Parlando con Sartre

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John Gerassi Parlando con Sartre Conversazioni e dibattiti al caffè Traduzione di Raoul Kirchmayr

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John Gerassi

Parlando con SartreConversazioni e dibattiti al caffè

Traduzione di Raoul Kirchmayr

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www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore

© 2009 by Yale University © il Saggiatore S.p.A., Milano 2011 Titolo originale: Talking with Sartre

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Parlando con Sartre

A Catherine Yelloz

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Sommario

Prefazione 9

Novembre 1970 17

Dicembre 1970 51

Gennaio 1971 78

Marzo 1971 92

Aprile 1971 116

Maggio 1971 131

Ottobre 1971 137

Dicembre 1971 174

Gennaio 1972 198

Febbraio 1972 220

Marzo 1972 231

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Aprile 1972 239

Maggio 1972 250

Giugno 1972 285

Ottobre 1972 297

Novembre 1972 315

Maggio 1973 323

Giugno 1973 341

Novembre 1973 352

Novembre 1974 361

Commiato 374

Ringraziamenti 379

Note 380

Indice analitico 421

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Prefazione

Quando il novantenne filosofo inglese Bertrand Russell inaugurò il Tri-bunale internazionale contro i crimini di guerra, nel 1966 – fondamen-talmente un’arma propagandistica per investigare e, inevitabilmente, condannare gli Stati Uniti per la loro aggressione al popolo vietnamita – si accorse che era troppo vecchio e debole per operare in qualità di pre-sidente. Così chiese al più importante romanziere, drammaturgo, filosofo e attivista del secolo, Jean-Paul Sartre, di assumerne l’incarico. Ma Sartre rifiutò. Fu allora che Russell mi chiese di intervenire.

A New York, come responsabile della Fondazione per la pace Ber-trand Russell, presentai diversi suggerimenti riguardo al tribunale, e Rus-sell era al corrente del fatto che conoscessi Sartre molto bene. In parte perché, prima della Seconda guerra mondiale, mio padre, il pittore spa-gnolo Fernando Gerassi, era stato il migliore amico di Sartre e questi aveva scritto su di lui nella sua trilogia I cammini della libertà. «Gomez», come Sartre lo aveva chiamato, è uno dei personaggi chiave nel roman-zo: abbandona moglie e figlio per andare a combattere per la Repubblica spagnola durante la guerra civile del 1936-39, e diventa generale, l’ulti-mo alto ufficiale alla difesa di Barcellona, cosa che d’altronde accadde veramente.

Però per il Sartre dell’epoca ciò non era motivo di encomio: nulla do-veva interferire con l’impresa artistica, insisteva. Andando a combattere il fascismo, Fernando aveva tradito il suo impegno artistico. E Sartre mi provocò spesso chiedendomi le ragioni per le quali mio padre fosse an-

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dato a combattere, anche quando sapeva che la Repubblica sarebbe stata sconfitta. Nel romanzo, Sartre fa dire a mio padre: «Non combatti il fa-scismo perché vincerai. Combatti il fascismo perché è fascista». Una per-fetta spiegazione logica per qualsiasi animale politico. Pure per il Sartre di qualche anno dopo, ma non allora.

Inoltre, mia madre, «Sarah» nella trilogia, era stata una delle amiche più intime di Simone de Beauvoir, quando entrambe erano studentesse alla Sorbona. Fu lei a far conoscere Sartre al suo amante, colui che sareb-be diventato mio padre. Il Castoro (come Simone era soprannominata) e mia madre continuarono la loro amicizia dopo la guerra. De Beauvoir stava sempre con noi quando veniva negli Stati Uniti. Così, ogniqualvol-ta andavo in Francia, era naturale che passassi del tempo con Sartre e de Beauvoir.

Avevo le mie buone ragioni per passare del tempo con loro. Stavo scrivendo la mia tesi di dottorato alla Columbia University, dapprima sull’estetica di Sartre, poi, dopo che l’argomento aveva attirato troppe obiezioni assurde da parte del dipartimento di Filosofia, sullo scontro tra Sartre e Albert Camus. Così continuai a rivolgere a Sartre delle doman-de, cosa che pareva piacergli, benché inevitabilmente discutessimo più di politica che di estetica o di Camus (in verità colsi l’occasione per cambia-re l’argomento della tesi e scriverne una sulla teoria rivoluzionaria per il mio dottorato alla London School of Economics).

Fu in una di queste discussioni, al piano superiore del bar Falstaff, vi-cino a boulevard Montparnasse, che mi comportai da teppista saccente. Avevo ventitré anni. Con arroganza dissi a Sartre che non sarebbe stato in grado di unire la sua filosofia, l’esistenzialismo, al marxismo, cosa su cui d’altronde si stava impegnando strenuamente, se non avesse supera-to la sua idea di «progetto umano», che costituiva il nocciolo della sua fi-losofia della libertà. Quando alla fine si disse d’accordo e abbandonò il marxismo, mi parve di aver guadagnato la sua fiducia, perlomeno sulle questioni politiche.

Dato che avevo scritto qualche articolo qua e là con molte citazioni di prima mano da Sartre, Russell pensò che mi sarebbe stato facile con-tattarlo di persona. Il 23 dicembre 1966 mi chiamò a New York, mentre stavo decorando l’albero di Natale con Nina, la mia bambina di sei anni. Mi chiese se volevo andare nel Vietnam del Nord per il primo comitato

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di indagine, che sarebbe partito da Parigi il 26 dicembre. Come avrei po-tuto rifiutare? Fu allora che Russell mi chiese se avessi potuto fermarmi a Parigi per provare a convincere Sartre a entrare a far parte del tribuna-le come presidente.

Vidi Sartre quel Natale. Parlammo per circa due ore senza arrivare a niente. Poi alla fine disse: «Va bene, tu hai fatto il tuo dovere. Hai pre-sentato ogni argomento possibile. Ora, da amico, dimmi per quale motivo stai lasciando da sola la tua famiglia a Natale per entrare in questo surro-gato di tribunale e partire per il Vietnam».

