Palestina e Israele_ Che Fare_ - Noam Chomsky

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Le terre238

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I edizione digitale: giugno 2015I edizione: giugno 2015

© 2015, Noam Chomsky and Ilan PappéEdizione italiana pubblicata in accordo con Nabu International Literary Agency

www.nabu.it© 2015 Fazi Editore srlVia Isonzo 42, RomaTutti i diritti riservati

Titolo originale: OnPalestineTraduzione dall’inglese di Michele Zurlo

ISBN: 978-88-7625-834-3www.fazieditore.it

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Noam Chomsky - Ilan Pappé

PALESTINA E ISRAELE:CHE FARE?

a cura di Frank Barattraduzione di Michele Zurlo

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IndiceIntroduzione1. Le vecchie e le nuove conversazioniParte prima. Dialoghi2. Il passato3. Il presente4. Il futuro5. Viaggio al centro di Israele6. Viaggio al centro degli Stati UnitiParte seconda. Riflessioni7. I tormenti di Gaza, i crimini di Israele, le nostre

colpe8. Breve storia del genocidio progressivo di Israele9. Incubo a Gaza10. L’inutilità e l’immoralità della partizione della

Palestina11. I cessate il fuoco e le loro incessanti violazioni12. Discorso alle Nazioni Unite

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PALESTINA E ISRAELE: CHE FARE?

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IntroduzionediFrankBarat

Comemaiseidiventatounattivista?EperchépropriolaPalestina?

È il genere di domande a cui un attivista dovràrispondere prima o poi quando si troverà a raccontare ai“non attivisti” la sua vita, il suo lavoro e le motivazioniche lo spingono. Spesso sono tentato di ribaltare ladomanda e chiedere «perché tu non sei un attivista?»; poici penso su e faccio del mio meglio per rispondere aquesta domanda un po’ seccante.

Perché rispondo? Perché penso che sia importantecapire da dove nascano queste domande, così com’èimportante guardarsi dentro, fare un passo indietro,ripercorrere il proprio cammino, fermarsi e rendersi contoche, non molto tempo fa, anch’io magari avrei fatto lastessa domanda a chi lottava per un mondo migliore, unmondo in cui ci fossero eguaglianza, giustizia e libertà pertutti, indipendentemente dalla nazionalità, dall’etnia, dalpaese di origine, dal colore della pelle, dalle opinionipolitiche o dall’orientamento sessuale.

Comesidiventaquindiunattivista?Mi viene da rispondere che non diventiamo attivisti,

semmai dimentichiamo di esserlo. Quando nasciamo,siamo tutti dotati di compassione, generosità e amore pergli altri. L’ingiustizia e la discriminazione ci dannofastidio. A tutti, nel profondo, sta a cuore l’essere umano.

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Tutti noi vogliamo dare più di quanto non riceviamo. Tuttivogliamo vivere in un mondo in cui la solidarietà e lafratellanza siano valori più preziosi dell’individualismo edell’egoismo. Tutti vogliamo condividere le cose belle,provare la gioia, l’allegria, l’amore e fare nuoveesperienze, insieme.

Ma c’è un problema, un grosso problema. Viviamo inuna società, e in un’epoca, in cui non abbiamo più iltempo per riflettere. Viviamo in un tempo in cui fermarsi erespirare profondamente è diventato un lusso che non cipossiamo permettere.

Viviamo in un mondo in cui il sistema d’istruzionetradizionale ti insegna a obbedire all’autorità fin daquando sei piccolo, e non ti dà la possibilità di pensareper conto tuo e di esprimere te stesso in modi chedivergono dalle regole imposte dal sistema stesso.

Viviamo in una società in cui il “nulla” (lo shopping, latelevisione) è diventato “qualcosa”, mentre “qualcosa”(rilassarsi, meditare, condividere) si è trasformato in unvuoto da riempire. La nostra mente, la nostra anima è statalentamente corrotta dal nulla materialistico creato a bellaposta per noi, affisso davanti ai nostri occhi, e poiimpresso, tatuato nelle nostre cellule dalla pubblicità, dalmarketing e da un capitalismo rapace.

Il “telecomando” con cui controlliamo il nostro mondoha solo due pulsanti: «Play» e «Avanti veloce», mentrenoi vorremmo premere il pulsante «Pausa».

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Sono “diventato” un attivista grazie ai libri.Dopo aver lavorato da quando avevo vent’anni facendo

lavori normali, da bravo cittadino, dalle nove alle cinque,con gli occhi sempre puntati sull’orologio, godendomi lavita per le ragioni che mi erano state inculcate,esprimendo quelle potenzialità che la società e i suoi“leader” mi avevano “concesso” di possedere, ho decisodi fermarmi.

Ho lasciato il lavoro e la città in cui vivevo da sei annie ho ricominciato a studiare, ho letto centinaia di libri, eho capito cosa volevo in quel periodo della mia vita, chein teoria doveva essere un momento transitorio (la pauradella disoccupazione, la noia che si sarebbe potutainsinuare) e che invece dura ancora oggi.

Leggere quei libri, e sentirmi illuminato da quelleletture, ha cambiato la mia visione della vita e del suosignificato. Ho cominciato con Chomsky, e poi mi sonointeressato sempre di più alla questione israelo-palestinese. I libri di Edward Said, Mahmoud Darwish,Ghassan Kanafani, John Berger, Tanya Reinhart, IlanPappé, Norman Finkelstein, Noam Chomsky, KurtVonnegut, Arundhati Roy, Naomi Klein e altri sono entratia far parte della mia vita e delle mie abitudini.

I libri mi hanno cambiato, e penso che essi siano, più diqualunque altra cosa, lo strumento migliore per conoscere,riflettere e comprendere a fondo il mondo in cui viviamo.Sono un ponte lanciato sulle lingue, i continenti e i popoli.

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Un libro ti tiene compagnia e rimane con te, ti segna comenient’altro. Ci ritorni su, lo citi, ne discuti. Ne presteraiqualcuno o te ne farai prestare uno. Per questo la parolascritta è un motore di cambiamento più potente e duraturorispetto a quella parlata.

Mi sono sentito un privilegiato quando, nel 2008, duedegli autori sulla Palestina che più avevo letto e studiato,il professor Noam Chomsky e il professor Ilan Pappé,hanno accettato di lavorare a un libro assieme a me. Ilnostro lungo scambio di email ha dato poi vita al volumeUltimafermataGaza:doveciportalaguerradiIsraelecontroipalestinesiche ha avuto un grande successo ed è stato tradotto inmolte lingue. Dopo quel libro lo scambio tra me, Noam eIlan è continuato, principalmente via mail. Un giorno,durante un incontro a Bruxelles, Ilan e io siamo giunti allaconclusione che era necessario pensare a un seguito. Inrealtà, una cosa mi aveva lasciato insoddisfatto del lavoroper UltimafermataGaza: lo scambio di email con Noam eIlan non aveva consentito un’autentica interazione. Noamrispondeva a una serie di domande, e lo stesso facevaIlan, ma non avevano modo di discutere tra di loro.

Per questo con Ilan decidemmo che, nel caso in cui sifosse fatto un altro libro, questa volta si sarebbe trattato diconversazioni intercorse di persona. Elettrizzato da questaprospettiva, mandai un’email a Noam, anche se miaspettavo un no, visti i suoi tanti impegni. Con miasorpresa, invece, Noam accettò e qualche mese dopo Ilan

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e io salimmo a bordo dell’aereo che ci avrebbe portati aBoston per incontrare Noam nel suo ufficio al MIT.

Mentre buttavo giù le domande e gli argomenti cheavremmo affrontato, mi resi conto che era importantepartire dal passato. Secondo alcuni analisti dellaquestione israelo-palestinese, bisogna guardare avanti,pensare al futuro, perché soffermarsi sul passato puòdiventare un muro che ostacola i negoziati e il processo dipace. Costoro però non colgono il punto della questione, espesso lo fanno deliberatamente. Il passato, per laPalestina e i palestinesi, è il 1948, la Nakba (la‘catastrofe’) e la pulizia etnica dei due terzi dellapopolazione (sì, due terzi: provate a fare le dovuteproporzioni e a calcolare a quanto corrisponde nel vostropaese), espulsa dalla Palestina storica per fare posto a unnuovo Stato, Israele. Non è un passato così remoto, nonstiamo parlando di secoli fa. Anzi, è un passato moltoprossimo, per tutti i palestinesi. Parlarne, analizzarlo èdunque fondamentale per capire la situazione. Anchecomprendere il sionismo è di cruciale importanza, e i dueprofessori hanno una visione leggermente diversa inmerito.

Venendo a parlare del presente, abbiamo deciso diconcentrare la nostra attenzione sulla società civile e suquanto possa contribuire a una radicale trasformazione siadel discorso politico sia delle azioni concrete sulterritorio. Non si deve commettere l’errore di

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sottovalutare, ad esempio, l’enorme crescita delmovimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento eSanzioni) e il ruolo che può avere per far ricomparire laPalestina nelle cartine geografiche. Il BDS ha contribuito arinnovare e ricostruire il movimento di solidarietà in tuttoil mondo. Ha fornito una guida dettagliata (flessibile aseconda dei differenti interessi nazionali) su come passareda una posizione difensiva a una offensiva. Il movimentoBDS ha dichiarato: «Basta giustificare le nostre azioni,bisogna agire». Questo ha innescato un dibattito moltointeressante. Sul movimento BDS le posizioni del professorPappé e del professor Chomsky divergono, e in questolibro, come già in Ultima fermata Gaza, la differenza divedute tra i due emerge con chiarezza. Sono convinto chesia un bene che questa discussione avvenga: può esserecostruttiva e giovare alla lotta per i diritti dei palestinesi.

Infine, com’è ovvio, abbiamo parlato del futuro:l’interrogativo su che cosa accadrà domani. Che cosa siintenderebbe, in pratica, per una “Palestina libera”? Qualeforma di Stato è possibile? Davvero uno Stato può esserela soluzione? Come faranno palestinesi e israeliani acondividere quel paese? Quale costituzione sarà scritta? Èvero, è importante concentrarsi sul presente, ma poiché lasituazione si aggrava ogni giorno di più, occorre unastrategia ben precisa e una visione politica chiara perdimostrare al mondo che cosa è possibile realizzare.

Con ciò, la sezione delle conversazioni era terminata e,

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per quanto mi riguardava, ero soddisfatto così. Per Ilan,invece, ci voleva qualcos’altro. Perciò si è offerto discrivere un pezzo che a mio avviso è eccellente, distraordinaria attualità, provocatorio e originale: “Levecchie e le nuove narrazioni”. Si tratta di un monito adandare avanti, a dare un abbrivio diverso e a ripensarecompletamente il lessico usato per descrivere la questionepalestinese. Insomma, a usare la semantica come un’armaper il cambiamento.

L’intervento di Ilan migliora il libro, lo rende piùsolido e attuale. Colma le lacune e apre il dibattito almondo.

Ma qualcosa ci ha costretto a ritornare sul presente: unanuova aggressione di Israele a Gaza. Avevamo da pococonsegnato il libro all’editore, e gli israeliani colpivanoancora. Erano andati a “falciare il prato”, per citare laloro raccapricciante metafora. I bombardamenti a tappetosu una popolazione tenuta prigioniera dagli occupanti –con l’avallo di moltissimi Stati occidentali – hannoispirato Ilan e Noam a scrivere nuovi interventi. Lavorareal libro mentre Israele bombardava indiscriminatamenteun milione e ottocentomila palestinesi non è stato facile.Quando le cose si mettono male, scrivere non dovrebbeessere la reazione naturale per un attivista. Scriverementre si prova rabbia e un senso di impotenza nonproduce grandi risultati. Ma in quel momento mi haconfortato sapere che alcuni miei cari amici stavano

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praticando la disobbedienza civile in tutto il mondo. Miha dato la forza e la fiducia per continuare. Con personecosì in giro, forse, si può intravedere la fine della lotta.Tuttavia, era necessario scrivere e spero che questo librocontribuisca a mettere in discussione la retorica deipotenti, gli slogan dei governi, ripetuti allo sfinimentodall’industria mediatica, che giustificano quei crimini,fanno sì che continuino ad essere perpetrati e cheparalizzano la gente.

La questione palestinese è l’epitome del male nelmondo. Il ruolo giocato dagli Stati occidentali, con lacomplicità delle multinazionali e di varie istituzioni, larende un caso davvero particolare. Il fatto che Israeletragga un effettivo beneficio dal violare le leggiinternazionali e che riceva un’accoglienza con il “tappetorosso” da parte dell’Occidente significa che spetta a noitutti porre fine alle ingiustizie patite dai palestinesi.Queste ingiustizie hanno ramificazioni in tutto il mondo.Da Ferguson ad Atene, passando per il Messico, è benchiaro che molti governi riproducono gli strumentiutilizzati da Israele per reprimere e opprimere ipalestinesi. La replica di questi stessi metodi, tattiche espesso armi sono la prova del fatto che oggi i palestinesivengano usati come cavie. E che la Palestina sia un grandelaboratorio. Esaminare il caso palestinese è dunqueessenziale per comprendere dove ci collochiamo comeesseri umani e da che parte stiamo. Trovare una soluzione

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a quella tragedia potrebbe allora aprire il varco per unanuova visione, per un mondo nuovo, nuove prospettive abeneficio di noi tutti.

Lentamente, la Palestina sta diventando globale: unacausa sociale che ogni movimento di lotta per la giustiziasociale deve abbracciare. Il passo successivo sarà uniretra loro le varie lotte sparse nel mondo e creare un frontedavvero compatto.

Siamo tanti. Trionferemo.Bruxelles, settembre 2014

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1. Le vecchie e le nuove conversazionidiIlanPappé

Nel preparare questa lunga conversazione sullaPalestina, Frank Barat, Noam Chomsky e io abbiamosuddiviso il lavoro in tre sezioni: una discussione sulpassato, incentrata sull’analisi del sionismo comefenomeno storico; una sul presente, con particolareattenzione all’opportunità o meno di applicare il modellodell’apartheid a Israele, oltre che all’efficacia delmovimento BDS quale strategia solidaristica; e infine,parlando del futuro, abbiamo discusso della scelta tra lasoluzione a due Stati e quella a uno Stato.

Lo scopo principale di questi incontri era di chiarire anoi stessi il nostro punto di vista, alla luce dei drammaticimutamenti intervenuti negli ultimi anni non soltanto inIsraele e in Palestina, ma nell’intera regione. Siamo partitidal presupposto che, come per noi, anche per i lettoril’opinione di Noam Chomsky sulla Palestina, in questaparticolare congiuntura storica, sia un contributofondamentale al dibattito. La nostra speranza è che questeconversazioni siano d’aiuto nel chiarire la questionepalestinese, in particolare perché evidenziano unatransizione in atto nel movimento di solidarietà aipalestinesi, con notevoli ricadute sulla lotta interna aIsraele e Palestina. Abbiamo scelto di non affrontare tuttigli aspetti del problema per concentrarci su quelli che cisembravano controversi e ci siamo impegnati perché

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questo scambio fosse moderato (a parte una o dueimpennate meno docili) per un movimento che ha bisognodi rimanere unito. Contribuiscono a rinfocolare questodissenso la frammentazione dello stesso movimento diliberazione, la mancanza di una leadership chiara e leambiguità che attraversano il fronte pacifista israeliano.Ciononostante, un dialogo tra coloro che credono nellapace deve essere possibile!

A quanto pare, siamo nel mezzo di una transizione dallavecchia narrazione sulla Palestina a una nuova. Io misento a mio agio con la nuova, ma non vorrei perdere perstrada i compagni ancora legati a quella vecchia. Eccoperché in questa prima parte del libro cercherò didelineare le due narrazioni, prima di avviare con Noamuna conversazione sui temi al centro della questione.

La vecchia ortodossia pacifista e i suoioppositori

L’esigenza di trovare una nuova narrazione per laPalestina nasce innanzitutto dai drammatici sviluppi degliultimi anni nel territorio. Le vicende sono certamente notealla maggior parte dei lettori, cosicché mi limiterò ariassumerle nel modo più aggiornato possibile, sul finaledi questo intervento, e a valutarne l’impatto su quellanarrazione.

