carico dell’apparato filtrante del rene, clinicamente caratterizzate da proteinuria, ematuria, ipertensione, edema fino all’insufficienza renale. È caratterizzata dalla proliferazione delle cellule endoteliali e del mesangio, con restringimento del lume capillare, scarso accumulo di neutrofili nel glomerulo, depositi densi sparsi lungo la membrana basale. Le lesioni regrediscono in poche settimane. La vasculite istologicamente presenta:

- accumulo sottoendoteliale di cellule mononucleate a livello dell’aorta e dei vasi polmonari; - necrosi della tonaca media con infiltrazione di leucociti, soprattutto neutrofili; - distruzione della membrana elastica interna a livello dei vasi di medio calibro (come nel cuore); - raramente necrosi fibrinoide della tonaca media con scarsa infiltrazione leucocitaria.

IPERSENSIBILITÀ DI TIPO IV: IPERSENSIBILITÀ RITARDATA L’ipersensibilità ritardata è una reazione mediata da linfociti T sensibilizzati e comprende le classiche reazioni di ipersensibilità provocate dai linfociti T CD4+ e la citotossicità cellulare diretta mediata dai linfociti T CD8+, le cui cellule effettrici finali sono rappresentate dai macrofagi. Questa reazione è alla base di meccanismi difensivi contro batteri, virus, miceti, protozoi, parassiti intracellulari ed interviene in reazioni di istocompatibilità quali rigetto di trapianti, reazioni di trapianto contro l’ospite, in malattie autoimmuni, in alcune forme di ipersensibilità da contatto. Reazione alla tubercolina L’inoculo intradermico (reazione di Mantoux) o sottocute in soggetti sensibilizzati di derivati antigenici di natura proteica del bacillo tubercolare (Tubercolina e il derivato proteico purificato) dà luogo, dopo 48-72 ore, alla reazione di ipersensibilità ritardata, caratterizzata da eritema nella zona dell’inoculo, accumulo e proliferazione di elementi linfo-monocitari attorno alle piccole vene del derma. Tale test viene usato per la diagnosi di infezione in atto o pregressa da Mycobacterium tuberculosis, ma è gravato da un’elevata percentuale di falsi positivi (nei soggetti vaccinati con il bacillo di Calmett e Guerin, poiché il derivato proteico purificato contiene proteine in comune sia con micobatteri che con il vaccino) e falsi negativi (nei soggetti con infezione da HIV o Paramixovirus, responsabili di immunosoppressione dei linfociti T o nei soggetti che utilizzano farmaci immunosoppressivi antiblastici che inibiscono l’attivazione dei linfociti T). Reazione granulomatosa La reazione granulomatosa si verifica come conseguenza della persistenza di un agente patogeno intracellulare o di un corpo estraneo. La persistenza determina in entrambi i casi l’attivazione di macrofagi

