Partita a poker

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Il destino dà le carte, la fortuna le rimescola e l’esperienza suggerisce, ma poi spetta all’uomo scegliere come giocarle. È in questa massima che sta racchiuso tutto il senso del poker. Per i cinque protagonisti della storia, la partita a poker della vita assume, quindi, un significato superiore. Diventa occasione per riflettere sul mondo che li circonda, cimentandosi in una sfida difficile da vincere: quella con se stessi.

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Edoardo Magnoni

PARTITA A POKER

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PARTITA A POKER Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Edoardo Magnoni ISBN: 978-88-6307-297-6

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Giugno 2010 da Digital Print

Segrate - Milano

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A Willy e Anto

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Decise di cambiar vita, di approfittare delle ore del mattino. Si levò al-le sei, fece la doccia, si rase, si vestì, gustò la colazione, fumò un paio di sigarette, si mise al tavolo di lavoro e si svegliò a mezzogiorno.

Ennio Flaiano

CAPITOLO I Vincent si allungò nel buio. Cercò a tentoni la sveglia che suonava al-larmata sul comodino e la spense. Immaginò che fosse tardi, ma l’idea non affiorò nella mente come un vero e proprio pensiero. Acquistò, in-vece, i contorni sfumati di una sensazione inconscia. Alzarsi, lavarsi, fare colazione e quindi uscire, rimasero perciò azioni relegate all’ambito del sogno, senza prendere corpo davvero. Dopo un lasso di tempo non quantificabile squillò il telefono. Alla cornetta l'uomo udì una voce familiare che diceva «Non vieni stamattina? Cosa dobbiamo dire al capo?». «Ok, dieci minuti e sono lì» biascicò a fatica Vincent e riagganciò. A quell’ora la città si poteva attraversare velocemente. Il primo turno di servizio cominciava alle sei. La timbratrice era implaca-bile con le persone poco puntuali ed era stata progettata per resistere a qualunque tipo di manomissione. Le si poteva solo togliere corrente, ma era una soluzione rischiosa. Andava adottata di rado, affinché il ca-po non si insospettisse. Vincent infilò i vestiti buttati disordinatamente su una sedia e si precipitò giù per le scale. Sfrecciò come un fulmine con la piccola auto gialla per le strade avvolte dal buio che andava schiarendo. Alla guida ignorò una serie di semafori rossi. Abbandonò l’utilitaria nel primo posto libero della zona a sosta gratuita e si lanciò di corsa verso l’azienda. Arrivarci in macchina era impensabile. C’erano troppi divieti e il parcheggio costava caro. Come poteva per-metterselo se si prendeva un terzo di quanto guadagnava ogni ora? Me-tà poi se ne andava in tasse e il restante per pagare l’affitto. Quindi ri-manevano le spese ordinarie, le bollette, l’assegno di mantenimento della figlia e così via. Era una fortuna che potesse mangiare in mensa e arrotondare con certi lavoretti in nero.

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Arrivò volando fino al grande cancello grigio, oltre il quale stava pian-tata la guardia armata. Appena lo vide gli gridò «Allora, ce l’hai fatta! Corri, che un po’ di movimento ti fa bene!». Vincent con un ultimo sforzo disperato attraversò la portineria e si lanciò sul macchinetta, che trillò soddisfatta «Cliiiiic». Una volta timbrato il cartellino, impiegò del tempo prima di riprendersi. Ansimava come una bestia ferita e gronda-va sudore, il viso era infiammato, la gola e il petto gli bruciavano e an-che la milza doleva atrocemente. La guardia lo raggiunse e scherzò «Me ne vado, ma prima chiamo un’ambulanza. Non voglio averti sulla coscienza». Quindi gli mise in mano le chiavi del portone e uscì fi-schiettando. Vincent rimase piegato su se stesso per circa un quarto d’ora, finché recuperate le forze si trascinò in guardiola, dove si lasciò cadere su una sedia. Frank lo attendeva da un pezzo. Aveva già avviato tutte le procedure di apertura, disinserendo gli allarmi e permettendo al personale delle pulizie di entrare nell’edificio. Il collega fissava con sguardo annoiato i video delle telecamere, assicurandosi che la situa-zione fosse sotto controllo. Ogni cosa pareva a posto, eccetto l’amico che era pallidissimo in viso. «Va tutto bene?» chiese Frank. Vincent lo guardò con aria stupita «Meglio di così! Non vedi? Ho stabilito un nuo-vo record! Guarda che tempo: solo quattordici minuti di ritardo!» disse, mentre controllava il grande orologio appeso al muro. «Comunque sembri uno zombie. Hai una faccia… che hai fatto ieri sera?» continuò l’altro, ma Vincent non riuscì a ricordare subito dove avesse trascorso la notte. La mente, invece, traboccò d’immagini confuse. Aveva incon-trato l’amico René col quale era andato a bere qualcosa in un pub. Poi, li aveva raggiunti Nik, ma da quel momento in avanti rammentava con difficoltà cosa fosse accaduto. Le reminiscenze si facevano vaghe e sfumavano in impressioni. Il volto di una ragazza mai vista prima, risa-te sgangherate, l’aria viziata da un sigaro e finalmente l’indicazione fondamentale: un full di regine! L’ultimo indizio fugò ogni dubbio sull’accaduto, dissolvendo dai ricordi sopiti la nebbia obliosa dei vapori dell’alcol. La sorpresa fu tale che Vincent poté emettere solo un verso rauco che significava tutto e niente «Aaaah!». Con un gesto automatico infilò le mani in tasca e ne tirò fuori una palla di banconote che gettò istintivamente sul tavolo. Pareva si fosse materializzato qualcosa che credeva appartenere ad un sogno. «Il poker! Una partita a poker! Full di regine!» gridò, mentre indicava il denaro. «Sembra che le cose ti siano girate bene» commentò Frank, infastidito dalle urla del collega. «Pare

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di sì, amico! Non ricordo quasi niente, ma… questo è quanto! È andata alla grande!» disse Vincent, contando incredulo i soldi. «Ma non avevi fatto un fioretto? Non ti eri ripromesso un’assoluta astinenza dal gio-co?» lo punzecchiò, allora, il collega. «Sì, ho detto un mese esatto di castità, ma… a partire da oggi!» si giustificò. «Hai sempre una scusa pronta!» lo schernì Frank «Ma almeno non dovrò offrirti la colazione». «Quale colazione? Tieni pezzente!» rispose l’amico, infilandogli nel taschino della camicia un biglietto da cinquanta. «Senti Vincent, devi essere ancora ubriaco. Ripigliati i soldi e vai a fare spesa, o compra un regalo a tua figlia. Insomma, usa questi soldi come si deve! Io non ho bisogno dell’elemosina di nessuno» rispose Frank, irritato dalle mole-stie di Vincent. «Ma sì, ma sì Pollicino! Sempre a rovinarmi la festa! Era solo un presente per te. Ma farò come dici. In effetti devo fare spe-sa. Ho finito tutto: gin, martini, vodka e pure il whisky! Forse è rimasta solo l’acqua tonica!» ridacchiò l’uomo. «Va bene, non mi riguarda co-me hai deciso di buttare il tuo denaro. A me basta che compri del collu-torio. Hai davvero un alito schifoso stamattina! E poi non chiamarmi Pollicino!» ringhiò. «D’accordo, Pollicino» concluse l’altro, soddisfatto d’averlo indispettito a sufficienza. Vincent aveva affibbiato quel nomignolo al collega perché la bassa sta-tura, il tenero rosa dell’incarnato e il viso rotondo incorniciato da un caschetto biondo, lo facevano assomigliare ad un bambino, solo un po’ troppo cresciuto. Si era sempre immaginato così Pollicino, sebbene non ricordasse molto bene la fiaba. In effetti, quando la figlia gli aveva chiesto di raccontarla prima di dormire, Vincent era riuscito a metterci in mezzo un festa in piscina con le più celebri top model del momento, una corsa di cavalli e perfino la casetta di marzapane di Hansel e Gre-tel. Fortunatamente la bambina si era addormentata quasi subito, ri-sparmiandosi l’epilogo di quella storia da incubo. L’abitudine di dare a tutti un soprannome era un vizio al quale non sapeva resistere. Ne ave-va sempre uno pronto per chiunque. Si giustificava dicendo che gli fos-se utile per meglio ricordare le persone, anche se in realtà si trattava di un gioco infantile per il quale andava matto. Accentuare certe caratteri-stiche e deformarle, mettere in luce gli aspetti inaccettabili dell’indole, o ingigantire i difetti, serviva a rendere le persone immediatamente ri-conoscibili. Oltre a Pollicino, in azienda c’erano il Pipistrello, Quaran-totto e Formaggino. Insieme al Maniaco, al Prete e alla Beona, erano tra i personaggi più popolari.