«Hai ragione, dal punto di vista politico mondiale non avrà alcu-ne importanza» gli risposi. «Però ci vado perché i vietnamiti sono le vittime. Hanno bisogno di sapere – anche se ciò non fermerà neppu-re una sola bomba americana – che noi siamo con loro, che gente co-me te, Sartre, e Russell e Dave Dellinger,1 stanno dalla loro parte, che sappiamo che gli Stati Uniti sono gli aggressori e che il popolo vietna-mita è la coraggiosa vittima che combatte per la sua libertà. Questa è la ragione per cui ci vado, anche se la stampa americana e inglese, preve-nuta, non spenderà una sola parola per questo, sì, questo surrogato di tribunale.»

Sartre sorrise e poi disse: «D’accordo, è una buona ragione, conta su di me».

Fu quello il momento più bello passato insieme.Poi ce ne furono molti altri, alcuni non così buoni. Nel 1970 non ero

più un giornalista professionista ed ero stato escluso dall’insegnamento universitario negli Stati Uniti a causa delle mie attività contro la guer-ra. Insegnavo all’Università di Parigi viii, Vincennes, e parlavo di poli-tica ogni domenica dopo pranzo con Sartre e de Beauvoir al rumoroso e decadente ristorante stile liberty La Coupole, a Montparnasse, oppu-re al La Palette, più tranquillo, a un isolato di distanza. In quell’occasio-ne, un bifolco maleducato tentò di evitare i camerieri e di avvicinarsi al nostro tavolo per chiedere a Sartre quando avrebbe ripreso a scrivere la sua autobiografia.

Sartre aveva iniziato a raccontare la storia della sua vita in Le parole, ma era arrivato fino all’età di tredici anni. Non aveva intenzione di andare oltre. Alla fine del nostro pranzo, comunque – episodio che ho descritto in Jean-Paul Sartre: Hated Conscience of His Century – avevo accettato di

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scrivere io la sua biografia, e Sartre stese a mano personalmente una let-tera di contratto esclusivo.

Cominciammo le nostre conversazioni per la sua biografia nel novem-bre del 1970 e continuammo a periodi alterni per quattro anni accademi-ci, fino a tutto il 1974, incontrandoci nel suo appartamento ogni venerdì, oltre a numerosi aggiornamenti a intervalli non stabiliti, da quando i legali del sindacato erano riusciti a vincere il mio processo e mi fecero riottene-re il posto nell’accademia americana. Le nostre discussioni spesso toccava-no argomenti scottanti, talvolta in modo così burrascosamente discordante che temetti di non riuscire a portare a termine il progetto.

Una volta, pubblicai un articolo nella prestigiosa rivista annuale fran-cese Obliques, nel quale affermai che la relazione tra mio padre e Sartre si era deteriorata, poiché questi si era sentito estremamente in colpa per non essere stato più attivo durante la guerra di Spagna. Sartre mi urlò che lui non si era mai sentito in colpa per nessuna ragione in tutta la sua vita, e che io non avrei mai capito il vero senso della letteratura. Un’altra volta difesi Charles de Gaulle, allora presidente della Repubblica perché, dis-si, era l’unico leader conservatore al mondo che volesse estromettere gli Stati Uniti dalla nato, essendo il loro scopo quello di dominare il mondo. Mi chiamò più o meno «magnaccia reazionario» come de Gaulle («vous n’allez pas devenir un macreau réac comme lui?»).2 Odiava de Gaulle con una passione rabbiosa, e mi punì il venerdì successivo appiccicando un biglietto sulla porta di casa sul quale c’era scritto: «Devo andare dal den-tista. Credo».

Ma ricomponemmo sempre, o piuttosto ignorammo, i nostri prece-denti dissapori, e continuammo a pranzare assieme ogni domenica, di so-lito in compagnia di de Beauvoir e Catherine, la mia fidanzata. Fu a uno di questi pranzi che trascorsi il peggior momento con Sartre. Per cinque anni avevo vissuto con Catherine, una stupenda, calorosa, simpatetica studentessa che non aveva alcun interesse verso la filosofia di Sartre. Pe-rò amava prenderlo in giro per il suo appetito straordinario (benché non ingrassasse mai) e discuteva con lui sul cinema attuale. Una volta, stava-mo tutti nella casa vicino a Nîmes, nel sud della Francia, che Sartre aveva acquistato per Arlette, sua figlia adottiva. Arlette e io andammo a fare ac-quisti, e quando ritornammo trovammo Sartre e Catherine a quattro zam-pe che guardavano per terra.

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«Sai» mi spiegò Sartre con soddisfazione «che le formiche si salu-tano ogni volta l’un l’altra urtandosi con la testa e poi passano alla lo-ro sinistra?»

«Questo dimostra che la natura è di sinistra?» scherzò Catherine ma-liziosamente.

Alcuni mesi dopo arrivai in ritardo a pranzo a La Palette. Chiara-mente colpito, Sartre mi chiese: «Dov’è la petite?». Era il modo con cui l’aveva sempre chiamata, perché era un centimetro più bassa di lui (che misurava poco più di un metro e mezzo). Esitai. De Beauvoir no-tò che avevo gli occhi lucidi e me lo disse. «Ci siamo lasciati» ammisi alla fine.

Sartre mi guardò con durezza, con il suo sguardo strabico, poi disse: «Bene, ti invidio. Non ho mai pianto per una donna in vita mia».

De Beauvoir vacillò. Sartre lo avvertì, per cui rapidamente cercò di spiegarsi: «Quando il Castoro e io decidemmo di avere quella che tu chiami una relazione aperta, ci rendemmo conto che la passione inevi-tabilmente porta al possesso e alla gelosia. Allora, come sai, decidem-mo che la nostra relazione sarebbe stata “necessaria” ma che saremmo stati liberi di averne altre, che chiamavamo “contingenti”. Ciò richiede-va l’eliminazione della passione, quel tipo di emozione aspra che spesso si manifesta con il pianto. Ma ora mi rendo conto… bene, ti invidio… Tu puoi piangere a quarant’anni, a me, a settanta, non mi è ancora mai capitato».

Vidi che de Beauvoir stava soffrendo profondamente. Com’è ovvio, lei aveva versato lacrime per il suo amore, che fosse Sartre o qualcun altro, e com’è ovvio fu ferita dal fatto che lui non l’avesse mai fatto.

