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Parte III IL MONDO EGIZIO 1 – L’origine della scrittura egizia 1 Dal punto di vista formale, la scrittura egizia è forse la più bella scrittura mai concepita dall’uomo. La scrittua cufica e certe forme calligrafiche cinesi sono altrettanto eleganti, ma a scapito della comprensibilità: la bellezza è in esse qualcosa di aggiunto, che finisce sempre per disturbare la lettura. Nella scrittura geroglifica, invece, quanto più il segno è tracciato con cura, tanto più è facile identificare l’oggetto cui si riferisce, quindi, in definitiva, interpretarlo. I geroglifici non sono astratti come i nostri segni alfabetici, ma rappresentano il mondo reale degli Egizi, gli oggetti che usavano, gli animali della valle del Nilo, uomini e donne vestiti nei costumi del tempo. La persona comune che li osserva riesce a leggere ciascun segno, e a capire di cosa si tratta. Ma l’insieme rimane misterioso, remoto. Per questo essi hanno sempre esercitato e esercitano tuttora un grande fascino, anche su coloro (anzi, soprattutto su coloro) che non sono in grado di comprenderli. Sappiamo che negli anni in cui la scrittura compare sulle rive del Nilo esistevano relazioni politiche e commerciali tra l’Egitto e la Mesopotamia, dove i Sumeri avevano già elaborato, come si è visto, un proprio sistema di scrittura. E’ quindi probabile che gli Egizi abbiano attinto dai Sumeri, in quei lontanissimi tempi, l’idea della scrittura e i suoi principi fondamentali: la logografia, la fonografia, il metodo di porre dei segni in sequenza, lungo una linea. Questa influenza spiega anche la relativa rapidità con cui la scrittura egizia si perfezionò. I due sistemi di scrittura, egizio e sumerico, si svilupparono tuttavia in forme e modi completamente diversi: dopo il possibile, probabile contatto iniziale, ogni parentela tra essi è da escludere completamente. La datazione delle prime testimonianze scrittorie in Egitto è un fatto incerto e problematico. Senza addentrarci nel complicatissimo problema della preistoria egizia e del passaggio tra periodo predinastico e periodo protodinastico, ricorderemo solo che gli studiosi parlano per il periodo predinastico di quattro suddivisioni: tasiano (dal villaggio di Deir Tasa – totale assenza di metallo e vasellame primitivo), badariano (dal villaggio di Badari – arte fittile di straordinaria qualità e qualche traccia di rame), amratiano o nakadiano I (rispettivamente dai villaggi di El Amra e di Nakada – vasi a disegni geometrici, figurine d’argilla o d’avorio, mazze a forma di disco, spilli di rame, tracce di oro), e gerzeano o nakadiano II (dal villaggio di Gerza – vasellame decorato con figure, molto tipico, mazze a pera, abbondante impiego del rame). I problemi sorgono quando si cerca di datare queste testimonianze: Flinders Petrie 2 propose un suo sistema, detto 1 Per la bibliografia vedi Adkins,311. 2 Flinders Petrie fu il più grande egittologo dell’Ottocento, il primo ad applicare un metodo scientifico negli scavi. Mentre i suoi predecessori erano essenzialmente dei cacciatori di tesori, egli operava senza fare alcuna distinzione tra reperto prezioso o artistico e oggetto povero: l’oggetto povero poteva infatti essere veicolo di testimonianze di grande importanza dal punto di vista storico e archeologico. Come è stato detto, egli fu il primo a capire che negli scavi archeologici il setaccio è più importante della vanga. Era nato nel 1853. Le sue prime ricerche furono rivolte alla storia dei pesi e delle misure (1875) e al sito di Stonehenge (1880). Giunse in Egitto nel 1881, per studiare le Piramidi. Non aveva preparazione accademica specifica, ma ben presto divenne uno straordinario conoscitore della lingua e della storia egizie. Fu chiamato alla prima cattedra inglese di egittologia, a Londra, e ricevette onori da istituzioni accademiche e dalla Corona inglese, che nel 1923 lo nominò sir. I suoi primi scavi a Tanis nel 1883- 84 e al Faiyum tra il 1887 e il 1890, come vedremo in seguito, portarono alla scoperta di importantissimi papiri greci. Fondamentali furono le sue ricerche sul periodo predinastico e protodinastico, del quale si ignorava quasi tutto. Morì a Gerusalemme nel 1942. Trascriviamo il pittoresco ritratto cha fa di lui Leo Deuel: “Uomo di spirito

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Parte III

IL MONDO EGIZIO

1 – L’origine della scrittura egizia1 Dal punto di vista formale, la scrittura egizia è forse la più bella scrittura mai concepita dall’uomo. La scrittua cufica e certe forme calligrafiche cinesi sono altrettanto eleganti, ma a scapito della comprensibilità: la bellezza è in esse qualcosa di aggiunto, che finisce sempre per disturbare la lettura. Nella scrittura geroglifica, invece, quanto più il segno è tracciato con cura, tanto più è facile identificare l’oggetto cui si riferisce, quindi, in definitiva, interpretarlo. I geroglifici non sono astratti come i nostri segni alfabetici, ma rappresentano il mondo reale degli Egizi, gli oggetti che usavano, gli animali della valle del Nilo, uomini e donne vestiti nei costumi del tempo. La persona comune che li osserva riesce a leggere ciascun segno, e a capire di cosa si tratta. Ma l’insieme rimane misterioso, remoto. Per questo essi hanno sempre esercitato e esercitano tuttora un grande fascino, anche su coloro (anzi, soprattutto su coloro) che non sono in grado di comprenderli.

Sappiamo che negli anni in cui la scrittura compare sulle rive del Nilo esistevano relazioni politiche e commerciali tra l’Egitto e la Mesopotamia, dove i Sumeri avevano già elaborato, come si è visto, un proprio sistema di scrittura. E’ quindi probabile che gli Egizi abbiano attinto dai Sumeri, in quei lontanissimi tempi, l’idea della scrittura e i suoi principi fondamentali: la logografia, la fonografia, il metodo di porre dei segni in sequenza, lungo una linea. Questa influenza spiega anche la relativa rapidità con cui la scrittura egizia si perfezionò. I due sistemi di scrittura, egizio e sumerico, si svilupparono tuttavia in forme e modi completamente diversi: dopo il possibile, probabile contatto iniziale, ogni parentela tra essi è da escludere completamente.

La datazione delle prime testimonianze scrittorie in Egitto è un fatto incerto e problematico. Senza addentrarci nel complicatissimo problema della preistoria egizia e del passaggio tra periodo predinastico e periodo protodinastico, ricorderemo solo che gli studiosi parlano per il periodo predinastico di quattro suddivisioni: tasiano (dal villaggio di Deir Tasa – totale assenza di metallo e vasellame primitivo), badariano (dal villaggio di Badari – arte fittile di straordinaria qualità e qualche traccia di rame), amratiano o nakadiano I (rispettivamente dai villaggi di El Amra e di Nakada – vasi a disegni geometrici, figurine d’argilla o d’avorio, mazze a forma di disco, spilli di rame, tracce di oro), e gerzeano o nakadiano II (dal villaggio di Gerza – vasellame decorato con figure, molto tipico, mazze a pera, abbondante impiego del rame). I problemi sorgono quando si cerca di datare queste testimonianze: Flinders Petrie2 propose un suo sistema, detto 1 Per la bibliografia vedi Adkins,311. 2 Flinders Petrie fu il più grande egittologo dell’Ottocento, il primo ad applicare un metodo scientifico negli scavi. Mentre i suoi predecessori erano essenzialmente dei cacciatori di tesori, egli operava senza fare alcuna distinzione tra reperto prezioso o artistico e oggetto povero: l’oggetto povero poteva infatti essere veicolo di testimonianze di grande importanza dal punto di vista storico e archeologico. Come è stato detto, egli fu il primo a capire che negli scavi archeologici il setaccio è più importante della vanga. Era nato nel 1853. Le sue prime ricerche furono rivolte alla storia dei pesi e delle misure (1875) e al sito di Stonehenge (1880). Giunse in Egitto nel 1881, per studiare le Piramidi. Non aveva preparazione accademica specifica, ma ben presto divenne uno straordinario conoscitore della lingua e della storia egizie. Fu chiamato alla prima cattedra inglese di egittologia, a Londra, e ricevette onori da istituzioni accademiche e dalla Corona inglese, che nel 1923 lo nominò sir. I suoi primi scavi a Tanis nel 1883-84 e al Faiyum tra il 1887 e il 1890, come vedremo in seguito, portarono alla scoperta di importantissimi papiri greci. Fondamentali furono le sue ricerche sul periodo predinastico e protodinastico, del quale si ignorava quasi tutto. Morì a Gerusalemme nel 1942. Trascriviamo il pittoresco ritratto cha fa di lui Leo Deuel: “Uomo di spirito

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“Sequence Dating”, fondato sull’evoluzione morfologica del vasellame, che ebbe molta fortuna (dai numeri SD 21-29 attribuiti al badariano, sino ai numeri SD 40-62 attribuiti al Gerzeano). Ma quale date assegnare a questi numeri ? E in definitiva, quale data assegnare all’unificazione dei due Regni e al sorgere della prima dinastia ? Petrie collocò i primi resti Neolitici trovati al Faiyum nel 9000 a. C., il periodo badariano circa nel 7500 e il primo faraone, Menes, nel 4326. Altri archeologi accorciano moltissimo il periodo predinastico, e posticipano il regno di Menes al 3200-3000 circa. Comunque sia, è certo che nell’ultima parte del periodo predinastico l’Egitto conosceva già una forma di scrittura. Scavi recenti ad Abydos, nel’Alto Egitto, hanno dimostrato che geroglifici con struttura a rebus, già molto sviluppati, erano in uso nel gerzeano. Nel Medio Regno i faraoni egizi portavano ben cinque nomi, ciascuno preceduto da titoli o epiteti. Il più antico di questi nomi, usato dai sovrani protodinastici era il cosiddetto “Nome di Horo”, che indicava in quale forma il dio Horo (falco) si era reincarnato nel faraone. Questo nome era scritto nel serekh, un cartiglio verticale sovrastato dal falco, alla cui base era rappresentato un edificio, evidentemente il palazzo reale. Falco e palazzo erano i simboli del potere. Tra questi due simboli vennero poi a inserirsi i geroglifici che caratterizzavano il nome del re, formando così il suo emblema, analogamente a quanto accadrà per gli stemmi araldici nel Medio Evo. La lettura delle iscrizioni più antiche è piuttosto incerta, anche se in esse troviamo gli stessi segni che si troveranno più tardi, di cui si conosce perfettamente il significato. Si deve quindi supporre che nei primi tempi i segni geroglifici non avessero un pieno valore fonetico, ma servissero soprattutto da promemoria. Una testimonianza preziosa è costituita dalle tavolette di pietra che si usavano per pestare la malachite e ricavarne una polvere con cui truccare gli occhi (anche a fini magici). Tavolette di questo tipo sono state trovate negli scavi dei siti neolitici; col periodo amratiano esse assumono forme decorative, e verso la fine del gerzeano cominciano a presentare bassorilievi. Probabilmente le tavolette più belle non avevano scopo pratico, ma erano oggetti votivi. Su queste tavolette compaiono in un certo numero segni assai simili ai futuri geroglifici.