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che si differenziano in cellule epitelioidi, che possono fondersi tra di loro a formare cellule multinucleate (fino a 50 nuclei) chiamate cellule giganti. Il rilascio dei mediatori da parte dei macrofagi presenti nel sito di infiammazione determina il reclutamento di altre cellule del sistema immunitario con formazione, dopo almeno 28 giorni, di un granuloma che ha la funzione di arginare o contenere l’agente patogeno. L’evoluzione del granuloma esita in un danno tissutale rappresentato dall’attivazione dei fibroblasti che rilasciano dei fattori che determinano la sostituzione di tessuto fibroso con conseguente perdita di funzionalità dell’organo. Dermatite allergica da contatto La dermatite allergica da contatto è una forma di ipersensibilità ritardata nella quale l’antigene viene a contatto con la cute legandosi covalentemente ad alcune proteine e formando con esse un neoantigene. Questo viene captato dalla cellula di Langherans, che svolge la funzione di cellula presentante l’antigene che, nel linfonodo drenante il sito di ingresso dell’antigene, lo presenta ai linfociti T CD4 naive (sensibilizzazione); tali linfociti differenziati in cellule effettrici sono già specifici per l’antigene e si attivano non appena incontrano nuovamente l’antigene nei diversi distretti anatomici. Il linfocita T antigene-specifico, che inizia la reazione, induce il rilascio di sostanze vasopermeabilizzanti da parte di mastociti presenti nel sito di applicazione dell’antigene; il rilascio di tali sostanze permette il passaggio nel distretto extravascolare dei linfociti T effettori i quali, mediante la produzione di citochine come IL-2, TNF-α, IFN-ɣ, reclutano altri leucociti non antigene-specifici, che andranno a costituire l’infiltrato cellulare. L’ipersensibilità ritardata prevede anche l’intervento di linfociti CD8 presenti nell’infiltrato intra-epidermico a distanza di 48 ore e l’attivazione dei cheratinociti, con conseguente desquamazione nella zona cutanea interessata. Istologicamente si evidenzia la spongiosi dell’epidermide, cioè la presenza di vacuoli che confluiscono in microvescicole a contenuto limpido, probabile conseguenza non tanto dell’aumento della permeabilità vascolare a livello della giunzione dermo-epidermica, quanto della distruzione, ad opera dei linfociti CD8, dei coniugati cellula epiteliale/antigene. IPERSENSIBILITÀ DI TIPO V O STIMOLATORIA L’ipersensibilità di tipo V è sostenuta dalla sintesi di autoanticorpi diretti verso recettori di membrana ed in grado, quando reagisce con essi, di attivarli, mimando l’azione espletata dal ligando fisiologico. Questo avviene nel morbo di Flaiani-Basedow-Graves, responsabile di ipertiroidismo: gli autoanticorpi responsabili della patologia sono diretti verso epitopi del recettore del TSH e mimano l’azione esercitata da questo ormone, stimolando le cellule tiroidee a proliferare (da cui la comparsa di gozzo) e a sintetizzare e a rilasciare nel sangue ormoni tiroidei in eccesso, che causano ipertiroidismo. IPERSENSIBILITÀ DI TIPO VI (MEDIATA DA ANTICORPI E DA CELLULE KILLER) Le cellule effettrici dell’ipersensibilità di tipo VI sono dotate di attività citotossica (cellule NK, neutrofili, eosinofili e monocito-macrofagi). La reazione tra l’antigene e l’immunoglobulina adesa alla cellula effettrice comporta la trasduzione di un segnale che determina la secrezione di perforina e di granzimi, di cui la prima perfora la membrana della cellula bersaglio, mentre i secondi dopo essere penetrati attraverso i fori nel citoplasma di questa, degradano una serie di costituenti cellulari inducendo un effetto litico e la morte per apoptosi. IPERSENSIBILITÀ DI TIPO VII (INIBITORIE MEDIATE DA ANTICORPI) Nell’ipersensibilità di tipo VII, oltre ad autoanticorpi anti-recettore che inducono l’attivazione di essa, l’organismo può produrre autoanticorpi che reagendo col recettore ne determinano l’inattivazione funzionale. La progressiva debolezza muscolare, che è il sintomo principale della miastenia grave, è causata dalla formazione di IgG specifiche verso alcuni epitopi del recettore nicotinico per l’acetilcolina, espresso nella placca motrice della giunzione neuromuscolare e che viene danneggiato, risultando incapace di interagire col suo ligando fisiologico, che è per l’appunto l’acetilcolina, rilasciata dai motoneuroni. Anche nel diabete mellito insulino-resistente, il blocco funzionale dei recettori per l’insulina è prodotto da specifici anticorpi anti-recettore che, fissandosi ad esso, ne impediscono la reattività con l’ormone.

