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Parte I La dirigenza pubblica e la riforma della pubblica amministrazione in Italia: persistenze e cambiamenti di Emanuele Sgroi Premessa Dirigere la pubblica amministrazione; meglio, dirigere nella pubblica amministrazione. Non è un gioco di parole, ma un modo per segnalare le due dimensioni di un tema da sempre al centro delle riflessioni, delle proposte, del dibattito sulla riforma della pubblica amministrazione in Italia, quasi fin dall’inizio della costituzione dello stato unitario, non diversamente da quanto avvenuto negli altri Paesi che hanno anticipato storicamente l’Italia nella costruzione dello Stato nazionale e nella esigenza di dare carne e sangue all’immagine, sempre più estesa, proiettata dallo Stato sulla società. La presenza dello Stato nel corso di due secoli di crescita industriale, di intreccio virtuoso tra

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Parte I La dirigenza pubblica e la riforma della pubblica amministrazione in Italia: persistenze e cambiamenti di Emanuele Sgroi

Premessa Dirigere la pubblica amministrazione; meglio, dirigere nella pubblica

amministrazione. Non è un gioco di parole, ma un modo per segnalare le due dimensioni di

un tema da sempre al centro delle riflessioni, delle proposte, del dibattito sulla riforma della

pubblica amministrazione in Italia, quasi fin dall’inizio della costituzione dello stato

unitario, non diversamente da quanto avvenuto negli altri Paesi che hanno anticipato

storicamente l’Italia nella costruzione dello Stato nazionale e nella esigenza di dare carne e

sangue all’immagine, sempre più estesa, proiettata dallo Stato sulla società. La presenza

dello Stato nel corso di due secoli di crescita industriale, di intreccio virtuoso tra

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competitività ed integrazione economica a livello internazionale, di trasformazione della

guerra secondo i codici totali della economia-mondo, di emergere di conflitti sociali non

più regolabili secondo modalità bilaterali, si è estesa enormemente, assumendo forme

sempre più complesse, che non potevano essere più “rappresentate” soltanto dalle

istituzioni della politica: i parlamenti e i governi nazionali, le autonomie locali, i partiti

politici. Neanche le scorciatoie verso la modernità tentate nel XX secolo dai regimi

totalitari a partito unico sono riuscite a trovare una soluzione al problema della crescente

burocratizzazione. Né l’abnorme espansione, in alcuni paesi ad ordinamento democratico,

dei partiti-apparato e la loro “occupazione” dello Stato così come la loro “colonizzazione”

di importanti segmenti della economia e della società civile, è riuscita ad offrire una stabile,

anche se perversa, soluzione al problema di come gestire e rendere effettivi i “fini” della

politica, fini resi sempre più ambiziosi ed insieme sempre più contingenti, nella stagione

della “rivoluzione dei diritti”, fini sempre più universalistici ed insieme destinati a piegarsi

alle logiche particolaristiche di una società, declinata in termini di individualismo di massa,

fini sempre più erosi dalla pressione dei processi di globalizzazione e dal risveglio

prepotente dei localismi territoriali, e non soltanto territoriali.

Da qui l’esigenza della politica di trovare il braccio sicuro di sempre più

amministrazione, di cautelarsi della insufficiente prontezza o lealtà della amministrazione

ricorrendo ad altra amministrazione (costruendo via via “amministrazioni parallele”). La

crescita degli apparati amministrativi pubblici come mero inseguimento della estensione dei

compiti dello Stato non poteva non rivelare il suo rischio inflazionistico da una parte,

imponendo di conseguenza il tema della qualità, dall’altra riproponendo in termini meno

astratti la questione della regolazione dei rapporti tra politica ed amministrazione. E qui

ritroviamo le due proposizioni che abbiamo utilizzato all’inizio e che possono essere lette

come due diverse opzioni: dirigere la pubblica amministrazione; dirigere nella pubblica

amministrazione. A loro volta esse si articolano in due ulteriori proposizioni: chi è

chiamato a dirigere; come dirigere. In un disegno razionale, la seconda proposizione

dovrebbe essere dirimente rispetto alla prima: definita la funzione dirigenziale, il contenuto

distintivo del dirigere, ne dovrebbe conseguire chi è abilitato ad esercitarla. Non è così:

perché dirigere non è soltanto una funzione, è anche un potere. La separazione/distinzione

tra politica ed amministrazione, voluta dalle recenti riforme, non è soltanto astratta, ma

anche ipocrita se ci si accontenta di definirla come separazione/distinzione tra funzioni; è

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distinzione tra funzioni se al contempo è effetto di una separazione tra poteri che si

riconoscono reciprocamente e rispettano i confini che sono stati loro assegnati o che si sono

negozialmente attribuiti.

Su questo punto si consumano da anni le riforme amministrative, su questo punto si

accumulano gli alibi e si concludono i “negozi”, su questo punto si bloccano, o perdono

velocità, i processi di modernizzazione della pubblica amministrazione: non è un caso che,

pur scontata la forte labilità dei governi nella tradizione italiana, vi siano stati sette ministri

proposti alla funzione pubblica in dieci anni, anche all’interno della stessa maggioranza non

sempre reciprocamente consonanti (e l’espressione è eufemistica).

La vita, però, continua, la vita delle amministrazioni pubbliche, intendo; e con essa,

continuano a operare i differenti luoghi organizzativi che in ogni amministrazione si sono

andati costruendo negli anni per spinte diverse, attraverso stratificazioni di esperienze,

occasioni innovative sfruttate più o meno prontamente, culture e stili amministrativi filtrati

attraverso la “coperta d’ordinanza” dell’uniformità burocratica, luoghi portatori talvolta

irripetibili di misteriosa efficacia. E i “dirigenti” ci sono: in misura diversa chiamati a far

muovere la macchina, rappezzata forse più che ristrutturata o ricostruita, della pubblica

amministrazione; costretti a cambiare pelle più volte in questi ultimi trent’anni e, quindi,

tentati di ingegnarsi a cambiare il meno e il più lentamente possibile, non potendo escludere

che il prossimo cambiamento si muoverà in senso contrario a quello immediatamente

precedente, con ciò contribuendo, consapevolmente o meno, a rafforzare quel continuismo

che sembra una componente “dura” del DNA della burocrazia italiana; ma nello stesso

tempo anche assai meno omogenei rispetto al passato, perché provenienti da un ventaglio

formativo e professionale assai più articolato, reclutati - e selezionati - attraverso modalità

diverse e più sofisticate, meno burocratiche quanto meno, più pronti ad investire nel

percorso professionale la propria soggettività, se non altro perché sollecitati dal modello

competitivo imposto dalla new economy e diffuso ormai anche nelle dimensioni

extraeconomiche della vita sociale.

La ricerca che ho progettato e diretto per conto della Scuola Superiore della

Pubblica Amministrazione, e di cui in questo volume si presentano i risultati, affronta i

temi sopra accennati attraverso una analisi empirica della condizione della “dirigenza

pubblica”. L’attenzione è rivolta alla dirigenza della Amministrazione dello Stato e degli

Enti Pubblici non economici; se la ragione formale del circoscrivere a questi comparti i

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confini dell’universo da indagare si fonda sulla particolare mission della SSPA, ad essa si

aggiunge quella più sostanziale - correndo il rischio della retorica, potrei dire anche

affettiva - che nasce dal fatto che in oltre sei anni di attività quale docente stabile della

Scuola ho incontrato centinaia e centinaia di futuri dirigenti e di dirigenti in servizio presso

amministrazioni dello Stato, interagendo con essi quali partecipanti alle attività formative,

quali docenti o testimoni preziosi in esse, quali committenti di progetti formativi da

realizzare, quali referenti e guida delle esperienze di stage dei corsisti (del primo e del

secondo corso-concorso per l’accesso alla carriera dirigenziale). So bene per il mestiere che

faccio (al di là del mio attuale impegno nella Scuola) che è cattiva regola trasferire i dati

offerti da una conoscenza soggettivistica sul terreno delle generalizzazioni empiriche: un

identikit del dirigente costruito sulla base di queste conoscenze avrebbe ben poca o nulla

affidabilità scientifica. Però non posso nascondere che il complesso di queste esperienze mi

ha fatto toccare con mano la variegata tipologia della dirigenza pubblica e mi ha consentito

di isolare i due momenti in cui si può misurare (è brutta questa espressione, ma per il

momento lasciatemela passare) la performance del dirigente; di più, il suo ruolo reale.

Questi due momenti discendono dalle ottiche canoniche di ogni ricerca sociologica: quella

oggettiva e quella soggettiva ( che le esigenze analitiche ci consigliano di usare entrambe,

ma con la massima prudenza).

Alla prima appartiene la ricerca sui “luoghi di vitalità dirigenziale”, coordinata da

Antonio Cocozza; alla seconda la ricerca sui “percorsi di successo dei dirigenti”, coordinata

da Carla Chiara Santarsiero. I risultati delle due ricerche saranno esposti e commentati

approfonditamente nei capitoli che seguono dagli stessi coordinatori; io stesso, comunque,

sarò sollecitato a riprenderli, leggendoli secondo una prospettiva integrata, nel trarre le

conclusioni di questo saggio introduttivo dedicato ad una riflessione sistematica sulle

dinamiche della pubblica amministrazione e del lavoro dirigenziale pubblico in Italia.

1. La centralità della pubblica amministrazione 1.1. E’ una osservazione storica indiscussa che, nella nascita della società moderna,

la burocrazia preceda la democrazia. Il “Re Giusto” e il “Re Legittimo”, come archetipi

della sovranità, prima ancora di cedere alla sovranità popolare le proprie prerogative di

imperio, vengono sostituiti dal “Re Competente”. Uscendo dal linguaggio metaforico, la

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nascita delle grandi monarchie nazionali porta con sé una inevitabile duplicità: se si può

affermare da un lato “Lo Stato sono io”, innalzando sui particolarismi feudali e territoriali il

vessillo di un assolutismo “universalistico”, dall’altra occorre realizzare un tipo di

organizzazione amministrativa che costituisca la condizione necessaria perché il nuovo

potere politico possa affermarsi, stabilizzarsi e mantenersi. “L’agire amministrativo è

quindi essenzialmente orientato verso l’acquisizione dei mezzi indispensabili alla

conservazione e al rafforzamento del potere regio così costituitosi” (PASTORI, 1992, 8).

L’organizzazione amministrativa dello Stato assoluto si articola e si diffonde in

modo uniforme sul territorio, ma non assume caratteristiche strutturali autonome rispetto

all’autorità del sovrano: è un apparato di persone legate da un rapporto di subordinazione

interna e privata con il sovrano. L’elemento istituzionale è assolutamente prevalente

rispetto a quelli organizzativo e funzionale: “questi ultimi si riassumono e si compenetrano

nell’unitaria formula del servizio al Re (o alla Corona)” (ivi).

Via via che si andrà affermando il capitalismo industriale, imponendo allo Stato

moderno nuovi compiti di regolazione sociale e promuovendo l’uso di crescenti risorse da

impegnare per rendere effettive le funzioni di regolazione sociale, la creazione di un

apparato amministrativo dotato di poteri autonomi e di competenze tecniche e professionali

specifiche diventa “una delle caratteristiche essenziali di quella forma di ordinamento

politico propria delle società contemporanee sviluppate che è lo Stato moderno”

(MAYNTZ, 1982, 29).

Le tensioni provocate dalle crisi economiche e dagli stravolgimenti politici e sociali

del XX secolo espanderanno ancor di più la presenza degli apparati organizzativi pubblici,

la cui pervasività nella vita quotidiana dei cittadini nella società moderna diventerà ancora

più penetrante anche sulla spinta della “giuridicidizzazione” di ogni sfera della vita sociale

e morale (HABERMAS, 1986). La giuridicidizzazione è l’effetto congiunto di un

movimento che viene dall’alto (e dal centro) come “colonizzazione dei mondi vitali” e di

un movimento simmetrico che procede “dal basso”, la “esplosione dei diritti”. Non soltanto

più diritti 1 e un sempre maggior numero di soggetti riconosciuti come portatori di diritti,

ma anche una crescente consapevolezza da parte dei cittadini dei propri diritti, la richiesta

1 Seguendo l’indicazione proposta da Bobbio l’articolazione dei nuovi diritti si sviluppa lungo una linea che arriva, almeno a oggi, ai diritti di “quarta generazione”: si veda A. LA SPINA, Le strategie informali del cittadino: significato, proposte, linee di tendenza, in “QUADERNI DI SOCIOLOGIA”, XXXVII, 4, 1993.

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esigente di una maggiore certezza nella loro effettività e, di conseguenza “che lo Stato

predisponga e faccia funzionare efficacemente organizzazioni burocratiche responsive,

capaci cioè di dare risposte efficaci alla domanda di tutela o di promozione…” (SGROI,

1996, 15). Gli effetti non sono però sempre quelli desiderabili; questi si muovono lungo tre

direzioni:

a) la competitività e la collisione tra diritti così che all’intensificarsi della

regolazione “protettiva” di certi interessi diffusi può correlarsi la compressione,

non sempre giustificata e, quasi mai, accettata di altri diritti;

b) l’aumento del contenzioso con un effetto di congestione, perché se tutti i

portatori di diritti chiedono protezione giudiziaria, questa finisce fatalmente con

l’essere tardiva, selettiva, contraddittoria;

c) il sovraccarico sugli apparati amministrativi che non riescono ad inseguire

efficacemente la “copertura” amministrativa dei diritti, quando non si verifica

invece che siano indotti a giocare una nuova carta di potere utilizzando gli spazi

di discrezionalità che l’iperproduzione normativa di fatto offre loro.

La pubblica amministrazione si rivela così sempre più un fattore critico nella

costruzione della legittimità e del consenso in un sistema politico democratico, perché il

giudizio che i cittadini esprimono, ogni volta che entrano in contatto con la “corporeità”

dello Stato, in merito alla equità, all’efficienza, all’efficacia dell’agire amministrativo

favorisce o indebolisce lo sviluppo del loro

senso di appartenenza e di lealtà verso le istituzioni. Tanto più se è venuta meno quella

funzione, oltre che di rappresentanza, di filtro e di rielaborazione della domanda sociale, di

costruzione di identità collettive esercitata in precedenza dai grandi partiti storici, portatori

di ideologie e in grado di mobilitare potenti apparati “pedagogici”, “armati” da forti

apparati radicati nella società civile e quindi capaci di cogliere interessi latenti, emozioni

collettive, aspettative diffuse.

La rivoluzione dei diritti mette in evidenza, almeno in Italia, la debolezza della

cittadinanza amministrativa: “l’individuo è cittadino nell’ambito costituzionalmente

garantito, ma rimane suddito nei confronti dell’amministrazione , che esercita la più ampia

discrezionalità nel fare o non fare, e nel fare oggi o domani. Per cui i cittadini sono alla

mercé degli apparati nelle più piccole cose della vita quotidiana”. (CASSESE, 1998, 60).

Al costo della disaffezione civica, ai costi delle lungaggini burocratiche, si aggiunge il

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costo del ricorso alla autotutela (SGROI, 1996, cit.) e della ricerca di intermediazioni

alegali (la raccomandazione) o illegali (la corruzione).

1.2. La pubblica amministrazione di un Paese come l’Italia, approdato alla forma-

nazione e alla modernità con un patrimonio plurisecolare e variegato di storia istituzionale,

caratterizzato da una struttura sociale e politica policentrica, costituisce un sistema assai

articolato, prodotto di successive stratificazioni istituzionali ed organizzative chiamate a

rispondere a momenti economici, politici, sociali assai diversi.

Il pendolo tra centralismo e decentramento, tra statalismo e autonomia del

“privato”, tra primato della politica e primato della burocrazia, ha fatto registrare

movimenti alterni nell’arco di quasi centocinquanta di storia unitaria. Ma, paradossalmente,

la freccia della storia si è comunque sempre mossa verso un processo cumulativo

dell’apparato pubblico.

L’importanza politica, il rilievo sociale, il peso economico della pubblica

amministrazione, non soltanto si sono mantenuti nel tempo - contro l’apparenza, spesso

meramente simbolica, dei cambiamenti istituzionali e delle riforme amministrative - ma

anzi si sono accresciuti, facendo della pubblica amministrazione un’arena dove si

confrontano, cercando di dividersene le molteplici spoglie (ben prima e ben al di là della

introduzione dello spoils system ), attori politici, organizzazioni sindacali, lobbies di varia

natura. Queste cercano di acquisire o canalizzare il consenso di quel vasto ceto medio

scolarizzato orientato al pubblico impiego, che costituisce oggi una sorta di “classe

generale” che lega la sua sopravvivenza e la sua riproduzione alle fortune del welfare state;

volubilmente fedele e insieme riottoso nei confronti delle forze politiche che si offrono

nell’arena politica come custodi arcigni e puntigliosamente conservatori del modello

welfarista, questo ceto, politicamente ondivago, ma capace di comprendere opposti

segmenti sociali, ha la sua cittadella fortificata nella burocrazia pubblica, ma ha anche il

suo “esercito burocratico di riserva”, l’infinita fascia dei “precari” che vivono negli

interstizi della presenza pubblica nell’economia e nella società, ancora assai massiccia

malgrado le parole d’ordine della privatizzazione.

Qualche dato economico evidenzia quanto grande sia l’influenza del sistema

pubblico-amministrativo sulla società italiana: “prendendo come riferimento l’anno 1998, si

constata che il conto consolidato della pubblica amministrazione presenta spese per oltre

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1.000.000 di miliardi, pari al 49,7% del prodotto interno lordo. Le amministrazioni

pubbliche come datori di lavoro occupano circa 3.500.000 persone e spendono 222.000

miliardi in retribuzioni; acquistano beni e servizi per 99.000 miliardi e investono per 77.000

miliardi” (REBORA, 1999, 12). Questi dati, peraltro, non sono comprensivi del “settore

pubblico allargato” né tanto meno del complesso di imprese che operano, con modalità

istituzionali e meccanismi organizzativi diversi, al servizio diretto ed esclusivo non soltanto

dello Stato, ma anche degli altri soggetti pubblici territoriali, Regioni ed Enti Locali.

Né, d’altra parte, l’influenza della pubblica amministrazione si limita agli aspetti

economici. Andrebbe valutato, anche se è difficile misurarlo, il capitale relazionale che si

sviluppa - dentro e fuori – intorno agli apparati pubblici: relazioni di servizio, relazioni di

scambio, confronti e conflitti tra culture amministrative, professionali, territoriali;

andrebbero ancora valutati l’impatto sociale, quantitativo e qualitativo, sul mercato del

lavoro della occupazione pubblica, gli investimenti pubblici in tecnologia, di cui, per le

loro dimensioni finanziarie e per la loro produttività differita, soltanto lo Stato può farsi

carico, gli effetti di vincolo che una iper-regolazione amministrativa può esercitare sul

sistema delle imprese, magari intrecciata perversamente con una pluralità di interventi

protettivi.

Non c’è giornata della nostra vita che non sia connotata da una molteplicità di

rapporti con la pubblica amministrazione: sono questi, si potrebbe affermare

paradossalmente (ma non tanto: pensiamo a quando ci chiedono di certificare la nostra

“esistenza in vita”), che permettono alla nostra identità sociale di qualificarsi come tale e di

esprimersi nell’agire. “Ovviamente il grado di pervasività degli apparati amministrativi

nella vita quotidiana varia da paese a paese, da un’epoca all’altra” (CORSO, 1999, 2).

Negli Stati Uniti o nella Gran Bretagna è molto più basso che in Italia o in Francia o di

quanto non lo fosse nei paesi del “socialismo reale” - e non lo sia per quelli di essi che

ancora sopravvivono - in cui ogni attività sociale di qualche rilievo era sottoposta al doppio

controllo della burocrazia di Stato e della burocrazia di partito.

A questa variabilità di situazioni che dipendono prevalentemente dal tipo di regime

politico, ma anche dalle tradizioni storiche, dalle culture, dal livello di sviluppo economico,

dalla presenza o meno di una forte componente di associazionismo civico e sociale, si

contrappone però un nucleo comune di amministrazione, l’invariante (GIANNINI, 1986):

gli apparati pubblici che si occupano della difesa, dell’ordine pubblico, della riscossione dei

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tributi e, a partire dal XX secolo, di assicurare fuori mercato alcuni servizi ai cittadini e

forme più o meno estese di protezione sociale. Anche questo nucleo però è stato oggetto

negli ultimi anni di profonde modifiche: “Qualunque sia stato il modello di società cui ci si

richiama, o qualunque sia la scelta politica circa l’ampliamento o la riduzione

dell’intervento pubblico nell’economia, il problema del miglioramento della pubblica

amministrazione, considerata nella sua componente organizzativa e gestionale, rimane

critico e cruciale per le società moderne, nelle quali non è eliminabile l’organizzazione

collettiva di molte attività anche di tipo economico” (REBORA, 1999, op.cit., 22-23).

Anche in un Paese come gli Stati Uniti che, almeno nell’immagine abbastanza

standardizzata che corre anche tra gli opinion leader, è quanto di meno statalista ci sia, la

crisi degli anni ’90 ha portato alla crescita di un movimento, quello del reinventing

goverment che, nato nell’ambito delle scienze amministrative e poi adottato dalla

Presidenza Clinton, si è posto l’obiettivo non di ridurre la presenza dello Stato, ma di

migliorarne la qualità d’azione .

Questa tendenza si è diffusa, sia pure attraverso motivazioni e forme politiche

diverse, in molti Paesi del Primo e del Secondo Mondo, nelle democrazie industriali così

come in società entrate da poco negli intinerari dello sviluppo economico.

Mi sembra interessante, quindi, cercare di verificare, sulla base delle pur non molte

informazioni disponibili, qual è il peso della pubblica amministrazione nella realtà di alcuni

paesi industriali o in fase di sviluppo industriale e se - e come - in essi l’apparato

amministrativo va cambiando, confrontando le tendenze in corso con quanto sta avvenendo

nel nostro Paese.

1.3. Possiamo utilizzare due fonti d’informazione: la prima che si riferisce ad un

ventaglio più ampio e variegato di Paesi è quella del rapporto 2001 della OECD sul “Public

Management Service”; la seconda, relativa ai paesi dell’Unione Europea, è costruita intorno

ai rapporti nazionali sull’occupazione pubblica presentati in occasione del Forum 2000 di

Schöneberger (Berlino). Le due fonti non sono comparabili, non soltanto a causa della

minore o maggiore omogeneità dei regimi politici e delle forme di organizzazione

economica e dei livelli di sviluppo, ma anche perché nella prima anni di riferimento e

ripartizione nei diversi comparti amministrativi non sono sempre omogenei.

Sono informazioni, quindi, che possono soltanto concorrere a disegnare a grandi linee lo

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scenario della amministrazione pubblica nella società contemporanea.

Dal 1950 ad oggi il peso economico della pubblica amministrazione, seguendo

l’espansione del Welfare State, è sostanzialmente raddoppiato; mentre negli altri paesi

industriali questo peso ha raggiunto la sua punta massima negli anni ’70 declinando

successivamente a conseguenza delle politiche di contrazione della spesa pubblica adottate,

pur con diverso grado di durezza e con diverso approccio ideologico, dalla Thatcher così

come da Mitterand, da Reagan così come da Clinton, questo peso nel nostro Paese si è

mantenuto elevato almeno fino agli anni ’90 per ragioni che appartengono alla nostra

tradizione statalista (causa o effetto di una società statodipendente?) che ha sempre

attraversato, al di là dei contrapposti programmi elettorali e delle dichiarazioni rituali, tutti

gli schieramenti politici 2.

L’indicatore che può essere utilizzato per misurare le variazioni intervenute nel peso

della pubblica amministrazione è quello della occupazione pubblica, con i limiti accennati

in precedenza.

Attraverso la fonte OECD possiamo rilevare l’andamento e la distribuzione dell’impiego

pubblico in 16 paesi. Nel periodo 1990/2000 in dieci paesi si rileva un aumento degli

addetti al settore pubblico in totale con indici che vanno dall’1% dell’Italia al 43% della

Turchia.

Tabella n. 1

AUMENTI DECREMENTI

Fino al 10% Fino al 20 % oltre il 20 % fino al 4 % fino all’8 %

AUSTRIA PAESI BASSI FRANCIA GRECIA CANADA ITALIA USA IRLANDA NUOVA ZELANDA FINLANDIA

GERMANIA TURCHIA REPUBBLICA CECA COREA UNGHERIA SPAGNA

2 La forte presenza del welfare pubblico in Italia nella sua particolare configurazione, centrata peraltro più sui trasferimenti che sui servizi, è un prodotto patch-work di un compromesso strisciante non soltanto tra “parti” politiche – e le rispettive categorie sociali di riferimento (lavoratori dipendenti/lavoratori autonomi), ma anche tra territori (Nord/Sud) e tra livelli di politiche sociali (previdenza/assistenza/sanità/politiche dell’impiego), caratterizzato da un tasso di clientelismo assai elevato e funzionale soprattutto alla domanda di occupazione dei ceti medi scolarizzati; vedi: U.ASCOLI (a cura di), Welfare state all’italiana, Laterza, Bari, 1984.

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Il comparto della pubblica amministrazione in cui si rileva il maggior incremento di

personale è quello degli enti locali in Austria, Francia, Germania, Corea, USA; quello delle

regioni in Spagna, in Turchia e in Italia ( anche se, quest’ultimo caso, in misura più ridotta);

quello del governo centrale in Irlanda e nei Paesi Bassi.

Nei sei paesi che fanno registrare un decremento degli addetti al lavoro pubblico in

totale (un decremento che va dallo 0,2% della Grecia al 7,5% della Finlandia) il comparto

che registra il maggior decremento è il governo federale o centrale in Canada, Finlandia,

Grecia e Repubblica Ceca, gli enti locali in Nuova Zelanda e in Ungheria.

L’osservazione che si può trarre da questi dati è che l’occupazione pubblica,

nonostante tutto, aumenta e ciò si verifica sia in sistemi storicamente welfarizzati sia in

paesi che soltanto recentemente hanno visto una maggiore presenza dello Stato nel

controllo dell’economia e nella promozione della sicurezza sociale, sia in paesi ad

ordinamento federalista sia in paesi ad ordinamento centralizzato.

Le dinamiche dell’occupazione pubblica seguono nella maggior parte dei casi la

direzione del decentramento politico-amministrativo (in applicazione del principio di

sussidiarietà verticale), ma non rivelano ancora una significativa “ritirata” del settore

pubblico (il principio di sussidarietà orizzontale stenta probabilmente ad affermarsi): il

decremento degli addetti, a parte il comprensibile calo nei due paesi ex-comunisti, è

attribuibile soprattutto alla diminuizione del personale delle amministrazioni centrali e alla

limitata crescita (tranne nel caso del Canada) del personale delle regioni e degli enti locali.

Dalla fonte OECD possiamo rilevare anche, sia pure soltanto per undici paesi per

cui esistono dati omogenei, il peso percentuale della occupazione pubblica sulla

occupazione totale e le sue variazioni.