indipendente se mai ve ne furono, era incapace di trattare con i pubblici funzionari ... Se riuscì nei suoi intenti, lo dovette alla sua incredibile, feroce parsimonia. L’esecuzione del suo primo progetto, lo studio delle Piramidi, avrebbe dovuto comportare secondo le stime una spesa minima di 1.300 sterline: Petrie condusse in porto l’impresa con meno di 300. Per sé non spendeva quasi nulla, e mangiava e dormiva in un modo che sarebbe stato considerato indecoroso dagli eremiti cristiani dei primi secoli vissuti in ritiro nel deserto egiziano.” (L. DEUEL, Testaments of Time, New York, 1965, trad it. Cacciatori di libri sepolti, Milano, 1968, pp. 101-102. Charles Breasted, figlio del grande egittologo americano, racconta di aver conosciuto Petrie nel corso di una visita con il padre ai suoi scavi: “[aveva] una faccia simpaticissima, occhi pieni di bontà e l’agilità di un ragazzo. I suoi vestiti confermavano la fama di cui godeva, non solo di trascuratezza nell’abbigliamento, ma addirittura di voluta sciatteria e sporcizia; portava infatti un paio di pantaloni e una camicia cenciosi e luridi, sandali consumati, e non aveva calze. Era una delle sue numerose idiosincrasie il preferire che i suoi aiutanti vestissero male come lui; e amava vantare la capacità propria e dei propri uomini di sopportare ogni privazione. Quanto al vitto, era così cattivo e così frugale che solo persone con una fibra di ferro vi potevano sopravvivere; e anche di quelle si sapeva che di tanto in tanto lasciavano di nascosto il campo per placare la fame dividendo i fagioli e il pane non lievitato (un lusso in confronto a ciò che mangiavano di solito) dei fellahin dei dintorni” (CH. BREASTED, Pioneer to the Past. The Story of James Henry Breasted, New York, 1943, citato da Deuel, op. cit., p. 102). Petrie, oltre a molte opere scientifiche, pubblicò anche un libro di memorie: F. PETRIE, Seventy Years in Archaelogy, London, 1931.

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Tjehnu La tavoletta dei Tjehnu, conservata al Museo del Cairo, è tra le più interessanti.

Così la descrive Gardiner: Sul recto compaiono sette rettangoli con contrafforti che evidentemente rappresentano città conquistate in cui esseri simbolici si aprono il cammino per mezzo di picche. I geroglifici, per lo più singoli, all’interno dei rettangoli erano certo destinati a rappresentare il nome delle città. E’ stata avanzata l’ipotesi che negli attaccanti (falco, leone, scorpione, ecc. ) si debba riconoscere, sotto aspetti diversi, un unico capotribù vittorioso, ma è assai più probabile ch’essi rappresentino province diverse coalizzate in una guerra comune. [...] Sul rovescio si vedono buoi, asini e arieti che camminano pacifici verso destra, ciascuna specie disposta in fila in un registro distinto, mentre in basso sono raffigurati alberi che P. E. Newberry suppone siano ulivi; di fianco agli alberi è [un] monogramma, che Sethe giustamente interpreta come Tjehnu, il paese dei Libi detti Tjehnyu.1 Ancor più interessante è la celebre tavoletta di Narmer, trovata nel 1898 da Quibell

a Kom el-Ahmar, presso Edfu, anch’essa al Museo del Cairo. Sull’identità di Narmer si discute da tempo. Alcuni lo hanno identificato con il primo Faraone della prima dinastia, conosciuto anche con i nomi di Menes e di Aha. Altri ritengono che Menes e Aha fossero due personaggi diversi, senza negare l’identificazione tra Narmer e Menes.

1 A.GARDINER, Egypt of the Pharaohs. An Introduction, Oxford, 1961, trad it. La civiltà egizia, Torino, 1971, p. 375.

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Comunque sia, la tavoletta di Narmer ci mostra chiaramente il modo con cui venne

formandosi la scrittura geroglifica. Da una parte il sovrano è mostrato con la corona bianca

dell’Alto Egitto ¨, dall’altra con la corona rossa del Basso Egitto º: è quindi chiaro che egli domina su entrambi i regni. In cima alla tavoletta il nome del re è indicato da due geroglifici: un pesce (nr) e uno scalpello (mr), da cui il nome Narmer. Anche il nemico sconfitto è indicato con due geroglifici: un arpione (wa) e uno stagno (s): è possibile quindi che il suo nome fosse Washi. Più misteriosi sono i segni raggruppati davanti al volto del Re, sopra la testa del prigioniero barbuto: il falco Horo, che rappresenta il Re, ha tra gli artigli una corda legata alla testa del nemico vinto. La testa del nemico sporge da un segno di forma piatta e allungata, che probabilmente rappresenta il suo paese, da cui escono sei steli di papiro. Gardiner interpreta il papiro come indicazione del Basso Egitto. Narmer con la corona dell’Alto Egitto avrebbe quindi sconfitto il Re del Basso Egitto e unificato il Regno. Altri pensano che il segno allungato del paese sconfitto indichi una terra piatta, e che i sei steli di papiro abbiano un valore numerico (6.000 nemici uccisi o prigionieri). Anche gli altri personaggi, di difficile identificazione, sono accompagnati da segni. Comunque sia, è chiaro che lo scultore della tavoletta intendeva raffigurare degli avvenimenti, ma anche ulteriormente specificarli, con i mezzi grafici che aveva a disposizione, non ancora capaci di tradurre una frase completa.

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Menes

Di grande interesse è anche una tavoletta d’avorio trovata nel 1897 a Nakada da De Morgan. Questa tavoletta reca due fori, ed è probabile che fosse una specie di etichetta da legare con una corda a un recipiente. In tal caso si deve anche supporre che la tavoletta recasse una “data” e l’indicazione di ciò che il recipiente conteneva. Tutta la tavoletta è ricoperta da segni di non facile interpretazione, molti dei quali passeranno alla scrittura geroglifica. I due segni in alto a destra sono il primo, subito davanti alla nave, il serekh con il nome di Horo del Re Aha, “Il Combattente”, il secondo una specie di capanna con il cobra e l’avvoltoio (simbolo delle “Due Signore”, titolo che accompagnava spesso i Re della prima Dinastia), due cesti e una scacchiera. In quest’ultima, che vale foneticamente mn, si legge il nome del Re Menes. E’ possibile, secondo alcuni specialisti, che l’insieme indichi una data: l’anno in cui il Re Aha, facendo un viaggio in nave, fece erigere delle costruzioni per i funerali del suo predecessore Menes. Ma altri egittologi ritengono invece che Aha e Menes siano la stessa persona. Come si vede, in questo stadio primitivo, i segni geroglifici sono ben lungi dal fornire informazioni chiare e univoche. E’ inoltre evidente che se in Mesopotamia la scrittura nasce per scopi contabili, in Egitto essa nacque soprattutto per definire l’identità delle figure rappresentate nei rilievi e per meglio precisarne i contenuti. Le pratiche funerarie, particolarmente sviluppate tra gli Egizi, favorirono in modo particolare l’impiego della scrittura, anche con valore religioso o magico.

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Piramidi

Il passaggio da queste forme primitive a una scrittura perfettamente in grado di registrare frasi articolate e pensieri complessi fu abbastanza rapido. I Testi delle Piramidi sono stati trovati all’interno di Piramidi di Re della V e VI Dinastia,1 ma probabilmente derivano da testi più antichi. Si può supporre che già intorno al 2700 a. C. (III Dinastia) la scrittura geroglifica avesse raggiunto un completo sviluppo, in quelle forme che manterrà poi sostanzialmente immutate per un lunghissimo volgere di secoli. L’ultima iscrizione geroglifica2 sicuramente documentata, da Philae, è databile al 394 d. C. Se si pensa che la nostra scrittura latina non ha ancora raggiunto i 2500 anni, con molti cambiamenti nel corso della propria storia, il perdurare della complessa e affascinante scrittura geroglifica per più di 3000 anni è senz’altro un fatto degno di nota.

2 - Scribi e papiri

demotica

1 I più antichi nella tomba del re Unis, V dinastia. Si tratta di formule ed invocazioni rituali, scritte in una lingua arcaica, spesso oscuri e di difficile interpretazione. Essi avevano lo scopo di assicurare al sovrano defunto l’immortalità; comprendono circa 800 invocazioni, scritte in colonna all’interno di alcune piramidi dell’antico Regno, a Saqqara. Vanno letti partendo dalla camera sepolcrale, e procedendo verso l’esterno. 2 Nel 392 d. C. l’imperatore Teodosio in un editto proibì l’uso della scrittura geroglifica e ordinò la chiusura dei templi pagani. All’interno del remoto tempio di Philae i geroglifici furono però impiegati ancora per circa cinquanta anni.

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due esempi di scrittura ieratica

geroglifico librario

La leggenda vuole che la scrittura egizia fosse inventata dal dio Thoth: in realtà

essa non corrisponde a un disegno razionale, ma piuttosto a una serie di approssimazioni e sedimentazioni determinate dall’uso e dal consolidarsi di forme particolari nell’ambito di una casta, quella degli scribi, piuttosto chiusa.

Nell’Egitto dinastico la conoscenza della scrittura era prerogativa della classe sacerdotale, che organizzava all’interno dei templi delle vere e proprie scuole per preparare gli scribi. Essi poi a loro volta potevano rimanere nei templi, dedicandosi alle molte registrazioni che questi richiedevano (annali, conti, ecc.), oppure entrare

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nell’amministrazione dello stato. Molti scribi si specializzavano poi nella scrittura dei “libri dei morti”, che erano regolarmente fabbricati e venduti per accompagnare i defunti nella tomba. E’ lecito supporre che la popolazione comune fosse invece incapace sia di scrivere sia di leggere: per il popolo le iscrizioni che comparivano ovunque sulle mura dei templi e degli edifici erano incomprensibili, e probabilmente dotate di forte valore magico. La scrittura così abbondantemente esibita, ma misteriosa ai più, fu probabilmente un forte strumento del potere.