Anche per me fu estremamente doloroso. Specialmente perché a quel tempo Catherine era coinvolta nel progetto con Sartre. Non tra-scriveva le conversazioni che tenevo con lui, perché lo faceva una pro-fessionista, ma correggeva i nomi, mi descriveva i luoghi citati da Sartre e di cui io non sapevo nulla, mi aveva accompagnato in alcuni di que-sti, mi aveva raccontato delle storie, sue o narratele dai suoi genitori, in merito agli eventi citati da Sartre, facendomeli sentire ancora più vi-cini. Di solito segnava sulla copia delle trascrizioni con un pennarello verde le parti che le interessavano di più, e che erano le più interes-santi. Ne conservo ancora una… Desiderava sempre ascoltare i nastri,

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specialmente perché Sartre e io avevamo preso l’accordo che non ci sa-remmo soffermati sulla sua filosofia. «Lascia che siano gli accademici a farlo» disse Sartre, tradendo così il suo disprezzo per quella catego-ria che trascorre una vita intera ad analizzare i lavori degli altri. «Così ci concentreremo sul vissuto (le vivant)» scherzai. «D’accord» mi rispo-se acconsentendo.

Perciò le mie interviste a Sartre assomigliano più a chiacchierate. Io ero e sono un animale politico, un internazionalista, in particolare un ter-zomondista. Ho viaggiato molto in tutto il mondo, di solito come giorna-lista, spesso come militante antimperialista, inevitabilmente anche come semplice turista. Sartre probabilmente aveva viaggiato quanto me, ma co-me celebrità, ricevuto all’aeroporto da alti ufficiali, accompagnato da in-terpreti. Quando iniziammo i nostri incontri, avevo già pubblicato una dozzina di libri sull’America Latina, sul Vietnam, sulla guerra civile spa-gnola e, con un amico, uno sullo stretto legame tra il crimine organiz-zato e il capitalismo negli Stati Uniti. Sartre aveva scritto di letteratura, drammi, saggi, romanzi e la sua brillante autobiografia giovanile, Le pa-role, con cui vinse il premio Nobel. Ciascuno di noi mise sul tavolo il proprio bagaglio.

Tuttavia, pur non essendo marxisti, ci univa indiscutibilmente un fatto. Non importava che cosa avrebbero pretenziosamente scritto gli scolastici del pragmatismo, non importava ciò che quasi tutti gli inse-gnanti americani di scuola superiore avrebbero noiosamente detto ai lo-ro studenti creduloni, non importava quanto spesso i ricchi e facoltosi del mondo sviluppato avrebbero declamato il loro interesse per i poveri e che ognuno trae benefici dalla ricchezza di pochi (teoria dell’effetto a cascata), noi eravamo d’accordo sul fatto che il mondo è in guerra, ed è una guerra di classe: i poveri contro i ricchi. Ed eravamo d’accordo che fino a quando i poveri non si fossero sollevati e avessero espropriato i beni dei ricchi, per poi distribuirli equamente a tutti, la guerra di clas-se sarebbe stata, almeno periodicamente, un conflitto armato.

Così il compito che ci demmo non fu di distinguere chi aveva fatto co-sa, o quando. Ma perché. Avremmo ricercato le cause politiche delle no-stre azioni («nostre» perché Sartre sperava che il comportamento di mio padre gli sarebbe diventato più chiaro attraverso l’esame delle mie rea-zioni). Saremmo rimasti fedeli al motto esistenzialistico per il quale tutto

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ciò che è personale è politico, e tutto ciò che è politico è sempre persona-le. Sartre e io ci trovammo d’accordo sul fatto che in nessuna circostanza avremmo rimaneggiato ciò che lui aveva scritto in modo così eloquen-te in Le parole. Con un’unica eccezione: solo se avessi ritenuto che egli avesse mentito, come talvolta fece. Mi impegnai a scrivere la sua biogra-fia politica, per descrivere i cammini da lui percorsi, quei cammini che lo portarono a diventare l’odiata coscienza del suo secolo, che è il titolo che scelsi per il mio libro su di lui. Le nostre conversazioni mi diedero gli strumenti per comprendere entrambe le cose, cioè le ragioni per cui era odiato e quelle per cui rimase la coscienza del mondo studentesco, degli intellettuali e dei militanti.

Le nostre conversazioni ammontano a una settantina di cassette, ra-pidamente riversate in una dozzina di bobine professionali di alta qua-lità e trascritte in più di duemila pagine in formato legale, a spaziatura singola. Chiaramente molti nostri discorsi ora sono ridondanti, ripetiti-vi, anche incoerenti, e spesso fanno riferimento ad accadimenti di nes-sun interesse, né per gli accademici né per il lettore frettoloso. Quindi, traducendo le nostre conversazioni ho omesso alcune parti. Alcuni eventi citati, comunque, erano, e sono ancora, storicamente importan-ti. Se hanno avuto bisogno di spiegazioni, ho aggiunto delle note. Ho pure inserito parti di dialoghi che si svolsero a pranzo, per i quali ave-vo preso appunti solo dopo il nostro congedo. Catherine li aveva atten-tamente riesaminati (fino al giorno fatidico della nostra separazione), ma per questi appunti non ci sono registrazioni. Chi è curioso di sapere che cosa ho tagliato o aggiunto, o chi non mi crede, oppure chi deside-ra anche solo ascoltare la potente voce di basso di Sartre, può reperire tutte le bobine originali e tutte le trascrizioni non risistemate presso la Beinecke Library dell’Università di Yale, che le ha acquisite l’anno in cui sono rientrato dall’Europa, senza un soldo e senza un lavoro.

Ho separato le conversazioni qui pubblicate con una titolazione me-se per mese, ma questo criterio non è del tutto accurato perché i no-stri colloqui non furono cronologici. Parlavamo di un tema un mese, poi talvolta ci ritornavamo anche molti mesi dopo. Così, spesso li ho accorpati nel mese in cui un tema veniva particolarmente dibattuto. Il ricercatore che volesse ascoltare gli originali deve fare ciò che ho fat-to io: ascoltare tutte le registrazioni (oppure leggere tutte le trascrizio-

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ni), annotare il tema e attribuirgli un numero, per poi riunire le parti. Ciò comporta un notevole lavoro, che è quello anche da me svolto. Pe-rò il risultato premia la fatica: un documento più o meno cronologi-co della vita di una grande figura della letteratura e un’interpretazione del tempo in cui visse.

