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    PALINURO:RACCONTI DI GENTE DI MARE

    Maria Luisa Amendola e Ezio Martuscelli

    EDITO DALL’ASSOCIAZIONE PROGETTO CENTOLA

    COMUNE DI CENTOLA ASS. PROGETTO CENTOLA

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    ELOGIO DI PALINURO

    Ricordo che la primavera arrivava all’improvviso dal mare, un qualche giorno di marzo dellametà degli anni Cinquanta, e sapeva di lentischio e ginestra, ma aveva anche una intensa venaturasalmastra che ti avvolgeva con l’esuberanza della brezza marina. Aveva le dita rosate dell’aurorala primavera, ma portava con sé, in un impasto di cui non so dire la composizione, anche una

    luce verde-blu, rapita alle profondità marine. Fiorivano i limoni negli orti sul mare, le quaglie siacquattavano sui cigli erbosi della scogliera, oggi erosi dal cemento, e sfrecciavano nell’ azzurrodel cielo brigate multicolori di passeri, cardellini, verdoni, che noi “scugnizzi” acchiappavamo coni “ piritangoli”, trappole arcaiche che sistemavamo sulle “ spatelle” più alte dei chidindia, schieratiallora come sentinelle a difendere, con gli agavi giganti, le poche case dei pescatori dagli umori delmare aperto. Poi la primavera si ammalò, si fece silenziosa dapprima, e in un breve volgere di temposcomparve. Molti anni dopo capii che gli uomini l’avevano uccisa.Ma io avevo fatto in tempo a carpirne il segreto, e a vivere il prodigio di un tempo in cui la terraancora cantava e con essa la vita vibrava.Qui, per me, è il giardino che cerchiamo sempre e inutilmente dopo i luoghi perfetti dell’infanzia

    come scrive Quasimodo. E che mi accorgo di inseguire ogni volta che torno a Palinuro. Dove,sospesa sopra gli abissi del mare, ritrovo la memoria tangibile di quella voce portentosa che miscaturì dentro nel momento stesso in cui si forgiò per me la vita e vi fece irruzione la coscienza, chemi sussurrava: tutto, tutto, Raffaele, è un immenso Oceano d’amore.Più tardi compresi che ad entrambe, alla mia vita e alla mia coscienza, aveva fatto da levatrice ilmare, con la sua presenza continua e sconnata, familiare e impenetrabile, come la Grande Madre

    dei miti antichi, sapienza del paganesimo, che abita ancora il precipizio aereo e gli abissi liquididel Frontone o le calette più nascoste, dove continuo a inseguire la danza vaporosa delle ninfe e ilcanto malinconico delle sirene. Quelle creature, intermedie tra l’umano e il divino, che sono le primeinterpreti della bellezza carnale delle cose. Palinuro è, in sé, un’esperienza di rivelazione.

    Basta salire sulla Molpa, in un giorno di maggio, per accorgersene. Seguire il cammino che partedagli ulivi giganti della piana di Mingardo, e ritrovarsi d’improvviso abbacinati sull’orlo di unadelle terrazze naturali più straordinarie al mondo, che si spalanca vertiginosamente sotto i tuoi piedie ti proietta nell’innito del mare e del cielo no all’orizzonte, e oltre. Ricordo l’emozione che

    mi travolse la prima volta che arrivai lassù. Un’emozione enorme, come la sensazione di fondersinell’universo, di travasarsi letteralmente nel mondo mentre il mondo prende possesso e dilaga dentrodi te. In un attimo, non sai più se quello sconnato lago di luce in cui annegano mare e cielo, o se

    la roccia d’argento del Coniglio, e la stessa falesia dolomitica che precipita sotto i tuoi piedi e sischianta su una manciata di piccole spiagge dorate stiano proprio lì, di fronte a te, o non si producanoinvece dentro te stesso. Come una visione.

    Qui, dagli spalti selvaggi della Molpa, tra i poveri resti del borgo da cui nacque Centola, si spalancauna visione panica, che abbraccia tutta la Realtà, e che Raimon Panikkar chiamò cosmoteandrica,dove Dio, Uomo e Cosmo con-vivono in un’armonia costitutiva e irriducibile. La poetessa americanaJorie Graham l’ha chiamata “enormità dell’esperienza”, perché capace di cogliere il respiro comune

    alla totalità della vita: da quella della materia che si intreccia con quella delle piante e deglianimali, a quella della storia umana che interseca la vastità delle ere geologiche. Ed è proprio questa“enormità dell’esperienza” che si fa tangibile a Palinuro, con l’incantesimo della poesia. Ma ricordoun altro momento perfetto, vissuto a cavalcioni sul precipizio della Molpa. Si era al tramonto, esembrava che quella sera il sole avesse deciso di suicidarsi. Il suo sangue rosso fuoco era sparsodovunque nell’immensità circostante, sul mare, in cielo, sul Cilento e su di me. E tutto era assorto,

    come sospeso in un silenzio profondissimo. In quell’istante ebbi la sensazione di partecipare a unaliturgia cosmica, e fui folgorato dalla percezione che la Creazione si stesse compiendo assieme ame e per me. E mi sentii immediatamente portato e sopraffatto da un’armonia grandiosa, turbinante,

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    come quella, travolgente ed espansiva, che ti possiede nella Terza sinfonia di Mahler. Divina lucemediterranea, insieme apollinea e dionisiaca, che ha turbato tanti cercatori nordici d’innito di

    fronte al suo prodigio che nasconde e svela profondità abissali. E a Palinuro cogli quasi con manoquanto sia vero che la profondità si renda visibile dalla supercie e come in essa sia tutta ricapitolata.

    Come ho appreso in quelle ore benedette passate a inseguire, lungo gli strapiombi sommersi dellecale del Frontone, i fasci di luce che si avvitano ruotando verso un fondo che si allontana sempre,

    armato di una maschera e di un pugnale. Mi sembrava di regnare sulla vita e sul mare, con unaforza misteriosa che respiravo direttamente dalle cose e che mi ha aiutato a vivere e a vincere tanteavversità. E da quella prima giovinezza, trascorsa in un segreto di luce e in una povertà calorosa,non sono più guarito.In quei riti solitari ho imparato che la profondità e il senso d’innitudine di cui sono fatte le cose non

    annegano nella romantica informalità del dionisiaco, ma che, al contrario, in quella sorta di naufragionella luce che allora compivo, profondità e innitudine emergono e si rivelavano precisamente nella

    supercie, ossia in quell’incantesimo apollineo della misura, nell’armonia dei limiti in cui consiste

    la grandezza dell’arte classica e rinascimentale. Di quell’arte classica, greco-romana, che risuona,ad esempio, nella mirabile scansione malinconica del verso virgiliano quando scolpisce la morte di

    Palinuro, nei canti V e VI dell’Eneide. Altissimo esempio, l’episodio del fedele nocchiero di Enea,gettato in mare in una notte serena colma di stelle da un dio maligno, di quella poetica del dolore, giàin qualche modo precristiana, che ha lasciato un’impronta indelebile in questa costa e che i pescatoridi Palinuro conoscono bene.E proprio il senso del limite, è il dono più grande che la civiltà greca ( che vedeva nell’“hybris”,nella superbia, il peccato peggiore) e quella ebraica e biblica hanno donato al Mediterraneo e almondo. Lo ricordo qui, perché questi valori, pur se del tutto incogniti, rimangono alla base dellenostre radici culturaliMa torniamo alla bellezza sovrana di Palinuro. Una bellezza che ti ferisce; e da questa ferita, chesi fa feritoia, senti dilagare il divino in un’eccedenza che ti esalta e ti atterrisce nello stesso tempo.

    E’ il “ fascinans” e il “ dum” di cui parla Rudolph Otto a proposito del sacro. “ Fascinans” è tuttoquello che abbiamo evocato nora. Ma la bellezza –canta Rilke- è soltanto l’inizio del do; il bellocioè ha due anime, una luminosa e una opaca, e spesso il “ fascinans” si muta in “tremdendum”. Un“ dum”che qui a Palinuro si traduce nello scontro furioso, tra un cielo e un mare lividi, diventati unmedesimo micidiale amalgama, che copre l’intero orizzonte, squassato da muraglioni neri, orlati diferoce schiuma bianca, che tutto distruggono, di giorno e di notte, e di cui, con pacicato terrore,

    ci parlano ancora i tanti ex-voto che impreziosiscono la meravigliosa chiesina di sant’Antonio, sul porto.Di questa eccedenza del divino ho avuto il primo sentore –non avevo tre anni- alla Ficocella. Ero

    in braccio a mia madre e tenevo i piedi nell’acqua, dove, accanto a noi, una madre di pescatori,

    vestita di tutto punto con quelle gonne ampie a pieghe e la testa coperta dall’immancabile scialle,aveva steso dell’olio e gettato una pezza bianca tra gli scogli del piccolo fondo, e d’improvvisoun polpo abboccò e fu gettato dalla vecchia, con sorprendente prontezza, nel cestino che aveva al

     braccio. Tutto questo avvenne nella trasognata trasparenza del mare, così puro da ridursi a un velodi cristallo, e nella luce dolce e limpida del cielo, dove il sole aveva sgranato una miriade di scintilleimpalpabili.Un momento perfetto, in cui senti il tempo e l’eterno intrecciare il loro ritmo, e dove quasi avvertii mille legami che uniscono il visibile all’invisibile.Del resto, non abita lo Spirito i luoghi dove la vita celebra la sua liturgia quotidiana e perenne?

     RAFFAELE LUISE ROMA, 23/02/2013

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    PREFAZIONE

    Gli autori del presente volume sono tra i fondatori dell’ Associazione Progetto Cen-

    tola, costituitasi formalmente nel mese di luglio 2010. Nell’ambito di quest’As-sociazione culturale Ezio Martuscelli riveste la carica di Presidente e Maria Luisa

    Amendola è membro del Consiglio Direttivo con l’incarico di rappresentante diPalinuro.Tra gli obiettivi del Progetto Centola rientra quello di ricostruire la storia culturalee sociale di Centola e delle sue frazioni (Foria, Palinuro, San Nicola e San Severino)attraverso una capillare operazione basata essenzialmente sul recupero di testimo-nianze derivanti da una rigorosa e dettagliata scelta di fotograe e documenti messia disposizione da molte famiglie residenti nel Comune.In particolare, nel presente volume sono raccolte storie relative a persone anzianedi Palinuro che in gioventù hanno praticato con successo e sacrici la pesca, atti-

    vità quest’ultima che rappresentava, insieme all’agricoltura, la principale fonte disostentamento per molte famiglie del luogo.Il libro,

    “PALINURO: STORIE DI GENTE DI MARE” 

    vuole essere un tributo e un riconoscimento al coraggio, alla professionalità, alla bravura e all’attaccamento dei palinuresi alla loro terra e all’attività della pesca,sempre espletata nel rispetto della natura, dell’ambiente e del mare meravigliosoche lambisce le coste del Cilento.

