PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA – BARI RITIRO DAVVENTO DICEMBRE 2012.

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L’AVVENTURA DELLA SOLITUDINE PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA – BARI RITIRO D’AVVENTO DICEMBRE 2012

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L’AVVENTURA DELLA SOLITUDINE

PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA

OPERA DON GUANELLA – BARI

RITIRO D’AVVENTODICEMBRE 2012

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Anche nella solitudine non dire e non fare nulla di biasimevole.

Impara a rispettare te stesso molto più davanti alla tua coscienza che davanti agli

altri.Democrito

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IntroduzioneSolitudine: una parola che abitualmente suona co me

negativa, che fa paura, perché rimanda all’imma gine:

o di una landa desolata, o a una situazione chiusa, di

isolamento, o addirittura di reclusione in

prigione. Quan do si afferma che

qualcuno è solo, lo si dice con un sentimento di pena, di

compassione.

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Sembra che le parole messe in bocca a Dio dopo la creazione di Ada mo: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18), ri suonino

come un giudizio negativo per tutta la vita, fino alla morte, anch’essa da affrontarsi in solitudine, perché se si vive insieme

non si può però morire insie me...

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Essere radicalmente soli significa esistere per nessuno. È

così che la solitudine ci minaccia e

contrad dice il nostro, il mio

essere per l’altro, in attesa che

l’altro sia per me.

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Gabriel Marcel è arrivato a confessare: «Non c’è che una sofferenza: l’essere solo», ben sapendo che molti uomini e molte donne sono condannati a subire que sta situazione.

E Victor Hugo ha scritto lapidariamente: «L’inferno è tutto in questa parola: solitudine».

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Quella della solitudine è una condizione che si esprime attra verso una vasta gamma di manifestazioni esteriori, dal mutismo al

grido straziante.

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La solitudine può infatti portare a chiudersi sempre di più in se stessi, alla paralisi di qualsiasi uscita da sé,

giungendo a inibire persino il pianto e le lacrime.

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Altre volte, invece, la so litudine genera un

lamento, spesso pieno di rabbia,

abitato da bestemmie e maledizioni nei

confronti degli al tri, i quali tengono chiusi gli occhi, gli orecchi, le ma ni, la bocca ai

nostri bisogni.

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Le solitudini negative

Più che di solitudine, dovremmo però

parlare di so litudini, al plurale, perché tante

sono le forme in cui la solitudine può

apparire, e di fatto appare, nelle no stre

vite.

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Innanzitutto c’è una solitudine da leggere come una sorta di destino, cioè quella solitudine in cui si precipita a un certo punto

della vita, quando la mor te ci strappa chi ci permetteva di non essere soli.

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Que sta è, per esempio, la solitudine dell’orfano che, perdendo la madre o il padre, non ha più accanto a sé

quella presenza che era la carne, la vita da cui era ve nuto, non ha più quel riferimento al “tu” che l’aveva

accompagnato nella sua venuta al mondo.  

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Un tempo la solitudine dell’orfano era un tema

della letteratura, soprattutto quella per i

ragazzi, un tema attestato in modo quasi ossessivo;

oggi invece è rimosso, come se non si registrasse

più la morte di qualche genitore, che determina per il figlio, bambino o

adolescente, una si tuazione di triste

solitudine.

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Solitudine legata a una perdita è

anche quella di chi è privato del suo amante/amato,

nelle diverse unioni oggi attestate.

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La perdita del partner nella

relazione d’amore

provoca un abisso, un vuoto senza confini e senza tempo.

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Questa è la solitudine in cui ci fa piom bare la vita, con i suoi eventi di

separazione, di abbandono e di morte.

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Forse tale forma di solitudine è la più dolorosa, perché è una “fine”: fine dell’amore vissuto, fine della relazione, fine della vita condivisa, fine di una

comunicazione che coinvolgeva totalmen te i partner.

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È una solitudine che solo il tempo può guarire e

trasformare, ma che resta come una ferita sempre aperta.

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Patrizia Valduga ha cantato questa solitudine, rivolgendosi al suo “infinitamente amato” strappatogli dalla morte:

«Da quanti giorni sono sola, amore!/ Quanto mi manchi, vita alla mia vita!»1.

1. PATRIZIA VALDUGA, Libro delle laudi, Einaudi, Torino 2012, p. 19.

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Ed Eugenio Montale scriveva alla morte della moglie: «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale /

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino»2.