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gerassi: Quanti anni avevi quando ti sei accorto per la prima volta che eri diverso dai tuoi amici, dai tuoi coetanei e dai tuoi compagni di classe? Tuo padre era morto. Tuo nonno materno era il padrone di casa, il titano bar-buto che impersonava dio nella messa in scena teatrale della scuola locale, il tiranno benevolo che trattava tua madre come se fosse tua sorella, e che ti faceva perfino condividere con lei una camera di casa sua. Tutto questo de-ve aver dato colore molto presto alla tua visione del mondo.

sartre: Sì e no. La sua cura, il suo apprezzamento delle mie fantasie let-terarie – passavo tutto il mio tempo libero a casa divorando e scrivendo «romanzi» di avventura che lui leggeva con assiduità – la sua devozione ai «suoi bambini», me e mia madre, mi fecero certamente sentire impor-tante. Ma non diverso. A scuola non eccellevo più di altri miei compa-gni. Alle undici e mezza, quando facevamo una pausa per il pranzo, mia madre veniva a prendermi proprio come tutte le altre madri; dopo le lezioni pomeridiane, alle tre e mezza, finivo in strada a giocare come gli altri bambini. In strada giocavamo a calcio, diventammo una spe-cie di banda che spesso veniva coinvolta in zuffe con i ragazzi delle al-tre scuole.

Mi hai detto che gli altri ragazzini erano poveri, che venivano da quartieri difficili. Per questo si insinuava nelle vostre battaglie una certa idea di con-flitto di classe?

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No. Sai, è vero che i ragazzini ricchi vivono in quartieri ricchi, il che si-gnifica che le loro scuole locali saranno di qualità migliore. Non dipende dal fatto che il governo darà loro più soldi. In Francia, dove l’educazio-ne è centralizzata, ogni scuola riceve la stessa cifra per ogni studente, a differenza delle vostre scuole in America, dove, come mi dici, le scuole dipendono dalle tasse sulla proprietà, e pertanto hanno insita una strut-tura di classe. Tuttora, in Francia come ovunque, i ragazzini ricchi vivo-no in quartieri ricchi. Le madri spesso non lavorano, e dedicano parte del loro tempo e del loro denaro a rendere la scuola più attraente, tenu-ta meglio, sostenendo teatro e concerti, e così via. Nei quartieri poveri le madri lavorano e i padri non hanno il tempo o l’inclinazione per chie-dere ai loro figli se stanno bene, o per rimproverarli se il direttore gli fa sapere che si sono comportati male. Perciò è in questo senso che tra le nostre bande c’era una distinzione di classe molto marcata. Ma quando ti scontri con il tuo avversario sull’erba, erba che nessuno dei due pote-va comunque rivendicare come propria, gli avversari sono eguali – cer-to, nemici, ma combattenti eguali, per così dire. Così, quando andai a scuola a Parigi, nonostante la mia estrazione e la mia situazione fami-liare, non mi sentii mai diverso o consapevole della mia appartenenza di classe.

Nonostante il fatto che il tuo liceo di allora, lo Henri iv, fosse uno dei mi-gliori.

Vero, ma tutti noi gironzolavamo per Parigi a nostro piacimento (le strade erano sicure, allora). Gli altri potevano aver provato degli antagonismi di classe, ma noi no, e non ci insultavano urlandoci «ehi, ricchi!» o altro.

Ma le cose devono essere cambiate quando tua madre si sposò di nuovo con un ingegnere e vi trasferiste a La Rochelle.

Eccome! Ma non per motivi di estrazione sociale. Anzitutto ero un pa-rigino, e loro odiavano i parigini. I superbi ragazzini della capitale. Cer-to c’era una distinzione di classe, ma né loro né io la percepivamo in quel modo. Ero un estraneo. E non dimenticare che cambiai nel bel mezzo di un anno scolastico. Semplicemente, non piacevo ai miei compagni di clas-

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se. Però anche loro erano dei ragazzini borghesi. Le cose precipitarono quando divenni un ottimo studente, dal momento che leggevo più di loro. Fu più che altro perché mio nonno Charles [Schweitzer] mi consigliava in continuazione quali libri leggere, e quando lesse i miei «romanzi» fece dei confronti con alcuni tra i grandi autori. Tieni conto che non smette-va di lodarmi. Il risultato fu che a La Rochelle nelle ore di letteratura di-ventai il cocco del maestro. Ragazzi, se i miei compagni mi prendevano in giro per questo! Ma eravamo tutti della stessa classe sociale. Non ricchi-ricchi. Quelli andavano alle scuole private, alle scuole religiose. Noi non ci azzuffavamo mai con loro poiché non li incontravamo mai. Dico «noi» perché quando capitava di azzuffarsi, io entravo a far parte della banda. Solo per scontrarmi.

Con bastoni o a mani nude?

Niente di tutto ciò. Solo un sacco di spinte e di ceffoni. Nessuno si face-va male. Ma una volta terminate le zuffe, venivo escluso a lungo dai miei compagni, anche per un anno intero. Ci scontravamo con i ragazzini del-le altre scuole, anche loro erano perlopiù borghesi. Non come in Ameri-ca, credo, dove sono presenti entrambe le classi sociali nella stessa scuola, no?

Grossomodo sì. Anche qui chi è molto ricco frequenta la scuola privata. Ma nell’Upper West Side si cresceva tutti assieme. Ovviamente ero un ragazzi-no borghese. Però mi sono ritrovato a bighellonare con i ragazzi poveri, spe-cie stranieri, in parte perché, come loro, ero sempre preso di mira come uno sporco straniero dall’accento divertente. Di solito tornavo a casa in lacrime e con gli abiti strappati, ma Fernando reagiva sempre chiedendomi se e co-me mi fossi difeso a botte. Non dimenticherò mai che un giorno tornai a casa sbrindellato, sanguinante e dolorante, ma ridendo e, ancor prima di chieder-mi che cosa fosse successo, Fernando si congratulò con me.