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Dopo aver finito di contare le banconote, Vincent si alzò e uscì dallo stabile. Doveva effettuare il giro di controllo del perimetro esterno. Percorse lentamente la via fino all’angolo. Salutò l’edicolante ancora assonnato e ritirò la gazzetta sportiva. Raggiunse poi il bar di Vanessa che si trovava in fondo alla strada ed entrò a fare colazione. Doveva re-cuperare le forze dopo le follie notturne. Sui restanti lati dell’edificio non erano previste altre tappe ricreative, perciò ne dedusse che laggiù tutto fosse necessariamente in ordine. L’ispezione poteva dirsi conclu-sa. Tornando, si accorse però di aver finito le sigarette e si disperò con versi animaleschi. Quindi, girò i tacchi e si diresse al distributore auto-matico, situato alle spalle dello stabile. Alla fine la coscienza ebbe il sopravvento. Vincent si convinse che quella mattina avrebbe controllato l’intero perimetro del casermone, attenendosi al protocollo. Il ferreo senso di responsabilità, l’indomito attaccamento al lavoro e l’alta pro-fessionalità dell’uomo per una volta si accordarono coi principi della geometria pitagorica. «Se passo di là faccio meno strada» pensò. Il so-pralluogo, inoltre, si rivelò non privo d’importanti rilievi. S’imbatté dapprima in una pisciata sospetta contro il muro di cinta. Sospetta nel senso che non fu chiaro stabilire se si trattava di urina umana o animale. Quindi in un’enorme merda, ma nient’affatto equivoca. Doveva essere certamente di cane. Rimaneva però da verificare, ai fini del rapporto giornaliero, quale esemplare potesse produrne tanta, ma soprattutto chi ci fosse scivolato sopra. Vincent teneva moltissimo al suo lavoro e a-borriva l’idea di essere considerato un dipendente poco scrupoloso. Una volta tornato all’ingresso dell’edificio, sorprese il ragazzo della manu-tenzione in mezzo all’aiuola che si puliva le scarpe e imprecava. Allora, non poté che compiacersi delle sue doti investigative «Ecco la pattina-trice artistica!» pensò. Si avvicinò con un ghigno beffardo e scherzò «Buongiorno Andrea, concimi le rose?». «Sì fratello, ho beccato una gigantesca…» rispose l’altro, assorto nelle sue operazioni. «Sai come si dice, amico? Si dice che porti fortuna! Vedrai, oggi sarà una splendida giornata per te. Con un inizio così, non ne dubito!» fece Vincent, ridac-chiando. La voce di Frank proveniente dal citofono interruppe, però, i loro dialoghi platonici. «Ehi voi due, rientrate! Ho sentito il capo e ha detto che ci farà visita prima del solito stamattina» gracchiò. Fu impos-sibile stabilire se si fosse trattato di una scusa inventata da Pollicino per richiamare il collega, o se il superiore avesse telefonato davvero. Tanto bastò per far tornare i due al proprio dovere.

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Dalle otto cominciarono a sciamare nell’edificio tutti i dipendenti. Dai dirigenti fino all’ultimo dei fattorini sfilarono immancabilmente davanti alla portineria. Qualcuno si fermava a salutare o a chiedere informazio-ni, altri invece tiravano dritto per la loro strada. Pollicino stava rintana-to in un angolo buio della stanzetta, in modo che dall’esterno nessuno potesse vederlo. Con attenzione maniacale passava in rassegna le prin-cipali notizie del giornale sportivo. Era stato battezzato dai colleghi l’Oracolo. In effetti, aveva dato prova di possedere doti divinatorie ri-guardo agli esiti delle partite di calcio. Tuttavia, era solito pronunciarsi di rado, scegliendo lui quando farlo, abitudine che ne accresceva l’aurea di mistero. In quel momento era intento ad esaminare gli acqui-sti e le cessioni delle diverse società. Contrariamente a quanto sembras-se, leggere le novità della rassegna sportiva per Frank non significava venir meno al proprio dovere. Il passatempo non si scontrava col suo implacabile senso di responsabilità, ma anzi lo rafforzava. Infatti quel giorno, come ogni altro dell’anno, verso le undici si sarebbe presentato Domenico, che affacciandosi sulla soglia della portineria gli avrebbe rivolto la solita stupida domanda «Allora, novità?». Costui era il capo-reparto del primo piano e nutriva una vera e propria ammirazione per l’Oracolo. Non perdeva occasione di discutere con lui a proposito di partite, giocatori e calciomercato. Bisognava, dunque, farsi trovare pre-parati dinnanzi ad un superiore, pensava Frank. Vincent, invece, stava appoggiato alla porta della stanzetta rivolgendo un saluto a chi entrava. Riservava alle donne sempre un benvenuto speciale. Ad esempio a certe graziose dipendenti faceva un complimento, a qualche segretaria pro-vocante strizzava l’occhio, o magari capitava che prendesse sottobrac-cio un’amica e l’adulasse senza ritegno. Era nota la sua fama di casano-va e le ragazze trovavano divertenti le svenevolezze del ruffiano. Si de-dicava anima e corpo a quel rito giornaliero, che culminava immanca-bilmente nel guardare ad ognuna il fondoschiena. Non si trattava di un semplice vizio, né di una comune perversione. Era piuttosto un sacro uffizio che, con zelo pastorale, Vincent svolgeva in favore del prospero gregge delle giovani colleghe. Ammetteva che non tutte fossero lanose pecorelle. In effetti tra queste si notavano pure vecchie capre irsute, il cui deretano il sant’uomo aveva smesso di benedire da tempo. Verso le più floride, però, dimostrava i riguardi propri di un benevolo padre e non solo. Quella mattina purtroppo mancava Nik, autorevole voce del gruppo, capace di rendere con dovizia di particolari l’ardente fervore