Gli scribi avevano nel mondo egizio un grande prestigio. Lo scriba, anche se di nascita umile, veniva a contatto con personaggi potenti e aveva molte possibilità di elevarsi socialmente: sappiamo di scribi che divennero alti funzionari, comandarono eserciti, acquistarono fama e ricchezza. La civiltà egizia non era, a differenza di altre civiltà dell’antico Oriente, caratterizzata dal militarismo. Protetto dalla sua stessa collocazione geografica, e padrone di quasi tutte le risorse che potevano occorrergli, l’Egitto non diede al proprio apparato militare il prestigio e l’importanza assoluta che gli assegnarono altre civiltà. Le occupazioni pacifiche, produttrici di ricchezza e di benessere, erano in confronto assai più stimate. Lo scriba, in particolare, fosse egli sacerdote o laico, aveva un ruolo fondamentale nell’amministrazione, ma era soprattutto prezioso per assicurare una comunicazione col defunto, e tra il defunto e il mondo ultraterreno. Proprio la sacralità dello scritto conferiva una sorta di sacralità anche allo scriba. La migliore testimonianza di questo è dato dalle celebri Istruzioni di Akhtoy, figlio di Duauf, in cui si passano in rassegna tutte le professioni con i loro lati spiacevoli per concludere che solo quella dello scriba riserva a chi la pratica la pace e la felicità:

Vedi, non c’è lavoro in cui non si abbia un padrone solo lo scriba è padrone di se stesso ... dai tutto il tuo cuore ai libri ... nulla vale più dei libri ... vorrei che tu amassi i libri più di tua madre vorrei farti vedere tutta la loro bellezza ...

Diventare scriba non era tuttavia facile: bisognava imparare a memoria e essere

capaci di disegnare almeno settecento segni diversi (molti di più nel Nuovo Regno), il che richiedeva parecchi anni di apprendistato, più o meno come nelle attuali scuole cinesi.

La scrittura egizia si presenta in tre forme principali: geroglifica, ieratica e demotica. La scrittura geroglifica ha questo nome (dal greco ƒerÒj, sacro e glÚfw, scolpire) perché in epoca alessandrina era ormai prevalentemente impiegata per iscrizioni di tipo sacro (il nome di questa scrittura per gli Egizi era mdw-ntr, “parole del dio”, con riferimento a Thoth). Nell’Egitto antico essa era invece di impiego generale. Nella forma epigrafica i segni si presentano nei seguenti modi:

- scolpiti in bassorilievo (il tratto è in rilievo rispetto al fondo liscio) - scolpiti in bassorilievo e poi colorati con diversi colori - modellati con stucco o gesso, poi applicati alla superficie e dipinti - incisi - incisi e dipinti, soprattutto in blu o in verde - incisi profondamente con ulteriori particolari incisi nella parte cava - in silhouette, dipinti in blu o nero - dipinti direttamente con vari colori

I colori a volte riflettevano la realtà (onde del mare in blu, ecc.) ma potevano anche essere di fantasia. Le tinte hanno assunto col tempo toni leggeri e delicati, ma erano probabilmente in origine assai vivaci e contrastanti. Il supporto epigrafico poteva essere pietra dura (diorite, basalto), pietra tenera (calcare), muro, intonaco, stucco, legno. La scrittura geroglifica poteva essere impiegata anche su supporti flessibili: assumeva allora forme manoscritte, meno monumentali e più fluenti. Anche in questo caso

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poteva essere colorata con più colori, ma di solito era nel solo colore nero, con parti in rosso, come nei testi medievali rubricati.

Gli Egizi non esitavano a scrivere su supporti di tipo epigrafico testi anche molto lunghi, di carattere storico, religioso o narrativo. La loro scrittura ci è tramandata da un enorme numero di documenti: essi erano dei veri grafomani. Quasi tutte le testimonianze pervenuteci della loro civiltà recano delle scritture. I muri esterni e interni dei templi, le pareti delle tombe, i sarcofagi, le statue, gli oggetti, tutto era un supporto su cui scrivere. Sugli oggetti d’uso, preziosi o poveri, incontriamo spesso il nome del proprietario, o un’invocazione a una divinità. Le stesse bende con cui si avvolgevano le mummie erano spesso scritte, oppure inglobavano dei piccoli rotoli scritti con preghiere.

Come supporto scrittorio gli studenti usavano delle tavole coperte di stucco lisciato, ottenuto mescolando gesso e colla, sulla quale l’inchiostro aderiva, ma che si potevano anche cancellare con facilità.

Per la scrittura manuale, tuttavia, il supporto scrittorio più ampiamente usato erano fogli ricavati dal papiro. Il papiro più antico pervenutoci (non scritto) proviene da una tomba di Saqqara della prima dinastia, circa 3000 a. C. I papiri scritti più antichi risalgono circa al 2700 a. C. (Museo di Berlino).

Neferirkara Kakai

I più antichi papiri in scrittura ieratica, in inchiostro nero, furono trovati

nella tomba di Neferirkara Kakai, il terzo Re della V dinastia.1 Mentre la difficoltà di tracciare figure sull’argilla indusse i popoli mesopotamici

ad elaborare una forma di scrittura astratta, i geroglifici egiziani mantennero sempre un evidente carattere figurativo. Rispetto alle tavolette mesopotamiche, la scrittura su papiro presentava molti vantaggi: il papiro era più leggero, più facile da archiviare, non si rompeva 1 Furono scoperti nel 1893 ad Abusir, e comprendono circa 300 frammenti. Rimasero a lungo inediti, e furono pubblicati solo 75 anni dopo, a cura di studiosi cecoslovacchi.

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se cadeva in terra. Su di esso si poteva scrivere più in fretta che sulle tavolette, e l’inchiostro asciugava quasi subito (le tavolette invece dovevano essere cotte in un secondo tempo). Inoltre la scrittura geroglifica, grazie alla sua sinteticità, occupava meno spazio delle varie scritture cuneiformi.

In alternativa al papiro si impiegava anche pelle conciata, battuta in modo da diventare assai sottile, e pergamena, sin da tempi molto antichi: sappiamo di impiego della pelle all’epoca della IV dinastia, e ci è pervenuto un rotolo di pergamena del 1288 circa. Il papiro (cyperus papyrus) cresceva abbondante in Egitto, soprattutto nella zona del Delta. Era usato dagli Egizi e da altri popoli antichi per molti scopi: costruzione di barche, di canestri, di corde: Serse per invadere la Grecia fece tendere sul Bosforo un ponte retto

appunto da funi di papiro. Il segno geroglifico del papiro … era anche il segno indicante il Delta e il Basso Egitto. Sappiamo abbastanza bene, grazie a Plinio il Vecchio, come gli Egizi fabbricavano il papiro, secondo una tecnica che non subì nessun cambiamento per quasi quattromila anni, e che è impiegata ancora oggi, a fini turistici. Lo stelo della pianta, triangolare, lungo anche due metri, era privato della corteccia e tagliato a strisce, che erano poi appoggiate su un supporto piano, in senso verticale, l’una accanto all’altra, in modo da formare una superficie unica; un tipo particolare di papiro fabbricato con le fibre centrali dello stelo, era particolarmente pregiato, ed era usato per testi sacri. Su questo strato si appoggiava un secondo strato di strisce parallele, ma in senso orizzontale. Queste strisce, provenendo da piante tagliate da poco, erano ancora impregnate di linfa, piuttosto collosa: comprimendo i due strati, con battitura o pressione, le strisce si incollavano formando una specie di foglio. Bagni nell’acqua del Nilo e forse l’aggiunta di collanti contribuivano a fissare l’insieme. Dopo asciugatura e lisciatura con pietra, conchiglie o avorio, questi fogli erano rifilati in forma rettangolare, con un’altezza di circa 20-25 centimetri (ma in tempi tardi si incontrano anche papiri molto più alti, 40 centimetri e oltre) e una larghezza che variava da 12 a 40 centimetri. Un secondo foglio era poi affiancato al primo, lungo il lato minore, e incollato a questo, sempre sfruttando la linfa. Si proseguiva così sino a formare lunghe strisce, alte come il singolo foglio, e lunghe anche parecchi metri: in media la lunghezza era di 8-10 metri, e comunque rapportata alle necessità del testo (ad esempio un papiro di questa lunghezza può contenere uno dei Vangeli); ma il papiro più lungo che conosciamo, il celebre papiro Harris 1del British Museum,1 proveniente da una tomba di Tebe, è lungo quasi 45 metri e alto quasi 45 centimetri.

1 Fu trovato vicino al tempio di Medinet Habu ed acquistato da Antony Charles Harris, commissario britannico ad Alessandria. E’ scritto in ieratico, su117 colonne. In esso il faraone Ramesse IV fa parlare in prima persona il padre, Ramesse III, il quale narra le proprie gesta.

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Papiro Harris Sembra che in epoca bizantina esistessero papiri capaci di contenere l’intera Iliade.

Il papiro era poi arrotolato, lasciando all’interno le fibre orizzontali, all’esterno quelle verticali, che reggevano meglio il raggio di curvatura più ampio. Sul papiro si scriveva da destra verso sinistra, o con righe lunghe quanto era lungo il papiro, anche alcuni metri (caso frequente nei testi giuridici, in cui le singole righe, di diversa lunghezza, contengono ciascuna un paragrafo) o con righe più corte, disposte in modo da formare una specie di pagina. Usando la scrittura geroglifica, era possibile scrivere in colonne verticali. In genere si usava solo la parte interna del papiro, ma abbiamo casi, soprattutto in epoche tarde, in cui il testo è presente sulle due facce. Si poteva anche scrivere lungo il lato più corto del papiro, svolgendolo verso l’alto: questo uso è attestato negli ultimi secoli della civiltà egizia, soprattutto per documenti e per testi magici (questi ultimi larghi pochi centimetri, arrotolati in modo da formare un amuleto). Lo scriba disponeva di attrezzi raffinati, pervenutici in buon numero: tavolette con incavi in cui erano disposti gli inchiostri (il nero a base di nerofumo, il rosso a base di ocra, impastati con gomma e acqua), astucci, pennelli (ricavati da giunchi sfibrati all’estremità), pani di inchiostro, pestelli e mortai per macinarli, coltellini in bronzo. L’inchiostro era solido, in pani. Lo scriba bagnava in acqua la penna di giunco, e poi la strofinava sui pani di inchiostro. Il simbolo geroglifico per la tavoletta dello

scriba ¶ rappresenta una tavoletta rigida con due incavi in cui disciogliere i due tipi di inchiostro, rosso e nero.