Tabella n. 2

PAESI 1989 1998 1999 CANADA 20% - 17% COREA 4% 4% - FINLANDIA 26% - 15% FRANCIA 20% 21% - GERMANIA 15% - 12% IRLANDA 20% 15% - ITALIA - - 22%

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PORTOGALLO 12% 15% - SPAGNA 14% - 15% TURCHIA 8% 9% - USA 15% - 15%

Questi dati consentono due osservazioni:

- il contributo dell’occupazione pubblica al mercato del lavoro è rilevante in Italia,

Francia e Finlandia (anche se in quest’ultimo Paese in forte decremento); mentre è

piuttosto basso in Corea e in Turchia, paesi dissimili sotto il profilo del modello e

dell’intensità dello sviluppo industriale, ma entrambi ugualmente lontani dal modello

occidentale di sviluppo della statualità;

- la quota percentuale di occupazione pubblica presenta variazioni nel tempo meno

sensibili rispetto agli altri comparti del mercato del lavoro per la evidente anelasticità di

un comparto come quello pubblico che si regge soprattutto sul capitale umano e che, in

molti casi, funziona da “occupante di ultima istanza” nei confronti della rigidità del

mercato del lavoro privato.

Si può ancora aggiungere una osservazione sul rapporto tra addetti alla pubblica

amministrazione e popolazione complessiva, ricordando comunque che il dato sul lavoro

pubblico è sottostimato 3.

I quindici paesi che possono essere presi in considerazione in base alla rilevazione della

OECD, perché su di essi le informazioni presentate sono sufficientemente omogenee, si

possono dividere in due gruppi: in sette paesi, con in testa la Finlandia, il peso degli addetti

alla pubblica amministrazione sulla popolazione complessiva va da un minimo dello 0,06%

ad un massimo dello 0,1% con un rapporto che va da un addetto per poco più di 5000

abitanti ad un addetto per 1000 abitanti; per gli altri otto paesi il rapporto scende da un

minimo dello 0,01 ad un massimo dello 0,05 (un addetto per 10.000 abitanti/un addetto per

5.000 abitanti).

Anche la distribuzione per classi di età del personale pubblico può aiutarci a meglio

identificare i diversi sistemi amministrativi. La classe di età che concentra il maggior

numero di addetti al lavoro pubblico nei dodici paesi per i quali la fonte OECD riporta

3 I dati riguardano generalmente il personale delle amministrazioni centrali o federali, delle “Regioni” e delle amministrazioni locali, con tutte le possibili varianti che questi livelli istituzionali hanno nei diversi Paesi; mancano, inoltre, indicazioni oggettive sugli altri enti pubblici, sulle agenzie, sui professional e sui rapporti atipici di lavoro pubblico, anche in conseguenza dei differenti ordinamenti amministrativi e della diversa legislazione sul lavoro pubblico.

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questo dato è, come prevedibile quella dai 30 ai 49 anni cui appartengono il 58,8% degli

addetti. La classe di età più giovane (19-29 anni) una maggiore consistenza in Germania e

in Irlanda rispettivamente con il 28,6 e il 27,5% degli addetti. Nella classe di età 50-59 anni

sono la Svezia e gli USA ad essere maggiormente rappresentati, rispettivamente con il 32,3

e con il 32% degli addetti. Svezia e Norvegia sono in testa con gli addetti ultrasessantenni,

rispettivamente con il 7,3 e con il 6,8%. Se aggreghiamo le classi di età si comprende

meglio la caratterizzazione dei diversi sistemi amministrativi per quanto riguarda il loro

stadio di sviluppo ed anche, con qualche approssimazione, per quanto riguarda la loro

disponibilità al mutamento.

I paesi in cui si evidenzia una amministrazione “giovane”, con una fortissima, quasi

totale prevalenza di addetti appartenenti alle classi centrali delle forze di lavoro (19-49

anni) sono l’Irlanda, con il 91,8%, e la Corea, con l’83,9% : sono due paesi accomunati

dall’essere pervenuti tardi 4 allo sviluppo industriale, ma caratterizzati oggi da un saggio di

sviluppo piuttosto elevato; i paesi che presentano invece una popolazione amministrativa in

cui la componente più anziana è relativamente più consistente sono gli USA e la Svezia,

rispettivamente con il 38,1% e con il 33%; sono paesi che hanno già attraversato la fase

della industrializzazione in cui il prodotto interno lordo è assicurato, ormai, dal settore del

terziario avanzato. Se ne potrebbe dedurre come ipotesi che in paesi in veloce sviluppo

industriale una “nuova” offerta amministrativa accompagna la tendenza al cambiamento,

mentre in paesi economicamente maturi funziona un apparato amministrativo ormai

consolidato nelle sue funzioni e nelle sue risorse professionali.

Una ultima analisi può essere condotta sulla distribuzione del personale tra i

”ministeri”; possiamo raggruppare i ministeri dei diversi paesi considerati (che presentano

denominazioni e attribuzioni non omogenee) secondo questa tipologia:

a) ministeri d’ordine (Affari Esteri, Interno, Giustizia, Difesa, Tesoro);

b) ministeri economici (Industria, Commercio con l’Estero, Agricoltura, Lavoro);

c) ministeri dell’ambiente e del territorio (Ambiente, Infrastrutture, Lavori

Pubblici, Trasporti);

4 Mentre l’Irlanda, pur essendo arrivata tardi rispetto alla rivoluzione industriale della fine del XVII-inizi del XIX secolo, ha comunque partecipato, sia pure marginalmente alla realtà dell’Occidente industriale, la Corea del Sud, così come le altre “Tigri asiatiche”, ha goduto soltanto recentemente di un impetuoso decollo industriale provocato dalle nuove forme di divisione internazionale del lavoro che hanno trasferito i comparti industriali maturi in aree caratterizzate dal basso costo del lavoro e dalla prossimità con i nuovi potenziali mercati di consumo.

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d) ministeri del welfare e dei servizi personali e immateriali (Sanità, Istruzione,

Beni Culturali).

Il confronto non è di grande affidabilità perché in alcuni paesi sono probabilmente

(a giudicare dal volume degli addetti) classificati tra il personale ministeriale anche gli

insegnanti e i sanitari; questa modalità fa schizzare in alto il personale dei ministeri del

welfare: in Corea il ministero del welfare concentra l’89% del personale pubblico, in

Turchia l’80%, in Portogallo il 67,9%.

Tra i paesi in cui la distribuzione del personale nelle quattro fasce è più equilibrata,

perché presumibilmente le grandi categorie professionali non sono censite nell’ambito

ministeriale (Austria, Finlandia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca,

USA) i ministeri d’ordine occupano il maggior numero di personale pubblico, con un

minimo del 51,6% per la Finlandia ed un massimo del 66,8% per gli USA. I ministeri che si

occupano di economia occupano una percentuale relativamente superiore di personale in

Spagna (45,5%) e in Irlanda (31,5%), dato che è spiegabile con il forte impegno assunto in

questi Paesi dallo Stato a favore dello sviluppo economico. Infine, i ministeri che si

occupano di ambiente e territorio (ma anche, infrastrutture e trasporti); questi generalmente,

partecipano con un peso minore alla distribuzione del personale: i paesi che registrano una

quota di occupazione relativamente più elevata sono la Grecia (25,6%) e i Paesi Bassi

(17,3%) la cui particolare morfologia del territorio, sia pur diversa nell’uno e nell’altro

caso, può offrire una spiegazione del maggior carico amministrativo.

Anche la lettura dei rapporti nazionali presentati al Forum di Schöneberger 5

conferma l’andamento generale degli addetti alla pubblica amministrazione: un tasso di

incremento piuttosto elevato sino agli anni ’80 seguito da un progressivo decremento a

partire dagli anni ’90; in molti casi il decremento riguarda il numero complessivo degli

addetti, ma si accompagna ad una redistribuzione all’interno della struttura pubblica che

vede diminuire gli addetti alla amministrazione centrale ed aumentare gli addetti alle

amministrazioni regionali e locali; in altri casi (Italia, Francia, Portogallo, Spagna) il

modesto o assente decremento degli addetti alla amministrazione centrale

accompagnandosi con un forte incremento degli addetti alle amministrazioni regionali e

locali ha prodotto un ulteriore incremento del personale pubblico nel complesso. Un

5 Il Forum di Schöneberger “Öffentlicher Dienst in Europa. Perspektiven für Beamtinnen und Beamte” si è tenuto a Berlino il 7-8 dicembre 2000.

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particolare fenomeno rilevato dai rapporti nazionali è quello della presenza del lavoro part-

time nella pubblica amministrazione: il ricorso al part-time è utilizzato in 11 paesi su 13 e

riguarda percentuali del lavoro pubblico che vanno da poco oltre il 5% del Portogallo al

39% dei Paesi Bassi con una media rappresentata dal 15,2%. Il part-time viene utilizzato

soprattutto dal personale femminile (con percentuali variabili da settore a settore e da paese

a paese), ma è presente anche tra il personale di sesso maschile.

Tutti i rapporti rivelano una dinamica “bivalente” della pubblica amministrazione:

da una parte si ha in quasi tutti i paesi considerati una “ritirata” dello Stato da settori

occupati negli anni ’70 per realizzare nella misura più ampia il ruolo del Welfare State o

dello Stato-Imprenditore, ritirata accompagnata da processi di privatizzazione e di

esternalizzazione; dall’altra nuovi compiti si affacciano alla ribalta dell’azione pubblica in

conseguenza dei cambiamenti sociali ed economici, dalla tutela dell’ambiente alla lotta

contro la criminalità organizzata, dal governo dei nuovi movimenti migratori

all’accoglienza dei rifugiati alla protezione civile. Questi processi stanno cambiando la

tipologia professionale del personale pubblico, richiedendo sempre di più nuove

competenze professionali specialistiche che non possono affluire attraverso i tradizionali

canali di reclutamento e selezione e che quindi entrano nel lavoro della pubblica

amministrazione secondo forme contrattuali che ne rendono difficile il censimento.

Né la questione del personale pubblico nei diversi paesi europei può essere

affrontata e comparata senza collocarla all’interno del contesto storico che ha caratterizzato

e caratterizza l’apparato dello Stato da una parte ed il funzionamento delle istituzioni

economiche e sociali dall’altra.

Mi sembra opportuno citare al riguardo - anche come punto di confronto per le

considerazioni che saranno presentate successivamente sui caratteri del sistema

amministrativo italiano – la premessa che introduce il rapporto francese: “Un tema

ricorrente occupa il dibattito pubblico e mediatico in Francia da molti anni, quello di una

<eccezione francese> che manterrebbe il paese se non lontano almeno in una posizione

originale rispetto alle tendenze prevalenti dei processi di globalizzazione. Ora, se c’è un

campo in cui la specificità francese è sommamente evidente, è proprio quello della funzione

pubblica.

In nessun altro paese europeo in effetti si ritrova una tale congiunzione di

caratteristiche: una funzione pubblica molto affollata e i cui effettivi continuano a crescere

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sotto la pressione della domanda sociale di azione pubblica in diversi settori; una funzione

sociale così vasta da costituire un vero e proprio mondo sociale a parte, insieme separato

sociologicamente dal mondo del privato e frammentato all’interno tra amministrazioni e tra

corpi distinti, a volte rivali; una funzione pubblica molto criticata per la sua pesantezza ma

in cui centinaia di migliaia di giovani cercano d’entrare ogni anno di più…; una funzione

pubblica occupata insieme da “piccoli funzionari” che dei luoghi comuni negativi

descrivono come dei “privilegiati” che abusano della garanzia del posto fisso di cui si

avvantaggiano e da “alti funzionari” il cui prestigio sociale è sempre stato più elevato in

Francia rispetto a qualsiasi altro paese (eccetto il Regno Unito) e che hanno sempre avuto

accesso ai settori concorrenziali dell’im-presa (Jean-Michel EYMERI, Rapport sur la

France, Schoneberger Forum 2000). Le polemiche sviluppatesi intorno alle grandi

manifestazioni di conflittualità sociale manifestatesi nel corso del 2003 contro la proposta

del Governo Raffarin di riforma del sistema delle pensioni pubbliche, seguite da

contromanifestazioni di protesta (molto simili ala marcia dei quarantamila quadri Fiat in

Italia) ha stigmatizzato il modello francese come quello dello “Stato-Mamma” e della

“Repubblica dei funzionari”. Al lordo dello sciovinismo tutto francese che si nutre anche

dei difetti, sono considerazioni che in gran parte potrebbero adattarsi all’Italia!

2. Il volo del calabrone: ovvero perché, malgrado tutto l’amministrazione funziona

2.1. “Un sistema organizzativo burocratico è un sistema incapace di correggersi in

funzione dei propri errori e le cui disfunzioni sono destinate inevitabilmente a diventare

uno degli elementi essenziali del suo equilibrio”: una osservazione forte, quella di Crozier,

che, come spesso succede di fronte alla rappresentazione del “male”, mescola insieme

orrore manifesto e implicita ammirazione o, almeno, sopravvalutazione. In ogni caso

teorizza l’irredimibilità della burocrazia (che è molto di più della sua irriformabilità).

D’altra parte Crozier offre una base analitica a qualcosa che fa parte del sentire comune. Il

pessimismo antiburocratico è ormai divenuto un ingombrante stereotipo diffuso

nell’opinione pubblica: l’esperienza che troppo spesso ciascuno di noi (anche quelli che

pur, magari ad altro titolo alla “famiglia burocratica” appartengono) ha fatto in qualcuno

dei suoi molteplici rapporti con la pubblica amministrazione tende ad essere generalizzata,

al di là delle situazioni concretamente vissute, di narrazione in narrazione rafforzando il

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pregiudizio negativo. E questo “venticello” gonfia le vele delle pur spesso giuste denuncie

che l’informazione su carta e su video pone al centro di fortunate rubriche giornalistiche (le

“lettere al direttore” o all’esperto messo a disposizione dalla testata) o di infotainment (da

“Mi manda Lubrano” a “Mi manda RAI 3”).

Lo stereotipo antiburocratico ha “spalle” ancora più efficaci e convincenti che non

sono di oggi e non appartengono soltanto al nostro Paese. La letteratura ci ha offerto e ci

offre graffianti o angoscianti rappresentazioni del mondo burocratico da Gogol a Bulgakov,

da Kafka a Kraus, da Bersezio a Pirandello; ed il cinema non è da meno affidando al lavoro

burocratico il compito di fare da sfondo alle sue maschere più esilaranti e, a volte, patetiche

e crudeli, da Totò a Fabrizi, a Sordi.

Il pessimismo antiburocratico da fenomeno esogeno diventa paradossalmente

endogeno finendo con il contagiare gli stessi addetti ai lavori attraverso il filtro dello

scetticismo circa la possibilità di cambiare il nostro sistema amministrativo, uno

scetticismo diffuso non soltanto, infatti, tra i cittadini rassegnati o gli studiosi delusi e

neanche come ci si aspetta da vecchi burocrati “che ne hanno visto troppe!”, ma anche tra

quelle nuove leve dell’amministrazione che pur vi sono entrate recentemente, attraverso

percorsi innovativi, con più aggiornate e diversificate professionalità, spinte dal vento delle

riforme amministrative (PERITO, SINISCALCHI, 2001).

Il rischio è che questo pregiudizio finisca con il funzionare come profezia che si

autoadempie; o diventi un alibi per quanti - e non sono pochi - preferiscono alla regolazione

amministrativa, connotata dal principio di legalità, altre forme, più efficaci e informali di

regolazione.

Eppure l’amministrazione pubblica in Italia malgrado i tanti difetti ha continuato a

riprodursi più o meno identica a se stessa, attraversando nei suoi quasi centocinquanta anni

di vita due guerre europee, due guerre mondiali (oltre alle molteplici e sfortunate avventure

coloniali), almeno tre cambi di regime e di orientamento istituzionale; e ha continuato a

“funzionare” garantendo comunque la gestione degli affari pubblici, malgrado – anche

questo va ricordato – negli oltre cinquant’anni di democrazia repubblicana si siano

succeduti ben 50 governi, per non parlare poi degli altrettanto frequenti “rimpasti” e

“rimpastini”.

Gli storici ci ammoniscono che non sarebbe del tutto accettabile sostenere che

l’amministrazione pubblica sia rimasta immobile e sostanzialmente omogenea rispetto al

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modello francese-cavourriano, ma che, d’altra parte, sarebbe azzardato parlare di

trasformazioni essenziali: la vita dell’amministrazione italiana “evolve” per addizioni: più

ministeri, aziende di Stato, enti pubblici, società a partecipazione pubblica, uffici speciali,

agenzie e amministrazioni indipendenti; e poi, regioni a statuto speciale e regioni ordinarie,

amministrazioni provinciali e “province autonome”, “aree metropolitane”, comuni e

municipi infracomunali, ciascuna con le sue burocrazie e i suoi modelli organizzativi. “La

molteplicità delle esperienze organizzative, tuttavia, non induce mai a processi di

semplificazione…tutto si crea e nulla si distrugge, verrebbe da commentare. E dunque

amministrazioni di diverso modello convivono in un reticolo di reciproci rapporti dominati

dall’incertezza e dal disordine” (MELIS, 1996, 13).

Se volessi fissare, con tutte le semplificazioni inevitabili in una operazione di questo

tipo, le connotazioni fondamentali della identità della amministrazione italiana, ne

ricorderei almeno quattro che mi sembrano fondamentali:

- il modello di statualità che ha presieduto alla costruzione del nostro ordinamento

amministrativo;

- la dislocazione temporale tra formazione della organizzazione pubblica e sviluppo

dell’apparato e della società industriali;

- la continuità del modello reale di amministrazione e della classe dirigente burocratica;

- la capacità di adattarsi dell’apparato amministrativo alle esigenze del nostro mercato del

lavoro e, insieme, alla domanda di legittimazione e di promozione sociale dei ceti

sociali meridionali.

Alle origini del nostro apparato amministrativo stanno insieme un mito fondatore ed un

compromesso storico (uno dei tanti che hanno contribuito, nel bene e nel male, a fare la

storia del nostro Paese). Il mito fondatore è legato alla tradizione ètatiste, importata insieme

al modello ordinamentale napoleonico nel nuovo Stato unitario, attraverso, però, la rilettura

provinciale che ne aveva fatto il Regno di Sardegna destinato ad essere il motore del

processo di unificazione nazionale. Il mito portò alla costruzione di “un apparato pubblico

centralizzato, ordinato gerarchicamente, sottratto al diritto comune e sottoposto ad un

diritto privilegiato, con funzionari tutelati dalla garanzia amministrativa” (CASSESE, 1998,

op.cit., 21). Il modello organizzativo adottato fu quello “ministeriale”. Anche se non si

trova da nessuna parte una definizione precisa di “ministero” (MORTARA, 1989), questo

termine rinviava all’idea “che le attività pubbliche sono svolte da strutture organizzative

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incaricate di trattare problemi omogenei dal punto di vista funzionale, al cui vertice siede

un soggetto politico, il ministro, responsabile sia al governo sia al parlamento, e che al loro

interno funzionano sulla base della gerarchia (il principio organizzativo secondo il quale la

competenza del superiore comprende l’istanza dell’inferiore” (DENTE, 1995, 49-50).

Questo mito offriva basi istituzionali ed organizzative alla ideologia dello

statalismo, cioè l’identificazione dello Stato come principio ordinatore non soltanto del

diritto, ma anche della società, ad una società “statizzata” (ancora Cassese), politicamente e

culturalmente una società statodipendente, orientata ad aspettarsi tutto dallo Stato e

altrettanto pronta ad attribuire allo Stato responsabilità e colpe.

Lo Stato centralizzato era una evidente contraddizione rispetto al “codice genetico”

del nostro Paese, il paese delle “cento città”, caratterizzato dalla storica etnodiversità delle

sue regioni. Né, d’altra parte i “piemontesi” ebbero la forza di imporre, al di là delle

operazioni di cooptazione di segmenti delle classi dirigenti degli Stati preunitari (alla

Chevalley) e di quelle violentemente repressive (alla Bixio e alla Pelloux), compiutamente

questo modello. Nella pratica si tentò un compromesso con gli ordinamenti amministrativi

degli Stati via via “annessi” o confluiti nel nuovo Regno d’Italia. Il compromesso assunse

una dimensione paradossale: venne scartato il modello “teresiano” che aveva impiantato

direttamente in Lombardia e in Veneto una amministrazione severa ed efficiente (ma che

aveva il torto di promanare dal nemico storico del Risorgimento italiano); si preferì invece

trovare un accomodamento silenzioso con gli ordinamenti amministrativi del regno

borbonico e dello stato pontificio (di cui si sarebbero ereditate progressivamente le

burocrazie), assumendone le regole non scritte: la rigidità delle norme e l’elasticità della

applicazione, la “sudditanza” del cittadino e la mediazione clientelare dei “capibastone”,

dei notabili e delle burocrazie, un personale pubblico più orientato al “posto” e alla

“posizione” che alla funzione, con un atteggiamento subalterno nei confronti del superiore

gerarchico e del rappresentante del potere politico e, viceversa, un comportamento

autoritativo nei confronti del cittadino.

Ne risentì anche la “qualità” della legislazione: Alfredo Oriani parlerà di un

“empirismo legislativo”, anticipando nel giudizio storico una frase di molta fortuna di

Tomasi di Lampedusa: “Il crescendo della rivoluzione legislativa s’impose a tutti i metodi e

a tutti i sistemi, giacchè per conservare si dovette innovare continuamente” (ORIANI,

1929, vol. III, 158); una legislazione, già allora, pletorica, farraginosa, fumosa nei principi e

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deludente o contraddittoria nelle applicazioni.

“Contrariamente a quanto era accaduto in altri casi europei, il <decollo

amministrativo> in Italia non avvenne in coincidenza con l’unificazione politica del

Paese…e neppure si collocò nei due decenni successivi l’Unità, come effetto di una politica

di national building…” (MELIS, op.cit., 181). Né la costruzione dell’apparato

amministrativo avvenne sotto la spinta della esigenza di regolare un processo di

industrializzazione già in atto; fino al primo ventennio post-unitario non esisteva, neanche

nel Nord, una sola regione che potesse definirsi industriale. Questo fenomeno faceva

mancare alla pubblica amministrazione lo stimolo modernizzante della cultura industriale e

nello stesso tempo caricava sullo Stato e sulla pubblica amministrazione il compito di fare

da “levatrice” della nascita dell’industria (e successivamente anche da “infermeria”),

avvolgendola di quella cultura della “protezione dall’esterno” e del “sussidio” che saranno

anche, malgrado gli idola del liberismo da una parte e dell’antindustrialismo e

dell’anticapitalismo dall’altra, le costanti della nostra politica industriale.

Né va dimenticato un altro carattere del nostro ingresso nella modernità: l’assenza

di quella rivoluzione borghese che avrebbe portato in Gran Bretagna e in Francia, anche se

con percorsi diversi, la borghesia a farsi, anche attraverso il controllo dell’alta

amministrazione, classe dirigente.

Ogni organizzazione è fatta per durare; tanto più questa “legge” mantiene validità se

ci riferiamo alle organizzazioni pubblico-amministrative che hanno dalla loro parte un

collante ben più forte di quello, pur solido, rappresentato dall’ordinamento giuridico per

definizione permanente e generale: la burocrazia, intesa come modello organizzativo, come

cultura e anche come ceto destinato ad autoriprodursi.

La continuità della burocrazia è un tema centrale nelle analisi sociologiche così

come nella ricostruzione storica. In Italia questa continuità ha contrassegnato, attraverso i

cambiamenti economici e sociali e i rivolgimenti politico-istituzionali, in molti casi non

soltanto l’istituzione burocratica, ma anche le persone fisiche. Cominciando da lontano: “I

prefetti napoleonici, per esempio, dopo la caduta di Napoleone, avrebbero dovuto, almeno

in teoria, essere epurati dai nuovi governi della restaurazione. Accadde invece che una parte

di essi passasse impunemente al servizio dei nuovi governi” (MELOGRANI, 2002). Lo

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stesso regime fascista, pur nella sua pretesa totalitaria 6, non epurò né pretese (o comunque

non si illuse) di ideologicizzare i vecchi burocrati di estrazione giolittiana.

Dopo un tentativo “staraciano” di mettere in divisa i funzionari statali, rapidamente

rientrato, complice lo scoppio della seconda guerra mondiale, si accontentò di una formale

adesione al regime, mentre si attivava per mettere a capo dei nuovi enti pubblici - cui venne

progressivamente affidata la gestione dell’economia pubblica e del welfare - la propria

nomenklatura.

Lo stesso fenomeno si verificò dopo la fine del regime fascista: l’antifascismo di

Stato si limitò ad una parvenza di epurazione (che si limitò in qualche caso a “fare volare

gli stracci”), preferendo la continuità di una burocrazia “apolitica” 7 e dislocando le nuove

burocrazie di partito nelle più agili - sotto il profilo della regolamentazione formale –

strutture amministrative create dall’intervento dello Stato nell’economia o nel sociale, nelle

nuove organizzazioni politiche e amministrative promosse dalla istituzione delle Regioni o

nelle progressivamente sempre più affollate “amministrazioni parallele” formatesi intorno

ai responsabili politici sia al centro che in periferia. La risorsa fondamentale di questa

continuità va probabilmente individuata nella scelta della “identità passiva”, fatta di

formalismo, di scarsa responsabilizzazione, di naturale “propensione” verso l’editore di

riferimento (per ricorrere ad una tanto fortunata quanto cinica o, semplicemente, realistica

ammissione di un noto ed evergreen personaggio della informazione televisiva), quello che

può assicurare, spesso anticipandoli anche rispetto alle richieste, automatismi di carriera,

miglioramenti retributivi, inamovibilità dalla sede e dalla posizione lavorativa.

E’ certamente vero, come afferma con ricchezza di argomentazioni Sepe (1999),

che questa continuità va intesa in senso relativo perché nella storia della amministrazione

italiana si possono individuare fasi diverse e perché sotto il mantello della comune identità

burocratica si sono sempre mosse realtà amministrative eterogenee; ma alcune costanti

6 Il tema del carattere “totalitario” del regime fascista è da alcuni anni al centro del dibattito storiografico: la presenza forte della Chiesa Cattolica e dello Stato del Vaticano, della monarchia e del suo entourage, la non completa fascistizzazione delle forze armate hanno in qualche modo limitato il controllo totale del Paese da parte del regime. 7 L’apoliticità della burocrazia italiana è più un mito che una realtà; tutt’al più significa un collateralismo silenzioso, di volta in volta esercitato nei confronti dei successivi detentori del potere di governo. Diventa poi del tutto privo di significato per le nuove organizzazioni amministrative (le Regioni) e, in parte, anche per le Autonomie Locali, in cui l’inserimento di nuovo personale o il trasferimento di personale da altre amministrazioni è stato sempre in larga misura pilotato quanto meno da una accurata lottizzazione tra le forze politiche presenti negli organismi consiliari.

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nella storia della burocrazia italiana rimangono e non sono sempre, e soltanto, il prodotto di

una rappresentazione deformata e preconcetta che l’opinione pubblica si è formata sulla

amministrazione pubblica. Alcune delle caratteristiche che sono state prima evidenziate

sembrano mantenersi nel tempo e tutt’al più soltanto in questi ultimi anni sembrano

scolorirsi o mutare molto spesso in senso migliorativo (ma qualche volta anche in peggio!).

