Pastori a Pereto (L'Aquila) · 2014. 4. 28. · stione della pastorizia. Quanto raccolto è...

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Pastori a Pereto (L'Aquila) la vita a cura di Massimo Basilici edizioni Lo

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  • Pastori a Pereto (L'Aquila) la vita

    a cura di Massimo Basilici

    edizioni Lo

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    Introduzione

    Quando si parla di pastori o pecore in Abruzzo, si pensa alla transumanza,

    fenomeno migratorio che faceva spostare greggi dall’Abruzzo verso il Ta-

    voliere delle Puglie e viceversa. È questo un fenomeno rimasto in vita fino

    agli inizi del Novecento. Migliaia di pecore si spostavano, con l’arrivo

    dell’inverno, verso il Sud della penisola italiana, per avere disponibilità di

    erbe. I pastori transumanti portavano con sé strumenti a dorso di muli ed

    asini, utilizzati durante la trasferta: bisacce, tascapani, ciotole, posate, sga-

    belli, secchi, attrezzi per la tosatura, collari antilupo. Questi strumenti erano

    utili sia durante la trasferta in Puglia, sia quando stanziavano presso il pae-

    se. Gruppi di cani viaggiavano con i pastori e mantenevano raccolto il

    gregge.

    A Pereto questa migrazione non è avvenuta, secondo i racconti dei pastori

    locali ed in base alla carte manoscritte finora rintracciate. Il paese ha una

    piana, denominata Piana del Cavaliere, posta in basso all’abitato e tre valla-

    te montane. Queste distese d’erba situate in altura erano destinate a pascolo

    durante i mesi compresi da aprile ad agosto. In paese si sviluppò una tran-

    sumanza locale e non verso il Tavoliere delle Puglie. Consisteva nel far pa-

    scolare gli ovini in montagna nel periodo estivo; durante la stagione inver-

    nale, invece, il gregge utilizza i foraggi dei pascoli della Piana del Cavalie-

    re.

    Questi pascoli montani erano utilizzati anche per gli animali equini e bovi-

    ni. A queste movimentazioni di greggi locali si affiancavano spostamenti di

    greggi provenienti dal Lazio.

    È stata condotta una ricerca attraverso le testimonianze orali dei pastori an-

    cora viventi a Pereto e degli oggetti che si utilizzavano una volta per la ge-

    stione della pastorizia. Quanto raccolto è riportato nella presente pubblica-

    zione. L’obiettivo della ricerca è stato quello di raccontare la pastorizia a

    Pereto in base alle conoscenze degli anziani del luogo.

  • 2

    Ringrazio: Valentina Bove, Matilde Dondini, Antonio Giustini, Domenico

    Giustini, Ivan Giustini, Ivana Giustini, Romolo Giustini, Sonia Iannola, A-

    lessandro Ippoliti, Duccio Meuti, Fernando Meuti, Giovanni “Giovannino”

    Meuti, Massimo Meuti, Pierluigi Meuti, Anna “Annina” Sciò, Giacomo

    “Giacomino” Sciò, Camillo Vendetti, Sandro Ventura per le informazioni.

    Massimo Basilici

    Roma, 30 aprile 2014

    Note per questa pubblicazione

    Tutti gli oggetti mostrati in questa pubblicazione sono presenti in Pereto e

    sono originali, ovvero quelli che i pastori utilizzavano per la loro attività.

    Nella copertina della presente pubblicazione è riportata la foto di un gregge

    su Corso Umberto I, sotto le baracche edificate con il terremoto del 1915.

    L’edificio scolastico non era stato ancora costruito; la foto è datata fine an-

    ni Quaranta. Sono le pecore di Ottavio Iacuitti, conosciuto con il sopran-

    nome di sgherro.

  • 3

    I pastori

    In paese quasi tutte le famiglie allevavano le pecore e tra queste c'erano tre

    o quattro capre che andavano al pascolo con le pecore. Pochi allevavano

    esclusivamente le capre. Di seguito sono elencati i pastori che gli anziani

    del paese ricordano. Per alcuni è stato aggiunto il nomignolo o il sopran-

    nome per distinguerli, poiché esistevano degli omonimi. Per ognuno è stata

    cercata una fotografia da giovane; il numero apposto nella didascalia che

    accompagna l’immagine riguarda l'anno in cui potrebbe essere stata scatta-

    ta la foto. Non è stato seguito un ordine per le fotografie, a mano a mano

    che sono stati individuati dei nomi è stata inserita una fotografia nella lista.

    Gaspare “Caspirucciu” Meuti (Figura 1),

    Sante "Santino" Meuti (Figura 2),

    Giovanni “Giovannino” Meuti (Figura 3),

    Giacomo “Giacomino” Sciò (Figura 4),

    Romolo Giustini (Figura 5),

    Mario Vendetti (Figura 6), soprannominato mirupittu,

    Giovanni Leonio (Figura 7), soprannominato stizio,

    Alfonso Cristofari (Figura 8), chiamato Alfonso de Pennacchia,

    Marziantonio Iacuitti (Figura 9),

    Giovanni Iadeluca (Figura 10), soprannominato poietano,

    Mario Camerlengo (Figura 11), soprannominato maruzzo,

    Pietro Cappelluti (Figura 12), soprannominato caoluzzo,

    Gaetano Cristofari (Figura 13),

    Ottavio Cristofari (Figura 14),

    Alfonso Giustini (Figura 15),

    Berardino Giustini (Figura 16), soprannominato rucchitto,

    Berardino Giustini (Figura 17), soprannominato bidone,

    Francesco Giustini (Figura 18), chiamato Checco ‘e Nello,

    Giuseppe Iadeluca (Figura 19), soprannominato maccascianu,

    Giuseppe Iadeluca (Figura 20), soprannominato peppeantonio,

    Alfredo Nicolai (Figura 21), soprannominato ciocione,

    Dante Nicolai (Figura 22),

    Luigi Pelone (Figura 23), soprannominato bugiardella,

    Mario Rossi (Figura 24), soprannominato battente,

    Berardino Santese (Figura 25), soprannominato ‘ndinulei,

    Antonio Sciò (Figura 26), chiamato Antonio ‘ngicchememma,

    Antonio Sciò (Figura 27) soprannominato cialatta,

  • 4

    Giuseppe “Pippinu” Sciò (Figura 28), chiamato anche Ignazio,

    Luigi Sciò (Figura 29),

    Carlo Vendetti (Figura 30),

    Gustavo Vendetti (Figura 31),

    Nello Giustini (Figura 32), che portava al pascolo le capre sue e di altri

    Alfredo Malatesta (Figura 33), soprannominato ciuciù,

    Antonio Ranati (Figura 34), soprannominato u capraru,

    Antonio Ranati (Figura 35), soprannominato maggiorani,

    Ottavio Giustini (Figura 36),

    Giovanni Maria Iadeluca (Figura 37),

    Antonio Giustini (Figura 38),

    Giulio Cicchetti (Figura 39) che allevava solo capre,

    Giovanni Cicchetti (Figura 40), soprannominato bannella che allevava solo

    capre,

    Carmine “Carminucciu” Iadeluca (Figura 41), soprannominato di tinaru,

    Giovanni Iadeluca (Figura 42), soprannominato di pennecone,

    Ottavio Iacuitti (Figura 43), soprannominato di sgherro,

    Fernando Vendetti (Figura 44),

    Di queste persone non è stato possibile rintracciare una foto:

    Lino Meuti

    Mario Vendetti, soprannominato u bersagliere, che allevava solo le capre

    Giorgio Giustini

    Mario Giustini soprannominato poccio,

    Nicola Cicchetti che allevava solo capre.

    Giulio Iadeluca, #fratello di Carminucciu

    Giammicchele, quello centenario

    Michele ?

    In base al numero di pecore ed al numero di pastori, è stato raccontato che

    in paese le famiglie che vivevano di sola pastorizia erano:

    - I Meuti; - Gli Sciò (quelli della razza de ngicchememma); - I Cristofari.

  • 5

    Figura 1 - Meuti Gaspare, 1927

    Figura 2 - Meuti Sante, 1950

    Figura 3 - Meuti Giovanni, 1958

    Figura 4 - Sciò Giacomo, 2014

    Figura 5 - Giustini Romolo

    Figura 6 - Vendetti Mario, 1959

  • 6

    Figura 7 - Leonio Giovanni, 1941

    Figura 8 - Cristofari Alfonso, 1956

    Figura 9 - Iacuitti Marzioantonio

    Figura 10 - Iadeluca Giovanni, 1953

    Figura 11 - Camerlengo Mario, 1953

    Figura 12 - Cappelluti Pietro, 1941

  • 7

    Figura 13 - Cristofari Gaetano, 1931

    Figura 14 - Cristofari Ottavio, 1936

    Figura 15 - Giustini Alfonso, 1928

    Figura 16 - Giustini Berardino, 1941

    Figura 17 - Giustini Berardino, 1950

    Figura 18 - Giustini Francesco, 1951

  • 8

    Figura 19 - Iadeluca Giuseppe, 1954

    Figura 20 - Iadeluca Giuseppe, 1943

    Figura 21 - Nicolai Alfredo, 1940

    Figura 22 - Nicolai Dante, 1954

    Figura 23 - Pelone Luigi, 1938

    Figura 24 - Rossi Mario, 1953

  • 9

    Figura 25 - Santese Berardino, 1927

    Figura 26 - Sciò Antonio, 1951

    Figura 27 - Sciò Antonio, 1951

    Figura 28 - Sciò Giuseppe, 1942

    Figura 29 - Sciò Luigi, 1928

    Figura 30 - Vendetti Carlo, 1952

  • 10

    Figura 31 - Vendetti Gustavo, 1927

    Figura 32 - Giustini Nello, 1936

    Figura 33 - Malatesta Alfredo, 1941

    Figura 34 - Ranati Antonio, 1927

    Figura 35 - Ranati Antonio, 1931

    Figura 36 - Giustini Ottavio, 1951

  • 11

    Figura 37 - Iadeluca Giovanni Maria, 1951

    Figura 38 - Giustini Antonio, 2014

    Figura 39 - Cicchetti Giulio, 1954

    Figura 40 - Cicchetti Giovanni, 1951

    Figura 41 - Iadeluca Carmine

    Figura 42 - Iadeluca Giovanni

  • 12

    Figura 43 - Iacuitti Ottavio

    Figura 44 - Vendetti Fernando

    In paese non si utilizzava il termine gregge, per indicarlo si utilizzava l'e-

    spressione ‘na punta ‘e pecore. Quando il gregge era numeroso si utilizza-

    va l’espressione ‘na bella punta ‘e pecore. La punta era composta da alcu-

    ne decine di pecore, fino ad arrivare ad un centinaio. Non esisteva l'affida-

    mento delle pecore, in altre parole qualche possidente che dava in gestione

    giornaliera le proprie pecore a un pastore. Esisteva, invece, la soccida tra

    privati. Avveniva quando uno intendeva mettere su un gregge, ma non ave-

    va la disponibilità economica per costituirlo. Un proprietario acquistava le

    pecore, un pastore le governava per cinque anni. Al termine del periodo si

    scioglieva la soccida e si divideva tra le due parti il capitale (pecore, latte,

    formaggi, ecc.) in proporzione. Questo tipo di soccida non era svolto dalle

    locali confraternite, le quali costituivano soccide con gli animali bovini.