L’esigenza di trovare nuove idee e un nuovo linguaggiosulla Palestina nasce da una crisi che dura da moltotempo. Tale crisi è stata caratterizzata dall’incapacità di

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tradurre le grandi conquiste raggiunte al di fuori dellaPalestina, in particolare il cambiamento operatosull’opinione pubblica mondiale, in concreti passi avantisul territorio. Questa nuova ricerca mira dunque a sanare idivari e i paradossi che funestano il movimento disolidarietà alla Palestina a causa di quel fallimento.

Il fronte degli attivisti per la pace e la giustizia inPalestina, pur in costante crescita, deve fare i conti inquesto momento con diverse contraddizioni difficili dasuperare. Esaminerò quindi in primo luogo i paradossi,per poi suggerirne la soluzione mediante la mia analisi equella di altri e, infine, grazie alla conversazione conNoam Chomsky.

Il primo paradosso da annotare è la discrepanza tra ilcambio di rotta dell’opinione pubblica mondiale e ilperdurare del sostegno, da parte delle élite politiche edeconomiche occidentali, allo Stato ebraico (da cui derival’inefficacia di quel cambio di rotta rispetto alla realtàterritoriale).

Gli attivisti per la causa palestinese percepiscono, aragione, che il loro messaggio di giustizia e la lorointerpretazione della grave situazione in Israele ePalestina sono ormai ampiamente condivisi nel mondo,eppure finora questo non è servito ad alleviare lesofferenze dei palestinesi, ovunque essi si trovino.

Se in passato avrebbero potuto addebitare talediscrepanza alla mistificazione delle azioni israeliane, che

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ne occultava sapientemente l’inquietante, spesso criminalelinea politica, in questo secolo ciò non è più possibile. Igoverni israeliani succedutisi dall’inizio del secolo hannodimostrato che qualsiasi analisi mistificante di Israele èormai superata. Oggi è facile smascherare le politicheisraeliane e l’ideologia razzista ad esse sottesa. Questedeplorevoli politiche, insieme all’impegno degli attivisti,hanno innescato un’inversione di rotta nell’opinionepubblica occidentale, anche in quella americana, sebbenefinora essa non abbia interessato i settori più influentidella società, cosicché Israele persegue, indisturbato, lesue espropriazioni senza pagare il prezzo delle suepolitiche.

Il secondo divario – un vero paradosso – è traquest’immagine negativa di Israele e l’opinione assaipositiva che la società israeliana continua ad avere delloStato. Grazie a una relativa prosperità economica, lo Statopiù isolato tra quelli dell’OCSE è considerato dai suoicittadini un paese florido che ha risolto il conflitto arabo-israeliano e deve solo combattere contro i residui della“guerra al terrorismo” occidentale, rappresentati daHamas e Hezbollah (per quanto, alla luce della“Primavera araba”, anche questo è diventato un problemasecondario). Israele è afflitto da profonde spaccaturesociali e culturali, ma anch’esse sono messe sotto silenziosfruttando la minaccia, fasulla, di una guerra nucleareiraniana e di altri scenari simili, che tra l’altro garantisce

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un flusso ininterrotto di denaro all’esercito e ai servizi disicurezza.

Lo stesso trionfalismo, naturalmente, non anima icittadini palestinesi di Israele che vivono nella Galilea enel Naqab (il Negev), i quali continuano a vedersiespropriata la terra e demolite le abitazioni e sonosoggetti a una nuova sequela di leggi razziste che neminano i diritti più elementari. I palestinesi dellaCisgiordania continuano a essere umiliati quotidianamenteai checkpoint, arrestati senza processo, costretti aconsegnare la propria terra ai coloni e alla Israel LandAuthority, senza potersi recare nemmeno nella città piùvicina per colpa dei muri e delle barriere segregazionisteche circondano le loro case. Quelli che ci provano paganocon la vita o con l’arresto. Il popolo di Gaza, poi, èancora soggetto a quel feroce connubio di assedio,bombardamenti e sparatorie che perdura nel carcere acielo aperto più grande del mondo. Né vanno dimenticati imilioni di rifugiati palestinesi che tuttora languiscono neicampi profughi e il cui diritto a ritornare in patria è deltutto ignorato dalle potenze mondiali.

Il terzo paradosso è che il movimento di solidarietàcondanna le singole scelte politiche israeliane, ma non ilregime in sé o l’ideologia da cui scaturiscono quellescelte. Gli attivisti e i simpatizzanti della Palestina hannoad esempio manifestato contro il massacro di Gaza nel2009 e l’assalto alla flottiglia del 2010; eppure tra queste

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pubbliche proteste nessuno ha osato attaccare l’ideologiasu cui si fondano tali azioni. Non si denuncia il sionismo,e persino il Parlamento europeo bolla queste forme diprotesta come antisemite. È come se, nei giorni delSudafrica suprematista, non si fosse consentito diprotestare contro il regime dell’apartheid, ma solo controil massacro di Soweto o contro qualche altra atrocità delgoverno sudafricano.

L’ultimo paradosso risiede nel fatto che quella dellaPalestina è una storia di colonialismo ed espropriazione,ma il mondo la legge come se fosse una vicendacomplessa e sfaccettata, difficile da comprendere e ancorpiù ardua da risolvere. In realtà la storia della Palestinaera già nota: è identica a quella dei coloni europei giuntiin terra straniera e lì insediatisi, per poi massacrare oespellere in massa i popoli indigeni. I sionisti non hannoinventato nulla di nuovo da questo punto di vista. EppureIsraele è riuscito, con l’aiuto dei suoi alleati in tutto ilmondo, a imbastire una narrazione così intricata ecomplessa da risultare comprensibile soltanto a loro.Qualsiasi interferenza del mondo esterno è etichettata nelmigliore dei casi come ingenua, nel peggiore comeantisemita.

È comprensibile che queste contraddizioni possanotalvolta indebolire il movimento di solidarietà allaPalestina. Non è facile sfidare il potere e gli interessiconsolidati quando questi si rifiutano di dare ascolto alla

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società civile e alle sue proposte. Tuttavia, bisognasempre cercare nuovi modi per intervenire in quegli spaziin cui le organizzazioni non elitarie possono ancoraefficacemente influenzare e modificare la narrazione.

Nel 1982, al tempo della prima invasione israeliana delLibano, Edward Said scrisse un articolo intitolato “Ilpermesso di raccontare”, in cui esortava i palestinesi aestendere la loro lotta alla sfera della rappresentazione edella narrazione storica. Gli equilibri di forze politiche,economiche e militari non avrebbero potuto impedire,scriveva Said, che la gente normale si impegnasse sulfronte della produzione di conoscenza. Non so se questiproduttori – all’interno della Palestina o in suo nome –abbiano seguito il consiglio di Said, o se invece si sianoorientati per conto proprio in questa direzione; quel che ècerto è che un progetto simile è stato avviato. Lastoriografia accademica palestinese e la “nuova storia” inIsraele sono riuscite a smontare alcune assurde teorieisraeliane sulle vicende del 1948 e, in misura minore,hanno confutato il ritratto ufficiale dell’OLP come diun’organizzazione terroristica e nulla più.

Eppure, a quanto pare, il revisionismo e il ripristinodella verità storica non hanno inciso su un processo dipace che tralascia completamente il 1948. L’assenza di undibattito e di una ricostruzione storica del processo dipace sembra servire piuttosto gli interessi delle élitepolitiche di turno, sia sui due fronti della barricata che nel

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resto del mondo. Non vi è alcuna spinta, almeno così pare,a trasformare il discorso politico dominante che possasembrare accettabile, proprio perché non chiede alcuncambiamento sostanziale sul territorio.

Come aveva intuito Said, questa egemonia retorica puòessere contrastata sul piano del linguaggio e dellanarrazione. Occorre cautela nell’offrire questa nuovaprospettiva, poiché non si mettono in discussione soltantole forze egemoniche ma anche le convinzioni di moltipalestinesi e dei sostenitori più convinti della causapalestinese. Per questa ragione può essere utile inquadrarequesta provocazione all’interno di un discorso più ampio.

Suggerisco quindi di incrementare la discussionecreando un vocabolario teorico, specificatamente per laquestione palestinese, che sostituisca gradualmente ilvecchio.

Questo nuovo vocabolario contiene, tra gli altri, terminicome “decolonizzazione”, “cambio di regime” e“soluzione a uno Stato” di cui discuterò più avanti conNoam Chomsky e in generale con tutti coloro che cercanouna via d’uscita alla catastrofe in corso.

Con l’aiuto di questi lemmi, intendo sviscerare ildiscorso dominante, sia di chi è al potere sia delmovimento di solidarietà alla Palestina.

Tuttavia, prima di presentare i nuovi termini, mi premesoffermarmi sul tramonto del vecchio vocabolario, pureancora diffusissimo nel discorso sulla Palestina tra i

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diplomatici, gli studiosi, i politici e gli attivistidell’Occidente. Io lo definisco “il vocabolariodell’ortodossia pacifista” (in effetti non è un mio conio,ma purtroppo non ricordo dove l’ho sentito la prima voltae chiedo scusa dinanzi a ogni legittima accusa di nonoriginalità).

La sfida all’ortodossia pacifistaIl vocabolario dell’ortodossia pacifista è scaturito da

una fiducia quasi religiosa nella soluzione a due Stati. Permolto tempo si è pensato che la partizione della terra diPalestina (con la quale fu assegnato l’80 percento dellaterra a Israele e il restante 20 percento ai palestinesi)fosse un obiettivo realistico da raggiungere con l’aiutodella diplomazia internazionale e una trasformazione inseno alla società israeliana. In base a questa proposta, dueStati sovrani dovrebbero convivere fianco a fianco,trovando una soluzione condivisa al problema dei rifugiatipalestinesi e decidendo insieme quale debba essere lafisionomia di Gerusalemme. Questa soluzione aveva in séanche l’augurio che Israele fosse uno Stato per tutti i suoicittadini e non uno Stato ebraico che mantiene la propriaconnotazione ebraica.

Questa visione si fondava evidentemente sul desideriodi aiutare i palestinesi ma anche su valutazioni direalpolitik, essendo guidata, come lo è sempre stata,dall’eccessiva attenzione per i desideri e le ambizioni delpotente fronte israeliano e da una preoccupazione

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esagerata per gli equilibri di potere internazionali. Illinguaggio che la caratterizza è nato dagli ambienti dellescienze politiche americane e serve a conformarsi alleposizioni degli Stati Uniti. La maggior parte di coloro cheadoperano il linguaggio legato alla soluzione a due Statiprobabilmente lo fa in assoluta buona fede, eppure esso haavuto un ruolo di non scarso rilievo nell’impotenza dellediplomazie e del mondo politico occidentale – deliberatao inevitabile – dinanzi al perdurare dell’oppressioneisraeliana. Frasi ed espressioni come “una terra per duepopoli”, “processo di pace”, “conflitto israelo-palestinese”, “la necessità di fermare la violenza da ambole parti”, “negoziati” e “soluzione a due Stati” giungonodirettamente da una versione contemporanea di 1984 diOrwell. E tuttavia questo linguaggio viene portato avantianche da persone che normalmente considererebberomoralmente ripugnante e insoddisfacente quel tipo disoluzione (come ha ben sintetizzato Chomsky durante lenostre conversazioni), ma che non intravedono altre vierealistiche per porre fine alla dispotica occupazione dellaCisgiordania e all’assedio nella Striscia di Gaza.

Il linguaggio dominante nelle stanze del potere inOccidente e tra i politici israeliani e palestinesi sulterritorio si fonda ancora sul vecchio vocabolario.

Se la visione ortodossa va perdendo gradualmenteterreno nel mondo dell’attivismo, il fronte pacifistatradizionale in Israele e le organizzazioni sioniste liberali

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in tutto il mondo ancora vi aderiscono, così come la granparte della sinistra europea. Anche alcuni autorevolisostenitori della causa palestinese continuano in certamisura a caldeggiarla – talvolta con religiosa convinzione– in nome della realpolitik e del pragmatismo. Lastragrande maggioranza degli attivisti, invece, cerca unanuova soluzione. L’ascesa del movimento BDS (anchegrazie alla richiesta di iniziative di questo genere da partedella società civile palestinese fuori e dentro laPalestina), il crescente interesse e consenso per lasoluzione a uno Stato e il formarsi di un fronte pacifistaantisionista, per quanto piccolo, in Israele hanno favoritola nascita di un pensiero alternativo.

Il modello della nuova organizzazione, che godedell’appoggio degli attivisti di tutto il mondo, di Israele edella Palestina, è quello del movimento antiapartheid. Ciòè divenuto evidente con l’importanza data al Boicottaggio,Disinvestimento e Sanzioni quale strategia principaleadottata nei campus universitari durante l’IsraeliApartheid Week; un termine – apartheid – ormai comune econdiviso che viene utilizzato dagli studenti che fannoattività a sostegno della causa palestinese. A questo èseguita di recente l’iniziativa di diversi studiosi perampliare la ricerca comparativa sui due casi studio, ilSudafrica dell’apartheid e Israele/Palestina, usando comeparadigma il colonialismo degli insediamenti.

Il colonialismo degli insediamenti è una rielaborazione

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raffinata delle teorie e delle manifestazioni storiche delcolonialismo. I movimenti dei coloni alla ricerca di unanuova vita e di una nuova identità in paesi già abitati nonsi limitano certo al caso della Palestina. Nelle Americhe,nella punta meridionale dell’Africa, in Australia e inNuova Zelanda i coloni bianchi hanno annientato lepopolazioni locali con vari mezzi, il genocidio inprimis,per reinventarsi quali possessori di quelle terre e loroabitanti originari. Questa espressione – colonialismo degliinsediamenti – è ormai comunemente usata nel mondoaccademico per definire il sionismo, mentre in ambitopolitico ha aiutato gli attivisti a discernere con maggiorchiarezza la somiglianza tra il caso di Israele e Palestina eil Sudafrica, e a equiparare il destino dei palestinesi aquello dei nativi americani.

Questo modello mette in luce le profonde differenze tral’ortodossia pacifista e il nuovo movimento. In base allanuova visione, tutta la Palestina storica merita unatrasformazione, perché l’intera Palestina è stata ed ècolonizzata e occupata, in un modo o nell’altro, da Israele;e in questa area più vasta i palestinesi sono soggetti aleggi oppressive di diverso genere che però emananodalla stessa fonte ideologica: il sionismo. Essa evidenziainoltre lo stretto legame tra quell’ideologia e le attualiposizioni israeliane in merito alla demografia e alla razza,considerati i principali ostacoli alla pace e allariconciliazione in Israele e Palestina.

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Oggi è più facile dimostrare la fondatezza di questonuovo approccio. Le leggi approvate dalla Knesset apartire dal 2010 – con cui si pretende dai cittadinipalestinesi la lealtà allo Stato ebraico, codificando unprincipio discriminatorio (finora) solo informale inmateria di programmi d’assistenza, di diritti legati allaterra e di lavoro mediante l’adozione di politiche ai dannidella minoranza palestinese – hanno dimostrato in modochiaro quanto Israele sia una Stato razzista esegregazionista. Quella Linea Verde che aveva creato unadifferenziazione tra i palestinesi (quelli all’interno diIsraele e quelli che vivono nei Territori Occupati) va viavia scomparendo, perché le politiche di pulizia etnicasono ormai applicate su entrambi i versanti di quellalinea. Difatti, all’interno di Israele esistono forme piùsofisticate di oppressione che risultano a volte peggiori diquella patita da coloro che vivono sotto l’occupazionemilitare, diretta o indiretta, in Cisgiordania.

Infine, il nuovo movimento non recede dal chiedere conforza una soluzione che non è gradita né agli israeliani néall’Autorità Palestinese né ai vertici politicidell’Occidente: la soluzione a uno Stato. Sicuramente puòcontribuire a un cambio di rotta il fatto che attivisti estudiosi definiscano il sionismo come una forma dicolonialismo degli insediamenti e Israele come uno Statosegregazionista. Per l’ortodossia tale cambio risiede nelprocesso di pace, quasi che Israele e Palestina fossero

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stati in passato due Stati indipendenti e Israele avesse poiinvaso parte della Palestina, da cui ora dovrebbe ritirarsiper il bene della pace.