Come supporto della scrittura furono usate anche le fasce di lino con cui si avvolgevano le mummie e per usi minori (conti o simili) frammenti di coccio, noti col termine greco di oistraka.

Già durante il regno del quarto re della prima dinastia accanto alla scrittura geroglifica nacque in Egitto una scrittura più facile, la ieratica (così detta in epoca greco-romana perché usata essenzialmente dai sacerdoti), che si affermò per tutte le necessità quotidiane, mentre il geroglifico mantenne essenzialmente un carattere sacro e monumentale. La scrittura ieratica ricalca la stessa forma dei geroglifici, ma in modo più adatto al pennello e al papiro, quindi con prevalenza di linee e di angoli arrotondati. Nell’Antico Regno la scrittura ieratica era molto simile alla geroglifica. Nel Medio Regno per la scrittura su papiri si usò ancora la geroglifica se i testi avevano carattere religioso, e pressoché sempre la ieratica, che nel frattempo si era notevolmente differenziata, nei testi non religiosi. Dalla XXI Dinastia la scrittura ieratica fu usata anche per testi religiosi su papiro e raramente per iscrizioni. Negli ultimi secoli divenne la scrittura comune su papiro

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per tutti i tipi di testi; è anche abbondantemente documentata su oistraka. A sua volta la scrittura ieratica assunse forme eleganti e ordinate nei testi librari, o forme più rapide nei testi di natura corrente, senza tuttavia diventare una vera scrittura corsiva. Nei manoscritti in ieratica si incontra inoltre l’uso di spazi per separare le varie frasi, e di rubriche per caratterizzare parti particolari del testo, ad esempio gli incipit. La scrittura ieratica va solo da destra a sinistra. Mentre la scrittura geroglifica è fortemente codificata, e mantiene le medesime forme nel tempo e nello spazio, la scrittura ieratica si differenzia moltissimo, sia per regione, sia per qualità. I tipi più eleganti sono caratterizzati da molte legature, e da abbellimenti calligrafici.

Verso l’VIII secolo a. C. si affermò una forma di scrittura ancora più rapida, la demotica (dal greco dhmotikÒj, popolare). La scrittura demotica era anche definita dai greci encoriale (da ™gcèrioj, indigeno). La scrittura demotica divenne di impiego comune per tutti i tipi di testi nell’Egitto tolemaico, su papiri e su oistraka. La si incontra spesso incisa su pietra (ad esempio nell’iscrizione di Rosetta), anche se si presta male allo scopo, per la sua natura corsiva.

La demotica deriva dalla scrittura ieratica del Delta e fu continuamente usata dal VII secolo a. C. al V secolo d. C. Discende anch’essa dalla geroglifica, ma è caratterizzata da molte abbreviazioni e da legature. Se concettualmente è identica alla scrittura madre, nel senso che a ogni segno geroglifico corrisponde, o dovrebbe corrispondere, un particolare segno demotico, l’abbondanza di abbreviazioni e di legature rendono difficilissimo riconoscerne l’origine. Le legature, in particolare, trasformano completamente l’aspetto esterno della scrittura: nella geroglifica ogni segno è ben distinto dagli altri, nella demotica molti segni si uniscono, trasformando alla fine la parola in un nuovo segno, che assume la funzione di logogramma, accompagnato o no da complementi fonetici. Come vedremo, tutto questo mise in seria difficoltà i primi decifratori. Questa scrittura è oggi studiata quasi esclusivamente da specialisti della civiltà tardo egizia ed ellenistica. Va sottolineato che è abitudine degli egittologi trascrivere e pubblicare in geroglifica i testi in scrittura ieratica e demotica, più o meno come noi pubblichiamo il manoscritto di un autore moderno non riproducendo la sua scrittura manuale, ma in caratteri da stampa, completamente diversi per struttura e aspetto esteriore rispetto ai segni corsivi e personali in cui egli ha scritto in origine la propria opera. I segni geroglifici possono variare anche ampiamente nella forma da una mano all’altra e da un’epoca all’altra, così come il carattere impiegato in un libro popolare del Novecento è diverso da quello impiegato in un libro di lusso del Settecento: ma la struttura del segno, quindi la sua riconoscibilità, corrisponde a uno standard ben definito, mentre la ieratica e la demotica, come le nostre scritture corsive, sono molto più personali e differenziate. Va sottolineato comunque con forza che geroglifica, ieratica e demotica non sono tre scritture diverse, ma tre forme diverse della medesima scrittura: si riferiscono alla stessa lingua e alla stessa struttura grammaticale, rappresentano gli stessi fonemi e gli stessi concetti, in tre modi che si sono evoluti solo esteriormente per adattarsi a diverse esigenze. Questa evoluzione esteriore è stata tuttavia così forte, da far assumere alle tre scritture un aspetto esteriore completamente diverso.

In passato si fece però molta confusione tra i vari tipi di scrittura. Young ad esempio, parlò di “sacred characters”, “hieratic” e di “epistolographic, or common running hand”. Queste definizioni solo in apparenza coincidono con la n ostra: i “sacred characters” erano per Young i geroglifici, ma con il termine “hieratic” egli indicava quelli che noi definiamo oggi geroglifici lineari, ossia geroglifici privi di colore, più semplici e meno pittorici nella forma, usati soprattutto sul papiro e sui sarcofagi, mentre sulle pareti delle tombe i segni sono più elaborati. A volte, per accrescere la confusione, questi geroglifici lineari sono stati definiti geroglifici corsivi: in realtà essi sono geroglifici veri e propri, ben diversi dall’evoluzione corsiva della scrittura geroglifica che noi definiamo appunto ieratica. Quanto a Young, con i termini epistolografica o encoriale, egli comprendeva sia la ieratica, sia la demotica, non afferrando bene, soprattutto nei primi tempi, le differenze tra le due (Adkins 150).

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3 – I secoli dell’oblio Molte fonti classiche parlano dell’Egitto e citano le scritture egizie, ma sembra

senza comprenderne il significato e i principi1. Erodoto, che fu in Egitto all’epoca del dominio achemenide, si limita a dirci che la scrittura egizia va da destra a sinistra e che ne esistono due tipi, sacra (hiera) e pubblica (demotica): difas…oisi dš gr£mmasi cršwntai, kaˆ t¦ mšn aÙtîn ƒr£ t¦ dš dhmotik¦ kalšetai.2 Diodoro Siculo fu in Egitto nel primo secolo a. C. Egli ci dice chiaramente che la scrittura degli Egizi non è di tipo alfabetico: “la loro scrittura non funziona mettendo insieme sillabe per rendere il senso sottostante, ma disegnando oggetti il cui significato metaforico è impresso nella memoria”. Curiosamente Diodoro attribuisce la scrittura geroglifica agli Etiopici, e ci dice che gli Egiziani usano in genere un’altra scrittura (come Erodoto, anch’egli conosce dunque due soli tipi di scrittura). Manetone, un sacerdote incaricato da Tolomeo II di scrivere in greco una storia dell’Egitto, rimastaci incompleta,3 ma anche così fonte importante per la storia e soprattutto per la cronologia egizia, non ci dice nulla sulle scritture. Tra i dotti che vivevano nell’Egitto alessandrino la conoscenza delle scritture egizie era probabilmente abbastanza diffusa. L’opera greca più importante sulla scrittura geroglifica, dovuta a Cheremone di Naucratis (prima metà del sec. I d. C.), ci è rimasta solo attraverso alcuni estratti del bizantino Giovanni Tzetze (XII sec. d. C.). Da questi estratti è però chiaro che Cheremone, importante funzionario della Biblioteca di Alessandria, era in grado di leggere e tradurre gli antichi testi geroglifici. Egli pure definisce gli Egizi “Etiopici” e ci parla del modo particolare in cui la loro scrittura procedeva, dicendoci che “essi non usano lettere, ma solo vari animali, le loro membra o i loro organi”, e che questa scrittura “allegorica o simbolica” aveva lo scopo di mantenere segreta la conoscenza nella classe sacerdotale. Cheremone fu uno dei maestri dell’imperatore Nerone, e questo spiega che sia Lucano, sia Tacito parlino dell’Egitto e dei geroglifici. Lucano dice che l’alfabeto fu inventato dai Fenici, quando ancora gli Egiziani non conoscevano i rotoli di papiro e si limitavano a incidere sulla pietra e “animali scolpiti conservavano magiche parole – sculptaque servabant magicas animalia linguas”. Anche Tacito ritiene che gli Egizi esprimessero concetti con disegni di animali, ma attribuisce a loro, non ai Fenici, l’invenzione dell’alfabeto. Anche Plutarco, nel De Iside et Osiride, ci parla della scrittura geroglifica dando anche esempi, alcuni dei quali corretti; egli pure ritiene l’alfabeto inventato dagli Egizi, che avrebbero usato venticinque segni. Clemente Alessandrino (c. 150-220 d. C.) scrive che gli Egizi usavano tre tipi di scrittura, la geroglifica, la ieratica e la demotica (che egli chiama epistolografica), e classifica i segni geroglifici in varie categorie: non sembra comunque che egli sapesse leggere queste scritture. Il libro greco più importante sui geroglifici fu scritto, col titolo Hieroglyphica, da Orapollone, Horapollo Niloticus, di Panopoli, città allora assai viva culturalmente (Horapollo è contemporaneo di Teodosio). Ci sono rimasti due libri di questo trattato, tradotti in greco dall’egiziano da un certo Philippus. Il primo libro dimostra una buona competenza da parte dell’autore, mentre il secondo, una specie di supplemento, è pieno di errori e di assurdità: è possibile che Philippus, senza conoscere l’argomento, abbia manipolato e modificato l’opera che traduceva, inserendovi proprie opinioni. Anche la prima parte comunque ci mostra che l’autore trattava dei geroglifici con l’occhio di un greco, ignorandone spesso la pronuncia. Ad esempio egli afferma che il sole è detto Horus perché governa le ore: ma solo in greco la parola ora (éra) è affine a Horus. Va citata per

1 L’elenco degli autori classici, rinascimentali e moderni che hanno parlato dell’Egitto e dei geroglifici sarebbe sterminato. Per un panorama più ampio sulla filologia egizia e sella decifrazione dei geroglifici rimandiamo ad alcuni lavori, che abbiamo ampiamente utilizzato nella stesura delle pagine che seguono: E. A. WALLIS BUDGE, The Rosetta Stone, London, 1929 e ried.; ID. Introduzione a An Egyptian Hieroglyphic Dictionary, 2 vv., London, 1920 e ried.; A. GARDINER, Introduzione a Egyptian Grammar, Oxford, 1927 e ried.; ID. Egypt of the Pharaos, op. cit., 1961; M. POPE, The Story of Decipherment, London, 1975 e ried. 2 Erodoto, II, 36, 4. Si noti che Erodoto usa il termine ionico hira in luogo del greco classico hiera. 3 Dell’opera di Manetone rimangono solo riassunti, non sempre chiari, in Sesto Giulio Africano (III secolo d. C.) e in Eusebio (IV secolo), e alcuni passi, rimaneggiati, in Giuseppe Flavio.