    Di seguito sono illustrati gli oggetti che il pastore portava con sé durante il

    pascolo. Per camminare utilizzava un bastone per l’appoggio e per guidare

    le pecore, ovvero per toccà le bestie. Quando qualcuna cercava di allonta-

    narsi dal gregge, il pastore la percuoteva con il bastone per farla ritornare

    tra le altre. Era un normale bastone. In Figura 45 è riportato il bastone di

    Giacomo Sciò (classe 1924), che ancora oggi, che ha smesso di portare le

    pecore da alcuni anni, utilizza per spostarsi.1 In Figura 46 è riportato il ba-

    stone utilizzato ancora da Giovannino Meuti, In Figura 47 è mostrato un

    particolare dell’impugnatura, che mostra la testa di una pecora.

    1 Giacomo Sciò è il pastore più anziano del paese.

  • 13

    Figura 45 - Bastone di Giacomo Sciò

    Figura 46 - Ba-stone di Giovan-

    nino Meuti

    Figura 47 - Bastone di Giovanni-no Meuti, particolare

    Attrezzo importante per il pastore era il fazzoletto. Questo, il più delle vol-

    te, era posto intorno al collo per proteggerlo dal freddo e dal sudore. A vol-

    te legato intorno all'addome. Era utilizzato per legature necessarie

    all’occorrenza o per contenere oggetti.

    Utile era l’ombrello, in tela colorata, di grosse dimensioni (Figura 48). Uno

    spago era legato alle estremità dell’ombrello e mediante questo spago il pa-

    store lo portava a tracolla, come un fucile.

    Era utilizzato un tascapane, fatto di stoffa, che conteneva la colazione e il

    pranzo da consumarsi durante il pascolo. È stato ricercato questo oggetto,

    ma con il passare del tempo si è distrutto.

  • 14

    Figura 48 - Ombrello

    L’acqua da bere durante il pascolo

    era contenuta in una borraccia stipa-

    ta nel tascapane. In Figura 49 è ri-

    portata la borraccia utilizzata da

    Giacomo Sciò. Alcuni utilizzavano

    anche delle cupellette, riempite con

    del vino.

    Per camminare erano calzati gli

    scarponi. Alcune di queste calzature,

    chi se lo poteva permettere, erano

    dotate di chiodi o grappe sotto la

    suola, per permettere una maggiore

    adesione al suolo. Per non farli rovi-

    nare, alcuni tipi avevano in punta e

    di dietro dei rinforzi di ferro come

    protezione.

    Figura 49 - Borraccia

    Queste calzature erano fondamentali per il pastore. Lo proteggevano dai

    terreni fangosi e dalla pioggia, facevano presa sui sassi, riparavano dal

  • 15

    freddo e tenevano il piede fresco durante il caldo estivo. Dagli intervistati

    non è stato evidenziato l’uso delle ciocie, indumento tipico dei pastori. Si

    racconta che le ciocie, fatte di pelle di pecora, fossero utilizzate per vanga-

    re.

    Agli scarponi erano associati i guardamacchie, costituiti da pezzi di pelle

    di pecora, legati intorno ai polpacci. Servivano per proteggere le parti basse

    delle gambe. In Figura 50 è mostrato un guardamacchia utilizzato dai pa-

    stori in epoche recenti, ma non quello che era realizzato con le pelli di pe-

    cora. Questo era posto intorno alla caviglia e tenuto stretto mediante le due

    fibbie. Quelli antichi erano legati con lo spago.

    ## guardamacchie vecchio

    Figura 50 - Guardamacchia

    In tempi antichi, per ripararsi dalle avversità si utilizzava un mantello, poi

    sostituito da giacconi impermeabili e poi da incerate. Il cappello a falda

    larga riparava dal sole, dalla pioggia e da altre intemperie. Questo era il

    corredo del pastore, oltre il vestiario.

    A volte, per tramandare la tradizione, durante il pascolo il pastore era af-

    fiancato dal figlio, il quale dava una mano nella gestione del gregge e nello

    stesso tempo imparava l’arte e i trucchi del mestiere.

  • 16

    Fondamentale per la gestione delle pecore era la presenza del cane. Questo

    era il compagno fisso del pastore durante il pascolo. In Figura 51 è riporta-

    to Antonio Sciò con uno dei suoi cani addetti al controllo del gregge. In e-

    poche recenti fu introdotto un tipo di cane che aggirava il gregge, facendo

    si che rimaneva sempre compatto durante il cammino o il pascolamento.

    Non è stato possibile ricavare, dalle interviste, il tipo di animale. Qualcuno

    ha segnalato che poteva appartenere alla razza del pastore maremmano.

    Quest'animale era il compagno di viaggio del pastore, nutrito con le ossa

    degli animali macellati dal pastore o dai macellai locali.

    Figura 51 - Antonio Sciò con un suo cane

    Il pascolo

    Il termine ovile, utilizzato per indicare il luogo coperto ove sono raccolte le

    pecore, non è utilizzato in paese, si utilizza la parola stalla. La giornata ti-

    pica del pastore era la seguente. Prima dello spuntare del sole il pastore si

    recava alla stalla e cominciava la sua giornata lavorativa. Le pecore passa-

  • 17

    vano la notte nella stalla, sia per essere difese da eventuali predatori, sia per

    stare al caldo.

    Il pastore governava le pecore dandogli del fieno, se il gregge non poteva

    uscire per le condizioni climatiche, e cominciava la mungitura

    (l’operazione era detta mette a magnà e a mugne). La durata della mungitu-

    ra dipendeva dalla quantità di latte disponibile da ogni singolo animale e

    dal numero di animali da mungere. Non erano utilizzate operazioni partico-

    lari, era avvicinata la pecora da mungere e iniziava la mungitura. Raccolto

    il latte da tutti gli animali, il sole era spuntato ed a questo punto il gregge si

    metteva in cammino uscendo dalla stalla.

    Per far uscire il gregge si aspettava che l’erba del pascolo fosse asciutta,

    poiché l’erba bagnata poteva far abortire le pecore incinte (le ficea scon-

    cià). Da alcuni intervistati questa è stata segnalata come legenda. La matti-

    na si cercava da dare alla pecora una maggiore quantità di erba per far pro-

    durre più latte. Quest'erba veniva indicata come erba netta, ovvero pulita,

    buona. Se quest'erba era bagnata, le pecore ne brucavano la sommità e

    camminandoci sopra ed essendo bagnata, la sporcavano e di conseguenza

    non la mangiavano più.

    Raggiunto il punto dove il gregge doveva

    pascolare, il pastore prendeva una posizione

    per osservarle. Nel gregge, una femmina

    portava un campanaccio allacciato al collo;

    questo animale era il punto di riferimento

    sia per il gregge, che per il pastore. In Figu-

    ra 52 è mostrato una vecchia campana,

    mentre in Figura 53 sono mostrate altre

    campane utilizzate da pastori. Questi stru-

    menti si dividevano in:

    - Campana, elemento di piccole dimen-sioni;

    - Campanaccio, di grosse dimensioni; - Bronzina, campana che emetteva un

    suono particolare.

    Figura 52 - Campana

  • 18

    Figura 53 - Campane

    Anticamente per riconoscere un animale del gregge, si praticavano dei tagli

    sulle orecchie, consistenti in fori, tacche o recisioni di parte del lobo

    dell’orecchio. Questa era una marchiatura che permetteva di riconoscere

    l’animale per tutta la sua vita, solo che questo segno era poco visibile da

    lontano.

    Poi si prese l'usanza di marcare le pecore con un simbolo apposto sulla la-

    na, simbolo di grosse dimensioni. Si marcavano con un liquido, chiamato la

    magra, di colore blu. Il liquido si realizzava mescolando terra blu con olio.

    Di questo metodo di marchiatura si è perso traccia, solo alcuni intervistati

    lo ricordano. In epoche recenti furono utilizzate, al posto dell’olio, delle

    vernici.

    Per marcarle si utilizzava un timbro (la merca) in ferro. Il timbro riportava

    le lettere del proprietario per riconoscere a chi apparteneva l’animale. Tra

    le varie merche rinvenute o descritte, si ricava che queste erano realizzate

    da un'asta terminante in un occhiello, utilizzato per poi appendere la merca

    dopo l’utilizzo. Alla parte opposta si trovavano riportate in ferro le iniziali

    del pastore. In Figura 54 è riportata la merca di Giacomo Sciò utilizzata per

    marcare le sue pecore.

  • 19

    Figura 54 - La merca di Giacomo Sciò

    È stata rintracciata la merca di Mario Rossi (Figura 55).

    Figura 55 - La merca di Mario Rossi

  • 20

    In Figura 56 è riportata la merca di Romolo Giustini,2 in Figura 57 è mo-

    strata quella di Santino Meuti ed in Figura 58 quella di Gaspare Meuti, pa-

    dre di Santino.

    Figura 56 - La merca di Romolo Giustini

    Figura 57 - La merca di Santino Meuti

    2 Realizzata da Ovidio Giammarco, fabbro di Pereto.

  • 21

    Figura 58 - Gaspare Meuti

    In un catino era versata la magra. Si bloccava la pecora, la merca era im-

    mersa nel liquido e poi poggiata sulla pelle della pecora. Ogni anno si tim-

    brava l’animale poiché con la tosatura e la crescita della lana, il marchio

    scompariva. Se c’erano proprietari di pecore con le stesse iniziali, si appo-

    neva il marchio o alla spalla o alla coscia, per distinguere gli animali dei

    proprietari che avevano le stesse iniziali.

    Quando due greggi si incontravano, i pastori cercavano di tenere le pecore

    distanti tra di loro per non farle mischiare (falle ‘nfrascà) e poi doverle se-

    parare con dispendio di tempo ed energia. Si faceva passare prima quello

    meno numeroso, il quale più rapidamente avrebbe lasciato il passo all’altro

    e quindi le opportunità che le pecore si mischiassero erano minori.

    Come tutti i ruminanti, gli ovini non possiedono gli incisivi superiori, men-

    tre gli inferiori sono molto taglienti e servono per recidere l’erba al pasco-

    lo.3 Le pecore vanno tenute vicine tra di loro, altrimenti queste mangiano le

    3 Dopo aver masticato in modo sommario il cibo, lo immettono nella cavità ruminale, dove

    subisce una prima grossolana digestione. Il cibo poi torna, sotto forma di “rigurgito”

    nella cavità boccale ove subisce la masticazione completa. Poi passare nell’omaso dove

    incomincia la prima vera fase di digestione.

  • 22

    cime delle erbe e danneggiano la parte rimanente, calpestando l’erba, spre-

    candola. Per questo motivo, a rotazione venivano pascolati più terreni, per

    avere sempre erba disponibile. La pecora quando è sazia si ferma, si corica

    per poi riprendere a pascolare dopo una o due ore.