L’ultimo connotato degli apparati amministrativi italiani è quello che viene

ricondotto alla loro meridionalizzazione.

Bisogna collocare questo processo nell’ambito della più generale trasformazione

della pubblica amministrazione italiana, una trasformazione declinata da molti autorevoli

studiosi e opinion leaders, in termini di spinta verso l’espansione e l’inflazione burocratica.

In realtà la popolazione burocratica, malgrado l’aspra denuncia salveminiana di una

“elefantiasi burocratica” 8, cresce lentamente - in qualche periodo addirittura diminuisce -

nei primi decenni dello Stato unitario: è soltanto durante la gestione crispina negli ultimi

anni del secolo XIX, poi nei primi due decenni del ‘900, nell’epoca “giolittiana” e

soprattutto durante e dopo la prima guerra mondiale che l’incremento della burocrazia

mostra qualche accelerazione.

Più che essere un effetto della volontà delle maggioranze di governo di procedere

alla inclusione politica dei ceti medi e del disegno di costruzione di un sistema di

mediazioni burocratiche, più moderno ed efficiente rispetto a quello dei “capibastone” e dei

notabili (obiettivi che pur non erano certamente estranei alle scelte di governo della

amministrazione pubblica), la crescita dei dipendenti pubblici fu la necessaria conseguenza

della crescente espansione dei compiti dello Stato: lo sviluppo della scuola pubblica e dei

servizi postali, l’impegno per la realizzazione delle opere pubbliche destinate ad unificare il

Paese (e il mercato), la statizzazione delle ferrovie, l’aumento del personale della difesa in

funzione delle ambizioni delle classi politiche di governo di ritagliare per l’Italia un ruolo

di media potenza europea e di farla entrare, come late comer, nel club delle potenze

coloniali.

Questa crescita era destinata a espandersi a dismisura nei decenni successivi, prima

in rapporto al nuovo ruolo interventista dello Stato nel periodo fascista, poi, dopo

8 L’espressione, particolarmente fortunata sul piano della pubblicistica specialistica nella prima metà del secolo trascorso, è dovuta a Gaetano Salvemini, un attento e accanito fustigatore (non sempre a ragione) del costume politico-amministrativo nazionale.

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l’instaurazione della repubblica democratica, nei lunghi anni della forte presenza dei partiti

di massa (e principalmente della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano)

nella società e nell’economia e della costruzione dello Stato Sociale (nella sua duplice

espressione di Stato welfarista e di Stato imprenditore).

All’inizio il dato più rilevante non fu tanto la crescita quantitativa della burocrazia,

quanto l’aumento del “peso” qualitativo e politico della burocrazia. “Giolitti, forse per la

prima volta, dopo la fondazione dello Stato unitario, dette un assetto preciso alla

burocrazia, stabilendo che ogni ampliamento dell’organico dovesse essere approvato dal

Parlamento…e fissando successivamente lo stato giuridico degli impiegati statali… Le

distinzioni dei ruoli, che nell’amministrazione italiana erano rimaste fluide e indefinite,

assunsero precisi caratteri gerarchici con una precipua valorizzazione delle funzioni dei

direttori generali dei singoli ministeri, posti tutti alle dipendenze del ministero dell’interno.

Di qui una compattezza e uno <spirito di corpo>, che potenziava ed esaltava il ruolo del

vincolo massonico, da cui era stata improntata la burocrazia italiana nella sua fase di

espansione, e che esprimeva nella dignità di un <senso dello Stato>, destinato a spegnersi

solo lentamente, la funzione di mediazione del dominio di una classe dirigente dalle basi

sociali ancora estremamente ristrette” (RAGIONIERI, 1976, 1879).

Questa espansione della organizzazione e del personale della pubblica

amministrazione doveva manifestarsi come la corrente destinata a canalizzare il processo di

meridionalizzazione.

E’ in questo quadro infatti che va collocata la grande mutazione della composizione

geografica della popolazione burocratica. Se la prima fase della vita unitaria aveva visto la

presenza prevalente dei settentrionali, e in particolare dei piemontesi, nella dirigenza

ministeriale, già nel periodo crispino e poi, soprattutto, nel periodo giolittiano il

reclutamento della burocrazia tende a spostarsi verso le regioni meridionali.

La piccola borghesia meridionale, spesso di origine rurale, in possesso di livelli di

scolarizzazione in eccedenza rispetto alle possibilità del mercato del lavoro intellettuale

meridionale e, comunque, distorti rispetto alle possibilità di lavoro offerta dalla nascente

economia industriale del Nord, era destinata ad imboccare la via degli uffici pubblici. In

questo processo di crescente immissione nella pubblica amministrazione, i giovani

meridionali portavano il contributo di una formazione quasi esclusivamente giuridica. Non

soltanto: la “cultura” prevalente negli studi giuridici nel Mezzogiorno - e, in forme

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specifiche nelle due grandi facoltà di giurisprudenza di Napoli e di Palermo da cui

provenivano in massima parte i laureati del Mezzogiorno - era quella dell’hegelismo

napoletano degli ultimi decenni del XIX secolo e poi del neohegelismo napoletano-siciliano

di Croce e di Gentile imperante fino alla metà del XX secolo una cultura statalista ed

autoritaria, ma nello stesso tempo conflittuale nei confronti di uno Stato, cresciuto

all’esterno della realtà meridionale, una cultura che, per la stessa vecchia querelle

meridionalistica, poteva colorarsi di connotazioni anticapitalistiche e antioperaie

(CASSESE, 1977) e calarsi in una classe capace di giocare a tutto campo nell’arena

politica, come gli anni più recenti ci hanno dimostrato.

I dati ricostruiti da Cassese sono abbastanza eloquenti. Nel 1910 i “quadri superiori”

della pubblica amministrazione nati in regioni dell’Italia settentrionale rappresentavano la

metà della categoria; l’Italia centrale e il Mezzogiorno con le Isole si dividevano l’altra

metà con una significativa prevalenza dell’Italia centrale. Nel 1954 tra i “quadri direttivi”

della P.A. la presenza di nati in regioni dell’Italia settentrionale era scesa al 13%, quella dei

nati nell’Italia centrale manteneva all’incirca lo stesso peso percentuale, mentre la presenza

dei nati in regioni del Mezzogiorno e nelle Isole era balzata oltre il 56%. Una successiva

indagine su campione dell’ISAP, riferita al 1965, attribuiva al Nord il 7,4% dei quadri

direttivi, al Centro il 26% e al Sud e alle Isole complessivamente il 76,5%.

Una più recente indagine, riferita ai direttori generali, (SEPE, 2002) testimonia

come il processo di meridionalizzazione della P.A. continui ancora. Nel 1979 i direttori

generali nati al Nord rappresentano il 12,4% del totale, quelli nati nel Centro rappresentano

il 29,2%, quelli nati nel Sud e nelle Isole il 55,1%; nel 1995 i nati nel Nord sono saliti al

14,5%, i nati nel Centro al 32,1% mentre i nati nel Sud e nelle Isole sono scesi al 51,1%.

Ma si tratta di un cambiamento relativo: la crescita dei direttori generali nati nel Nord è

probabilmente dovuta al ricorso relativamente più frequente negli ultimi anni alla modalità

della “nomina esterna”; la crescita dei direttori generali nati al Centro (e, in particolare nel

Lazio) riguarda, con buona approssimazione, “meridionali” di seconda generazione.

Un piccolo test di conferma viene offerto dai dati relativi ai tre “corsi concorso” per

l’accesso alla carriera dirigenziale (1997, 1999, 2002), modalità di selezione utilizzata con

alterne fortune in base al Decreto 29:

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25

Tabella n. 3

Distribuzione percentuale dei vincitori dei concorsi per l’accesso alla carriera

dirigenziale *

Aree territoriali 1° corso concorso 2° corso concorso 3° corso concorso

Nord 12 13 10 Centro 44 40 40 Sud e Isole 44 47 50 Italia 100 100 100 *Nei primi due concorsi i dati si riferiscono ai vincitori del concorso per l’ammissione ai corsi la cui

frequenza con profitto certificato da esami dava diritto all’accesso alla carriera dirigenziale, mentre per il

terzo, a causa della mutata normativa, ai vincitori è già attribuita la qualifica di dirigente, con l’obbligo di

seguire un ciclo di attività formative.

Parallelamente al processo di meridionalizzazione si registra il fenomeno della

estesa presenza di laureati in giurisprudenza tra il personale pubblico. Come spesso avviene

nel funzionamento dei mercati del lavoro (o, meglio, a causa delle loro disfunzioni) si

verificò - e si verifica tuttora a giudicare dai dati che appresso segnalerò - un intreccio

perverso tra domanda ed offerta di lavoro pubblico. In un discorso alla Camera nel 1906

Nathan denunciava: “Crescono e si moltiplicano le leggi, crescono e si moltiplicano coloro

che si costituiscono una professione nell’erigersi a loro interpreti. Delle une e degli altri si

può revocare in dubbio l’utilità, quando le prime si abborracciano e si approvano in fretta;

si comprendono, si assimilano e soprattutto si attuano a rilento. Comunque egli è certo che

se la Camera sente la necessità di giustificare il suo potere legislativo modificando,

accrescendo e arruffando gli ordinamenti che ci governano, il paese farebbe a meno della

straordinaria moltiplicazione non dei pani e dei pesci per sfamare le moltitudini, ma dei

pesci che ogni giorno più esigono dei pani e relativo companatico, ricercandoli e traendoli

in acque chiare e torbe.” E i “pesci” (laureati in giurisprudenza) erano molti!

Nell’anno accademico 1904-5 i laureati in giurisprudenza rappresentavano il 38,2%

dei laureati complessivi; nell’anno accademico 1910-11 erano saliti al 43,9%. (CASSESE,

1977, op.cit.). Le facoltà di giurisprudenza che fornivano la maggiore quota di laureati

erano, come si è detto, quelle di Napoli e di Palermo: e i “pesci”, quindi, per rimanere nella

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felice metafora erano in prevalenza giuristi e meridionali. Si verificava già in quegli anni

quel fenomeno distorsivo del mercato del lavoro pubblico costituito dalla sproporzione tra

domande e posti messi a concorso 9 e dall’inserimento di laureati, molto spesso attraverso

forme di precariato (avventiziato) più facili da raggiungere con l’intervento di mediatori

familiari e/o clientelari, in posizioni lavorative di modesto livello da cui partire poi,

mediante una serie di scorciatoie amministrative (ope legis, ruoli ad esaurimento, concorsi

riservati e quant’altro la fantasia normativa dei nostri legislatori e delle nostre èlites

burocratiche ha saputo escogitare), verso la conquista del sospirato “posto direttivo”. Il

fenomeno, malgrado i forti cambiamenti sociali ed economici intervenuti anche nel

Mezzogiorno, doveva rivelarsi un carattere ostinato del nostro sistema sociale e

prolungarsi nel lungo periodo. Infatti, superato il periodo del dopoguerra, doveva

ripresentarsi puntualmente. Nel 1954 e nel 1961, unici anni per cui esistono dati completi

sul tipo di laurea del personale direttivo dello Stato, i laureati in giurisprudenza

rappresentano rispettivamente il 41,4 e il 49,4% del totale. La già citata indagine dell’ISAP

del 1965 tra il personale direttivo dello Stato e degli Enti Locali faceva salire la percentuale

dei laureati in giurisprudenza al 52,2%.

Una ricerca ampia e sistematica, anche se sempre a carattere campionario, condotta

dal FORMEZ nei 1979 sui quadri direttivi della amministrazione dello Stato individuava

nel 53% del totale i laureati in Giurisprudenza (ZOPPI, 1992).

Il fenomeno si conferma se facciamo ricorso alle fonti in precedenza utilizzate.

Nell’indagine sulla “Geografia dell’alta dirigenza pubblica italiana nell’età della

transizione” tra i direttori generali delle amministrazioni centrali dello Stato la percentuale

dei laureati in giurisprudenza raggiungeva il 62,9%. La distribuzione tra i ministeri ci

segnala inoltre che l’assoluta prevalenza dei laureati in giurisprudenza non riguarda

soltanto, come sarebbe prevedibile, i “ministeri d’ordine” (in cui tale presenza sfiora quasi

il totale), ma anche i ministeri “tecnici”: nel ministero della sanità sono il 60%, nel

ministero dei beni culturali sono il 66,7 %, nel ministero dell’ambiente il 75%, nel

ministero dei lavori pubblici addirittura l’83,9% (VETRITTO, 2002).

Se passiamo poi alle modalità di accesso alla carriera dirigenziale (quelle che

9 Il problema si è presentato precocemente nella vita del mercato del lavoro italiano e vi è rimasto come tratto permanente; vedi al proposito M.BARBAGLI, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia ( 1859-1973 ), Il Mulino, Bologna, 1974.

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dovrebbero assicurare l’apporto di nuove culture e di nuove professionalità nel governo

della amministrazione) vediamo confermare questa tendenza. Nel primo e nel secondo

corso concorso i laureati in giurisprudenza erano rispettivamente il 47 e il 64%; nel terzo

corso concorso scendono di nuovo al 47,3%, ma si qualificano sempre come la componente

più rilevante.

Quali le conseguenze di questi due fenomeni, d’altra parte così strettamente

correlati, la meridionalizzazione del personale pubblico in generale e la giuridicizzazione,

in modo specifico, del personale direttivo pubblico?

Melis (1996, op.cit.) individua diverse, durature conseguenze di questi due

fenomeni congiunti. Tra queste mi sembra di particolare rilievo per il discorso che vado

conducendo quella che si riferisce a “una sorta di divisione delle parti tra laureati del Nord

e laureati del Sud” (ivi, 185): i primi, formati prevalentemente nelle nuove facoltà

scientifiche e nei politecnici sorti, giustappunto, al Nord, affluiscono verso le professioni

legate al processo di industrializzazione sia direttamente (quadri delle imprese) sia

indirettamente (servizi alla produzione). I secondi, in prevalenza formati nelle grandi

facoltà di giurisprudenza del Mezzogiorno, corrono verso l’impiego pubblico sia per la

carenza di fonti occupazionali alternative sia per la “socializzazione anticipatoria” offerta

dalla cultura di provenienza.

Il dualismo economico che si andava strutturando in quegli anni nel nostro Paese,

rafforzato anche da questa partizione del mercato del lavoro intellettuale, radicalizzerà

“un’incomunicabilità anzitutto culturale tra economia e istituzioni, tra ceti produttivi e

apparato politico-amministrativo” (ivi. 186), provocando quell’onda lunga di rifiuto

antiburocratico che arriva fino ai nostri giorni prendendo come bersagli lo Stato-nazione,

lontano e accentratore, e addirittura la “localizzazione” visibile della ipertrofia,

dell’inefficienza e della maladministration (la “Roma ladrona” degli slogan leghisti).

Una seconda conseguenza di questa meridionalizzazione del personale pubblico -

destinata anch’essa ad accrescere la diffidenza verso gli apparati amministrativi pubblici – è

stato l’impoverimento della quantità (e della qualità) dei servizi pubblici nel Nord. La

caccia al “posto pubblico” da parte della forza lavoro scolarizzata del Mezzogiorno (cui fa

da simmetrico riscontro la scarsa propensione verso gli impieghi pubblici da parte della

forza lavoro settentrionale che si immette più precocemente nel mercato del lavoro e,

quindi, è meno tentata dalla “area di parcheggio” scolastica e che d’altra parte percepisce

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come più competitive le offerte retributive del settore privato) produce una continua

mobilità dal Sud verso il Nord: insegnanti, postini, poliziotti, impiegati civili , ecc. hanno

parlato – e parlano – accenti meridionali. Ma una volta acquisito il “posto” specialmente,

ma non solo, nelle qualifiche più modeste si determina un movimento inverso giustificato

da molti motivi (il costo della vita troppo elevato rispetto ai livelli retributivi, il venire a

mancare dei meccanismi di integrazione economica assicurati dalle solidarietà primarie, gli

stili diversi di vita cui appare difficile adattarsi, finanche il clima). Da qui l’elevato turn

over del personale negli uffici e nei servizi pubblici localizzati al Nord. Malgrado i

correttivi posti in opera (divieto di trasferimento prima di un certo periodo di permanenza,

concorsi circoscrizionali) è stato sempre un punto dolente questo della insufficienza e della

discontinuità del personale dei servizi pubblici nel Nord (CASSESE, 1977, op.cit.).

La conseguenza di gran lunga più importante, quella che ha contribuito di più a

caratterizzare il modello burocratico italiano, è quella che deriva dalla combinazione dei

due fenomeni, meridionalizzazione e giuridicizzazione. Si è rafforzata nel tempo quella

concezione formalistica della pubblica amministrazione, quel feticismo della norma, quella

puntigliosa cultura dell’adempimento che sono, nel migliore dei casi e, a volte, con le

migliori intenzioni, un frutto perverso del prevalere dell’etica della convinzione (nel

migliore dei casi) sull’etica della responsabilità.

Una amministrazione pubblica così connotata era destinata a “capitalizzare” quelle

professionalità e quegli orientamenti di valore che il Mezzogiorno offriva in abbondanza e

queste, una volta inserite nella pubblica amministrazione non potevano che rafforzare e

riprodurre, anche attraverso un processo moltiplicativo e cooptativo 10.

“Il monopolio della cultura giuridica, o meglio di una precisa cultura giuridica,

sillogizzante, astrattizzante e lontana dai canoni di managerialità necessari in una

amministrazione moderna, si è imposto proprio quando l’evoluzione sociale e tecnologica

rendeva più necessaria la diversificazione dei saperi dell’alta burocrazia e la valorizzazione

delle competenze scientifico-tecniche” (VETRITTO, 2002, op.cit., 84). Questo

“specialismo” giuridico è diventato uno strumento di difesa della burocrazia nella guerra

continua con gli attori politici, uno strumento di sopravvivenza e di mantenimento dei

10 Per il ruolo svolto dalla “romanizzazione” della burocrazia nell’alimentare il circolo vizioso “centralismo/parcellizzazione delle dunzioni e delle competenze/aumento degli uffici/incremento della occupazione pubblica/catene familiari-territoriali del reclutamento” si può partire dalla puntuale illustrazione che ne fa Cassese (op.cit. 1977).

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privilegi corporativi, nella rinuncia a un ruolo di vera e propria classe dirigente del Paese.

Se dovessimo individuare le “parole chiave” che identificano il nostro modello

burocratico, forse ci troveremmo di fronte a parole come formalismo, irresponsabilità,

freno, mediazione; vedremo appresso, soprattutto attraverso le due ricerche empiriche, se e

come le parole chiave stanno cambiando. Certamente, però, questo gioco in difesa condotto

dalla burocrazia italiana ha consentito un certo livello di continuità della pubblica

amministrazione: “I fattori di maggiore continuità sono la rigidità del sistema e la prassi in

base alla quale le riforme amministrative tendono a piegarsi sulle esigenze del personale

pubblico. La prima si è mantenuta a dispetto dei continui cambiamenti nelle strutture e del

sovrapporsi di modelli diversi. Nonostante le profonde modifiche intervenute nell’arco di

un secolo e mezzo, gli apparati amministrativi conservano un’evidente impermeabilità nei

confronti delle trasformazioni sociali e nei riguardi delle esigenze dei cittadini” (SEPE,

1999, op.cit., 25).

Mi pare che questa osservazione sia pertinente più alla “maschera” che al “volto”

della amministrazione pubblica. Non si può negare che ci siano stati frequenti

microadattamenti alle congiunture politiche ed economiche, finanche alle innovazioni

tecnologiche (l’introduzione generalizzata dei computer, dopo qualche momento di

incertezza e di resistenza, si è tradotta in pacifica convivenza con i “faldoni”); così come

ci sono stati, puntuali, i tentativi, coperti dal successo, di neutralizzare le grandi tensioni di

cambiamento, anche quando si esprimevano con il linguaggio più intelligibile per

l’organizzazione burocratica, quello delle leggi, delle riforme legislative, magari aspettando

il momento opportuno per rialzare, passata la “piena”, la testa delle vecchie identità.

In fondo è stata questa identità, solennemente affermata con le intransigenti

retoriche del “servitore dello Stato”, ma nello stesso tempo aperta a opzioni alternative,

purchè non di sistema, adattativa nei confronti delle pressioni di una realtà inesorabilmente

dinamica, ma “senza dirlo”, senza soprattutto che l’eventuale soluzione innovativa potesse

costituirsi in “precedente”, ad assicurare il funzionamento dell’apparato amministrativo.

Senza arrivare alla paradossale e brillante considerazione che rileva come “la nostra

pubblica amministrazione <sembra> funzionare male a noi che dall’esterno le imponiamo

quelli che sono i nostri obiettivi; funziona ragionevolmente bene alla luce degli obiettivi

che essa stessa si dà…applicare leggi…emettere sulla base di queste, atti o provvedimenti”

(MORTARA, 1994, 212), si può convenire che l’amministrazione pubblica abbia

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mantenuto nel tempo (o ritrovata di volta in volta) una sua funzionalità. Ha fruito infatti di

una “costituzione” non scritta che le consentiva di inserirsi nello iato tra Stato legale e

Paese reale, assicurando quelle supplenze, quelle mediazioni tra politiche astratte o

“macro”, tra normative a volte generiche e ambigue a volte inefficamente minuziose da una

parte e bisogni reali, aspettative, risorse potenziali della società dall’altra; questo è

avvenuto tanto più spesso quanto più forti o più dotati di voice erano gli attori portatori di

bisogni, aspettative, risorse.

Non potendo, o non volendo, essere guida, non riuscendo ad essere efficace gestore,

la pubblica amministrazione si è acconciata a funzionare come tramite. L’indicatore di

questa tendenza e della capacità di rifunzionalizzarsi in questa direzione ci è offerto

dall’andamento della spesa pubblica: già nella seconda metà degli anni ’60 si poteva

rilevare che “Restando costanti, in sostanza, le spese necessarie per il funzionamento della

macchina amministrativa, diminuiscono le attività dirette ed hanno un forte incremento i

trasferimenti” (CASSESE, 1977, op.cit, 16).

In verità, anche le spese per l’autofunzionamento del sistema amministrativo che si

stimano sostanzialmente costanti nel tempo (ma è soltanto un effetto statistico perché ciò

che rimane costante è il peso percentuale rispetto alla spesa pubblica) sono in effetti

cresciute macroscopicamente così come la spesa totale; ciò ha riguardato in particolare la

spesa per il personale (in servizio o in quiescenza).

Questo ruolo di “ufficiale pagatore” della pubblica amministrazione ha consentito al

Paese di superare senza eccessivi costi politici e sociali le distorsioni prodotte dal dualismo

economico e di neutralizzare gli effetti delle mancate riforme strutturali.

La pubblica amministrazione offriva inoltre una garanzia di stabilità, per quanto

inefficiente e “misteriosa” potesse apparire ai cittadini, a fronte della estrema instabilità dei

governi, della crescente incoerenza e inaffidabilità del sistema politico in cui le logiche di

schieramento avevano sempre la meglio sui programmi e le pratiche del consociativismo

capovolgevano le rappresentanze degli interessi. La crisi di fiducia (manifestatasi anche

attraverso il dilagare dello strumento referendario e l’emergere per la prima volta, nella vita

della Repubblica, del fenomeno dell’astensionismo elettorale, destinato a persistere e anzi

ad accrescersi nel tempo) finiva con il rivolgersi oggettivamente a favore del sistema

amministrativo. Questo offriva una dimensione “tangibile” dello Stato, se vogliamo

accomodante perché espressione di un Stato inefficiente, o assente, nei servizi, ma prodigo

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nelle erogazioni, rigido e insieme impotente nel suo intervento regolatorio, ma pronto a

chiudere un occhio nella applicazione delle norme (o a “sanare” le loro violazioni), tentato

dalle politiche simboliche e distratto e generoso produttore di politiche distributive.

Il coinvolgimento massiccio della amministrazione pubblica nella gestione effettiva

delle politiche distributive, con il proliferare di uffici e di procedure impegnate nella

erogazione di sussidi, incentivi, ecc. e nella raccolta delle conseguenti documentazioni ha

consentito anche di aggirare le difficoltà di un sistema politico bloccato (almeno fino agli

anni ’90), aprendo tante “finestre” al compromesso tra attori politici (soci solidali del

“partito unico della spesa pubblica”) al riparo rispetto alle luci della ribalta politica

istituzionale, dove poteva ancora agire il grande “teatro” della politica ideologica (peraltro

sempre meno capace di creare e riprodurre forti identità collettive) ed evitando “il collasso

nei momenti di crisi istituzionale” (SEPE, 1999, op.cit., 34).

Quando e dove si inceppa il sistema? Quando il partito unico della spesa pubblica è

costretto a ripiegare (parte in disordine, parte serrando giudiziosamente - o

“giudiziariamente - le fila) sotto le congiunte pressioni provocate dai nuovi appuntamenti

della integrazione europea e dall’indebolimento giudiziario e dalla delegittimazione

mediatica dei grandi apparati politici di protezione. Queste non furono certamente le sole

cause del tramonto di un ciclo di vita politico-amministrativa (pur se sulla irreversibilità di

questo tramonto non c’è da giurare, date le mille vite della “politica politicante”), ma

furono certamente le più visibili e prorompenti, anche per la rapidità dei tempi che esse

imposero all’agenda politica 11.

In queste condizioni di crisi conquista i suoi spazi, in un clima di consenso

generalizzato, la grande stagione delle riforme amministrative: si riprendeva, dopo oltre

dieci anni, il lucido disegno riformatore del Rapporto Giannini 12. La storia di questa

stagione di riforme è complessa e si dipana – con grandi ambizioni – lungo un decennio di

grandi trasformazioni politiche e istituzionali che vede il mutamento della geografia dei

partiti, il forte progresso della integrazione europea, la crisi del mondo bipolare. Malgrado

11 Mi permetto di rinviare per una più articolata ricognizione degli eventi e dei fattori che provocarono la crisi di quel ciclo di vita politica al mio “L’amministrazione che non c’è: alcune ipotesi sulla trasformazione della pubblica amministrazione in Italia ( e in Europa ), in “FUTURIBILI”, 3, 2001. 12 Il “Rapporto Giannini” è la denominazione con cui fu subito noto, a riconoscimento del contributo autorevole di idee e di impegno offerto da Massimo Severo Giannini, come originale e profondo studioso delle scienze amministrative e come responsabile, in quel momento, del Ministero della Funzione Pubblica, il “Rapporto sui principali problemi della Amministrazione dello Stato” trasmesso alle Camere il 16 novembre 1979.

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gli scetticismi, le resistenze delle componenti più corporative della burocrazia e le fughe in

avanti – spesso generose, talvolta sprovvedute – dei nuovi decisori politici, entrati per la

prima volta nell’area di governo - ,la cultura della riforma diventa linguaggio quotidiano di

quanti a diverso titolo sono impegnati nella amministrazione pubblica o di essa si

occupano. Certamente il cammino delle riforme non appare sempre lineare né, come

dimostreranno gli avvenimenti successivi, irreversibile. Finisce con l’assumere presto le

caratteristiche di una “storia infinita”. Proprio per questo è piuttosto difficile tracciarne un

bilancio. Proviamoci.