Il nuovo approccio propone invece la decolonizzazionedi Israele/Palestina e la sostituzione dell’attuale regimeisraeliano con una democrazia aperta a tutti, mettendodunque in discussione non soltanto le politiche dello Statoma anche la sua ideologia. Questo punto di vista considerainoltre come una posizione razzista, più che pragmatica, ilrifiuto di Israele di consentire ai profughi del 1948 diritornare. I nuovi attivisti proclamano il loro appoggioincondizionato al diritto di ritornare dei rifugiatipalestinesi, e lo fanno forse ancora più apertamente dialcuni leader palestinesi.

In altre parole, il nuovo corso propone un cambio dirotta paradigmatico per il movimento di solidarietà, conl’auspicio che sia accolto anche da chi è al potere e inparticolare da chi è impegnato sul fronte della questionepalestinese e della pace. Questo nuovo paradigma offreuna lettura diversa della situazione attuale e propone unavisione differente per il futuro. Molti suoi elementi sonoin realtà vecchie idee già presenti nella Carta dell’OLP del1968 o nelle piattaforme di alcuni gruppi militanti comeAbna al-Balad, Matzpen, il Fronte Popolare per laLiberazione della Palestina e il Fronte DemocraticoPopolare per la Liberazione della Palestina. Quelle ideesono state però aggiornate e adattate alla realtà presente. I

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problemi sollevati in passato da queste organizzazionifurono totalmente ignorati dal movimento pacifistaortodosso, al tempo in cui essa sosteneva gli accordi diOslo in nome della realpolitik. Persino quando sembròprodurre qualche concreto passo avanti, il processo diOslo continuò a trascurare il destino dei profughi e dellaminoranza palestinese all’interno di Israele e a non tenerconto della natura razzista dello Stato ebraico né del ruoloda esso svolto nella pulizia etnica del 1948.

Il nuovo movimento ha creato un vocabolario diversoche, se ampiamente usato, può contribuire a uncambiamento dell’opinione pubblica su questo tema.Presenterò alcuni dei termini più importanti edesemplificativi di questa nuova lingua adoperata peranalizzare la situazione attuale in Israele e Palestina edelineare una visione per il futuro. Il nuovo lessico puòservire agli attivisti per rafforzare il proprio impegnonella lotta contro l’ideologia sottesa agli abusi e alleviolazioni israeliane dei diritti umani e civili, sia che siverifichino all’interno di Israele sia nei TerritoriOccupati.

Ho suddiviso i lemmi a partire da tre differentiorizzonti temporali. Nel primo si esamina il modo in cuil’attivismo alternativo vede il passato in generale, conun’attenzione particolare alle diverse definizioni delsionismo e delle azioni israeliane. Nel secondo, sianalizzano le nuove definizioni dell’Israele moderno, in

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particolare come uno Stato in cui vige l’apartheid, e leimplicazioni per il movimento, soprattutto al di fuori diIsraele e Palestina, derivanti da questa definizione. Ciòscatena un dibattito davvero rilevante sull’importanza esul ruolo del movimento BDS e delle Israeli ApartheidWeek organizzate nei campus universitari di tutto ilmondo. Nel terzo orizzonte, infine, si parla del futuro,delle possibili alternative ai tentativi penosi e inefficacidi portare avanti il processo di pace sulla base dellasoluzione a due Stati. Questa visione alternativasostituisce espressioni come “processo di pace” con altretipo “decolonizzazione” o “cambio di regime” e prospettauna soluzione a uno Stato anziché quella a due Stati.

Queste tre diverse direttrici – passato, presente e futuro– hanno poi costituito il fulcro delle conversazioni conNoam Chomsky. Frank Barat e io abbiamo scelto lui comenostro interlocutore non perché pensiamo che eglirappresenti l’“ortodossia pacifista” – per quanto nesottoscriva ancora alcune delle sue premesse fondamentali– ma perché a nostro avviso la sua opinione su questi temiè fondamentale per far progredire il dibattito sullaPalestina.

Il nuovo vocabolario: il passatoRistabilire l’equazione “Sionismo uguale a

Colonialismo” risulta di cruciale importanza non soltantoperché chiarisce al meglio le politiche israeliane digiudaizzazione all’interno di Israele e le politiche

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insediative in Cisgiordania, ma soprattutto perché èperfettamente coerente con il modo in cui i primi sionistipercepivano e descrivevano il loro progetto.

Sin dal 1882 il movimento sionista prima e lo Stato diIsraele poi hanno usato i verbi le-hitnahel, o le-hityashev,e i termini hitanchalut e hitayasvut per descriverel’acquisizione di terra in Palestina. La traduzione esatta è‘insediarsi’ e ‘colonizzare’, e ‘insediamento’ e‘colonizzazione’. I primi sionisti usavano fieramentequesti termini, poiché all’epoca il colonialismo venivaaccolto positivamente dall’opinione pubblica (e hacontinuato ad esserlo fino alla fine della prima guerramondiale). Da quando però, dopo la seconda guerramondiale, le fortune del colonialismo cambiarono e iltermine cominciò a connotare negativamente le politiche ele pratiche europee, il movimento sionista e lo Stato diIsraele hanno provato a dissociare la terminologia ebraicada quella coloniale e hanno iniziato a adottare unlinguaggio più universale e positivo per descrivere le loropolitiche.

Nonostante tutti i tentativi per dimostrare che ilsionismo non aveva nulla a che fare con il movimentocolonialista mondiale, non si poteva fare a meno diinterpretare i due termini ebraici come connessi a un attodi colonizzazione. Nel vocabolario accademico e politicodel XX e del XXI secolo la parola ‘insediarsi’ implica unatto di colonizzazione. C’è poco da fare: anche se per il

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movimento sionista prima e lo Stato di Israele poil’espropriazione delle terre palestinesi (spessoaccompagnata dall’espulsione delle popolazioni indigene)non è un atto di colonizzazione, tutti gli altri loconsiderano tale.

L’analisi da una prospettiva colonialista mette indiscussione anche la presunta “complessità” brandita daIsraele, e ostinatamente evocata dagli studiosi israeliani,per confutare l’inevitabile parallelismo tra la situazionedella Palestina e quella del Sudafrica. In effetti,l’estensione temporale non ha eguali: implica un progettocolonialista che si è prolungato dal XIX al XXI secolo.Tuttavia, la fisionomia e l’obiettivo di questo progetto nonsono per nulla straordinari; si tratta al contrario di unanarrazione piuttosto semplice, nient’affatto complessa.Sebbene la sua eccezionale durata richiederebbe di certouna soluzione articolata, la diagnosi è però cristallinaanche se bisognerà ingegnarsi per elaborare una prognosiperché, nel XXI secolo, la decolonizzazione èeffettivamente un affare complesso.

Diviene allora fondamentale introdurre nei piani distudi e nei manuali delle scuole occidentali questa idea dicolonialismo e promuovere la ricerca su questo tema nelleuniversità. Se si riuscirà a far questo, i media seguiranno aruota. Non è un’impresa facile, ma se si riesce atrasmettere il messaggio allora possiamo sperare chenessuna persona onesta in Occidente – come già avvenuto

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durante il colonialismo – si schiererà dalla parte diun’ideologia oppressiva e simpatizzerà invece per le suevittime, riconoscendo il carattere anticolonialista dellaloro lotta.

Questa nuova discussione sarà probabilmente bollatacome antisemita dagli israeliani. Del resto qualsiasicritica, anche lieve, è sempre vista dalle istituzioniisraeliane come prossima all’antisemitismo; maquest’accusa non deve dissuaderci dall’usare laterminologia della colonizzazione. Chiunque nonsottoscrive la versione israeliana della soluzione a dueStati è sospettato di essere antisemita. Israele pretende unappoggio incondizionato alla sua versione, tanto cheperfino le segreterie di Stato delle più grandi potenzesono accusate di antisemitismo allorché non seguonoperfettamente questa linea. La versione israeliana consistein uno Stato ebraico prossimo a due bantustan – uno, inCisgiordania, diviso in dodici enclave, e l’altro, nellaStriscia di Gaza, costituente un enorme ghetto – senzaalcuna connessione tra loro e guidati dalla piccolamunicipalità di Ramallah, che dovrebbe fungere da sededel governo. Le istituzioni israeliane insistono neldichiarare che, per ragioni di sicurezza nazionale, uneventuale Stato palestinese, sempre che sia concesso,dovrebbe delinearsi secondo questo schema.

Il presente: l’apartheid dello Stato diIsraele

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Solo ora comincia a fiorire una letteratura accademicache equipara l’apartheid del Sudafrica a quella di Israele,anche se alcuni coraggiosi ricercatori come Uri Davishanno cominciato a usare questo termine molti anni fa. Isuoi studi degli anni Ottanta furono i primi a denunciare lanatura segregazionista dell’espansionismo territoriale edelle pratiche legislative israeliane all’interno della LineaVerde come un’altra forma di apartheid. Dopo Uri, anchealtri studiosi ne hanno esaminato le somiglianze e ledifferenze. I primi a recarsi nel Sudafrica dopo la finedell’apartheid usarono poi quel termine per definireIsraele, come del resto ha fatto anche l’ex presidente USAJimmy Carter. Contrariamente a quel che si pensa, fusubito chiaro che il regime imposto ai palestinesi inCisgiordania e nella Striscia di Gaza era sotto moltiaspetti peggiore di quello del Sudafrica segregazionista.

Gli studi più recenti hanno inoltre evidenziato che lepolitiche legislative, economiche e culturali di Israelesono diventate sempre più omogenee sui due versantidella Linea Verde. L’apartheid vera e propria è statasostituita dalle leggi razziste della Knesset e da politichedichiaratamente discriminatorie. Forse è una formadiversa di apartheid, ma sta di fatto che oggi Israele è unoStato che segrega, separa e discrimina spudoratamentesulla base dell’etnia (nel lessico americano sarebbe larazza), della religione e della nazionalità.

L’uso sempre più frequente della parola “apartheid”

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anche nelle stanze del potere, e non soltanto tra gliattivisti, ha certamente favorito la diffusione mondiale diiniziative simili a quella dei geniali attivisti canadesi chehanno dato il via nei campus all’Israeli Apartheid Week eche sono stati una fonte d’ispirazione per molti. Ilfenomeno si è diffuso tanto (ora anche in Israele ePalestina) perché rispecchiava quel che si stavaverificando nel territorio, e la gente ne era consapevole,grazie alla crescita del Movimento Internazionale diSolidarietà (International Solidarity Movement, ISM).Questo forniva una fonte d’informazione alternativa allenotizie distorte che arrivavano dai media tradizionalidell’Occidente, in particolare conquistando l’attenzionedell’opinione pubblica americana quando Rachel Corrie,una giovane attivista dell’ISM, è stata brutalmente uccisadall’esercito israeliano).

Le Apartheid Week sono il fulcro delle attività che ognianno si organizzano per la causa palestinese e hannoormai conquistato i campus universitari prima dominatidalla propaganda e dall’accademia di stampo sionista.Chi aderisce a questa linea negli Stati Uniti lo fa ancoracon un certo timore, perché sa di rischiare, considerato iltipo di vessazioni subite da Steven Salaita, NormanFinkelstein e altri ricercatori universitari sospettati dinutrire simpatie filopalestinesi, negli Stati Uniti iprofessori e gli staff universitari sono tuttora preoccupatidi dover subire anch’essi un iter di promozione

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lunghissimo oppure di venire esclusi e che venga loronegato un incarico permanente. Ciononostante, varafforzandosi la tendenza opposta e oggi gli ambientiuniversitari sono molto più ostili verso chi sostiene ilsionismo e molto più vicini a chi vuole manifestare lapropria solidarietà alla causa palestinese. Tutto questonon si è ancora trasformato in un sostegno da parte delleamministrazioni universitarie, ma la marea si stasicuramente muovendo nella giusta direzione.

Dal paragone tra lo Stato segregazionista israeliano e ilSudafrica dei tempi bui emerge anche un’altraconclusione, in netta contraddizione con la stessa ragiond’essere del “processo di pace”. Dato che la maggiorparte dei sudafricani bianchi rimase razzista anche quandoil loro regime oppressivo crollò, se ne deduce che lasituazione non mutò perché vi fu una metamorfosidall’interno. Costoro furono indotti a cambiare rotta dallelotte del Congresso Nazionale Africano (African NationalCongress, ANC) combinate alle pressioni dall’esterno.Partendo da questo raffronto gli attivisti, fuori e dentro laPalestina, possono trovare un esempio da emularenell’unità e nella rappresentatività dell’ANC e imparare agestire una campagna di pressione dall’esterno che siispiri al movimento antiapartheid per il Sudafrica.Dunque, il nuovo presupposto dal quale partire per questotipo di attività è la presa di coscienza che il cambiamentonon può venire dall’interno di Israele.

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Infatti, la campagna di Boicottaggio, Disinvestimenti eSanzioni è scaturita dall’appello della società civilepalestinese a esercitare pressioni di questo tipo su Israelefintanto che esso non rispetterà i diritti umani e civili deipalestinesi, ovunque essi si trovino. Certo, questacampagna – ormai divenuta un vero e proprio movimento– non è esente da difficoltà. L’assenza di istituzionipalestinesi realmente rappresentative e incisive hacostretto gli attivisti a muoversi in un vuoto di potere. Perquesto a volte si ha avuto l’impressione che le sceltetattiche abbiano oltrepassato il segno di quella che è unastrategia. Inoltre, non sempre sono chiari i rapporti traquesta iniziativa e le altre attività di boicottaggio (comequello sulle merci prodotte negli insediamenti dellaCisgiordania o il rifiuto di qualsiasi normalizzazione nellerelazioni con gli israeliani). Ma queste lacuneimpallidiscono di fronte al merito di portare all’attenzionedel mondo una crisi a volte messa in ombra dalle tragedieche affliggono l’intera regione dal 2011. Diverse grandiaziende hanno rivisto i loro investimenti in Israele, isindacati hanno allentato i rapporti con gli omologhiisraeliani e lo stesso hanno fatto le associazioni culturali,anche tra quelle più autorevoli negli Stati Uniti, mentre unnumero impressionante di artisti, scrittori e personaggicelebri, come Stephen Hawking, si rifiutano di recarsi nelpaese.

Una componente di questa campagna – il boicottaggio

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accademico – è ancora oggetto di controversia, come sievince dalla conversazione con Noam Chomsky (ancheNorman Finkelstein ha pubblicamente condannato questatattica), ma molti ormai vi aderiscono, considerandoloparte integrante del nuovo vocabolario dell’attivismo; direcente è nato ad esempio in Israele un “comitato diboicottaggio dall’interno”, composto da studiosi ebreiisraeliani, che conta numerosi esponenti.

Il presente: la pulizia etnica e leriparazioni

Se si vogliono emendare i mali del passato, bisognadefinire come un crimine, e non più una tragedia o perfinouna catastrofe, ciò che è accaduto ai palestinesi dal 1948in poi. Stabilire il paradigma della pulizia etnica serve aindividuare una vittima e un aggressore e, ancor piùimportante, un meccanismo di riconciliazione.

Esso chiarisce il rapporto tra l’ideologia sionista e lepolitiche di quel movimento nel passato e di Israele nelpresente, entrambi decisi a istituire uno Stato ebraicoimpossessandosi di un’area quanto più possibile estesadella Palestina storica e lasciandovi il minor numeropossibile di palestinesi. Al cuore del conflitto cheimperversa dal 1882 vi è sempre stato il desiderio ditrasformare la multietnica Palestina in uno spazioetnicamente puro. Questa spinta, mai condannata néostacolata da un mondo che stava a guardare senza farnulla, portò nel 1948 all’espulsione di 750.000 persone

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(la metà della popolazione del paese), alla distruzione dioltre 500 villaggi e alla demolizione di decine di città.

Il silenzio del mondo su questo crimine control’umanità (l’espressione con cui il vocabolario del dirittointernazionale definisce in generale la pulizia etnica) hafatto della pulizia etnica l’impalcatura ideologica sullaquale è stato edificato lo Stato ebraico. Quest’ultima siinnervò nel DNA della società ebraica israeliana,diventando un pensiero fisso per chi era al potere e pertutti coloro che avevano a che fare con le diversecomunità palestinesi controllate da Israele. E fu anche ilmezzo per realizzare un sogno che ancora non si eraavverato: se gli israeliani non volevano semplicementesopravvivere ma prosperare, doveva rimanere il minornumero possibile di arabi, qualunque forma di Stato siintendesse istituire.