    Le storie riportate sono il frutto del lavoro di raccolta effettuato da Maria LuisaAmendola, che ha registrato fedelmente la narrazione di episodi e fatti, raccontatida familiari di pescatori che non ci sono più e da persone anziane che rivivono, nelricordo, il tempo vissuto sul mare.Dal racconto di ciascuno emerge una comune considerazione:

    < la vita di allora, sebbene dura perché economicamente precaria e sacricata, scorreva in un clima di semplicità e serenità che tutti ora sembrano rimpiangere >.

    Vista di Palinuro

    e delle sue spiagge

    (anni 1940).

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    INTRODUZIONE

    Sulla costa cilentana, fra punta Licosa e punta Infreschi, nell’azzurro cristallino delmare, si allunga un promontorio che visto dall’alto, sembra un grosso cetaceo. E’attaccato alla terraferma all’altezza della collinetta di Piano Faracchio, alla cui base,

    lato est sfocia il ume Lambro, sulla spiaggia della Marinella, e, a ovest, il promon-torio digrada dolcemente, nendo con la spiaggia del Porto e della Ficocella. Lafelice posizione geograca fa di questa terra uno dei luoghi più belli d’Italia.Virgilio volle che si chiamasse Palinuro!Veramente venne Virgilio, intorno al 49 a C, in questa zona e ne fu incantato comelo furono gli antichi greci? E’ probabile!Si è portati a crederlo, perché non poteva sfuggire, alla sensibilità di un poeta, la bellezza di una natura tanto particolare. Così Virgilio: “ Aeternumque locus Palinurinomen habebit ” (V libro Eneide). Questa citazione letteraria, raccontata per secoli,

    da una generazione all’altra, ha segnato tanto l’animo dei palinuresi, che la leggen-da ha assunto quasi il valore e il sapore di un fatto vero.Gli abitanti del piccolo borgo marinaro che prese il nome di Palinuro dallo sfor -tunato nocchiero troiano, erano gente semplice, dedita soprattutto alla pesca; soloquando il mare era agitato, lavoravano la terra. Da notizie più remote, si sa che gliabitanti di Palinuro, con le loro barche a vela o a remi, non si spostavano di mol-to: raggiungevano le spiagge vicine di Elea (Velia), Pisciotta e Caprioli a Nord, eMarina di Camerota a Sud. La loro attività quotidiana di pesca era limitata lungola scogliera delle Saline e lungo la costa di Capo Palinuro, no a “Baddurmino”,

    odierno Buondormire.Raccogliendo testimonianze da qualche pescatore più anziano, si è cercata di rico-struire la vita dei Palinuresi dalla ne del secolo XIX alla prima metà del secolo

    XX. Non era certo una vita facile, perché si pescava in condizioni tutt’altro che

    comode e sicure: non si possedeva nessuno strumento per la navigazione, l’unico punto di riferimento, di notte, era il faro, che funzionava ad acetilene. Più al largo,in mare, ci si orientava solo guardando le stelle che erano bussola e orologio. Dallane del 1800 no a circa il 1915-1920, la pesca era praticata in modo molto primi-tivo. Di notte si pescava con piccoli gozzi provvisti di lume ad acetilene; di giorno,dagli scogli, con ami, coppi e “u lanzaturu” (ocina). L’esca era “a trimmulina”

    (piccoli vermi dal colore rosato, che si trova sotto la sabbia in riva al mare), un po’di formaggio, impastato con mollica di pane o ancora, qualche resto di pesce prima pescato. I polipi erano pescati quando il mare era calmo e si procedeva versandoun poco di olio sull’acqua in prossimità di scogli, dove c’erano dei buchi, dellefessure, in cui i molluschi vivevano. L’olio “stennia” l’acqua, cioè ne appiattivala supercie, rendendo visibile il fondo. La capacità del pescatore faceva il resto:

    costui doveva essere velocissimo e di mano ferma nell’inlzare il polipo appena lo

    avvistava.Sugli scogli era trovata anche un’erba medicamentosa “a simintella”, dall’odore

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    molto penetrante, con cui si faceva un infuso, molto efcace per pulire l‘intestino

    da ossiuri e tenie. La “critima” poi era ed è un’erba molto aromatica e dal saporeforte, tuttora usata per insalata, che stimola la digestione e combatte l’acidità di sto-maco. Quest’erba si trova lungo la roccia di Capo Palinuro ma è soprattutto buona erichiesta quella che vegeta sullo scoglio del Coniglio, di fronte alla Marinella.

    Qui di seguito, attraverso documenti, interviste e foto d’epoca gli Autori hanno cer-cato di ricostruire episodi di vita vissuta, aneddoti, fatti, storie e leggende, relativeessenzialmente all’attività della pesca, di un numero espressivo di pescatori di Pali-nuro che hanno speso buona parte della loro vita sul mare, e questo quando la pescarappresentava la principale risorsa per la maggiore parte delle famiglie di Palinuro.Le testimonianze (dirette e indirette) raccolte, insieme alla produzione di un’impor-tante collezione iconograca, che riguarda sia le famiglie sia l’ambiente e il terri-torio, permettono di ricomporre e tracciare le profonde trasformazioni che hannoriguardato, tra gli anni della ne della prima guerra mondiale e gli anni 1960-70, gli

    aspetti sociali, economici e culturali di Palinuro e della sua “Gente di Mare”.

    Palinuro, anni 1940, piazza Virgilio angolo via Indipendenza.

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    ANTONIO AMENDOLA

    (insegnante-pescatore)

    Antonio Amendola, glio di Alfonso e di Vincenzina Finamore, nato a Palinuro il

    5/11/1930, n da ragazzo, sentì forte la passione per il mare e, ancora oggi, all’età

    di 82 anni, la coltiva. Infatti, pur risiedendo a Roccagloriosa, luogo di origine degli

    avi materni e sua sede d’insegnamento, da quando ha nito la sua carriera, vive perlunghi periodi dell’anno, nella sua casa al Porto di Palinuro. Con la sua barca, in-sieme alla moglie Antonietta Capobianco e a qualche amico, passa intere mattinatesul mare. Pesca con le coffe, con le lenze o a traino. Pescare, solcare l’acqua azzurradi Palinuro, col motore al minimo o fenderla con i remi, non è per lui un hobby ma

    un piacere grandissimo: è provare un senso di libertà, un sollievo al fastidio che procurano la confusione e la corsa della vita moderna. Sin da quando era studente,s’interessava alla vita di mare, quindi cominciò a seguire le vicende dell’industriadella pesca iniziata dal nonno Vincenzo e poi continuata da suo padre Alfonso edallo zio Nicola. A tal proposito racconta:<  Avevo 19 anni e frequentavo il liceo, quando seppi che mio padre insieme al fratello Nicola e al socio Francesco Di Fiore, avevano deciso di montare sulla

    loro barca, il cianciolo S. Pietro, un motore più grande e quindi più potente. Per

     fare ciò, bisognava andare a Napoli per prendere un motopeschereccio, il S. Giu-

     seppina, portarlo a Salerno, dove era in attesa il S. Pietro e lì fare lo scambio deimotori. Io, che ero studente liceale in quella città, volli partecipare all‘impresa. In

    un pomeriggio del mese di febbraio del 1949 partimmo da Napoli diretti a Salerno.

    Sul S. Giuseppina con me, oltre al motorista Giacomo Belonoskin, c’erano quattro

     pescatori venuti da Palinuro: Tommaso De Luca, Aniello Romano, Aniello Scarpati

    e Mauro Calembo. Navigammo spediti no a Sorrento; poi cominciò a levarsi il

    vento di scirocco che rallentò molto la nostra andatura: lo avevamo a prua, contra-

    rio alla nostra rotta! Arrivati davanti a Positano, vicino all’isola Li Galli, cambiò

    il vento e infuriò una tempesta fortissima. Non vedevamo le luci dei paesi della

    costiera, perché era andata via la corrente a causa dei fulmini; non ci orientavamo

     più in quell’inferno di lampi e tuoni. A bordo nessuno parlava! Eravamo sballottati,

    impossibilitati a muoverci. D’improvviso, un’onda altissima sollevò il S. Giusep-

     pina e ci trovammo su di una spiaggia. L’urto fu così forte che il motore saltò dal

    basamento e si spense. Era buio totale! Non sapevamo dove eravamo niti. Dopo

    un poco si riaccesero le luci e arrivò in nostro soccorso la guardia di nanza, e così

     sapemmo che ci eravamo arenati a Positano. Fummo portati in un locale - la buca

    di Bacco – dove trovammo persone gentilissime che ci accolsero e ci rifocillarono.

     La mattina seguente, una motovedetta della Capitaneria di porto ci rimorchiò noa Salerno, dove il motore del S. Giuseppina fu trasferito sul S. Pietro. Dopo qualche

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     giorno, ritornammo a Palinuro. Ogni tempesta nisce. Era arrivata la primavera e

    quindi la stagione della pesca che, in quell’anno, fu molto abbondante >.Le lampare furono sostituite dai ciancioli, comparsi in questa zona nella prima metàdel ‘900. Il primo cianciolo portato a Palinuro fu il S. Giacomo, comprato in Siciliada Vincenzo Amendola, ma, dopo pochi anni, fu rivenduto e sostituito da un altro

    cianciolo, il S. Pietro, più grande e meglio attrezzato.Anche altri imprenditori del luogo comprarono motopescherecci attrezzati a cian-cioli: Antonio Rinaldi il “Marco Polo”, Giacomo Polito gestiva il “Pappagallo” di

    un certo Frangione da Ascea. Antonio Amendola così continua:

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    blu in un moto frenetico. L’annuncio dell’abbondante pesca era dato col suono del-

    la “tufa” (conchiglia alla cui base era stato praticato un foro), in cui un pescatore

     sofava energicamente La tufa emetteva un suono tanto forte e profondo da sentirsi

    a notevole distanza. Era consuetudine avere a bordo del cianciolo una bacinella

    di lamiera, “a bagnarola”, col fondo pieno di pietre pomici, su cui si accendevano

    i carboni per arrostire le alici della prima pescata. Io che ho avuto la fortuna diassaggiarle posso affermare che erano di un sapore unico, perché venivano arro-

     stite, appena pescate, senza essere sventrate e senza essere lavate con acqua dolce;

    quindi conservavano tutto il sapore del mare >.< C’è da dire che no alla metà del secolo scorso il mare di Palinuro era ricchis- simo non solo di pesce azzurro, ma di ogni specie di pesce pregiato. Ricordo che,

    dopo aver conseguito la licenza ginnasiale, i miei genitori mi regalarono un fucile

    e una maschera per la pesca subacquea: quel regalo fu ed è stato il dono più gra-

    dito che abbia ricevuto nella mia vita! Era il primo fucile per la pesca subacquea

    che arrivava a Palinuro. Ero ragazzo: sognavo avventure; desideravo scoprire;volevo sapere ciò che nascondeva la lunga scogliera sommersa che va dal porto di

     Palinuro a Caprioli. E con la maschera e il fucile cominciai a farlo in giovane età.

     Era per me un divertimento bellissimo osservare gli scogli sommersi, ricchi di ve-

     getazione e brulicanti di pesci d’ogni genere. C’era l’imbarazzo della scelta: si pe-

     scavano spigole, cernie, saraghi, cervine a basse profondità, dai tre ai sette metri.