2. EUGENIO MONTALE, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1990, p. 309.

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Sì, in questa solitudine-destino

si può solo gemere, piange re,

fare lamento: il pianto è l’unica

cosa necessaria e sembra anche

l’unica medicina possibile.

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Un’altra solitudine negativa è quella dell’isolamen to. Accade talvolta, spesso a partire

da inizi silenziosi e nascosti, di trovarsi soli, isolati, perché tutti stanno lontano, perché non si

è più vicini a nessuno.

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La ma nifestazione estrema di questa

solitudine è la prigio ne, dove si è

gettati lontano dalla vita, dagli

affetti, dallo scorrere

quotidiano dell’esistenza.

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Oggi però di fatto molti approdano a tale isolamento anche senza giungere a questa situazione limite: vi giungono soprat tutto a

causa di “un mondo in fuga” (Anthony Giddens), di una società segnata dalla velocizzazione, in cui il singolo non ha più tempo

per dare agli altri la propria presenza.

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Sembra impossibile, ma questa lontananza nasce dai figli stessi, dai propri cari, e

l’estraneità si afferma perché i legami si mostrano fragili e sono facilmente allentati

o persino troncati.

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È lo stato in cui vengono a trovarsi molti anziani, pensionati, invalidi e malati, abbandonati in parte o

totalmente da quanti, impegnati a vivere, non hanno più cura di quel li che non ce la fanno a “restare nella vita”, a

“correre” come loro.

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Questi anziani sono - si potrebbe dire - agli arresti

domiciliari, perché impediti di muoversi co me un tempo dalla loro condizione fisica e

dunque, in un certo senso, paralizzati: le loro giornate e

le loro notti sono piene di pensieri depressivi, di fantasmi spaventosi, di

angosce, che affaticano e non permetto no neppure il

sonno.

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È la solitudine di chi sta alla

finestra, cercando di sbirciare lo

spettacolo della vita, che continua senza curarsi di chi ne è escluso.

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A volte in questa solitudine nascono il distacco, la presa di distanza che fa desiderare di

andarsene, il rancore, la vi sione cinica sulla propria vita, riletta come interamen te negativa...

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C’è poi la solitudine di chi

vive il sentimento dell’e straneità:

questo è soprattutto un

malessere psicologi co e intellettuale.

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Tale solitudine è più rara ed è un morbo che affligge persone in possesso di una certa educazione, di una certa cultura; non si tratta di abu lia o di mancanza di interessi, ma di rifiuto di ciò che sta intorno, dell’aria che si respira.

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È un sentire estra nei gli altri, “la gente”, senza giungere a sentimenti di disprezzo, ma prendendo sul serio la presunzione, l’i gnavia, l’intontimento,

la stupidità, l’inconsistenza del la gente.

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Se dovessimo sintetizzare i pensieri che ani mano chi vive questo sentimento, potremmo esprimer li così: “La gente non mi dice

nulla, non mi dà motivi di interesse; di essa vedo l’omologazione crescente e la condizione alienata ai vecchi e ai nuovi idoli; a essa mi sento estraneo, perché vengo da un’altra cultura, sono segnato

da un’altra appartenenza...”.

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Non si condanni subito questa posizione come elitaria o aristocratica,

perché ci sono ore o stagioni in cui la gente ci

può apparire solo estranea:

0per la sua mancanza di responsabilità

personale, 0 per le sue sma nie di

evasione, 0 per la sua cecità di

fronte al male.

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Se però questa forma di solitudine è coltivata con costan za, fino a diventare

una sorta di seconda pelle, allora essa provoca un

ritirarsi che non solo finisce per rivelarsi come

isolamento ma che può diventare autoreferenzialità,

rifiuto dell’alterità e, di conseguenza, impossibilità

di comunione.

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Questa solitudine-estraneità, fa cilmente nutrita dall’osservazione quotidiana e concreta della gente e del mondo, è molto pericolosa: fa inari dire in se stessi quella fonte di vita che è sempre fonte per tutti e va riconosciuta come destinata a tutti, per ché tutti, anche i peggiori, vi si abbeverano, fosse pu re in quantità minima. Questa,

in una parola, è la solitudine di chi pensa che gli altri siano l’inferno3, sia no il disgusto...

3. Cfr. JEAN PAUL SARTRE, “L’inferno sono gli altri” (cfr. J. P. Sartre, Porta chiusa, sce na v, Bompiani, Milano 1948, Pp. 238).

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Certo, le solitudini negative sono tante quante le persone che le vivono. Mi sembra però che quelle esem plificate costituiscano

delle costellazioni in cui ciascu no può collocare la propria situazione di sofferenza.