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TOLLERANZA IMMUNOLOGICA La tolleranza immunologica è la mancata responsività dei linfociti nei confronti di un antigene. Un individuo in condizioni normali è tollerante verso i propri antigeni, fenomeno noto come tolleranza verso il self. Questo è possibile perché i linfociti che riconoscono tramite il proprio recettore per l'antigene un antigene self vengono inattivati, subiscono modificazioni nella loro specificità o muoiono per apoptosi. La possibilità che un clone linfocitario riconosca un antigene self è reale poiché i processi di ricombinazione somatica, che sono alla base della diversificazione e della specificità dei recettori per gli antigeni dei linfociti, sono casuali. Se non esistesse il fenomeno della tolleranza immunologica un clone linfocitario con specificità verso un antigene self potrebbe scatenare una risposta immunitaria contro quell'antigene provocando un danno tissutale e mettendo a rischio la salute dell'individuo. Tale risposta immunitaria anomala verso antigeni self può sfociare in una patologia autoimmune. Un antigene che induce tolleranza viene detto tollerogeno mentre un antigene che induce una risposta immunitaria viene detto immunogeno; non è esclusa la possibilità che uno stesso antigene si comporti in entrambi i modi. Alcuni microrganismi patogeni e alcune cellule tumorali che sarebbero normalmente immunogene hanno sviluppato meccanismi tali da inibire la risposta immunitaria inducendo tolleranza nei linfociti. La tolleranza può essere centrale o periferica. La tolleranza centrale è indotta in linfociti immaturi autoreattivi nei confronti di antigeni degli organi linfoidi primari. Ciò permette che non vi siano linfociti B immaturi in grado di reagire contro gli antigeni self presenti nel midollo osseo e linfociti T immaturi in grado di reagire contro gli antigeni self nel timo. Questo fenomeno è possibile poiché durante la maturazione dei linfociti B nel midollo osseo e dei linfociti T nel timo, quei linfociti che riconoscono antigeni self ivi presenti subiscono delezione clonale e muoiono per apoptosi oppure, nel caso dei linfociti B, sono costretti a subire un processo di modifica recettoriale che non li renderà più reattivi verso il self. Una piccola parte dei linfociti T CD4+ reattivi verso il self può però differenziarsi in linfociti T CD4+ regolatori evitando l'apoptosi. La tolleranza periferica è indotta in linfociti maturi autoreattivi nei confronti di antigeni self degli organi linfoidi secondari e nei tessuti periferici e, come tale, costituisce il meccanismo di tolleranza più importante dell'organismo. I linfociti che rispondono ad antigeni self negli organi linfoidi secondari subiscono segnali di morte cellulare per apoptosi. In realtà esiste una terza possibilità, cioè quella che cloni linfocitari che avrebbero specificità verso una molecola self una volta incontratala non rispondano e non scatenino quindi una risposta autoimmune. Tale fenomeno è detto anergia. TOLLERANZA NEI LINFOCITI T Tolleranza centrale dei linfociti T I linfociti T immaturi che esprimono recettori ad alta affinità contro antigeni self nel timo vengono eliminati per delezione clonale. Tali antigeni self sono presentati sotto forma di peptidi associati a molecole MHC dalle cellule APC presenti anch'esse nel timo ed interessa sia le cellule CD4+ che le cellule CD8+, con la differenza che alle prime il peptide è complessato con MHC di classe II e alle seconde con MHC di classe I. Vengono eliminati, in questo caso nella corticale del timo, anche quei linfociti che esprimono sia CD4 che CD8 (CD4+ e CD8+, doppi positivi). Il gene AIRE e la proteina da esso codificata sono implicati nel processo. La funzione della proteina AIRE, un fattore di trascrizione, è quella di promuovere l'espressione di antigeni tessuto-specifici nel timo e stimolare la produzione di proteine di presentazione dell'antigene (APC). In alternativa alla selezione negativa alcuni linfociti CD4+ possono differenziarsi in linfociti T regolatori, che esprimono CD25. I linfociti T regolatori sono coinvolti nell'inibizione e nella regolazione della risposta immunitaria contro antigeni self. È ignoto in base a che cosa l'organismo decida di indurre apoptosi piuttosto che differenziare un linfocita CD4+ in un linfocita T regolatore. I linfociti T maturi, che dal timo migrano nei tessuti linfoidi secondari grazie a questi processi di selezione negativa, non sono reattivi verso antigeni presenti nel timo. Tolleranza periferica dei linfociti T La tolleranza periferica dei linfociti T si esplica nella mancata responsività delle cellule T che riconoscono antigeni self nei tessuti periferici qualora vengano nuovamente a contatto con quegli stessi antigeni. Ci sono