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che si coglieva balenare negli occhi dell’amico. Insomma, colui che era in possesso dell’eloquenza necessaria a restituire, con cristallina pre-gnanza, il senso recondito di una simile missione. «Sei un porco!» gli avrebbe detto. Votato a quella sacra missione, Vincent glorificava tanta magnificenza, con preghiere del tipo «Oh fondoschiena divino, porta dei cieli, stella dei mari!», o «Oh culetto rotondo, rendi il mio amore sorridente», ma anche «Sedere immacolato mostra il tuo amore verso di noi» e altri simili lodi. A queste si aggiungevano sentenze che costitui-vano il sancta sanctorum di una religione, la cui mistica levatura poteva essere compresa solo dagl’iniziati a tale culto. Gli inni dotati di più ful-gida bellezza recitavano «Tu sai che gli uomini peccano, ma il culo di una donna non mente», o «Noi affidiamo a te le nostre anime. Accom-pagnaci ogni giorno alla fonte della gioia». Vincent non tralasciava nemmeno massime tratte da storielle edificanti, come quella che fissava così il senso recondito di un messaggio di fede: «Solo sotto le lenzuola si può dire con certezza». La mattinata trascorse tranquilla e il capo, al contrario di quanto pro-messo, non si vide. Andrea riuscì a liberare gli scarponi dagli ultimi re-sti di escrementi. Si servì di un grosso cacciavite, che ripose con dili-genza nella cassetta degli attrezzi, secondo le disposizioni del suo re-sponsabile. Verso le undici, scese in portineria Domenico a discutere dell’acquisto di certi giocatori da parte della sua squadra del cuore. L’Oracolo non volle pronunciarsi: il campionato era incerto e non ave-va ancora esaminato le viscere di un qualche animale. Ne ebbe occasio-ne solo verso mezzogiorno prendendo alla mensa aziendale un panino. Incontrò, però, maggiori difficoltà ad intuire a quale bestia appartenesse la fettina di carne tra le due foglie d’insalata, piuttosto che a vaticinare sul torneo. Alla mezza finalmente arrivò il cambio: Nik e il Prete. Il primo uscì a fumare con Vincent e Andrea, mentre l’altro rimase in por-tineria a ricevere ragguagli da Frank. Il Prete era un individuo profon-damente inquietante. Era alto, ossuto e pallidissimo. Portava una bar-betta corta e ben curata. Nonostante avesse all’incirca trent’anni pareva molto più vecchio. Amava vestire con una certa teatralità i panni dell’asceta, dell’uomo che rifugge i divertimenti del mondo per dedi-carsi anima e corpo a qualcosa di superiore. A sentir parlare di calcio, di auto e di donne, insomma dei capisaldi dello scibile umano maschile, alzava un sopracciglio in segno di dissenso, si faceva pensieroso e si isolava. Persone di questa tempra sono rare come l’acqua nel deserto,

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preziose ed incorruttibili al pari del diamante, tanto che viene da chie-dersi se siano davvero uomini e non piuttosto dei fantocci. Il Prete non era tipo da prestare attenzione alle quotidiane volgarità, in mezzo alle quali quella razza d’animali razzolava. Al contrario, spendeva con co-raggio la propria vita in una disperata crociata. Combatteva contro i pa-droni, in nome del Popolo, di cui i compagni lavoratori erano un eccel-lente esempio: bestemmiatori alcolizzati, sempre in calore e col vizio del gioco d’azzardo. Sovente Nik, privo di qualsiasi pudore, ne aveva addirittura fatto vanto. «Guardate di quante virtù ci possiamo fregiare! Quanti, secondo voi, nutrono una passione pari alla nostra? Amare tan-to le donne, il vino, o il calcio non è da tutti! Chi può batterci in fervore e fedeltà?». Il Prete, invece, preferiva ergersi a paladino dei loro diritti di bestie offese. Lui, terribile vendicatore della dignità tradita, moralista luterano impregnato fino al midollo di marxismo fai-da-te, infatti, era il sindacalista dell’azienda. Conosciuto dalla dirigenza come flagello di dio e temuto per l’alito fetido, era in grado di piegare qualunque avver-sario dopo pochi minuti di trattative. I suoi sermoni, indispensabili al progresso dell’umana coscienza, erano capaci di protrarsi per ore. Le arringhe furiose scaturivano magari da quelli che uno sciocco qualsiasi avrebbe ritenuto problemi insignificanti. Per lui, invece, diventavano questioni di principio. Il Prete assomigliava ad uno degli ultimi soldati giapponesi, dimenticato su qualche isola del Pacifico non segnata sulle mappe. Chiuso nel suo bunker fatto di certezze pesanti come macigni, guardava il mondo attraverso una fessura, in attesa della fine di una guerra già conclusa. Tuttavia, la stoffa per fare grandi cose non gli mancava. Era risaputo che cercasse amicizie anche molto in alto, ma forse aveva esagerato scomodando pure dio. Aveva preso l’abitudine, infatti, di recarsi in chiesa, per approfittare di ogni benedizione del ca-so. Era questa, poi, la naturale evoluzione della carriera di un sindacali-sta che si rispetti; imparare a tenere convenientemente un piede in due staffe. Il Vaticano, comunque, rimaneva pur sempre il miglior partito, mentre i suoi successi stentavano con evidenza. Dopo un anno di lotte, al momento di annunciare trionfalmente i traguardi raggiunti, era stato sommerso da critiche di ogni genere. Le più eloquenti di queste furono «Muori bastardo!» e «Ti facciamo lo scalpo, maledetto!» al grido una-nime di venduto di merda. Ma dar spazio ad un dissenso costruttivo è il bello della democrazia. Il prete, perciò, era stato costretto a tornare sui propri passi, ritrattando gli accordi e sventando così un’insurrezione a-

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ziendale. «Il mondo gira al contrario» aveva constatato con rassegna-zione. Il miraggio di un profitto asservito alla logica di una comune fe-licità sociale era un sogno che non si sarebbe infranto, diceva, dinnanzi alle proteste di un pugno di facinorosi. Intanto, ogni anno le imprese chiudevano a migliaia e l’economia conquistava un nuovo record nega-tivo. I prezzi schizzavano alle stelle e le spese diventavano insostenibi-li. La pausa caffé dei lavoratori rimaneva, però, un diritto sacrosanto e la squadra nazionale di calcio teneva alto il morale. La politica del paese, in fondo, si riduceva sempre e soltanto ad una questione di soldi. Il denaro, infatti, corrompeva ogni etica e appariva come il solo principio capace di giustificare davvero tutto ciò che acca-desse. Non era stagione nemmeno molto propizia alla satira. I vecchi schematismi, le ideologie ed i falsi dei si erano ormai sgretolati. L’ipocrita morale comune faticava ad arginare l’imperante senso di de-cadenza. La vertigine dovuta alla mancanza di nuovi valori spiazzava. Le ultime generazioni non possedevano grandi ideali e anche le normali reazioni alla paura apparivano incapaci di rassicurare davvero. I mostri non erano ben riconoscibili e troppo spesso avevano il volto di un fra-tello, o di un amico. Le ingiustizie, le violenze e i crimini si appiattiva-no in una zona grigia, nella quale tutto era permesso. Nessuno riusciva ad indignarsene davvero, talvolta neppure ad accorgersi della loro gra-vità. Alla luce di simili considerazioni, il potere dissacrante dell’ironia sembrava scemare. Le persone avevano smarrito il desiderio di ridere. Mancava loro la forza per ribellarsi a tale condizione anche solo con la beffa, o l’immaginazione. Lo squallore della realtà aveva superato ogni fantasia. Il disgusto appariva la più nobile delle reazioni. Nik, però, non amava affrontare l’argomento con troppa serietà, magari rimpiangendo i tempi passati come l’età dell’oro. Preferiva piuttosto sguazzare in quello stato di cose, alimentarsi di nefandezze e camuffarsi da tipo sen-za scrupoli. Fingeva che lo spietato opportunismo fosse un abito taglia-to su misura per lui. Indossati e sfoggiati con disinvoltura, i panni gli consentivano di presentarsi sorridente al gran ballo della morte, sul cui palco danzavano oscenamente tutti gli orrori immaginabili. Fatti e per-sonaggi raccapriccianti si esibivano sguaiati in salti e piroette, presso un fondale su cui stava dipinto un paese allo sbando, dilaniato come una frattaglia contesa fra cani. Solo un abietto utilitarismo offriva un senso al susseguirsi di guerre e predazioni, e al dio denaro erano votati anche loro. Migliaia di volte avevano fantasticato in che modo spendere i sol-