3. Come cambia l’amministrazione 3.1. La stagione delle grandi riforme istituzionali e amministrative, avviatasi

all’inizio degli anni ’90, assume un carattere di svolta epocale perché sceglie come suoi

bersagli tutte e tre le dimensioni della identità statuale:

- il modello istituzionale: la formazione della rappresentanza politica e la scelta e il

funzionamento dei governi (abolizione del voto di preferenza, riduzione del

meccanismo proporzionale nel processo elettorale, scelta di una sistema

semimaggioritario); elezione diretta dei Presidenti delle Regioni e delle Province e dei

Sindaci; decentramento delle funzioni alle Regioni e agli Enti Locali secondo il

principio di sussidiarietà; avvio verso uno Stato federale (Riforma del Titolo V della

Costituzione);

- la presenza dello Stato nella società e nell’economia: il riconoscimento delle autonomie

sociali (sussidiarietà orizzontale); la privatizzazione di attività controllate fino a quel

momento dallo Stato, l’esternalizzazione di quei processi di pertinenza pubblica, ma

ritenuti gestibili in modo più economico ed efficiente se affidati all’esterno e la

liberalizzazione dei mercati; l’ampliamento dei poteri del cittadino nei rapporti con

l’amministrazione; la non ingerenza nelle sfere morali e sociali della persona e la piena

tutela dei diritti civili;

- il modello organizzativo della pubblica amministrazione: la distinzione/separazione tra

politica e amministrazione; la proposta di una gestione amministrativa ispirata a

parametri di qualità e orientata ai risultati; l’affidamento dei poteri e delle

responsabilità della gestione ad una nuova figura di dirigente pubblico.

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E’opinione diffusa anche tra gli addetti che non tutto sia andato nel senso giusto. Vi

sono oggi forse più proporzionalisti di quanto non ce ne fossero all’inizio delle riforme

elettorali; lo pseudo federalismo ha dato più lavoro agli studi amministrativistici che spazi

di governo alle volontà e alle rappresentanze locali 13; malgrado la de-istituzionalizzazione

(che ha riguardato più la visibilità degli apparati pubblici che non la pretesa del controllo

statuale) la pervasività della pretesa regolatoria insidia le sfere più private mentre la crisi

della giustizia indebolisce la sostanza dei diritti civili. Se queste sono aree dove più difficile

era sperare in cambiamenti certi e stabili, a causa della molteplicità dei fattori che vi

interagiscono, sul modello organizzativo era ragionevole nutrire qualche speranza in più.

Ma viene osservato: “Un ipotetico profondo conoscitore delle leggi e dei

regolamenti sull’amministrazione pubblica, che avesse fermato il proprio aggiornamento

agli inizi del 1990, si troverebbe 10 anni dopo a fronteggiare una realtà completamente

nuova e modificata. Tuttavia, se ci si pone da un diverso punto di vista, quello del cittadino

non particolarmente informato che si avvale delle specifiche prestazioni offerte dalle

amministrazioni pubbliche, sia centrali sia locali, la percezione del mutamento potrebbe

essere molto più contenuta e, forse, quasi inesistente” (REBORA, 1999 op.cit. 293).

Proviamo, quindi, a guardare più analiticamente a ciò che è avvenuto per quel che

riguarda il modello organizzativo. Non vi è dubbio che le riforme amministrative abbiano

disegnato un profilo della organizzazione amministrativa che si stacca nettamente da quello

tradizionale: questo “ infatti si caratterizzava per una serie di elementi chiave:

- la completa dipendenza dell’amministrazione da norme di legge e regolamentari che

prescrivevano le modalità di organizzazione e di funzionamento, la ripartizione dei

compiti tra le articolazioni organizzative, le sequenze procedurali, il contenuto delle

attività da svolgere ecc.;

- la struttura gerarchica piramidale al cui vertice stava il responsabile politico, unico vero

titolare in ultima istanza di tutti i poteri;

- la previsione di forme di controllo esterno, svolto da organismi para-giurisdizionali, dal

cui esercizio dipendeva l’efficacia degli atti e delle decisioni;

13 Storicamente il federalismo nasce come cessione di sovranità dal basso verso l’alto; il pasticciato processo di approdo al federalismo, che ha avuto il suo provvisorio esito nella riforma del Titolo V della Costituzione, è soltanto una forma di decentramento accentuato con delega di poteri e funzioni dall’alto verso il basso.

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- una burocrazia interamente nominata per concorso, sostanzialmente inamovibile con

carriere interne dettate pressochè esclusivamente dall’anzianità di servizio e una

retribuzione rigida;

- una struttura organizzativa di tipo divisionale, nella quale il controllo delle risorse

umane e finanziarie è distinto dalle responsabilità per i risultati delle attività finali;

- un orientamento di valori, largamente condiviso, che anteponeva il rispetto formale

della norma a qualsiasi considerazione relativa all’efficacia delle politiche o

all’efficienza nel conseguimento dei risultati;

- una sostanziale assenza di responsabilità per i fallimenti testimoniata dall’inesistenza di

qualsiasi sistema di premi e sanzioni” (AZZONE, DENTE, 1999, XV-XVI).

In uno Stato law and order (nei limiti in cui questo modello statuale si può applicare

al nostro Paese in relazione all’intero ciclo di vita dello Stato nazionale) e in una società

fortemente compartimentalizzata e tendenzialmente statica - in cui i principali attori sociali

o quelli più influenti sull’arena politica convenivano su una base omogenea di valori -

questo modello aveva meritato legittimazione e garantito una certa efficacia interna.

Le condizioni che ne avevano assicurato il funzionamento sono certamente

cambiate nella seconda metà del secolo scorso e più di una volta. Fino a buona metà degli

anni ’70 lo Stato assume un ruolo attivo sostituendosi ai “fallimenti del mercato”,

intervenendo direttamente nella gestione di estesi settori economici (e non soltanto di

quelli, almeno inizialmente, presieduti perché considerati strategici per la sicurezza

nazionale e per lo sviluppo dell’ancora debole sistema economico), espandendo la

dotazione infrastrutturale del Paese, operando per il riequilibrio economico e sociale tra

Nord e Sud, proponendosi come soggetto principale delle politiche di welfare nella sanità,

nella previdenza, nella assistenza. Questo ruolo sarà perseguito, con alterne modalità fino a

tutti gli anni ’80; viene comunque progressivamente abbandonato il metodo della

programmazione nazionale, scolorite le grandi opzioni del “Progetto 80” 14 mentre

l’intervento straordinario per il Mezzogiorno (compresa la sua più prestigiosa istituzione, la

Cassa per il Mezzogiorno, peraltro organizzazione amministrativa modello almeno nei

primi dieci anni della sua vita) viene liquidato in una sorta di sindrome da “8 settembre”.

14 Il “Progetto 80” fu l’ultimo, ambizioso manifesto della stagione della programmazione economica, avviata dal centro-sinistra in Italia; ne scrisse, involontariamente, l’epitaffio: vedi “Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica. Progetto 80.Rapporto preliminare al programma Economico 1971-1975”, Libreria Feltrinelli, Milano, 1969.

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E’ un ruolo che perde coerenza rispetto al quadro politico complessivo e realizzato

con sempre maggior affanno e minori risorse. Lo shock petrolifero degli anni ’70,

l’emergere della questione ambientale, la crescita galoppante della spesa pubblica, gli “anni

di piombo” dal post-68 al rapimento e assassinio dell’On. Moro mutano lo scenario sociale

e mutano anche gli equilibri politici: la “prima” Repubblica, già scossa dalla crisi della

quarantennale egemonia democristiana, riceve il suo colpo di grazia dalla “caduta del Muro

di Berlino” e dalla “scoperta” giudiziaria di “Tangentopoli”.

Conviene abbandonare una lettura tutta retorica della stagione delle riforme

amministrative: nel pendolo della storia era venuto il momento dei “fallimenti dello Stato”,

ma nel nostro Paese il vento che gonfia le vele della navicella delle riforme non è un

movimento simile al “Reinventing Government” 15 quanto la crisi drammatica che vede

crescere l’antipolitica e nel brodo di coltura dell’antipolitica emergere nuovi attori, politici

e non, capaci di imporre una nuova “agenda” (anche se rivelatisi poi incapaci di

“governarla”).

Né si può dimenticare la crisi della grande impresa industriale, quella, per

intenderci, abituata da sempre a muoversi entro la rete protettiva dei tanti “protezionismi”

assicurati dal consociativismo sociale, prima che politico; emerge una nuova realtà

industriale che anche territorialmente esce dal tradizionale bacino della industrializzazione

italiana e che fa capo a una cultura imprenditoriale alternativa che parla il linguaggio delle

“reti”, della innovazione tecnologica, della competizione nel mercato globale e che non

trova più convenienze nello scambio con una amministrazione prodiga di sussidi e avara di

servizi efficienti. Altri scenari propongono nuovi temi e nuove responsabilità al governo

della amministrazione pubblica: l’integrazione europea con l’adozione dell’euro evidenzia i

differenziali economici ed amministrativi che caratterizzano i paesi membri e detta direttive

che non possono non incidere sulla qualità delle politiche nazionali in materia di ambiente,

di welfare, di disciplina dei rapporti di lavoro, di migrazioni, ecc. e, quindi, sulla efficienza

e sull’efficacia degli apparati amministrativi chiamati ad implementarle.

Infine anche le aspettative dei cittadini crescono di qualità e in capacità di

mobilitazione: come preannunciava Tocqueville è proprio quando i bisogni raggiungono 15 Il movimento direttamente patrocinato dalla Presidenza degli Stati Uniti ebbe come suo “manifesto” il noto saggio di Osborne e Gaebler ( vedi in bibliografia ) che proponeva come idea-forza quella di pervenire ad una amministrazione “che costi di meno e lavori meglio”.

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una più elevata soglia di soddifazione che la domanda dei cittadini si spinge oltre e si fa più

intransigente: lo Stato “paterno” capace di soddisfare e “sedurre” un cittadino rassegnato

nella sua condizione di “sudditanza” non ha molte chances nei confronti di un cittadino che

vuol sentirsi nello Stato - e nella sua dimensione “corporea”, l’amministrazione - “padrone

a casa sua” e che reclama attenzioni da “cliente”.

3.2. La legislazione su cui si è articolata a partire dal 1990 il ciclo delle riforme

amministrative costituisce l’input principale (anche se non il solo: basti ricordare come

l’applicazione delle nuove tecnologie informatiche ha contribuito a cambiare il modo di

lavorare dei dipendenti pubblici, il sistema di circolazione delle informazioni dentro e fuori

dell’amministrazione) del processo di trasformazione della pubblica amministrazione,

l’unico comunque a cui possiamo rifarci con certezza.

La Legge 241/90, il D.lgs. 29/93, la Legge 59/97, la Legge 127/97 la Legge 80/97,

il D.lgs. 286/1999, la Legge 150/2000, il D.lgs. 300/2000, il D.lgs. 165/2001, rappresentano

l’architettura normativa chiamata a disegnare i rapporti tra “ambiente” e “sistema politico-

amministrativo e tra sotto- sistema politico e sotto-sistema amministrativo, nonché a

regolare, all’interno del sotto-sistema amministrativo le modalità di impiego delle risorse e

di produzione delle azioni amministrative.

Le disposizioni sopra ricordate sono le componenti più significative, ma non le sole,

del processo legislativo di riforma e intervengono, ora in modo convergente, ora per linee

autonome, nelle aree e nei flussi di relazioni che vorrei identificare ricorrendo ad un

approccio sistemico. Ricordo alcuni degli items e dei nuovi istituti o strumenti che la

legislazione di riforma introduce:

- dall’ambiente verso il sistema politico-amministrativo: l’accesso del cittadino al

procedimento, la customer satisfaction, l’autocertificazione;

- dal sistema politico-amministrativo all’ambiente: la delegificazione, la semplificazione,

lo snellimento dei procedimenti (conferenze di servizio, sportelli unici),

l’individuazione, resa nota al cittadino, di un “ responsabile unico del procedimento”, le

carte dei servizi, la comunicazione pubblica (URP, uffici stampa, portavoce);

- tra sottosistema politico e sottosistema amministrativo: una chiara, anche se nelle

intenzioni, distinzione tra politica (compiti di indirizzo) e amministrazione (compiti di

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gestione), identificazione degli interfaccia tra i soggetti dell’indirizzo politico e i

soggetti della gestione (capi-dipartimento nelle amministrazioni ministeriali, city

manager e direttori generali negli enti locali), la “contrattualizzazione” dei dirigenti e lo

spoils system del top management;

- nel sotto-sistema amministrativo: riduzione dei vincoli normativi per quanto riguarda

organizzazione e funzionamento delle amministrazioni, abolizione dei controlli esterni e

introduzione di misure di valutazione (controllo strategico, controllo di gestione,

valutazione dei dirigenti), nuovi meccanismi di programmazione degli organici, di

reclutamento e selezione del personale, identificazione della nuova figura del dirigente

pubblico e istituzione del “ruolo unico” rivolto ad assicurare la mobilità dei dirigenti e

l’incontro tra domanda e offerta delle professionalità dirigenziali, l’affidamento del

pieno governo delle necessarie risorse finanziarie, tecnologiche e umane ai dirigenti

responsabili delle linee operative, il collegamento delle forme di retribuzione accessorie

ai risultati raggiunti, la sottrazione dei dipendenti pubblici, ivi compresa la dirigenza

(con l’esclusione dei dirigenti generali), allo statuto del pubblico impiego e il loro

passaggio nell’area della contrattazione collettiva con la conseguente istituzione

dell’ARAN come attore contrattuale di parte pubblica, l’avvio verso l’e-government.

- Se all’inizio del percorso delle riforme amministrative la direzione era quella della

riduzione dei costi, a causa della gravissima crisi finanziaria registrata dal nostro Paese

e affrontata poi dalla traumatica “cura Amato”, emersero subito obiettivi più ambiziosi:

“rilancio della primarietà del servizio rispetto alle problematiche dell’amministrazione

interna; passaggio dall’amministrazione giorno per giorno a logiche di programmazione

delle priorità, degli obiettivi, dei livelli di servizio; attenzione ai risultati e alle

performances e non solo alle procedure; forte orientamento dell’attività verso i bisogni

e le attese degli utenti” 16.

Era prevedibile “che la riforma, meglio, la trasformazione in pratiche concrete del

modello generale, sia stata contrastata” (DENTE, 2001, 1054): poteva essere scontata la

resistenza burocratica né poteva sorprendere la forbice aperta nella interpretazione delle

norme dal contenzioso amministrativo; ci si sono aggiunti i rivali “protagonismi” dei

responsabili politici succedutisi alla guida della Funzione Pubblica - ben sette in dieci anni -

16 Intervento di Carlo D’Orta, Capo Dipartimento della Funzione Pubblica, alla Conferenza dell’Alta Dirigenza (Roma, 3-5 febbraio 2003).

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anche quando appartenenti alla stessa maggioranza di governo e, in ultimo, il cambiamento

della maggioranza politica di governo, pur se il tema della modernizzazione

dell’amministrazione pubblica avrebbe dovuto richiamare quell’orientamento bipartisan

che tanto si invoca.

Anche prima che si avviassero le nuove iniziative legislative, puntualmente

orientate da logiche che sono state definite (forse con una certa dose di falsa coscienza) di

“controriforma”, il bilancio della stagione delle grandi riforme amministrative presentava

luci e ombre, non senza qualche effetto perverso: “…molte cose sono cambiate, c’è al

vertice una classe di dipendenti pubblici più giovane, ma non c’è stato ricambio nelle

strutture; l’idea dell’innovazione è penetrata, ma senza progetti chiari; si è, però, attenuato

il senso del servizio pubblico; la mobilità c’è, ma solo sotto la spinta di esigenze personali;

le retribuzioni sono migliorate, ma premiando tutti finiscono per non incentivare nessuno;

altri incentivi e motivazioni non vengono introdotti; si è logorato il vecchio rapporto

gerarchico, senza che venisse sostituito da altri strumenti di direzione.” (CASSESE, 2002).

Il rischio più grosso potrebbe venire, però, dal fatto che un bilancio negativo del

processo di riforma finisca con il rinforzare il vecchio pregiudizio antiburocratico, portando

alla conclusione pessimistica che riformare la pubblica amministrazione ( parafrasando una,

non so se sconsolata o cinica, più generale considerazione di Mussolini ) è peggio che

impossibile, è inutile.

4. La pubblica amministrazione: istituzione e organizzazione 4.1. Forse bisognerebbe assumere un altro punto di vista che ci decondizioni

dall’abito mentale che vuole che per risolvere la questione amministrativa la strada maestra

sia fare finalmente la “legge giusta” o che, viceversa, per valutare le reali trasformazioni

dell’amministrazione basti il confronto tra norma innovativa e suo adempimento.

Poniamoci una domanda (che può apparire tanto ingenua da rischiare di essere

intesa come oltraggiosa): quando parliamo di pubblica amministrazione a quale “oggetto”

ci riferiamo? o a quanti oggetti diversi?

La pubblica amministrazione ha una “soggettività” pirandelliana: si crede “una”, ma

non è vero: è “tanti”… secondo tutte le possibilità di essere che sono in essa; “una” con

questo, “una” con quello – diversissime! E con l’illusione (ma le istituzioni non si

accontentano di illusioni, bensì vivono di pretese) di essere sempre “una per tutti” e sempre

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questa “una” in ogni suo atto. Mettiamo intorno a un tavolo giuristi, economisti, politologi,

esperti di scienze sociali e ascolteremo tante discordi definizioni di pubblica

amministrazione. Ma non è soltanto questione di noi studiosi che, tanto si sa, siamo

tendenzialmente autoreferenziali; se interroghiamo un politico, un sindacalista del pubblico

impiego, un dipendente pubblico, un cittadino avremo altrettante definizioni su misura della

esperienza specifica che ciascuno di essi ne ha.

Se cerchiamo di definire la pubblica amministrazione, pur confermando il ruolo

imprenscindibile che principi generali, norme e regole di diritto svolgono nel legittimare i

soggetti e nel garantire l’uniformità dei processi (scelte, decisioni, controlli, ecc.) attraverso

cui si realizza l’agire amministrativo, ci rendiamo conto che dobbiamo andar oltre; entrano

nella analisi di un processo amministrativo le sue modalità concrete di organizzazione e di

manifestazione, le relazioni tra le singole organizzazioni amministrative e tra esse e le altre

componenti della società, il contesto, geografico e storico, in cui si muovono gli attori

amministrativi e gli interessi e le culture che ne caratterizzano il comportamento (CERASE,

1998).

La pubblica amministrazione come istituzione (ed è una delle accezioni con cui

dobbiamo confrontarci) ha sostanzialmente quattro funzioni:

a) gestire il patrimonio pubblico;

b) distribuire o redistribuire risorse finanziarie (retribuzioni, sussidi, incentivi,

ecc.);

c) apprestare e offrire servizi che sono per loro natura o che devono essere per il

loro valore universalistico fuori mercato;

d) regolare i rapporti tra i cittadini (o le persone, comunque presenti nel territorio

amministrato), definendo, tutelando e vigilando i rispettivi diritti e doveri,

riducendo l’incertezza sociale e abbassando i costi di transazione.

Ciascuna di queste funzioni discende da un “mandato sociale” costituzionalmente

codificato e implica l’esercizio di un potere riconosciuto ed accettato dai soggetti cui la

funzione è rivolta.

I caratteri “istituzionali” della pubblica amministrazione costituiscono un nucleo

forte destinato a caratterizzare la sua “diversità” rispetto ad altre istituzioni che trovano nel

mercato o nella solidarietà familiare o associativa la loro “legittimazione”. Mi riferisco al

potere di coercizione e allo statuto monopolistico e al loro contrappunto in termini di

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garanzie e di visibilità formale e, nella stessa direzione, al prelievo coattivo delle risorse

(finanziarie, reali e umane) necessarie per realizzare le funzioni (BORGONOVI, 1996);

l’assenza di un prezzo di cessione dei prodotti e dei servizi (o la relativa incalcolabilità

della utilità di una azione amministrativa) determinata dalla assenza di una sanzione di

mercato 17 spostano nella amministrazione pubblica, che voglia uscire dalla semplice logica

dell’adempimento, la possibilità di valutare i risultati delle sue azioni verso una complessa

operazione rivolta ad accertare il valore pubblico prodotto nel cui bilancio entrano non

soltanto la qualità della risposta ai bisogni o della soluzione di un problema, ma anche la

presenza di quelle condizioni ed effetti della produzione delle politiche ( trasparenza,

consenso, credibilità, fiducia ) che costituiscono il “capitale” della produzione politico-

amministrativa.

4.2. La connotazione della pubblica amministrazione come istituzione discende a

caratterizzare poi l’organizzazione della pubblica amministrazione e il suo funzionamento:

questo presuppone la necessità di una forte sintonia tra riforme istituzionali e riforme

amministrative.

La pubblica amministrazione come organizzazione unica non esiste; esiste soltanto

come insieme di differenti organizzazioni cui vengono attribuite una o più delle quattro

funzioni di cui ho parlato; la specializzazione verticale in una funzione così come,

all’opposto, la gestione orizzontale di tutte e quattro le funzioni non sono condizioni

irrilevanti nella costruzione e nella identità della organizzazione.

Se ci occupiamo di organizzazioni della pubblica amministrazione non possiamo

dimenticare la loro identità pubblicistica e cioè che esse si muovono perseguendo finalità

che sono stabilite al di fuori della organizzazione (a cui devono essere coerentemente

ricondotti gli obiettivi che l’organizzazione si dà) e assumono nella loro struttura e nelle

loro modalità di azione “forme” che coniugano insieme “potere” e “garanzie”, incarnando

quel paradigma dello Stato moderno di diritto, rappresentato dal “principio di legalità”.

17 Bisogna prendere le distanze da una immagine mitizzante della funzione regolatrice del mercato; il consumatore – anche quando non è condizionato da una offerta monopolistica – non ha poi questa forte capacità sanzionatrice: la segmentazione dei mercati, la pressione della pubblicità ( efficace, spesso, più che sul destinatario finale, sulle catene distributive ), le scelte guidate da spinte emotive da fattori di abitudine e di traduzione, inducono un comportamento di consumo non sempre determinato da valutazioni sulla qualità e la convenienza dell’offerta.

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Parlare a proposito della pubblica amministrazione di “imprenditorializzazione” o di

“aziendalizzazione”, oltre che un abuso linguistico, è un ingiustificato salto concettuale:

che ci siano, poi, “aziende pubbliche”, in misura sempre minore oltretutto, è, ovviamente,

un altro discorso.

C’è anche un salto diacronico dal momento in cui un certo concetto di

organizzazione (concepito in funzione della organizzazione scientifica del lavoro) si è

sviluppato sotto la spinta del modello fordista di produzione e il momento in cui se ne è

proposta l’applicazione alla pubblica amministrazione.

Nel frattempo, infatti, il modello fordista, era, almeno nelle economie sviluppate,

entrato in crisi e si avviava a scomparire, sostituito dal modello toyotista che, va ricordato,

non innova soltanto il processo tecnico-produttivo, ma sollecita il consumatore a mutare la

propria ottica, a pretendere la qualità totale, ad aspettarsi la personalizzazione del prodotto,

ad assumere il doppio ruolo di acquirente di un bene e di utente di un servizio in esso

integrato. La sua ostinata memoria lo rilanciava invece come una novità in una pubblica

amministrazione che mai, tra l’altro, era stata identificabile con il modello fordista.

La pubblica amministrazione, anche quando si caratterizzava con attributi come le

grandi dimensioni, la verticalizzazione, l’ordinamento gerarchico, la forte

divisionalizzazione delle funzioni, l’eccesso di controlli a scapito della piena

responsabilizzazione dei ruoli, il lavoro ripetitivo come rigida applicazione del

“precedente”, non aveva del modello fordista la forte spinta verso l’incremento della

produttività del lavoro, la leva incentivante del differenziale salariale, la rincorsa della

innovazione tecnologica. Il paradosso è dato poi dal fatto che si sia cercato di trasferire

nella pubblica amministrazione un modello di organizzazione che l’impresa post-fordista

(impresa-rete, uso della conoscenza come fattore chiave della produzione, elevata

automazione dei processi lavorativi, ecc.) stava ormai largamente lasciandosi alle spalle

anche in Italia sulla scia, appunto, della total quality.

Altro discorso è che le organizzazioni della pubblica amministrazione abbiano,

come ogni altra organizzazione ( una fabbrica, uno studio professionale, una chiesa, una

associazione ), modi propri di strutturarsi e di operare che rispondono a categorie come la

razionalità, la tradizione, l’esperienza, l’apprendimento, le emozioni, la tecnica, tutte

categorie che si formano nella realtà empirica dei comportamenti delle persone che nelle

organizzazioni vivono o che di esse si servono o che di esse sono i destinatari, volontari e

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non.

Questo doppio codice delle organizzazioni pubblico-amministrative è la ragione

della loro permanente criticità. La criticità diventa maggiore, e alla fine intollerabile, se

l’uno o l’altro codice vengono massimizzati o, addirittura, sacralizzati. Una organizzazione

amministrativa ancorata esclusivamente al principio di legalità si fossilizza nella forma,

soffre la tentazione di riaffermare in ogni momento e in ogni modo il proprio primato sui

cittadini, finisce nel circuito disfunzionale dell’autoreferenzialità, senza riuscire poi a

garantire nei suoi concreti comportamenti il rispetto della legge (e tanto meno del diritto);

una organizzazione amministrativa finalizzata esclusivamente dall’imperativo della

efficienza e appiattita sul “miglior risultato” delle soluzioni empiricamente verificate

perderebbe la partita del “necessario” rispetto all’ “utile”, del “domani” rispetto all’ “oggi”,

dell’attenzione al “più debole” rispetto al “più forte”, quella latitudine di interessi che

sfugge alla semplice aritmetica del confronto tra costi e ricavi.

4.3. Lo stesso concetto di organizzazione è al centro di una pluralità di approcci

scientifici, da quello giuridico a quello sociologico, a quello economico-aziendale. Nelle

enciclopedie e nei dizionari di scienze sociali e politiche si danno, anche in riferimento ai

successivi sviluppi della teoria organizzativa, diverse definizioni di organizzazione. Un

approccio definitorio corretto deve tener conto che il termine “organizzazione” è usato sul

piano scientifico come dal senso comune, in tre diverse accezioni:

a) per designare l’attività intenzionalmente diretta a stabilire, con indicazioni

esplicite di diverso rango normativo, relazioni tendenzialmente stabili all’interno di un

complesso di persone e di cose in modo da renderlo idoneo a conseguire l’obiettivo o gli

obiettivi che l’organizzazione stessa si è data;

b) per designare l’entità concreta e specifica cui è imputabile tale attività e che,

nello stesso tempo, dall’insieme di tali attività deriva la propria esistenza;

c) per denotare la struttura delle principali relazioni esplicitamente previste e

codificate all’interno della organizzazione, i ruoli che ne costituiscono gli interfaccia, la

distribuzione verticale e orizzontale di tali ruoli (ciò che corrisponde alla “organizzazione

formale”).