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ultima la testimonianza di Plotino. Plotino scriveva nel III secolo, quando ormai la civiltà egizia era giunta al tramonto, e la conoscenza della scrittura geroglifica era perduta. Per dimostrare che le idee precedono i nomi, uno dei cardini della sua filosofia, egli si serve proprio dell’esempio ricavabile dalla scrittura egizia: quando “i saggi uomini dell’Egitto”, egli scrive, vogliono esprimere il loro pensiero in termini filosofici, essi non si servono di lettere e di parole, non copiano con la scrittura il suono di una frase, ma, nelle loro “sacre scritture”, disegnano un segno per ogni idea, in modo da esprimere immediatamente il suo intero significato; ogni segno è così un pezzo di sapere, di saggezza, un pezzo della realtà immediatamente presente.

La fine della civiltà e della scrittura egizie giunse con la diffusione del cristianesimo, a partire già dal primo secolo (la tradizione dice che lo stesso San Marco predicò ad Alessandria). I cristiani consideravano superstiziose le credenze antiche, e intollerabile l’impiego di scritture così manifestamente pagane. Molti cristiani parlavano però l’egiziano e non il greco. Si cominciò così a trascrivere la lingua egiziana con i segni dell’alfabeto greco. Si scoprì tuttavia che non tutti i suoni di quella lingua potevano essere resi con le lettere greche: furono così creati, per rendere quei suoni, sette nuovi caratteri, derivati dalla scrittura demotica. Il nome greco dell’Egitto, A‡guptoj, pronunciato in ambiente cristiano “kubt” o “gubt”, diede forse origine al termine usato per indicare i cristiani egiziani, i Copti. La loro lingua, derivata direttamente dall’antico egiziano e scritta con caratteri greci, si diffuse ampiamente e soppiantò la scrittura demotica. In copto furono tradotti sia la Bibbia sia opere dei Padri della Chiesa. Gli Arabi in un primo tempo accettarono i Copti, ma a partire dal VIII secolo li perseguitarono. Lentamente anche questa lingua cadde in disuso, sostituita dall’arabo. Con buona approssimazione si può dire che la scrittura geroglifica scomparve alla fine del III secolo e la lingua egizia, nella forma coptica, alla fine del XII secolo (anche se, come vedremo, con qualche sopravvivenza).

Nello stesso periodo di tempo le realizzazioni architettoniche e artistiche della civiltà egizia furono quasi interamente sepolte dalla sabbia del deserto, e ciò che rimase visibile, le Piramidi ad esempio, o i colossi di Memnone, si trasformò in muta e misteriosa testimonianza di un passato per sempre perduto. Rimanevano gli obelischi romani, una dozzina tra grandi e piccoli. Augusto era stato il primo a portare un obelisco dall’Egitto e lo aveva eretto in Campo Marzio nel 10 a. C. (è l’obelisco di Psammetico II, da Heliopolis, poi collocato da Pio VI in piazza di Montecitorio).

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Lo stesso Augusto fece collocare un altro obelisco, costruito da Ramesse II, al Circo Massimo, e Ammiano Marcellino dà la traduzione in greco delle sei righe geroglifiche scritte su di esso.1 Al Circo Massimo fu anche fatto collocare da Costanzo II il più alto di tutti gli obelischi romani, costruito da Tutmosi III. L’obelisco Vaticano fu portato a Roma da Caligola. Tutti questi obelischi crollarono nel corso del Medio Evo (per ultimo quello di Psammetico II, durante il sacco di Roma del 1084): rimase in piedi solo il Vaticano, l’unico privo di iscrizioni. L’interesse per gli obelischi rinacque durante il pontificato di Sisto V, che ordinò all’architetto Domenico Fontana di recuperare e erigere nuovamente i due grandi obelischi del Circo Massimo. Il più grande di essi, quello di Tutmosi III, rotto in tre pezzi, fu posto nella piazza del Laterano nel 1588, e da allora è noto come obelisco Lateranense; il più piccolo fu collocato in piazza del Popolo l’anno seguente, ed è noto come obelisco Flaminio. Un altro celebre obelisco era visibile a Costantinopoli.

Palestrina

Accanto alle iscrizioni degli obelischi rimanevano poche altre testimonianze della scrittura geroglifica,e della civiltà egizia, in qualche museo e in qualche collezione privata: si trattava soprattutto di reperti di scavo provenienti dai templi del culto egiziano a Roma. Celebre è il mosaico di Palestrina, raffigurante scene di vita sul Nilo, che costituiva il pavimento di una sala nel Santuario della Fortuna Primigenia, databile forse alla fine delprimo secolo d. C.2 Nel Medio Evo capitò anche ad alcuni pellegrini diretti a Gerusalemme di visitare l’Egitto, ma nessuno di essi sembra abbia lasciato testimonianza di quanto vide.

I grandi filologi del Rinascimento italiano, nella loro riscoperta del mondo classico, si imbatterono anche in testimonianze relative al mondo egizio. L’opera di Horapollo, scomparsa, fu ritrovata nell’isola greca di Andros da Buondelmonte nel 1419, e pochi anni dopo, nel 1435, Ciriaco di Ancona visitò l’Egitto portandone con sé una copia. Nel corso di questo viaggio egli ebbe modo di leggere un’iscrizione in geroglifico (che riteneva scrittura dei fenici) e di mandarne una trascrizione a Niccolò Nicoli. Di obelischi,

1 Non è certo che la traduzione data da Ammiano Marcellino si riferisca proprio a questo obelisco. Champollion comunque ebbe modo di utilizzarla. 2 Questo splendido mosaico, uno dei più grandi fra quelli pervenutici, fu scoperto nella seconda metà del Cinquecento. Fu studiato da Cassiano Dal Pozzo, che ne ricavò parecchi disegni. Subì in seguito parecchie traversie, fu tagliato a pezzi, trasferito a Roma, poi ricomposto. Si trova ora al Museo Archeologico di Palestrina. E’ interessante soprattutto perché ci mostra l’Egitto all’epoca della dominazione romana, ormai completamente trasformato rispetto all’epoca dei faraoni.

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sulla scia di Plinio, si occuparono anche Poggio Bracciolini e Flavio Biondo. Quest’ultimo in particolare, riferendosi ad Ammiano Marcellino riscoperto recentemente proprio da Poggio a Fulda, parla a lungo della scrittura geroglifica, e spiega che essa non è composta da lettere ma da simboli, che esprimono parole intere o concetti. Ad esempio l’ape rappresenta il re, perché il re deve esercitare il suo potere con dolcezza, ma anche usare il pungiglione se necessario. Si diffonde così nel mondo moderno l’interpretazione non solo ideografica, ma addirittura simbolica e allegorica dei geroglifici, destinata a tenere banco per moltissimi anni, e a ritardare persino lo studio di Champollion. Questa lettura fu assai favorita dal clima Neoplatonico che caratterizzava larga parte della cultura italiana del Quattrocento, soprattutto a Firenze. Non stupisce allora che Ficino, traducendo nel 1492 Plotino, citasse proprio i geroglifici come esempio di rappresentazione allegorica e sintetica: il semplice simbolo di un serpente alato che si morde la coda rappresenta un concetto complesso come quello del tempo, che velocemente trascorre ricominciando sempre da capo, dando e togliendo i propri doni agli uomini. E’ chiaro che a questo punto non siamo più di fronte all’interpretazione di una scrittura, ma agli inizi di quella forma di espressione figurata che con Alciato e con l’emblematica avrà immensa fortuna nell’Europa del Cinquecento e del Seicento.

L’esempio più tipico di questa visione è costituito da un celebre libro stampato da

Aldo Manuzio nel 1499, ripubblicato più di una volta nel Cinquecento, anche in Francia, l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. Le splendide xilografie di quest’opera, anonime, hanno quasi tutte significati allegorici. In esse sono presenti parecchi “geroglifici”, chiaramente inventati dallo scrittore per esprimere massime filosofiche. In questi “geroglifici” ogni segno ha davvero valore simbolico. Così per dire: “ex labore / deo naturae / sacrifica / liberaliter” bastano tre disegni: la testa di un bue (lavoro), un altare con un occhio e un uccello (sacrificare, dio, natura) e una coppa (liberalità). Se i geroglifici egizi fossero stati di questo tipo, nemmeno Champollion e Ventris messi insieme sarebbero mai riusciti a decifrarli ...

L’equivoco geroglifico-emblema è ancora alla base del primo libro moderno interamente dedicato, almeno nel titolo, ai geroglifici, Hieroglyphica, di Giovanni Pierio Valeriano Bolzani, pubblicato a Basilea nel 1556.

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Bolzani Questo libro, che ebbe numerose riedizioni, parte dal presupposto che i segni

geroglifici fossero impiegati per esprimere concetti filosofici, poetici, teologici, morali. Così l’autore passa in rassegna oggetti, animali, piante, parti del corpo, tutto ciò che si riteneva aver composto le scritture geroglifiche e per ciascuno di essi esamina i possibili significati allegorici. L’acume e la fantasia che Pierio dispiega in queste interpretazioni sono notevoli. Sfortunatamente l’insieme non ha il benché minimo valore scientifico, ed è quanto di più lontano si possa immaginare, anche graficamente, dai geroglifici egizi. Il libro in compenso è assai bello, splendidamente illustrato, ed ebbe due meriti non indifferenti: il primo, di pubblicare più o meno tutto il materiale allora noto, compresi i due libri di Horapollo; il secondo di far nascere interesse per l’argomento. Probabilmente fu all’origine della decisone di Sisto V di restaurare parecchi dei molti obelischi crollati nel Medio Evo.