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3 meccanismi con i quali si manifesta la tolleranza periferica: anergia, inibizione da parte di linfociti T regolatori e delezione mediante apoptosi. L'anergia, cioè l'incapacità di rispondere ad un dato antigene da parte di un linfocita, è determinata dall'incontro da parte dei linfociti T CD4+ con l'antigene in assenza del segnale costimolatore oppure in conseguenza di una mancata attivazione dell'immunità innata. La costimolazione da parte dell'interazione tra proteine come CD28 e CD80 (B7-1) rappresenta infatti il secondo segnale necessario per attivare il complesso del TCR oltre al legame di questo con il complesso MHC di classe II-peptide; tale segnale è fondamentale e se il complesso del TCR lega MHC-peptide senza costimolazione si verifica anergia. Il ruolo dell'immunità innata può essere secondario in assenza di una pregressa risposta immunitaria o di una sua attivazione poiché essa è in grado di effettuare una migliore discriminazione tra self e non self e quindi di norma non è reattiva contro il self. L'inibizione da linfociti T regolatori è un secondo meccanismo di tolleranza. I linfociti T regolatori sono cellule CD25+ che si differenziano dai linfociti CD4+ immaturi in seguito all'incontro con l'antigene per ragioni ancora non chiarite. La loro funzione è quella di modulare la risposta immunitaria e contribuire alla tolleranza al self. I linfociti T regolatori hanno alti livelli di CD25 e di IL-2R e la loro sopravvivenza è mantenuta da IL-2, TGF-β e dall'interazione di CD28 con B7-1 e B7-2. Nella differenziazione del linfocita T regolatore è coinvolto il gene foxp3 che codifica per un omonimo fattore di trascrizione. La tolleranza dei linfociti T regolatori si esplica mediante la secrezione di IL-10, che inibisce macrofagi e cellule dendritiche, dei principali componenti delle cellule APC, nonché di TGF-β che tende ad inibire la risposta dei linfociti e dei macrofagi. La delezione è la morte dei linfociti T reattivi per il self mediante apoptosi in assenza di infezione o infiammazione. A livello molecolare l'apoptosi si verifica quando il linfocita T riconosce una molecola self con il complesso del TCR ma non subisce costimolazione o coattivazione da parte dell'immunità innata. In questo caso viene attivata la proteina pro-apoptotica Bim che da inizio alla via intrinseca (nota anche come mitocondriale) dell'apoptosi. Nei linfociti che invece oltre a riconoscere l'antigene sono costimolati dall'interazione di CD28 con le proteine della famiglia B7 vi è invece una maggior produzione di proteine anti-apoptotiche come Bcl-2 o Bcl-x. L'apoptosi può anche essere attivata qualora un linfocita T venga ripetutamente stimolato dall'antigene. In questo caso aumenta l'espressione di Fas (CD95), la proteina di membrana principale responsabile dell'attivazione della via estrinseca dell'apoptosi quando legata a Fas-ligando (FasL). Un antigene ad alte concentrazioni o che si lega frequentemente ai linfociti T tende a indurre tolleranza, così come un antigene immesso nell'organismo per via endovenosa o per via orale oppure qualora sia particolarmente concentrato a livello degli organi linfoidi primari, poiché in grado di indurre tolleranza centrale. Infine un antigene può sviluppare tolleranza qualora non sia somministrato insieme ad adiuvanti che aumentino l'espressione delle molecole costimolatorie o quando queste sono già scarsamente espresse dalle APC. TOLLERANZA NEI LINFOCITI B Tolleranza centrale dei linfociti B I linfociti B immaturi che riconoscono antigeni self nel midollo osseo con elevata affinità muoiono per apoptosi oppure, tramite modifica recettoriale, sono costretti a cambiare la specificità del loro recettore per l'antigene. La modifica recettoriale consiste nell'attivazione degli enzimi Rag-1 e Rag-2 già coinvolti nella ricombinazione somatica al fine di modificare le catene leggere delle Ig e avere una nuova specificità. Se la modifica recettoriale fallisce, il linfocita B immaturo muore per apoptosi; se invece il linfocita B riconosce l'antigene self con bassa affinità, diventa anergico in caso di incontro con l'antigene e non muore per apoptosi. Tolleranza periferica dei linfociti B I linfociti B maturi che riconoscono antigeni self presenti nei tessuti periferici senza l'aiuto dei linfociti T helper muoiono per apoptosi o vengono inattivati. L'apoptosi avviene in modo simile a quella dei linfociti T, cioè attraverso l'induzione di Bim e l'attivazione della via intrinseca. I linfociti B che riconoscono antigeni self subiscono inoltre il fenomeno dell'esclusione follicolare per cui non possono migrare nei tessuti linfoidi periferici generando follicoli linfoidi e quindi autoanticorpi poiché diminuisce l'espressione del recettore per chemochine CXCR5. Un linfocita B può anche diventare anergico ed essere poi ucciso grazie all'interazione di Fas sulla sua membrana plasmatica con FasL espresso dai linfociti T helper.