    Un giorno, quando ancora si viaggiava col calesse e il cavallo, venne a farci una

    visita inaspettata, un fratello di mio nonno, grande cacciatore di lepri. Mia madre

    voleva preparare un pranzo a base di pesce allo zio che veniva dai monti; perciò

    m’incaricò di andare a pescare sugli scogli della Ficocella – spiaggia vicino casamia – dicendomi di portarle qualcosa di buono. Mi sentii importante per l‘incarico

    afdatomi e m’imposi un obbligo: devo pescare un bel pesce! Mi tuffai dagli scogli

    della Ficocella degli uomini (all’epoca vi erano due spiagge divise: una riservata

    agli uomini e un’altra, separata dalla prima da una scogliera, riservata alle don-

    ne) e nuotai per un centinaio di metri verso il largo, raggiungendo la punta della

     Ficocella delle donne. Tra le due spiagge vi era una scogliera sommersa, ricca di

    anfratti e buche, nelle cui cavità si trovavano pesci delle migliori specie. Osser-

    vando con la maschera il fondale, dopo poco intravidi una spigola molto grande.

     La seguii e la colpii con la ocina. Dovetti però risalire in supercie per respirare:

    io scendevo in apnea. Presa aria, m’immersi immediatamente per non perderla.

     Intanto una grossa murena, attratta dall’odore del sangue della spigola ferita, era

    accorsa e cercava di aggredirla. Lottai per difendere il mio bottino e ci riuscii.

     Portai a casa una spigola di oltre tre chili e mezzo. Lo zio, cacciatore di lepri, nel

    vederla esclamò: - Questa si che è caccia! Altro che la lepre dietro cui perdo intere

     giornate. Io, per la mia caccia, avevo impiegato soltanto due ore! >.<  Ancora un altro episodio straordinario mi capitò a Porticello, scogliera che si

    trova a sud della Ficocella degli uomini. Ero con mio fratello Vincenzo e pescava-mo a turno: avevamo una sola maschera e un solo fucile. Vincenzo s’immerse per

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     primo e risalì dopo poco dicendo: qui c’è un polipo enorme, Io non ci provo; se

    vuoi, scendi tu. Mi passò la maschera e il fucile e mi tuffai, dove mio fratello mi

    aveva indicato. Dopo poco risalii in supercie con il polipo che avevo colpito fra

    i due occhi e che era rimasto inlzato al fucile. Aveva tentacoli lunghissimi: con

    alcuni si avvinghiò al mio braccio destro e al torace, mentre io mantenevo la testa

    alta, girata verso sinistra, per evitare che i tentacoli mi toccassero il viso. Vincenzomi aiutò a staccare i tentacoli dal braccio, ma i segni delle ventose restarono sulla

    mia pelle per diverse settimane. Il polipo, che pesava circa dieci chilogrammi, fu

    appeso a una baracca, alta più di due metri: i tentacoli soravano la sabbia! Pur -

    troppo ora il mare non è più pescoso come un tempo: potrei dire con il mio amico

     Bartolo che “stu mari è sul’acqua”! (questo mare è solo acqua) >.

    Il porto di Palinuro anni 1930, con i pescherecci all’ormeggio.

    Antonio e Vincenzo Amendola,

    gli di Alfonso Amendola.

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    Alfonso Amendola.

    Vincenzina Finamore moglie di Alfonso Amendola.

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    Palinuro, spiaggia della Ficocella degli uomini, anni 1930.

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    VINCENZO AMENDOLA

    (un amaltano a Palinuro)

    Vincenzo Amendola, nato ad Amal nell’anno 1872, da Rosa Coppola e Nicola

    Amendola, era il terzo di sette fratelli. Verso la ne del 1800, ancora giovanissimo,

    animato da spirito d’intraprendenza non comune, decise di navigare verso la costadel Cilento.Sbarcò nella piccola rada, protetta dal promontorio di Capo Palinuro, su cui troneg-giava e troneggia il faro.Il giovane Vincenzo, - più tardi, il cavaliere -, restò forse stupito per la bellezza del posto, per gli strapiombi della roccia su un’acqua azzurrissima, trasparente, qualeancora è. Non poteva certamente sfuggire alla sua vivace intelligenza e al suo intuito, chequella era la terra adatta per rimanervi tutta la vita.Il borgo di Palinuro era formato da poche case di pescatori e contadini, da una piccola chiesa dall’architettura povera, con le mura bianche e il tetto rosso, che oranon c’è più! Nella rada, chiamata da tutti “il porto”, vi erano solo sei case e la cappella di S.Antonio.

    I colori, la luce dell’alba e del tramonto, la semplicità della gente, la quiete e laserenità che regnavano nella zona dovettero dare al giovane amaltano l’idea del

     paradiso terrestre.Da quel paradiso, infatti, Vincenzo non si allontanò più.A 22 anni, nel 1894, sposò Maria Luigia Gambardella, una giovane palinurese, -glia di un’agiata famiglia del posto.Comprò e ristrutturò una vecchia casa, rendendola comoda e bella, e lì visse con lasua famiglia.

    S’interessò di far aprire a Palinuro il primo ufcio postale, di cui fu direttore.Promosse l’agricoltura e creò, in loco, la prima industria della pesca. Infatti, primadel suo arrivo, i palinuresi pescavano, in maniera tradizionale, ciascuno con la sua barca. Vincenzo organizzò i pescatori in ciurme, comprò imbarcazioni e reti adatte per la pesca del pesce azzurro – in particolare alici e sarde – che faceva salare in

    appositi barilotti, detti “terzarole” che spediva alla ditta Cirio.Uomini e donne trovarono lavoro: venivano anche dalla vicina Marina di Camerotamolte persone a lavorare presso la ditta Amendola.Il commercio orente gli permise di comprare terreni e ruderi, che ristrutturò facen-

    done case e locali, dove si riunivano a lavorare folti gruppi di donne, che divenneromolto esperte nell’arte di salare le alici. Il cavaliere, da tutti conosciuto e stimato

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    come un uomo attivo e intraprendente, teneva ottimi rapporti con operai, pescatorie con le donne addette alla salagione delle alici. Non era il padrone che sorvegliava e comandava: era un amico, una persona riccadi umanità e comprensione, che cercava di dare lavoro e promuovere l’economialocale.

    Era allegro, facile alla battuta ironica, alle osservazioni sagaci. Intelligente e furbo,seppe guadagnarsi, in breve, non solo la stima ma anche l’affetto di chi viveva in-torno a lui.Dopo un anno dal matrimonio con Maria Luigia, nacque il primo glio, Nicola; in

    seguito nacquero Rosa, Alfonso e Teresa. Era una bella famiglia e, quindi, c’era bisogno di aiuto.A quel tempo, a Palinuro, non esisteva l’acquedotto che distribuiva l’acqua nellecase: bisognava attingerla alla fontana pubblica. Il cavaliere, bene pensò, di andaread Amal, a prendere una donna di sua ducia, ancora abbastanza giovane, che

     potesse aiutare la moglie, e provvedere, sopratutto, al trasporto dell’acqua, dallafontana a casa, con “le quarte”, anfore di terracotta con due manici.La donna si chiamava Maddalena, nella parlata familiare e dialettale “Matalè”; or-mai zitella, non aveva conosciuto uomini: ne aveva avuto sempre un sacro timore,timore che, con l’età, era aumentato.Era venuta a Palinuro, col cavaliere, solo perché lo conosceva da quando era nato, esapeva di andare in una casa dove c’erano solo bambini e la signora Maria Luigia.Si affezionò alla famiglia, dalla quale era trattata benissimo, e vi restò per sempre.Maddalena aveva una sua stanzetta, al primo piano con una nestra che si aprivasul giardino, dove c’erano piante di aranci, limoni e un pollaio. Sotto la stanza diMaddalena, al pianterreno, c’era un locale, adibito a deposito per le reti da pesca, cheerano usate solo in determinati periodi dell’anno. Le reti erano arrotolate in modo daformare dei grossi gomitoli, dette”balle di reti”, posti l’uno sull’altro, su un ripiano,in gergo“spasario”, fatto con travi di agavi secche, appoggiati su cavalletti di ferro.Maddalena, ogni sera, andando a dormire, prima di chiudere la nestra e posizionare

    la “pannula”1 dietro agli scurini, negli appositi buchi del muro, guardava nell’orto,

     per assicurarsi che non ci fossero estranei. Una sera, Maddalena, nel fare la solitaispezione, notò qualcosa che si muoveva vicino alla rete del pollaio e corse a “darela voce” in famiglia. La signora Maria Luigia andò subito a vedere e rassicurò Mad-dalena, spiegandole che la “cosa” che vedeva muovere, era una gatta che, dopo aver partorito, aveva sistemato proprio lì, sotto un mucchietto di frasche, i suoi gattini.“ Matalè, stai tranquilla – le disse poi il cavaliere - “i malintenzionati non vengonoqua, quelli sanno, dove andare, sanno, dove sono le femmine allegre e belle; sicu-

    ramente non cercano te! Se poi hai paura degli spiriti, sient’a mme, quelli stanno

    meglio all’altro mondo: qua non ci tornano più!” Detto questo, il cavaliere e sua

    1 robusto paletto che veniva posto orizzontalmente dietro gli infissi.

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    moglie si avviarono verso la loro camera da letto, non lontana da quella di Madda-lena. Spensero il lume a petrolio e si addormentarono subito, favoriti dal silenzio edal buio. Per la povera Maddalena non fu così: il buio e il silenzio erano per lei ter-ricanti. Con gli occhi spalancati, cominciò a pensare: E se quella non era una gatta,

    ma un uomo che voleva nascondersi nel pollaio? Ohi, mamma mia! Che faccio?

    Sant’Andrea, aiutami tu! Zitta, immobile, Maddalena invocava il bel santo lasciato adAmal, e respirava appena, con la testa mezza dentro e mezza fuori dalle coperte.

    Era una notte calma, senza vento, ma buia come “la bocca dell’inferno”, dicevaMaddalena quando raccontava alle amiche ciò che era successo. In quel silenzio, inquel buio pesto, a un tratto Maddalena cominciò a sentire dei ton cupi, come fosse-ro uomini, che saltavano, uno dietro l’altro. E allora, per tutta la casa, riecheggiaro-no le sue urla disperate. Maddalena era sicura di non essersi sbagliata: “la cosa” cheaveva visto muoversi nell’orto non era una gatta. Perciò gridava: “Cavalié, venite,venite, i diavoli” zompano! Venite, correte, i’ mo moro! Moro, moro !”. Il cavalieree la moglie, svegliati da tali disperate invocazioni, si alzarono per correre in soc-corso della loro domestica; ma non era facile, all’epoca, accendere velocemente unlume a petrolio e correre. Oltretutto il cavaliere, nel buio, cercava le sue brache: non poteva correre nudo da Maddalena; sarebbe morta davvero! Quindi, sia lui che lamoglie, risposero ripetutamente: “ Matalè, veniamo subito, stiamo venendo, aspet-ta; stiamo accendendo il lume!”