    Durante il pascolo il pastore osservava il gregge, stando attendo che non

    sconfinasse, rispetto all’area del pascolo. Non aveva tempo per leggere.

    Qualche pastore, per passare il tempo, suonava l’organetto, ad esempio

    Santino Meuti. Non si ricorda se qualcuno suonasse la zampogna o il piffe-

    ro. Nel frattempo erano raccolte erbe o funghi per essere poi cucinati.

    La pecora mangia quasi tutte le erbe. Normalmente sa distinguere le piante

    velenose o tossiche dalle altre. L’erba medica è una dell'erbe preferite. Se-

    condo i racconti, se ne mangia tanta di quella che è ancora piccola, l'anima-

    le si gonfia con la possibile morte dell’animale. Questa situazione si verifi-

    cava per tutti i ruminanti. L’unico rimedio preso, qualora avessero fatto in-

    digestione di questa erba, era quello di tenere fermo l’animale con lo scopo

    di far sgonfiare l’addome.4

    In alcuni giorni il gregge era portato in prossimità di zone ove erano pre-

    senti pietre lisce, sopra le quali i pastori depositavano il sale da far mangia-

    re alle pecore. Queste località erano indicate con il termine salere. Il sale si

    acquistava in paese ed era somministrato ogni tanto. Non è stato possibile

    avere un dettaglio sulla frequenza della distribuzione o la quantità di sale

    fornito al singolo animale. Secondo alcuni intervistati gli era dato come in-

    tegratore alimentare, secondo altri per farle mangiare di più. Un'altra ver-

    sione indica che le erbe della montagna sono insipide e per farle mangiare

    si somministrava del sale.

    Le pecore bevevano almeno una volta il giorno; se il pascolo è verde, la pe-

    cora non è invogliata a bere. Se c’era disponibilità di acqua vicino dove

    stazionavano le pecore, le si portava a bere più volte nell’arco della giorna-

    ta. Non c’era un orario specifico per abbeverarle, dipendeva quando si tro-

    vavano in prossimità di un fontanile o di un ruscello.

    4 Questa azione oggi è considerata insufficiente, in quanto esistono altri metodi per com-

    battere questo caso.

  • 23

    Nel primo pomeriggio il gregge si rimetteva in moto per raggiungere il

    punto dove passare la notte. Bisognava ritornare prima che il sole tramon-

    tasse. Raggiunto il punto, si effettuava la mungitura della sera. Il latte rac-

    colto la sera era conservato per la mattina successiva, se era poco. Altri-

    menti si rifaceva il formaggio e la ricotta. Da evidenziare che durante il pe-

    riodo estivo era più facile che il latte non lavorato inacidisse e per questo si

    preferiva fare due cotture al giorno, ma queste dipendevano da quanto latte

    era disponibile.

    La vita delle pecore

    La pecora è un animale che ama vivere in gruppo. Non esiste una capo-

    gruppo, perché il primo che si muove è seguito dagli altri. È un animale a-

    bitudinario e quindi tende a seguire gli stessi percorsi e gli stessi sposta-

    menti. È mite, ma non pauroso come si crede, infatti, soprattutto in caso di

    difesa della prole, la madre attacca a testa bassa l’aggressore. Come la

    maggior parte degli animali, ha un buon fiuto, con il quale riesce a ricono-

    scere la propria prole e le altre pecore del gregge.

    Nel gregge si trovano queste tipologie di animali:

    Maschio Femmina Età

    abbacchio abbacchio Fino tre mesi

    agnello agnella tre mesi - un anno

    ciavarro [ciavarra] un anno - un anno e mezzo

    montone pecora da un anno e mezzo in poi

    Il termine ciavarra per la pecora è utilizzato impropriamente. È stato indi-

    cato come femminile del ciavarro, ma la femmina passa dallo stato di a-

    gnella a quello di pecora direttamente.

    Dagli anziani intervistati sono citati principalmente due razze5 di pecore al-

    levate in paese:

    - Maremmana, o nostrana, che dava lana più buona; - Sardegnola, bianca, che dava più latte.

    5 Le razze ovine in genere vengono divise in 3 gruppi: razze ovine specializzate nella pro-

    duzione di latte, nella produzione di carne e nella produzione di lana.

  • 24

    In realtà erano allevate pecore anche della razza Frisona, Siciliana, Faccia

    rossa ovvero Comisana.

    Nel gregge c’erano tre o quattro animali maschi (montoni) su un centinaio

    di pecore. In paese si utilizzava l’esclamazione venti a montone, per indica-

    re il rapporto di quanti montoni dovevano esserci per un gruppo di pecore.

    Un carattere distintivo tra i maschi e le femmine delle pecore è dato dalle

    corna che di norma sono presenti nel montone e mancano, in genere, nella

    pecora.6

    Le pecore sono fertili quasi ogni mese.7 I montoni avevano il compito di

    ingravidare le femmine.8 Con dei salti, ingravidavano più pecore al giorno.

    Secondo i racconti, ogni tre anni il montone andava rinnovato per tenere

    sana la razza del gregge. Dai racconti è emerso che questo ricambio era ne-

    cessario, solo che alcuni pastori, per motivi economici, non lo facevano. Un

    anno, per non aver cambiato il montone, uno dei pastori perse quasi qua-

    ranta abbacchi. Questi o nascevano morti o morivano dopo pochi giorni dal

    parto. Per chi viveva con il ricavato della vendita di abbacchi fu un colpo

    economico notevole.

    Le capre sono in grado di riprodursi per tutto l'anno e si facevano partori-

    scono una volta l'anno dando alla luce solitamente due gemelli, in alcuni

    casi anche tre.

    Il montone con il fiuto individua la pecora fertile e cerca di ingravidarla. Si

    faceva figliare due volte l'anno: Pasqua (il periodo doveva essere tra marzo

    ed aprile) e Natale (dicembre). Così si sarebbero venduti gli agnelli per

    queste due particolari ricorrenze. Per non farle rimanere incinte prima del

    mese pianificato, il pastore utilizzava un accorgimento nei confronti dei

    maschi del gregge. Si metteva la parannanzi agliu montone, ovvero sotto la

    pancia del maschio era legato un pezzo di sacco, tela di iuta, per non per-

    mettere l'accoppiamento.

    6 Le pecore, secondo la razza, possono avere o non avere le corna e alle volte le possiede

    anche la femmina. 7 Ovvero hanno un ciclo estrale, cioè quella fase del ciclo ovarico in cui si ha l'ovulazione

    e la femmina accetta il maschio, ogni 19 – 21 giorni ed fertile per un periodo di 48 ore . 8 Il momento in cui i maschi producono spermatozoi e le femmine ovuli fecondabili è detta

    pubertà. La pecora la raggiunge a circa 6-7 mesi. Quindi possono accoppiarsi tra di loro

    per procreare.

  • 25

    La gestazione della pecora dura cinque mesi. Partoriva in genere un agnel-

    lo, qualche volta ne faceva due. Secondo i racconto non c’era un alto grado

    di mortalità nel parto, invece era più facile che alcune pecore morissero di

    fame per mancanza di erba da mangiare.

    Trascorsi i cinque mesi di gravidanza la pecora, manifesta sintomi di irre-

    quietezza belando e muovendosi di continuo. Esce del liquido dalle mam-

    melle di colore giallo, il colostro, e da dietro fuoriesce la placenta che si

    mostrava come un filo rosso appeso. In pochi minuti avviene il parto.

    La madre incomincia a leccare il nascituro. Dopo pochi minuti l’agnello è

    in grado di stare in piedi, barcollando si dirige per istinto verso i due capez-

    zoli materni per succhiare il colostro. Questo fuoriesce per un breve tem-

    po.9

    Durante l’allattamento c’è una produzione maggiore di latte da parte della

    pecora che ha partorito.10

    Dopo due mesi il nascituro incomincia a mangia-

    re. La durata della lattazione arrivava fino a 3-4 mesi se si intendeva alleva-

    re la pecora per ripopolare il gregge, altrimenti era venduta o macellata. Il

    pastore poteva decidere se allevare l'animale per la carme o per produrre

    più latte. Se lo allevava per produrre più carne, lo mungeva poco, e vice-

    versa.

    Alla nascita gli agnelli hanno un peso medio che oscilla dai 2 ai 3 kg, in re-

    lazione alla razza ed allo stato di salute della madre. La pecora appena nata

    può essere portata al pascolo dopo un paio di giorni dal parto. Dovendosi

    spostare, non di rado il pastore metteva il nascituro in una bisaccia per tra-

    sportarlo e la madre lo seguiva a distanza.

    ## le bisacce si utilizzavano?

    #à come erano fatte? Erano i tascapane?

    9 Sostanza giallognola, indispensabile per l’azione immunitaria che possiede in quanto

    l’agnello nasce senza anticorpi. La pecora secerne colostro per un periodo piuttosto ri-

    dotto, tanto che già 48 ore dopo la composizione del liquido è vicina a quella del latte

    normale. 10

    La lattazione negli ovini presenta il seguente andamento: aumenta nelle prime 2-3 setti-

    mane dal parto, poi presenta un mese di stabilità e poi lentamente decresce.

  • 26

    L'età di una pecora è mostrata dai denti, con il passare del tempo gli cado-

    no. La pecora era considerata vecchia dopo 6/7 anni di vita.11

    Cadendogli i

    denti, mangia con difficoltà e di conseguenza produce meno latte. La peco-

    ra era considerata vecchia anche quando era zoppa (cioppa), cieca (ceca) o

    camminava in modo sbilenco (struppa).

    L'età di un montone è possibile vederla dalle corna. Con il passare del tem-

    po, queste gli crescono con un andamento a spirale. Più erano lunghe e più

    era vecchio. Solo che le corna potevano dare fastidio quando il maschio si

    muoveva. Questo era un motivo per cui le corna erano tagliate a partire dal

    secondo anno di vita. Si tagliavano con la sega. In tempi più antichi con un

    filo metallico.12

    Le corna segate non avevano alcun utilizzo e per questo si

    buttavano.

    Le corna delle capre erano tagliate raramente durante la crescita

    dell’animale. Erano utilizzate come manici dei coltelli.13

    Ogni anno si cercavano di smaltire le pecore vecchie. Se non macellate,

    erano vendute. Se non erano acquistate in paese, le pecore da vendere erano

    portate alla fiera di Carsoli che si teneva ogni mese, oppure presso altre fie-

    re che si svolgevano nel circondario nell'arco dell'anno.

    La pecora fornisce latte, lana, carne, pelle e letame. Di seguito sono passate

    in rassegna le lavorazioni di questi prodotti.

    Il latte

    Il latte di pecora è meno diffuso di quello di bovino, ma è largamente im-

    piegato nell’industria casearia. Il latte ovino è ricco di grasso e proteine ed

    è adatto alla caseificazione e meno adatto come bevanda. Per questo si rea-

    lizzavano formaggi e ricotte.