La pulizia etnica ha guidato le politiche israeliane nelcorso dei decenni, non solo ai danni dei palestinesi maanche nei confronti dei milioni di ebrei arrivati dai paesiislamici e arabi. Se costoro volevano condividere ilsogno sionista dovevano essere dearabizzati (cioè perdereogni legame con la madrelingua e dimostrareconcretamente quanto fossero non arabi manifestando ognigiorno il loro odio verso se stessi, cioè verso tutto ciò cheera arabo, come ha spiegato Ella Habiba Shohat). Invecedi diventare un ponte verso la riconciliazione, gli ebreiarabi ne furono al contrario uno dei maggiori impedimenti.

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La tecnica più diffusa di pulizia etnica consistenell’espulsione e nell’allontanamento, ma in Israele nonsempre vi si poteva ricorrere. Questa limitazionecostrinse gli israeliani a trovare altri modi per perseguirel’ideale di uno Stato con una schiacciante maggioranzaebraica. Capirono allora che quando non è possibilecacciare qualcuno, gli si può sottrarre la libertà dimovimento. Isolare la popolazione nei villaggi e nellecittà, impedire qualsiasi espansione degli habitat umanidivenne il tratto distintivo della pulizia etnica israelianadopo il 1948, una tecnica ancora oggi usata con ottimirisultati. Interrogate sul perché non si sia consentital’edificazione di altre città e villaggi palestinesi tra ilfiume Giordano e il mar Mediterraneo (un divieto a favoredell’altro gruppo etnico, che attualmente costituisce metàdella popolazione palestinese), la risposta ufficiale delleistituzioni israeliane è che i palestinesi non hanno bisognodi tanto spazio quanto gli israeliani e che anzi sono felicidi rimanere incollati alle loro case, senza un liberoaccesso a zone verdi attorno a loro. In passato, sarebbebastato sorvolare la Cisgiordania per capire come sipresentassero i villaggi palestinesi: dolcemente adagiatisulle colline della Palestina orientale, soavementeimmersi nel paesaggio circostante. Oggi invece sono statisoffocati, specie se si trovano nelle vicinanze degliinsediamenti ebraici o incastrati tra di loro, come avvienein Galilea. Al contrario gli insediamenti ebraici, su

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entrambi i versanti della Linea Verde, formano sobborghimolto estesi.

Il rifiuto di rimpatriare i profughi; il giogo militareimposto ai palestinesi rimasti all’interno di Israele (1948-1966); l’occupazione militare della Cisgiordania e iltrattamento riservato ai palestinesi che vi abitano;l’erezione del muro segregazionista; i “trasferimentisilenziosi” da Gerusalemme; l’assedio di Gaza el’oppressione sui beduini nel Naqab: sono tutte fasi oelementi costitutivi di una pulizia etnica tuttora in corso.

L’utilizzo dell’espressione “pulizia etnica” ha a chefare anche con la giustizia. Nella storia di questo conflitto,la giustizia è stata messa in ridicolo tutte le volte che èstata anche solo proposta come principio nel tentativo ditrovare una soluzione. Eppure questa espressionegarantisce che il diritto fondamentale degli espulsi diritornare non possa essere ignorato, per quanto Israele lovioli sistematicamente. Nessuna vera riconciliazione èpossibile senza il riconoscimento di quel diritto.

Il nuovo vocabolario dell’attivismo contemplal’applicazione dei concetti universali insiti nellariparazione al caso specifico dei rifugiati palestinesi. Lacomunità internazionale ha da tempo stabilito ilmeccanismo con cui trattare le vittime delle pulizieetniche, e il principio di riparazione viene spessoutilizzato come rimedio e soluzione. Con questo termine siintendono svariate misure per consentire sia alle vittime

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sia ai carnefici di costruire una nuova vita; tra queste, ilritorno di quanti sono sopravvissuti alla pulizia etnicaoppure un risarcimento finanziario per chi invece vuolerifarsi una vita altrove. È previsto inoltre il reinserimentodelle vittime nella storia del paese e la restituzione delleloro risorse culturali. Il tratto comune di tutte questemisure è che spetta alle vittime decidere ciascuna perconto proprio che tipo di riparazione preferiscano.

Ma in gioco c’è molto di più che la definizione e lagiusta concettualizzazione del paradigma della riparazionenel nuovo vocabolario che si vuole diffondere. Aeccezione della Palestina, è raro che l’idea di riparazione,e in particolare il diritto dei rifugiati a ritornare, vengamessa in discussione in qualche altro conflitto che avvienenel mondo. In linea di principio, l’Unione Europea e ilDipartimento di Stato USA accettano senza distinguo oriserve alcune il diritto delle persone a ritornare in patriauna volta mitigatosi il conflitto. Una posizione simile èespressa dall’ONU, la quale aveva già preso una decisioneconcreta sul diritto dei rifugiati palestinesi a poterritornare incondizionatamente nelle proprie caseadottando la risoluzione numero 194 del dicembre del1948 (una risoluzione adottata dalla stessa AssembleaGenerale delle Nazioni Unite che approvò il piano dipartizione e la creazione dello Stato ebraico).

Dunque, mettere il diritto di ritornare al centro diqualsiasi soluzione futura non è un’idea così

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rivoluzionaria che costringerebbe il mondo occidentale atradire i suoi principi o a introdurre un’eccezione. Alcontrario, si chiede al mondo occidentale di rimanerefedele ai propri principi e di non escludere i palestinesidalla loro applicazione. Eppure la vecchia ortodossiapacifista ha messo da parte questi elementari principiumani e non ha nemmeno provato a lottare per essi. Cosache invece fa il nuovo movimento, e continuerà a farlofino a quando ci sarà anche un solo rifugiato che vorràritornare. La recente inchiesta di Al Jazeera dal titolo“Palestine Papers”, in cui si spiega fino a che puntol’Autorità Palestinese sia stata pronta a spingersi pur ditranquillizzare gli israeliani, l’AP sarebbe disposta arinunciare al diritto di ritornare. La situazione descrittanell’ultima parte di questo intervento evidenzia però lanascita in Palestina di una nuova élite politica chepotrebbe avere un punto di vista differente su questo.

Infine, l’ideologia della pulizia etnica spiega anche ladisumanizzazione dei palestinesi; una disumanizzazioneche può dare ragione delle atrocità di cui siamo statitestimoni a Gaza nel gennaio del 2009. Essa è il fruttoamaro della corruzione morale insinuatasi in Israele conla militarizzazione della società ebraica. I palestinesisono un obiettivo militare, un rischio per la sicurezza euna bomba demografica. È una delle ragioni principali percui, dalla fine della Seconda guerra mondiale, la puliziaetnica viene giudicata dalla comunità internazionale un

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crimine orrendo che può condurre al genocidio: inentrambi i casi, devi disumanizzare la tua vittima se vuoirealizzare il tuo sogno di purezza etnica. Che tu decida diespellere o di massacrare le persone, compresi i bambini,devi ridurle a oggetti, a bersagli militari; non deviconsiderarli esseri umani.

Chiunque abbia vissuto, come me, per un po’ di tempoin Israele sa che la peggiore corruzione dei giovaniisraeliani è l’indottrinamento che ricevono e che li porta adisumanizzare i palestinesi. In un bambino palestinese unsoldato israeliano non vede, appunto, un bambino ma loidentifica con il nemico. Per questo in tutti i documentimilitari – che si tratti di quelli in cui si ordinaval’occupazione dei villaggi nel 1948, o quelli che perbombardare Gaza nel 2009 intimavano all’aeronautica diricorrere alla Dottrina Dahiya (la strategia che dovevaservire a sconfiggere Hezbollah nell’attacco contro ilLibano nel 2006 con bombardamenti a tappetosull’eponimo sobborgo meridionale di Beirut, roccafortedegli sciiti) – gli insediamenti civili sono indicati comebasi militari. Sin dal 1948, la pulizia etnica in Israele nonè mai stata soltanto una scelta politica, ma uno stile divita; e il fatto che vi si faccia costantemente ricorso rendecriminale lo Stato, non soltanto le sue politiche.

Volendo inserire questa espressione nel nuovovocabolario, ancor più importante è rendersi conto che lapulizia etnica non si ferma da sola. Essa termina solo

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quando la missione è compiuta, oppure se interviene adarrestarla una forza più potente.

Questo presupposto ribalta completamente la logica delprocesso di pace, portata avanti finora, che puntava acircoscrivere il raggio d’azione israeliano entro i confinifissati prima del 1967. Naturalmente non si è riuscitinell’intento, poiché scopo fondamentale del sionismo ècontrollare, direttamente o indirettamente, l’interaPalestina. Qualsiasi concessione tattica sul territorio èlegata a valutazioni di ordine puramente demografico, nonal desiderio di pace e di riconciliazione. Per questo si èrinunciato a un controllo diretto sulla Striscia di Gaza; eoggi la sinistra sionista appoggia la soluzione a due Statiprecisamente per questa ragione. Poiché però questatattica comincia a non pagare più, si recupera il vecchiopiano A – l’espulsione diretta – per completare l’operacominciata nel ’48, come dimostrano le recenti operazionidi pulizia etnica diretta nel Negev, nella valle delGiordano e nell’area della Grande Gerusalemme.

Il processo di pace, dunque, costringe Israele ainventare nuove forme di pulizia etnica, ma di fatto non lablocca. Secondo il nuovo vocabolario, la fine dellapulizia etnica è una condizione necessaria per raggiungerela pace.

La definizione del sionismo come colonialismo e diIsraele come uno Stato segregazionista, insieme alla presadi coscienza di quanto sia innervata nella società ebraica

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israeliana la nozione di pulizia etnica, genera a sua voltanuove occorrenze fondamentali nel vocabolario che forgiala nostra visione del futuro: “decolonizzazione”, “cambiodi regime”, “soluzione a uno Stato”.

Il futuro: decolonizzazione e cambio diregime

L’espressione “processo di pace” in relazione alconflitto israelo-palestinese ha svelato tutta la sua vacuitànon appena la gente è riuscita a sapere che cosa stesseaccadendo davvero in quella terra. Grazie al lavoro delmovimento di solidarietà internazionale, a Internet, alla TVsatellitare e ad altri strumenti, gli occidentali si sonopotuti rendere conto della discrepanza tra la mole diiniziative per tentare di risolvere il conflitto (ad esempioGinevra 1977, Madrid 1991, Oslo 1993 e Camp David2000) e la realtà sul campo. Noam Chomsky è stato ilprimo a far notare che lo scopo dei negoziati non è maistato raggiungere una meta, ma solo perpetuare unacondizione senza soluzioni. Israele li ha usati comestrumento per impadronirsi di più terra, costruire piùcolonie e annettere porzioni di territorio maggiori. Lasoluzione è stata lo statusquo.

Si spera che introdurre il termine “decolonizzazione”nel dizionario possa servire a fermare l’industria della“coesistenza”, ossia un dialogo fasullo tra popolifinanziato principalmente dagli americani e dai capidell’Unione Europea. La maggior parte dei palestinesi si è

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chiamata fuori da un progetto, avviatosi con gli accordi diOslo, che è costato milioni di dollari.

L’aspetto più irritante e fuorviante era il principio diparità su cui si è basato il processo di pace: dividere lacolpa tra le due parti in conflitto e trattarle comeegualmente responsabili, offrendo quindi una soluzioneequa per entrambe. Lo scandaloso squilibrio di forzeavrebbe dovuto già da tempo screditare questa soluzioneintesa come un approccio realistico per la pace, e chetraeva la sua origine dal desiderio di tenere a bada Israelesenza irritarlo troppo. L’esito sarebbe stato che ipalestinesi avrebbero ricevuto ciò che Israele eradisposto a concedere. Tutto questo non aveva nulla a chefare con la pace; era solo la ricerca di una soluzione dicomodo, ossia la capitolazione del popolo originariodella Palestina, costretto a cederla ai sionisti che avevanoinvaso la regione nel XIX secolo.

Nel nuovo vocabolario non compaiono terminiromantici o utopistici. Le ingiustizie del passato non sipossono cancellare; chi viene accusato di essere“irrealistico”, persino dagli alleati, lo ha invece benchiaro. Non si può riparare a tutti gli errori del passato,ma si può certamente porre fine a quelli del presente. Ed èqui che diventa particolarmente pertinente l’inserimentodell’espressione “cambio di regime”.

Secondo il nuovo movimento, non è inconcepibileaspirare a un cambio di regime in Israele, né è ingenuo

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immaginare uno Stato in cui tutti siano uguali; così comenon è irrealistico premere per il ritorno incondizionato deirifugiati palestinesi nelle loro case. Se gli Stati Uniti e ilRegno Unito hanno abusato del concetto di cambio diregime con gli attacchi in Iraq e Afghanistan,l’espressione ha poi riacquistato una sua legittimità graziealle rivoluzioni popolari in Tunisia e in Egitto.

Un regime può mutare in modo drammatico e drastico,ma il cambiamento può anche avvenire gradualmente esenza spargimenti di sangue. Sebbene gli sconvolgimentinell’ex Jugoslavia e in Siria mettano in guardia sulla piegache può prendere un cambio di regime gestito male,moltissimi esempi della storia recente dimostrano chepossono esserci soluzioni non violente o quasi nonviolente. L’ultima occorrenza del nuovo dizionario, una“soluzione a uno Stato”, si basa quindi sulla speranza cheuna visione chiara di come si debbano strutturare lerelazioni tra vittime e carnefici indichi anche la natura delcambiamento e la strada da percorrere per realizzarlo.

Per molti attivisti la soluzione a due Stati era morta giàprima della disperata presa d’atto del segretario di StatoUSA, John Kerry, nell’aprile 2014. Nonostante molti neabbiano ormai dichiarato la morte, non si è cercata unastrada alternativa. Anzi, il lungo processo per trovare unanuova soluzione è appena all’inizio. Alcuni individui,attivisti e organizzazioni politiche hanno già elaborato unprogramma più preciso e un’idea di come dovrebbe

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essere il nuovo Stato. Queste idee si basano su vecchieipotesi già sviluppate in passato ma anche su nuoveproposte. Altri invece brancolano ancora nel buio. Ilviaggio, però, è cominciato.

Le tappe preliminari di questo viaggio sono già statecompletate. La prima tra queste è stata la riformulazionedel concetto di Israele e Palestina come un paese unico,non come due Stati separati. La Palestina ritorna così adessere un paese a tutti gli effetti, non una realtà geopoliticaformata da Israele e dai Territori Occupati. In questoambito, il nuovo vocabolario necessita di nuovi lemmi perchiarire in che modo le persone che abitano in Palestina, equelle che ne sono state espulse, possano vivere incondizioni di parità e anzi viverci meglio che in altre partidel Medio Oriente, o addirittura di alcune areedell’Europa.

Una seconda tappa importante – come emerge dallaconversazione con Noam Chomsky nella seconda parte dellibro – è stata respingere il sospetto che l’ipotesi di ununico Stato neghi a Israele il diritto di esistere. Il nuovomovimento non ha il potere di cancellare gli Stati, né haalcun interesse a farlo. Israele ha il potere di cancellaregli Stati; il movimento pacifista no. Quest’ultimo ha peròl’autorità morale per mettere in discussione l’ideologia ela validità etica di uno Stato e l’impatto devastante chequesto ha avuto con l’espulsione di metà della suapopolazione.

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La terza tappa mette in discussione uno degli assuntifondamentali dell’Ortodossia pacifista, ossia che lapartizione sia un atto di pace e di riconciliazione. Nellastoria della Palestina, in realtà, essa è stata un atto didistruzione compiuto nell’alveo del “piano di pace” ONU,senza la benché minima reazione o condanna da partedella comunità internazionale. Ecco quindi che termini delvocabolario internazionale quali “partizione”, risalenti aquel periodo di incubazione e pensati per veicolare valoripositivi e pacifisti, diventano così una neolingua, volendoprendere in prestito il celebre termine usato da Orwell perdefinire queste realtà ingannevoli. “Partizione” significainvero complicità internazionale nella devastazione, nonuna proposta di pace.