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di vinti, magari alla lotteria, premi che però inesorabilmente andavano a qualche altro disgraziato. Almeno questo poteva considerarsi un lieto fine. La devozione verso la pagana Fortuna incarnava il loro unico cre-do. Una volta ricevuta la grazia però, non avrebbero fatto alcuna bene-ficenza, bensì scempio di quel denaro. Lo scialo sarebbe stato immenso. Si sarebbero fatti beffe di una squallida realtà, alla ricerca dell’oblio e-terno. Sognavano donne da favola, allungate come pantere, su chilome-trici divani di ville faraoniche, o a nuotare simili a sirene in piscine più azzurre del mare. S’immaginavano svaporati in giornate incantate nel godimento estatico d’ogni vizio, o incendiati di passione sulle pire not-turne di un sabba per miliardari. Durante le loro fughe dalla realtà, Nik e Vincent si smarrivano appresso a fantasie da rivista patinata. A volte, però, accadeva che l’aspetto più domestico del loro divagare prendesse il sopravvento. Così, magari finivano a discutere su quale genere di pre-libatezze si sarebbero fatti servire, esprimendo desideri semplici, diretto retaggio del loro vissuto. Poteva, però, accadere che si trovassero in di-saccordo su questioni di massima rilevanza. Ad esempio, Vincent dice-va che avrebbe preferito una limousine smisuratamente lunga, tanto da non riuscire a girare per le strade della città. L’altro, invece, propende-va piuttosto per un bolide da corsa. Quel giorno, quando Nik fece il suo ingresso in portineria, il Prete era seduto alla scrivania lisciandosi la barba con aria dolente. «Cosa può essere successo?» pensò, ma non ebbe coraggio di chiedere alcuna spiegazione. Conosceva la predisposizione del collega a profondersi in lunghe lamentazioni. Era un tipo cupo, incapace di gioire e incline alla disperazione. Nella migliore delle ipotesi, magari constatando un’ovvietà, avrebbe lasciato affiorare sulle labbra un amaro sorriso. A memoria d’uomo non era mai stato visto ridere. Conoscendone il carat-tere, Nik evitò di stuzzicarlo. Notò che il Prete, assorto nei suoi pensie-ri, aveva cominciato ad allineare sul tavolo con cura maniacale tutte le penne, l’una accanto all’altra. Non si preannunciava nulla di buono, ma si fece forza e sedette. Finse anch’egli un’enorme preoccupazione, spe-rando di scoraggiare il Prete da qualunque abboccamento. Ebbe, però, la malaugurata idea di aprire il giornale, attirando inevitabilmente l’attenzione del collega, che si accostò per sbirciarvi. Non appena gli venne vicino, ne avvertì il fiato fetido e fu colto da nausea, ma il Prete lo anticipò «Viene da vomitare!». «Già..» formulò a stento Nik, pen-sando che la constatazione fosse davvero appropriata. «Mi si contorco-

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no le budella a leggere di politica! Siamo giunti ormai alla trivialità più oscena e alla mancanza d’ogni pudore! Guarda che scempio stanno fa-cendo del paese! Questi criminali da quattro soldi pensano che sia tutto un teatrino! Vergogna!» s’infervorò. Nik poté solamente annuire men-tre tentava di scostarsi un poco, ma l’altro proseguì «Questi politici sa-rebbero da mettere con la faccia al muro e bam!» disse, mimando con le dita una pistola «Solo questo resta da fare!». Il ragazzo, però, non con-cordava col collega. La fantasia non gli mancava e i manuali di tortura medievale erano ben illustrati, offrendo a proposito molti spunti inte-ressanti. Era convinto, perciò, che avrebbe saputo trovare soluzioni più persuasive per sanare la corruzione dilagante e il lassismo di una classe politica ridicola, avida ed inetta. Eliminarla, tuttavia, non avrebbe risol-to i problemi del paese, visto che sarebbe stata sostituita in fretta da gentaglia della stessa risma. Di certo un’epurazione di massa, però, a-vrebbe procurato un grandissimo sollievo. Nik preferì non mettersi a discutere col Prete. Ritenne che se l’avesse lasciato parlare, la conver-sazione si sarebbe esaurita in fretta e lui sarebbe riuscito a defilarsi. I-noltre pronunciare anche solo una sillaba, avrebbe richiesto da parte sua un respiro appena più profondo, col sicuro rischio di svenimento per asfissia. Non perse comunque occasione per osservare il collega agitarsi durante la requisitoria della giornata. Fremeva e si dimenava, puntando il dito minacciosamente contro chissà chi. Lo guardò digrignare i denti ed imprecare, finché si arrese dinnanzi al suo perfetto mutismo. «Non c’è che dire, una bellissima recita. Peccato non applaudirti. Sarebbe una presa per il culo troppo esplicita» pensò Nik. Non evitò di polemizzare, visto che un eventuale scontro dialettico si sarebbe concluso con un po-liticamente scorretto «Fatti una scopata!». «In fondo, gli uomini sono bestie. Abbiamo una considerazione di noi stessi talmente alta da di-menticare l’importanza del sesso nel dar sapore alla vita» congetturò Nik. «Non so cos’abbia in testa questo represso, ma sono certo che se scopasse di più, che so, anche solo con la frequenza di una tartaruga d’acqua dolce, ora non assisterei ad una scenata simile. Mi farebbe qua-si pena, se non avesse l’ostinazione di un babbuino sordo» rise tra sé. Intanto annuiva col capo a tutte le fantasie del collega, mentre moriva di noia. «Perché dobbiamo rimetterci sempre noi disgraziati?» domandò il Prete, ma Nik non sapeva cosa rispondere. Non si reputava un disgra-ziato. Tanto meno avrebbe potuto considerarsi borghese, privilegiato, o addirittura ricco. Era contento di quel poco che aveva e forse con super-