Due sono i modelli storici di organizzazione: quello “burocratico”, dovuto a Weber,

e quello “sistemico”, dovuto, almeno nel suo impianto iniziale a Parsons; nell’economia di

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questo saggio non è possibile descrivere analiticamente questi due modelli né tanto meno

inseguirne l’eredità e confutarne le non sempre attendibili interpretazioni. Più utile sembra,

perché offre un chiarimento sul tema del doppio codice della organizzazione

amministrativa, la distinzione tra modello “razionale” e modello “naturale” di

organizzazione (GOULDNER, 1959), anche se questa contrapposizione per la verità è stata

progressivamente riassorbita nella affermazione del modello sistemico.

L’organizzazione che nasce dalla esigenza razionale di un ordine finalizzato deve

fare i conti, nella concezione sistemica, con il fatto che “chi” fissa gli scopi decide sulla

base di una sua nozione di razionalità. Gli obiettivi di una impresa industriale o quelli di

una congregazione religiosa di clausura rispondono a sistemi di razionalità assai diversi:

ordinariamente si può parlare di razionalità rispetto allo scopo per la prima e di razionalità

rispetto al valore per la seconda. (WEBER, 1968). Mettiamo pure da parte la questione

della possibile commistione tra diversi modelli di razionalità; quale che sia il modello di

razionalità egemone in una determinata organizzazione, ciò non toglie che il processo di

definizione degli obiettivi e la scelta dei mezzi coerenti debbano “rispettare” precise

condizioni e passaggi perché possano meritarsi la conferma della loro razionalità sia

rispetto allo scopo quanto rispetto al valore.

Nello stesso tempo non si può ignorare che nella vita di ogni organizzazione si

presentano uniformità e modalità d’interazione tra persone e tra persone e cose che

costituiscono fattori “naturali”, cioè vincoli o opportunità che oppongono la loro ruvida

realtà a qualsiasi disegno razionale, trasponendo i fini proposti, invadendo con interessi

particolari le piste organizzative o rallentandone per inerzia la percorribilità, supplendo

l’incompletezza intrinseca delle regole formali.

Nessuna organizzazione è una “macchina”, razionale e del tutto efficiente,

autoconsistente rispetto alla realtà esterna ed efficacemente presidiata all’interno sia in

senso verticale (gerarchia) sia in senso orizzontale (specializzazione), standardizzata e

quindi perfettamente riproducibile.

Oggi sempre più la letteratura tende a privilegiare – senza alcuna indulgenza verso

il vecchio approccio organicistico - una idea di organizzazione definita come “organismo

vivente”,come “sistema” in forte interazione con l’ambiente che lo circonda, dinamico,

adattativo, capace di controllare le variabili interne in modo da mantenerne la coerenza

minimale con gli obiettivi da perseguire.

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4.4. Nel numeroso insieme di elementi che entrano a far parte della organizzazione,

intesa nelle sue tre diverse declinazioni, alcuni vanno puntualizzati prioritariamente

soprattutto in riferimento alle organizzazioni pubblico-amministrative.

La prima componente che costituisce l’organizzazione è la missione, ciò che origina

la stessa entità organizzativa; la missione è costituita dal complesso articolato di finalità che

l’organizzazione si propone di raggiungere o che le sono state affidate. “ La <missione> è

la specifica rappresentazione, configurazione della ragion d’essere organizzativa

autoprodotta ed esteriorizzata” (MALIZIA, 2003, 174). Non sempre questa missione viene

esplicitata nelle organizzazioni private (dove gli elementi identificativi sono più spesso la

“ditta” o il “marchio” e il “prodotto” - Fiat = automobile, Motta = panettone - anche

quando l’organizzazione è impegnata in una produzione assai diversificata), mentre è

necessariamente “visibile” nelle organizzazioni pubbliche, attraverso atti normativi

pubblici, segnali e simboli, atti comunicazionali mirati ad altre organizzazioni, agli utenti,

ai cittadini, prodotti e servizi connotati da un “marchio” pubblico (che ne afferma

l’esercizio monopolistico o che ne garantisce l’uso universalistico); ovviamente il fatto che

la missione sia visibile non significa che sia sempre “compresa” all’esterno e nota

all’interno. Così come non vuol dire che sia effettivamente perseguita dalla organizzazione.

Ora le missioni sono normalmente diverse da organizzazione a organizzazione

(anche se possono essere condivise da organizzazioni diverse, magari con un livello di

riconoscimento e con una platea di destinatari più o meno estesi : la protezione delle

persone più deboli per età o per handicap è missione di una organizzazione naturale come

la famiglia e lo è anche per una organizzazione formale come un ente di social welfare);

hanno però alla base un comune prerequisito: “ogni organizzazione si costituisce perché lo

sforzo congiunto di una collettività di soggetti offre maggiori possibilità di soluzione dei

problemi e migliore efficacia di svolgimento dell’attività di quanto possa offrire l’impegno

di un solo soggetto umano” (TAGLIAGAMBE, USAI, 1999, 76).

L’osservazione può apparire lapalissiana, ma serve a ricordare che l’organizzazione

è un tentativo di ridurre la complessità delle forme di vita sociale, una complessità destinata

a crescere nella società contemporanea (internazionalizzazione, globalizzazione, avvento

della “società aperta”, crisi o perdita di rilevanza delle organizzazioni “naturali”); da qui la

proliferazione nel mondo contemporaneo di organizzazioni sempre più formalizzate (non

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necessariamente in senso giuridico) e sempre più specializzate, il che potrebbe far notare

che la complessità “uscita dalla porta, rientra dalla finestra”.

Il secondo prerequisito di una missione efficace è la presenza di un complesso di

valori “condivisi” e praticati tra i soggetti che operano nella (e per la) organizzazione.

Questa presenza è spesso più dichiarata che vissuta. Può dipendere da varie ragioni.

Una organizzazione agisce su input di un’altra organizzazione e il sistema condiviso

di valori vigente nella prima può essere discordante con il sistema di valori presente

nell’altra: un esempio ci viene offerto puntualmente dai rapporti non sempre facili tra

amministrazioni pubbliche ed organizzazioni di volontariato in una situazione di crisi o di

disastro ambientale. Ma c’è una ragione più generale: in una epoca come la nostra,

caratterizzata da forti e rapidi cambiamenti sociali e culturali che incidono diversamente

sulle diverse generazioni dei componenti della organizzazione, missioni che sono portatrici

di un elevato impatto etico, emozionale, politico possono incontrare dissonanze valoriali

all’interno della organizzazione: è quello che è avvenuto nella organizzazione giudiziaria al

tempo dei “pretori d’assalto” o quello che avviene tuttora in talune organizzazioni preposte

alla sicurezza.

In altri casi è l’impossibilità della missione, perché contraddetta dalle condizioni

materiali in cui versa l’organizzazione o perché sottoposta da un sovraccarico che ne

snatura le finalità, a determinare lo scollamento del sistema di valori condivisi. Pensiamo

alla organizzazione penitenziaria: essa ha due missioni che sono, come recita la teoria

penale, il castigo e l’emenda in riferimento a soggetti condannati in via definitiva, per i

reati commessi. Sappiamo che l’organizzazione carceraria ospita in misura rilevante

detenuti in attesa di giudizio a cui nessuna delle due missioni si attaglia e che il

sovraffollamento delle carceri, oltre a produrre condizioni che mettono a rischio i diritti

civili del cittadino detenuto, impedisce di fatto lo svolgimento della funzione rieducativi 18.

In queste condizioni è difficile assicurare agli appartenenti alla organizzazione, spesso

partecipi di fatto delle stesse dure condizioni dei detenuti, un clima organizzativo che

consenta il mantenimento di un nucleo di valori coerente con la missione assegnata; mentre

si possono scatenare le patologie tipiche delle organizzazioni: alienazione, frustrazione,

18 Né va dimenticato il problema delle condizioni d’ingaggio e della reale formazione professionale del personale penitenziario, oggi assolutamente inidonee rispetto alla delicatezza e al carico (anche psicologico) delle funzioni svolte.

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demotivazione, assunzione di codici relazionali all’insegna della violenza psicologica e

organizzativa.

La seconda componente è costituita dall’insieme di regole che tendono ad

uniformare il comportamento degli attori interni, a fissare i “ruoli” attraverso cui passano e

si differenziano i processi relazionali e funzionali, a disciplinare l’uso delle risorse, a

garantire processi cooperativi, al fine di raggiungere con successo la missione

organizzativa. Questo elemento è presente nella esperienza quotidiana di tutti e anche del

singolo quando ci si propone di sottrarre le proprie azioni alla casualità o agli automatismi

per raggiungere o in tempi più brevi e/o in misura più soddisfacente uno “stato” desiderato.

E’ quello che nel linguaggio comune si intende quando ci si propone di “fare le cose nel

modo giusto”.

Regola è un termine polisemico e in una organizzazione è presente in tutto il

ventaglio dei suoi significati. Via via che si passa da organizzazioni elementari a

organizzazioni complesse, da organizzazioni che perseguono obiettivi particolaristici a

organizzazioni che perseguono obiettivi universalistici, da organizzazioni il cui “prodotto”

ha sanzioni e premi immediati (ad esempio, nel mercato) a organizzazioni i cui risultati

sono verificabili solo in modo mediato (il consenso elettorale allo schieramento politico che

ha in quel momento il governo della organizzazione e che ne ha definito o confermato la

missione, la valutazione - se esercitata - della customer satisfaction, il riscontro della

opinione pubblica, ecc.) aumentano le fonti regolatorie, si articola e si differenzia la

produzione regolatoria, maggiore è la cogenza delle regole da una parte e il ritorno in

termini di legittimazione dall’altra.

Nella organizzazione pubblica rileviamo la presenza tendenziale di tre aree

regolatorie: i principi etici e deontologici, le norme giuridiche, le norme empiriche o

tecniche.

Tradizionalmente, mentre nelle organizzazioni private il primato tocca alle norme

empiriche o tecniche, quelle che fissano i processi sperimentati efficacemente per realizzare

il miglior risultato, consentendone e “prescrivendone” la riproduzione 19, nelle

organizzazioni pubbliche il primato va alle norme giuridiche.

19 Anche le organizzazioni private sono regolate da norme sia giuridiche (diritto privato) sia convenzionali (contratti collettivi, statuti associativi, ecc.) che ne riconoscono la “personalità” e che attribuiscono poteri, che assicurano la tutela sia degli appartenenti all’organizzazione sia ai soggetti esterni che entrano in relazione con essa.

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Qualcosa, però, va cambiando: organizzazioni private come le imprese scoprono la

loro responsabilità istituzionale e l’esigenza di godere di legittimazione sociale; e, quindi,

cominciano a muoversi, non senza contraddizioni, sul terreno dell’etica degli affari,

mentre, dall’esterno, lo Stato (che ha rinunciato a farsi esso stesso impresa, consapevole di

non riuscire a competere in termini di efficienza e, oltre tutto, di non riuscire a garantire

neanche obiettivi di efficacia sociale) esercita su di esse il suo potere regolatorio (controlli

per assicurare il mercato concorrenziale, inserimento della voce “ambiente” nel bilancio

d’impresa, limiti nell’uso della forza lavoro, ecc.); le organizzazioni pubbliche a loro volta

scoprono che l’iperregolazione normativa non assicura l’efficacia (e alla fine neanche la

legalità) e che la qualifica pubblicistica della organizzazione non serve a garantire l’etica

amministrativa.

Competenza e responsabilità, sono i due cardini della organizzazione pubblica che

vengono investiti da queste nuove esigenze regolatorie: la competenza (delle persone e

degli uffici) non è declinata soltanto secondo la formula tradizionale (a chi compete fare

che cosa e come) che individuava agenti, oggetti e procedimenti, ma richiama il saper fare

dei soggetti e il come fare dei processi; la responsabilità non implica soltanto il dovere di

agire e il poter essere chiamato a rispondere per la violazione dei doveri d’ufficio, ma si

declina come responsabilità professionale, sanzionata all’interno dalla valutazione dei

risultati e dalle relative conseguenze sulla remunerazione e sul mantenimento dell’incarico

e in casi determinati anche all’esterno attraverso l’obbligo risarcitorio e si declina come

responsabilità etica 20.

La terza componente è il capitale della organizzazione che è il frutto della dotazione

o della accumulazione di cui essa può disporre e che, nello stesso tempo, è ciò che può

investire per il raggiungimento delle sue finalità. Ogni organizzazione dispone, anche in

quote modeste, di tre tipi di capitale: materiale, umano, sociale.

Il capitale materiale è costituito dall’insieme di beni strumentali e di beni finanziari

che l’organizzazione acquisisce nel mercato (nel caso di una organizzazione d’impresa) o

attraverso le donazioni di benefattori o il sussidio delle istituzioni pubbliche (nel caso di

organizzazioni non profit) o attraverso l’assegnazione da parte dello Stato secondo

parametri fissati dalle leggi di bilancio o altre normative finanziarie (organizzazioni

20 A condizione che il “codice etico” del dipendente pubblico non si riduca, come avviene in Italia, a una mera riproposizione di regole giuridiche deboli, perché prive di reali sanzioni.

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amministrative pubbliche). Il capitale umano è costituito dal personale che opera, a tutti i

livelli, nella organizzazione e dal patrimonio di capacità tecnico-professionali che esso

possiede. La dotazione di capitale materiale e di capitale umano nelle organizzazioni

private è più precaria, perché dipende dalle loro capacità acquisitive di mercato (WEBER,

1968, op.cit.), ma è più flessibile e quindi più facilmente adattabile rispetto alla complessità

degli obiettivi, alla loro perseguibilità in tempi più o meno brevi, alle variabili intervenienti;

nelle organizzazioni pubbliche è certa, ma rigida e, quindi, non immediatamente

modificabile in più o in meno.

Il capitale sociale è costituito dall’insieme di relazioni sociali, persistenti nel tempo,

intrattenute dagli appartenenti alla organizzazione; il capitale sociale è anch’esso una

risorsa per l’organizzazione (e come tale più per le organizzazioni private - che sanno

meglio coltivarlo e valorizzarlo – che per le organizzazioni pubbliche: la burocratizzazione

tende a provocare entropia negativa per questo genere di risorse): significa capacità di

riconoscersi tra i membri della organizzazione, capacità, quindi, di mettere in atto

comportamenti di reciprocità e di cooperazione, significa soprattutto alto livello di coesione

e spirito di corpo. In alcune amministrazioni pubbliche - quelle che sono caratterizzate dalla

presenza di forti corpi professionali - il capitale sociale è più cospicuo, si nutre di tradizione

e forma una forte identità collettiva. Può, però, essere utilizzato in chiave di

autoriproduzione, di acquisizione di rendite di posizione e di privilegi corporativi piuttosto

che per aumentare la capacità di realizzare la missione e migliorare l’efficacia interna ed

esterna.

La quarta componente della organizzazione è costituita dal potere e dalla

leadership. Ogni organizzazione in quanto insieme preordinato di obiettivi, di risorse e di

attori realizza il suo equilibrio dinamico attraverso una combinazione di pianificazione e di

mediazione, di decisioni generali e proiettate nel tempo, di sintesi tra interessi, posizioni,

competenze diverse, di conseguenti microdecisioni che intervengono su segmenti

particolari del processo produttivo.

Per ridurre il grado di indeterminatezza che questa combinazione e i suoi successivi

aggiustamenti comportano, occorre la previsione normativa dell’esercizio di un potere

lungo la sequenza piano-mediazione-decisione e della sua attribuzione a uno o più soggetti

dotati di particolari requisiti. Nelle organizzazioni amministrative moderne sono soprattutto

qualità oggettive (anzianità di servizio), qualità personali (titoli di studio, capacità cognitive

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e professionali accertate in modo oggettivo <concorsi pubblici >), attribuzione di fiducia da

parte dei responsabili politici o del top management della organizzazione amministrativa

(conferimento di incarico).

La leadership si differenzia dal potere perché è identificabile attraverso

l’osservazione microsociologica della organizzazione. In qualsiasi tipo di gruppo (quindi,

non soltanto in un gruppo organizzato) dopo un breve periodo di latenza si manifesta una

struttura di leadership che può articolarsi anche su più di un componente del gruppo stesso:

questo può verificarsi perché la leadership è un processo interattivo o interpersonale e si

esercita come influenza sugli altri, una influenza che risente del clima del gruppo e delle

sue dinamiche, che risponde ai bisogni individuali, di gruppo e organizzativi. Il leader

coordina l’attività dei componenti della organizzazione, specifica continuamente la

missione, media tra le direttive che vengono dall’alto e le “disposizioni ad agire” dei

componenti, canalizza le aggressività del gruppo e controlla il clima organizzativo,

catalizza i consensi e rinforza le motivazioni. Vi è una condizione, necessaria anche se non

sufficiente, che la più aggiornata letteratura sulla leadership esalta, nella generazione della

leadership; è una condizione che è difficile “insegnare”, ma che è il risultato

dell’autosviluppo della persona: il desiderio di imparare, la capacità di apprendere

continuamente, la “curiosità” e la disponibilità a “meravigliarsi”, a sorprendersi, a farsi

“incantare” dal nuovo (BENNIS, THOMAS, 2003).

Queste specificazioni ci aiutano a capire come in una organizzazione complessa e

formalmente determinata, soprattutto in una organizzazione pubblica dove i ruoli sono

formalmente configurati e non facilmente modificabili, posizione gerarchica e leadership

possono non coincidere: il leader formale, il dirigente assegnato a quella struttura

organizzativa non offre sicurezza, non è “riconosciuto”, è troppo debole o passivo (laisser

faire/laisser passer) o, al contrario troppo autoritario e rigido. E’ probabile in questo caso

che il gruppo o i gruppi che hanno una identità più forte nella organizzazione esprimano un

leader informale nel quale i bisogni collettivi trovino una possibilità di polarizzazione. Si

può creare una situazione di conflitto tra leader formale e leader informale (che può, in una

organizzazione pubblica, a sua volta essere “formalizzato” se l’antileader ricopre ad

esempio un ruolo sindacale); il leader informale può in altri casi affiancarsi e sostenere il

leader formale (magari, su sua richiesta) in un ruolo di facilitatore o di mediatore.

Infine, va ricordata una ulteriore componente della organizzazione, una componente

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dinamica: l’apprendimento organizzativo. L’organizzazione è un ambiente di

apprendimento (Learning Organization); non è necessario - e comunque non sarebbe

sufficiente - rinviare alla presenza di specifici processi formativi la condizione che

attribuisce ad una organizzazione la capacità di apprendere. L’apprendimento organizzativo

è un processo continuo: “ Il concetto di apprendimento continuo matura a partire da due

fattori: il primo è relativo alla diffusa dinamicità del contesto in cui viene a operare

l’organizzazione, vale a dire il mercato, o più generalmente l’ambiente esterno. Il secondo

fattore è strettamente legato al primo: un contesto dinamico presenta molte incertezze

scarsamente prevedibili. L’attività organizzativa opera quindi in una situazione in cui la

razionalità viene ad essere limitata, di conseguenza la consapevolezza di questo limite

cognitivo spinge le organizzazioni a non dare mai per scontato e per definito il processo di

apprendimento. In sintesi, ci troviamo di fronte a un processo conoscitivo che matura

continuamente nuovi saperi in relazione a specifiche situazioni, questi saperi vengono

successivamente codificati in procedure che a fronte di nuovi cambiamenti, interno ed

esterni all’organizzazione, dovranno essere ridefinite e se necessario trasformate

radicalmente” (MALIZIA, 2003, op.cit., 120).

E’ evidente come una organizzazione “capace di apprendere” possa reagire con

maggior rapidità ed efficacia alle spinte verso il cambiamento, possa prepararsi, con i

sensori di una cultura del cambiamento che derivano dalla disposizione ad apprendere

(“apprendere” è cambiare, per questo è così difficile ogni intervento formativo), a “leggere”

i segni che le dinamiche interne alla organizzazione e quelle che si manifestano

nell’ambiente esterno inviano.

Tutto questo si verifica con maggiore difficoltà in una organizzazione pubblica; non

sono soltanto l’incidenza di una forte struttura normativa o la vecchia, ma non scomparsa,

“cultura dell’adempimento” che rendono difficile o fanno apparire disfunzionale

l’apprendimento organizzativo.

Le organizzazioni amministrative sono caratterizzate in massimo grado dalla inerzia

organizzativa; questa è, entro certi limiti, una autotutela di tutte le entità organizzative nei

confronti di variabili ambientali e istituzionali che ne potrebbero mettere in crisi la

possibilità di sopravvivenza, che, forse sono, come dire, degli “espedienti” di sistema per

saggiare l’autoconsistenza delle organizzazioni e selezionare, darwinianamente, quelle più

dotate. Nella pubblica amministrazione questa inerzia organizzativa “non significa solo

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impermeabilità e resistenza al cambiamento e alle spinte che lo legittimano e richiedono;

ma significa, piuttosto, che la logica stessa del cambiamento è soggetta alle condizioni

d’inerzia e quindi il suo procedere può trovarsi facilmente indirizzato e deviato da istanze e

fini diversi da quelli che siamo abituati a considerare istituzionali” (REBORA, 2001, 370).

4.5. L’analisi della realtà empirica delle organizzazioni e, in particolare, queste

ultime considerazioni sull’apprendimento e sul cambiamento organizzativo consentono una

consistente mole di spiegazioni del perché le riforme amministrative, anche – e, direi,

soprattutto - quando pensate e adottate con finalità ambiziose, manifestano tutta la loro

difficoltà nel passare dall’innovazione legislativa al cambiamento reale, alla pratica

virtuosa. Le riforme sono inevitabilmente “figlie”, anche se distanti nel tempo, di una

cultura positivistica (malgrado, ed è questo il paradosso, la pubblica amministrazione

italiana si sia costruita lungo i sentieri tortuosi di una cultura hegeliana della politica e del

diritto, del tutto antipositivistica); sono rappresentazioni univoche, improntate ad uno

schema deterministico causa/effetto. Non soltanto ignorano, ma si compiacciono, vorrei

dire rivendicano il diritto-dovere di ignorare che nella applicazione di una riforma si

manifestano (è quasi un ossimoro) molteplici occasioni d’incertezza e di opacità intorno ai

nessi tra obiettivi, comportamenti e risultati.

All’ombra di queste occasioni operano forme di scambio tra interessi

apparentemente contrapposti, ma pronti a trovare un compromesso per mantenere le proprie

posizioni nell’arena organizzativa, si camuffano opportunismi di singoli individui o di

interessi organizzati, si cercano alleanze all’interno e anche all’esterno della organizzazione

per bloccare il processo di riforma o per ricondurne il passo verso esiti considerati più

favorevoli.

Vorrei evitare il rischio, che finisce poi con il legittimare uno sterile moralismo, di

far pensare che tutto questo accada soltanto per la resistenza sia pure diffusa di singoli. Di

questo gioco di sviamento delle riforme entrano a far parte anche gli attori forti del sistema

politico e sociale, quelle forze politiche che innalzano vessilli di modernizzazione, di

produttività, di equità pubblica, ma nello stesso tempo strizzano l’occhio al blocco sociale

che è vissuto e vive del tradizionale ordine burocratico, quelle organizzazioni sindacali che

riconvertono il loro potenziale di conflittualità sociale dal bersaglio di una impresa sempre

meno vulnerabile e sempre più rigida nella difesa delle sue reali strategie economiche a

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quello di un governo delle istituzioni pubbliche pronto a assorbire con l’elasticità della

“politique politicienne” tutte le spinte, tutte le rivendicazioni, tutte le domande, anche le più

contraddittorie.

In questo processo di possibile sfilacciamento delle riforme amministrative si rivela

però un punto forte, forte forse anche al di là delle intenzioni dei riformatori, tanto forte da

essere quello più controverso, su cui si è tornati più volte legislativamente e su cui si sono

condotte le sperimentazioni più “spericolate”. E’ il nuovo profilo della dirigenza pubblica,

chiave di volta della pretesa distinzione/separazione tra politica e amministrazione,

(pro)motore della modernizzazione della pubblica amministrazione, portatore virtuoso del

nuovo paradigma della qualità, investimento costoso, ma in ipotesi portatore di massimi

benefici, per una amministrazione finalmente capace di costare di meno e di produrre di

più. In una certa misura questa ipotesi rovesciava, illuministicamente (?), l’affermazione di

Bachelet: “non abbiamo ancora un nuovo modello di funzionario perché non abbiamo

ancora un nuovo modello di amministrazione” (BACHELET, 1977, vol. II, 37) e si faceva,

appunto, del dirigente il soggetto generatore di un nuovo modo di amministrare.

Alla verifica di queste ipotesi sono dedicate le ulteriori osservazioni sul processo di

riforma e sugli effetti regolatori che essa si proponeva di ottenere nelle relazioni tra l’area

della politica e l’area dell’amministrazione.

5. La pubblica amministrazione e la nuova dirigenza: la retorica della separazione tra politica e amministrazione

5.1. “Rispetto alle tradizioni delle maggiori burocrazie europee appare dotato di

scarsa consistenza il ruolo attribuito ai dirigenti della pubblica amministrazione italiana”

(D’ALBERTI M., 1990, 13). Eppure, il disegno di porre al vertice degli apparati

amministrativi dei dirigenti, riconoscendo ad essi oltre a retribuzioni più elevate uno status

particolare era stato tracciato dal già citato DPR 748 del 1972. Ma era stato ben presto

vanificato dalle nomine “a pioggia” o “a catena” (CASSESE, op.cit. 1998), destinate a

“inflazionare” le posizioni dirigenziali e a indebolirne poteri e funzioni.

Malgrado il successivo D.lgs. 29/1993 agli articoli 13 e seguenti definisse

puntualmente i compiti del dirigente generale, si è avvertita l’esigenza di regolare con

maggior forza la figura del dirigente pubblico.

Le linee fondamentali del nuovo profilo di dirigente pubblico si ritrovano nel D.lgs.

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80 del 1998, varato sulla base della delega conferita al Governo dalla legge 59 del 1997.

Fino a quel momento non era esistita nel nostro ordinamento amministrativo una figura di

dirigente caratterizzata da un autonomo professionale, investita di dirette responsabilità

operative e dotata di un accesso differenziato 21.

Il D.lgs 80, riprendendo con forza determinativa ciò che era rimasto puro

“annuncio” nel D.lgs. 29 del 1993, in particolare:

a) intende rafforzare la distinzione tra indirizzo politico e responsabilità di gestione;

b) contrattualizza il rapporto d’impiego della dirigenza;

c) istituisce un ruolo unico interministeriale dei dirigenti (RUD);

d) fissa le regole del conferimento degli incarichi a tempo determinato per gli uffici

dirigenziali;

e) riformula la disciplina della responsabilità dirigenziale;

f) attribuisce al dirigente nella gestione dei rapporti di lavoro i poteri del privato datore di

lavoro.