Chiunque si opponeva alla partizione era consideratoun nemico della pace. Gli elementi più estremisti efiloisraeliani dell’Ortodossia pacifista accusavano ipalestinesi di essere irresponsabili, guerrafondai eintransigenti, a cominciare proprio dal no palestinese alpiano di partizione del 1947. Con il senno di poi, cirendiamo conto che anche la partizione era una delle ideesbagliate concepite dalla realpolitik, ma all’epoca non eracosì scontato. Sarebbe però assurdo proporre oggi lasoluzione della partizione sulla base delle stessepremesse che portarono alla risoluzione del 1947, ossiache il sionismo fosse un movimento benevolo eintenzionato a coesistere in condizioni di parità con la

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maggioranza indigena palestinese.Prendere per buona l’interpretazione sionista della

partizione e, più di recente, quella sionista liberale delprocesso di Oslo, corrompe ogni sentimento umano eumanitario nell’Occidente. La partizione, sia nel 1947 sianel 1993, ha significato in pratica autorizzarel’imposizione di uno Stato ebraico razzista sul 56percento della Palestina nel primo caso, e di oltre l’80percento nel secondo.

Proprio questo tema smaschera l’immoralità e disonestàdi molti illustri politici e politologi israeliani efiloisraeliani occidentali: costoro dichiarano, e insegnano,che uno Stato ebraico esteso su gran parte della Palestina,sempre che sussista un’entità palestinese ad esso vicina, èuna realtà assolutamente democratica. Una democrazia dadifendere con ogni mezzo possibile per salvaguardare lamaggioranza ebraica in quella terra. Questi mezzi possonoanche contemplare, e così è stato, il genocidio e altreazioni efferate per assicurarsi che quello Stato incarnil’identità etnica di un solo gruppo.

Gli israeliani non trovano del resto strano oinaccettabile che ci si arroghi l’autorità di determinarel’esito del processo democratico stabilendo con la forza apriori la composizione dell’elettorato, così da ottenere ilrisultato desiderato: uno Stato esclusivamente ebraico inun paese a doppia nazionalità. L’Occidente crede a questamessinscena: Israele è una democrazia perché è la

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maggioranza a decidere. Peccato che la maggioranza si siaformata grazie alla colonizzazione, alla pulizia etnica e,negli ultimi decenni, alla ghettizzazione dei palestinesinella Striscia di Gaza, al loro confinamento nelle aree A eB della Cisgiordania, nei villaggi isolati della GrandeGerusalemme, nella valle del Giordano e nelle riservebeduine del Naqab.

Se vogliono perseguire il progetto della coesistenza, gliebrei israeliani devono innanzitutto salvaguardarel’esistenza dei palestinesi, minacciati quotidianamente dalgoverno e dall’esercito. Per essere d’aiuto, potrebberounirsi al movimento di solidarietà internazionale e aquanti vivono in quella terra e desiderano fare di Israele ePalestina un’entità geopolitica in cui ciascuno possaabitare in condizioni di parità.

Conclusioni: Palestina e Israele 2014-2020

Per risolvere tutte queste contraddizioni è necessarioabbandonare le idee del vecchio fronte pacifista. Se vuoledavvero aiutare la Palestina, la comunità internazionaledeve appoggiare le iniziative per isolare Israele fino aquando continuerà ad attuare politiche di apartheid,espropriazione e occupazione.

Il “processo di pace” è un miracolo della medicina: èmorto svariate volte ma è sempre risuscitato, per poicollassare di nuovo. Resiste non perché vi sia davverouna chance di riuscita, ma per via dei vantaggi che la sua

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stessa esistenza porta a tutti coloro che vi partecipano. Ilgoverno israeliano sa bene che senza il “processo dipace” Israele diventerebbe uno Stato paria e sarebbesoggetto al boicottaggio e alle sanzioni internazionali.Finché il processo rimane in vita, Israele può continuare aespandere il suo progetto insediativo nella Cisgiordania ea espropriare i palestinesi delle loro terre in quella zona(compresa l’area vasta della Grande Gerusalemme),creando una situazione di fatto che renderebbeimpraticabile qualsiasi accordo. L’immunità di Israeleperdura grazie alla faziosità e alla disonestaintermediazione statunitensi e all’impotenza dell’Europa alivello internazionale.

All’interno della leadership palestinese non vi èunanimità di vedute sull’opportunità o meno di perseguireancora il processo di pace. I membri anziani dell’AutoritàPalestinese sostengono che l’istituzione dell’AP è stataun’importante conquista e andrebbe quindi preservata.Altri, e tra questi probabilmente anche il presidenteAbbas, cominciano a mettere in dubbio la validitàdell’Autorità e la probabilità di ottenere la pace. È veroche in passato le minacce di Abu Mazen di “riconsegnarele chiavi agli israeliani” avevano come unico scopo dimettere sotto pressione Israele; ma la minaccia lanciatanella primavera del 2014 sembra ben più concreta, e ilsenso di frustrazione molto più tangibile. Dunque itentativi di formare un governo di unità nazionale con

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Hamas, con cui subito si sono riallacciati i rapporti adaprile, potrebbero avere più probabilità di successo.

Il desiderio di unità indica che anche quelli che primaappoggiavano il processo, o ne sono stati osservatori, sipreparano all’eventualità che il miracolo della medicinanon si ripeta e che il morto non resusciterà ancora.Qualsiasi strada alternativa appare però ancora disastrosaa chi cerca di prevedere cosa accadrebbe se il processodi pace non fosse più riportato in vita. Per la sinistrasionista, così come per i settori filosionisti liberali inOccidente, uno Stato a doppia nazionalità è uno scenario“da incubo”, non solo perché comporterebbe la fine delsionismo, ma anche perché produrrebbe una realtà benpeggiore per entrambi i popoli (come se le cose potesseroandare peggio per i palestinesi).

La sinistra sionista israeliana giustifica in modobizzarro questa paura dello Stato a doppia nazionalità, oin generale di uno Stato democratico. I palestinesidiventerebbero – questo è il loro grido d’allarme –«raccoglitori di legna e attingitori d’acqua», come si leggenella Bibbia (un allarme lanciato più volte da UriAvnery). Altri prefigurano un’infinita guerra civile. Tra ipalestinesi, l’appoggio alla soluzione a due Stati nasce damotivazioni diverse: essa viene percepita come l’unicoaccordo che goda di un ampio sostegno a livellomondiale, persino all’interno di Israele, e per questoandrebbe salvaguardata. Anche tra i più convinti

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sostenitori della Palestina taluni mantengono questo puntodi vista per ragioni simili.

Sebbene vi sia una differenza sostanziale tra il modo incui il centro e la destra in Israele immaginano unasoluzione a due Stati e l’ipotesi delineata dalla sinistrasionista, da partiti come Hadash e Tajamu’ in Israele, daimembri dell’AP e dai filopalestinesi del mondocivilizzato, il discorso politico sulla Palestina ècaratterizzato da una rappresentazione generalmenteunivoca.

Ma sarà ancora così nel prossimo futuro? Nelle diversecomunità palestinesi e tra gli attivisti ebraici non sionistiil consenso alla soluzione a due Stati, un tempo assoluto,viene sempre più messo in ombra dalla ricerca di stradealternative.

Osservando ciò che accade sul territorio si percepiscequanto sia inconsistente questo egemonico e ortodossodiscorso sulla pace e quanto sia inutile qualsiasi sforzoper resuscitarlo. La sinistra sionista, ad esempio, èscomparsa completamente dalla scena politica israeliana,e le uniche alternative rimangono una coalizione tra ladestra e il centro laico oppure tra la destra e gli ebreiultraortodossi. Né oggi appare probabile la comparsa inIsraele di una nuova forza maggioritaria di sinistra. Chiancora spera in questa eventualità sottovaluta il processomentale sviluppatosi nella società ebraica israeliana sindalla nascita dello Stato nel 1948: essa fu messa sotto il

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rullo compressore dell’indottrinamento, che coagulò leantiche fobie ebraiche per i gentili ostili in Europa con letipiche ansie colonialiste rispetto agli indigeni, creandouna spaventosa versione locale del razzismo. Un razzismocosì sedimentatosi non si estirpa facilmente e nonscompare da solo, come ha dimostrato il casodell’apartheid sudafricano.

Si può in realtà trasformare dall’interno una societàcome quella israeliana grazie a un progetto di istruzionealternativa a lungo termine, alla resistenza attiva e aun’enorme pressione dall’esterno. Tuttavia, l’istruzionealternativa è un processo molto lungo mentre i pericoliimmediati derivanti dal fallimento della diplomazia hannoun potenziale così devastante da vanificarne gli sforzi.

Per quel che riguarda il movimento di resistenza, esso èancora frammentato (con cinque differenti gruppipalestinesi sviluppatisi a partire dal 1948, ciascuno perconto proprio e con una propria agenda) e deve districarsiin una realtà storica praticamente ingestibile. Anchel’unità è un processo lungo da creare, almeno quantoquello di immunizzare la società ebraica dal virus razzistada cui è afflitta. Il movimento BDS, pur con le straordinarieconquiste ottenute, e non sono poche, non riesce ancora acontrastare quelle élite politiche occidentali che atutt’oggi forniscono a Israele immunità per le sue azioni ele sue politiche.

Nonostante alcuni sviluppi positivi – pochi israeliani

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coraggiosi che provano a combattere il razzismo dellaloro società in tutte le sue manifestazioni politiche (lasistematica pulizia etnica nel Negev, a Giaffa, Acri,Nazareth, Gerusalemme Est, nella valle del Giordano e asud delle montagne di Hebron) e costituzionali (un’ondatadi leggi razziste nella Knesset); il movimento BDS chediventa ogni giorno più forte e il fatto di assistere forse aun tentativo serio di unificazione palestinese – è nato unnuovo Stato di fatto: il Grande Israele. Uno Stato che haquasi completato l’annessione dell’area C nellaCisgiordania e che offre come unica prospettiva aipalestinesi dell’area A e B di vivere in un carcere doratose non oppongono resistenza al nuovo Stato, o di subire incaso contrario lo stesso trattamento riservato agli abitantidi Gaza. È questa l’alternativa prospettata ai palestinesiche vivono nel nuovo Stato. Nella gabbia non c’è postoper l’espansione, nessuna risorsa per lo sviluppo e ilprogresso, e vige il divieto assoluto di porre resistenza aquesta nuova visione dello Stato del Grande Israele.

Monitorando il tasso di razzismo e di democrazia inIsraele, si nota una realtà strisciante che annunciaun’epoca di leggi ancor più razziste e di espansione dellagiudaizzazione, mentre già aumentano in modo allarmantegli attacchi ai danni dei palestinesi, seguendo il motto“TagMehir” (il ‘prezzo da pagare’), ossia la distruzionequotidiana di proprietà e luoghi sacri palestinesi. Nelnuovo Grande Israele, deboli consigli locali palestinesi e

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forze di polizia indifferenti rimangono a guardare mentreil crimine organizzato assume il controllo su quartieri evillaggi impoveriti, afflitti dalla miseria e dalladisoccupazione, che tra il fiume Giordano e il marMediterraneo ha raggiunto livelli senza precedenti.

È una realtà tragica, che può e dev’essere contrastata eche invece rimane immobile in parte per colpa dellospreco di energie investite nell’inutile processo di pace,in parte per via delle lotte di potere tra le stesse vittimeper la conquista di piccoli feudi insignificanti.

Oggi, un nuovo discorso che analizzi la realtà invece diignorarla deve partire da tre temi fondamentali. Il primo èla politica complessiva di Israele, che ha eclissato, giàmolti anni or sono, la Linea Verde e che sostanzialmentetratta tutti i palestinesi nello stesso modo. I palestinesicittadini dello Stato di Israele godono ancora di relativiprivilegi, che tuttavia vanno via via scomparendo. Comegià accennato, questo accade non soltanto perché Israele èmeno interessato di prima a concedere quei privilegi, maanche perché ci si è resi conto che un’apartheidstrisciante, come quella in atto nel paese, è non menooppressiva di un’occupazione diretta (in Cisgiordania) odi un assedio prolungato (nella Striscia di Gaza).

Quando forme diverse di oppressione provengono daun’unica fonte, la lotta contro di essa deve essere unitaria.Non mi illudo che nel prossimo futuro saremo tutti guidatida una strategia chiara e univoca, ma chiunque concordi

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con l’idea di una lotta comune ebraico-palestinesedovrebbe proporre una visione che smantelli la puliziaetnica della Palestina nel suo complesso, non soltanto inalcune sue aree. Invece che una formula morta, in questomomento storico è di fondamentale importanza una guidachiara sulle nuove strade da seguire, ed è indispensabileavviare in tutta la Palestina storica un progetto perridisegnare le relazioni arabo-ebraiche. Quali che siano leproposte sull’entità politica del futuro, esse devonobasarsi sul principio di uguaglianza per chiunque vi abitae anche per tutti coloro che ne sono stati espulsi. Questaentità, e qualsiasi altro modello ideale, si può svilupparemediante gli organi rappresentativi già esistenti e altriancora da creare. Tuttavia, se si vuole superare la paralisiconcettuale impostaci dalla soluzione a due Stati,chiunque sia nelle condizioni di farlo – a qualsiasi livello– dovrebbe proporre una struttura politica, ideologica,costituzionale e socioeconomica che valga per tutti gliabitanti della Palestina, non solo dello Stato di Israele.

Il secondo tema riguarda il futuro dei profughipalestinesi. Finché questo problema viene affrontatodentro la cornice della vecchia ortodossia pacifista edella soluzione a due Stati, esso resta marginale, e l’unicastrada possibile sembra il ritorno dei rifugiati solo in unfuturo Stato palestinese. Un discorso nuovo sullaquestione dei profughi non può prescindere da due fattori:il primo è leggere il rifiuto di Israele a far ritornare i

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rifugiati come l’ennesima manifestazione della derivarazzista di questo Stato; il secondo è l’esigenza di valutareil destino di queste persone alla luce della nuovaemergenza profughi scoppiata in Siria (che tra l’altrocomprende molti rifugiati palestinesi).

Nel quadro diplomatico basato sulla soluzione a dueStati, il no di Israele al ritorno dei rifugiati era legittimato,così come lo era l’argomentazione secondo cui il ritornonon avrebbe consentito a Israele di preservare lamaggioranza ebraica nello Stato. La legittimazioneinternazionale autorizza indirettamente Israele a impiegareogni mezzo ritenuto necessario per conservare lamaggioranza ebraica. Da questo punto di vista, non v’èdunque differenza tra il rifiuto di far tornare i profughi egli altri programmi di pulizia etnica, che sia la proposta diannettere la regione del Wadi Ara alla Cisgiordania ol’espulsione dei beduini nel Naqab o ancora lospopolamento di Gerusalemme Est e della valle delGiordano. Non può esservi pace con uno Stato che attuapolitiche simili ai danni dei propri cittadini. Unaquestione associata a quella dei profughi è il destino,nell’immediato futuro, dei rifugiati palestinesi in Siria,Libano, Iraq, Turchia e Giordania alla luce della guerracivile che si sta consumando in Siria. Israele mostra almondo il suo volto umanitario vantandosi di averammesso decine di combattenti siriani nei suoi ospedali.Tuttavia, i quattro Paesi vicini della Siria, che hanno con

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essa relazioni non meno complicate, hanno assorbitocentinaiadimigliaia di profughi. Se Israele non nutre ilminimo interesse umanitario per questi rifugiati, molti deiquali palestinesi, chiunque si annoveri nel fronte pacifista,fuori e dentro la Palestina, deve invece riconoscere laconnessione tra la tragedia siriana e la questionepalestinese: va offerta ai vecchi come ai nuovi profughi lapossibilità di tornare in patria, sia come gesto umanitariosia come atto politico per accelerare la fine del conflittoin Israele e Palestina.

Più in generale, il diritto di ritornare deve diventare ilfulcro dell’attivismo all’interno di Israele (e alcunisegnali incoraggianti indicano che ci si sta orientando inquella direzione). La Nakba si verificò dove sorge oggiIsraele, non in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza.Qualsiasi confronto sulla riconciliazione con entrambe lecomunità deve partire da questo dato. Un primo passopotrebbe essere riconoscere almeno ai profughipalestinesi interni (circa 250.000, stando a stime alribasso) il diritto di tornare nelle loro case, o nei dintorni.Il consenso maggiore, sul quale costruire poi dentroIsraele la lotta contro la pulizia etnica, lo si può ottenereproprio tramite il diritto degli esuli interni. La diasporainterna è un residuo del passato, ed è su questo che sideve concentrare la lotta. Del resto, i profughi interni sonogià presenti nella bilancia demografica. In che modo fartornare queste persone e poi anche gli altri rifugiati è una

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domanda che deve essere al centro e non ai margini deldibattito pubblico sulla Palestina in questo secolo.