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ficialità pensava che, in fondo, ognuno fosse libero di sentirsi come vuole. Non gli era mai mancato di che mangiare, un luogo dove dormi-re, o una spalla su cui piangere e tanto bastava. Non si era chiesto nemmeno chi dovesse ringraziare per la sorte che gli era toccata, perché a dio avrebbe dovuto rinfacciare troppe occasioni mai offerte. Si sa che gli uomini in questo sarebbero incontentabili. Perciò era persuaso che ognuno, a suo modo, sia artefice del proprio destino e possa raggiunge-re ciò che desidera, a patto che lo voglia davvero. In azienda non man-cavano esempi di ruffiani e raccomandati per non riconoscere che i frut-ti della fortuna siano elargiti a vanvera. Tuttavia, non riusciva a provare invidia per quei palloni gonfiati, inetti e boriosi. Era convinto, infatti, che un uomo si possa considerare tale solo per il rispetto di ciò che di-mostra e non per le occasioni che la sorte gli riserva. Perciò amava schernire il goffo dilettantismo dei rampolli e degli adulatori, quando davano prova di non saper nemmeno allacciarsi le scarpe. La libertà di ridere non gli era stata accordata da nessuno di loro, tanto meno avreb-bero potuto levargliela. Al termine degli sproloqui del Prete, Nik sbadigliò. Il collega se ne ac-corse e lo apostrofò con aria dolente, quasi sperasse in un suo improba-bile ravvedimento «C’è tanta gente che se ne infischia». Il ragazzo as-sentì per l’ultima volta, finalmente d’accordo, si alzò e uscì per un caf-fé. In strada faceva molto caldo. Percorse in fretta il tragitto che lo se-parava dal bar di Vanessa, mentre il sole si divertiva a bersagliarlo sen-za pietà. Al banco trovò la bella straniera, anzi, la ragazza priva di qua-lunque qualità, compresa quella della bellezza. Ma cosa importava se lei credeva di possedere tutto ciò e molto altro? La vita è illusione, di-cono i filosofi senza ingannarsi. Dunque, credere ciecamente in un so-gno alle volte può renderlo più vero della realtà. Non era però la spe-ranza in un desiderio, bensì un’incrollabile forza di volontà a fare di quel caffè il bar di Vanessa e a rendere già donna una ragazza come tante. Il suo credere non aveva sede nel pensiero, piuttosto trovava e-spressione attraverso l’azione, consentendole di dar corpo alle proprie aspirazioni. Nik sapeva cosa significasse. L’aveva imparato giocando a poker con Vincent. In tali occasioni, nonostante le buone carte, l’esito della partita gli era stato sempre sfavorevole. Lui sperava di poter vin-cere. L’amico, invece, se ne mostrava fermamente convinto, riuscendo a persuadere anche gli altri. Nik, così, aveva visto materializzarsi in mano all’uomo una scala, un colore o un full, anche quando sarebbe

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parso ai limiti dell’incredibile. In altre occasioni era stato costretto solo ad immaginare, non avendo abbastanza coraggio per spingersi a guar-dare le carte dell’avversario. Esistono casi in cui la ragione e la sua lo-gica sono insufficienti a spiegare gli avvenimenti che accadono, e oc-corre perciò ignorarla. Nik, dunque, non riusciva a capacitarsi della for-tuna di Vincent, sostenendo che barasse. C’era, però, anche il rovescio della medaglia. Il loro amico Renè era solito ripetere un motto che reci-tava «Scegli una nevrosi e coltivala». La massima, con un pizzico d’ironia, metteva in guardia dal pericolo che una passione possa tra-sformarsi in un’ossessione. Fino a che punto si poteva inseguire un so-gno prima che cominciasse a condizionare la vita, imprigionando il proprio adepto? Era giusto sacrificare un’intera esistenza ad un ideale? In fondo anche il Prete, al di là del suo qualunquismo da quattro soldi, o Vanessa attaccata con le unghie al suo bar, non inseguivano a modo lo-ro il proprio miraggio? Nik non ne era persuaso. A lui pareva che quelle aspirazioni somigliassero piuttosto ad una mania. Notava troppo fanati-smo nei loro propositi. «Esiste una sottile differenza tra passione e fis-sazione, che non dipende dalla volontà, bensì dagli occhi con cui guar-diamo il mondo attorno a noi» pensava, «Inoltre, mi pare un errore sa-crificare l’esistenza ad un unico scopo, perché essa è per natura multi-forme ed contraddittoria. Darne un’interpretazione univoca, che escluda necessariamente altre strade, serve a renderla più tollerabile. Impedisce però di comprenderla davvero. Occorre, invece, accettare la contraddit-torietà della vita e dei sentimenti, aprendosi alle infinite occasioni che essa ci riservi». Nik immaginava sovente l’infinita varietà di sensazioni, desideri e stati d’animo che aveva conosciuto nel corso dei suoi trent’anni, convincendosi che fosse impossibile ravvisarvi alcuna coe-renza. Come per gioco, ripercorreva a ritroso il casuale concatenarsi degli eventi, attraverso cui aveva compiuto una scelta. Si sforzava, magari, d’individuare il dettaglio più insignificante che potesse averlo indotto a trovarsi in una determinata situazione, poiché anche da quello dipendeva in misura rilevante il suo destino. «L’uomo d’oggi crede cie-camente nei mezzi di cui dispone. Ritiene che siano sufficienti la pro-pria volontà e gli strumenti adeguati per raggiungere con sicurezza uno scopo. Dimentica invece quanto sia determinante il caso, che da solo può trascinarlo dove vuole, come una foglia al vento» meditava tra sé Nik. «Il fatto che il multiforme venga ricondotto ad un’unica entità na-sce dal bisogno di coglierlo coi mezzi della logica, senza cui tutto appa-

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re incomprensibile e spaventoso. Si preferisce credere che la vita orga-nica, al pari di quella dello spirito, segua necessariamente uno sviluppo armonico e progressivo. Tuttavia è un inganno. I sentimenti e soprattut-to i sogni si sottraggono a questo assioma». Per dimostrare la pregnanza delle sue considerazioni era solito raccontare una storiella. Fin da gio-vane aveva scoperto ciò che gli uomini chiamano amore. Alcuni lo ri-tengono un principio universale, altri emanazione della legge divina e altri ancora una pulsione sublimata, se non addirittura un mero calcolo utilitaristico. A quell’età somiglia, invece, ad un venticello leggero che scalda il cuore e a cui ci si abbandona inebriati. «L’ardore pare un ca-priccio e viene a noia in fretta, non appena si discosta dall’idea di per-fezione che si serba d’esso» diceva Nik «ma oggi la situazione è ben più complicata. L’amore mi sembra un rompicapo, un mosaico del qua-le non riesco a mettere insieme le tessere! Ho imparato trucchi che chiamo esperienza, ma rimane comunque un compito arduo. Perciò mi domando, è poi davvero necessario ricomporne il quadro, assegnando ad una storia d’amore un senso ed uno scopo? Quante volte ho attribui-to al rapporto con una donna, che credevo mi amasse, un significato as-sai differente dal valore che aveva per lei? Non è meglio, invece, accet-tarlo e viverlo per ciò che è, ovvero come un groviglio di sentimenti confusi ed incongruenti? No, l’amore sicuramente non è coerenza, si tratta forse appena di un’illogica comprensione dell’altro. E dopo la fi-ne di una relazione cosa ho trovato, oltre al vuoto della solitudine? An-cora caos e un intreccio di sensazioni contrastanti. Ecco, se ne conclude dunque, che ogni essere, o cosa del creato, sia anche la più sottile ed impalpabile, al pari della volontà, o delle emozioni si sottrae a qualsiasi previsione logica, dipende in gran parte dal caso e risponde a leggi che ignorano del tutto la coerenza». I due minuti di strada che separavano Nik dal bar di Vanessa non gli permisero certamente questa lunga serie di pensieri. Di fronte a simili elucubrazioni gli amici si sarebbero messi a ridere, ripetendo il solito motto «Scopa di più!», visto che anche la trivialità ha le sue ragioni. Perciò, quando varcò la soglia del locale aveva l’animo leggero. Trovò la ragazza coi gomiti appoggiati sul bancone, intenta a leggere una rivi-sta di pettegolezzi. Vedendolo entrare, però, Vanessa alzò gli occhi dal giornale e lo salutò «Ciao belo, come stai zingaro?». Nik sorrise, visto che trovava divertente il soprannome, pensando che non si allontanasse troppo dalla realtà. Amava considerarsi un irriducibile vagabondo senza