    Maddalena non sentiva assolutamente niente, continuava a gridare senza sosta,mentre il cavaliere cercava di inlare le gambe nel mutandone. In effetti, i ton li

    avevano sentiti anche il cavaliere e la moglie che avevano immediatamente capitocosa era successo. I rumori – terribili, per Maddalena - venivano dal locale, dove

    erano sistemati i rotoli di rete, proprio sotto la sua stanza. I rotoli erano appoggiatil’uno sull’altro, senza essere legati con corde: evidentemente, per il precario equili- brio, il rotolo, che stava più in alto, precipitò; dopo di questo, ne precipitarono altrie perciò il rumore era ripetuto, uguale, proprio come un tonfo di qualcuno che salta.Maddalena, pertanto, presa dalla disperazione, visto che il cavaliere non arrivava,mandò un urlo altissimo. Meditò il suicidio! “Cavalié, cavalié, i’ mo me menghe !”

    Maddalena non ragionava più: voleva lanciarsi dalla nestra, perché era certa chevi erano uomini in casa. Il cavaliere, mentre cercava di ricomporsi alla meglio, con-tinuava a gridare quanto lei: “ Matalè, nun fa’ a’ pazza! Aspetta, aspetta; n’avé pau-ra! Sono le balle che stanno cadendo una appriess’a l’ata. N’avé paura, Matalè.

    Vengo, vengo! N’avé paura!” Per risposta, Maddalena: “ Nooo....i’ me menghe!” Ilcavaliere che, nalmente, era riuscito a tirar su le brache, visto che Maddalena non

    si calmava, rispose: “ Matalè, menate e futtete!” Maddalena non si tolse la vita.Il mattino seguente, l’episodio passò di bocca in bocca, suscitando non poca ilarità.E’ rimasto, ancora oggi, famoso “il detto” del cavaliere: “ Menati e futtete!”

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    Vincenzo Amendola nato ad Amal nel 1872, a 18 anni (a sinistra)

    e nel 1907 a destra.

    I gli di Vincenzo Amendola, Alfonso, Nicola, Rosa e Teresa,

    nel 1903.

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    Maria Luigia Gambardella, moglie di Vincenzo Amendola,

    con le glie Teresa (sinistra) e Rosa (Destra).

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    Palinuro, Nicola Amendola con la moglieTeresa Bortone, 1935.

    Terrazza di casa Amendola su via Indipendenza.

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    Palinuro 20-ottobre-1939, il Battesimo di Maria Luisa Amendola.

    Corteo in via Indipendenza.

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    Manifesti attraverso cui la ditta Amendola di Palinuro pubblicizzava

    i prodotti della trasformazione del pesce.

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    UN RUSSO-COSACCO A PALINURO: JAKOV BELONOZKIN

    (Giacomo Belonoskin)

    Giacomo Belonoskin nacque a Ostraskàja, cittadina del sud della Russia, il 24 di-cembre 1886. Durante la rivoluzione d’ottobre del 1917 si arruolò nella cavalle-ria ma, poiché la sua famiglia fu perseguitata, per la guerra civile scatenatasi inRussia, Giacomo, per salvarsi, fu costretto a lasciare il padre Arcadij (Arcadio),

    la madre Daria, i fratelli Eugenio, Giacomo 1° e Pascoida; s’imbarcò su una nave

    che lo portò in Grecia. Dalla Grecia, avventurandosi nel Mediterraneo, raggiunse

    la Francia; entrò nella Legione straniera e andò a combattere in Libia. Dopo pocodisertò, insieme con altri amici russi e, coraggiosamente, con una piccola imbar-cazione, ancora una volta si afdò alle onde del mare. Giacomo e i suoi compagni

    navigarono per quattro giorni e quattro notti, col vento non sempre favorevole,senza viveri e col fuoco nemico in agguato. La mattina del quinto giorno, la barca,con i profughi russi, nalmente incrociò un bastimento, il cui capitano indicò a

    Giacomo la rotta per raggiungere la terra; seguendo le indicazioni avute, approdò a

    Lampedusa. Giacomo e i suoi compagni si accorsero che erano arrivati in Italia e,

    arrampicandosi sulla scogliera, raggiunsero il faro dell’isola. Furono soccorsi dagliabitanti e le autorità del posto li mandarono a Roma, presso il consolato russo da

    cui ottennero nuovi documenti. Più tardi fu loro concesso asilo politico dallo statoitaliano. A Roma Giacomo dovette separarsi dai suoi amici. Questa separazione fu,

     per lui, un gran dispiacere che si aggiunse a quello che lo aveva già segnato, quandofu costretto a fuggire dalla sua terra. Giacomo, ormai avanzato negli anni, quando

    raccontava la fuga dalla Russia, fatta attraverso il Mar Nero, era preso da una gran-de tristezza. Diventava molto serio, parlava a voce bassa e, mischiando il dialetto palinurese all’italiano, creava una lingua tutta sua, segnata da una forte inessione

    russa. Era un uomo alto, forte, robusto, dal volto duro, solcato da profonde rughe,

    ma diventava fragile, gli si arrossavano gli occhi, gli tremava la voce nel raccontarela sua avventura.< Sette giorni – diceva – sette giorni di fuga, senza mangiare né bere, attraverso il Mar Nero, tra lo spettacolo terricante dei cadaveri di tanti cosacchi, più sfortu-

    nati di noi, che pendevano dai pali della linea elettrica …> e non era più capace dicontinuare il racconto.

    Ma ritorniamo a descrivere i fatti in ordine cronologico.Il profugo russo fu mandato dal consolato a Napoli, dove lavorò per due anni inun’ofcina meccanica, mentre i suoi amici restarono a Roma. A Napoli comin-ciò a sentirsi più sicuro, perché conobbe una nobildonna russa, Baranoskaja Maria

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    Dohrn, che prese a proteggere il suo conterraneo e lo raccomandò al giornalista escrittore Michail Nikolaevic Semenov, anch’egli russo, trasferitosi in Italia, a Posi-tano, dove si dedicò alla pesca. Semenov, infatti, comprò un battello a vapore chefece arrivare da Amburgo a Napoli. A riparare e a mettere in mare quel battello, cheera molto rovinato, pensarono Giacomo Belonoskin e un certo Edoardo, rinomato

    meccanico napoletano. La capacità di Giacomo a intervenire sul motore e la periziache dimostrava nella navigazione, non sfuggirono all’attenzione di Semenov, percui lo assunse come motorista.Messo in mare il battello, Semenov, Giacomo e Edoardo arrivarono a Sorrento.

    Provata la barca, Edoardo se ne tornò a Napoli.Giacomo e Semenov si diressero

    a Positano e da qui al porto di Amal. Ma la barca aveva bisogno di riparazioni

    allo scafo, per cui Giacomo la portò a Salerno, dove un bravo carpentiere la riparò

     perfettamente. Finito questo lavoro, Semenov ordinò a Giacomo di ritornare a Posi-tano, dove lui e la sua amica presero alloggio in un albergo; Giacomo invece restò

    a vivere sulla barca, la “Carlo Scarfoglio”, dove nalmente poteva mangiare e bere,

    quando, come e quanto voleva!Rimase per alcuni anni a lavorare, come motorista, con lo scrittore russo, che com- prò altre barche e mise su una vera e propria industria della pesca. Con i peschereccidi Semenov, Giacomo si spinse sulla costa cilentana, no a Marina di Camerota,

    approdando sia alla Molpa sia al porticciolo di Palinuro.Finalmente, a Palinuro, dopo tante avventure, per il profugo russo, sorse un’albanuova: un’alba, propria un’Alba! Una bella ragazza, di nome Albina, rischiarò la

    sua vita. Si sposarono e, per i primi due anni di matrimonio, vissero a Napoli, per-ché Giacomo ritornò a lavorare presso l’ofcina di Edoardo, a Santa Lucia. Intanto

    l’amico di Semenov, il ballerino russo Massine aveva acquistato l’isola Li Galli,

    davanti a Positano e cercava una persona di ducia, che facesse il custode. Michail

    Semenov gli propose Giacomo Belonoskin che accettò e si trasferì, con la moglie

    Albina, nell’isola Li Galli dove visse per quattro anni, facendo il custode fanalista.

    Intorno al 1934, per controversie sorte con il ballerino Massine, lasciò l’isola e andòa vivere a Positano.

    Da Giacomo Belonoskin e Albina Pepoli nacquero tre gli: Maurina, a Palinuro, nel1928; Daria, nell’isola Li Galli, nel 1929; Artemio, a Palinuro, nel 1931.

    A Positano Giacomo conobbe il maresciallo Lagoria che lo indirizzò presso il can-tiere Bonifacio di Salerno, per l’acquisto di una vecchia imbarcazione da passeggio.Il bravo motorista russo la modicò interamente e ne fece una barca per trasporto

    merci: con questo battello lavorò molto, trasportando merci da Salerno a Capri.Dopo qualche anno si trasferì denitivamente a Palinuro, dove la moglie Albina

    comprò da donna Angelica Rinaldi una casa, sulla spiaggia del porto, che Giacomo

    ristrutturò. Nella nuova casa abitò, con la famiglia, per tutta la vita.A Palinuro continuò il suo lavoro, navigando lungo la costa calabra e spingendosi

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    no in Sicilia, per trasportare merce di ogni genere.

     Nel decennio tra il 1930 e il 1940, a Palinuro cominciò a svilupparsi l’industriadella pesca del pesce azzurro. In quell’epoca il mare tra Pisciotta e la collina diMolpa era pescosissimo: le vecchie lampare a vela e a remi furono sostituite damotopescherecci a motore, veloci e più sicuri. Vi fu in loco una vera propria corsa

    all’attività peschereccia, avviata e diretta da un uomo di intelligenza e volontà noncomuni, che, da Amal, si era stabilito a Palinuro: era Vincenzo Amendola che or -ganizzò i pescatori palinuresi in ciurme.La sua ciurma era diretta dal capobarca Amodio Sacco ,“u capitano”, e dal motori-sta Giacomo Belonoskin, “u russo”, responsabili del San Pietro, un barcone, dalla

     prua alta e superba, che faceva bella mostra di sé nel porto di Palinuro. Il San Pietroera dotato di una rete, “il cianciolo”, capace di contenere diversi quintali di alici,che veniva tirata a bordo meccanicamente. Aveva un motore diesel, di notevole potenza, che consentì a Giacomo di affrontare la tempesta del 25 settembre 1949,

    rimasta nella storia dei palinuresi.Al mattino di quel 25 settembre il tempo era bello, per cui molti pescatori, proprie-tari di barche a remi, si spinsero al largo, per la pesca del pesce spada. Nulla faceva prevedere che nel pomeriggio si sarebbe scatenato l’inferno! Verso le ore 15 il cielo

    improvvisamente si rabbuiò, il vento prese a sofare dal nord e le onde del mare si

    sollevarono, spumeggiando senza sosta. Lampi e tuoni si impadronirono dell’aria.Le barche che erano al largo di Capo Palinuro non si videro più: furono ore di panico! Molti palinuresi scesero sulla spiaggia del porto, insieme ai familiari dei

     pescatori che non erano riusciti a raggiungere la riva. Era quasi buio e una barca cona bordo due uomini non era ancora rientrata. Erano Mauro Pepoli “Ciucculatera” eSalvatore Del Gaudio “U zitu”.