    Per mungere il latte, il pastore si sedeva su uno sgabello di legno a forma di

    mezzaluna con tre piedi, chiamato prituicchia (Figura 59).14

    11

    Sono animali che possono vivere fino a 12-14 anni. 12

    Dai racconti è stato evidenziato che si utilizzasse il filo della luce elettrica, quello tolto

    dai fili dei tralicci, per segare le corna del montone. 13

    Le corna dei bovini si utilizzavano per realizzare la coa, ovvero una pietra per arrotare

    la falce e veniva custodita in un corno.

  • 27

    Figura 59 - Prituicchia

    In genere una pecora produceva poco più di un quarto di latte a mungitura.

    La quantità fornita da ogni animale dipendeva dalla razza dell'animale,

    dall'anzianità e se allattava. Per recuperarlo il pastore si sedeva sulla pri-

    tuicchia, tirava a se l’animale e cominciava a mungere le mammelle. Que-

    sto accadeva quando il numero di pecore era ridotto. Nella pecora si posso-

    no distinguere tre comportamenti prima della mungitura:

    1. ci sono pecore che si avvicinano al pastore per essere munte, ovvero sentono la necessità di farsi prelevare il latte;

    2. ci sono altre che sono indifferenti, ovvero rimangono ferme e quindi vanno spinte verso il pastore per essere munte;

    3. altre invece scappano e quindi vanno rincorse.

    Per chi aveva tante pecore da mungere si utilizzava un meccanismo chia-

    mato u vau. La pecora era fatta passare attraverso un corridoio. Questo

    consisteva in una specie di una passerella delimitata ai lati (la bocchetta).

    Gli animali, spinti da qualcuno dei pastori, ad uno ad uno entravano in que-

    sto corridoio. Al termine si trovava seduto un pastore che bloccava l'anima-

    le mettendo un uncino di legno (ancino). Questo era a forma di V e ad

    un’estremità aveva uno spago (Figura 60). L'altro capo dello spago era le-

    gato o alla pretuicchia o a qualche bastone infisso nel terreno, prossimo a

    chi mungeva. Mediante lo spago non c'era possibilità che l'uncino si per-

    desse.

    14

    In altre zone dell'Italia è chiamata banchetta.

  • 28

    Figura 60 - Ancino

    Quando la pecora sente questo oggetto sul collo, rimane immobile, si fer-

    ma, e quindi è possibile mungerla senza ostacoli. In questa situazione il pa-

    store inizia a mungere l'animale. Alle mammelle dell’animale non erano

    fatte pulizie, avere l’acqua a disposizione era un lusso.

    Anche le capre erano munte due volte al giorno.15

    Al giorno una capra pro-

    duceva più del doppio di latte della pecora.

    Durante la mungitura il latte finiva in un secchio (marmittuccio). Qualcuno

    utilizzava un secchio particolare (u sicchiu ‘elle pecore) che aveva lo scopo

    di proteggersi dagli schizzi del latte e soprattutto di non far disperdere goc-

    ce di latte. Questo aveva una parte rialzata che veniva posizionata verso il

    mungitore. In tempi antichi erano realizzati in legno. Poi furono realizzati

    in metallo (Figura 61). Quello mostrato è un secchio creato appositamente

    per mungere le pecore. In Figura 62 invece è mostrato un secchio in metal-

    lo adattato per la mungitura.

    15

    Il loro latte è simile a quello vaccino, ma diversa nella composizione chimica. È di diffi-

    cile lavorazione perché il contenuto di caseina molto basso fa resistente all'azione del

    caglio. I globuli di grasso di cui è composto, molto piccoli, lo rendono un latte digeribi-

    le e leggero. Adatto alle persone con problemi di digestione, in quanto contiene poco

    lattosio e dunque è più digeribile, ma possiede un odore forte e deciso.

  • 29

    Figura 61 – u sicchiu ‘elle pecore, in metallo

    Figura 62 - u sicchiu ‘elle pecore, adattato

    Figura 63 - u sicchiu ‘elle pecore, in acciaio inox

    Se il latte munto era poco, questo

    era trasportato utilizzando il secchio

    stesso in cui era stato raccolto. Do-

    po la Seconda Guerra Mondiale si

    utilizzò un recipiente di alluminio

    con un coperchio (ghirba). Questo

    recipiente aveva lo scopo di proteg-

    gere il latte da insetti ed impurità e

    soprattutto di prevenire la disper-

    sione (Figura 64). Aveva un mani-

    co, un coperchio ed un meccanismo

    per bloccare il coperchio.

    Questo contenitore aveva varie di-

    mensioni (in Figura 65 alcune ghir-

    be di varie capacità). Il pastore ne

    acquistava una o più di una in base

    al latte che riusciva a mungere dal

    suo gregge,

  • 30

    Figura 64 - Ghirba

    Figura 65 - Ghirbe

    Il recipiente con il latte raccolto era portato presso un locale, dove sarebbe

    stato riscaldato. L'operazione del riscaldamento era svolta ogni mattina; il

    latte munto non poteva essere conservato a lungo in quanto non c’erano si-

    stemi di conservazione disponibili. Al latte raccolto la mattina, si aggiun-

    geva il latte raccolto la sera precedente, se non si era fatta la cottura prece-

    dentemente.

  • 31

    Per fare 1 Kg di formaggio servono 5 litri di latte di pecora, mentre ne ser-

    vono 7,5 litri di capra. Si poteva mischiare il latte di pecora con quello di

    mucca (vacca) o di capra, se qualcuno lo aveva disponibile.

    Figura 66 - Cutturu

    Figura 67 - Callaro

  • 32

    Il latte era versato in un caldaio di rame o stagnato. Poteva avere varie di-

    mensioni. Quello piccolo era chiamato cutturu, mentre quello grande calla-

    ro. In Figura 66 è riportato il cutturu utilizzato dalla famiglia di Giacomo

    Sciò, mentre in Figura 67 il callaro utilizzato dalla famiglia di Romolo

    Giustini. Quest’ultimo recipiente è alto quasi un metro.

    Quello piccolo era utilizzato quando la quantità di latte da trattare era di

    qualche decina di litri. Il recipiente era facile da gestire, era appeso su un

    gancio. All'occorrenza era afferrato con le mani, mediante qualche pezza.

    Più difficile era la gestione del callaro che poteva contenere 150-200 litri

    di liquido. In Figura 67 si nota un anello di metallo, ne esiste un altro nella

    parte opposta. Nei due anelli veniva fatto passare un grosso bastone per

    movimentare il caldaio quando era pieno di liquido.

    Per la cottura con il callaro si utilizzava un attrezzo conosciuto con il nome

    di somaro. Questo era composto da un braccio orizzontale. In cima si tro-

    vava un asse traverso che poteva ruotare. Il tutto era in legno o metallo. Il

    callaro era appreso a questo braccio traverso. Riempito di liquido, veniva

    fatto ruotare l'asse traverso del somaro per portare il callaro sul fuoco.

    Quando il latte aveva raggiunta la temperatura voluta, si faceva ruotare l'as-

    se traverso ed il callaro era tirato fuori dal fuoco per poi trattare il liquido

    caldo.

    In entrambi i contenitori il liquido era versato all'interno, facendolo passare

    attraverso un pezzo di tela di canapa (cola). In genere era una tasca di tela,

    da cui fuoriusciva il latte versato. Quest'operazione, detta a colà lo latte,

    serviva a filtrare le impurità presenti nel liquido. In epoche recenti furono

    utilizzati dei colini in metallo con le maglie strette. Versato tutto il latte nel

    caldaio, questo era messo sul fuoco coperto da un coperchio.

    Si aspettava che il latte raggiungesse una certa temperatura, il liquido an-

    dava scaldato, non bollito. Per verificare la temperatura raggiunta, si basava

    sul tempo trascorso dal callaro sul fuoco, non c’erano i termometri. Per es-

    sere sicuri che avesse raggiunto la temperatura giusta, l’addetto alla cottura

    poneva una mano sopra la superficie del liquido e, in base all’esperienza,

    riconosceva quando il liquido era pronto. Raggiunto il punto desiderato,16

    si scostava il callaro dal fuoco, si scoperchiava, si aggiungeva il caglio (u

    cagliu).

    16

    La temperatura doveva essere tra 35/40 °C.

  • 33

    Il caglio era realizzato con lo stomaco dell’agnello ancora lattante. Estratto

    dall’animale, si faceva essiccare all’aria. Una volta secco era tagliuzzato

    con un coltello e ridotto in polvere. Era "condito" con l’aceto17

    e sale in un

    contenitore e conservato.

    Quando serviva il caglio, con un cucchiaio, se ne estraeva una porzione che

    era messa in un bicchiere con dell’acqua fredda. Andava utilizzato mezzo

    cucchiaio di caglio per 10 litri di latte. Con il cucchiaio si mescolava questa

    miscela (lo da sciolle) e poi, filtrata attraverso un panno, era versata nel

    callaro. In Figura 68, sulla destra si trova un barattolino contenente il ca-

    glio, realizzato con l’aceto. Al centro dell’immagine è mostrato un bicchie-

    re con un cucchiaio di legno. Questo cucchiaio era utilizzato per prelevare

    il caglio e mescolarlo nel bicchiere con l’acqua.

    Aumentando la quantità di caglio diminuisce il tempo di coagulazione del

    latte e viceversa. Aumentando la temperatura del latte si accelerava il tem-

    po di coagulazione e viceversa. Con il latte troppo freddo o troppo caldo il

    caglio cessa il suo effetto.

    Figura 68 - Caglio

    Versato il caglio nel callaro, bisognava mescolare il latte per un breve pe-

    riodo. Per eseguire questa operazione si utilizzava un bastone di legno con

    alcune biforcazioni in una delle estremità, detto spino, conosciuto in locale

    con il nome di squagliarello (in figura Figura 69 è mostrato lo squagliarel-

    lo utilizzato da Ivana Giustini, moglie di Mario Rossi).

    17

    In mancanza di aceto si usava il succo di limone.

  • 34

    Figura 69 - Squagliarello

    Questo attrezzo iniziava con una biforcazione, utilizzata come uncino, in

    modo da poter essere appeso quando non utilizzato.

    Dopo aver mescolato, si aspettava che il latte cagliasse, lasciandolo riposa-

    re. Mentre il latte riposava, si formava una sostanza gelatinosa sulla super-

    ficie del caldaio.18

    A occhio si vedeva quando era stato raggiunto questo

    stato, in quanto il liquido era diventato una gelatina. Esisteva anche una

    prova per verificare se il latte si era quagliato correttamente. S'immergeva-

    no due dita nel liquido, se questo rimaneva attaccato alle dita era segno che

    la cagliata non si era ancora formata, viceversa se uscivano asciutte, ovvero

    non si attaccava il liquido, era segno che la cagliata era pronta. Il latte ca-

    gliato è chiamato giuncata (juncata) ed è il primo lavorato del latte della

    pecora.