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Caussin

Conseguenza di questi spettacolari lavori e dell’interesse che essi suscitarono, fu il libro di M. Mercati, Degli obelischi di Roma (1589), con un supplemento in cui si cercava di spiegare, naturalmente senza nessun riscontro scientifico, il significato delle iscrizioni. Di circa mezzo secolo posteriore è un altro celebre libro sui “geroglifici”, il De symbolica Aegyptiorum Sapientia, del gesuita Nicolas Caussin (1631). Caussin pubblica ancora una volta il testo di Horapollo, ma questo gli serve da pretesto per elaborare un trattato sul simbolo e sull’allegoria e per elogiare grandemente la sapienza degli antichi Egizi, da cui sia Mosé, sia i Greci avrebbero attinto il proprio sapere. C’è veramente da stupirsi di fronte alla mole di pagine e alla quantità di considerazioni che questi scrittori seppero produrre su un argomento del quale in realtà non sapevano nulla. Ma forse proprio questa scarsità di conoscenze costituiva un potente stimolo alla fantasia. Lo dimostra l’opera del più celebre “esperto” di geroglifici del Seicento, il gesuita Athanasius Kircher. L’opera di Kircher (1602-80) è immensa. Le enciclopedie lo definiscono “biblista, egittologo, matematico, medico e naturalista”: ma si occupò anche di magnetismo, agrimensura, astronomia, musica, geologia (Mundus subterraneus, 1665, la sua opera più famosa), teologia, ottica (Ars magna lucis et umbrae, 1645, in cui spiega il principio della lanterna magica, da lui inventata). All’Università di Würzburg costituiva da solo una specie di corpo docente: insegnava infatti filosofia, matematica, ebraico e siriaco. Le sue collezioni di curiosità scientifiche e archeologiche erano famose, e sono ancora presenti in molti musei romani. Kircher era animato da una sincera passione per la ricerca, ma il suo spirito enciclopedico, nel senso più medioevale che moderno del termine, gli prendeva spesso la mano e lo portava a conclusioni frettolose. Così gli accadde anche per i geroglifici. Da una parte egli fu uno studioso attento, ed ebbe il merito di riscoprire il copto, la cui conoscenza si rivelò fondamentale per la vera decifrazione dei geroglifici; dall’altra affastellò interpretazioni bislacche e occupò il centro della scena in modo ingombrante, ritardando il sorgere di analisi più serie. Cominciò ad occupersi dell’argomento in Germania, intorno al 1628. tudiò il copto, e nel 1636 ne pubblicò una grammatica, Prodromus Coptus sive Ægyptiacus. La sua opera principale sui geroglifici è Œdipus Aegiptiacus, pubblicato in tre volumi tra il 1652 e il 1654, con l’aiuto dell’Imperatore, che contribuì alle spese di stampa, considerevoli a causa dell’apparato iconografico.

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Egli si dedicò soprattutto alle iscrizioni degli obelischi1, abbandonandosi a

interpretazioni del tutto cervellotiche. Sono celebri le sue traduzioni dei cartigli. Ad esempio così egli tradusse una cartouche2 di sette caratteri, incisa sull’obelisco di piazza Navona: “L’autore della fertilità e di tutta la vegetazione è Osiride, la cui forza produttiva fu portata nel suo regno dal cielo grazie al santo Mophta”. Malauguratamente i sette caratteri sono semplicemente la traduzione in geroglifico della parola greca “Autocrator”. Si noti che Kircher aveva scritto: “la Sfinge,3 è stata uccisa, i suoi enigmi risolti, e tutti i segreti dell’Arte Geroglifica, le sue regole, i suoi metodi, i suoi principi, per l’Influenza e la Grazia dello Spirito Santo, sono da me interamente compresi”... In realtà i libri di Kircher si rivelarono utili per la ricchezza e per la buona qualità delle illustrazioni, che per almeno un secolo e mezzo costituìrono un valido corpus del materiale geroglifico disponibile. Ancor più prezioso fu il contributo di Kircher alla riscoperta della lingua e della scrittura copte. Come si è visto, il copto, erede dell’antica lingua egiziana, divenne la lingua dei cristiani d’Egitto, e sopravvisse anche per parecchi secoli al dominio arabo. Lo storico arabo Maqrizi, nel XV secolo, afferma che questa lingua era ancora parlata nell’Alto Egitto. Ma nel Seicento pochissime persone ormai erano ancora in grado di parlarlo: il viaggiatore P. Vansleb, nel 1672-73 ne incontrò alcune, con un certo stupore, e di lì a poco esso sarebbe scomparso definitivamente4. Un viaggiatore italiano, Pietro della Valle, riportò dall’Oriente parecchi manoscritti in copto. Un altro cacciatore di antichità, Peiresc, mandò nel 1629 un suo collaboratore, Teofilo Minuti, in Oriente allo scopo di acquistare per lui manoscritti e curiosità. Minuti riportò dal proprio viaggio monete, manoscritti in quantità e persino due mummie. Tra i manoscritti molti erano appunto in copto, lingua che nessuno in Europa

1 Altre sue opere di “egittologia” sono Prodromus Coptus sive Ægyptiacus , 1636, Lingua Ægyptiaca restituta , 1643, Obeliscus Pamphilius, 1650, Œdipus Aegiptiacus, 1652-54, Obelisci Aegyptiaci nuper inter Isaei Romani rudera effossi interpretatio hieroglyphica, 1666, Sphynx Mystagoga, 1676. Il libro del 1650 è dedicato alla pubblicazione dell’obelisco ora in pazza Navona, restaurato da Innocenzo X Pamphilj, quello del 1666 all’obelisco collocato da Alessandro VII in piazza della Minerva. Quest’ultimo è sorretto da un elefante disegnato dal Bernini, chiara reminiscenza di una celebre incisione dell’Hypnerotomachia Poliphili. 2 Come si vedrà meglio in seguito, nelle scritture geroglifiche alcuni gruppi di segni apparivano spesso circondati da una cornice ovale. I militari francesi che videro queste cornici le chiamarono cartouche, per la loro somiglianza con le cartucce di carta contenenti polvere e palla, che usavano abitualmente. Il termine italiano è cartiglio. Noi sappiamo ora che i cartigli includono i nomi dei re e i loro titoli. 3 A questo alludono il titolo ed il frontespizio dell’opera. 4 Ma ancora nel 1936 furono trovati alcuni contadini, nei pressi di Tebe, capaci di pronunciare alcune frasi in copto.

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conosceva. Peiresc si rivolse allora a Salmasius, un erudito protestante, e cercò di acquistare anche i manoscritti di Pietro della Valle, per permettere a Salmasius di lavorare su un materiale più consistente. Ma della Valle non volle privarsi dei manoscritti e soprattutto non volle affidarne la decifrazione a uno studioso protestante. Peiresc stesso gli suggerì allora di rivolgersi a Kircher. E’ questa l’origine delle due opere di Kircher sul copto1, Prodromus Coptus sive Aegyptiacus (1636) e Lingua Aegyptiaca restituta (1643). Questi libri, che diedero grande gloria a Kircher, hanno un indubbio valore scientifico, pur con notevoli errori, e sono all’origine di tutti gli ulteriori studi sull’argomento. Non è tuttavia certo che il merito sia tutto di Kircher: Pietro della Valle, prima che a Kircher, aveva affidato i suoi preziosi manoscritti a un erudito, Tommaso Obicini, e sembra che questi avesse già compiuto molti progressi nella lettura dei testi.

Fortunatamente non tutti gli eruditi del Seicento avevano la fantasia di Kircher.

Agli inizi del Cinquecento era stata scoperta a Roma, tra le rovine dell’Iseum, una strana tavola di bronzo, ageminato con altri metalli, che fu acquistata nel 1527 dal Bembo, da cui prese il nome di “Tavola Bembina”. Questa tavola, acquistata poi da Carlo Emanuele I di

1 Kircher era molto interessato a dimostrare che molti dei riti e dei dogmi religiosi che i protestanti consideravano invenzione della Chiesa romana erano in realtà molto più antichi, e traevano origine direttamente dall’Oriente dei primi secoli.

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Savoia nel 1638, è conservata al Museo Egizio di Torino.1 E’ nota anche con il nome “Mensa isiaca”. Un’incisione di questa tavola, opera di Enea Vico, fu realizzata nel 1559, e nel 1605 Lorenzo Pignorio le dedicò un intero libro, Vetustissimae tabulae aeneae Sacris Aegyptiorum Simulachris coelatae accurata explicatio2.

La tavola non era antichissima come Pignorio pensava, dal momento che reca in

un cartiglio il nome dell’imperatore Claudio: ma importa piuttosto notare che Pignorio, pur incentrando il suo lavoro su una spiegazione iconografica delle figure rappresentate, si rifiuta di entrare nel merito dei geroglifici, dicendo chiaramente che con abbondante uso della fantasia avrebbe potuto inventare delle spiegazioni di scarsa utilità. Pignorio scrive prima di Kircher e non polemizza col gesuita: suo bersaglio sono piuttosto i Neoplatonici e coloro che fondano la propria interpretazione sulle allegorie anziché sulle testimonianze storiche. Pur senza essere completamente isolata3, la voce di Pignorio rimane comunque fuori dal coro, e i trionfi di Kircher, di lì a pochi anni lo confermeranno4.

Si andava nel frattempo affacciando all’orizzonte un problema che avrebbe

suscitato infiniti dibattiti e turbato le coscienze (personaggi come Leibnitz e Newton lo affrontarono con passione) per oltre mezzo secolo: la contraddizione in termini cronologici e storici tra Bibbia e documenti egizi. La cronologia della Bibbia è chiara: 4000 anni tra la creazione del mondo e la nascita di Cristo (calcolando dalla creazione, il Diluvio accadde nel 1656, la torre di Babele fu costruita nel 1757, la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù

1 E’ curioso che Montfaucon nel 1722 la considerasse persa. Scrive infatti: “ce soin qu’on a eu de la représenter si souvent ne peut pas nous consoler de la perte de ce beau monument, qu’on ne pût jamais retrouver depuis la prise de Mantoue, quelque diligence qu’on pût faire pour cela. Il y a apparence que quelque soldat l’aura gâtée pour en tirer ces lames d’argent, qui suppléoient à une partie de la peinture ». Seconde édition, Tome second, seconde partie, (pp- 331-32) 2 L’incisione del Vico non si trova nelle prime due edizioni del Pignorio, 1605 e 1608 (con il titolo Characteres aegyptii, hoc est sacrorum, quibus Ægyptii utuntur, simulachrorum accurata delineatio et explicatio), ma solo nella terza, 1670 (con il titolo Mensa Isiaca). 3 Pope gli accosta la figura di Isaac Casaubon e le sue polemiche contro il Corpus Hermeticum (1614). 4 Tra coloro che nel Seicento scrissero sugli Egizi possiamo citare anche l’astronomo inglese Greaves, che nel 1646 pubblicò un libro sulle Piramidi, con pretese scientifiche, ma evidentemente pieno di errori.