    Sacco Amodio si recò dai proprietari del S. Pietro e chiese il permesso di uscire nel-la tempesta, con il loro motopeschereccio, sperando di ritrovare la barca dispersa. Nicola Amendola disse che valeva la pena di rischiare la barca, per salvare dellevite umane, purché Giacomo, il motorista, fosse disposto a farlo. Giacomo era già

     pronto: aspettava solo il consenso dei padroni; quindi fece tirare gli ormeggi e partì

    dal porto, beccheggiando terribilmente sulle onde. Il S. Pietro scomparve dietro la punta di Capo Palinuro, mentre i familiari e gli amici dei pescatori dispersi, si ri-versarono nella cappella di S. Antonio, che si trova sulla spiaggia. Cominciarono atirare ininterrottamente la corda della campana, al cui suono si unì il pianto dispera-to delle madri e delle mogli. Successe allora una strana cosa, “un fenomeno strano”direbbe la Chiesa, quando non osa pronunciarsi.Artemio Belonoskin, glio di Giacomo, dice che il padre così raccontava:

    < affacciatosi dalla zona sottocoperta, dove era il motore, vide in quel buio, unaluce occhieggiare sul mare in tempesta e gridò ad Amodio di raddrizzare il S. Pietro

    nella direzione in cui aveva visto il segnale luminoso. Amodio ruotò il timone nella

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    direzione indicatagli, e Giacomo spinse al massimo il motore. Chiamarono, grida-

    rono il più forte possibile, sdando gli spruzzi violenti dell’acqua, nella speranza

    di ritrovare i dispersi >.La rotta indicata da Giacomo e seguita da Amodio, nelle tenebre, senza alcun mez-zo di orientamento, li portò sulla meta.

    Incontrarono i pescatori dispersi che, perduti i remi, stremati dalla violenza delmare, si reggevano a stento nella barca piena d’acqua. Giacomo, appena li vide,

    esclamò: “ Meno male che avete acceso quella luce, altrimenti non vi avremmotrovati.”Mauro Pepoli rispose: “ Ma di quale luce parli? Di quale segnale? Noi non abbiamoniente. Siamo bagnati dalla testa ai piedi; non potevamo accendere nulla, anche se

    avessimo avuto qualcosa per farlo”. Tirati a bordo i due naufraghi, con non pocadifcoltà, il S. Pietro puntò verso il faro di Palinuro, unico segnale che si poteva

    seguire in quella notte di tempesta. Raggiunto il porto e raccontato l’accaduto, sigridò al miracolo ottenuto per intercessione di S. Antonio.Artemio Belonoskin, nel raccontare questo fatto, aggiunge: .( Palinuro 12/04/2012)

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    Palinuro, Giacomo Belonoskin (Jakov Belonozkin) con la moglie

    Albina Pepoli ed i gli Artemio e Maurina, anni 1930.

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    Palinuro, Belonoskin Giacomo e la moglie Albina.

    Palinuro, Nazareno Pepoli (a sinistra) con Giacomo Belonoskin.

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    Ciurma di pescatori al porto di Palinuro,

    anni 1930s, in attesa di imbarcarsi.

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    Antonio Rinaldi (il Duegno), al porto di Palinuro, anni 1930-40.

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    ANGELINA CALEMBO

    E’ nata l’8 settembre 1922 ed è una testimone vivente, in perfetta salute mentale,che ricorda e racconta come vivevano i palinuresi nel ventennio 1930-1950.

    Angelina, nonostante i suoi novant’anni, conserva un bell’aspetto sico e il brio e

    l’umorismo che nascono da un’intelligenza pronta e da un’intuizione vivace.Ancora ragazza cominciò a lavorare nell’industria della salagione delle alici, messasu da Vincenzo Amendola.Ricorda le compagne di lavoro: Anella Troccoli, Assunta Calembo - dotata di parti-colare forza sica, che le consentiva di zappare con vigore maschile – Donata Ca -lembo, Antonietta Passarelli, Giuseppina Diotaiuti, Filomena Scarpati e Angelina

    Granito, che teneva allegre tutte, con un linguaggio “ forbito e colorito”. Delle suecompagne, sono viventi Giuseppina Diotaiuti e Filomena Scarpati.

    <  Anche se erano tempi duri – dice Angelina – e sentivamo spesso i morsi della fame, eravamo felici, perché ci accontentavamo di poco, di tanto poco! Un giorno

    la mia compagna di lavoro, Angelina, prese dalla salamoia un bel po’ di alici, senza

     farsi scorgere dal proprietario, le lavò per farne cadere il sale, corse a friggerle a

    casa sua e le portò a noi altre. Le mangiammo con gusto, anche se assai salate, e ci

    divertimmo molto perché nessuno si era accorto della marachella.

     Eravamo tutte amiche, ci riunivamo per andare a lavorare insieme: non c’era ge-losia, non c’era invidia tra noi!

    Ora abbiamo tutto, ma ognuno vive “ per conto suo “, ognuno vive isolato nella

     propria casa. Non ci conosciamo più! Dov’è Palinuro di una volta? Dov’è?

     Allora Palinuro era tutta una famiglia: quando il tempo era buono, gli uomini

    andavano a pescare; quando il tempo era cattivo, coltivavano la terra; mentre noi

    donne, oltre a salare le alici, eravamo addette a trasportare i vari raccolti stagio-

    nali nei cesti, che portavamo, in equilibrio, sul capo.

     E ricordo che le donne di Marina di Camerota, sempre in testa, trasportavano alicie sarde, in cesti rivestiti di tela cerata, camminando lungo la spiaggia del Mingar-

    do, no a Palinuro. Quando arrivavano da noi, portando il pesce da salare, erano

     sporche e “puzzolenti” per il sangue che, ltrando dai cesti, scorreva loro sulle

     spalle e sul petto.

     Il cavaliere Amendola apprezzava il loro duro lavoro e, nel vederle così conciate,

     si dispiaceva a tal punto che, spesso, faceva loro qualche regalo, oltre la normale

     paga. Un giorno riuscì a prendere dalla cantina di casa, all’insaputa dei familiari,

    un prosciutto e lo diede alle donne di Marina.

     Noi palinuresi restammo deluse: ci aspettavamo che avesse detto di mangiarlo in-

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     sieme con noi. Se lo portarono tutto intero le camerotane!

     A noi il cavaliere portava i chi secchi - preparati in modo particolare dalla mo-

     glie e dalle glie - ma senza farsi scorgere da chi li aveva confezionati con tanta

    accortezza!

     Durante il lavoro, talvolta s’intratteneva con noi, raccontando fatterelli divertenti

    nel suo dialetto amaltano. Quante risate, quante battute, a mezza voce, su chi, piùingenuo, si faceva burlare!

     Mentre una di noi “ scapava “ (toglieva la testa) le alici e le passava alla vicina,

    che le disponeva in la nelle terzarole (barilotti da un terzo di quintale) con svel -

    tezza e perizia, c’era sempre chi aveva da raccontare qualcosa.

     A quei tempi non avevamo né radio né televisione, ma a Palinuro c’era un quintetto

    che ci faceva divertire: era formato da Carmelantonio Pepoli (Minghiarro), Anto-

    nio Diotaiuti (Misurieddo), Giuseppe Raimondo (u papa), Luigi Sacco (u ndringhe-

    te) e Angioletto.

     Il quintetto, dotato di una sarmonica e qualche altro strumento improvvisato, por -

    tava serenate e, nella notte di Capodanno, faceva il giro del paese, sostando casa

     per casa, e augurava buon anno, cantando così:

    Te venga lu buonio

    e lu buon anno.

     Buone feste

    e buonu capurannu!

    ‘A ‘mberta crammatinae pe cient’anni!

    (Ti auguro la buona salute e il buon anno. Buone feste e buon Capodanno.

     Il regalo domattina e per cent’anni).

     Al mattino seguente l’allegro quintetto ripercorreva il tragitto fatto la notte per

    ricevere, da ogni capo famiglia, il consueto regalo (‘a ‘mberta) >.

    Angelina parla poi di sé, della sua vita: si sposò a venti anni, il 15 ottobre 1941, col

    falegname Antonio Troccoli ed ebbe tre glie, Teresa, Anna e Anella.

    E così continua:

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    Angelina Calembo

     

    Filomena Scarpati (a sinistra) e Giuseppina Diotaiuti (a destra).

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    Palinuro le funzioni del Venerdì Santo, anni 1950.

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    GIUSEPPE D’ACQUISTO, FARMACISTA,

    (campione di pesca subacquea)

    Giuseppe D’Acquisto – per gli amici Peppino – nacque a Palinuro il 20 ottobre

    1930; laureatosi in farmacia presso l’Università degli studi di Napoli, esercitò la sua professione in una farmacia della stessa città, no al 1998. Si dedicò anche all’inse-gnamento di matematica e scienze presso l’istituto Cimarosa di Aversa. Queste, le professioni ufciali che gli consentirono i suoi studi, ma la sua professione-passio-ne fu, ed è stata no a qualche anno fa, la pesca subacquea.

    Il dottor Peppino racconta:

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     sciuti. Comprai la prima maschera e il primo fucile a Salerno e, insieme agli amici

    Vincenzo e Antonio Amendola, che si fornirono anch’essi di maschera e fucile, di-

    ventammo i padroni della scogliera di Palinuro. Allora il mare era ricchissimo di

     pesce: pescavamo cernie enormi, dentici, spigole e polipi giganteschi. Ma io non

    ero spinto a immergermi, solo per il piacere di pescare; ero preso da una voglia

    irresistibile di esplorare il fondale marino, le grotte ricche di gorgonia e goderedello spettacolo indescrivibile che offre la scogliera sommersa di Capo Palinuro.

    Volevo vedere la ora e la fauna, i giochi di luce, i colori che si trovano laggiù.

    Sono vissuto a Napoli, per tanti anni, ma le mie radici erano a Palinuro: ogni volta

    che ne avevo la possibilità, sia da studente sia da professionista, ritornavo qui, per

    andare a mare. Immergermi era un’emozione sempre nuova, perché nuovo era,

    ogni volta, lo spettacolo che il fondale mi offriva. Con la mia barca a remi, passavo

    intere giornate sul mare, dietro al frontone: ne ero il padrone! Partivo al mattino

    dal porto, accompagnato spesso dall’amico Gerardo Scarpati, detto “U stocco”

    e, insieme, restavamo in mare no al tramonto. Gerardo mi aspettava sulla barca,mentre io facevo le mie immersioni. A bordo non mancavano, per bere. “a mmum-

    mola” (anfora di terracotta a due manici, che manteneva l’acqua fresca) e, per

    mangiare pane, pomodori, soppressata e chi, a panieri. Questa frugale colazione

    consumata all’ombra della roccia di Capo Palinuro o sulla spiaggetta del Buon-

    dormire, aveva un sapore particolare: il sapore del mare e l’odore dell’erba degli

     scogli… non lo so! Credetemi, non sono ricordi, sono cose rimaste vive nell’anima!