    Dopo la formazione della cagliata, si rimetteva il callaro sul fuoco per poco

    tempo (10-15 minuti) e poi si tagliea la cagliata, facendo con lo squaglia-

    rello una croce nel latte (forse come azione propiziatoria). Si tagliava anco-

    ra la cagliata, sempre con lo squagliarello, eseguendo altre linee. La caglia-

    ta andava rotta per favorire la separazione del liquido chiamato siero (seru).

    Rotta la cagliata, la si mescolava per non farla riaggregare. La sostanza ge-

    latinosa, grazie all’azione di mescolamento, si divideva in parti più piccole.

    Si girava più volte la cagliata per ricavare granuli della grandezza dei chic-

    chi di granturco.

    Al termine del mescolamento, era tolto il callaro dal fuoco e la cagliata in-

    tanto si depositava sul fondo del recipiente. A questo punto andava separata

    la cagliata dal siero. Chi lavorava questo preparato, infilava le mani nel cal-

    18

    Il caglio ha le proprietà di coagulare le proteine del latte (caseine) formando la cagliata.

    Questa si forma nell'arco di 45-60 minuti.

  • 35

    laro e cominciava a mettere insieme i vari pezzi di cagliata che si erano de-

    positati sul fondo e cominciava a premerli tra di loro.

    Raggiunta una certa consistenza, era estratto un pezzo (pallocca) della ca-

    gliata e messo in apposite forme (cassi) di legno di faggio, dove veniva

    pressato con le mani, a più riprese, per eliminare il siero eccedente. I cassi,

    prima dell’utilizzo, erano bagnati.

    La fase di pressatura del formaggio era fondamentale per avere un buon

    prodotto finale. All’interno del formaggio doveva rimanere poco liquido, il

    quale sarebbe poi diventato la lacrima del formaggio, segno di un buon

    prodotto.

    Il liquido che fuoriusciva dalla pigiatura del formaggio nel casso non anda-

    va buttato poiché era ancora utile. Per questo si utilizzava un piatto di le-

    gno, scavato, sagomato con una punta (u cacieru), che raccoglieva il liqui-

    do che fuoriusciva dalla pressatura. Questo liquido si rimetteva nel caldaio,

    niente andava buttato. In Figura 70 è riportato un esemplare di questo at-

    trezzo. Fu realizzato da Alfonso Cristofari (Alfonso de Pennacchia) per

    Mario Rossi (battente).

    Figura 70 - U cacieru, visto dall’alto

    Sui lati sono state inchiodate delle tavolette per creare un bordo e contenere

    il liquido. È stata scattata una foto anche della parte sotto di questo attrezzo

    (Figura 71). Qui si nota una tavoletta, sul lato destro dell’immagine, che

  • 36

    serviva per conferire una pendenza al cacieru e far defluire dall’attrezzo il

    liquido che fuoriusciva dalla pressatura.

    Figura 71 - U cacieru, visto dal basso

    Dai racconti di alcuni intervistati, sembra che questo attrezzo fosse fatto

    diversamente, ovvero fosse un unico blocco di legno, scavato. Inoltre era

    bifacciale. Con il passare del tempo, il legno si incurvava a causa del liqui-

    do che bagnava il legno. Per questo si utilizzavano due facce in modo da

    non rovinare l’attrezzo.

    Il casso era di varie altezze, in funzione della grandezza della pizza di for-

    maggio che si intendeva realizzare. Era possibile regolare il diametro del

    casso utilizzando uno spago, quindi a parità di altezza si potevano realizza-

    re pizze di formaggio di vario diametro. Questa variabilità del diametro era

    utile, in quando era variato in funzione della quantità di cagliata disponibile

    in quel momento. In Figura 72 sono mostrati quattro cassi, di varie altezze

    e gli spaghi per variare il diametro.

  • 37

    Figura 72 - Cassi

    A Pereto, Antonio Meuti (mozzone) realizzava questi cassi. In Figura 73 è

    mostrato un coltello utilizzato da Antonio per la lavorazione del legno.

    Figura 73 - Coltello per legno

    Le fasi di lavorazione consistevano nel produrre delle tavolette dal tronco

    del faggio. Si portavano poi alla giusta dimensione e rifinitura con il coltel-

    lo. Realizzata una striscia di legno, questa era passata, previo una piccola

  • 38

    scaldata, al piegaturu, un attrezzo per conferirgli la forma arrotondata. In

    Figura 74 sono riportati delle lamine di legno appena piegate.19

    Figura 74 - Cassi appena lavorati

    Durante la cagliata, occasionalmente, quando c’erano presenti dei bambini,

    alcuni pastori realizzavano con il caglio una specie di mozzarellina calda (u

    surgittu), da mangiare subito. Infilavano le mani nel callaro, prelevavano

    un pezzetto di caglio (nu pezzittu 'ello cacio) e formavano una piccola pal-

    la. La forma ricordava quella di un topolino bianco, da qui il nome surgit-

    tu/sorcetto. Era priopriu bona!

    Il siero di latte avanzato dalla lavorazione del formaggio veniva utilizzato

    per fare la ricotta. Il callaro era messo nuovamente sul fuoco, per questo si

    utilizza il termine ricotta,20

    ovvero due volte cotta. Per fare la ricotta più

    bianca e per farne di più, all’inizio di questa nuova cottura si aggiungeva

    del latte. Veniva una buona ricotta se si cuoceva del latte di pecora mi-

    schiato con quello di capra.

    Per fare più ricotta possibile è stato segnalato un accorgimento. Durante la

    seconda cottura si immergeva nel liquido dei bastoncini di legno di fico.

    Questi facevano si che venisse più ricotta dal siero.

    19

    I quattro cassi appena piegati sono gli ultimi prodotti da Antonio Meuti, esistenti presso

    una sua cantina. 20

    È un latticino prodotto dal siero, privo della caseina. È costituita da proteine, le quali

    con il calore tendono a denaturarsi e quindi coagulano

  • 39

    Il siero era mescolato continuamente ed era portato a una temperatura mag-

    giore rispetto a quella del formaggio.21

    Lentamente la ricotta saliva in su-

    perficie e, raccolta continuamente con la schiumarola, era messa in conteni-

    tori conici (frucelle), realizzati con rami di salice o di ornello, e fatta scola-

    re. In Figura 75 è mostrata una schiumarola che veniva utilizzata. Quelle

    antiche non sono state rinvenute in quanto a causa del liquido in cui erano

    continuamente immerse, si sono rovinate Stessa sorte è toccata per le fru-

    celle in legno.

    Figura 75 - Schiumarola

    Figura 76 - Frucella

    La lavorazione termina quando le particelle solide non salgono più in su-

    perficie. La maggior parte dei pastori, fatta la ricotta, dava questo liquido ai

    cani che seguivano il gregge o ai maiali come nutrimento (u seru pegli por-

    chi), mediante beveroni o impasti. Questo accadeva quanno gli tocchea

    all’animale, ovvero era possibile darglielo. In tempi non tanto antichi, per

    la fame, era bevuto da chi non aveva da che sfamarsi.22

    Da segnalare che

    in epoche recenti è stato introdotto il caglio chimico, preparato industrial-

    mente. Con questo preparato si sfruttava il latte al massimo, a tal punto che

    gli animali a cui veniva dato il siero dopo la produzione della ricotta, non lo

    mangiavano in quanto aveva poco sapore e poco valore nutritivo.

    Uno dei lavorati del latte è il formaggio con i vermi. Da tutti gli intervistati

    è stato evidenziato che nessuno di loro lo produceva. È possibile che altri

    pastori, in tempi passati lo avessero prodotto. Non è stato possibile sapere il

    21

    La temperatura doveva essere tra 80/85 °C. Il liquido non deve sobbollire. 22

    Questo liquido conserva un valore nutrizionale.

  • 40

    metodo con cui venisse realizzato. Qualcuno ha raccontato che i vermi si

    formassero naturalmente all’interno del formaggio, se questo non era ade-

    guatamente pressato. Nascevano a causa della troppa presenza di acqua

    all’interno del formaggio.23

    Da evidenziare che durante la stagionatura il formaggio poteva essere il po-

    sto dove il moscone poteva deporre le uova. Da queste nascevano i vermi,

    ma erano diversi da quelli che nascevano dalla stagionatura del formaggio,

    in quanto quelli del moscone erano più grandi.

    Non si faceva il burro con il latte di pecora o di capra. Qualcuno in paese

    produceva raramente il burro con il latte di mucca.

    Il casso con il formaggio era stipato in qualche locale, su tavole di legno

    rialzate dal pavimento, e qui stagionava. Due/tre giorni dopo che era stato

    messo nel casso, si spargeva del sale sulla faccia superiore del formaggio,

    ovvero avveniva la salatura a secco. Qualche giorno dopo si girava sotto-

    sopra il casso, mettendo il sale sull'altra faccia della forma di formaggio.

    Messo il sale sulle due facce della forma, non si metteva più.

    Dopo alcuni giorni il formaggio aveva già cominciato ad asciugarsi e per

    questo si levava dal casso. Con il passar del tempo la forma di formaggio

    assumeva un colore dapprima giallo chiaro, poi più scuro fino a raggiunge-

    re una colorazione marrone o nera. La stagionatura durava in base al pro-

    dotto che si intendeva realizzare. Questi i tipi di formaggio realizzato ed il

    tempo di stagionatura:

    - Formaggio fresco (caciotta) (1 settimana-10 giorni); - Formaggio appassito (a cortello), di breve stagionatura (1-2 mesi); - Formaggio secco per grattugiare, di lunga stagionatura, (da 2 mesi in

    poi).

    23

    Oggi sappiamo che il formaggio con i vermi deriva dall'infestazione un insetto capace di

    cibarsi e riprodursi a spese di differenti fonti di materiale organico. Le larve di questa

    mosca possono infestare diversi tipi di alimenti tra cui i formaggi e da qui la nascita dei

    vermi.

  • 41

    Ogni tanto si andava a visionare le forme di formaggio e notare eventuali

    formazioni di muffe sulla superficie.24

    Queste andavano subito rimosse con

    uno straccio ruvido o con il coltello per non dover poi gettare il lavorato. Il

    fatto di girare continuamente le forme, riduceva la formazione di queste

    muffe. Per ridurre la superficie di contatto con la tavola di legno e per pre-

    venire delle muffe su questa faccia di contatto, si metteva la forma in verti-

    cale. In estate poi si riponeva il formaggio in luoghi freschi per non farlo

    trasudare, ovvero far uscire gocce di grasso.

    Durante la stagionatura, alcune forme potevano deformarsi, spaccare, ri-

    gonfiarsi, rammollire, diventare gessose o assumere un sapore amaro. Se si

    gonfiava, in altre parole presentava delle bolle internamente, era comunque

    mangiato. Si racconta che le bolle internamente si formassero a causa del

    caldo che alteravano la stagionatura. Si spaccava a causa del freddo. Se era

    gessoso, almeno nella parte esterna, si cercava di raschiare la parte esterna

    per recuperare parte del prodotto. Se era amaro, si dava la colpa a certe er-

    be che la pecora aveva mangiato. Nella maggior parte delle forme prodotte,

    questi casi di cattivo prodotto erano rari. Queste forme anomale nascevano

    o per la cattiva conservazione del latte, o della cottura del medesimo o per

    la stagionatura non eseguita correttamente. Ad esempio, il latte munto in

    estate, se non lavorato rapidamente o conservato al fresco, questo inacidiva

    e questa condizione poteva dare origine a formaggi non buoni.