La terza e ultima area tematica riguarda l’assenza dellavisione socialista nel confronto sulla Palestina, che è poiuno dei motivi per cui il cosiddetto fronte pacifista inIsraele (e lo stesso vale per il gruppo J Street negli USA)non è in contrapposizione con il neoliberismo: esso non sioppone al ritiro di Israele dai Territori Occupati, ma nonesprime una posizione in merito alle vessazionisocioeconomiche che colpiscono indistintamente gliabitanti della Cisgiordania come i cittadini israeliani. Èvero, purtroppo, che alcune classi ebraiche oppresse inIsraele, e in particolare gli ebrei arabi che si consideranoanzitutto ebrei, aderiscono a posizioni fortemente razziste,ma questo ginepraio è una ragione in più per elaborareuna visione alternativa al regime economico, non soltantopolitico, che vige oggi nell’area tra il fiume Giordano e ilmare.

La mancanza di una prospettiva socialista ci ha inoltreimpedito di comprendere appieno gli accordi di Oslo, lacreazione dell’Autorità Palestinese, le iniziative come“People to People” e gli aiuti all’occupazione tramite ildenaro dell’UE e dell’USAID intesi come progettineoliberisti: le élite economiche hanno garantito il loroappoggio al “processo di pace” perché era visto come lagallina dalle uova d’oro.

Quanto sia importante puntare su una nuova strategia lo

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si intuisce osservando il Sudafrica del dopo apartheid:l’esito è stato disastroso, visto che la struttura economicadel paese continua a discriminare la comunità africana. Ifautori – a livello istituzionale, pubblico e personale –della nuova visione devono fare in modo che il confrontonon si fermi alla Linea Verde ma interessi la Palestinatutta, favorendo magari in tal modo un dibattito serio sulfuturo dell’intero Medio Oriente.

L’Israele del 2020 sarà molto probabilmente più esteso,razzista e ultracapitalista, e sarà ancora dedito alla puliziaetnica della Palestina. Tuttavia, ci sono buone probabilitàche un simile Stato sarà isolato a livello internazionale eche le popolazioni mondiali chiederanno ai propri “capi”di intervenire e di interrompere ogni relazione con esso.Ciò a cui esse non devono più prestare ascolto sono ivecchi slogan, ormai inutili per la costruzione di unaPalestina più giusta e democratica.

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PARTE PRIMADialoghi

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2. Il passato1FRANK

BARAT:Quantoèimportanteilpassatopercapireilpresente?Consempremaggioreinsistenzasichiedeaipalestinesidiguardareavanti,didimenticareilpassato,laNakbadel1948,laquestionedeirifugiati.Checosanepensate?

NOAM CHOMSKY: Succede sempre così. È tipico deipotenti dire: «Lasciate perdere, ripartiamo da qui». Chepoi in realtà significa: «Ho avuto ciò che volevo, tu lasciaperdere i tuoi interessi. Tanto mi prendo ciò che voglio».Vale anche per la questione palestinese. Lasciarsi allespalle il passato significa tralasciare il futuro, perché ilpassato contiene aspirazioni e speranze, alcune del tuttocondivisibili, che possono essere perseguite nel futuro seopportunamente alimentate. Alla fine è come dire:«Lasciamo perdere le speranze e le aspirazioni, perchéabbiamo già ottenuto ciò che volevamo».

ILAN PAPPÉ: Sono d’accordo. Siamo ancora qui a darela nostra opinione sulla questione palestinese perché inPalestina la devastazione procede da sempre a un ritmomolto più veloce delle proposte messe in campo pertrovare una via d’uscita. Questo stallo permane per colpadella posizione monolitica, sempre la stessa da anni, dichi gestisce il cosiddetto processo di pace, di quanti sisono fatti interpreti della realtà palestinese e israeliana ecredono di avere la soluzione in tasca. Alla base vi è unaricetta per la pace che si ostina a escludere il passato dal

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dibattito. Secondo questi mediatori, l’unico passato checonta in un processo di pace è il momento in cui quelprocesso comincia. Tutto ciò che è accaduto prima èirrilevante. Secondo questo ragionamento, ad esempio, èimpensabile smantellare gli enormi insediamenti ebraicipresenti da decenni in tutta la Cisgiordania; si può semmaivalutare uno scambio di territori, ma non losmantellamento degli insediamenti già esistenti. Eccodunque che il passato, agli occhi dei cosiddetti mediatori,diventa un ostacolo, mentre per i popoli oppressi chesubiscono l’occupazione il passato è tutto.

NC: Come ho già detto, questo accade ovunque. Così, ilpresidente Obama invita a dimenticare i crimini che sonostati commessi in passato, l’invasione dell’Iraq, e adandare avanti. Che poi significa continuare a fare ciò chesi è sempre fatto. È l’arma dei potenti.

IP: Verissimo.FB:Oggiiltermine“sionismo”contempladiversedefinizionieinterpretazioni,tantochenonseneconoscepiùilsignificato.Potetespiegarcichecosahasignificatoilsionismonellastoria?IP: È vero, il sionismo ha diverse interpretazioni. Una

definizione neutra è che si tratta di un’ideologia, ossia diun complesso di idee che orienta l’agire in modo che leazioni siano coerenti con quelle idee. Ciò che più conta, amio avviso, è l’interpretazione di quell’ideologia da partedi chi detiene il potere, non l’interpretazione asettica chene danno gli studiosi. A me interessa l’impatto chel’ideologia sionista ha sulla vita concreta delle persone.Osservato da questa prospettiva, il sionismo è

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un’ideologia che, sin dall’avvio del progetto sionista inPalestina, ha sempre visto nel giudaismo un movimentonazionale con il pieno diritto di possedere la più vastaarea possibile della Palestina, con il minor numero dipalestinesi; questa era la condizione necessaria percostruire la nuova realtà ebraica. È inevitabile che, se pertanti anni uno Stato fa di un’ideologia simile la suainfrastruttura etica, essa si innervi sempre di più nella vitadi un popolo.

In questo non è diversa da tante altre ideologienazionali o culturali. La sua eccezionalità risiede altrove:il sionismo moderno è un’ideologia di potere pressochéunica nella storia perché è rivolta contro un gruppo dipersone ben preciso. Di solito le ideologie hanno unraggio d’azione più vasto; il sionismo invece si focalizzasu un obiettivo particolare.

[Se si possa] sostituire il sionismo con un’ideologia piùprogressista costituisce un’ottima domanda. La cosamigliore, a mio avviso, è che chi ne è vittima e chi vi sioppone si domandi fino a che punto si può progrediresotto la spinta di valori universalmente accettati quali idiritti umani e civili. Infatti, la versione moderna delsionismo viola ed è in contraddizione con i diritti umani ecivili fondamentali di chiunque non sia un ebreoisraeliano. Più che trovare un’ideologia alternativa,dunque, sarebbe opportuno creare un fronte compatto chereclami il rispetto dei più elementari diritti umani e civili.

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FB:Esisteunadefinizionedelsionismomoderno?Chisono,oggi,isionisti?

NC: Anche in questo caso bisogna innanzituttoesaminare il passato. Il sionismo dell’epoca precedentealla fondazione dello Stato era una cosa diversa rispetto aquello del periodo posteriore. Dal 1948 in poi il sionismoè diventato l’ideologia e anzi la religione dello Stato,esattamente come l’americanismo o l’eccezionalismofrancese. E anche dopo il 1948, la nozione di sionismo hasubito delle modifiche. Nel 1964 trascorsi un po’ di tempoin Israele, e ricordo che per gli intellettuali di sinistra ilsionismo era una specie di barzelletta, una propaganda dabambini. Appena tre anni dopo, nel 1967, tutto cambiò equelle stesse persone diventarono dei nazionalisticonvinti; vi fu una profonda trasformazione nel modo incui gli israeliani percepivano se stessi e la fisionomiadello Stato. In sostanza, prima del 1948 il sionismo nonera una religione di Stato. Io stesso, a metà degli anniQuaranta, sono stato un leader studentesco sionista, perquanto fermamente contrario a uno Stato ebraico. Ero afavore di una collaborazione tra la classe operaia ebraicae quella araba per la costruzione di una Palestinasocialista, ma aborrivo l’idea di uno Stato ebraico. Sonostato un leader studentesco sionista perché allora ilsionismo non era una religione di Stato. Ancor prima, miopadre e la sua generazione avevano aderito al sionismo,ma della corrente di Ahad Ha’am: erano alla ricerca di un

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epicentro culturale in cui la diaspora potesse finalmenteconvivere con i palestinesi. Questo fermento ebbe fine nel1948; da quel momento il sionismo divenne in pratica unareligione di Stato, che impresse alle scelte politiche unabbrivio ben diverso. È fondamentale tenere a mentequesto cambio di rotta. Poi, a metà degli anni Settanta, gliarabi si mostrarono disponibili a un accordo politico.Siria, Egitto e Giordania proposero una soluzione a dueStati al Consiglio di Sicurezza ONU, ma gli USA opposeroil veto. In realtà l’Egitto aveva già offerto un pienoaccordo di pace con Israele. Fu quindi necessarioinnalzare nuovi muri per fermare i negoziati, e il concettodi sionismo mutò ancora. La nuova condizione era che tuttidovevano accettare il “diritto di esistere” di Israele. Ilpunto è che uno Stato non detiene in sé il diritto diesistere. Il Messico non riconosce il diritto di esisteredegli Stati Uniti su metà del suo vecchio territorio. GliStati si riconoscono reciprocamente, ma non riconosconol’uno all’altro il diritto di esistere; non esiste un concettosimile. Invece Israele ha innalzato quel muro perpretendere che i palestinesi considerassero legittime leloro politiche di oppressione e di espulsione. Attenzione,non pretendeva solo che se ne riconoscesse la veritàstorica, ma proprio che quelle azioni fossero giustificate.Naturalmente i palestinesi non lo avrebbero mai accettato;quindi si trattò di un simpatico espediente per bloccare inegoziati. Ora la faccenda è più complicata, e le pressioni

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per arrivare a un compromesso sono talmente forti che gliisraeliani hanno dovuto innalzare ancora di più l’asticella:i palestinesi devono riconoscere Israele in quanto Statoebraico. Questa è la chiave di volta di tutti i discorsi diNetanyahu. Perché? Perché sanno che è impossibile:nessuno riconoscerebbe Israele in quanto Stato ebraico,così come non riconosceremmo gli Stati Uniti come Statocristiano. Certo, il Pakistan si autodefinisce uno Statoislamico, ma gli USA non lo riconoscono in quanto tale. Ilsionismo di Stato ha dovuto cambiare strada, per elevaremuri sempre più alti dinanzi alle diverse proposte diaccordo politico. E se in futuro sarà necessario,inventeranno qualcosa di nuovo. Il sionismo in quantolinea politica è un concetto camaleontico, che mutasecondo le esigenze dello Stato.

IP: C’è però, a mio avviso, un fattore costante nelsionismo che non muta nel tempo. Lo si può definiresionismo tradizionale o sionismo laburista, come vienechiamato talvolta. Esso corrisponde alla dimensionecolonialista – o del colonialismo insediativo – delsionismo. Non appena le ancor vaghe idee sioniste, comeil recupero del giudaismo nazionalista, confluirono in unprogetto concreto per stabilirsi in Palestina, il sionismotramutò in colonialismo di insediamento; e lo è tuttora.Forse è vero che i mezzi per colonizzare la Palestinacambiano in base alle circostanze e agli equilibri dipotere, ma non cambia la visione d’insieme. In

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quest’azione colonizzatrice la popolazione indigena èpercepita come un ostacolo alla riuscita di quel progetto.È mia opinione che questo aspetto costituisse il fulcrodell’ideologia sionista ancor prima della fondazione delloStato. Lo Stato semplicemente facilita la colonizzazione,ma il progetto colonialista non è mai mutato.

La prospettiva palestinese, al contrario, è cambiata nelcorso degli anni. Degna di nota è la posizione diintellettuali e leader palestinesi come Azmi Bishara, ilquale sostiene che i coloni abbiano ormai un certo dirittodi essere presenti in Palestina. La prima ondata di colonisionisti arrivò in Palestina in un momento storico – com’èavvenuto spesso nel colonialismo del XIX secolo – in cuila popolazione locale poté resistere e ricacciare icolonizzatori nei loro paesi d’origine, sovente con la lottaarmata. Ma quando i colonizzatori sono già alla terzagenerazione e per di più sono riusciti a fondare un proprioStato, la popolazione autoctona deve adottare una strategiadiversa e trovare nuovi modi per coesistere con loro.

La ragione per cui l’impulso colonialista delmovimento sionista non si è spento in un dato momentostorico risiede nella cupidigia territoriale dei coloni.Quando nel 1937 fu offerta loro una parte della Palestina,essi la giudicarono uno spazio insufficiente per realizzarele loro aspirazioni. Tuttavia il loro leader, David BenGurion, intuì, da uomo scaltro qual era, che sarebbe statotatticamente controproducente dichiarare apertamente i

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propositi annessionistici. Così alla Commissione Peelriferì che il movimento sionista si accontentava di unapiccola area del paese.

Portò avanti questa tattica vincente anche nel 1947,quando convinse la sua comunità ad accettare unaporzione di territorio più estesa rispetto a quella offertanel 1937, ma ancora insufficiente per i suoi piani. BenGurion confidò ai colleghi di non essere per nullasoddisfatto dal piano di partizione ONU del novembre del1947, e promise loro che avrebbero avuto i mezzi, leopportunità e il progetto per modificare quei confini inseguito; come poi effettivamente accadde. I suoisuccessori sperano ancora di riprodurre la sua formulavincente, nonostante Israele abbia completatol’acquisizione dell’intera Palestina nel 1967. Tuttavia, adifferenza di Ben Gurion nel ‘37 e nel ‘47, costoro nonhanno ottenuto, finora, la legittimazione internazionale percompiere l’espansione territoriale definitiva (ediversamente da lui, alcuni cercano addirittura, sempresenza successo, la legittimazione da parte dei palestinesi).

NC: Mi sembra una descrizione corretta del cosiddettosionismo intransigente o, più in generale, del sionismopolitico, del quale ovviamente Ben Gurion era unesponente di primissimo piano. Tuttavia il sionismo èstato un fenomeno più ampio. Anche Ahad Ha’am erasionista, ma non aderiva al sionismo politico. In effetti, igruppi nei quali ho militato io erano marginali, come la

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Lega per il riavvicinamento arabo-ebraico di ChaimKalvarisky. Queste formazioni erano sioniste maantistatali; si fondavano piuttosto sulla lotta di classe epropugnavano la cooperazione tra le classi lavoratriciebraiche e arabe. Può suonare strano oggi, ma negli anniTrenta e Quaranta non lo era.

IP: Gli ebrei allora erano una minoranza. Sarebbepossibile portare avanti idee simili in un’epoca in cui gliebrei sono la maggioranza e detengono il potere?

NC: Sì, la maggioranza e lo Stato sono venuti dopo.All’epoca costoro erano fortemente contrari allaformazione di uno Stato. Il concetto di sionismo si èmodificato in seguito. Quello che tu ben descrivi nella tuaanalisi è il sionismo politico tradizionale. Per laprecisione, fino al 1942 il movimento sionista in generalenon accettò la nozione di Stato, che invece è sempre statainsita nel sionismo politico, è innegabile. Secondo me èimportante distinguere tutte le correnti in campo aquell’epoca, perché può aiutarci a capire che cosapotrebbe accadere in futuro.

FB:Oggimoltidefinisconoilsionismounaformadicolonialismodiinsediamento.Sieted’accordoconquestadefinizione?NC: L’espansione ebraica in Israele è stata certamente

una manifestazione del colonialismo di insediamento.Quando si analizza il sionismo, bisogna decidere quanto sivuole allargare il discorso. L’esito del sionismo è statosenza dubbio la nascita di una società colonialeinsediativa, ma un processo simile si è avuto anche negli

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Stati Uniti, in Australia e in tutta la cosiddetta anglosfera.Del resto Israele fa parte di quest’orbita, ed è un dato danon sottovalutare. A livello internazionale, il sostegno allepolitiche israeliane proviene innanzitutto dagli USA,naturalmente, ma anche da altri paesi dell’anglosfera:l’Australia, il Canada ecc. Sospetto che in quei paesiscatti un meccanismo mentale per cui siccome in passatoessi si sono comportati in un determinato modo, ancheadesso quelle azioni devono essere giuste. Nelle societàcoloniali insediative è diffuso questo tipo di mentalità:poiché anche loro hanno sterminato o espulso lapopolazione indigena, allora deve esistere unagiustificazione concettuale, tipo la superiorità di unadeterminata civiltà o cose del genere.