     Ero instancabile: il mio sico me lo permetteva. Un giorno, spinto dalla voglia di

    esplorare, commisi un’imprudenza che poteva essermi fatale: sapevo che l’interno

    della Grotta Azzurra era il covo delle cernie, detto in gergo palinurese – mammadelle cernie - e pertanto la prima tappa per l’immersione era nella grotta, proprio

    nello specchio azzurro. Immergendomi e avanzando nel grosso arco, percorso dal

     fascio di luce che si rifrangeva dall’esterno, vedevo brulicare le cernie tra una

     prateria di gorgonie.

    Tra queste una color rosso carminio, mi colpiva in modo particolare. Dalla grot-

    ta, a nuoto, doppiavo il Capo e mi portavo all’esterno, nel punto, dove la falesia

     forma l’arco attraverso il quale si rifrange la luce che illumina la volta interna,

     Rifeci questo percorso per alcuni anni e, avanzando nell’esplorazione dell’arco,

    mi trovavo sempre di fronte alla stessa gorgonia rosso carminio, che vedevo anche

    dall’interno. Prendendo come punto di riferimento la gorgonia rosso carminio, va-

    lutai che avrei potuto percorrere, in apnea, il tragitto tra l’interno e l’esterno della

     grotta. Un dubbio: la gorgonia poteva non essere la stessa! Come fare? M’immer-

     si portando con me un pezzo di sacco bianco, che avevo in barca, e lo legai alla

     pianta. Vericai che, immergendomi all’interno della grotta, vedevo la gorgonia

     segnalata con lo straccio bianco.

     Dopo qualche giorno, accompagnato dal do Gerardo, tentai l’attraversamento

    dell’arco. Mi tuffai con la maschera, all’interno della grotta e scomparvi agli occhidell’amico. Dopo pochi minuti ero all’esterno. Fu per me un trionfo!

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     Intanto il povero Gerardo, non vedendomi riemergere, dopo il solito tempo, comin-

    ciò a preoccuparsi seriamente. Non sapeva cosa fare. Comunque decise di restare

    ai remi e aspettare ancora qualche minuto, all’interno della grotta. Non sospettava

    che io avessi potuto raggiungere l’esterno! Mentre era preso da ansia e paura,

    io riapparvi sull’ingresso della grotta, nuotando tranquillamente. “U stocco”, nel

    vedermi, ebbe un moto di sollievo e di rabbia insieme, che sfogò così: imprecòterribilmente, sganciò un remo dallo scalmo e lo lanciò verso di me. Non mi colpì.

    Capii la sua reazione e cercai di rabbonirlo, raccontandogli quello che avevo fatto

    e che, tuttora, ritengo sia la mia più bella avventura di mare.

    Sarebbe lungo raccontare tutte le abbondanti pescate da me fatte: il mare mi ha

    dato grandi soddisfazioni! Ho partecipato a vari campionati di pesca subacquea

    e, nel 1951, a Palinuro, mi classicai primo in una gara, pescando tanto pesce che

    bastò per preparare, nel ristorante S. Caterina, un pranzo per i concorrenti e gli

    organizzatori.

     La rinomata ditta Cressi Sub voleva darmi la rappresentanza e l’esclusiva di vendi-ta dei suoi prodotti, ma dovetti rinunciare per ultimare gli studi universitari. Girai

    la proposta a un commerciante di Palinuro che, con la vendita di quegli articoli,

    realizzò ottimi guadagni.

    Ora sono anziano, amo sempre tanto il mare: non riesco a vivere senza guardarlo

    ogni giorno, dalla mia terrazza. D’estate, vivo la maggior parte della giornata, al

     porto di Palinuro, dove possiedo una piccola casa e una barca, sempre la stessa.

     Non pratico più pesca subacquea, ma sono il punto di riferimento, per i miei cinque

    nipoti (Anna Rita, Teresa, Valeria, Vincenzo e Giuseppe), che seguono, con interes-

     se e attenzione, il racconto delle mie avventure, mentre io, soddisfatto, mi accorgodi aver dato loro una grande eredità: l’amore per il mare >.Palinuro 19/04/2012

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    Palinuro, 1955,

    Giuseppe D’Acquisto di ritorno da una battuta di pesca in apnea.

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    Peppino D’Acquisto mostra una cernia di 12,50

    chilogrammi arpionata in tre riprese a Caprioli

    settembre 1955.

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    Il promontorio di capo Palinuro; si intravede l’ingresso

    della famosa grotta azzurra.

    Palinuro, l’ingresso della grotta azzurra.

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    Gerardo Scarpati, che accompagnava

    Peppino D’Acquisto nelle sue battute di pesca subacquea.

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    ANIELLO ESPOSITO

    (Mastro Ciccio)

    Sulla collina di Carminella, località dal panorama mozzaato, di fronte alla Molpa

    e allo scoglio del Coniglio, si trova la casa di Aniello Esposito, per tutti mastro Cic-cio, nato e vissuto a Palinuro dal 1909 al 1995. Mastro Ciccio era un personaggio

    tra i pescatori. Sposò Giuseppina Granito e dal loro matrimonio nacquero due gli,Antonietta e Mauro, che, parlando del padre, rivivono storie antiche, esperienzevissute in tempi in cui la pesca era l’unica fonte di guadagno a Palinuro. MastroCiccio era intelligente e furbo e gli piaceva vivere allegramente: infatti, spessosuonava una sarmonica a orecchio, improvvisando, con chi si trovava presente,

    tarantelle, balli e canti cilentani. Per questo era conosciuto e benvoluto da tutti.Molti dei turisti che venivano abitualmente a Palinuro, negli anni ‘60, andavano allaspiaggia della Marinella a cercare mastro Ciccio, per fare, con la sua barca, passeg-giate lungo il promontorio e, soprattutto, per ascoltare le simpatiche storie che sa- peva raccontare, con spiccato umorismo, mischiando dialetto palinurese e italiano.Si racconta che l’onorevole Scarlato - la cui villa è molto vicina alla casa di MastroCiccio - ogni anno, per S. Francesco – 4 Ottobre - era solito regalargli una bottiglia

    di whisky. L’onorevole gli faceva questo regalo, perché era convinto che, in quelladata, ricorresse l’onomastico del simpatico pescatore, suo vicino. Un anno, mastro

    Ciccio ricevette il solito dono, alla presenza di un suo cognato. Appena l’onorevolesi allontanò dai due, il cognato chiese a mastro Ciccio: ” Perché Vincenzo Scarlatoti fa questo regalo, tutti gli anni, il 4 ottobre?” Mastro Ciccio, stringendo la bottigliasotto il braccio, rispose: .(Dovessi dirglielo che mi chiamo Aniello? Non sia mai! Se tu glielo dici, a S. Fran-cesco la bottiglia non la vedo più!)Ma la vita di mastro Ciccio, come quella di tutti i pescatori, non fu sempre facile. Nel secolo scorso, le previsioni del tempo erano approssimative, mai certe, quindianche a lui, per due volte, capitò di trovarsi a lottare con il mare. Il glio Mauro rac-conta che il padre pescava molto con i “laccioli”2. Una sera di aprile in cui il mareera calmo e l’aria tiepida, mastro Ciccio decise di andare a “ mettere i laccioli”

    dietro Capo Palinuro, nella cala della Lanterna. Fissati i laccioli alla roccia, ma-stro Ciccio tornò a casa. All’alba del giorno seguente, nulla faceva pensare che quelmare, calmo e invitante, sarebbe diventato una bolgia di onde spumeggianti. Perciò

    2 Filacciolo: corda di una ventina di metri, alla cui estremità si applica un amo di circa sei cen-timetri, che viene fissata alla roccia; è segnalata da un galleggiante e una tavoletta con le iniziali

    del pescatore proprietario.

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    Mastro Ciccio prese la sua barchetta e, remando dalla spiaggia della Marinella, siavviò verso la cala della Lanterna. In breve tempo, si levò un “ vento di Canale “- vento di sud-est simile allo scirocco – che solleva onde altissime. Il poveretto sitrovò, da solo, in balia delle onde. Non fu facile rientrare alla Marinella, perchéil vento, sofando da sud, era contrario alla sua rotta. I suoi gli, la moglie e altri

    amici, corsero sulla spiaggia, nella speranza di vederlo ritornare. Intanto il ventocontinuava a infuriare e la barca non si vedeva. La glia Antonietta, poco più che bambina, presa dalla disperazione, non sapendo cosa fare, mentre piangeva, comin-ciò a scavare nella sabbia, e continuò nché il padre non approdò:la buca diventò grandissima, perché mastro Ciccio, lottando con le onde, impiegòun’intera mattinata per tornare a riva.Anche un’altra volta mastro Ciccio rischiò la vita in mare, insieme al glio Mauro,

    allora ragazzo, e a un altro pescatore: mise le reti al largo della Molpa e tirò la barcasulla spiaggia del Buondormire. La mattina seguente il tempo non sembrava cat-

    tivo, quindi decise di andare insieme al glio a levare le reti. Arrivato in direzionedella Molpa, il cielo diventò di piombo: le onde del mare sollevavano la barca, cherischiò di capovolgersi. Mauro racconta: .Mauro Esposito parla del padre con tanta affettuosa ironia. Questo e altri simpaticiepisodi della vita di Mastro Ciccio sono ricordati da pescatori anziani di Palinuro

    che li raccontano per rievocare un tempo sereno che non può più ritornare.

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    Palinuro, la Marinella, Aniello Esposito (Mastro Ciccio)

    con Ioccia, anni 1950.

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    Sopra, Mastro Ciccio mette le reti.

    Sotto, Mastro Ciccio con una turista.

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    Mastro Ciccio con un turisti, sopra, e con il glio in

    barca, sotto.

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    Il glio di Mastro Ciccio, Mauro, a pesca.

    Palinuro, lo scoglio del Coniglio visto dalla “Carminella”.

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    LEONARDO FUSCO

    (esploratore degli abissi)

    Il 21 giugno del 1931, da Alba Garzilli e Procopio Fusco, nacque Leonardo, a Ce-raso, piccolo e ridente borgo cilentano, a circa 30 km da Palinuro. Fino all’età di 8

    anni non conobbe il mare, ma già a quell’età il piccolo vivacissimo Leo, eludendola sorveglianza dei genitori, si cimentava in imprese, ardite per un bambino, nelleacque del ume Palistro.

    Il Palistro, ume a carattere torrentizio, forma un’ansa chiamata “il pozzetto”, pro-fonda circa un metro e mezzo, e proprio nel pozzetto del Palistro, Leonardo si tuf-fava e imparava a nuotare sott’acqua, con gli occhi aperti.Quel ragazzino, dai riccioli biondi e dagli occhi azzurri, non temeva l’acqua freddadel ume, né aveva paura della profondità. Il suo piacere era conoscere, scoprire.