Questi elementi introducevano forti elementi privatistici orientati a svuotare di

valenza il “teorema” pubblicistico della organizzazione del lavoro e del rapporto d’impiego

nella P.A., quel teorema che con i suoi caratteri di rigidità e con la ferrea prevalenza degli

“atti amministrativi” sulle “mansioni” ha “determinato la mortificazione della

professionalità e mantenuto bassi i livelli di produttività” (GARILLI, 2002, 6) della

amministrazione pubblica. Era un teorema che aveva contribuito a produrre una condizione

di immodificabilità della organizzazione amministrativa e il suo appiattimento nella misura

in cui non consentiva di eliminare l’inefficiente e di contro di valorizzare il capace

(GIANNINI, 1970).

Nello stesso tempo la riforma voleva modificare gli equilibri di potere all’interno

della amministrazione pubblica, rafforzando sostanzialmente i poteri della dirigenza e

facendola diventare soggetto direttamente e personalmente interessato al buon andamento

della amministrazione.

Il disegno era radicale, ma nello stesso tempo voleva essere (o apparire?) prudente,

mantenendo alcuni presidi (norme speciali inderogabili e non negoziabili) a tutela degli

21 Fino allo “statuto” degli impiegati civili dello Stato del 1957, le “carriere” pubbliche erano ordinate secondo una stratificazione gerarchica rigida (ispirata ai caratteri della stratificazione sociale ), regolate da automatismi basati sull’anzianità, mentre le posizioni apicali (direttori generali) erano sganciate dalla carriera e affidate a meccanismi di cooptazione in cui la “fiducia” era fattore centrale.

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interessi pubblici. Al dirigente è affidato, anche sotto questo profilo, un ruolo centrale,

forse un “compito impossibile”, perché pur assumendo indiscutibilmente il ruolo di gestore

delle risorse disponibili (nel senso di quelle a lui assegnate) nella pubblica amministrazione

(e principalmente di quelle finanziarie e di quelle umane) svolge anche la funzione di

raccordo tra la parte dell’organizzazione affidata al regime privatistico e il “vincolo di

scopo” rivolto alla tutela degli interessi pubblici.

Le coordinate del nuovo dirigente pubblico sono da una parte la coppia

autonomia/responsabilità, dall’altra la coppia professionalità/fiducia. Erano fissati gli

istituti giuridici che ne dovevano garantire l’equilibrio (l’istituzione del ruolo unico come

luogo di incontro tra la domanda e l’offerta di professionalità, la modalità di accesso alla

qualifica dirigenziale mediante il “corso-concorso”, l’istituzionalizzazione della

formazione con il ruolo strategico ad essa attribuito e la riforma della Scuola Superiore

della Pubblica Amministrazione, le regole sul conferimento e la revoca degli incarichi, la

valutazione dei dirigenti, disciplinata poi dal successivo D.lgs. 286).

Il dibattito si accentrò però soprattutto su un tema che, almeno formalmente o

linguisticamente, non era presente nella normativa: lo spoils system. L’espressione ebbe,

nel bene come nel male, grande fortuna. Si potrebbe dire per essa quello che diceva

Petrolini nel suo immortale “Nerone”: “Il popolo quando sente una parola nuova se ne

innamora !”. Forse non si trattò d’amore, ma la parola evocava “modernità” per alcuni, per

altri un riprovevole “americanismo” (una volta tanto “visto da destra”), per altri ancora una

rivincita della politica, in quegli anni messa in angolo da un forte disincanto etico e

ideologico (accentuato dal “coro” mediatico), sulla amministrazione, un modo cioè per

riprendersi il controllo dell’amministrazione, per altri ancora l’insicurezza del proprio

futuro o la disdetta di quel patto perverso basato sullo scambio tra stabilità del “posto” e

irresponsabilità che aveva caratterizzato per decenni la tranquilla vita del burocrate. Anche

in questo caso la cattiva “comunicazione politica” giocò la sua parte: ricordo un infelice

intervento dell’allora ministro alla Funzione Pubblica, Bassanini, in un incontro con i

giovani frequentanti del secondo corso/concorso presso la Scuola Superiore della Pubblica

Amministrazione, che a proposito della possibilità di revoca dell’incarico dirigenziale

tendeva a ridimensionare lo spoils system come una innocua invenzione semantica,

assicurando che, in Italia, non si sarebbe mai mandato a casa nessuno e che i dirigenti non

confermati nell’incarico, tornando al RUD, si sarebbero potuti impegnare negli studi, nelle

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ricerche, ecc. (una sorta di “cantieri di lavoro” burocratici: N.d.A.). Sul tema tornerò

successivamente; per il momento cercherò di comprendere, prima ancora che spiegare, la

continuità/discontinuità nello sviluppo della normativa.

Chiusa la legislatura, le elezioni portarono alla affermazione di una maggioranza di

segno politico opposto alla precedente e alla formazione di un nuovo Governo, il cui

Ministro per la Funzione Pubblica si fece promotore di una nuova iniziativa legislativa per

il riordino della dirigenza statale: la legge 145 del 2002.

Si è parlato, a proposito di questa legge, di “controriforma” (DENTE), ma forse

l’osservazione più pertinente, anche perché può essere applicata in modo bypartisan a tutta

la stagione delle riforme, è quella che parla di “bulimia riformatrice” (CARINCI): ancora

una volta, si vuole riformare tutto, si riforma in continuazione, si riforma senza aver prima

valutato gli effetti delle riforme precedenti.

Le innovazioni più importanti riguardano innanzitutto l’aver portato a conseguenze

più estreme il modello precedente in ordine al peso della scelta politica nella nomina dei

dirigenti agli uffici (automatismo della revoca degli incarichi in atto dopo novanta giorni

dall’insediamento di un nuovo governo, riduzione della durata massima degli incarichi

dirigenziali di prima e seconda fascia ed eliminazione del termine minimo, innalzamento

della percentuale degli incarichi generali conferibili a dirigenti di seconda fascia, estensione

degli accessi dall’esterno agli incarichi dirigenziali).

La seconda novità è rappresentata dalla abolizione del “ruolo unico” e dalla

“riministerializzazione” dei ruoli; cessa cioè quella mobilità istituzionalizzata del dirigente

pubblico, quell’offerta sul “mercato pubblico” della propria professionalità che avrebbero

dovuto impedire la fossilizzazione delle esperienze e la cristallizzazione delle posizioni,

applicando al lavoro pubblico quell’obiettivo dell’enrichment attraverso la rotazione delle

“mansioni” sperimentato positivamente nella organizzazione del lavoro industriale.

Viene inoltre previsto l’allargamento della funzione dirigenziale, con l’istituzione

del “vicedirigente”; questo profilo revoca in dubbio tutte le argomentazioni portate a

sostegno di una configurazione autonoma e conclusa della professionalità del dirigente e

prosegue nella vecchia pratica di sanare, sotto la pressione corporativa delle organizzazioni

sindacali, situazioni di fatto, di concedere “gradi” al personale in uscita o comunque non

posto nelle condizioni di “far carriera”.

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La legge interviene anche sul regime di conferimento dell’incarico dirigenziale:

chiarisce la natura pubblicistica dell’atto di conferimento; inverte la sequenza tra atto e

contratto che diventa successivo e accessorio al primo; limita al solo trattamento economico

l’oggetto del contratto.

Vengono ridotte a due le previsioni circa la responsabilità dei dirigenti (il mancato

raggiungimento degli obiettivi e l’inosservanza – non più nella identificazione “grave” -

delle direttive) e vengono diversamente graduate le sanzioni.

Infine viene reintrodotto il modello del corso/concorso selettivo di formazione

presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, accanto al concorso per esami,

seguito da un ciclo obbligatorio di attività formativa.

Al di là delle polemiche che a caldo sono state sollevate nei confronti della 145,

certamente non disgiunte dal clima politico traumatizzato del dopo-elezioni, alcune

considerazioni vanno fatte.

Innanzitutto, la 145 sfonda - almeno per quel che riguarda lo spoils system – una

porta che era stata già aperta dal precedente ordinamento e si muove, per il resto, con lo

stesso passo ondivago con cui si era mossa la precedente ondata riformatrice. Mi pare sia

conferma di buon senso scientifico e di presa di distanza nei confronti di quell’“odio

teologico”, così diffuso negli immaturi tempi del bipolarismo, affermare: “Non è il caso di

attardarci in schermaglie di retroguardia, circa chi ha peccato di più o più gravemente, se il

centro-sinistra che ha cominciato o il centro-destra che lo ha seguito; non è il caso perché

l’uno e l’altro hanno coltivato uno scopo assolutamente collimante quello di un

azzeramento in toto degli incarichi ricoperti. Un vulnus, questo, alla distinzione tra politica

e amministrazione, posta a premessa di quel circuito virtuoso tra autonomia/responsabilità

dirigenziale, consacrato dall’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale” (CARINCI,

2002, 839).

Non vi è dubbio che l’ultima normativa sulla dirigenza forzi sulla via di una

maggiore interazione fiduciaria tra politico nominante e dirigente nominato, con un

processo che, se pure intestato alle funzioni dirigenziali apicali, rischia di ripercuotersi a

cascata sulle discendenti funzioni dirigenziali.

Tutto ciò rischia di vanificare l’efficacia (e la legittimità) del complesso sistema di

valutazione messo a punto dal 286, come vedremo successivamente e questo, a sua volta,

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in una catena di effetti perversi finisce coll’indebolire quella cultura del risultato posta a

caposaldo della nuova amministrazione e della nuova figura dirigenziale.

Il rapporto pubblico/privato si muove in una logica altalenante perché, se da una

parte si aprono le porte dell’accesso alla dirigenza pubblica al management privato,

dall’altra si irrigidisce in senso pubblicistico il modello contrattualistico precedente.

Infine, un’altra contraddizione: si abolisce il ruolo unico, ma si ripristina il corso-

concorso selettivo di formazione che investiva il suo significato innovativo proprio in quel

mercato della professionalità dirigenziale che “avrebbe” dovuto essere il RUD. E, in più, si

istituisce la figura del “vicedirigente” il cui percorso è sottratto (a meno che il futuro

regolamento non fornisca informazioni diverse) a quelle forme sperimentali di accesso

mirate a costruire un profilo professionale “a tutto tondo” del nuovo dirigente.

Occorre ricordare che (come testimonia quello “avrebbe” appena sfuggitomi), per la

verità, la 145 interviene, almeno in alcuni punti, a modificare “intenzioni” – come quella

della negoziazione dei contenuti dell’incarico dirigenziale: obiettivi, budget, risorse di

personale o del ruolo unico come reale luogo di incontro della offerta e della domanda di

professionalità – che non avevano poi trovato tante occasioni di reale applicazione.

In conclusione l’ulteriore intenzione di riforma, al di là delle sue poche luci e delle

sue molte ombre, sembra spinta dalla volontà di “mettere la firma” sulla “riforma della

riforma”e testimonia insieme, e contraddittoriamente, due cose: il ruolo nevralgico ancora

una volta affidato a una dirigenza pubblica rinnovata per il funzionamento efficiente ed

efficace dell’apparato pubblico e le difficoltà intrinseche di questo tipo di soluzione della

questione amministrativa. Ma testimonia ancora una volta la continuità nel modo di fare

legislazione amministrativa nel nostro Paese, una continuità legata alla logica dello

“scambio”: “…la legge n.145/2002 fa leva sulla necessità di risolvere alcuni problemi

emersi nell’applicazione della precedente disciplina per soddisfare – con una tipica

operazione di realpolitik – una serie di esigenze del corpo burocratico, accrescendo, nel

contempo, le prerogative, del potere politico nella scelta dei dirigenti di vertice”

(D’AURIA, 2002, 1156).

5.2. Non si possono non affrontare a questo punto due temi che pure sono affiorati,

in forma esplicita e non, nelle pagine precedenti e che vengono associati con un corto

circuito retorico: lo spoils system e la valutazione dei dirigenti. Lo spoils system si qualifica

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nella sua vulgata italiana come lo strumento, tanto furbo quanto di precaria efficacia

destinato a risolvere un problema comunque mal posto.

Qual è il problema? quello delle relazioni tra politica e amministrazione. Perché è

mal posto? Perché ignora – anche se sembra una ignoranza sostanzialmente retorica che i

due modelli capaci di descrivere le relazioni tra queste due aree, la separazione e l’osmosi-

dipendenza, se pure fossero dati teoricamente, nella pratica sono inesistenti; negli

ordinamenti democratici si contaminano in un modello intermedio che vede una

ineliminabile interdipendenza tra l’area della politica e quella dell’amministrazione, con

attraversamenti e sconfinamenti continui e reciproci.

I confini delle rispettive attribuzioni, prima ancora che tra aree, tra decisori politici e

decisori amministrativi sono per definizione mobili e labili: “ Mobili… essi possono variare

nel tempo e/o nello spazio. Labili… perché raramente un impianto normativo (ma anche

una singola norma) riesce a delimitare con esattezza ambiti precisi di competenza. E, forse,

sarebbe anche dannoso provare a farlo. Nelle decisioni pubbliche …esiste un continuum

ineliminabile, che non permette separazioni artificiali” (SEPE, 2002, op.cit., 21).

Tanto più quanto le amministrazioni sono chiamate ad assolvere a funzioni tecniche

e ad applicare (un applicare che si qualifica non più in termini di semplice adempimento,

ma come decisione tecnica intrinsecamente dotata di perizia, autonomia e responsabilità)

una normazione tecnica. La sequenza “fissazione degli obiettivi/scelta e attivazione dei

mezzi” è vista come unilineare, ma è in concreto un processo circolare in cui

continuamente si ridefiniscono gli obiettivi (anche sulla base dei risultati raggiunti e del

verificarsi di effetti inattesi) e questi prendono sostanza dai mezzi scelti.

La diffusione effettiva dei metodi di analisi di impatto della regolazione (AIR) è

destinata a rendere trasparente questa trasversalità tra politica e amministrazione nella

produzione delle politiche pubbliche.

Questo non significa che non vi possano essere invasioni di campo – e vi sono

certamente – da parte del decisore politico, ma, simmetricamente, se non invasioni di

campo di segno opposto (che, peraltro, fanno capolino spesso dietro le decisioni politiche

che riguardano la regolamentazione dell’impiego pubblico), interventi attivi della alta

dirigenza nella elaborazione delle strategie e nella produzione delle politiche pubbliche.

D’altra parte, soltanto con una buona dose di ingenuità (o di smemoratezza) si può

affermare che il rapporto di fiducia tra l’incaricante politico e l’incaricato amministrativo,

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tanto più quando quest’ultimo è collocato ai vertici delle strutture amministrative, sia un

fattore costituente del tutto recente del conferimento dell’incarico dirigenziale. La cronaca

politica della “prima repubblica” (giusto per confrontarci con tempi storici assai diversi per

geografia politica e per procedure di carriera amministrativa) non manca di episodi di

dirigenti sostituiti o trasferiti (anche se formalmente non “dismessi”) da posizioni di vertice

per incompatibilità con il responsabile politico di governo (avvenendo ciò anche nella

amministrazione statale oltre che nel buco nero degli enti e delle aziende pubbliche, ove

oltre tutto si andava concentrando una rilevante quota di potere pubblico). In ogni caso il

responsabile politico poteva “scegliere” le persone di fiducia da nominare ai vertici

burocratici alla scadenza, cioè quando il dirigente andava in pensione (chi ricorda l’esodo

di massa dei dirigenti di livello generale agevolato nel periodo andreottiano?) o quando

veniva nominato consigliere di Stato o della Corte dei Conti (promoveatur ut amoveatur).

Inoltre, anche sul piano della aderenza formale al modello dello spoilss system, la

pratica era già presente nella amministrazione italiana: “La legge 400 del 1988, infatti,

limitatamente ai Capi Dipartimento della Presidenza del Consiglio, già prevedeva la loro

automatica cessazione con il giuramento di ogni nuovo Governo. Di un sistema analogo,

inoltre, si è dotato, ormai dal lontano 1993, l’ordinamento degli Enti locali, sempre per ciò

che concerne le strutture amministrative di vertice” (ZAMPAGNI, 2002, pagg. 17-18).

L’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Province – e successivamente dei

presidenti delle Regioni (i “Governatori”), già nella prima tornata fu tutto un fiorire di

lamentazioni, soprattutto tra gli eletti, che fossero di “sinistra” o di “destra”, nelle grandi

aree urbane circa l’impossibilità di assolvere il proprio mandato con una burocrazia che

“remava contro”: l’introduzione dei city managers, chiamati dalla fiducia del sindaco,

doveva servire a rendere operativi quei programmi “istituzionalizzati” che erano stati –

oltre al carisma personale – il focus della campagna elettorale. E, sempre, nell’ambito delle

Regioni e delle Autonomie Locali si diffuse la pratica delle “burocrazie parallele”, cioè del

reclutamento di un numero, a volte assai elevato, di esperti chiamati come consulenti

stabili del decisore politico a presidiare specifiche aree di competenza della

amministrazione, con la motivazione di assicurarsi quelle competenze di cui la burocrazia

tradizionale non disponeva.

Quello che è cambiato negli ultimi dieci anni è lo stile di gestione di questo rapporto

fiduciario con l’amministrazione, uno stile divenuto certamente più esplicito, spregiudicato,

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duro. La logica del maggioritario e del bipolarismo, rinverdendo quella tradizione italica

della lotta politica per fazioni che l’uso della proporzionale nella lunga, “morbida”

stagione dell’egemonia democristiana aveva sopito, è stata la matrice prima di questo

cambiamento di stile; e a peggiorare la situazione ha concorso l’evidente processo di

abbassamento della capacità di “governo” dell’attuale ceto politico che si è dimostrato

incapace di usare quelle arti della negoziazione, dell’attesa benevola dei tempi del processo

di fidelizzazione e dell’accettazione altrettanto benevola di una fidelizzazione non troppo

esplicita, della emarginazione felpata degli “irriducibili” , così abilmente praticate dal ceto

politico della “prima repubblica”. Si è aggiunto inoltre un fattore che potremmo definire

strutturale: il forzato “dimagrimento” dell’apparato pubblico (in particolare per quel che

riguarda le imprese pubbliche o a partecipazione pubblica, le amministrazioni parallele,

ecc.) negli anni ’90 e la maggior durata dei governi (malgrado i ribaltoni “endogamici” ed

“esogamici”) hanno da una parte reso più rare le risorse disponibili a soddisfare la passion

des places (CASSESE, 2002°) e dall’altra rafforzato la presa delle maggioranze di governo.

D’altra parte si rovesciava una ferrea “legge” della politica che afferma che più

frequentemente cambiano i governi più la burocrazia acquisisce potere.

Gli effetti sono stati, e probabilmente se ne avvertirà il peso ancora di più nel futuro,

perversi, dilagando in più direzioni. Due esempi soltanto a dimostrare il potenziale

carattere dirompente di questa “via italiana” allo spoils system. Questo dovrebbe esercitarsi

soltanto in riferimento a quelle posizioni di vertice dell’amministrazione che più possono

essere coinvolte nella diretta attuazione delle direttive politiche (interessando, secondo le

stime degli esperti, circa 55 persone). Ma non è così, non sarà così: “Una volta nominate

persone di fiducia in posizioni chiave (per esempio le direzioni del personale), queste

potranno, a loro volta, fare lo stesso, con i livelli inferiori, non dirigenziali, promuovendo o

collocando nei posti importanti i dipendenti dello stesso orientamento politico”

(CASSESE, 2002¹, op.cit., 4).

Ancora: la normativa permette, inseguendo l’obiettivo di modernizzazione della

cultura burocratica, l’accesso “dall’esterno” agli incarichi dirigenziali, immaginando di

poter attrarre, in considerazione degli ormai più allettanti profili retributivi, soggetti in

possesso di esperienze organizzative in imprese: ma questa peculiare procedura d’accesso

sembra scivolare verso esiti assai più tradizionali: circa l’80% degli incarichi dirigenziali

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affidati all’esterno non riguardano altro che dipendenti pubblici di settimo o di ottavo

livello.

5.3. Ricostruiamo, per completezza espositiva, la “storia” dello spoils system così

come è nata e si è andata evolvendo nel paese da cui l’abbiamo importato. Lo spoils system,

espressione che sintetizza una definizione più cruda che dobbiamo a un senatore dello Stato

di New York del primo 800, William Mercy, to the victors belong the spoils (al vincitore

tocca tutto il bottino), è un sistema sperimentato negli USA a partire dagli anni ’20 del XIX

secolo. Il pioniere di questo sistema fu il Presidente Jackson che, nel messaggio al

Congresso dell’8 dicembre 1829, lo teorizzò come uno strumento che, limitando la durata

degli incarichi pubblici, contrastava la possibile affermazione dell’idea, a quel tempo

corrente ma considerata perniciosa per una “società aperta” come quella americana, della

titolarità di cariche pubbliche come “proprietà” e come tendenziale veicolo per la

formazione di una casta burocratica. Non vi è dubbio che ancora una volta, come è nello

stile della cultura americana, lo spoils system fosse il prodotto insieme di spinte ideali e di

un realistico pragmatismo, servendo anche a ricompensare le collaborazioni ottenute nelle

campagne elettorali.

La prassi di sostituire una certa quota di funzionari della amministrazione federale

andò crescendo: il Presidente Lincoln, ad esempio, in una fase certamente traumatica della

storia americana arrivò a sostituire 1457 funzionari su un totale di 1639. “Era, nella logica

del sistema rappresentativo americano, l’estensione dell’executive power dalla politica

all’amministrazione” (SEPE, 2002², pag. 4).

La pratica venne talmente esasperata da richiedere una più severa regolazione,

assicurata dal Pendleton Act del 1883.

Attualmente il sistema permette al Presidente eletto di confermare o revocare senza

vincoli sostanziali gli alti funzionari dell’Amministrazione di cui egli è direttamente

responsabile (da qui la formula “tutti gli Uomini del Presidente”), circa 4.500 persone che

occupano posizioni per cui è prevista esplicitamente la rotazione.

Le connotazioni del modello di spoils system americano sono tali da rendere

immediatamente evidenti le nette differenze, giustificate non soltanto dal diverso

ordinamento istituzionale e politico, ma anche dal funzionamento della società e

dell’economia, rispetto alle imitazioni “nostrane”. Innanzitutto il rapporto di lavoro cessa

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quando cambia il Presidente; gli “Uomini del Presidente” vanno a casa e riprendono le loro

precedenti attività accademiche, professionali, imprenditoriali. L’affidamento degli

incarichi, inoltre, non è rivolta tanto a premiare coloro che hanno finanziato la campagna

elettorale o i “grandi elettori” (a cui, semmai, può essere riservata la nomina ad

ambasciatore) né, tanto meno, gli uomini addetti alla “macchina elettorale”, quanto a

dotarsi di consiglieri tecnici provenienti dalla think tank del partito di riferimento e che

hanno già in campagna elettorale costituito la “squadra” che ha elaborato il “programma”

del candidato alla Presidenza e ha messa a punto l’agenda di governo.

Lo spoils system è quindi coerente con le caratteristiche di un governo

presidenziale: non è a caso che si parli negli USA di una “Amministrazione Clinton”, di

una “Amministrazione Bush”, ecc. Il “bottino di guerra” è anche, e soprattutto, la

responsabilità di indicare al Paese degli obiettivi e di darsi i mezzi per raggiungerli; questa

responsabilità racchiude l’esigenza di cercarsi collaboratori fedeli, ma anche competenti al

massimo livello possibile; il rischio di interferenza della politica sull’amministrazione è

bilanciato dai poteri delle Commissioni del Congresso e dalle regole del civil service che

opera in piena autonomia nelle sue aree di competenza. Inoltre vige una regola prudenziale:

“questi dirigenti di nomina politica non possono né spostare né rimuovere nessuno nei

primi 120 giorni dalla nomina, in maniera tale da garantire il tempo necessario per costruire

affidabilità e trasparenza e, quindi, per far sì che in qualche modo gli altri dirigenti si

muovano in linea con gli indirizzi del nuovo governo” (WASHBURN, 2002, pag. 26).

Siamo di fronte, quindi, a un istituto che opera con modalità diverse e in un contesto

istituzionale e di cultura politica diversa; lo spoils system “all’italiana” si è in aggiunta

confuso con la questione della valutazione della dirigenza, generando non poche

contraddizioni e finendo col mettere in crisi lo stesso metodo della valutazione.

5.4. A contrastare le molte ambiguità che accompagnano l’introduzione di questa

sorta di spoils system nella pubblica amministrazione dovrebbero essere posti alcuni

“paletti” e alcuni robusti “pilastri”: gli uni perché ci sia (il più possibile), integrazione e non

invasione tra politica e amministrazione e si identifichino in modo trasparente i luoghi e i

momenti del confronto tra decisori politici e dirigenza pubblica; gli altri perché non si

separino patologicamente le quattro dimensioni di una buona dirigenza:

autonomia/professionalità e autonomia/fiducia.

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In assenza di questi paletti e di questi pilastri, a soffrirne non saranno soltanto i

cittadini né l’efficienza, l’economicità e l’efficacia della organizzazione amministrativa, ma

la stessa politica che subirebbe uno scambio in perdita tra la volatilità di una fedeltà

incompetente e la certezza di una competenza impegnata alla lealtà verso indirizzi politici

legittimi (e non verso persone o partiti).

La prima condizione è costituita dalla chiara e preventiva delimitazione della

“squadra” di esperti e/o dirigenti che costituiscono lo snodo essenziale tra politica e alta

amministrazione e il cui “ingaggio” avviene in modo trasparente e funzionale sulla base sì

di un rapporto fiduciario, ma anche sulla base di competenze accertate e coerenti con il

mandato che a essi si vuole affidare; essi saranno ordinariamente legati al ciclo di vita del

governo (simul stabunt, simul cadent) che sono stati chiamati a sostenere con la loro

competenza sia nella fase della elaborazione degli indirizzi politici sia nella fase del

controllo dell’attuazione di tali indirizzi; ma potranno essere rimossi o alla scadenza

naturale dell’incarico (che deve essere tale fa garantire al dirigente o all’esperto la

possibilità di esperire a pieno le sue capacità professionali) o in caso di “mancato

raggiungimento degli obiettivi” ovvero, per l’ “inosservanza delle direttive”, secondo le

ipotesi previste all’art. 3, c. 2 della legge 145 . Un rapporto fiduciario così caratterizzato

costituisce una garanzia non soltanto per l’incaricato e per i cittadini a favore dei quali sono

prodotti indirizzi, politiche e atti di alta amministrazione, ma paradossalmente anche per il

decisore pubblico alla cui azione serve un supporto leale, ma se necessario critico perché

egli non “scelga strategie non fattibili per trarre vantaggio di breve (o brevissimo) periodo

sul piano del consenso che, però, possono essere annullate dall’effetto boomerang della

mancata realizzazione” (BORGONOVI, 2002, 21).

Ma anche così definito, un buon modello di funzionamento dello spoils system

rischierebbe di rimanere astratto. E’ possibile essere chiamato a rispondere del

raggiungimento degli obiettivi e dell’osservanza delle direttive se queste vengono emesse

puntualmente e sono chiare e quelli sono fissati in modo specifico e concreto. Qui ci

scontriamo con una “legge” non scritta della politica, almeno di quella che troppo spesso

vediamo praticare nel nostro Paese. Le politiche pubbliche sono spesso l’effetto di una

negoziazione estenuante (tanto più tra “governi” e “opposizioni” che sono, ciascuna, la

combinazione forzata di disparate aggregazioni politiche), rivolte quindi a neutralizzare i

dissensi (più che a massimizzare i consensi); propongono obiettivi generici e possono

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essere interpretate in modi opposti. In più, come ha spesso lamentato la Corte dei Conti, vi

è scarsa attenzione a uno dei punti che pure si qualificava come la parte innovativa delle

riforme, l’adozione di direttive annuali da parte dei Ministri sulle attività amministrativa e

di gestione.