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dio, né patria. Si sentiva sospinto continuamente da un’onnivora curio-sità mai paga d’accostare le sponde di nuovi cuori. Veleggiava libero come un pirata, a scoprire isole e continenti sconosciuti, laddove giace-vano i segreti tesori di spiriti per lui ancora vergini. Nei suoi viaggi a-veva conosciuto ragazze selvagge e irruenti, che correvano a piedi nudi sulle montagne, altre dal fascino discreto e sfuggente del daino. Le ave-va inseguite invaghito, anelando ad un bacio, una carezza o un sorriso. Ogni volta però, dopo essersi ristorato presso quelle oasi di felicità, non aveva esitato a rimettersi in viaggio. Con un po’ di stanco dolore nell’animo, ma anche la febbrile eccitazione della partenza, aveva sal-pato verso una nuova avventura. Non sarebbe stato lui, pensava, a sce-gliere una meta, piuttosto ne sarebbe stato predestinato. Avrebbe potuto considerarsi a casa solo quando, un giorno lontano, si fosse accorto di non aver più desiderato abbandonare il porto in cui era attraccato l’ultima volta. In quel momento la bionda gli sorrideva con uno sguardo di sfida e Nik la punzecchiò, ordinando con tono ironico uno dei suoi caffé buonissimi. Vanessa, in effetti, sebbene fosse convinta di saperlo preparare a regola d’arte, riusciva immancabilmente a bruciarlo. Al mondo però, ognuno crede a ciò che vuole e la verità è solo per i fessi, o i fanatici. La ragazza andò sul retro, dando modo a Nik di sbirciare con un certo disgusto la rivista di gossip abbandonata sul bancone. Non appena fu di ritorno, riprese a scherzare «Vedi zingaro? Tu non sarai mai come lui, prima devi taiare barba» e indicò sul giornale un vecchio pappone a bordo di uno yacht di trenta metri che cingeva, con l’ardore di un cane infoiato, i fianchi dell’ultima stelletta del varietà. «Già! È per la barba eh?» rispose divertito Nik, lasciando che Vanessa conti-nuasse. «Questa estate voio andare lì. Ci vano solo i vip, è belisimo!» esclamò con convinzione infantile. Ma cosa poteva significare un mi-raggio a buon mercato per uno zingaro senza religione? «Però ti man-cano queste…» provocò Nik, additando ai seni fenomenali della soubrette, torniti dal sapiente bisturi di un chirurgo del fotoritocco. A-veva sferrato un durissimo colpo allo smisurato senso d’autostima della giovane e ne attese la reazione. «Guarda che io me le rifacio, capito zingaro?» annunciò lei con solennità. Vanessa, oltre un’ingenuità ca-pricciosa ed un poco selvaggia, celava una profonda fragilità. Qualcuno avrebbe potuto ritenerla una ragazza sciocca e forse superficiale, ma così non si sarebbe spinto al di là di quel che lei lasciava trapelare. Na-scondeva le sue paure sotto ad un cumulo di banalità, ma al contempo

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era dimostrava una determinazione a tratti puerile, ma forse per questo più tenace. Nik l’aveva vista spesso in discoteca danzare come una me-nade ubriaca di follia, magari strusciandosi addosso all’imbecille di turno. Viveva la notte simile ad una fata dei boschi, accendendosi in uno sfolgorio accecante. L’ebbrezza le alleggeriva il cuore pesante di solitudine, mentre si lanciava in un vortice di disperazione ed oblio. Tuttavia, non era la sprovveduta che sarebbe parsa a prima vista. Anzi, sapeva badare molto bene a se stessa. Aveva messo a segno un colpac-cio, fidanzandosi col figlio del padrone per il quale lavorava. Costui era un ragazzone inetto e viziato, che una volta morto il vecchio avrebbe ereditato una fortuna di milioni, o almeno così i due immaginavano. Finché il padre era in vita il giovane però era relegato al ruolo di subal-terno, veniva trattato senza alcun riguardo e tenuto all’oscuro delle fac-cende di maggior rilevanza. L’anziano era un personaggio enigmatico, che aveva sempre incuriosito Nik. Era celebre per i suoi comportamenti da despota ed era risaputo che sarebbe stato capace di cavar sangue da una rapa. Si trattava di un uomo che si era fatto da sé. Si diceva che provenisse da un piccolo paese, perduto tra i monti del sud, quasi ai confini del mondo abitato. Chi l’aveva conosciuto, raccontava che era apparso in città dal nulla, con una valigia piena di stracci e di ambizio-ni, in un’epoca in cui i sogni potevano mutarsi in oro. Tra mille difficoltà aveva aperto un piccolo bar in un quartiere popolare e da subito gli affari gli erano andati per il meglio. Dopo qualche anno ne aveva avviato un secondo in una zona meno malfamata, cominciando ad assuefarsi al gusto di quei piccoli successi. Lavorando come una bestia, dimenticando orari, svaghi e pure la propria famiglia, ma non i santi protettori che benedivano i suoi sforzi, le attività erano cresciute insieme alle sue aspirazioni. Amava ripetere che il segreto del suo successo stesse nel pensare in grande, da re, ma sgobbare da schiavo. Simile ad un serpente che cambia pelle, negli anni si era sbarazzato di tutto ciò che potesse ricordarne le umili origini. Aveva avviato nuovi esercizi, sostituendo le insegne luminose dei propri locali con scritte finemente decorate, su cui ora si leggeva Cafè alla francese. Aveva, poi, investito in arredi meno dozzinali e divise eleganti per il personale, assumendo camerieri più attenti, lindi e garbati. Alla fine era riuscito a coronare il sogno di una vita, piantando la propria bandierina da cocktail sul locale più prestigioso della città. Vanessa, un giorno, era andata a bussare alla sua porta alla ricerca di un lavoro e il vecchio l’aveva presa con sé senza troppe questioni. Una volta alle sue

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za troppe questioni. Una volta alle sue dipendenze, la ragazza si era re-sa conto alla svelta quale fosse il miglior affare che potesse concluder-vi. Il figlio del capo, impacciato e un po’ scemo era caduto facilmente nella sua rete di moine e ammiccamenti, nella cessione di regali costosi in cambio di piccoli privilegi. L’anziano inizialmente non aveva accet-tato di buon grado la storia tra i due, evitando però d’ostacolarla. Il ten-tativo d’impedirla l’avrebbe legittimata con più forza agli occhi dei giovani. Si era accorto subito della caparbietà silenziosa di Vanessa, convincendosi che sarebbe stato difficile farle mollare l’osso. Aveva, quindi, preferito sfruttare quello spirito ambizioso per i suoi scopi, met-tendolo alla prova. Col tempo il lavoro, infatti, era diventato un tormen-to per il vecchio, a causa delle artriti di cui soffriva, perciò aveva co-minciato ad accarezzare il sogno di ritirarsi. Però, riteneva il figlio troppo sprovveduto per fronteggiare tutte le incombenze e aveva inizia-to a pensare ad un valido sostituto. Si era convinto, così, che solo Va-nessa avrebbe potuto prendere il suo posto con profitto. Aveva comin-ciato, perciò, a far ricoprire alla ragazza diverse mansioni, in modo che imparasse a conoscere gli ingranaggi di quella macchina, che non ven-deva solo pasticcini, ma sogni pesanti quanto l’oro. Ad un certo mo-mento le aveva affidato addirittura la gestione di un intero locale, visto che un giorno sarebbe diventata padrona di tutto. Per tale ragione, la ra-gazza ora si occupava di quel bar, come se fosse già cosa sua. Una volta concluso lo scambio di scaramucce con Vanessa, Nik salutò e fece ritorno in azienda. Trovò il Prete intento a mettere sottosopra l’armadio dei documenti. Il collega sentendolo rientrare si voltò appena, esclamando con tono esasperato «Sto facendo ordine tra queste cartac-ce». Nik era certo che l’indomani non si sarebbe trovato un accidente, ma evitò d’intralciarlo nell’inquietante esternazione delle sue manie da casalinga frustrata. Quindi sprofondò nella poltroncina, sbadigliò sono-ramente e aprì il giornale alla pagina della cronaca nera. Cercava qual-che notizia truculenta che gli tirasse su il morale. Ora il collega era oc-cupato e con tutta probabilità non l’avrebbe più infastidito. Non sapen-do come ammazzare il tempo, approfittò del telefono aziendale e si concesse pure l’agio di chiamare un paio di persone. Una di queste fu il Dottore, vecchio amico d’infanzia e maniaco sessuale di chiarissima fama. In quel momento, costui si trovava a casa e precisamente nel pro-prio studio. Al ragazzo era stato affibbiato il soprannome perché era fra i pochi del gruppo a vantare un titolo accademico, perseguito grazie ad