    Il suo rifugio era il capanno di un contadino, dove nascondeva il lenzuolo, perasciugarsi dopo le nuotate, e la bicicletta con cui tornava a casa.Il padre aveva capito che era un ragazzo particolare, ne seguiva con ansia le avven-ture e, nel segreto del suo cuore, ne era orgoglioso. Per le imprudenze, non riuscivaa rimproverarlo, se non in modo affettuoso, concludendo: < che Dio me la mandibuona con te, guagliò ! >.Gli promise che lo avrebbe portato a mare, a Palinuro, dove aveva comprato la torresaracena del porto, che ristrutturò, facendone la sua seconda casa.Il fascino che il mare esercitò sul piccolo Leonardo fu enorme.La voglia di conoscere il mare ed esplorarne gli abissi cresceva in lui ogni giornodi più.A quattordici anni vide, per la prima volta, dei pescatori subacquei, provenienti daCapri, con maschere e fucili. Rimase ammirato e sbalordito nel vedere gli attrezzidi cui erano dotati.

    E i sub capresi rimasero, a loro volta, sbalorditi per la conoscenza delle scogliere edelle grotte di Capo Palinuro che Leonardo, sebbene giovanissimo, dimostrava diavere. Nel libro “Corallo rosso”, di cui egli stesso è autore, racconta la sua meravigliosa eavventurosa vita, vissuta sul mare e sotto il mare.Da quel che descrive, pare che sia stato diretto sempre da eventi e incontri fortuiti,che lo indussero a non seguire la carriera che il diploma di Capitano di Lungo Corsogli avrebbe permesso di fare, ma a dedicarsi completamente all’esplorazione degliabissi sottomarini.La scogliera sommersa di Capo Palinuro fu il suo banco di prova: a diciotto anni

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    Leonardo scendeva a profondità notevoli, attratto dalla bellezza superba dei fonda-li. Superava, in apnea, l’arco della falesia, - sospeso sul fondale - attraverso cui av-viene il fenomeno della rifrazione dei raggi solari all’interno della grotta azzurra.Le scogliere sommerse di Capo Palinuro, all’epoca ( anni cinquanta ), erano com- pletamente sconosciute.

    I pescatori del luogo, ignari della vita del mondo sommerso, erano tuttavia affa-scinati dall’imponenza della parete rocciosa a picco sul mare, dalla bellezza delleforme e dei colori, dal misterioso silenzio dei luoghi e delle grotte, per cui avevanocreato racconti e leggende di sirene, di divinità marine e pesci strani che avevanodimora negli anfratti.Leonardo, durante l’adolescenza e la prima giovinezza, ascoltò i racconti di quellagente di mare, ne assorbì il linguaggio, le abitudini, passando insieme a loro interegiornate a pescare.Tutto ciò gli conferì un enorme bagaglio di esperienze, utile per affrontare la suaavventurosa vita di uomo di mare.Intanto improvvisamente veniva a mancare il padre; i tempi erano difcili e Leo-nardo fu costretto a lavorare.Si recò a Napoli, dove si dedicò alla pesca subacquea, traendone un buon protto.

    Esplorò quelle acque , non solo per pescare pesci pregiati, ma anche per recuperareuna quantità enorme di fauna bentonica, bellissima - presente in quel tratto di mare -che arricchì la stazione zoologica marittima di Napoli e gli acquari di molte cittàeuropee.Intanto, nel 1953, si apriva a Palinuro il villaggio turistico francese, il “Club Me-diterrané” dove, fra gli altri sport, era praticato anche la “ plongée” (immersione inlibertà, senza attrezzatura da palombaro).Leonardo non vide di meglio che diventare amico del capo istruttore, Jean PierreBroussard, per conoscere e approfondire le tecniche d’immersione.Da Jean Pierre ebbe, infatti, le prime lezioni per l’immersione con l’autorespira-zione ad aria compressa (ARA) e divenne immediatamente padrone della nuovatecnica.

    Ben presto raggiunse i venti metri di profondità e fu proprio, a quella profonditàche, per recuperare una cernia arpionata il giorno prima, Leonardo scoprì il coralloa Palinuro.Con un suo amico, ritornò sulla tana, dove aveva colpito la cernia, che era rimastaincastrata tra due rocce; s’immerse con tecnica di respirazione ARA e ritrovò lacernia ormai morta.La trasparenza dell’acqua di Capo Spartivento lo indusse a proseguire oltre e aesplorare quella scogliera sottomarina.Sicuro di avere abbastanza aria nelle bombole e, sostenuto dal suo coraggio, senzasapere a che profondità si trovasse (non possedeva profondimetro né orologio su-

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     bacqueo), si spinse più avanti.Ai suoi occhi apparve un nuovo mondo: su una parete di roccia verticale viveva unacittà di corallo!Era un’innità di rami rossi brulicanti di piccolissimi polipi bianchi.

    Capì che aveva scoperto qualcosa di particolarmente importante, per cui abbando-

    nò il fucile e la cernia e, con l’aiuto di un sasso, staccò dalla roccia alcuni di queimeravigliosi rami.Risalì lentamente come l’istruttore francese gli aveva raccomandato.Arrivato in supercie, accanto al gozzo, mostrò all’amico quello che aveva pesca-to.L’amico, che era un gioielliere, nel vedere quella meraviglia, esclamò: “Veramente no, spiegamelo!”. < Sono rami di Corallorubrum. Con questo si fanno i migliori gioielli! >.Da quel momento Leonardo capì che in quel luogo, a Capo Spartivento, lo aspet-tava “l’oro rosso”, al cui recupero avrebbe dedicato tutta la sua vita, esplorando,anche, i mari di molte parti del mondo.La stampa dell’epoca diffuse la notizia della scoperta del banco di corallo, fatta aPalinuro: il settimanale “ Tempo” dedicò la copertina dell’8/11/1956 all’esploratore

    degli abissi (vedesi foto di seguito riprodotta).La direzione dell’acquario di Napoli lo chiamò per fargli eseguire altre immersio-ni nel golfo; ma, dopo alcuni mesi, Leonardo lasciò la Campania per recarsi, conl’amico Ennio Falco, ad Alghero, in Sardegna, alla ricerca di corallo.

    I primi tempi furono duri perché non trovarono subito il corallo, pertanto i due ami-ci si dedicarono alla pesca subacquea e al recupero di materiale bellico – giacente

    sui fondali - che vendevano ad un rigattiere.Era un lavoro duro, perché non era facile portare a bordo i cesti pesanti con i bossolidi ottone, recuperati a profondità notevoli!Un giorno uno di questi cesti si sganciò dalla corda, mentre era tirato in supercie,

    e ricadde sul fondo del mare. Leonardo, per recuperarlo, si tuffò immediatamente acirca 30 metri di profondità.

    Spinto sempre da quello spirito di avventura e di curiosità, che ne ha fatto un per-sonaggio unico, esplorò con lo sguardo il fondale circostante. La trasparenza delleacque gli permise di vedere, non molto distante, un enorme scoglio a forma dicapanno. Lo raggiunse: era una grande caverna, rivestita interamente di “corallum rubrum”, dalla volta alle pareti.Senza pensarci un attimo, Leonardo si liberò dei bossoli, svuotando il cesto, cheriempì di “oro rosso” , in pochi minuti.Era il primo corallo trovato in Sardegna - Alghero, Capo Caccia.Da Alghero passò all’arcipelago della Maddalena, approdando a Santa Teresa diGallura, accompagnato dalla futura moglie, Vera.

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    Dopo una breve sosta a Santa Teresa, raggiunse l’Isola Rossa, fantastico isolottodalla roccia rosso sangue e dalla natura incontaminata. La stupenda isola non offri-va nessuna comodità all’epoca, ma Leonardo e Vera superarono ogni disagio, felicidi vivere in un luogo così bello.Comunque le ripetute immersioni, a 40 metri di profondità, permisero la raccolta di

    diversi chilogrammi di corallo.Il suo vagare per il Mediterraneo era appena cominciato: dalla Sardegna si spostòall’Argentario.Comprò uno scandaglio che gli permetteva di individuare il punto giusto per ese-guire immersioni mirate.Aveva capito, dall’esperienza fatta in Sardegna, che il corallo di pregio non si trovasui bassi fondali: i successi ottenuti a Palinuro, a Capo Caccia e all’Isola Rossa nonsi ripeterono più.Era scoraggiato, ma ancora una volta il caso gli fu d’aiuto: un pescatore ponzeseche pescava aragoste vicino all’Isola di Montecristo, gli assicurò che, a circa 15

    metri dalla costa, aveva trovato nelle nasse diversi rametti di corallo.Le immersioni cominciarono subito. A ben 85 metri, l’audace esploratore trovò un

     banco di corallo enorme, di ottima qualità. Leonardo racconta, in “Corallo Rosso”,di essere rimasto sul fondale per ben 6 minuti, a riempirne un cesto!.

     Nonostante fosse emozionato, riuscì ad avere un notevole autocontrollo, e riemerse piano, con cautela, per compiere una lunga decompressione, prima di arrivare insupercie. La padronanza di sé e la capacità di autocontrollo furono le doti peculiari

    che fecero di Leonardo Fusco uno dei più grandi sub a livello mondiale.Dall’isola di Montecristo, si diresse a Civitavecchia, dove arrivò a notte fonda eattraccò accanto ai gozzi dei pescatori. Com’è consuetudine della gente di mare,fece subito amicizia con un anziano pescatore napoletano, che era sulla prua delgozzo, ormeggiato accanto alla sua barca. Il napoletano diede tutte le informazioni possibili sui fondali della zona, assicurando che, a Montalto di Castro, il corallo sitrovava a 35 metri e non a 85, come a Montecristo.

    Il giorno seguente il napoletano lo accompagnò sul posto in cui aveva trovato il

    corallo nelle reti.Le prime immersioni nelle acque di Montalto furono infruttuose; tuttavia la tenaciae la costanza di vagare nei silenzi delle scogliere sommerse, premiarono questostraordinario uomo di mare.In quel mare, infatti, Leonardo raccolse un’enorme quantità di corallo.Proprio quest’esperienza positiva gli fece decidere di dedicarsi completamente allavita di mare, insieme alla moglie Vera, che lo seguì, per 30 anni, in giro per il Me-diterraneo.Con il ricavato della vendita di quel corallo, comprò le attrezzature e gli strumentinecessari per affrontare, in sicurezza, immersioni ad alte profondità.

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    Commissionò a Meta di Sorrento la sua prima imbarcazione, “ Il Paguro”, che dotòdi doppio compressore, doppi eco-scandagli, camera di decompressione e di ognimezzo necessario all’assistenza di un sub in immersione e in risalita.All’epoca le scogliere di corallo molto profonde erano devastate e sconvolte, nel-l’habitat di riproduzione, dall’“ingegno” o “croce di S. Andrea”, attrezzo rudimen-

    tale tirato a strascico dalle “coralline”, imbarcazioni di Torre del Greco, che cerca-vano corallo lungo le coste del Mediterraneo.Leonardo, prendendo atto dello scempio che era procurato dalle coralline nel mon-do sommerso, si recò a Zurigo e collaborò con alcuni studiosi svizzeri per realizzareun sistema d’immersione, con miscele di gas e nuove attrezzature, che consentis-sero ai sub di scendere a notevoli profondità (no ai 120 metri), restare sui fondali

     più a lungo per raccogliere a mano il corallo, senza alterarne l’habitat naturale e il processo di sviluppo e di riproduzione.In seguito si dotò anche di un minisommergibile, con cui ritornò nelle acque in cuisi era immerso 20 anni prima e rimase sconvolto e addolorato nel vedere quel mon-do sommerso, per lui meraviglioso, brutalmente stravolto. Pensò quindi di provarea ripopolare le scogliere di corallo, procedendo all’impianto di rami giovani in unhabitat idoneo al loro attecchimento e sviluppo.Fino al 1984 Leonardo ha praticato la pesca del corallo in tutto il Mediterraneo

    (Marocco, Libia e Tunisia) arrivando anche in Giappone.