IP: Bisogna riconsiderare il passato per modificare laprospettiva e la percezione a livello internazionale, anchenelle società coloniali insediative. Nemmeno negli StatiUniti o in Australia, forse perché lì furono compiuti veri epropri genocidi, ed è accaduto molto tempo fa, la societàapproverebbe con tanta leggerezza – io credo – dellepratiche coloniali insediative. Quelle società oggi fannobene i conti – magari neanche tanto bene dalla nostraprospettiva – con i crimini del passato, e trovano il modoper affrontarli. Come gli australiani, che hanno istituito il“Sorry Day”, la giornata nazionale del dispiacere; oppureil gesto, ancor più progressista, di riconciliazione dellaNuova Zelanda, che ha permesso ai maori di ritornare

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nelle terre che erano state loro sottratte. Certo, le societàinsediative partono da una posizione di comodo, visto cheesse nelle prime fasi della colonizzazione hanno decimatoa tal punto la popolazione autoctona da non nutrire alcuntimore che quei gesti simbolici possano alterare l’odiernoassetto socioeconomico e politico. Nel caso di Israele lafaccenda è più complicata. Poiché l’espropriazione èancora in atto – non essendo riusciti, nelle prime fasi dellapulizia etnica del 1948, ad annientare il popolopalestinese –, qualsiasi gesto simbolico di riconciliazioneavrebbe un impatto profondo e tangibile sulla realtàsocioeconomica e politica territoriale; e infatti lamaggioranza degli ebrei israeliani vi si oppone in ognimodo. Il loro punto debole è che non sono ancora sicuri diottenere la legittimazione internazionale e regionale per leloro azioni.

NC: È vero. Il problema di Israele è che si tratta di unaversione novecentesca del colonialismo manifestatosi dalXVII al XIX secolo. Il dato che mi premeva sottolineare,tuttavia, è leggermente diverso: nell’anglosfera, e in tuttele società coloniali insediative, si è radicata una mentalitàche è una forma strisciante di pragmatica accettazionedelle cose del mondo. Ad ogni modo, volendo proiettarcinel futuro, qualcosa sta cambiando anche nell’anglosfera.Negli anni Sessanta, e soprattutto per effetto dellamilitanza di quegli anni, si è cominciato a ripensare inmodo serio a ciò che era accaduto in passato. Prima di

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allora quest’opera di revisionismo era stata perlopiùmessa a tacere. E bisogna risalire agli studi condotti neglianni Sessanta da alcuni autorevoli antropologi per sapereche in tutto il paese c’erano forse un milione di indiani;poi di nuovo il buio. Oggi però l’atteggiamento è moltodiverso, il che credo sia da ricondurre anche al climaprodotto dalle critiche sempre più aspre al colonialismoinsediativo di Israele. In qualche modo le due cose sonocollegate.

IP: Sono d’accordo, e ritengo che la diversa percezionedelle società coloniali insediative sia ciò con cui noiattivisti dobbiamo ancora fare i conti. Ricordo quanto hodovuto faticare per spiegare ai miei studenti in Inghilterrache Israele e Palestina sono una versione modernadell’ideologia e della retorica colonialista del XIX secolo.

NC: Esatto.IP: Non è facile per gli israeliani evitare il termine

“colonialismo” quando devono spiegare la loro realtà inlingua ebraica. Qualsiasi traduzione del lessicoinsediativo di Israele tradisce inevitabilmente la naturacolonialista del progetto. Persino gli ebrei progressistiche sostengono Israele si sentono a disagio quandodevono tradurre.

Lo stesso imbarazzo lo proviamo noi attivisti, perchéabbiamo a che fare con un residuo dell’Ottocento che peròirrompe nel XXI secolo. Per questo ritengo che l’anello dicongiunzione tra il passato e il futuro sia il paradigma del

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colonialismo di insediamento, poiché esso non spiegasoltanto l’atto dell’insediamento e della colonizzazionema anche tutto ciò che accade da quel momento in poi.

NC: L’espulsione delle popolazioni indigene.IP: Esatto.FB:VorreiritornaresullaquestionedelloStatoebraico.Segliebreisonounpopolo,perchénondevonoavereunoStato?

EperchénondovremmoriconoscereIsraelecomeunoStatoebraico?IP: Non mi risulta che qualcuno abbia mai messo in

dubbio il diritto di un popolo di ridefinire se stesso subase nazionale, etnica o culturale. Di certo non ci sono imargini per contestarlo nell’ambito del diritto e dell’eticainternazionali, che del resto non metterebbero mai indiscussione quel principio in questo momento storico, aprescindere dal modo in cui un determinato gruppo hadefinito se stesso in passato (nel nostro caso, su basereligiosa).

Il punto è un altro. Qual è il prezzo da pagare per questametamorfosi, e chi lo deve pagare? Se questa ridefinizioneavviene a spese di un altro popolo, allora sì che diventaun problema. Se un gruppo è vittima di un crimine e cercaun rifugio, non può ottenerlo espellendo un altro gruppodallo spazio che quello ha scelto come rifugio. C’è unabella differenza tra ciò che vuoi e i mezzi che usi perottenerlo. Il problema non è il diritto degli ebrei di avereun proprio Stato; quella è una questione che riguarda sologli ebrei. Magari gli ebrei ortodossi possono sollevarequalche obiezione, ma ai palestinesi non importa se gli

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ebrei creano uno Stato in Uganda, come qualcuno proposenel 1902-1903. A nessun palestinese interessa questoscenario. Il punto è questo: con quali mezzi eserciti il tuodiritto all’autodeterminazione.

NC: L’idea di uno Stato ebraico è un’anomalia. Unfenomeno simile non si è mai verificato in nessuna partedel mondo, e la domanda parte da un presuppostosbagliato. Si prenda la Francia: ci è voluto molto tempoprima che divenisse uno Stato, innumerevoli violenze erepressioni sono state compiute. Invero, tutti gli Statipresuppongono un processo di formazione estremamenteviolento; infatti l’Europa è stata per secoli la regione piùcruenta del pianeta. Ma una volta fondato lo Stato, tutti nesono cittadini. Non importa chi tu sia: se sei un cittadinofrancese, sei francese a tutti gli effetti. Se vivi in Israele esei un cittadino israeliano, non per questo sei ebreo. Ilconcetto di Stato ebraico è un’anomalia che non ha egualinel mondo moderno, ed è dunque evidente perché nondovremmo accettarla. Perché dobbiamo acconsentire aun’anomalia unica nel suo genere?

Tutti gli Stati della storia sono nati dalla violenza; nonv’è altro modo di imporre una struttura uniforme a personeche hanno interessi, vissuti, lingue differenti. Solo con laviolenza si può riuscire nell’intento. Ma una volta che siastato fondato, chiunque fa parte di quello Stato,quantomeno nei sistemi moderni, è in teoria un cittadinouguale agli altri. Naturalmente non è così nella realtà, ma

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il principio è quello. In Israele, invece, la situazione ècompletamente diversa e si fa distinzione tra cittadinanzae nazionalità. Non esiste una nazionalità israeliana, non sipuò essere semplicemente di nazionalità israeliana. Ilproblema arrivò nelle aule di tribunale già negli anniSessanta, ed è riemersa anche di recente: alcuni israelianivolevano che sui loro documenti di identità ci fosse ladicitura “israeliano”, non “ebreo”. La richiesta arrivò finoalla Corte suprema, che la respinse. Questa vicendaillustra bene quanto sia anomalo il concetto di Statoebraico, che non trova alcuna corrispondenza nell’attualesistema politico internazionale.

IP: Quel concetto serve a Israele per far tacere lecritiche allo Stato e alla sua ideologia: stigmatizzandoIsraele si aggredisce lo Stato ebraico, e di conseguenza ilgiudaismo. È un ragionamento e una linea di difesainteressante.

In ogni caso una simile prescrizione non sta in piedi: ècome se al culmine della lotta contro l’apartheid si fosseconsentito di denunciare soltanto determinate politichedella società sudafricana ma non la natura stessa delregime. La grande conquista di Israele è stata proprio diaver ottenuto l’immunità da questo genere dicontestazione, almeno finora. E sono loro stessi ad averstabilito le regole del gioco: si può protestare contro lepolitiche israeliane, ma non contro Israele, perché ciòequivarrebbe a protestare contro lo Stato ebraico, e

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dunque contro il giudaismo. È importante far emergerequesto aspetto nel dibattito.

NC: La dirigenza israeliana sta di nuovo tirando fuorila questione; un dato da non sottovalutare.

IP: Esatto.NC: Quando Netanyahu dice: «Dovete riconoscere lo

Stato ebraico», pretende in pratica che sia riconosciutoqualcosa che non esiste nel mondo moderno. Non vi sonoaltri esempi del genere. Lo ripeto, se sei un cittadinofrancese, allora significa che sei francese. Se sei uncittadino di Israele, non per questo sei ebreo. È un puntodi cruciale importanza.

FB:Israelesarebbeesistitosenoncifossestatol’Olocausto?NC: È un argomento spinoso, ma penso di sì. Erano

state create delle istituzioni nazionali – quelle di cuiparlava prima Ilan – ed erano solide, c’era una forzamilitare, un’ideologia, e tutto questo godevadell’appoggio delle potenze straniere, per diverse ragioni.Nel Regno Unito e negli Stati Uniti si trattava soprattuttodi un sostegno di natura religiosa. Il sionismo cristiano èuna realtà molto potente, nata ancor prima del sionismoebraico, ed è sempre stata un fenomeno elitario: LordBalfour, Lloyd George, Woodrow Wilson, Harry Trumanleggevano tutte le mattine la Bibbia, dove è scritto cheDio ha promesso la terra agli ebrei. Questa era lasituazione nelle potenze straniere: il consenso esistevagià, tant’è vero che proprio sotto il mandato britannico

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nacquero le istituzioni nazionali ebraiche. Dunque la miaipotesi è che Israele sarebbe nato anche senzal’Olocausto. Va inoltre precisato che negli anni Quarantal’Olocausto non era una questione di primo piano,tutt’altro; lo divenne soltanto dopo il 1967. Tutti i musei ei progetti di studio sull’Olocausto risalgono agli annisuccessivi al ‘67; e fu così in particolare negli Stati Uniti.A questo punto bisogna porsi una semplice domanda.Dopo la guerra si contavano numerosi sopravvissuti algenocidio, e molti di loro vivevano in alcuni campi diconcentramento; luoghi non diversi dai campi di sterminionazisti, a parte il fatto che non c’erano i forni crematori.Da alcuni studi del governo USA, emerse che questepersone vivevano nelle stesse condizioni in cui avevanovissuto durante l’occupazione nazista. Ed ecco ladomanda: quanti di loro si trasferirono negli Stati Uniti?Quasi nessuno. Se gli avessero chiesto dove volevanoandare, con ogni probabilità avrebbero risposto inAmerica. Metà dell’Europa voleva andare negli USA,soprattutto i sopravvissuti all’Olocausto. Ma non fu così.La verità è che il governo statunitense non li voleva, cosìcome non li voleva la comunità ebraica americana. Furonogli emissari sionisti a prendere il controllo dei campi: laregola era che bisognava far imbarcare per la Palestinatutti gli uomini e le donne abili al lavoro tra i diciassette ei trentacinque anni di età. Il primo libro su questo tema,censurato per molto tempo, è stato pubblicato un paio di

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anni fa, ed è di Yosef Grodzinsky.IP: Esiste solo in lingua ebraica, giusto?NC: No, ne esiste anche una versione inglese, ma è

stata talmente boicottata che nessuno ne sa nulla. Èdifficile da trovare, ma esiste. In inglese il libro è statopubblicato con il titolo IntheShadowoftheHolocaust, mail titolo originale ebraico significa “ottimo materialeumano”. L’idea di fondo è che quell’”ottimo materialeumano”, i sopravvissuti, sarebbero poi diventati carne damacello. Nessuno si occupò della questione, ma di sicuroquelle persone avrebbero preferito venire negli StatiUniti. Ecco che cosa significò l’Olocausto in quelperiodo, e lo si intuisce anche dalla propagandadell’epoca; Truman, ad esempio, fu glorificato per averpraticamente costretto i britannici a mandare gli ebrei inPalestina. Nessuno si chiede come mai Truman nonpropose di accogliere un centinaio di migliaia di ebreinegli USA. In fondo, gli Stati Uniti erano il luogo cheavrebbe potuto accoglierli con più facilità. Gli Stati Unitipossono accogliere chiunque, non avendo un’alta densitàdi popolazione ed essendo il paese più ricco del pianeta.Non lo fecero perché è vero che l’Olocausto serviva ademonizzare il nemico, ma per il resto non era un concettoche rivestisse una grande importanza. Quando uscì laprima ricerca accademica sull’Olocausto, realizzata daRaul Hilberg, fu demolita; non volevano che si rimestassein quella vicenda.

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IP: Sono d’accordo, ma con un piccolo distinguo, cheriguarda la tempistica. È verissimo che, a prescinderedall’Olocausto, esistevano in Occidente interessi occulti –religiosi e strategici – che volevano nel territorio unapresenza ebraica e non palestinese o, come dicevanoall’epoca, islamica. Lo si capisce leggendo lacorrispondenza legata alla Dichiarazione Balfour e aglisviluppi successivi nel Regno Unito tra gli anni Venti e glianni Trenta. Qualche autorevole figura britannica provò adifendere gli interessi degli indigeni palestinesi, ma giàallora costoro si rendevano conto che era praticamenteimpossibile portare alla pubblica attenzione quel punto divista: qualsiasi voce dissidente sarebbe stata soffocata erepressa. Non fu solo il sionismo cristiano a far trionfareil sionismo molto prima dell’Olocausto. Il desiderio di farinsediare gli ebrei in Palestina nasceva anchedall’islamofobia britannica e occidentale.

NC: È vero.IP: Il sentimento antiarabo e antimusulmano era

piuttosto diffuso. Era scontato che si formasse una potentealleanza internazionale che avrebbe schiacciato lapopolazione indigena, visto che in quella terra cristianisionisti e imperialisti laici britannici vollero una presenzaebraica al servizio dei loro imperi e teologie, mentre nonvolevano assolutamente una presenza araba o musulmana.Fu contro questa potente alleanza che i palestinesidovettero confrontarsi quando tentarono per la prima volta

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di fondare un movimento nazionale per difendere il dirittoall’autodeterminazione e all’indipendenza.

L’Olocausto ha accelerato i tempi storici. E tuttavia latempistica ha un suo peso. Dopo l’Olocausto si sonoavviati processi storici che hanno poi portato al declinodell’islamofobia o arabofobia e del sionismo cristiano.Chiamatele sinistra o progressismo, ma quelle forzeriuscirono alla fine a decolonizzare il mondo arabo epersino l’Africa. Senza l’Olocausto, forse per il sionismosarebbe stato più complicato fare ciò che fece con lastessa rapidità.

NC: Sono completamente d’accordo.IP: Quel che ha detto Noam a proposito degli sfollati

ebrei del dopoguerra è interessante. Quando laCommissione angloamericana, nel 1946 (cometestimoniano anche le memorie di Richard Crossman), epoi l’UNSCOP (United Nations Special Committee onPalestine, ‘Commissione Speciale delle Nazioni Unite perla Palestina’), nel 1947, provarono a rimanere neutrali e adare ascolto a entrambi i punti di vista, diversi membridelle due commissioni, ovviamente con lo zampino dellapropaganda sionista, affermarono che recarsi nei campidegli sfollati sarebbe servito ad associare il destino degliebrei d’Europa, anche demograficamente, con quello degliebrei di Palestina. Questo, naturalmente, a tutto svantaggiodei palestinesi: chi erano loro per andare contro il voleredei potenti di risolvere finalmente alla radice il problema

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della presenza ebraica in Europa? Di certo non sarebbestato possibile andare a Vienna nel 1900 a chiedere agliebrei di andarsene in Palestina. Non avrebbe funzionatoallora.