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LA REAZIONE AUTOIMMUNE E LA MALATTIA AUTOIMMUNE Con malattia autoimmune si indica l'alterazione del sistema immunitario che dà origine a risposte immuni anomale o risposte autoimmuni, cioè dirette contro componenti dell'organismo umano in grado di determinare un'alterazione funzionale o anatomica dell’organo colpito. Il concetto di malattia autoimmune non coincide con quello di reazione autoimmune, dato che quest'ultima è in realtà estremamente frequente nell'ambito delle normali funzioni di difesa assolte dal sistema immunitario. Ad essere coinvolto può essere un organo oppure dei tessuti. L'elemento distintivo della malattia autoimmune è l'incapacità del sistema immunitario di spegnere i processi diretti contro l'organismo al termine di una fisiologica risposta infiammatoria o di prevenirne lo sviluppo al di fuori di essa. Il processo di attacco autoimmune contro antigeni può essere confinato a singoli organi (malattia autoimmune organo specifica o secondaria) o avere ricadute dirette o indirette sull'intero organismo (malattia autoimmune sistemica o primaria). Ciascuna malattia autoimmune presenta caratteristiche patogenetiche peculiari (a partire dal tipo di reazione autoimmune prevalente e dalla sede del danno): ciò determina un'ampia variabilità di quadri clinici. Sono ancora poco chiari i fattori determinanti nel provocare questo tipo di condizione patologica o nel renderla stabile nel tempo. L’ambiente è uno dei fattori coinvolti nella patogenesi delle malattie autoimmuni. Per esempio, alcune componenti di origine batterica o virale, come il lipopolisaccaride o il DNA batterico e virale, sono riconosciuti dalle cellule del sistema immune innato inducendo l’attivazione o la produzione di citochine e chemochine di natura infiammatoria, con conseguente aumento dell’espressione di molecole MHC di classe II sulle APC e la seguente produzione di citochine che indirizzano il tipo di risposta immune. In molti casi, i fattori ambientali possono essere considerati non la causa della malattia ma fattori che inducono il manifestarsi clinico di una condizione latente. Si suppone che parte della suscettibilità allo sviluppo di malattie autoimmuni sia dovuta a fattori genetici, determinanti ad esempio le caratteristiche biochimiche delle strutture preposte alla presentazione antigenica (MHC) o i meccanismi di sviluppo della tolleranza verso il self. Un esempio di controllo genetico sullo sviluppo della tolleranza verso il self è costituito dal gene AIRE (cromosoma 21q22.3), che promuove l'espressione di una vasta gamma di antigeni normalmente espressi a livello delle cellule dell'epitelio timico, contro le quali si cimentano i linfociti T immaturi in attesa di subire i processi di selezione negativa e positiva (che determinano la sopravvivenza dei soli linfociti T in grado di legarsi ai complessi MHC e di non rispondere eccessivamente conto il self). Mutazioni nel gene AIRE riducono significativamente gli antigeni self contro i quali il sistema immunitario viene addestrato a non reagire e di conseguenza, non appena i linfociti T vengono liberati dal timo nel torrente circolatorio, hanno luogo processi di sensibilizzazione del sistema immunitario contro componenti self, configurando il quadro di una grave malattia autoimmune nota come APS-1 (sindrome poliendocrina autoimmune di tipo 1). I fattori genetici possono essere: - specifici a organi, prevalentemente tiroide (tiroidite Hashimoto), stomaco (anemia perniciosa, gastrite cronica), pancreas (diabete mellito di tipo I), surreni (Malattia di Addison), intestino (rettocolite ulcerosa e malattia di Crohn); - non specifici a organi con reazioni immunitarie contro autoantigeni di diversi tessuti e deposito sistemico di complessi autoimmunitari, prevalentemente articolazioni (artrite reumatoide) e reni (Lupus eritematoso sistemico); - forme varie come ad esempio la sclerosi multipla e pemfigo.

Artrite Reumatoide L’artrite reumatoide è una malattia sistemica di tipo flogistico, ad andamento cronico, che colpisce le articolazioni distali, in genere bilateralmente, con periodi acuti e di remissione. La genesi della malattia è multifattoriale e i fattori che giocano un ruolo sono sia genetici che ambientali. Il gene maggiormente responsabile è il DRB1, mentre altri geni del locus MHC coinvolti sono HLA-DQA1 e i loci di MICA. Dal punto di vista immunologico, sia i linfociti B che i linfociti T che le citochine pro-infiammatorie giocano un ruolo chiave nella patogenesi della malattia. Il danno a livello delle articolazioni inizia con una sinovite, mediata sia da IL-17 prodotta dai linfociti Th17, che da citochine pro-infiammatorie come TNF-α, IL-6 e IL-1 prodotte dalle cellule mononucleate, dai fibroblasti sinoviali, dai condrociti e dagli osteoclasti.