    Un’altra situazione evidenziata dai racconti è stata la pressatura della ca-

    gliata nel casso. La pressatura faceva si che si costituisse uno strato esterno

    che proteggeva la parte interna del formaggio. Se non si premeva abbastan-

    za la cagliata, all’interno rimaneva del liquido. Questo nel tempo fermenta-

    va e soprattutto cercava di scendere verso il basso, rompendo la crosta della

    forma e quindi poi di permettere a batteri ed animali di entrare all’interno

    del formaggio.25

    In altre parole il formaggio non buono nasceva

    dall’inesperienza di chi lo faceva. Se il prodotto andava a male, questo era

    dato in pasto ai maiali.

    24

    Il formaggio è composto da sostanze organiche con la presenza di acqua, ambiente idea-

    le per il proliferare di microorganismi. Il formaggio con le muffe sono un connubio na-

    turale. Alcune sono sinonimo di "salute" del prodotto, altre invece no. 25

    Nelle lavorazioni attuali si mette dell’olio o della cera all’esterno della forma del for-

    maggio per prevenire la perforazione della crosta e per mantenere anche un colore chia-

    ro della crosta stessa.

  • 42

    La lana

    La caratteristica posseduta dalle pecore è il vello formato da bioccoli e fi-

    lamenti di lana. In inverno è lungo e folto e serve alla pecora per ripararsi

    dal freddo. La qualità della lana dipende dalla razza dell’animale e dalla

    parte del corpo da cui proviene. Il pelo della capra generalmente non è la-

    noso come quello della pecora e per questo non erano tosate.26

    La tosatura delle pecore si faceva una volta l’anno, in primavera, prima di

    portare il gregge in montagna per il pascolo estivo. L’operazione consenti-

    va una migliore pulizia e un maggior benessere dell’animale.

    I tosatori (carosini) venivano da fuori, pochissimi in paese facevano questa

    operazione. Di gente del luogo si ricordano: Fulvio Dondini, Giammaria

    Dondini, Ottavio Cristofari, Mariano Iadeluca, conosciuto con il sopran-

    nome di papà Mariano. Si ricordano persone forestiere, provenienti dal

    Cicolano, in particolare dalla frazione di Sant’Elpidio, nel comune di Pe-

    scorocchiano (RI). Questi si portavano gli attrezzi per tosare.

    Figura 77 - Forbice

    Per tosare le pecore si usava la forbice (Figura 77), poi fu introdotta la

    “macchinetta” a mano (Figura 78) ed a seguire quella elettrica.

    26

    In alcune zone fredde del pianeta spesso sono ricoperte da una soffice peluria isolante,

    oltre ad un primo strato di lana più ruvida; tale peluria viene utilizzata per produrre vari

    tipi di lana, di cui la più nota è il cashmere.

  • 43

    Figura 78 - Macchinetta a mano

    Prima di tosarle si dovevano abbagnà, ovvero lavare. I pastori di Pereto

    andavano a “lavare” le pecore agliu ponte risiccu, una località in prossimità

    delle nuci ‘elle mole, verso il paese di Oricola. L’acqua era quella del fosso

    Fioio. In questa località si formava un laghetto e le pecore erano fatte

    scendere in questo bacino. Bastava mandare una pecora nel laghetto che le

    altre la seguivano. Uscite dall’acqua non erano spazzolate, si aspettava che

    si asciugassero con il sole. Se avevano addosso pezzi di terriccio o escre-

    menti (patacche), queste gli rimanevano. Questa operazione di “lavaggio”

    era insufficiente a rimuovere le patacche che da mesi si erano formate sulla

    lana.27

    Dopo qualche giorno della bagnatura, avveniva la tosatura. Non c’era un

    punto preciso per quest'operazione; ogni pastore faceva carosare le proprie

    pecore in un punto dove c’era la commodità. Per non far muovere

    l’animale durante la tosatura, si legavano le zampe ovvero la pecora era

    'mpastorata (Figura 79). In altri casi, se c'erano più persone disponibili, si

    tosavano senza legare l'animale; due reggevano le gambe ed uno tosava la

    pecora.

    27

    Sembra più un rito propiziatorio che un vero e proprio lavaggio.

  • 44

    Figura 79 - Alfonso Cristofari, mentre tosa una pecora

    Per proteggere le reni delle agnelle dagli agenti atmosferici, sul dorso era

    lasciato, dopo la tosatura, un rettangolo di lana, chiamato la bardella.

    I batuffoli di lana raccolti da un unico animale costituivano un toso. Princi-

    palmente la lana era di colore bianco, era raro avere lana scura dovuta a

    qualche pecora di colore bruno o nero. La lana tosata era messa in sacchi

    per essere poi portata alla lavorazione.

    L’operazione di tosatura poteva protrarsi anche per giorni, in base al nume-

    ro di pecore; il proprietario del gregge all’occorrenza preparava il pranzo

    e/o la cena. La maggior parte della lana era venduta. Ci furono varie moda-

    lità di vendita della lana in base ai tempi. Inizialmente si vendeva ai privati

    che intendevano acquistare la lana. Ai tempi del Fascismo fu attivato

    l'Ammasso. I proprietari dovevano conferire obbligatoriamente o volonta-

    riamente i prodotti agricoli per essere poi distribuiti sul mercato, tra cui la

    lana delle pecore. Il pastore ne poteva trattenere poca per un proprio utiliz-

  • 45

    zo familiare. Si racconta che alcuni che avevano venduto privatamente dei

    prodotti agricoli, furono incarcerati. La lana era portata a Carsoli ed era pa-

    gata poco al pastore e rivenduta cara a chi la comprava. In seguito furono

    vendute al Consorzio di Carsoli, oltre che a privati. Il Consorzio si trovava

    all'incrocio dell'attuale via Dalmazia, con via Roma, in prossimità del ponte

    della ferrovia.28

    In paese si utilizza l'espressione adaveni la resa, per indicare quanto aveva

    fruttato in soldi la lana venduta, ovvero se il ricavato era stato buono o cat-

    tivo. In tutte le epoche analizzate, non c’era alcun controllo di qualità sulla

    lana prodotta e venduta.29

    Per la famiglia erano lasciati al-

    cuni tosi per la produzione della

    biancheria intima (maglie di la-

    na, calzini, sottane e camicie).

    Di seguito sono descritte le ope-

    razioni eseguite in paese per uti-

    lizzare la lana recuperata dalla

    tosatura. Dopo il taglio, la lana

    veniva messa a bagno con soda

    e acqua tiepida per una settima-

    na in grossi recipienti; ogni

    giorno l’acqua veniva cambiata.

    In Figura 80 è mostrata una foto

    d'epoca che mostra un callaro

    con dentro l'acqua e la lana che

    era a bagno per sciogliere le pa-

    tacche.

    Figura 80 - Lavaggio della lana

    L’obiettivo era di sciogliere le incrostazioni di terra o escrementi che erano

    ancora attaccati alla lana. In seguito la lana era messa nei cesti, se era poca,

    28

    Attualmente è un negozio di fiori. 29

    Oggi si considerano: Finezza, ovvero diametro del filo di lana, Purezza, ovvero presenza

    di altre lane, Increspatura, ovvero il numero delle ondulazioni del filo di lana, Lunghez-

    za del filo.

  • 46

    o nei tini (piunzi) e trasportata con i muli fino al lavatoio comunale o al

    fosso. Qui si sciacquava e si portava poi a casa.

    Nelle case, per una settimana, rimaneva ad asciugare sopra i teli (i pannu-

    ni), o qualunque straccio che permettesse l’asciugatura. La sera davanti al

    fuoco, le donne la scioglievano, allargando fiocco per fiocco (se scellea).

    Figura 81 - Lavorazione della lana

    In Figura 81 sono mostrati due donne e un ragazzo che di fronte l'abitazio-

    ne, su via Vittorio Veneto, stanno scellendo la lana.

    Con questa prima lavorazione, la lana prodotta poteva essere utilizzata per

    riempire il materasso. Per essere tessuta la lana andava separata, in altre pa-

    role cardata (scardata). Per fare quest'operazione serviva un’attrezzatura (i

    scardi) realizzata in legno. Erano due tavole di cui una fissa ed una bascu-

    lante. Entrambe erano dotate di chiodi. In alcuni casi l’attrezzo era dotato

    di un sedile, per rendere più agevole il lavoro, visto che si svolgeva per più

    ore al giorno per diversi giorni. L’artigiano che eseguiva questa operazione

    era chiamato scardalano. A Pereto non si ricorda se esisteva in tempi anti-

    chi questo tipo di mestiere. L’arte dei cardatori della lana a Pereto fu im-

  • 47

    portata da una donna, Carolina Colzini,30

    proveniente da Fara San Martino

    (CH) che agli inizi del 1880 sposò Berardo Giustini.31

    Dall’unione nacque-

    ro quattro figli, Maria Giuseppa, Maria Giovina, Domenico Antonio32

    e Pa-

    squale.33

    Ai maschi la madre trasmise l’arte di cardare la lana. Domenico

    Antonio esercitò questa arte a Pereto, svolgendo anche la filatura della lana.

    Consegnata la lana grezza, la cardava e la filava, ad operazioni finite con-

    segnava dei gomitoli. Svolse questa attività in Pereto fino al 1940 quando

    morì. La famiglia viveva su via Borgo, #à (località chiamata capocroce). In

    casa sua aveva l’attrezzatura per cardare la lana, dotata di un sedile.

    Pasquale si sposò con Anna Maria Ciucci, una donna di Anticoli Corrado

    (RM). Poco dopo il matrimoni si trasferì nel suddetto paese ed insieme ad

    altri lavori continuò a cardare la lana fino agli inizi degli anni Sessanta, tra-

    smettendo al figlio Enrico le nozioni. Si racconta che con i scardi in spalla

    andavano a cardare la lana presso altri paesi del circondario di Anticoli.

    Enrico, arruolatosi nell’Arma dei Carabinieri, cessò questo mestiere. Quan-

    do morì Domenico Antonio la gente di Pereto che doveva scardare portava

    la lana ad Anticoli Corrado. Per questo attività, la famiglia, sia di Pereto

    che di Anticoli Corrado, erano conosciuti con il soprannome di scardalani.

    Con la cardatura si riusciva a produrre fili di lana della lunghezza di un me-

    tro (i maccaruni). Con i fili si formavano dei gomitoli (ciammelle). Con la

    lana cardata si potevano realizzare anche piccoli rettangoli, alti qualche

    millimetro (le pernecchie), utilizzati per produrre le imbottite.