È una differenza molto importante. Sei cresciuto da ribelle. Hai fatto l’esperienza soggettiva della lotta di classe, anche se a quel tempo i tuoi nemici erano di razza, più o meno, erano xenofobi, e quando tornasti a casa tuo padre lesse il fatto in una prospettiva oggettiva. A me non è suc-

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cesso nulla di simile. Non c’era antagonismo di classe, né all’Henri iv di Parigi, dove molti di noi erano figli di burocrati e di funzionari – Charles dopotutto era un insegnante di tedesco – né a La Rochelle, dove la mag-gior parte delle famiglie avevano delle attività legate al mare e al porto, ma non come pescatori, perlopiù come impiegati. Non ero un ribelle. Tu stesso lo hai detto quando hai insistito sul fatto che, nella mia biografia che intendi scrivere, vorresti cercare di rispondere alla domanda: come fa un borghese tutto d’un pezzo, che non si è mai ribellato alla sua clas-se, a diventare rivoluzionario? Ed è vero. Tutte le contraddizioni che ri-esco a riconoscere nella società derivano dal fatto che noto la differenza tra quello che la gente dice e quello che fa. Ma non mi sono mai battuto e, in verità, non sono mai stato con dei proletari: tutta la mia vita è sem-pre stata, fondamentalmente, borghese.

Però leggere e scrivere furono atti di ribellione, no?

Non proprio. È complicato. Vedi, mia madre e mia nonna volevano che leggessi libri per bambini, sai, quel genere di libri che si leggono a die-ci anni, e tentarono di fare sì che Charles mi costringesse ad abitudini migliori. E Charles sapeva che tutti i «romanzi» che avevo scritto erano il frutto di quelle letture che, bada, raramente capivo e dalle quali trae-vo ispirazione. Certo, quando lessi Madame Bovary a dieci anni – o era forse a otto? – non capii nulla. Ma ne presi alcuni brani, che poi inse-rii in uno dei miei racconti. In teoria tutta la mia famiglia disapprovava. Ma sapevo che mia madre prendeva i quaderni – ogni «romanzo» cor-rispondeva a un quaderno di scuola – e li consegnava a Charles, penso come prova della mia stranezza. Charles li leggeva attentamente e correg-geva perfino i miei errori di grammatica e di ortografia. In verità, in una certa misura, immagino di averli fatti apposta per lui, sapendo di certo che avrebbe disapprovato. Insomma, tutta la mia famiglia disapprova-va le mie letture. Non tutto, bada, perché avevo pure letto tutto quello che Zévaco e Ponson du Terrail avevano scritto, e questi autori popola-ri, per quanto fondamentalmente anarchici, comparivano ogni settima-na nei giornali locali, con sfarzose illustrazioni. E alla mia famiglia non piacevano i miei «romanzi», anche se sapevo che in realtà mi ammirava-no per il fatto di averli scritti.

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La tua infanzia a casa contrastava fortemente con la tua vita fuori.

Complicato. Charles mi convinse del fatto che fossi speciale, che fos-si un bambino prodigio, certo senza mai dirlo. Che fossi speciale. Ma fuori, nel mondo, solo degli dèi come Charles erano in grado di vedere ciò che ero. Per tutti gli altri io ero, be’, uno come tanti.

Hai detto che da bambino eri convinto che il mondo fosse perfettamen-te equilibrato, che tutto fosse in ordine, stabile, certo. Ciò non è contrad-detto dal fatto che quando volevi giocare con gli altri bambini nel parco, ai giardini del Lussemburgo, ti dicevano senza tante storie di toglierti dai piedi, tant’è che tua madre intervenne per chiedere agli altri genitori di aiutarti? In fondo, non era tutto così ben ordinato.

Aspetta. Ho oggettivato la situazione. Quei ragazzini si conoscevano e avevano l’abitudine di giocare assieme. Senza di me. Così, l’ordine delle cose prevedeva che non facessi parte del gruppo. All’Henri iv era diverso. Io li conoscevo e loro conoscevano me, perciò facevo par-te del gruppo. Quei ragazzini al Lussemburgo non mi avevano rifiu-tato perché ero piccolo o brutto, ma perché non facevo parte del loro gruppo.

Ma in Le parole ammetti di esserti sentito frustrato, rifiutato. Perché l’episodio non ti fece capire che eri diverso?

In un certo modo me lo fece capire. Riaffermò il fatto che ero un pic-colo genio. Cosa che Charles aveva fermamente deciso. A casa il centro ero io. Mio nonno era estremamente autoritario, ma non con me. Per-ché? Perché ero un ragazzo prodigio. Al Lussemburgo non ero nulla, e questo era normale. E pure a scuola, i primi tempi. Quando iniziai le superiori a La Rochelle (avevo dodici o tredici anni), ero uno studente molto scarso proprio perché i miei compagni di classe non si erano ac-corti che ero brillante. Tanto scarso che di fatto mia madre dovette an-dare a parlare con i professori di francese e di latino, chiedendo loro di dedicarmi un po’ più di attenzione, cosa che poi fecero. Ciò normalizzò tutto, mise un’altra volta in ordine le cose. Ma Charles non era presen-

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te, a La Rochelle. Ebbi poi la stessa reazione quando cercai di unirmi al gruppo nel parco. Loro erano un’unità, io un estraneo. Era normale.

Veramente? Da una parte passavi il tuo tempo leggendo libri e scriven-do storie che la tua famiglia disapprovava. È un atto di ribellione, eppu-re volevi l’approvazione di Charles e la sua ammirazione. Dall’altra parte venivi respinto dai tuoi pari, cosa che tu ammetti essere dolorosa, ma che pensi pure sia normale. Le due cose si contraddicono.

Tu non hai fatto lo stesso? Il Castoro mi ha raccontato di una discussio-ne che aveste tu, Fernando e lei a New York, nella quale avevi sostenu-to per due ore la tua visione marxista contro di lei, mentre tuo padre, che fu sempre antimarxista, o quantomeno non-marxista, non fece al-tro che ascoltare, senza dire una parola – cosa molto rara per Fernan-do –, mentre tu ti aspettavi un’approvazione.