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un inveterato masochismo. Al drammatico ed inarrestabile declino dell’intero paese, si accompagnava anche la tragica decadenza delle u-niversità. Interessate solo alla ricezione di nuovi iscritti e alla realizza-zione di profitti, piuttosto che alla tutela della qualità didattica e della ricerca, gli enormi atenei offrivano una formazione scadente. Erano, in-somma, lo specchio fedele di una nazione morente e ormai allo sfascio, soffocata sotto il peso di privilegi ed interessi personalistici. Per fre-quentare con una buona probabilità di riuscita i corsi erano sufficienti dieci anni di tempo da perdere e diecimila bigliettoni per rimpinguare i bilanci amministrativi. Occorreva poi un quoziente intellettivo di poco superiore a quello di una capra, ma almeno così l’università poteva van-tare di essere finalmente un’istituzione democratica e accessibile a tutti. Tuttavia, iscriversi richiedeva anche nutrire una macabra passione per il non-senso della burocrazia e per il nepotismo di una casta di baroni, che spartivano le cattedre come i feudi del loro regno. Ecco in che modo la scuola era maestra di vita! A riprova della sua tenacità, il Dottore era comunque riuscito a superare ogni avversità con animo impassibile, si-mile ad un monaco zen. Durante i corsi sembrava quasi che dormisse. Dopo essersi laureato, contro qualunque funerea previsione degli amici, incredibilmente era riuscito pure a trovare lavoro. Insomma, si gridò al miracolo! Grazie a questa travolgente serie di successi, guadagnò un enorme prestigio agli occhi dei compagni, tanto che per scherno lo insi-gnirono ad perpetuum del titolo di dottore. Egli accettò il riconoscimen-to di buon grado, ritenendo gli conferisse un certo ascendente, soprat-tutto di fronte a chi non conoscesse che razza di bizzarro essere umano fosse. Quel pomeriggio, il ragazzo non rimase affatto sorpreso dalla telefonata di Nik. Sapeva che si trovasse in azienda e poltrisse come al solito. «Ti stai spaccando la schiena, eh?» disse il Dottore. «Eh già, fratello» ri-spose l’altro «non siamo mica tutti laureati come te! Il mio è un lavoro pesante, mi ucciderà». «Eh, la sorte è davvero ingiusta verso di te! Col tuo talento sei finito a fare lo schiavo. Che spreco! È l’ora delle barzel-lette, vero?» chiese. «Certo! Altrimenti perché ti avrei chiamato? Nes-suno fa più ridere di te… Comunque spero di non disturbare» s’informò Nik. «Tu disturbi sempre» replicò divertito il Dottore, «perciò ti addo-lorerà sapere che tra poco sarò costretto a terminare questa eccitante conversazione. A breve, infatti, presenterò un progetto ed ora ho molto da fare!». L’amico allora finse d’interessarsi alla faccenda, ma si stancò

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in fretta a discutere di informatica e programmazione. «Insomma, parli di roba seria. Ed io che credevo fossi solo un maledetto maniaco ses-suale! Stai peggiorando. Non ti riconosco più!» scherzò ancora. I due, alla fine, si salutarono e si diedero appuntamento per bere qualcosa, tornando ognuno ai propri affari. Concluse le sue telefonate, Nik si sti-racchiò sulla sedia, lanciò un’occhiata al grande orologio a muro e si sentì immediatamente sollevato. Entro breve un’altra lunga giornata di durissimo lavoro avrebbe potuto dirsi finalmente conclusa.

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Giovane artista scapigliato, amante dell'ossatura femminile, cerca ere-ditiera da spolpare, assicurasi forti emozioni, astenersi perditempo. Di-sponibili anche amici. Contattare l'autore.

Carl William Brown

L'amore eterno dura tre mesi. Confucio

CAPITOLO II Erano circa le due quando il Dottore rientrò a casa ubriaco fradicio. Giunto davanti alla porta raccolse i capelli unti in un codino, lanciò il mozzicone di sigaretta tra le margherite della madre e varcò l’uscio. L’indomani la vecchia, notando la cicca tra gli amatissimi fiori, si sa-rebbe messa a gridare come un’aquila, ma le sue attenzioni di figlio consistevano in questi gesti. Non si reggeva in piedi e fu costretto a sa-lire le scale carponi. Entrato in camera si gettò sul divano. Aveva trop-po alcol in corpo per riuscire a prendere sonno. Quale migliore occa-sione per guardare un porno, pensò. Il giorno precedente ne aveva recu-perato uno, interpretato da un’artista senza rivali. Stimò, quindi, che sa-rebbe stato il miglior sedativo contro la sbronza, la noia e l’insonnia. Sosteneva che il sistema fosse ottimo anche per alleviare i sintomi da stress, paranoia e depressione. Insomma, un toccasana pressoché uni-versale. Ebbe cura, prima della somministrazione, di chiudere a chiave la porta. Ricordava molto bene la volta in cui se ne era dimenticato. Era stato sorpreso dalla nonna la mattina seguente, addormentato sul picco-lo divano di camera sua, mentre se lo teneva ancora stretto tra le mani. A quella visione la vecchiaccia, forse dimentica di siffatto arnese, o for-se impressionata da tanta pochezza, aveva lanciato un grido d’orrore. Allora, per lo spavento era accorsa nella stanza l’intera la famiglia, mentre il Dottore ruzzolava a terra, credendo fosse in corso un bombar-damento aereo. Purtroppo il calmante tardò a fare effetto, richiese uno sforzo enorme e un lavorio pressoché incessante. Dovette guardare il