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in Egitto e la legge data a Mosé sono da assegnare al 2513, e così di seguito).1 Questa concezione trovò il suo formale compimento nel Discours sur l’Histoire Universelle di Bossuet, in cui la storia è vista come una serie di epoche e di civiltà che si susseguono armoniosamente per preparare l’avvento del Messia e il trionfo del cristianesimo. Ma le scoperte della storiografia, e soprattutto di una scienza che proprio nella seconda metà del Seicento cominciò a trovare un metodo e degli specialisti, la cronologia, misero in crisi tutto questo. La storia ebraica, confrontata con quella di altri popoli, diventava piena di contraddizioni, e insostenibile. Questo non tanto per l’incredibile età attribuita ai patriarchi (Adamo avrebbe avuto una vita di 930 anni, Seth di 912...), ma proprio perché questa cronologia si scontrava con quella dell’antico Egitto. Manetone elencava una serie di dinastie lunghissima, i cui inizi andavano ben oltre il Diluvio;2 altre cronache, ancora più antiche, parlavano di 36.525 anni tra il primo e l’ultimo faraone.3 La stima di saggi e sapienti, soprattutto in matematica e in astronomia, che circondava gli Egizi impediva di considerare errate queste cronologie. Non solo. Se la civiltà degli Egizi era così antica, se essi avevano posto in schiavitù Israele, se gli Ebrei erano vissuti in Egitto tanti anni, proprio prima che Dio dettasse a Mosé le tavole della legge, non era possibile supporre una decisiva influenza egiziana sull’intera cultura ebraica ? John Marsham nel 1672 e in modo ancora più deciso nel 1685 John Spencer, prefetto del Corpus Christi a Cambridge, sostengono questa tesi. Nel frattempo, nel 1678, era uscita l’Histoire critique du Vieux Testament, di Richard Simon, in cui tutti questi argomenti erano ripresi e affrontati con straordinaria dottrina4. Sul fronte opposto si può citare l’opera di Edward Stillingfleete, Origines sacrae, or a Rational account of the Grounds of Christian Faith, 1662. Stillingfleete, che sarebbe diventato più tardi vescovo di Worchester, si propone di risolvere il problema semplicemente negando attendibilità a tutta la storia profana, ivi compresa quella degli Egizi. Proprio l’oscurità e l’ambiguità dei geroglifici diventava un argomento per negare all’intera cronologia egizia ogni valore. Anche la pretesa sapienza degli Egizi era messa in dubbio. La loro civiltà, sosteneva Stillingfleete, aveva raggiunto un buon livello nel governo della cosa pubblica, ma era di gran lunga inferiore alla greca negli altri campi, scienza, medicina, filosofia. La visione Neoplatonica e rinascimentale, che aveva assegnato agli antichi Egizi addirittura una sorta di sapere magico e divino (Corpus Hermeticum) poi andato perso, veniva così completamente capovolta.

Allo studio dei geroglifici contribuì anche la riflessione sulla scrittura cinese, la cui conoscenza fu portata in Europa da viaggiatori e missionari. Quando ci si rese conto della natura ideografica di quella scrittura, si pensò che essa possedesse un carattere di universalità che le alfabetiche non hanno. In altre parole, si cominciò a riflettere sul tema della scrittura universale. Si trattava di un tema chiaramente utopistico, ma furono fatti alcuni tentativi in questa direzione, il più interessante dei quali è quello di John Wilkins, An Essay towards a Real Character and a Philosophical Language, 1668. Wilkins elaborò un sistema di scrittura che si riferiva direttamente alle cose e ai concetti, distinti in classi e sottoclassi, e adattabile a qualunque lingua. Maurice Pope analizza ampiamente quest’opera, giungendo a interessanti conclusioni5. Anche se il tentativo di Wilkins era destinato all’insuccesso, perché troppo teorico e complicato, le scienze linguistiche ne

1 Fece testo per molto tempo la cronologia calcolata dal vescovo Ussehr, pubblicata nel suo celebre trattato Annales veteris testamenti, a prima mundi origine deducti (1650), secondo cui la creazione avvenne esattamente al tramonto del giorno precedente la domenica 23 ottobre del 4004 a. C. 2 Per l’esattezza attribuisce un periodo di 2300 anni alle prime undici dinastie; di 2121 anni alle dinastie dalla XII alla XIX; di 1050 dalla XX alla morte di Dario: in totale 5800 anni dal primo Faraone alla nascita di Cristo. E’ curioso che gli storici moderni abbiano invece notevolmente accorciato la cronologia egizia (circa 3200 anni per lo stesso periodo), rendendola così più compatibile con la cronologia biblica. 3 Cfr. P. PEZRON, L’antiquité des temps rétablie, 1687, secondo cui l’ultimo faraone, Mectanèbes, fu spodestato da Ochus, re di Persia, diciannove anni prima della conquista di Alessandro. Su tutta la querelle della cronologia si vedano le ammirabili pagine di PAUL HAZARD, La Crise de la conscience européenne, Paris, Fayard, 1961, pp. 35 e segg. 4 Il migliore esempio di contrapposizione tra una visione tradizionale della storia sacra e una visione moderna, critica appunto, è data dai due grandi dizionari storici di Moréri e di Pierre Bayle. 5 M. POPE, op. cit., pp. 39-42.

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trassero giovamento, per un paio di ragioni. Innanzi tutto Wilkins, nella sua costruzione, si trovò di fronte all’impossibilità di rappresentare astrattamente nomi propri, e in particolare nomi propri stranieri, per i quali dovette elaborare un sistema fonetico a parte. Come vedremo, proprio questo sarà il punto di partenza di Young e Champollion nella lettura dei geroglifici. Inoltre la costruzione di Wilkins aiutò a comprendere la struttura profonda di una scrittura ideografica, e soprattutto i suoi limiti, ad esempio nell’esprimere le parti più brevi della frase. Linguisti e decifratori fecero tesoro di questa esperienza. La comparazione col cinese portò un secolo dopo a un’altra scoperta importante. C. L. J. de Guignes, nel suo Essai sur le moyen de parvenir à la lecture et à l’intelligence des Hiéroglyphes Egyptiens1, 1770, suggerì che certi segni potessero avere il valore di determinativo, come le “chiavi” nel cinese. Accanto a questa giusta considerazione, non mancavano in questo lavoro teorie singolari: ad esempio che il cinese derivava dall’egiziano, perché la Cina era stata una colonia dell’Egitto.

Non sarà sfuggita a chi ci legge una singolare lacuna. Mentre tutte le fonti classiche ci dicono chiaramente che gli Egizi possedevano diversi sistemi di scrittura, sino a questo punto si è parlato soltanto di geroglifici. In realtà tutte le scritture note in Europa sino alla fine del Seicento erano di tipo epigrafico, quindi in scrittura geroglifica. Nel 1692 accadde che una mummia, trovata in un sepolcro, fosse sbendata alla presenza del console francese al Cairo, M. de Maillet. Si scoprì con una certa sorpresa che la benda recava una scritta, ma con segni palesemente diversi dai geroglifici. Tagliata in pezzi, la benda fu inviata in Francia. Uno di questi pezzi capitò nelle mani dell’antiquario Jean-Pierre Rigord, che lo fece oggetto di uno studio per i “Memoires de Trévoux”,2 celebre rivista dei gesuiti, nel 1704.3 In questo studio Rigord pubblicò, accanto allo scritto recentemente scoperto, un’iscrizione geroglifica e una terza iscrizione, proveniente da una pietra della sua collezione. I tre tipi di scrittura furono da lui identificati con le tre scritture di cui parla Clemente Alessandrino, geroglifica, ieratica e epistolografica. Quest’ultima in particolare, scritta da destra verso sinistra, gli sembrò fenicia, una lingua a suo parere intermedia tra l’ebraica e l’egiziana. La pietra ci è rimasta, conservata al museo di Carpentras con nome di Tabula Rigordana, e noi sappiamo che l’iscrizione è in realtà in aramaico (scrittura comunque alfabetica derivata dalla fenicia); Rigord colpì invece nel segno nell’identificare la scrittura ieratica. E questo gli permise anche di affermare che la scrittura geroglifica, lungi dall’essere misteriosa, aveva proprio un carattere monumentale e un impiego pubblico, mentre la ieratica doveva avere soprattutto un impiego privato (o segreto, come qualcuno suppose in seguito).

benda ieratica

1 Pubblicato nei «Mémoires de l’Académie des Inscriptions», vol. XXIX, 1764 e vol. XXXIV, 1770. 2 « Mémoires de Trévoux », Juin 1704, Article LXXXIX, pp. 978-1000. 3 Scrive Rigord: “L’écrit qu’on voit au bas de la petite bordure sur cette toile est d’un caractère qui m’est inconnu et qui l’est de même à tous les sçavans que j’ai consultez” (p. 579).

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Tabula rigordiana

Anche Bernard de Montfaucon, benedettino di Saint-Germain-des-Prés e fondatore della paleografia, diede un suo contributo allo studio dei geroglifici. La sua monumentale opera, L’Antiquité expliquée et représentée en figures (10 volumi, e cinque volumi di supplementi, 1719-24)1 è ricchissima di tavole, tutte splendidamente disegnate ed incise. Sfortunatamente queste riproduzioni sono così libere da essere prive di ogni valore.

Montfaucon Si veda ad esempio la pagina che riproduciamo,2 in cui è inserita una riproduzione

della Tabula rigordiana: se su osservano le due immagini dei “Mémoires de Trévoux” e di Montfaucon appare chiaro come i segni siano stati interpreatati in quest’ultima opera assai 1 La prima edizione apparve in 10 volumi nel 1719, Paris, Delaulne ed altri; nel 1722 uscì una ristampa dei 10 volumi, presso lo stesso editore; i 5 volumi di supplemento apparvero nel 1724 e furono ristampati nel 1757. Nelle collezioni delle biblioteche è facile trovare copie miste, formate da volumi delle varie edizioni. 2 Supplemento II, tav. 54

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liberamente, a tal punto da essere diventati a volte irriconoscibili. Montfaucon identifica poi questa scrittura con quella che Erodoto definiva “pubblica” (demotica), aggiungendo errore a errore. In compenso, a differenza di Rigord, Montfaucon ribadiva l’importanza del copto, suggerendo che proprio la conoscenza di questa lingua avrebbe permesso un giorno di comprendere la lingua dell’antico Egitto: profezia che si avverò un secolo dopo.