Oh sì, lo ricordo bene, ma ero un po’ più grande, avevo quindici anni. Fu al Menemsha Bar della Cinquantasettesima Strada. Avevo dei problemi di relazione con Fernando, l’uomo d’azione. Così rivestii il ruolo opposto: leggere, studiare, parlare, discutere, ma nessuna azione. Fu quella la mia ribellione. Volevo la sua approvazione quando, al contempo, stavo assu-mendo un punto di vista opposto al suo. E quando in seguito, quella sera, mi disse che non avevo ben sostenuto la discussione, mi ferì.

Ecco, ci sei. Ti ribellavi e volevi la sua approvazione. Una contraddi-zione? Non del tutto.

Ma tu stai rivendicando il fatto che non ti ribellasti mai a Charles.

Giusto, non dovevo farlo. Diversamente da ciò che fece Fernando con te, Charles mi aveva convinto che ero speciale.

Però allora fosti affascinato da ciò che lui non era, ovvero un uomo d’azio-ne. Così ti dedicasti al tuo solo amico che lo fosse, cioè Fernando. È la ragione per cui, fra tutti i tuoi amici, solo a Fernando riconoscesti un pun-to di vista diverso dal tuo. Come quando tu partisti in viaggio per il Sud

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della Francia non appena lui varcò la frontiera e avesti quell’affascinante conversazione1 in cui tu eri impersonato da Mathieu e discutevi con Go-mez, cioè Fernando, e dove Mathieu chiedeva a Gomez perché tornasse a combattere quando sapeva che la guerra era persa.

Era una questione di logica.

Non esattamente; perché hai fatto in modo che a quel punto Gomez rispondesse a Mathieu in una forma così politica da fargli dire che il fascismo va combattuto non perché lo si deve sconfiggere, ma perché il fascismo è l’ideologia dei fascisti?

È quello che disse tuo padre.2

Ma tu decidesti di ripeterlo perché sapevi che è ciò che avrebbe detto un uomo d’azione impegnato politicamente, e perché, come Mathieu, ti sen-tivi in colpa per non essere un uomo d’azione.

Però Mathieu diventa un uomo d’azione.

Non proprio. Mathieu finisce nell’esercito e sopporta la monotonia del-la vita militare, perfino la prigionia, come è accaduto a te, ma è disimpe-gnato e combatte perché la Francia è in guerra e tu, Mathieu, sei francese. Non è come andare a combattere da volontario in un paese straniero. Quando partii per il Vietnam del Nord, mi chiedesti perché stessi abban-donando moglie e figlio. Ciò prova che un atto simile continua a inquie-tarti.

Aspetta. Prima di tutto tuo padre era spagnolo, anche se nacque a Costantinopoli e aveva ventisette anni quando andò in Spagna per la prima volta, per copiare Velázquez al Prado. Lo spagnolo, o l’ispanoa-mericano, era la sua lingua madre, e aveva certamente il carattere di un anarchico spagnolo. In secondo luogo, Mathieu può non essere stato un convinto rivoluzionario prima della guerra, ma aveva di sicuro una coscienza sociale, e giunge all’impegno quando scopre la dimensione collettiva nello Stalag.

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Suvvia, non è la stessa cosa. Né tu né Mathieu doveste affrontare realmen-te l’uccisione di un essere umano, non importa quanto orribile potesse esse-re quella vittima. E quando Mathieu viene liberato dallo Stalag, ritorna alla sua vita di sempre, a scrivere nei caffè, come fai tu.

Stai affrontando il dilemma dell’impegno da un punto di vista errato. La questione che sollevavo nella conversazione tra Mathieu e Gomez riguar-dava l’abbandono dell’impegno reale da parte di un artista. In altre pa-role, come può uno scrittore o un pittore abbandonare la sua vocazione, anche se per una guerra giusta?

Ti stai riferendo alla lettera di Fernando a Stépha,3 che lui lasciò per anda-re a combattere in Spagna?

È cruciale, assolutamente cruciale. Lui spedì una lettera dicendo: «Non sono un artista. Un artista non uccide. Ho appena ucciso un uomo. Di-menticami». Aveva ragione. È per questo che nel 1954 Picasso ti disse che tuo padre sarebbe stato famoso tanto quanto lui se non fosse anda-to in Spagna.

Sapevi della lettera di Fernando a Stépha, quando scrivevi I cammini del-la libertà?

Lei me la mostrò prima di partire a sua volta per la Spagna, per lavorare all’ufficio propaganda.

Però non ne facesti uso nel romanzo.

Era troppo melodrammatica, tipica di Fernando.

Ma tu continuavi a essere affascinato da mio padre.

Fu l’unico amico che avevo a essere come me, o così pensavo che fosse. Una volta gli sentii dire: «Prima la pittura, poi la mia famiglia. Non mi importa se Stépha e Tito muoiono di fame, la pittura prima di tutto».4 Anch’io allora provavo la stessa cosa, benché non avessi famiglia: prima

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di tutto la scrittura. Il Castoro condivideva lo stesso sentimento. Probabil-mente è il motivo per cui nessuno di noi due ha mai pensato di farsi una famiglia. E allora capita che uno dei nostri amici più intimi, il quale aveva sempre rivendicato quello stesso impegno verso la sua arte che noi aveva-mo verso la nostra, se ne va alla guerra semplicemente così, senza valigia e senza abiti di ricambio. Lo sai che quando ti riportai a casa da Stépha e le spiegai l’accaduto, lei ebbe una crisi isterica e iniziò a ripetere senza fermarsi «ma indossa dei calzini di seta, dei calzini di seta»?

Ora, guardando indietro, pensi che nella tua mente ci fosse una relazione tra Gomez e Pardaillan, l’eroe spericolato di Zévaco, che tu avevi ammira-to così tanto – più che ammirato, venerato – quando eri bambino? E non è che mettesti Charles nella stessa posizione, quella dell’uomo d’azione domi-nante, anche se lui non lo era affatto?