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film quasi due volte. Imparò a memoria pure le battute. «Che dialoghi!» ebbe a dire in seguito. Prima di collassare, pensò che forse Titanic, coi suoi centonovantaquattro minuti, sarebbe stato quasi più appropriato all’occasione, sebbene l’attore protagonista non fosse proprio il suo ti-po. Alla fine, però, cadde in un sonno profondissimo, sebbene fossero ormai le cinque del mattino. Aprì gli occhi solo molto tempo dopo, un fascio di luce bucava la tap-parella e andava a rimbalzargli sulla chiappa pelosa. La sveglia segnava le dodici passate e il fatto lo mise di buon umore: la nonna non aveva preso a calci la porta come ogni mattina. Forse era rimasta stecchita, immaginò speranzoso. Si lavò, scese in cucina a mangiare un panino e infine si sedette davanti al computer. Aveva parecchio lavoro da sbriga-re. Non resistette però alla tentazione di sbirciare se qualche amico fos-se on-line. Trovò Frank collegato al solito sito di scommesse virtuali, perciò gli scrisse in chat, ma l’altro rispose distrattamente. Era impe-gnato, riferì, a perdere soldi al poker. Da qualche tempo, nel gruppo di amici non si parlava d’altro che della partita di fine mese, visto che sarebbe stata la più ricca a cui avessero mai partecipato. Vincent era riuscito a procurare l’invito per entrare alla bisca di un certo Jack. Nonostante qualche timore iniziale, contagiati dalla febbre, gli amici si erano detti disposti a prendervi parte. Anche Pollicino, che si mostrava sempre il più prudente del gruppo, aveva ac-cettato la sfida, lasciandosi trascinare dall’entusiasmo. Il denaro in palio era parecchio e faceva gola. In vista della gara, perciò, ognuno di loro aveva deciso di mettere in pratica una personalissima preparazione psi-cofisica. Vincent si era imposto una ferrea astinenza da tutto quel che dipendesse dalla fortuna. Carte, bingo, lotteria, corse di cavalli e scommesse erano state accantonate fino al gran giorno. Era convinto, infatti, che i regali della fortuna fossero contati e una volta esauriti l’uomo non ne potesse chiedere altri per sé. Si era ripromesso, quindi, che non li avrebbe sprecati alle slot-machine, o tentando la sorte con qualche lotteria impossibile. Al contrario, avrebbe avuto riguardo dei doni della dea bendata, risparmiandoli per la partita a poker. Perciò si era votato ad una perfetta castità. Il rispetto di un simile fioretto gli sa-rebbe costato una fatica immane, anche solo per eliminare dal proprio vocabolario espressioni come «Se non ci credi, scommettiamo!», che era poi la sua migliore argomentazione dialettica. Nik, al contrario, non credeva alla teoria dell’amico. Non era convinto che fosse scritto nel

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dna il numero di volte che si potesse essere fortunati. Propendeva, inve-ce, per la tesi del fluido. Sosteneva che esistesse un’energia misteriosa, forse emanata dagli astri. Percependola su di sé, simile ad una magica aurea, sapeva che essa gli avrebbe consentito una fortuna illimitata, in-dipendentemente da tutto il resto. Frank e Renè, invece, preferivano ba-sarsi sulle certezze della statistica. Scienza che tuttavia non arrivava a chiarire, secondo il Dottore, la ragione per cui alcuni numeri, cioè quel-li su cui immancabilmente scommetteva, non uscissero neanche dopo centinaia di estrazioni. Quest’ultimo invece aveva fisse assurde, come la mania per i gesti scaramantici, l’interpretazione di segni premonitori e alcuni amuleti che a suo dire lo proteggevano dal caso avverso. Al poker, però, amava sopra ogni cosa bluffare. Ma l’evento che agli occhi di tutti ebbe davvero dell’incredibile, fu l’intenzione di Frank di parte-cipare alla partita. L’indole prudente del ragazzo mal si adattava all’azzardo e i compagni rimasero di sasso quando lo sentirono escla-mare «Quant’è vero il diavolo, questa volta ci sarò anch’io! ». Pollici-no, inoltre, aveva il grosso difetto di basare l’intera strategia di gioco solo sulle proprie carte, dimenticando quanto fosse importante battere gli avversari innanzitutto psicologicamente, più che ai punti. In vista dell’incontro, perciò, aveva deciso di fare pratica. Si era messo a studia-re qualche tattica da manuale. Il poker, tuttavia, assomiglia alla guerra e bisogna trovarsi a rischiare davvero, prima di conoscere fin dove s’abbia il fegato di spingersi. Occorre saper dominare il brivido mortale di perdere ogni cosa, o il fuoco pazzesco di vincere e vincere ancora, in un delirio d’onnipotenza distruttrice. Altrimenti c’è da rompersi l’osso del collo. Durante la giornata, il Dottore ricevette oltre alla telefonata di Nik an-che quella di Vincent. L’amico aveva una proposta per la serata, ma il ragazzo rifiutò l’invito. Aveva l’abitudine di uscire raramente, in genere solo per andare a bere al pub. Altrimenti, era solito trascorrere la mag-gior parte del tempo chiuso in studio. Era refrattario alle novità e con-duceva una vita piuttosto appartata. Aveva ormai trent’anni suonati, ma continuava ad abitare con gli anziani genitori. Renè controllava spesso tra le margherite se ci fossero buche fresche, temendo che in un raptus di follia, prima o poi, avrebbe fatto a pezzi e seppellito in giardino i vecchi. I compagni, infatti, si domandavano sovente quale potesse esse-re la ragione per cui fosse così restio a guadagnare la propria indipen-denza, senza però venirne a capo. Sembrava non provasse alcun deside-

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rio di scoperta, in realtà il mondo e la sua vastità lo spaventavano. Per-ciò si limitava a spiarlo dal buco della serratura, come un bambino troppo cresciuto. Dopo cena era solito chiudersi in studio dove sprofon-dava in qualche chat-line a conoscere diciottenni brufolose, o disperate signore di mezza età. Quest’ultime erano le sue interlocutrici preferite, perché si dimostravano disinibite ed inclini alle idee più imprevedibili. Trascurate e forse un po’ depresse andavano in cerca di banali evasioni. Il Dottore aveva accumulato una considerevole esperienza in materia, sapeva adularle ed intrattenerle. Si divertiva a provocarle con domande indiscrete e magari estorcere loro un piccolo segreto. Gli incontri somi-gliavano ad un gioco, surrogato della vita, insomma una facile via di fuga dal grigiore della quotidianità. Sfruttando la tecnologia, era possi-bile ricostruire artificialmente sentimenti, emozioni ed ambizioni, go-dendone come se fossero stati veri. Bastava poi premere un bottone per archiviare o dimenticare ogni cosa, tornando alla propria routine. Era importante però che tra il piano della finzione e quello della realtà non vi fosse contatto. Il Dottore si preoccupava di conoscere innanzitutto il luogo di provenienza delle sue interlocutrici. Riteneva fondamentale rimanere nell’anonimato. Prediligeva donne tra i trenta e i quarant’anni, meglio se sposate. Trovava eccitante l’idea di potersi addentrare con spirito voyeuristico nelle vite, nelle case e nei letti delle poverette. Una volta fatta breccia nel muro di silenzio dietro cui stavano barricate, guadagnando la loro fiducia, le donne si abbandonavano a mezz’ora di trasgressione. Dimenticando il ruolo di madri premurose e spose fedeli, entravano nei panni della prostituta. Signore che, incontrandolo per strada non l’avrebbero degnato di uno sguardo, in quell’occasione si sottomettevano ad ogni suo capriccio. Gli spedivano foto, o si mostra-vano nude sul monitor. Il Dottore rimaneva lì, infoiato come un cane, ad osservare seni flaccidi e labbra frementi di voglia, senza compren-dere il perché si costringesse ad essere schiavo di un simile sistema. Ecco cos’era il sesso del XXI secolo: pura masturbazione dei corpi e delle menti, cattività tecnologica e avvento delle macchine. FINE ANTEPRIMACONTINUA...