    E nel mare della Tunisia ebbe termine la sua attività di pescatore di corallo.Ma non vennero meno la sua audacia e la sua intraprendenza.Con coraggio e fatica, superando innite difcoltà burocratiche e senza avere una profonda conoscenza di medicina iperbarica, mise su un’azienda sanitaria privata,il “Cemsi”, a Salerno, che ha riscosso notevoli successi nel campo dell’ossigenote-rapia, per la cura di molte malattie.Purtroppo questo personaggio, vanto del Cilento, sua terra di origine, e orgoglio diPalinuro, luogo che elesse come sua denitiva dimora, come tutti i grandi, è andato

    via in un baleno.E’ mancato a noi tutti il 16 giugno 2012.

    L’Accademia Internazionale di Scienze Tecniche Subacquee gli ha conferito,  postmortem, il premio “Tridente d’oro 2012” il cui attestato recita così:

    .

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    Palinuro, Porto,1939, l’antica torre saracena che,

    restaurata, divenne la casa della famiglia Fusco.

    Palinuro, la pesca in apnea. Da sinistra, Leonardo Fusco,

    il Conte Malvasia e il Conte Rasini di Castel Campo ( i primi turisti ).

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    Primo corallo a palinuro: Leonardo Fusco ha l’onore della

    copertina del settimanale “Tempo” dell’8 novembre 1956.

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    Il primo corallo pescato in Sardegna da subacquei nelle grotte di Capocaccia.

    Vera, berlinese doc, moglie di Leonardo Fusco.

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    Aniello Granito, detto “U Spaccone”.

    Aniello Granito, detto “U Pordu”.

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    Antonio Gabriele.

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    MAURO PALMIERI

    (Fecatieddu o Civittula)

    Mauro nacque a Palinuro il 19 novembre 1918.

    La sua infanzia non fu facile, perché la grande guerra aveva sconvolto la precariaeconomia di Palinuro. Mauro, perciò, come gli altri bambini palinuresi, suoi coeta-nei, sentì anche i morsi della fame.Tutto ciò non incise negativamente sul suo carattere: da adulto si rivelò una perso-na socievole, estroversa, allegra e disponibile. Era intelligente e arguto, piccolo distatura, con la pelle bruciata dal sole e due occhietti vivaci che, luccicando sotto lavisiera nera dell’inseparabile “coppola bianca”, lasciavano intendere il pensiero delloro padrone, prima ancora che lo traducesse in parole.Il glio Pompeo così racconta: <  Mio padre aveva col mare un legame viscerale.

     Non riusciva a stare lontano dall’acqua salata. Una volta mi disse che desiderava

    andare a Roma, perché voleva vedere il Papa. Volli accontentarlo. Il primo giorno,

     preso dalla straordinaria grandezza e bellezza della capitale, non mostrò segni

    d’inquietudine. Il secondo giorno cominciò ad agitarsi, fremeva, non era più con-

    tento. Allora gli chiesi cosa avesse. Mi rispose: - Mi sento male. Domani mattina

    voglio rivedere il mare.

     La nostra gita, quindi, ebbe breve durata. Più che i monumenti romani e la confusione della città, mio padre preferiva vedere

    i colori del suo mare e godere della pace e della libertà che gli offriva la sua bar-

    chetta.

     Restava, infatti, intere giornate, al largo, per pescare.

    Un mattino d’autunno – non ricordo di quale anno – papà uscì per la pesca dei

    tonni.

     Il tempo era buono, ma nel pomeriggio si scatenò un temporale: si levò un for-

    te vento e il mare si agitò. Intanto papà non rientrava al porto. Cominciammo a preoccuparci; andammo a chiedere ai pescatori di Pisciotta e di Camerota se aves-

     sero visto approdare un gozzo sulle loro spiagge; ma la risposta fu negativa.

     Noi gli pensammo di chiedere a un parente, Ciro Palmieri, di uscire in mare col

     suo motopeschereccio, alla ricerca di mio padre. Ci spingemmo al largo, dietro

    Capo Palinuro, ma non lo trovammo. Eravamo disperati e cominciavamo a pensare

    al peggio quando, sulle onde, vedemmo beccheggiare una barca. Era proprio lui e

    lo raggiungemmo! Attraccammo al porto che era quasi notte.

    Gli domandammo, dove si era riparato, come aveva fatto a reggere alle onde, con i

     soli remi. Tentennò il capo e, con un sorriso sornione, rispose: - Io non sono fesso,

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    Mauro Palmieri.

    Mauro Palmieri e Assunta Gorga celebrano le nozze d’oro.

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    ANIELLO PEPOLI

    (Buonomo)

    Aniello Pepoli nacque a Palinuro il 22 marzo 1911 da Francesco e Giuseppina Scar - pati ed era il secondo di 7 gli. Visse al Porto, nella casa paterna, no a quando

    sposò Carmela Granito e andò ad abitare sulla panoramica strada che dal paese

     porta al mare. Lo avevano soprannominato “Buonomo” perché veramente era unuomo buono. Passò tutta la sua vita sul mare: era uno di quei pescatori che vivonoscandendo il tempo e rispettando abitudini e tradizioni: una persona tranquilla, chenon amava la confusione e il chiasso. Più che parlare, gli piaceva ascoltare o leggere

    quando poteva. La glia Maria racconta:

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     sfaccettate, in mezzo alle quali si accendeva il fuoco. Nel fusto si metteva l’acqua

    e la polvere di “zappinu” sufciente per la quantità di rete da tingere e si portava

    a ebollizione. Quando l’acqua diventava marrone - rossiccio, si ripuliva da qual-

    che scoria e vi s’immergeva la rete. L’immersione della rete nella tintura bollente

    durava pochi minuti. Si tirava via la rete tinta e, nella stessa acqua, s’immergeva

    altra rete da tingere. Poi le reti erano sistemate su assi di legno, coperte con telo-ni e si lasciavano scolare, per tutta la notte. Al mattino seguente si appendevano

    allo“spasario” (stenditoio fatto con travi di agave secche) per farle asciugare al

     sole. Questo lavoro era fatto sulla spiaggia di cui, all’epoca, i pescatori potevano

     servirsi senza prescrizioni e limitazioni.

     Il dopoguerra fu un periodo abbastanza difcile perché eravamo cinque gli, tutti

    bambini, e papà doveva lavorare per tutti: l’unica fonte di guadagno era la pesca

    e non sempre si riusciva a vendere il pesce; spesso si faceva il baratto con prodotti

    alimentari che noi non avevamo.

     Le cose cominciarono a migliorare negli anni cinquanta, con l’arrivo a Palinurodel Club Mediterranée. Papà trovò lavoro sso nel Club accompagnando i turisti

     francesi con la barca, lungo la costa e no alle spiagge di Marina di Camerota. Il

    turismo migliorò l’economia della nostra famiglia, perché trovarono lavoro anche

    i miei fratelli.

     Mio padre fu eletto anche consigliere comunale e ricoprì questa carica presso il

    nostro Comune, come rappresentante dei pescatori, per circa un ventennio. Co-

    munque, anche se partecipava alla vita politica, non abbandonò mai il suo lavoro:

    andò a pescare nché le forze glielo consentirono. L’impegno di andare quotidia-

    namente a mare lo aiutò a sopportare i dolori che colpirono la nostra famiglia: duemiei fratelli, Franco e Antonio, morirono ancora giovani. Dopo la loro morte mio

     padre diventò taciturno, passava intere giornate al Porto, a fare il “rammaggio”

    alle reti. L’unico suo piacere era passare il tempo con i nipoti che rallegrarono un

     poco gli ultimi suoi anni, quando perdette anche la compagnia di mia madre. Mio

     padre, senza fare discorsi, senza metodi speciali, ci ha educato ad essere persone

     serie: il suo esempio di uomo giusto, il suo attaccamento al dovere e la sua saggez-

     za ci parlano ancora >.

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    Aniello Pepoli, in marina, è il sesto da destra. la signora che passa in rassegna

    il picchetto d’onore è Maria Josè, la moglie del principe Umberto di Savoia

    (ultimo re d’italia).

    1966, Aniello Pepoli con la moglie

    Carmela Granito.

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    Aniello Pepoli, con la nipotina Donatella (sopra) e con la moglie

    Carmela Granito (sotto), addetto alla preparazione delle reti.

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    Aniello Pepoli, in barca mentre si prepara a lanciare la rete,

    con il glio Antonio.

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    vicino alla costa.Ciccio perdette la pazienza: s’innervosì e non avendo pietre a bordo, cominciò alanciare alcuni piombini, che conservava in un canestro, contro la cabina della pa-ranza mandandone i vetri in frantumi.Il capitano reagì brutalmente e cominciò a inseguire la piccola barca.

    Ma Ciccio, che conosceva bene l’andamento del fondale del posto, si diresse, re-mando con tutte le sue forze, verso la spiaggia, seguendo un percorso dove la pro-fondità era bassa.Questo perché, se la paranza avesse continuato a inseguirlo, si sarebbe arenata.La paranza fu così costretta a rinunciare all’inseguimento e drizzò la prua versoPunta Licosa.Ciccio rientrò al porto e raccontò quanto gli era accaduto ai pescatori palinuresi.Tutti si proposero di far valere i loro diritti, anche con modi forti.Infatti, da allora furono più attenti a sorvegliare la navigazione dei motopescherecciforestieri.Intorno agli anni 50’ capitò un fatto che ancora e oggi è raccontato e ricordato dai

     pescatori più anziani.

    Aniello Graniti, detto “Poldo”, racconta:<  Era settembre. Il tempo si manteneva

    buono, per cui le paranze del golfo di Napoli erano tutti i giorni lungo la costa di

     Palinuro per la pesca a strascico.

     La paranza, trascinando la sua rete a piccole maglie, imprigiona anche i pesci pic-

    colissimi, (le famose fragaglie di triglie, ottime per la frittura mista), impedendonela crescita, e quindi la riproduzione.

    Vi fu un periodo in cui noi pescatori palinuresi non pescavamo più triglie di “mor-

     sa”, cioè triglie grandi ricercate dai ristoranti per arrostire o per cucinare alla

    livornese.

     Perciò Francesco Pepoli, uomo tenace e costante, era particolarmente attento a

     sorvegliare se le paranze si avvicinassero alla nostra costa.

    Una sera di settembre, infatti, Ciccio vide una paranza che pescava a poca distanza

    dalla spiaggia, di fronte alla costa di Buondormire. Chiamò altri pescatori, tra cui Antonio Calembo, “Nghingotto”, uomo molto deciso, e con una barca a remi si di-

    ressero verso la paranza. Vi si accostarono e chiesero con deci