Giusto. Non sono sicuro che lo fosse. È la ragione per cui in Le parole non lo definisco. Me lo chiedo ancor oggi. So che temeva la morte. Penso che sia per questo che ha recitato la commedia del grande amore per me. Vo-leva accettare tutto, natura, vita, morte, ma aveva bisogno di qualcos’al-tro che gli facesse accettare la morte come normale, e quello ero io. Così ha incarnato un ruolo per convincersi che io sarei stato la sua estensione, la sua sopravvivenza per così dire, o la sua continuazione dopo la morte. Così fu di fatto l’esatto opposto dell’uomo d’azione.

Era tanto tormentato, tanto angosciato per la morte da sperare di farti di-ventare la sua estensione in vita?

Non penso che abbia mai capito o che sia mai entrato in rapporto con i suoi mostri. Ma io devo aver colto le vibrazioni e, provando a essere come lui, ho rifiutato l’atto di ribellione, scartato la nozione di uomo d’azione, benché, come hai detto correttamente, io in Le parole lo abbia reso tale. Ma era sbagliato. Lui era un osservatore.

E tu lo stesso, no? Nonostante le battaglie con gli altri ragazzini nelle stra-de di Parigi. Da tutti i tuoi dinieghi, si capisce che anche tu temevi la mor-te. Per questo hai detto che si scrive per dio o per gli altri, ma non per essere

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letti. In altre parole, hai scritto per ingannare la morte, perché anche tu la temevi. Per dirla meglio: hai scritto per evitare la morte. Hai scritto per gua-dagnarti l’eternità.

È per questa ragione che ero affascinato da tuo padre, che diventò l’esat-to opposto, colui che meno temeva la morte.

Qui sbagli. C’è un magnifico passo nelle memorie di Ehrenburg, dove rac-conta della sua visita a Fernando durante l’assedio dell’Alcazar, a Toledo. Fernando lo condusse sopra un edificio, su un tetto in tegole molto scivolose, da dove potevano vedere i bambini che giocavano all’interno, dietro i mu-ri. Fu questo il motivo che spinse Fernando a non bombardare la fortezza. Ehrenburg osserva che Fernando diventò pallido come uno straccio e iniziò a tremare. «Una cosa è morire in battaglia» gli spiega Fernando «mentre è incredibilmente stupido morire cadendo da un tetto.»

E sì, Fernando, il macho anarchico.

No, si tratta di quell’assurdo senso dell’onore spagnolo, dell’orgoglio se pre-ferisci, ma pure quella magnifica idea secondo la quale la morte deve avere senso. Cionondimeno, timore della morte.

Timore della morte, forse, ma non timore di essere dimenticato.

All’incirca. Ed è ciò di cui Charles aveva paura, e che ti trasmise.

Ma dobbiamo prendere la cosa sul serio. Una paura simile ci rende crea-tivi, attivi, uomini d’azione. È un modo per durare per un tempo più lun-go dei pochi anni in cui camminiamo su questo pianeta.

Di sicuro lo hai detto con precisione nel magnifico racconto «Erostrato», dove il tuo eroe, osservando come nessuno ricordasse chi aveva edificato il tempio di Efeso che egli aveva incendiato, decide di uccidere sei persone a caso per produrre un evento tanto assurdo che nessuno si sarebbe mai più dimenticato di lui. Ma i tuoi esempi non sono equivalenti. Dei seimila an-tifascisti non spagnoli, i volontari delle Brigate internazionali, che andaro-

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no in Spagna per combattere Franco, Hitler e Mussolini, almeno la metà era sotto falso nome e senza un’identità rintracciabile. Nessuno avrebbe mai saputo neppure chi fossero, e quei volontari erano consapevoli che non sa-rebbero stati identificati. Andarono in Spagna, combatterono e morirono, perché questo è ciò che fa un autentico umanista. Punto.

«Il fascismo va combattuto perché sono fascisti.»

Esattamente.

Per questo andasti nel Vietnam del Nord e sacrificasti un matrimonio fe-lice.

Per questo tu acconsentisti a diventare presidente del tribunale.5 Ed è il motivo per il quale ti piacevano le storie di Zévaco. I suoi eroi combatteva-no sempre per il povero, per l’oppresso, per lo sfruttato. E in proporzioni formidabili: venti contro uno, trenta contro uno. Ma Charles non era così. Però tu lo ammiravi perché… Già, perché? Perché era un ateo che incar-nava dio. E perché non amavi tua madre? Le madri non hanno il dovere di conseguire la grandezza per essere amati dai loro figli; basta che siano presenti.

Lei si faceva intimidire da Charles. Lui la sgridava davanti a me. «Non farlo. No, è sbagliato. Stai buona.» E lei incassava. Ma la situazione alla fine cambiò. Mia madre mi sorprese mentre rubavo un po’ di soldi dal-la sua borsa. Stavo ancora cercando di fare in modo che i miei compagni di classe mi amassero, e pensai stupidamente che comprando dei dolci e offrendoglieli mi avrebbero accettato. Non soltanto mia madre mi colse sul fatto, ma quando Charles venne a passare del tempo da noi, lei glie-lo raccontò. Io pensavo che lui avrebbe capito. Che sarebbe stato dalla mia parte. Quella volta non disse nulla. Ma il giorno seguente andammo assieme in negozio e lui fece cadere una moneta che io, chinandomi, rac-colsi. Con un grande e magniloquente gesto della sua mantella mi fermò. «Non puoi toccare denaro guadagnato onestamente» disse «dal momen-to che sei diventato un ladro.» Poi, lentamente, con le ossa che scricchio-lavano, credo in modo doloroso, si chinò e la raccolse. Fu il momento

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della rottura. Non era più il mio difensore. Non lo ammirai né lo imitai più. Ma ciò non mi avvicinò a mia madre. Lei mi aveva tradito. Aveva sposato un uomo che non mi piaceva. Un laureato dell’École Polytech-nique. Mi aveva condotto in una città che detestavo. E mi aveva portato in una scuola dove mi odiavano. Però non potevo dirle che ero infelice. Perché? Forse perché fino a quel giorno nel negozio – era una farmacia, ancora oggi la rivedo chiaramente davanti a me – avevo una dura roccia alla quale aggrapparmi che mi faceva capire che la vita era come dove-va essere, e che mia madre non contava. Allora, dopo essere stato tradi-to da dio, dalla roccia, non mi rimase più nulla. Mia madre finì con far parte di quell’insieme.