Ancora minore attenzione ha ricevuto l’attuazione dei sistemi di valutazione previsti

dal 286. Su questo tema credo che non sia inutile soffermarsi sia per quanto riguarda il

significato più generale che l’introduzione della valutazione nella pubblica amministrazione

comporta sia per quanto riguarda la reale attuazione degli obiettivi del 286.

5.5. Nella relazione che accompagna il D.lgs. 286 si sottolinea che la quasi totalità

degli interventi di riforma amministrativa avviati in Italia a partire dagli anni ’90 si prestano

ad essere letti nella chiave della introduzione di una “cultura della valutazione” nel mondo

per troppo tempo autoreferenziale della pubblica amministrazione. C’è un uso

“sociologistico” del termine “cultura” che lo genericizza e lo applica a qualunque oggetto

di vita sociale (cultura del vino, cultura dell’automobile, cultura dell’immagine, ecc.);

intendiamo come “cultura” l’insieme delle conoscenze e delle competenze tecniche, la

“cassetta degli attrezzi” che presidiano e operano in un certo settore di realtà, ma anche

l’insieme di modalità di “guardare” alla realtà, il comune sentire che diffuso all’interno di

una comunità organizzativa rinforza e legittima il modo di intervenirvi. Senza l’adozione di

una conseguente e diffusa pratica, - nel nostro caso di valutazione – scientificamente

fondata e tecnicamente attrezzata, la “cultura della valutazione” è destinata a evaporare o a

ritualizzarsi.

La pubblica amministrazione vede l’esplosione delle funzioni erogatorie e di

servizio, spesso in competizione con attori di mercato e con organizzazioni non profit e,

comunque, in confronto diretto con una “cittadinanza attiva” che osserva, giudica,

partecipa, protesta; in questa logica l’attività amministrativa ( cito ancora la relazione al

286 ) “gradualmente staccandosi dai modelli astratti di una unilaterale ponderazione degli

interessi pubblici, sempre più tende a farsi servizio a favore della collettività, a

tecnicizzarsi, in quanto improntata a tecniche gestionali di sana amministrazione, ad

assoggettarsi a valutazioni e misurazioni”.

Di fronte a questo nuovo fronte delle relazioni tra amministrazioni e cittadini, la

cultura della valutazione avvia, al di là dei suoi compiti specifici, una fase positivamente

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critica rivolta a realizzare una intelligenza delle istituzioni e a innescare processi di

cambiamento orientati alla conoscenza.

Se affrontiamo il tema con realismo dobbiamo premettere che la valutazione non è

una attività diversa da tutte quelle che una organizzazione svolge al suo interno, ma che più

di altre impatta con il modo in cui si prendono le decisioni e, indirettamente, anche con il

sistema dei poteri su cui si regge l’organizzazione. Dal punto di vista degli attori

organizzativi la valutazione non è una risorsa “neutrale” ed essi, quindi, saranno indotti ad

avvalersene per perseguire i propri obiettivi particolari, per rafforzare il proprio ruolo, per

esercitare influenza.

In un contesto caratterizzato da complessità, forte incertezza, ambiguità di confini

tra funzioni e ruoli e (nel caso della pubblica amministrazione) tra politica e

amministrazione, la valutazione è destinata a incontrare alcune difficoltà di campo e di

percorso:

- l’irriducibilità del reale (contro ogni illusione scientista o tecnocratica) entro modelli di

assoluto rigore e invarianti;

- la possibilità che ha ogni azione, pur attentamente pianificata, di produrre effetti inattesi

o perversi;

- la tensione tra un certo grado di indeterminatezza delle finalità politiche e la

determinatezza delle azioni amministrative;

- la complessità del risultato che è un processo multidimensionale, dislocato talvolta

lungo assi temporali assai lunghi e discontinui; come tale esso ha molti “padri”,

destinati spesso a rimanere ignoti specie in caso di insuccesso.

Possiamo affermare il successo della cultura e della pratica della valutazione

quando i suoi metodi sono “internalizzati” nella organizzazione: partecipazione attiva dei

leaders organizzativi ai processi e alle procedure di valutazione; esistenza di strutture forti e

permanenti di supporto informativo; accompagnamento della funzione di monitoraggio nel

percorso della valutazione; disponibilità di una “cassetta degli attrezzi” e suo continuo

arricchimento sulla base dell’esperienza e della ricerca scientifica; riconosciuta e

trasparente influenza degli esiti della valutazione nel processo decisionale.

Il D.lgs. 286 organizza le funzioni di valutazione nella P.A. fondamentalmente

intorno a cinque nuclei ritenuti essenziali rispetto alle esigenze di controllo interno e di

qualità dei servizi resi dall’amministrazione.

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Nell’ambito del controllo interno, oltre al tradizionale controllo di regolarità

amministrativa e contabile, si definiscono i sistemi e le procedure di controllo strategico,

rivolti a verificare il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’indirizzo politico, i sistemi e

le procedure del controllo di gestione, rivolti a verificare l’efficacia, l’efficienza e

l’economicità delle unità amministrative al fine di ottimizzare il rapporto tra costi e

risultati, infine i sistemi e le procedure per la valutazione dei dirigenti.

Per quanto riguarda la qualità dei servizi il decreto stabilisce che essi debbano

essere erogati con modalità che ne assicurino la qualità; gli standard di qualità sono definiti

e pubblicizzati nelle “carte dei servizi” e ne deve essere valutata la piena applicazione così

come deve essere valutato il grado di soddisfazione degli utenti. Sia i cittadini in generale

che gli utenti, attraverso le loro associazioni, devono poter partecipare alle procedure di

definizione delle misure di qualità.

Possiamo affermare che la cultura della valutazione abbia fatto un passo avanti con

l’emanazione del 286? Forse si può rimpiangere che, come spesso accade nel nostro Paese,

sia fatta una legge organica sui sistemi di controllo e di valutazione nella pubblica

amministrazione senza avvalersi i precedenza di una analisi sistematica delle esperienze, sia

pure parziali, realizzate negli anni passati; questa ci avrebbe informato, come testimonia

una ricerca di Rebora, sulla estrema varietà di idee di valutazione, di metodi, di modalità

d’utilizzo, così come sulla abbondanza di forme improprie o parziali di valutazione e sulla

esiguità invece delle forme effettive di valutazione (REBORA, 1999).

5.6. Valutare perché, valutare che cosa, valutare come; si potrebbe aggiungere chi

valuta e per chi si valuta: è facile convenire che valutare l’audience dei programmi della

Televisione di Stato è cosa diversa dal valutare la produttività del sistema universitario e

questo, a sua volta, è diverso dal valutare l’efficacia della formazione universitaria (anche

se non sempre i responsabili ne hanno consapevolezza).

Così come occorre tenere ben a mente che valutare non è misurare; assistiamo

talvolta ad una ingordigia misuratoria che non si traduce nella responsabilità della

valutazione. Gli studiosi hanno analizzato le varie finalità cui può rispondere l’attività

valutativa: via via che si passa dalle finalità semplici quali l’identificazione degli output

materiali di un’azione (il tempo medio di rilascio di una autorizzazione) a finalità

complesse quali la valutazione di una politica (la semplificazione delle procedure ha

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incentivato l’insediamento di nuove imprese in un determinato territorio) o del livello di

soddisfazione degli utenti di un servizio (rispetto all’apertura di un day hospital), la

determinatezza dell’attività valutativa diminuisce e bisogna contentarsi di accertamenti

probabilistici e tendenziali che debbono essere rafforzati da esiti ricorrenti o collegati (che

mutano o si riproducono assieme ad altri).

Bisogna evitare la tentazione di valutare tutto, circoscrivendo puntualmente i

fenomeni che si vogliono (e si possono) valutare e identificando quegli aspetti (sia

quantitativi che qualitativi) che si ritengono fondatamente essenziali per la valutazione

rispetto alle finalità che il sistema di controllo si propone.

Le strategie dell’attività valutativa mutano anche in riferimento al destinatario: i

cittadini sia nella loro veste di utenti di uno specifico servizio che in quella di contribuenti

su cui ricade il carico finanziario dell’attività amministrativa o del servizio, i decisori

politici che definiscono le politiche e fissano le direttive, la dirigenza amministrativa di

vertice che assegna obiettivi e risorse e vuol vederne il grado di attuazione e l’impiego

ottimale.

Infine chi valuta? Non è in questione la scelta tra internalizzazione o

esternalizzazione dei controlli e delle valutazioni, quanto la presa d’atto che a fronte di una

domanda “teorica” di valutazione in forte crescita, si registra una limitata disponibilità di

competenze professionali (mentre abbondano i valutatori “corsari” e i volenterosi

apprendisti), fattore che espone le amministrazioni alla tentazione di rinviare il problema o

a darvi soluzioni formali e di routine.

La valutazione non può essere intesa soltanto come controllo sanzionatorio dei

risultati di politiche, programmi, servizi, performance organizzative; oltretutto il controllo

sanzionatorio rischia sempre di scattare sugli ultimi anelli della catena produttiva degli

interventi pubblici, quelli che sono coinvolti nelle manifestazioni più esteriori

dell’insuccesso. Tutto quello che sta dietro un servizio che dunziona male, strutture

obsolete, carenza di personale, cattiva organizzazione del lavoro, pianificazione troppo

rigida, politiche ambigue, ecc. è troppo lontano (o con troppi fattori intrecciati) perché

possa essere oggetto di una valutazione in tempo reale e, quindi, affidabile oltre che utile.

“L’introduzione generalizzata della valutazione e del controllo di efficienza e di

efficacia significa quindi identificare l’unità di analisi con le attività e i servizi (cioè con la

politica), e, soprattutto immaginare che vi sia una efficacia autonoma delle analisi stesse, di

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stimolo al cambiamento, di miglioramento dell’esistente e di alimentazione di un processo

di apprendimento” (AZZONE, DENTE, 1999, op.cit., 18).

Come ricorda Wildawsky (1981), l’uso corretto della valutazione deve conferire a

ciascuna fase, oggetto d’analisi, la necessaria capacità di implementazione e di

approfondimento: la valutazione deve inserirsi cioè in un processo di apprendimento

organizzativo e, di conseguenza, richiedere e ottenere la disponibilità di tutti gli attori della

organizzazione a mettere in discussione il proprio sapere, il proprio saper fare e a rivedere e

cambiare scelte e comportamenti.

Ancora una puntualizzazione che può apparire ovvia, ma che ovvia non è nella

pratica della valutazione nella pubblica amministrazione. Valutazione è la verifica del

“valore pubblico” prodotto dalla amministrazione e si articola in due momenti:

a) il riconoscimento di un successo o di un fallimento (o delle graduazioni intermedie tra

questi due poli);

b) la riproduzione delle condizioni che hanno favorito o prodotto il successo; la correzione

degli errori che hanno provocato il fallimento e l’eliminazione delle condizioni che

potranno anche successivamente riprodurre tali errori.

Per venire al punto su cui verte questa riflessione e che è indirettamente affrontato

dalle ricerche qui presentate, isoliamo dal grande tema della valutazione la questione della

valutazione dei dirigenti.

Il 286 stabilisce che la valutazione dei dirigenti sia svolta da strutture e soggetti

diversi da quelli cui è demandato il controllo di gestione, anche se questo costituisce una

precondizione della valutazione dei dirigenti. L’organo valutatore sarà diverso a seconda se

trattasi di dirigente, dirigente generale o dirigente preposto a un centro di responsabilità:

competenti saranno rispettivamente il dirigente della struttura interessata, il

capodipartimento o il ministro, il quale si avvarrà dell’ufficio di controllo interno,

inquadrato tra gli uffici di diretta collaborazione.

La procedura prevede una valutazione di prima istanza, effettuata da un soggetto che ha una

diretta conoscenza dell’attività del valutato e una valutazione da parte dell’organo

competente (valutazione di seconda istanza), ferma restando la possibilità di partecipazione

al procedimento del destinatario della valutazione. Il procedimento di valutazione è

annuale, ma può svolgersi anticipatamente qualora esista la possibilità che il rischio di un

risultato negativo si verifichi prima della scadenza (condizione che richiederebbe, però,

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l’esistenza di un sistema di monitoraggio).

L’ultimo contratto collettivo prevede all’art.37 che la valutazione “deve essere

improntata ai principi di trasparenza e pubblicità dei criteri e dei risultati; deve essere

osservato il principio della partecipazione al procedimento del valutato, anche attraverso la

comunicazione e il contraddittorio”.

La definizione di capacità manageriali in riferimento alla nuova figura di dirigente

pubblico richiama l’attenzione sulla metodologia della valutazione. Essa si indirizza

prevalentemente verso due obiettivi: la valutazione dei risultati e la valutazione dei

comportamenti.

La valutazione dei risultati (aspetto quantitativo della prestazione) presuppone

l’impianto di un sistema di direzione per obiettivi. Gli obiettivi:

a) vengono designati dal superiore e assegnati al valutato (processo top-down);

b) vengono definiti dal valutato che li presenta all’approvazione del superiore

(processo bottom-down );

c) vengono definiti, discussi e concordati congiuntamente (processo misto).

La valutazione si fonda sostanzialmente su parametri quantitativi che collegano

modalità e risorse a risultati (durata del procedimento, numero di interventi realizzati, ore

lavorate, atti e provvedimenti adottati, prestazioni erogate, ecc.).

L’assegnazione di obiettivi ben specificati costituisce la condizione che rende

trasparente la valutazione, perché questa sarà condotta facendo stretto riferimento ad essi e

non a una generica performance. Sulla questione degli obiettivi vanno tenute presenti

alcune proposizioni:

a) la natura: la tendenza è quella di richiederne la formulazione con valori

quantitativi per rendere più “oggettiva” la valutazione; tuttavia occorre ricordare

che gli obiettivi non possono non implicare attributi di tipo qualitativo;

b) il numero: bisogna limitarli il più possibile per focalizzare l’attenzione del

dirigente su pochi obiettivi;

c) la raggiungibilità: il “compito impossibile” diffonde un clima di sfiducia nella

organizzazione e ne riduce la tensione positiva;

d) la ponderazione : non tutti gli obiettivi hanno la stessa importanza o la stessa

priorità; occorre, quindi, assegnare a ciascuno di essi un “peso” per poter

indirizzare e calibrare la tensione attuativa del dirigente.

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La valutazione dei comportamenti (aspetto qualitativo della prestazione) consiste in

una metodica diretta all’apprezzamento della condotta e delle capacità dimostrate dal

dirigente. Nel management by objectives non è importante soltanto il risultato, ma l’insieme

dei comportamenti (relazioni interpersonali, stili di leadership, atteggiamenti motivanti, uso

efficace della comunicazione, ecc.) del dirigente che confluiscono nella organizzazione,

scoprono o valorizzano risorse latenti, assicurano un clima cooperativo, assicurando

continuità nel raggiungimento dei risultati.

La metodologia della valutazione deve quindi avvalersi di un sistema articolato e

integrato di indicatori capaci di “leggere” e confrontare non soltanto “misure”, ma anche

fenomeni qualitativi diversi o stadi diversi di un fenomeno qualitativo. Gli indicatori

possono essere oggettivi, costruiti cioè sulla base di dati rilevati direttamente dal fenomeno

preso in considerazione, o soggettivi, rilevati attraverso le percezioni e le opinioni che sul

fenomeno considerato hanno quei soggetti che a esso si rapportano.

Mi sono dilungato sia sulla normativa che sul patrimonio teorico-metodologico,

disponibili per la valutazione nella pubblica amministrazione in generale e dei dirigenti

pubblici in particolare, per raggiungere una conclusione paradossale. Sia il Primo Rapporto

del Comitato Tecnico Scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo

strategico nelle Amministrazioni dello Stato (maggio 2001) che il Secondo Rapporto

(gennaio 2003) denunciano, con accenti diversi (più “felpati” nel Secondo Rapporto) lo

stato ancora sperimentale del sistema dei controlli interni nelle amministrazioni

ministeriali.

Per quanto riguarda la valutazione dei dirigenti alcune esperienze innovative si

ritrovano in altre amministrazioni (Regioni e Autonomie Locali) in cui sono stati messi allo

studio e applicati sistemi multivariati di valutazione: valutazione delle posizioni, delle

prestazioni, dei risultati, delle competenze, del potenziale: “Per valutazione delle posizioni

s’intende la valutazione delle attività necessarie ad esercitare un determinato ruolo e la

pesatura del loro grado d’importanza rispetto alla missione e agli obiettivi dell’ente…Per

valutazione del potenziale s’intende prendere in considerazione le attitudini e le capacità

non ancora espresse, sempre dell’individuo, utili in prospettiva per esercitare con maggiore

efficacia l’insieme di attività e per conseguire gli obiettivi dell’organizzazione o specifiche

posizioni di lavoro” (DELLA ROCCA, 2001, pagg.15-16); la valutazione delle competenze

fa riferimento sia alla posizione che al potenziale e descrive quelle caratteristiche

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individuali (conoscenze, capacità, ecc.) “legate a un rapporto di causa ed effetto a risultati

superiori in un ruolo o in una situazione” (PROVENZANO, 1999, pag. 65).

In conclusione il grande progetto di migliorare la qualità della pubblica

amministrazione affida le sue sorti alla qualità della dirigenza pubblica, ma questa, a non

voler considerare le resistenze inerziali che sono inevitabili all’inizio di ogni grande

cambiamento istituzionale e organizzativo e le resistenze strutturali che provengono dalla

perdurante vitalità del modello burocratico, stenta a svilupparsi.

Autonomia e fiducia confliggono nell’irrisolto rapporto tra politica e amministrazione;

professionalità e responsabilità sono imperativi depotenziati dall’insufficiente sviluppo dei

sistemi di valutazione e dalla loro stentata applicazione.

6. La pubblica amministrazione e la nuova dirigenza: promesse pubbliche e successi privati?

6.1. Nella lunga vita dei tentativi di riforma della pubblica amministrazione italiana

il problema del personale ha rappresentato sempre un problema centrale; il personale

pubblico, con le sue espressioni organizzate e non, è stato sempre un vincolo inevitabile

rispetto a ogni disegno riformatore, l’occasione di negoziazioni manifeste (ma, più spesso,

occulte) per ottenerne, se non il consenso, almeno l’acquiescenza, ai cambiamenti, l’alibi

per evidenziare l’impossibilità della riforma o il capro espiatorio per giustificarne i

fallimenti.

Nel ciclo ultimo delle riforme il personale – soprattutto secondo una logica élitista il

personale con funzioni dirigenziali – assume il carattere di una risorsa, anzi della risorsa

strategica, per modificare il modello organizzativo della P.A. attraverso auspicati

comportamenti virtuosi e di successo ottenuti attraverso il reclutamento, la selezione e

l’ingaggio secondo regole alternative rispetto alla tradizione del pubblico impiego, ma

anche, in una certa misura, anche rispetto alle modalità delle imprese.

L’ipotesi considerata vincente era che l’immissione di un certo numero di nuovi

dirigenti, tendenzialmente giovani, dotati di una preparazione pluridisciplinare, già

preparati al “saper fare” (quindi non esposti alla tentazione di quella “incapacità

addestrata”- come la definisce Merton – a cogliere il nuovo) o provenienti dall’esperienza

del mondo dell’impresa avrebbe costituito una “massa critica” capace di far lievitare gli

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effetti delle innovazioni normative. Come notava D’Orta, sia pure in un altro contesto di

considerazioni “sin dall’emanazione, una delle più diffuse e spontanee censure al d.lgs.

n.29 del 1993 è stata che il tentativo di introdurre logiche di gestione manageriale nelle

pubbliche amministrazioni risultava velleitario o, quanto meno, destinato a ben pochi frutti,

posto che l’impianto complessivo del sistema amministrativo – l’habitat in cui il

management pubblico si trova a operare – rimaneva quello burocratico tradizionale”

(D’ORTA, 1998, 99-99). L’Autore prendeva poi le distanze da questo giudizio, ritenuto,

pur se oggettivamente fondato, intempestivo perché, prevedibilmente, un’ampia serie di

interventi normativi paralleli avrebbero via via creato un ambiente amministrativo

favorevole.

A cinque anni di distanza, e al di là degli effetti delle riforme e delle controriforme,

non possiamo certamente dire che questa aspettativa si sia pienamente realizzata: la logica

di conservazione e di mantenimento come strategia privilegiata, la scarsa responsabilità nel

sistema decisionale, l’assegnazione di obiettivi generici e quindi scarsamente verificabili,

una leadership formale e adattativa, una politica delle risorse umane inesistente, un sistema

di relazioni sindacali consociativo e corporativo, il mantenimento di una pratica legislativa

inflazionistica, hanno attraversato cicli di riforme e mutamenti di regime politico e

continuano a caratterizzare gran parte del sistema amministrativo, in particolare di quello

centrale.

Ancora una volta è inevitabile sottolineare che l’illusione che una “buona legge di

riforma” si trasformi automaticamente in una “buona riforma” è profondamente radicata nel

Legislatore (e nei suoi “consiglieri”) e che quindi non richieda altri - forse meno eclatanti –

interventi. “Bisogna dire con chiarezza che i Governi di centrosinistra hanno consentito una

forte attività di riforme legislative, ma in qualche modo le hanno delegate senza

identificarsi con esse. Cioè senza impegnarsi veramente nell’<animazione> della Pubblica

Amministrazione, che significa scoprire, amministrazione per amministrazione, le sue

potenzialità e peculiarità e valorizzare conoscenze ed esperienze partendo dalla

consapevolezza che l’ammodernamento necessario non è un’azione contro

l’Amministrazione, ma un accompagnamento costante, e certamente critico, delle sue

capacità (quando ci sono) e una forte spinta ad acquisirle (quando non ci sono). In altri

termini, quei governi non hanno fatto della funzionalità efficiente della Pubblica

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Amministrazione un obiettivo prioritario da raggiungere collegialmente.” (RISTUCCIA,

2002, VIII).

Se c’è stata una trasformazione delle pratiche operative, essa è da attribuirsi in

misura prevalente alla adozione delle nuove tecnologie informatiche, almeno in quei casi in

cui si è verificata (e si è voluta e perseguita) una coerente convergenza tra procedure

informatiche e processi organizzativi.

Anche volendo mantenere ottimisticamente una certa prudenza critica, non si può

non riconoscere che “La separazione tra politica e gestione, chiara nella formale adozione

degli atti, sfuma invece spesso anche troppo nella concreta assunzione delle decisioni”

(VETRITTO, 2003, 200); non mancano gli esempi: malgrado la mutata denominazione dal

vecchio termine “Gabinetto”, “Gli uffici di diretta collaborazione si sono ben guardati

dall’abbandonare il tradizionale ruolo di coordinamento generale dell’attività dei dicasteri,

già a rigore vietato dalle norme ma oggi del tutto improprio nel contesto della menzionata

separazione; per di più, i regolamenti di organizzazione di quegli uffici sono stati

l’occasione di un ulteriore ingigantimento delle strutture” (ivi). Semmai sono stati rafforzati

come primum mobile dell’amministrazione ministeriali con l’abile consuetudine di

metterne a capo componenti della magistratura amministrativa.

I nuovi dirigenti, preparati per governare sofisticati aerei supersonici, si sono

ritrovati a pilotare vecchi, ansimanti turboelica; in alcuni casi sono riusciti a ricavarsi delle

posizioni di nicchia, in molti altri casi sono andati a infoltire l’esercito degli scettici.

Dalle ragioni generali della permanente crisi della identità dirigenziale, passiamo

alle ragioni (apparentemente ) più minute. Le coppie autonomia/responsabilità e

professionalità/fiducia non sono “dati” ma “processi”: non possono essere “assegnate” per

forza di legge, ma devono essere costruite nel tempo attraverso buone pratiche

amministrative e assicurando condizioni organizzative coerenti.

Gli istituti giuridici previsti sia dalla precedente che dall’attuale normativa sono soltanto – e non potrebbe essere diversamente – prerequisiti per il conseguimento delle

nuove coordinate dell’agire dirigenziale.

6.2. Si è ritenuto che questa nuova configurazione del dirigente pubblico fosse

destinata ad essere valorizzata in quella “prospettiva del manager” che diventava l’idea-

forza della riforma dirigenziale. Riprendendo e integrando alcune delle considerazioni

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precedentemente avanzate, debbo rilevare che questo uso disinvolto del termine “manager”

(tanto più disinvolto quanto veniva ostentatamente sbandierato entro un ciclo di vita

politica governato da formazioni e culture le più distanti dalla cultura manageriale) era

destinato – e il problema permane tuttora – a creare una dimensione ambigua, favorendo la

produzione di attese messianiche, di resistenze, ideologicamente nobilitate, anche di “ansie

di prestazione”.

“L’espressione <public manager> si è imposta negli ultimi anni, nelle democrazie

occidentali, per indicare il nuovo modello emergente di un dirigente pubblico chiamato a

operare e valutato secondo logiche e parametri non più (soltanto) legal-burocratici, ma

anche (e soprattutto) di efficienza-efficacia” (D’ORTA, 1998, 98).

L’espressione riprende una fortunata formula proposta da Burnham (1941) per

l’analisi della trasformazione avvenuta nelle imprese industriali con la separazione tra

proprietà (familiare o azionaria) e controllo o gestione affidati ai manager 22. Può apparire

paradossale come la rivoluzione dei manager nell’industria fosse, sin dall’inizio di questo

filone di studi, accostata alla tendenza alla “burocratizzazione” dell’impresa, con il

prevalere della logica della espansione delle dimensioni, del fatturato, sulla logica della

crescita del profitto.

C’era – e rimane - una ambiguità non risolta in questo uso del termine manager in

riferimento al dirigente pubblico: quella che nasce dalla confusione tra le “regole

d’ingaggio” di una professione e gli “strumenti” che i saperi tecnici hanno reso disponibili e

appropriati nell’ambito di quella esperienza professionale.

Le regole d’ingaggio di un dirigente d’azienda lo vedono chiamato unicamente a

raggiungere i risultati fissati dalla proprietà o dal top management e sanzionati dal consenso

del mercato; un dirigente pubblico è tenuto a realizzare la missione della istituzione di

appartenenza che è stata determinata attraverso decisioni politiche collettivamente

vincolanti: i suoi risultati sono valutati sì in ragione della soddisfazione dei bisogni di un

cittadino o di una categoria di cittadini, ma anche in ragione della produzione di “valore

pubblico” in cui entrano come componenti valori come l’equità, l’universalismo delle

prestazioni, la tutela dei diritti di generazioni future; la sanzione può essere, quindi, diretta

22 E’ singolare il destino del titolo del saggio di Burnham nell’originale The Managerial revolution, tradotto in italiano “La rivoluzione dei tecnici”, in assenza di un vocabolo che rendesse il significato innovativo del termine usato dall’Autore.