A Warburton si attribuisce di solito un posto di grande rilievo nella storia della

trattatistica settecentesca sui geroglifici. In realtà Warburton non era né uno storico né un filologo, ma ancora una volta un religioso preoccupato di difendere la verità della fede. La sua opera dal chilometrico titolo The Divine Legation of Moses demonstrated on the principles of a Religious Deist, from the Omission of a Future State of Reward and Punishment in the Jewish Dispensation, 1738-44, in nove volumi, ma incompleta (!), vuole dimostrare che il concetto di premio e di pena dopo la morte, così importanti per la conservazione di una società civile, provengono direttamente dalla Divina Provvidenza. Dell’Egitto egli tratta specificamente nel volume IV, pubblicato nel 1740, soprattutto per affermare che risale al pensiero egizio l’idea della “double doctrine” (quella che i libertini, da Pomponazzi in poi, chiamavano “doppia verità”), ovvero la convinzione che occorresse pubblicamente dichiarare la propria fede nel premio e nella punizione eterne, anche se la filosofia portava a negare per diverse ragioni questa possibilità. Tutto questo evidentemente non interessa la lettura dei geroglifici. Nello svolgere le sue dimostrazioni, però, Warburton indugia ampiamente sulle origini della lingua e della scrittura, nate l’una per favorire la comunicazione tra gli uomini e l’altra per registrare, con vari e crescenti gradi di precisione, dalla figura alla lettera, queste comunicazioni. Tutto questo allo scopo di dimostrare l’antichità dei geroglifici egizi, precedenti l’invenzione dell’alfabeto, quindi più antichi di Mosé. Il IV volume di Warburton ebbe grande fortuna in Francia. Léonard des Malpeines lo tradusse nel 1744, con il titolo Essai sur les hiéroglyphes des Egyptiens, Condillac ne parlò in termini entusiastici, e l’Encyclopédie fondò su esso i due articoli “Écriture égyptienne” e “Hiéroglyphe”.

Tra gli eruditi del Settecento un posto di tutto rilievo spetta all’abate Barthélemy, a cui dobbiamo un’opera sull’alfabeto e sulle scritture di Palmira, Reflexions sur l’alphabet et sur la langue dont on se servoit autrefois à Palmyre, 1754, di cui riparleremo, e una Explication de la Mosaïque de Palestrine, 1760. In entrambe le opere egli parla dell’Egitto e dei geroglifici, seguendo sostanzialmente gli schemi di Warburton. In particolare, partendo dall’ipotesi che la scrittura ieratica derivasse dalla geroglifica (giusta) e che i suoi segni fossero alfabetici (errata), cercò di spiegare il gran numero di caratteri presenti nella ieratica (il che avrebbe dovuto metterlo sull’avviso) citando l’alfabeto amharico, le cui 26 lettere, variamente combinate con vocali a formare sillabe, danno un totale di 202 segni. Un altro sbaglio egli fece nel supporre che anche la scrittura ieratica, come la geroglifica, includesse certi simboli particolari in una cartouche: in compenso egli ipotizzò che le cartouches racchiudessero nomi di re o di divinità, supposizione ripresa da Zoëga e rivelatasi parzialmente giusta, straordinariamente utile nella decifrazione.

Barthélemy lavorava per un illustre personaggio, il conte di Caylus, viaggiatore, collezionista e archeologo. Caylus contribuì in due modi ai progressi dell’egittologia. Primo, con la sua collezione, importante, che mise a disposizione degli studiosi una quantità di testi decisamente superiore a quelli accessibili all’epoca di Kircher. In secondo luogo ponendo chiaramente il problema della corretta rappresentazione delle scritture antiche. Per pubblicarle occorreva affidarsi prima a un disegnatore, poi alla mano di un incisore che preparasse a occhio le lastre per la stampa. Questi passaggi rendevano le riproduzioni il più delle volte inutilizzabili ai fini dello studio e della decifrazione. I pochi europei che nel Settecento viaggiarono in Egitto (il gesuita Sicard che giunse sino ad Assuan, Lucas1, il conte di Volney, il danese Norden2, gli inglesi Pococke3 e 1 P. LUCAS, Voyage au Lévant, La Haye, 1705. 2 F. L. NORDEN, Antiquities of Egypt, Nubia and Thebes, London, 1791. 3 R. POCOCKE, Description of the East, London, 1743-45.

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Bruce) dedicarono assai scarsa attenzione alle scritture egizie. Si possono citare ancora la carta geografica dell’Egitto incisa da d’Anville nel 1766, e gli Opuscula di Jablonski, pubblicati solo all’inizio dell’Ottocento1. Nessuno di questi lavori partiva però da una conoscenza diretta dei luoghi e dei reperti archeologici. Il viaggiatore che maggiormente contribuì al progresso degli studi sull’Oriente fu senza dubbio Niebuhr. Niebuhr2 è soprattutto celebre per aver copiato le iscrizioni persepolitane da cui partì la decifrazione delle scritture cuneiformi; ma anche il suo contributo all’egittologia è da considerarsi notevole. Egli aveva un’accurata conoscenza del mondo arabo, che gli permetteva di girare ovunque e di trovare ovunque collaborazione. Quando incontrava geroglifici li copiava pazientemente, e in questo lavoro raggiunse una grande abilità, come dimostrano le incisioni dei suoi libri. Si deve a lui la prima tavola sistematica di geroglifici, ordinati secondo un criterio tematico. Egli fu anche il primo a comprendere che nei rilievi monumentali bisogna distinguere tra le figure grandi, che non hanno nessun carattere di scrittura, e figure piccole, tutte in fila, alle quali sole va attribuita la definizione di geroglifico.

1 Per un elenco più ampio degli egittologi settecenteschi, cfr. WALLIS BUDGE, The Rosetta Stone, op. cit., pp. 189-91. 2 Karsten Niebuhr nacque nel 1733, nell’Holstein (morirà nel 1815). Non ricevette particolare istruzione, ma dimostrò presto interesse per la matematica e la topografia. Per questa ragione uno dei suoi insegnanti gli propose di aggregarsi alla spedizione che Federico V di Danimarca stava organizzando per l’Oriente. La spedizione partì nel gennaio 1761, per Alessandria. Le tappe successive furono il Nilo, Suez, il Sinai, La Mecca, lo Yemen, Bombay; durante questo viaggio gli altri quattro membri della spedizione morirono, di fatica o di malattia. Niebuhr rimase più di un anno a Bombay, poi ritornò visitando Muscat, Shiraz, Persepoli, Babilonia, Bagdad, Mossul, Aleppo, Cipro, la Palestina, Costantinopoli. Nel novembre 1776 era infine a Copenhagen. Attento osservatore, pubblicò un primo resoconto dei suoi viaggi nel 1772 con il titolo Beschreibung von Arabien (abbondantemente illustrato grazie al finanziamento del governo danese), e altri due volumi col titolo Reisebeschreibung von Arabien und anderen umliegenden Ländern nel 1774-78. Il quarto volume apparve postumo nel 1838. Niebuhr curò anche la pubblicazione del materiale raccolto da uno dei suoi amici scomparsi nella spedizione, il naturalista Forskhl.

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Niebhur

La più completa e celebre opera settecentesca sui geroglifici apparve nel 1797, solo un anno prima della spedizione napoleonica: De origine et usu obeliscorum di Georg Zoëga. Zoëga era un erudito danese, ma lavorò quasi sempre a Roma, dove pubblicò tutte le proprie opere. Anche se dedicato specificamente agli obelischi, il suo volume fa il punto su tutto quanto si conosce intorno all’antico Egitto, e concede largo spazio al problema dei geroglifici. Zoëga è l’uomo della ragione e del metodo. Senza eliminare a priori nessuna ipotesi, egli ritiene tuttavia valide solo quelle che siano documentate o da testimonianze antiche o da reperti pervenutici. La storia è per lui una lenta evoluzione, non un susseguirsi di fatti straordinari. Come Warburton, egli ritiene che i geroglifici siano nati da rappresentazioni di tipo pittorico, trasformatesi in scrittura. Ma Warburton attribuisce questa invenzione a uno scriba reale poi divinizzato in Thoth: Zoëga ritiene invece che il processo sia stato lento e insensibile, frutto di un’evoluzione durata secoli. Quanto alla possibilità di leggere i geroglifici, Zoëga è piuttosto pessimista: se gli stessi antichi, Greci e

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Romani, ne avevano probabilmente dimenticato il significato, diventa quasi impossibile pensare di riscoprirli sulla base di documenti letterari. Nella scia di Warburton, Zoëga pensava poi che la scrittura “pubblica” precedesse l’epoca di Mosé e che la ieratica fosse un’invenzione dei sacerdoti per conservare i propri segreti. Quale data di nascita del Copto egli indicò il III secolo. Come si vede, le conclusioni di Zoëga sono lungi dall’essere sempre esatte. In compenso si devono a lui alcune intuizioni di grande importanza. Egli capì innanzi tutto che la direzione della scrittura è indicata dalle figure, che sono sempre rivolte verso l’inizio della linea. Si mise poi a contare i segni della scrittura geroglifica: 270 per i soli obelischi e 958 considerando tutte le iscrizioni note in Europa. Questo numero era evidentemente troppo alto per qualsivoglia scrittura alfabetica; ma era anche troppo basso per un sistema ideografico completo, come il cinese. Zoëga avanzò due ipotesi per risolvere il problema. Poteva essere che uno stesso segno potesse rappresentare più di un concetto, oppure che due segni accostati volessero significare una terza cosa diversa. Solo uno studio attento dei segni e delle loro ricorrenze avrebbe potuto porre le basi per affrontare seriamente l’argomento. Ma Zoëga suggerì anche, e in questo è la sua intuizione più geniale, che alcuni segni potessero avere valore fonetico (coniò anzi il termine, poi universalmente adottato dalla linguistica, “notae phoneticae”). In questo egli partiva da un’indicazione di Horapollo, secondo cui il segno del falco, pronunciato “baieth” valeva “spirito nel cuore”, perché “bai” = spirito e “eth” = cuore. Il passo successivo di Zoëga era un’ipotesi ingegnosa, ma ancora una volta di pura fantasia: se il falco intero valeva “baieth”, perché non pensare che la sola testa del falco potesse riprodurre la sillaba “bai” e la parte inferiore del corpo, con le zampe, la sillaba “eth”? Lo smembramento dei segni geroglifici, procedendo di questo passo avrebbe potuto dare origine a segni alfabetici: sarebbero così inevitabilmente nate due scritture, la geroglifica simbolica e la “pubblica” alfabetica, con i venticinque segni di cui parla Plutarco. Sino ad oggi, concludeva Zoëga, non è stata scoperta alcuna scrittura “pubblica” (demotica), ma quando ne troveremo una, avremo conferma di questa teoria. Lo studioso danese, nella sua tranquillità di Roma, non poteva immaginare che solo pochi mesi mancavano a questa agognata scoperta: ma sfortunatamente si sarebbe visto che la scrittura demotica conteneva ben più di 25 segni.

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