Il tuo patrigno era così cattivo?

Oggettivamente, non del tutto. Era figlio di un impiegato di una stazio-ne ferroviaria, studioso, determinato. Un uomo con il senso del dovere. Era tra i migliori nelle classi che frequentò ed entrò in una delle più pre-stigiose istituzioni francesi. L’epitome del successo borghese. E lui ne era orgoglioso. Soggettivamente, era un tipo pomposo, uno noioso che mi rubò mia sorella (cioè mia madre) e che non mi considerò mai un ge-nio. Ma non era mio padre, perciò non contò mai nulla e non mi ribel-lai mai contro di lui.

Mio nonno era uno che si dava delle arie, un impostore se preferisci, ma mi fece pensare che mi ammirava. Lo sai che comunicavamo – cioè fino al suo tradimento – in versi? Sì, in versi. Mi piacerebbe averli anco-ra per poterteli mostrare. Immagina soltanto la sua pazienza e indulgen-za. A leggere i miei terribili poemi, pieni di errori e di false rime, e a darsi la pena di rispondere in corretti pentametri giambici!

All’età di otto, dieci, dodici anni? Quando arrivasti a quel punto?

No, no, molto prima. Credo di aver deciso molto presto che la lettu-ra doveva avere un grande valore, dal momento che il mio dio e le due donne in casa leggevano nel tempo libero. Così cominciai a fargli cre-dere che leggevo. Mi sedevo su una scatola, o qualcosa di imponente, di fronte alla famiglia e facevo finta di leggere, giravo pagine e cose simili.

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Per salvarmi dalla noia, spesso quando leggevo inventavo mentalmente delle storie che ricavavo dalle illustrazioni che nei giornali accompagna-vano i racconti di Zévaco e di Ponson du Terrail. Anche quello iniziai a farlo per finta, vedendo che Charles leggeva sempre tutti i giornali, ma, bada, non le storie. A dire il vero, penso che la narrativa non gli piaces-se affatto e che neppure la approvasse, ma lesse i classici perché «si do-veva farlo». Così, dopo un po’ che gli facevo credere di leggere, decisi di decifrare ciò che in realtà non leggevo, e in effetti imparai a leggere da solo. Fu uno di quei casi in cui si stabilisce da soli quali sono i propri valori. Alla fine iniziai a scrivere le mie storie, con eroi come il Pardail-lan di Zévaco, che ovviamente era molto simile a Charles. Il mio primo «romanzo» era intitolato Il mercante di banane, e l’eroe aveva una barba proprio come la sua. Ma c’era un libro che Charles adorava. Me lo die-de con una tale cerimonia che capii che voleva che mi piacesse. E così feci, saltando le pagine, ovviamente, quelle pagine che avrebbero anno-iato ogni bambino. Erano I miserabili di Victor Hugo. Il romanzo ha ov-viamente il suo Pardaillan, giusto? Per chiamarlo con il suo nome, Jean Valjean. Mi chiedo perché io non abbia incluso I miserabili nella lista di libri da me letti a quell’epoca. Strano. Non è divertente che io abbia di-menticato il libro più importante, no?

Affronta il problema con Lacan, la prossima volta che lo vedi.6

Stai scherzando? Gli piacerebbe, ma non gli darò mai questa soddisfa-zione.

Facendoti leggere I miserabili, tuo nonno cercava di instillarti una qual-che coscienza politica?

Oh, no… be’, forse, in qualche modo. Non mi è mai capitato, ma ora che ci penso, non sollevò mai obiezioni su Zévaco, anche se non leggeva le puntate settimanali. Sapeva molto bene chi fosse, e che era un anar-chico. Pardaillan – il che voleva dire, naturalmente, Zévaco – era solito dire: «Non sono superiore a nessun altro». Ma di sicuro lo era. Eppu-re io accettavo quell’idea con cui mi confrontai immediatamente, in ef-fetti, quando apparvero i miei cugini. Charles li trattava diversamente.

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Non era gentile con loro. Nessuno di loro due mi piaceva granché, ma mi accorsi che per Charles sarebbe stato ingiusto fare delle discrimina-zioni, dal momento che eravamo tutti uguali. Facevano parte di famiglie numerose. Così non era importante che cosa Charles pensasse di loro, o il modo in cui gli parlava. Ma mi rese consapevole che io non avevo una famiglia così. Penso che sia molto importante per un bambino avere un padre, buono o cattivo che sia. Io non ce lo avevo. Charles poteva anche essere un dio, ma di sicuro non era mio padre. Perciò vivevo fondamen-talmente in solitudine. Al tempo stesso ero felice, perché venivo viziato. Dicevo a me stesso quanto ero stato fortunato a nascere in Francia con dei nonni e una madre così. Certo, non funzionava granché. Sapevo di essere giudicato dagli altri, gente estranea alla mia famiglia, e che mi giu-dicavano in relazione a ciò che facevo.

Come in Porta chiusa? «L’inferno sono gli altri»?

Esattamente.

E Charles è veramente un’estensione di te stesso per i tuoi occhi.

Precisamente, e dal momento che so di essere un impostore, lui è un im-postore, e per questo non lo rispetto. Però lo ammiro. Una bella con-traddizione, eh?

C’è questo all’origine della tua insicurezza?

Difficile a dirsi. Penso di essere insicuro perché Charles mi trattava di-versamente dai miei cugini, dagli altri bambini. Di certo volevo essere speciale, di certo mi divertiva il fatto che Charles e i miei familiari più prossimi pensassero che fossi speciale, di certo nessuno, me compreso, comprendeva che Charles mi trattava così per la sua paura della morte, e voleva che io diventassi la sua estensione dopo la morte. Ma c’era qual-cosa di sbagliato. È perché io ero solo, voglio dire un bambino in una famiglia di adulti? È perché il mio sentimento di eguaglianza, che prove-niva da Zévaco, strideva con la realtà? Ci si può appassionare ai concetti di libertà, eguaglianza, fratellanza solo attraverso la lettura?