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come quella che può derivare da una azione, di iniziativa interna o esterna, di accertamento

di responsabilità, o indiretta come quelle che derivano dalle reazioni dell’opinione pubblica

o dal consenso politico-elettorale. Se le regole d’ingaggio sono diverse, gli strumenti

adoperati dal dirigente d’azienda o dal dirigente pubblico possono essere comuni o simili,

perché derivati dalla generalizzazione delle esperienze di successo nella organizzazione che

insegnano come gestire un conflitto in un gruppo di lavoro, come sviluppare un sistema

efficace di comunicazioni interne o esterne, come utilizzare la leva dell’apprendimento

organizzativo, ecc.

Possiamo dire, utilizzando alcune delle variabili analizzate da Parsons (1965), che

l’azione del dirigente pubblico è orientata in senso universalistico e alla comunità, mentre

l’azione del dirigente d’azienda è orientata in senso particolaristico e al sé organizzativo.

Ancora: l’azione del dirigente d’azienda è orientata in senso strumentale: gli “altri” entrano

nel suo processo decisionale come strumenti per raggiungere il suo scopo-risultato: sono

“consumatori”, sono “fonti di reddito”, sono “fornitori di risorse” (lavoro, segmenti del

processo tecnico-produttivo, materie prime), tutt’al più, “compartecipi” nei programmi di

promozione o di fidelizzazione.

L’azione del dirigente pubblico è orientata “finalisticamente”: gli “altri” entrano nel

suo processo decisionale come “scopo ultimo”: sono cittadini da tutelare nelle loro relazioni

reciproche, sono cittadini che hanno bisogni riconosciuti e protetti da soddisfare, sono

cittadini titolari della capacità di legittimazione del sistema pubblico.

Vi è una tensione tra garanzia ed efficienza/efficacia che è propria della missione di

una organizzazione pubblica e di cui il dirigente deve farsi carico assumendone anche i

rischi; la sua essenza consiste nel fatto che “gli ordinamenti democratici consapevolmente

sacrificano una quota di efficienza/efficacia in nome della salvaguardia di interessi e valori

che non attengono alla sfera economica” (D’ORTA, 2002, 8). Ma nello stesso tempo i

dirigenti, chiamati a un comportamento responsive nei confronti della domanda sociale

espressa dai cittadini, sono sfidati a camminare sullo stretto sentiero delimitato da regole

formali e generali da una parte e da bisogni reali e specifici dall’altra. La trasposizione di

modelli d’intervento ispirati alle logiche d’impresa è più facile in organizzazioni come

quelle afferenti alle autonomie locali o ad alcuni enti pubblici non economici che

gestiscono direttamente servizi e offrono prestazioni; diventa certamente più difficile in

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amministrazioni centrali che hanno prevalentemente funzioni di indirizzo e di

coordinamento che riposano su sistemi di preferenza fortemente finalistici.

Naturalmente queste categorie non sono rigide, ma dipendono dalle condizioni di

contesto e dallo stadio di sviluppo e di diffusione dei valori di socialità: un’azienda

pubblica ospedaliera o una università possono essere costrette a coniugare esigenze di

socialità o di sviluppo scientifico con esigenze di economicità per posizionarsi

competitivamente nel “mercato pubblico”; mentre, viceversa, una impresa può cercare,

magari proprio per le stesse esigenze competitive, di operare nella logica dell’etica degli

affari o garantendo sensibilità ambientale.

E’ uno spazio aperto, quello della possibile convergenza tra ruolo del dirigente

pubblico e ruolo del manager, su cui potranno influire le eventuali esperienze di mobilità e

scambio tra pubblica amministrazione e mondo delle imprese, sempre che mobilità e

scambio avvengano nei due sensi e che prendano le mosse dalla netta consapevolezza delle

differenze di partenza. L’esperienza insegna, almeno quella italiana che talvolta ha navigato

intorno a immagini caricaturali da paese di “socialismo reale”, che non promette nulla di

buono una situazione in cui il “pubblico” si fa “privato” e il “privato”, “pubblico”.

Si deve riconoscere che il profilo del dirigente pubblico, così come disegnato dalla

normativa e così come si invera nelle condizioni delle organizzazioni amministrative, rivela

caratteri di complessità ben più elevati rispetto al dirigente d’azienda; se è condivisibile ciò

che scriveva Bachelet negli anni settanta “non abbiamo ancora un nuovo modello di

funzionario perché non abbiamo un nuovo modello di amministrazione” 23, questo significa

che lo Stato ha legato questo profilo di dirigente ad una “promessa”, ancora non

completamente mantenuta, quella di “mettergli a disposizione” una nuova

amministrazione; possono i dirigenti con i loro successi personali costruire quello che le

riforme non hanno avuto ancora la capacità di costruire?

6.3. Alcune ulteriori osservazioni sono necessarie prima di passare al commento dei

risultati delle due ricerche che costituiscono l’oggetto principale di questo volume.

La prima osservazione riguarda la “natura” della leadership nella funzione del

dirigente pubblico in ragione dei percorsi di accesso all’esercizio di questa funzione.

23 La citazione è ripresa da Sepe (2002, op.cit.).

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“Il burocrate puro immaginato da Weber è legittimato a dare ordini perché possiede

un’autorità che gli proviene dal suo ruolo formale e dalla presunzione di chi lavora con lui

che egli sia competente, nel doppio significato di dare comandi conformi alla legge e idonei

agli scopi perseguiti dall’organizzazione. Il burocrate puro non chiede né di essere amato

né di essere temuto per i suoi tratti caratteriali” (BONAZZI, 2002, 34). Naturalmente

questo tipo puro esiste soltanto come modello di analisi teorica di un modo di “dirigere”;

nella realtà è influenzato da una pluralità non soltanto di variabili personali e situazionali (il

soggetto si trova a dirigere un ufficio e a occuparsi di una materia di cui non ha esperienza;

nel suo gruppo di lavoro operano persone che, se pure poste in condizione di

subordinazione, ricoprono ruoli autorevoli – rappresentante sindacale, dirigente di partito –

sotto il profilo del capitale informativo e relazionale e concorrenti, sia pure extra-moenia

organizzative, nella definizione strategica degli obiettivi), ma anche dalla fruizione di

forme alternative di legittimazione: il carisma e la tradizione.

Il successo ottenuto dal dirigente nel rafforzamento dei poteri, delle competenze e

delle risorse dell’ufficio cui è preposto, l’essere legato da un forte rapporto fiduciario con il

responsabile politico, il riconoscimento pubblico (extraorganizzativo) del suo patrimonio di

conoscenze e di capacità (la partecipazione, in qualche modo, a circuiti scientifici relativi

alle tematiche affrontate), sono tutte condizioni di rafforzamento carismatico del ruolo del

dirigente.

Anche la tradizione può intervenire a caratterizzare il ruolo del dirigente; anche

quando la riforma della organizzazione amministrativa ha abolito o attenuato il vincolo

gerarchico e i suoi simboli 24, l’abitudine a “non discutere” le direttive del “capo” (o,

addirittura, a subirne l’influenza anche al di là dei problemi strettamente lavorativi) può

essere (oltre che una comoda scorciatoia suggerita dal “quieto vivere”) il riflesso della

tradizione consolidata del modello burocratico.

I percorsi di accesso alla posizione dirigenziale possono essere – quale che sia la

modalità formale che li caratterizza – diversi e diversamente influenzare l’esercizio della

funzione. Il dirigente può divenire tale in forza della sua appartenenza a un determinato

gruppo sociale 25, può avere acquisito la sua posizione iniziale (dipendente pubblico) o la

24 Pensiamo all’uso (e all’abuso) del titolo di “Eccellenza”.

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sua posizione attuale (dirigente) per effetto della pratica tradizionale (tanto deprecata

quanto diffusa) della raccomandazione, può, infine, essersi avvantaggiato di una

socializzazione anticipatoria, perché nato in una famiglia di “burocrati” e, quindi, “vocato”

a scegliere tale professione e in possesso di codici culturali e linguistici coerenti.

Ovviamente, può aver raggiunto quella posizione per merito, anche se va ricordato

che la razionalità meritocratica può intrecciarsi anche con le altre modalità acquisitive.

Come si declina in una moderna organizzazione di lavoro il rapporto tra

professionalità e autonomia? Lasciamo da parte le considerazioni già evidenziate rispetto al

rapporto tra politica e amministrazione; il problema nasce – e non soltanto per le posizioni

dirigenziali - dal peso crescente della tecnologia, dalla interdipendenza tra posizioni

lavorative in senso sia verticale che orizzontale, dalla pratica sempre più diffusa del

monitoraggio. Anche se questo si verifica soprattutto per le professioni tecniche e ad alto

rischio, anche nella professione del dirigente sempre più orientata al risultato il

monitoraggio continuo implica, se non una diminuzione, certamente una regolazione della

attività del dirigente, attraverso la proceduralizzazione (non in senso giuridico o, almeno,

nel senso imposto dalla normazione tecnica) delle attività di gestione da lui seguite. D’altra

parte, questo sta avvenendo anche nella organizzazione delle “grandi professioni liberali”:

uno studio legale o uno studio medico sono sempre più organizzati secondo diversi livelli

di responsabilità, con funzioni di indirizzo e di controllo che attraversano i tradizionali

ambiti di autonomia professionale.

Infine, l’amministrazione per obiettivi attribuisce al ruolo dirigenziale due modalità

di intervento: la delega e il controllo. La caratteristica principale del MBO (Management by

Objectives) è quella della stretta correlazione e interdipendenza tra le strutture

organizzative, le persone e le risorse.

Il risultato non è mai riconducibile a un solo fattore, a un solo soggetto. Un buon

dirigente nell’amministrazione per obiettivi deve riuscire a promuovere la partecipazione

attiva e critica di tutti gli appartenenti all’unità organizzativa, mobilitandoli su obiettivi

definiti e raggiungibili.

La delega consiste nel deferimento ad altri della responsabilità di svolgere

determinati compiti e di ottenere determinati risultati: un buon dirigente si impegna nella 25 O, addirittura, familiare: è il caso di quelle organizzazioni pubbliche nelle quali, ancora nel recente passato, i sindacati erano riusciti ad affermare la prassi ( talvolta anche il principio )della riserva di una quota di

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chiarificazione attenta degli obiettivi da conseguire e nella esposizione delle ragioni per cui

sono stati scelti quegli obiettivi, evita qualsiasi sovrapposizione “delegante/delegato”,

esercita la delega come una modalità ordinaria – e non episodica – di lavoro.

Il controllo non deve essere esercitato in modo fiscale, ma come aiuto concordato

per la verifica dell’andamento del lavoro e per il suggerimento di alternative propositive.

7. Conclusioni Se le promesse pubbliche di attribuire al dirigente poteri e risorse che egli possa

esercitare e gestire in piena autonomia sono rimaste sull’incerto terreno della retorica, pure

hanno generato aspettative, hanno sollecitato investimenti personali, hanno influenzato il

modo di lavorare dei dipendenti pubblici, hanno influito sulla organizzazione di singole

unità amministrative, almeno in quelle situazioni in cui una serie di fattori si sono

combinati virtuosamente: il prestigio della missione della organizzazione amministrativa, la

presenza di culture specialistiche, l’inserimento di soggetti provenienti da canali di

reclutamento e selezione alternativi rispetto a quelli tradizionali.

La domanda a cui la ricerca empirica promossa dalla Scuola Superiore della

Pubblica Amministrazione è chiamata a rispondere riguarda la possibilità che esistano

“luoghi di vitalità amministrativa” e “percorsi dirigenziali di successo”, pur in presenza di

condizioni normative e organizzative non diverse dalla generalità delle organizzazioni della

P.A.

Le amministrazioni in cui la ricerca coordinata da Antonio Cocozza ha cercato di

individuare “luoghi di vitalità dirigenziale” e di esplorare la presenza di nuove modalità di

“fare dirigenza” , il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), il

Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale

(INPS), sono state scelte proprio perché oggetto di grandi trasformazioni istituzionali e

organizzative e, quindi, chiamate a una sfida che non poteva non attivare tutte le risorse

interne disponibili ( scontrandosi, nello stesso tempo, anche con le resistenze dei

tradizionali equilibri organizzativi e di poteri.

Il D.lgs. 300/1999, nell’ambito della complessiva riforma dei Ministeri, ha

promosso il riordino istituzionale del MIUR e del Ministero dell’Economia e delle Finanze,

assunzioni a figli e familiari di dipendenti.

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inglobando nel primo caso le competenze dell’ex Ministero dell’Università e della Ricerca

Scientifica e Tecnologica e, nel secondo caso, quelle del Ministero del Tesoro, del

Ministero del Bilancio e del Ministero delle Finanze. Ma il cambiamento è andato ben

oltre, toccando connotazioni istituzionali e organizzative fortemente radicate nella storia di

ciascuna delle due Amministrazioni. La tradizionale centralizzazione dell’Amministrazione

dell’Istruzione (forse quella più storicamente legata al modello napoleonico) ha ceduto il

passo alla definizione di una diverso rapporto tra strutture di gestione del servizio e

strutture erogatrici del medesimo, con una forte distinzione tra i due tracciati di cultura

professionale in esse impegnate e con l’affermazione del principio dell’autonomia delle

istituzioni scolastiche e universitarie. Un analogo processo di trasformazione istituzionale

ha caratterizzato il Ministero dell’Economia e delle Finanze, snellito nella sua

organizzazione centrale e articolato – come una “amministrazione a rete” – in quattro

Agenzie (Entrate, Dogane, Territorio e Demanio), strutture modellate in senso latamente

privatistico, dotate di personalità pubblica e di piena autonomia regolamentare,

organizzativa, finanziaria, ecc.

L’INPS è stato caratterizzato da un suo autonomo processo di cambiamento

organizzativo che ha avuto il suo punto d’arrivo nel Nuovo Regolamento d’Organizzazione,

approvato nel 2000: i punti significativi del cambiamento organizzativo sono identificabili

nel decentramento decisionale, nella sperimentazione – prima presso alcune sedi

periferiche, poi nella generalità delle strutture dell’Istituto – di una organizzazione per

processi e nel sistematico ricorso all’intervento formativo come sostegno al processo di

cambiamento organizzativo.

Si potranno leggere successivamente e in dettaglio i risultati delle rilevazioni

condotte. Mi preme, però, raccordandomi alle considerazioni avanzate in precedenza,

cercare di comprendere il peso che le variabili assunte come ipotesi della ricerca

(consapevolezza della missione; specifico contributo delle culture professionali presenti

nell’amministrazione; formazione come supporto al cambiamento istituzionale e

organizzativo; prevalenza di uno stile di leadership partecipativa) hanno avuto in concreto

nello svolgimento efficace e coerente del cambiamento. Non mi pare che il peso delle

quattro variabili, prese sia singolarmente che complessivamente, sia stato il medesimo nelle

tre situazioni analizzate.

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Mentre appaiono comuni nelle risposte da parte dei soggetti di tutte e tre le

amministrazioni sia la consapevolezza della maggior forza strategica assunta, con il nuovo

ordinamento istituzionale, dalla mission dell’Amministrazione, sia il rilievo nella nuova

organizzazione per “funzioni/prodotti” delle specifiche culture professionali (con la

distinzione tra gestione ed erogazione del servizio e con il riconoscimento del “valore

aggiunto” della autonomia scolastica da una parte e con l’agentificazione dall’altra) si

rileva un significativo scarto, tra le tre amministrazioni, in merito alle variabili di carattere

organizzativo (il ruolo attribuito alla formazione del personale e la tipologia della

leadership).

In questa direzione, l’Amministrazione che sembra, dai risultati dell’indagine, aver

compiuto più significativi passi avanti è l’INPS. Non è facile affermare se a questo risultato

la più importante amministrazione previdenziale italiana sia giunta spinta dalla sua

disperante situazione finanziaria oppure per il fatto di essere per la sua funzione

istituzionale in confronto quotidiano con una pluralità di “clienti” (i lavoratori e le famiglie

destinatarie delle prestazioni previdenziali e assistenziali, i datori di lavoro contribuenti) e

con le loro potenti rappresentanze associative oppure per una felice stagione di leadership

istituzionale pronta a giocare il proprio prestigio imprenditoriale e politico nella

riorganizzazione produttiva dell’istituto (o, piuttosto, per una combinazione virtuosa di tutti

questi fattori).

In tutte le Amministrazioni analizzate, comunque, si rileva la consapevolezza che

“qualcosa sta cambiando” e che il dirigente (ma direi, con esso, tutto il personale) si trovi,

bene o male, al centro di questo cambiamento, probabilmente sopportandone il peso più

forte e immediato. Da qui l’esigenza di saperne di più: è destino di ogni ricerca –

certamente di quelle sociologiche – di concludersi più con domande che con risposte. Ad

esempio, per rifarmi alla frase di Weick citata dall’Autore nelle ultime righe del suo saggio,

viene da chiedersi quanti tra gli operatori della pubblica amministrazione sono ancora

“tommasianamente” pronti a credere al cambiamento quando lo vedranno e quanti, invece,

sono già capaci di vederlo perché ci credono!

Forse la ricerca sui “luoghi di vitalità dirigenziale”, rimanendo su un piano di lettura

generale della realtà empirica considerata, non ci offre tutti gli elementi per comprendere se

e come, all’interno delle tre amministrazioni analizzate il lavoro del dirigente sia riuscito,

nello specifico di una determinata e limitata realtà organizzativa, a interagire positivamente

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con i fattori di vitalità presenti, promuovendo, attraverso il coinvolgimento emozionale

oltre che culturale e professionale dei soggetti che con lui collaborano, l’apprendimento

attivo della missione, dei valori, delle strategie, degli obiettivi della organizzazione e

dimostrando quella capacità di “fare squadra” che costituisce la qualità principale del

leader, ma che, nello stesso tempo, è il risultato complesso (verrebbe da dire “misterioso”,

certamente “originale”) della messa a valore delle risorse potenziali della organizzazione.

Queste osservazioni chiamano prepotentemente in causa, oltre alle competenze distintive

della funzione professionale del dirigente pubblico, quelle “metacompetenze” che fanno

riferimento alla soggettività della persona investita dal ruolo dirigenziale, che derivano dal

suo “vissuto” personale e professionale, dal suo capitale relazionale e che tanto più possono

essere fattori di successo per la sua affermazione professionale e per la vitalità della

organizzazione quanto più essa ne ha consapevolezza.

Ci soccorrono su questo punto i risultati offerti dalla ricerca su “i percorsi dei

dirigenti di successo”, coordinata da Carla Chiara Santarsiero e presentata nell’ultimo

capitolo di questo volume.

La soggettività del dirigente è il coerente “oggetto” del metodo autobiografico;

naturalmente questo metodo sconta il fatto che la ricostruzione del percorso sia espressa

attraverso il ricorso, più o meno consapevole – in fondo il metodo chiede al soggetto di

“rappresentarsi” -, ad alcune precise “funzioni narrative” : la chiamata, l’incontro, la sfida,

l’happy end. Per usare le stesse parole di uno degli Autori del rapporto: “tutti gli intervistati

hanno espressamente detto che la loro via è cambiata con l’entrata nel contesto

professionale delle amministrazioni pubbliche e si è plasmata su di esse”; “Quasi tutti i

dirigenti intervistati,…con diverse sfaccettature, riconoscono un ruolo molto forte e

determinante ad alcune figure <magistrali> che hanno insegnato loro il mestiere soprattutto

attraverso l’esempio e la vicinanza”; “le invidie dei colleghi…le ingerenze politiche…le

incomprensioni o l’incompetenza dei superiori…il mancato riconoscimento della propria

professionalità”; e, usando questa volta le parole stesse degli intervistati: “Ho superato la

crisi, con pazienza e andando avanti nel convincimento dell’esercizio di un’azione svolta in

aderenza ai miei principi”, “Grazie all’entusiasmo e alla fiducia dei collaboratori ho

superato tutte le fasi difficili” (come si può notare c’è nelle risposte più mature la

consapevolezza che il “successo” è un processo collettivo), “Mi hanno favorito la grinta, il

fortissimo senso del dovere, l’attaccamento al lavoro e l’aver studiato molto”; “Posso dire

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che quando abbiamo progettato il riassetto organizzativo, abbiamo raggiunto un grande

successo”; “Poi conta anche essere determinato, e direi anche non chiudere mai la porta in

faccia. Per me conta molto la disponibilità, che per me è stata una via al successo”.

Il riconoscere il debito che le “storie di vita” assumono nei confronti di queste

funzioni narrative non è diminuire la validità del dato di ricerca; ci aiuta viceversa a

comprendere come il soggetto intervistato, giunto “in cima alla scala” o, comunque, in

cammino veloce verso il traguardo della “eccellenza riconosciuta” si “volta” a riguardare il

cammino percorso, le sue luci e le sue ombre, i vincoli incontrati e le risorse scoperte e

utilizzate. E ci aiuta a valutarne la coerenza con quanto egli, tratto lo sguardo da sé e

rifocalizzandolo verso la struttura amministrativa e il suo processo di trasformazione,

manifesta in opinioni e giudizi sulle condizioni oggettive in cui opera. Talvolta, anzi forse

spesso, matura il convincimento che vi sia una felice contraddizione tra una situazione

amministrativa statica su cui le “promesse pubbliche” di riforma tardano a incidere e un

“successo privato” che il soggetto è riuscito comunque a raggiungere; forse la realtà della

pubblica amministrazione “nasconde” molte più “isole felici” di quanto la sua immagine

stereotipata non accrediti; ma “isole” appunto e non quel generalizzato “migliore dei mondi

possibili” che la retorica panglossiana dei riformatori ci addita.

Le storie di vita, infine, oltre a farci conoscere il sé che si è costruito nel percorso

personale e professionale, ci offrono indicazioni sul “sé generalizzato” su cui ogni soggetto

si rispecchia e che, nello stesso tempo, riflette. L’elemento che caratterizza trasversalmente

tutte le autobiografie è il forte “senso di appartenenza allo Stato”: le modalità privatistiche

introdotte nella organizzazione pubblica sono riconosciute soltanto come strumenti utili che

non possono e non debbono far ignorare il valore etico della missione pubblica. E un altro

elemento che appare confortante nelle espressioni di buona parte degli intervistati è la

riscoperta dell’orgoglio amministrativo, riferito non soltanto al sé che parla, ma anche alla

organizzazione in cui egli opera. L’orgoglio amministrativo si contrappone a quel

pessimismo antiburocratico che, come ho osservato all’inizio, dall’ambiente esterno è

filtrato negli atteggiamenti degli stessi operatori amministrativi. E diventa fattore

propulsivo della “carriera morale”26 del dirigente pubblico.

26 Il concetto di “carriera morale” è stato sviluppato da Dickens nella analisi della morfologia sociale urbana (1992).

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Questo significa, come osserva Carla Chiara Santarsiero, “che c’è un mercato <non-

economico> delle competenze che le remunera in termini non soltanto economici, ma in

termini simbolici, di prestigio, di approvazione e valutazione sociale”. Il fatto che questo

manifestarsi di una nuova e più positiva immagine professionale di sé venga da soggetti che

in qualche modo “ce l’hanno fatta” non ne diminuisce l’importanza.

La rivendicazione del successo professionale come possibilità soggettiva, al di là

della permanenza o meno di una criticità dell’organizzazione amministrativa, può attivare

una condizione di competitività all’interno della pubblica amministrazione, selezionando e

incentivando forme di leadership creativa con effetti diffusivi in una organizzazione che

sempre meno riesce a mantenersi quietamente “burocratica”, anche se non ancora riesce a

diventare “manageriale” (e, per le ragioni esposte in precedenza, non è detto che sia proprio

questo l’approdo finale di una amministrazione pubblica “modernizzata”.

“Che fare?” si chiedono alla fine i due Autori dei rapporti di ricerca o, più

specificatamente, quali interventi sulla organizzazione sono suggeriti dai risultati delle

ricerche. Comune è l’accento posto sul tema della formazione: formazione per i dirigenti,

formazione che i dirigenti possono utilizzare come occasione strategica per la condivisione

delle esperienze innovative e di successo, per se stessi e per i propri collaboratori. Bisogna

intendersi però: vanno prese le distanze rispetto a gran parte delle iniziative di formazione

per la pubblica amministrazione che in misura sempre più massiccia sono state immesse (e

- perché no? - abbiamo immesso) nel “mercato” in questi ultimi anni. Servono a poco le

attività formative offerte come placebo per affrontare i disagi e le ansie provocate dai

cambiamenti istituzionali e organizzativi o come fiore all’occhiello di una ostentata volontà

di modernizzazione; e nemmeno gli interventi spot rivolti a offrire risposte “prefabbricate”

a bisogni teoricamente individuati o strumenti utili ad affrontare aspetti particolari e

contingenti del lavoro pubblico (che possono essere certamente, almeno questi ultimi,

necessari a integrare e ad accelerare le iniziative di autoaggiornamento). Occorre passare da

una logica di offerta formativa di tipo quantitativo a una logica di tipo qualitativo: muoversi

verso la costruzione di un sistema strutturato di formazione continua, che integri secondo

una comune strategia e con una articolata, anche se flessibile, distinzione di funzioni e di

tempi d’intervento, la pluralità dei soggetti che operano per la formazione del settore

pubblico (le stesse Pubbliche Amministrazioni, le Scuole Pubbliche di formazione, le

Università, gli Istituti privati di formazione professionale avanzata); assicurare lo scambio

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coerente e trasparente tra “crediti formativi” acquisiti dal personale pubblico e carriere

professionali; trovare modalità di “fare formazione” capaci di valorizzare il patrimonio di

conoscenze e di esperienze dei partecipanti e di perseguire obiettivi complessi di sviluppo

personale/professionale (sapere, saper fare, saper essere, saper sentire).

Nelle direttive, successivamente emanate, dai ministri della funzione pubblica si

può identificare una linea costante su cui non si può non manifestare un ovvio consenso:

l’affermazione della esigenza di una buona formazione per un buona organizzazione. La

proposizione rischia di essere volenterosamente enfatizzata: una buona formazione produce

una buona organizzazione. Chi si occupa di formazione è – o almeno dovrebbe esserlo –

sufficientemente vaccinato contro queste ideologie “onnipotenti” della formazione.

Proverei, provocatoriamente, a rovesciare la proposizione: soltanto una buona

organizzazione fa una buona formazione. Soltanto una organizzazione efficace che ha una

visione lucida del suo “essere” e del suo “divenire”, che ha consapevolezza critica dei suoi

punti di forza e dei suoi punti di debolezza, che sa “parlare” a se stessa e sa “ascoltarsi”,

soltanto questa organizzazione sa chiedere formazione; che si traduce in sapere perché si

chiede formazione, a chi si chiede, come chiederla e soprattutto come valutarne,

nell’immediato e nel medio periodo, l’impatto nei processi di lavoro. Questa

organizzazione coinvolge stabilmente la formazione come “partner evolutivo” attraverso

cui produrre sviluppo organizzativo.

Il nuovo dirigente pubblico, se non vuole restare un protagonista solitario sulla via

del successo, deve essere capace di “portare” la formazione nel cuore stesso del suo agire

dirigenziale.

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