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Tale processo flogistico determina con il tempo l’ipertrofia della sinovia che, espandendosi, distrugge la cartilagine ed il tessuto osseo provocando un danno irreversibile. Nel siero di pazienti affetti da artrite reumatoide si ritrovano anticorpi IgM o IgG diretti verso la porzione Fc delle loro stesse molecole IgG, denominati fattore reumatoide. Anche i linfociti T svolgono un ruolo nel determinare la comparsa del nodulo reumatoide nei pazienti affetti.

Lupus Eritematoso Sistemico Il lupus eritematoso sistemico è una malattia che colpisce prevalentemente il sesso femminile; i meccanismi patogenetici sono legati alla disregolazione dei linfociti T e B, alla produzione di autoanticorpi e alla formazione e deposizione di immunocomplessi. La maggior parte di autoanticorpi è diretto contro le nucleoproteine. Nella patogenesi della malattia giocano un ruolo importante fattori genetici: la malattia è associata con polimorfismi dei geni di fattori del complemento (C2, C4 e C1q), di molecole MHC (HLA-DR2 risulta associato con un esordio precoce della nefrite lupica), dell’IL-10, di CTLA-4, dei recettori dei frammenti Fc delle immunoglobuline e di altre molecole come IRF5 che gioca un ruolo importante nell’attivazione dell’IFN-1 e nella produzione di molecole pro-infiammatorie. Dal punto di vista immunologico, i linfociti T negli individui affetti mostrano un’esagerata risposta intracellulare; anche i linfociti B mostrano elevati livelli di attivazione a seguito di un incrementato tempo di contatto con l’antigene, che induce l’attivazione del BCR anche nei confronti di antigeni che normalmente non indurrebbero l’attivazione. Altro meccanismo patogenetico riguarda un’incrementata esposizione agli autoantigeni a seguito di alterazione nei meccanismi di apoptosi e di eliminazione dei frammenti cellulari.

Sclerosi Multipla La sclerosi multipla è una malattia del SNC caratterizzata da infiammazione, perdita della mielina e degenerazione degli assoni. La suscettibilità è poligenica ed è stato ampiamente studiato il ruolo di suscettibilità del gene HLA-DRB1 che conferisce inoltre un esordio precoce della malattia. Dal punto di vista immunologico, differenti tipi cellulari intervengono nella patogenesi della malattia. I linfociti T, che esprimono l’integrina α4β1, legano i ligandi come VCAM-1 e osteopontina sulle cellule endoteliali delle venule, vanno incontro a diapedesi e raggiungono il SNC dove, insieme alle cellule presentanti l’antigene (APC), producono citochine, osteopontina ed altre molecole responsabili del danno cellulare a carico degli oligodendrociti che producono la mielina. L’osteopontina, mediante il legame con l’integrina α4β1, determina l’attivazione del fattore di trascrizione nucleare NF-κβ che trasloca nel nucleo e promuove la trascrizione dei geni per i linfociti Th1 e Th17, fondamentali nella patogenesi della malattia. Inoltre, le plasmacellule producono anticorpi-mielina specifici che ulteriormente danneggiano la membrana costituita dalla mielina.

Pemfigo Il pemfigo è una patologia bollosa autoimmune della cute e delle mucose con alterazione dei meccanismi di adesione cellulare dell'epidermide (in particolare dei desmosomi) ad andamento cronico e prognosi potenzialmente fatale. Alla base della sua comparsa c'è una reazione autoimmune che coinvolge le IgG4 e raramente le IgA che reagiscono con glicoproteine presenti sui desmosomi dei cheratinociti, le desmogleine. In seguito a ciò viene indotto il rilascio di plasminogeno con distruzione dei ponti intercellulari e lesioni delle cellule dello strato epidermico interessato (fenomeno di acantolisi). Esistono varie forme:

- pemfigo volgare, profondo (le cellule si distaccano dallo strato spinoso); - pemfigo foliaceo, più superficiale (le cellule si distaccano dallo strato granuloso).

Prospettive terapeutiche La terapia delle malattie autoimmuni si basa sull’uso di farmaci immunosoppressori (corticosteroidi, ciclosporina A, Rapamicina, etc.) che bloccano le cellule effettrici ma non hanno effetto sui meccanismi che ne hanno indotto l’attivazione e pertanto essa permette di controllare i sintomi della malattia ma non la genesi della stessa. Per tale motivo la terapia con farmaci immunosoppressori debba continuare per tutta la vita, con notevoli ripercussioni sulla qualità della vita stessa dell’individuo.