    Le coperte si realizzavano con la lana o un misto lana e cotone. Le matasse

    di lana utilizzate per le coperte, dopo essere state lavate con acqua tiepida e

    soda, erano tinte con i colori rosso, verde, nero e azzurro per realizzare stri-

    sce colorate. Le tinture erano acquistate presso qualche negozio del paese.

    Con i fili colorati, la tela era lavorata creando strisce o quadrati di diversi

    colori. I processi di filatura e tessitura della lana erano analoghi a quelli

    della canapa.

    30

    Morta a Pereto nel 1944. 31

    Nato a Pereto il 21 settembre 1855. 32

    Nato a Pereto il 7 aprile 1891. 33

    Nato a Pereto il 14 aprile 1895.

  • 48

    La carne

    Alcuni agnelli erano fatti crescere per ripopolare il gregge. Altri erano ven-

    duti o macellati per sfamare la famiglia. La capra veniva allevata anche per

    la carne.34

    La carne macella della pecora, in genere, non era conservata, es-

    sendo poca rispetto ad una mucca, era consumata nel giro di due/tre giorni.

    Qualcuno la essiccava per poi mangiarla all’occorrenza, ma erano rari que-

    sti casi, vista la fame.

    La parte più ricercata della pecora era la coscia, per il sugo era meglio la

    spalla.35

    Il piatto tipico realizzato con la carne di pecora era la pecora al

    sugo, il quale sugo era preparato per condire le sagne o gli gnocchi. Il piat-

    to semplice erano le bistecche cotte al fuoco. La pecora alla cottora, una

    ricetta conosciuta oggi in paese, è stata introdotta di recente.

    Uno dei piatti ricercati era la scannatura. Quando veniva scannato

    l’animale, il sangue veniva fatto cadere in una bacinella e qui coagulava

    con il passare del tempo. Una volta raffermo, si separava a pezzi, si cuoce-

    va nell’acqua. Dopo la bollitura era fritto, quindi si mangiava. Sembrava un

    cioccolato!

    L’ultimo pezzo dell’intestino, quello fino all’ano (u mazzu), era ricercato.

    Una volta estratto, era pulito l’interno, lavato e tagliato in tre strisce. Con

    queste strisce si costruiva una treccia, intrecciando le strisce. Questa si

    cuoceva in padella con le patate oppure allo spiedo.

    Con le interiora si preparava la coratella. Il fegato era fritto. I zampetti si

    facevano al sugo, con la testa si faceva il brodo ed il cervello era fritto.

    Della pecora non si buttava niente.

    Le ossa degli animali macellati erano date in pasto ai cani che seguivano il

    gregge.

    34

    Ha un sapore piuttosto simile alla carne d'agnello, tuttavia, secondo l'età e le condizioni

    dell'animale, la carne può assumere sapori simili a quelli della selvaggina. Dal punto di

    vista nutrizionale contiene meno grassi e colesterolo di quella di pecora. 35

    La carne è gustosa, bianca, digeribile, ricca di acqua, di discreto valore nutritivo.

  • 49

    La pelle

    Una volta macellato, l’animale era scuoiato. La pelle era stesa ad asciugare

    all'aperto, appesa a dei bastoni. Succedeva che a volte erano stese sulle reti

    dello stazzo, prima con la faccia interna rivolta a sole, dopo alcuni giorni

    veniva rovesciata. Sulla pelle, nella zona prossima agli arti, erano apposti

    dei bastoncini di legno. Con l'essiccazione la pelle tendeva ad accartocciar-

    si, per mantenere stesa la parte di pelle riguardante gli arti, si mettevano

    questi bastoncini per tenere aperta e non farla accartocciare.

    Localmente, le pelli erano usate per realizzare le ciocie e i guardamacchie.

    Ogni tanto in paese veniva un pellicciaio che comprava queste pelli. Qual-

    cuno ha segnalato che proveniva dai Castelli romani, altri da Riofreddo, chi

    da Carsoli. Quello più conosciuto in paese era Pasquale u pellicciaio, che

    veniva da Carsoli.36

    Inizialmente veniva con degli animali da soma, poi con

    un camioncino. Non è stato possibile capirne che uso ne era fatto di queste

    pelli.

    Il letame

    Durante la giornata, le pecore producono escrementi che rappresentano un

    letame naturale. Chi aveva un terreno ed intendeva concimarlo, chiamava

    un pastore che con il suo gregge concimava (stabbiava) il terreno con il po-

    steggiare sul luogo. Da segnalare che le vallate montane di Pereto erano

    coltivate a grano. Le pecore erano richieste per concimare, in modo natura-

    le, gli appezzamenti montani di terreno per i prossimi raccolti.

    Il letame era prodotto anche nella stalla, quando le pecore si trovavano rin-

    chiuse. Il pastore tra aprile e maggio metteva fuori dalla stalla questo leta-

    me, per renderla agibile. Una volta estratto, era sparso sul terreno prima

    dell’aratura così da ottenere una concimazione organica utile per le erbe fo-

    raggiere da mettere a disposizione degli ovini stessi.

    Era fertilissimo a tal punto che acquirenti venivano dalla piana del Fucino

    per comprare sacchi di questo concime. Veniva tolto il letame che era stato

    36

    Dai racconti della gente è uscita fuori una storica comica, relativamente a Pasquale u

    pellicciaio. Un giorno il paese era in festa perché il vescovo della diocesi veniva in pae-

    se a fare una visita. Il prelato era atteso ad una certa ora in paese, però tardava.

    Nell’attesa, inconsapevole dell’evento, si avvicinava in paese Pasquale u pellicciaio,

    che fu accolto trionfalmente, scambiato per il vescovo.

  • 50

    depositato nella stalla durante l’inverno. Qualcuno ha raccontato che si

    formavano strati di questo materiale anche di mezzo metro. Gli acquirenti

    erano armati di zappa e pala e loro stessi svuotavano la stalla dal letame. Lo

    riponevano nei sacchi e lo portavano via. Anticamente con animali da so-

    ma, poi con i camion. È stato raccontato che alcuni di questi acquirenti fa-

    cevano cambio a zucchero. Invece di pagare in soldi consegnavano dei sac-

    chetti di zucchero, prodotto che era realizzato nel Fucino. Era un baratto u-

    tile per entrambi.

    Gli intervistati di questa ricerca hanno raccontato che con il formaggio e la

    carne il pastore ci viveva, la lana ed il letame invece erano il guadagno del

    pastore. Con l’avvento delle fibre sintetiche e dei concimi industriali, è ve-

    nuto meno il guadagno del pastore, il cui unico introito furono i formaggi e

    la carne. Il letame si iniziò a buttarlo e la lana in certi casi anche bruciata,37

    visto che nessuno la utilizzava più, sia in paese che in altre parti.

    Le stagioni

    Il movimento dalla pianura alle vallate montane e viceversa dipendeva dal-

    le condizioni metereologiche. Dalla metà di aprile in poi le pecore si pote-

    vano portare in montagna. In zone situate più in alto si poteva pascolare

    dal 24 giugno. A quella data il grano e le erbe da fieno dovevano essere già

    state falciate e per questo si poteva andare a pascolare. I vari intervistati

    non conoscono i riferimenti riguardanti le date di Sant’Angelo di maggio (8

    maggio) o di settembre (29 settembre). Queste due date sono tipiche della

    transumanza verso il Tavoliere delle Puglie. Con la prima si iniziava il pa-

    scolo nelle Puglie e con la seconda si dovevano lasciare i pascoli delle Pu-

    glie.

    Per pascolare in montagna si pagava una tassa comunale. Il termine fida è

    sconosciuta agli intervistati, era utilizzato per i pastori forestieri che pren-

    devano in affitto i terreni.

    Il pastore non seguiva un percorso preciso per andare in montagna. Le zone

    di pascolo erano Campo catino, Campo secco, Macchia lunga e Serrasecca.

    A queste distese d’erba vanno aggiunte le località di Santo Maro, Pirumaru

    e l’Oppieta. Non c’era un punto preferito per il pascolo, dove capitava si

    37

    Successivamente si dovette pagare per smaltire la lana tosata.

  • 51

    portavano. Il pascolo più buono in montagna era quello di Campo secco e

    dell'Oppieta. Riguardo il piano, il pascolo più buono erano gli appezzamen-

    ti di terra situati a Prato marano in quanto erano rigogliosi e c’era vicina

    l’acqua.

    Si utilizzava qualche animale da tra-

    sporto (mulo, somaro) per portare mate-

    riali utili per il soggiorno in montagna.

    Per far riposare il gregge la notte veniva

    realizzato lo stazzo (u stazzu). In locale

    questa costruzione è indicata anche con

    il termine di precojo.38

    È un recinto

    fatto con la rete di spago di canapa. In

    Figura 82 è riportata una fotografia di

    una di queste reti.

    Si piantavano dei bastoni (passoni) nel

    terreno per delimitare l'area dello staz-

    zo. Per questa operazione si utilizzava u

    magliu, una specie di martello di legno,

    fatto apposta per questo lavoro (Figura

    83).

    Figura 82 - Rete

    Figura 83 – U magliu

    38

    Il precojo, in altre località, indicherebbe una costruzione realizzata con i sassi, utilizzata

    dai pastori per dormire.

  • 52

    In cima, nella parte rigonfia del legno si trovava un incavo, ed era questo

    che aiutava nell'azione di infilare il paletto dello stazzo nel terreno. In Figu-

    ra 84 è mostrato l’incavo di questo attrezzo. In Figura 85 è mostrato un

    magliu realizzato di recente da Giovannino Meuti.

    Figura 84 – U magliu, particolare

    Figura 85 - U magliu, recente

    Su questi bastoni veniva stesa la rete che così delimitava lo stazzo. Pastori

    che non avevano le reti, realizzavano un’area recintata delimitandola con

    dei spini. Altri realizzavano, ma era raro, delimitazioni in pietra o in legno.

    Alcune volte più pastori radunavano i loro greggi realizzando degli stazzi

    attigui tra loro.

    Dai racconti è stata segnalata la presenza di un muro a secco in località

    Coppetegli (Figura 86). Sembra uno stazzo delimitato da pietre, in realtà

    era un terreno coltivato a grano, delimitato dalle pietre. In un determinato

    periodo dell’anno vi sostava un gregge per stabbiare la zona.

  • 53

    Figura 86 - Recinto in pietra

    Non è l’unico in montagna di questi tipi di recinti in pietra. Erano queste

    zone recintate dai padroni e nelle quali si seminava. Per avere un buon rac-

    colto vi si facevano stazionare le pecore per concimare.

    Un elemento di fastidio del gregge è il sole, ovvero la pecora non ama i pa-

    scoli troppo assolati del pieno giorno. Per questo le pecore si mettono vici-

    ne, a contatto tra di loro, per stare più fresche o cercano dei punti ombreg-

    giati. Si proteggono tenendo la testa all’ombra della pancia delle altre peco-

    re e tutte insieme stanno ammassate allo stesso modo. Questa operazione

    era chiamata ‘ngozzaturo. Quando il pastore aveva messo le pecore vicine

    tra loro per stare al fresco si utilizzava l’espressione, rivolgendosi a lui, le

    si ‘ngozzate le pecore, ovvero hai messe le pecore al riparo.

    Le pecore resistono, invece, bene alle basse temperature, perché coperte dal

    vello oltre che da uno strato di grasso.39

    39

    Questa sostanza è conosciuta con il nome di lanolina, ancora oggi usata come base per

    creme di bellezze. È un grasso che impregna la pecora e serve all’animale per rendere

    impermeabile il suo mantello.

  • 54

    Per dormire il pastore utilizzava una capanna (u capannu), costituita da 5 o

    6 archi di legno ricoperti con la erba. In Figura 87 è mostrata questa costru-

    zione.40

    Era realizzata con un'erba (castrica) a foglie larghe e lunghe ed era

    intrecciata. L'erba tessuta era sovrapposta a strati e riusciva a coprire tutta

    l'intelaiatura realizzando una costruzione leggera. In alcuni casi si utilizza-

    va anche la paglia.

    Figura 87 - U capannu

    Potevano dormirci due persone. La costruzione non era fissa, si spostava

    con il gregge, caricandola in spalla. Ogni tanto veniva posizionata in un al-

    tro posto. Era curioso vedere camminare per i prati questo capanno da cui

    sotto spuntavano due gambe, quelle del pastore, che spostava il suo ricove-

    ro.

    40

    Questa è stata realizzata per la annuale manifestazione del Presepe vivente di Pereto.

    Non è stata realizzata in paglia.

  • 55

    Il luogo dove dormivano i pastori era chiamato iaccio. Nel capanno erano

    sistemate le rapazzole, sacchi ripieno di paglia, utilizzati come materasso.

    Quando il terreno era bagnato, era posto uno strato di sassi, sopra a questi

    venivano messe delle frasche, poi poggiate le rapazzole e sopra messa la

    capanna. Qualcuno metteva qualche pelle di pecora o di montone, come ba-

    se del "letto".

    Alcune famiglie del luogo realizzarono, per non portarsi appresso la capan-

    na, delle costruzioni a secco, realizzate con delle pietre. Erano queste delle

    costruzioni patronali, utilizzate per uso proprio durante il pascolo. Di segui-

    to sono riportate quelle rintracciate.

    La casetta di ‘ngicchememma, in località Oppieta, fu costruita da France-

    sco Sciò, bisnonno di Maria Sciò, soprannominata Maria la bionda. Si rac-

    conta che chi costruì questa casetta aveva fatto un sogno, che in quella lo-

    calità c’erano sepolti dei soldi, un tesoro. Non si sa se li trovò o meno, solo

    che vi realizzò questa costruzione.

    Figura 88 - Casetta di ‘ngicchememma

  • 56

    In Figura 88 è riportata la struttura come si presenta oggi. In basso

    all’immagine si trova una macera, realizzata a secco con sassi, che delimi-

    tava un appezzamento di terreno. Sopra a questa macera si notano due muri

    che sono le strutture della stalla dove venivano sistemate le pecore la notte.

    In cima all’immagine è riportata la casetta, che anticamente era realizzata

    anch’essa in pietre a secco. In questa costruzione trovavano riparo i pastori

    che seguivano il gregge. Nel 1990 fu acquistata dagli eredi Sciò da Pietro

    Iadeluca, Antonio Meuti e Fernando Meuti. All’epoca aveva il tetto crollato

    ed era piena di rovi. Nello stesso anno è stata restaurata con la stuccatura

    tra un sasso e l’altro per evitare che entrassero topi o rettili.

    La casetta di Pennacchia, ovvero di Luigi Cristofari, è situata all’inizio

    dell’Oppieta, quando di sale dalle Coste del banco, (Figura 89). Inizialmen-

    te aveva un tetto in legno, poi crollato. In tempi recenti, la costruzione fu

    coperta con un tetto in lamiera. Dal paese si riusciva a vedere la costruzio-

    ne, situata in montagna. Oggi a causa della vegetazione è coperta. Fu rea-

    lizzata negli anni Cinquanta.

    Figura 89 - Casetta di Pennacchia

  • 57

    La casetta di Furiè fu realizzata da Domenico Camerlengo, dopo che ritor-

    nò dalla Svizzera, dopo la Seconda Guerra Mondiale. La realizzò in località

    Piaseri (Figura 90). Aveva un tetto ed una porta. Oggi è quasi interamente

    rasa al suolo.41

    Figura 90 - Casetta di Furiè

    Quando il gregge era in montagna, il latte era munto sul luogo, le donne del

    paese lo andavano a prendere per portarlo in paese e lavorarlo. Erano chia-

    mate le lattarole. Nel frattempo le donne portavano da mangiare a chi ac-

    cudiva le pecore. Questo succedeva ogni giorno, ovvero con un'animale da

    trasporto le donne raggiungevano lo stazzo. Qualcuna ci andava a piedi con

    non poca fatica.

    Al mattino si preparava il caffè che era bevuto amaro (lo zucchero non era

    utilizzato per indisponibilità economiche e del prodotto). Insieme si man-

    giava pane e ricotta. Succedeva che al mattino, preparato il formaggio si

    41

    A poche decine di metri fu realizzata una carecara per la produzione della calce.

  • 58

    cuocesse la polenta che poi veniva mangiato. Questo alimento era più ener-

    getico del bere il solo latte o mangiare il formaggio.

    Durante il giorno si mangiava la minestra o la pastasciutta, per cambiare

    l'alimentazione.

    Il piatto tipico del pastore era la mpanata, il latte con un po' di pane secco,

    messi in una scodella. Qualcuno racconta, che mancando anche le scodelle,

    si inzuppava il pane direttamente nel secchio dove si trovava il latte. I pa-

    stori più poveri, per nutrirsi, bevevano il siero, ovvero lo scarto della lavo-

    razione del latte della pecora.

    ## se uno si sentiva male in montagna che succedeva?

    Il gregge rimaneva in montagna fino alla fine di agosto. A quell'epoca le

    pecore scendevano nel basso del paese poiché il grano, il granturco ed il fo-

    raggio erano stati già raccolti e quindi non c’era pericolo che le pecore

    danneggiassero le culture. Inoltre si risparmiavano i viaggi ai membri della

    famiglia che ogni giorno erano costretti a raggiungere il pastore per recupe-

    rare il latte e portare i viveri. Al ritorno al paese il gregge era fatto sostare

    in terreni per stabbiare.

    Figura 91 - Gregge alla Piana del Cavaliere

  • 59

    In Figura 91 è mostrata una foto che riporta Giacomo Sciò con le sue peco-

    re nella piana. In lontananza si vede il paese di Pereto.

    Alcuni proprietari di appezzamenti di terreno, per motivi vari, non deside-

    ravano che un gregge, o altri animali, quali mucche, cavalli, ecc. brucassero

    l’erba del loro terreno. All’epoca non esistevamo i recinti, ma una conven-

    zione. Il proprietario metteva una biffa, ovvero il terreno era biffato. La bif-

    fa consisteva in una o più frasche infisse nel terreno che segnalavano di non

    transitare o sostare in quel terreno. In caso di non osservanza del divieto era

    richiesto dal padrone del terreno un risarcimento. Il proprietario del terreno

    negava l’accesso in quanto utilizzava il pascolo per animali di sua proprietà

    (cavalli, mucche, pecore, ecc.).

    Quando faceva freddo o c’erano precipitazioni, le pecore rimanevano nella

    stalla ed il pastore le accudiva fornendo del fieno che era stato raccolto du-

    rante l’estate. Per somministrare alle pecore il fieno, questo era messo in un

    cesto cilindrico (u cajò). Nella stalla ne erano presenti più di uno. Erano re-

    alizzati con i rami di nocciolo, intrecciati in alto, al centro ed in basso.

    Sono stati ricercati in paese, ma vista la loro natura, sono andati distrutti. In

    seguito saranno realizzati in ferro da Giorgio Eboli, fabbro del paese.

    Uno specialista di queste costruzioni era Me-

    nestra# . L’ultimo fu Antonio Ranati (maggio-

    rani)## Erano poggiati in terra e per non farli

    cadere erano appesi al soffitto della stalla, me-

    diante le corde. Le pecore infilavano il muso

    nel cesto, con la bocca afferravano dei ciuffi di

    paglia, la estraevano dal cesto e la masticava-

    no. Quando il foraggio presente nel cesto era

    finito, il pastore lo riempiva con del nuovo fo-

    raggio in base alla disponibilità che aveva di

    fieno.

    Si racconta che per permettere di addentare più

    facilmente il fieno, si tagliavano le corna al

    montone, il quale, se le aveva, poteva non riu-

    scire a mangiare o poteva dare fastidio agli al-

    tri animali che si avventavano al cesto.

    Figura 92 - U cajò

  • 60

    Nella stalla era presente un abbeveratoio, mentre mancava la condotta idri-

    ca all'interno di questo locale. Per questo motivo il pastore, appena aveva

    l’opportunità, faceva uscire le pecore sia per mangiare, sia per bere. Se le

    condizioni climatiche non lo permettevano, era costretto a fornire alle peco-

    re di fieno ed acqua, trasportata con i secchi.

    Per mantenere al caldo le pecore nella stalla, si utilizza la paglia, mettendo-

    la in terra come lettiera. Se è possibile, si cambia più volte nell’arco del

    mese, in base alle condizioni climatiche. In caso di pioggia la lettiera cerca

    di far asciugare più rapidamente le pecore bagnate. In paese era difficile

    che fosse utilizzata la paglia in quanto questa era fornita come alimento.

    Per risparmiare la paglia durante l’inverno, come lettiera era utilizzata, se

    qualcuno lo aveva, lo scarto della lavorazione della canapa (i cannucci). In

    genere non era messo alcun elemento come lettiera.

    Appena faceva bel tempo in inverno, comunque sia, si faceva uscire il

    gregge per brucare l’erba disponibile. Dai racconti sembra che le grosse

    nevicate in tempi antichi non erano frequenti e per questo bastava portarle,

    ad esempio, sopra le Fonticelle, località posta vicino all’abitato per sfamare

    il gregge. Ad aprile ricominciava il ciclo della transumanza montana.

    Le avversità

    Le pecore sono soggette all’attacco di virus, parassiti ed animali. Di seguito

    sono passate in rassegna le avversità raccontate dai pastori del luogo.

    Le malattie

    Le malattie cui le pecore possono andare incontro sono tante, in base alle

    attuali conoscenze. In passato molte di queste avversità erano sconosciute

    alla gente del luogo e non se ne capiva la pericolosità per gli animali e per

    le persone. Non c’era alcuna disinfestazione delle stalle o degli ambienti

    dove gli animali si radunano, neanche con l’utilizzo della calce. Una volta

    l’anno si puliva la stalla per recuperare il letame.

  • 61

    La zoppia

    Il sintomo più evidente è l’animale che cammina zoppicando. Questa ma-

    lattia era la più diffusa tra le pecore.42

    Visivamente si nota che parte degli

    unghielli della pecora sono rovinati, in quanto fracichi, e si staccano