NC: Hai ragione. Peraltro, questo ci svela un altroelemento importante della cultura occidentale. Quandocostoro andarono nei campi di concentramento rimaserosconcertati, ma il loro primo pensiero non fu di salvare isopravvissuti, bensì che qualcun altro doveva pagare ilprezzo della loro salvezza.

IP: Esatto.NC: Tutto questo deriva dalla mentalità profondamente

imperialista che affligge l’Occidente. All’epoca, purrendendosi conto che quelle persone si trovavano incondizioni disperate e che avrebbero potuto aiutarle, aglioccidentali non venne in mente nemmeno per un momentodi farlo: qualcun altro, che al contrario non era incondizioni di aiutarle, se ne sarebbe dovuto fare carico.

FB:Sitrattòsolodiunasceltaimperialista,oinparteciòfudovutoall’antisemitismooccidentale?NC: Sionisti o meno, avrebbero reagito nello stesso

modo.IP: Sono d’accordo.NC: Si pensi agli Stati Uniti, che sono l’esempio più

eclatante. Dopo la seconda guerra mondiale, si creò unasituazione unica; c’era qualche pressione da partesionista, ma non contava niente. Semplicemente, non livolevano, e nemmeno la comunità ebraica americana li

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voleva.FB:Tuttoquestoerafruttodiantisemitismo?NC: Sì, era dovuto in parte all’antisemitismo ma, in

generale, «perché dovremmo farci carico di questofardello?».

IP: Né loro né nessun altro: non ci dovevano essereebrei.

NC: Nel 1924 fu emanata negli Stati Uniti una legge perlimitare l’ingresso nel paese di ebrei e italiani. Non eraspiegato il motivo, si parlava soltanto di personedall’Europa orientale, sudorientale e meridionale.

IP: La patologia del sionismo è fondamentale percomprendere il quadro generale. Volendo osservare lasituazione da una prospettiva storica, non va dimenticatoche nessuno sapeva ciò che sarebbe successo. Quando siripercorre il dibattito sionista degli anni Trenta sulnazismo e il fascismo, bisogna ricordare che questepersone non sapevano nulla della “soluzione finale”. Nonerano terrorizzati, anzi ritenevano che si dovessedialogare con i nazisti, visto che gli interessiconvergevano: i nazisti volevano gli ebrei fuori dallaGermania, ma lo volevano anche i sionisti. Ecco perchéavviarono addirittura dei negoziati. Con questo non sivuol certo associare il sionismo al nazismo; ma c’eranoanche altri fronti in campo, e costoro avrebbero dovutochiedersi quali interessi stavano servendo, oltre ai propri.È fin troppo ovvio.

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NC: Sì, è impressionante. È vero: non bisognadimenticare che negli anni Trenta nessuno sapeva quelloche stava succedendo, e questo valeva anche per gli ebreitedeschi. In un libro del 1935 intitolato WirJuden,l’umanista sionista Joachim Prinz sosteneva che gli ebreiavrebbero dovuto solidarizzare con i nazisti perchécondividevano lo stesso tipo di ideologia: il Sangue, laTerra e così via. Insomma, qualcosa del tipo: «Siamod’accordo con loro, se soltanto riusciamo a fare lorocomprendere che siamo dalla stessa parte smetteranno diperseguitarci». Questo era il clima nel 1935. E in effettinel 1941, prima di Pearl Harbor, il console americano aBerlino inviava note positive sui nazisti. Il suo nome eraGeorge Kennan, ed è stato uno degli architetti dell’ordinemondiale nel dopoguerra.

IP: Sì, Kennan, lo stratega americano secondo il qualeper mantenere il loro stile di vita gli USA avrebberodovuto controllare il 50 percento delle risorse naturalimondiali.

FB:Laquestionedeiprofughiècrucialeperqualsiasipalestinese.FuoriedentrolaPalestina.Noncredetecheilprimopassodelgovernoisraelianodovrebbeesserediammetterediavercontribuitoacreareilproblemaepoi,comehafattoKevinRuddinAustralia,chiederepubblicamentescusa?Forseanchenoiattivistinondovremmodichiararepubblicamenteche,aprescinderedallapossibilitàconcretacheirifugiatieilorodiscendentiritorninonellelorocase,costorohannotalediritto?

NC: Sì, andrebbe fatto, ma penso che ci stiamoarrivando. Ci sono stati diversi negoziati non ufficiali, adesempio quello di Ginevra, in cui si è tentata una stradasimile, per riconoscere a queste persone il diritto diritornare pur considerandolo irrealizzabile. Per fare unesempio, durante una recente conferenza in Arizona, ho

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parlato di quello Stato chiamandolo “Messico occupato”,perché di questo si tratta: dovrebbe essere chiamato inquesto modo, perché gli Stati Uniti lo hanno conquistatocon una violenta guerra d’aggressione. Ecco perché inAmerica esistono città che si chiamano San Francisco,San Diego, Los Angeles, e via dicendo. Abbiamo ildovere di fare qualcosa, di confessare ciò che abbiamofatto. D’altra parte, siamo consapevoli che nonrestituiremo mai quegli Stati al Messico. Il passato ècostellato di profonde ingiustizie, e alcune possono essereraddrizzate; ma riavvolgere il nastro della storia non sipuò. Forse qualcosa si potrà fare in Israele nel lungoperiodo. In effetti, a mio avviso l’unica soluzionerealistica al problema del ritorno dei profughi è che nellaregione crolli l’intero sistema statuale. Attraversando laGalilea settentrionale, ad esempio, ci si rende conto che inquella terra non ci sono i presupposti per una frontiera.

Vi racconto un aneddoto. Nel 1953 mia moglie e iovivevamo in un kibbutz in Israele; eravamo studenti,facevamo escursioni e un giorno ce ne andammo con lozaino in spalla nella Galilea settentrionale. Eravamo instrada quando arrivò dietro di noi una jeep, un tizio uscì esi mise a gridare: «Dovete tornare indietro, avetesbagliato paese!». Eravamo entrati nel Libano. Oggiprobabilmente ci accoglierebbero con le mitragliatricispianate. Non ci dovrebbero essere frontiere inquell’area. Forse con il tempo questi confini decadranno;

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del resto, l’intero accordo imperialista Sykes-Picotcomincia a vacillare. E potrebbero esserci sviluppiulteriori, nel lungo periodo. A questo proposito, lasoluzione a due Stati non andrebbe letta come una metafinale. Come ho detto prima, non è che gli Stati godano diuna legittimità intrinseca; sono stati tutti imposti con laviolenza, e continuano a generare violenza in tutto ilmondo. È una struttura sociale inumana, e in quanto taledovrebbe crollare, sempre. In questa prospettiva, ilritorno dei profughi non è più così irrealistico. Nonsarebbe soltanto il riconoscimento di un torto storico, mauna vera interazione tra popoli, non basata sugli Stati, lereligioni o le etnie. Ci sono altre basi su cui si puòcostruire questa interazione.

IP: Sono d’accordo su molte cose, ma ci sono treaspetti ulteriori da considerare. Il primo è che bisognamettere la questione dei profughi al centro dei negoziati dipace. Il diritto di ritornare ha risvolti sia simbolici chepratici. A livello simbolico, la richiesta palestineseprevede il riconoscimento da parte israeliana di queldiritto in sé, attraverso la presa d’atto e le pubblichescuse. Tutto questo, soprattutto le pubbliche scuse, può poiportare a un confronto sugli aspetti pratici.

Il secondo aspetto da considerare è la posizioneisraeliana sulla natura dello Stato e sul progetto sionista.Il no israeliano al diritto di ritornare scaturisce daun’ideologia razzista; per questa ragione, per un attivista

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come me difendere questo diritto implica necessariamentemettere in discussione la validità del sionismo e la naturadello Stato ebraico oggi.

NC: Certo.IP: La ragione per cui gli israeliani non vogliono quel

ritorno non ha nulla a che vedere con i risvolti pratici.Riguarda invece il suprematismo e l’esclusivismoebraico.

NC: È vero.IP: Una volta che si comprende la prospettiva ebraica

israeliana, bisogna combattere contro tutto questo nontanto sul piano del riconoscimento e delle pubblichescuse, che pure secondo me sono importanti per ilprocesso di pace, ma su un piano molto più vasto.

Il terzo aspetto riguarda esclusivamente i palestinesi ela possibilità per loro di vivere una vita normale mentrealeggia questo mitico “diritto di ritornare”. In altritermini, come conciliare la convinzione che si tratta di undiritto sacro con la consapevolezza che non è esattamentedietro l’angolo? Questo ci costringe a porci delledomande. Davvero si possono condannare i palestinesidei campi profughi in Libano perché provano a rendere unpo’ più dignitose le loro abitazioni, o accusarli di volersinaturalizzare (tawtin)? Oppure che hanno tradito quel lorodiritto perché hanno cercato di migliorare un po’ il lorostile di vita? Tocca ai palestinesi elaborare una strategia,non a me, ma è indispensabile che lo facciano quanto

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prima, distinguendo ad esempio tra i profughi dellaCisgiordania, della Striscia di Gaza e gli altri profughiinterni in Israele, e i rifugiati che si trovano in Giordania,Siria e Libano.

È importante tenere a mente quei tre aspetti se si vuoleimmaginare un nuovo approccio a questa penosasituazione. Secondo me, il fulcro del problema è: checos’è uno Stato ebraico? Può davvero esistere in quantotale? Quale soluzione si può trovare che non sia fondatasulla costante violazione dei diritti umani e civili e checontempli il diritto di ritornare in patria, o anche solo divisitarla? Non sempre si riesce a distinguere ciò che ègiusto, ciò che è legittimo e i temi su cui ci si deveconfrontare con Israele, con la comunità palestinese e coni negoziatori e i mediatori. Non si tratta tanto diappoggiare o meno il diritto di ritornare, ma di favorireinnanzitutto un dibattito sul suo significato. È questo ciòche deve fare la società israeliana: avviare un serioconfronto interno sulla sua natura razzista.

NC: A confermare che questo problema scaturisce dalrazzismo c’è il fatto che da sempre Israele prova aimpedire, per legge o con la forza, la commemorazionedella Nakba e finanche il suo riconoscimento.

IP: Esatto.NC: Ma questo prescinde dalla questione dei rifugiati,

si tratta di razzismo puro e semplice; è solo un modo perlegittimare le oppressioni e le violenze. Sono stato nei

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campi profughi non molto tempo fa, mi si è stretto il cuorea vedere le condizioni tremende in cui vivono. Ho parlatocon una famiglia che viveva in un’unica stanzuccia. Comeal solito, come tutti i mediorientali, ti offrono il caffè e viadicendo, ma quando poi ti mostrano le chiavi dei lorovillaggi, le loro case, le foto della loro terra, o quandocominciano a raccontarti storie idilliache di come era lavita in Galilea... Tu hai ragione, Ilan, bisogna affrontare ilproblema con realismo, ma è difficile dire a questa gente:«Non rivedrete mai più il vostro villaggio».

IP: No, certo che non puoi dirglielo. Quel che vogliodire è che bisognerebbe convincerli a vivere un po’meglio, nell’attesa di tornare nei loro villaggi. Le chancedi ritornare a casa non diminuiscono perché fai del tuomeglio per vivere bene il presente.

NC: È vero.IP: Così come non mandi all’aria la possibilità di

vivere da cittadino palestinese di Israele solo perchégestisci un teatro a Haifa e scegli di ignorare chi tirimprovera di volerti assimilare. Quel teatro è statoaccusato di tabi’ (‘assimilazione’) perché ha accettato isoldi del Ministero israeliano della Cultura: avrebberopotuto aprirlo, dicono i detrattori, senza accettare ifinanziamenti governativi. Questioni come questa, vivereseguendo degli slogan [possedere una purezza morale opolitica], si ricollegano alla convinzione che, se si lottaper uno Stato con una diversa struttura morale, è

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importante costruire una nuova base etica su cui edificarequesto Stato del futuro in cui i rifugiati potranno poiritornare. Ma se ci si impegna per una differente strutturaetica dello Stato – che si tratti di un unico Stato, di unoStato federale, di uno Stato a doppia nazionalità – si deveosservare da una diversa prospettiva la questione delritorno in patria dei rifugiati e il loro desiderio dicambiare vita.

Ciò di cui stiamo parlando in questa sede è diverso, enon si rimprovera ai profughi di continuare dasessantacinque anni a sognare il ritorno in patria. È nelloro pieno diritto. La questione è come ci si devecomportare fino a quando questo diritto non diventeràrealtà? Per me è un punto non meno importante chedifendere quel diritto.

NC: Sul piano umano, qualcosa si può fare. Come ledonne israeliane che portano in spiaggia le donnepalestinesi. Non è una sciocchezza: immaginate come sidevono sentire queste persone, che vedono il mare ma nonlo possono toccare. È un bene che ci siano gesti di questotipo; è da qui che si dovrebbe cominciare.

FB:ProfessorChomsky,inunaprecedenteintervistaleimihadettochelepoliticheisraelianeporterannoIsraeleall’autodistruzione.Adesempio,haraggiuntolivelliassurdilasceltadiportareinIsraelequantipiùebreipossibile,indipendentementedallaloro“effettiva”ebraicità:ebreirussi,ebreietiopici...Questo,tral’altro,alimentainmododavveropreoccupanteeproblematicoilrazzismointestino,tragliebreicharedì,gliaschenaziti,imizrhaiecc.Cipuòdareunasuaopinione?NC: Quel che avviene tra gli ebrei è certamente uno

degli aspetti del problema. Ma a me preme sottolineare unaltro dato. Nel 1971 Israele fece una scelta che a mioavviso segnò per sempre il suo destino: l’Egitto proposeun pieno accordo di pace, ma il governo israeliano

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guidato allora da Golda Meir lo respinse perché volevacolonizzare il Sinai. Per gli israeliani si trattava discegliere tra la sicurezza e l’espansione. Un trattato dipace con l’Egitto, checché se ne possa pensare, avrebbegarantito la sicurezza, anzi una sicurezza durevole, vistoche quel paese era all’epoca l’unica potenza militarearaba di rilievo. Gli israeliani ne erano consapevoli mapreferirono espandersi nel Sinai. Fu una decisione fatale,e da allora è sempre stato così: da quel momento in poiIsraele ha sempre preferito l’espansione alla sicurezza.Dunque, gli israeliani hanno imboccato la stessa stradaintrapresa dal Sudafrica segregazionista, e la conseguenzaimmediata sarà la medesima: Israele sarà sempre piùisolato, uno Stato paria, sarà delegittimato, proprio comeil Sudafrica, e riuscirà a sopravvivere solo fino a quandogli USA continueranno ad aiutarlo. La storia del Sudafricaè esemplificativa: basta sostituire il nome del paese e siavrà l’identico copione. Intorno al 1960, il regimesegregazionista si rendeva già conto di essere isolato alivello internazionale. Grazie ad alcuni documentidesecretati, è emerso che il ministro degli Esterisudafricano chiamò l’ambasciatore USA per dirgli che ilsuo paese era consapevole che tutti votavano contro di lui,ma che gli importava ben poco finché ci fossero stati gliStati Uniti ad appoggiarlo. E infatti così fu: nel 1988, eanche dopo, gli USA continuarono ad aiutare il Sudafrica.Anche la Thatcher lo faceva, ma erano soprattutto Reagan

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e gli Stati Uniti a sostenere il paese. Non appena lepolitiche statunitensi cambiarono, l’apartheid crollò.Israele sta seguendo la stessa parabola: ormai riceve aiutopraticamente soltanto dagli USA, e va perdendo legittimità.Naturalmente questo è fonte di preoccupazione, ma per ilmomento continua così. Fa parte della logicaespansionista ignorare l’opinione pubblica mondiale eviolare il diritto internazionale: si può tirare avanti finchéc’è il bullo del quartiere a proteggerti. Ma ormai anchequella è una garanzia debole, perché pure negli USA ilsostegno a Israele va scemando, proprio come avvenneper il Sudafrica. Anche se negli Stati Uniti il movimentoantiapartheid non nacque prima degli anni Ottanta, ossiavent’anni dopo l’Inghilterra, esso divenne molto potente einfluì sul cambio di rotta del governo americano.

IP: È vero. L’unica grande differenza tra Sudafrica eIsraele è che, purtroppo, sarà molto più difficile porrefine all’apartheid in Israele rispetto al Sudafrica.

NC: Non l’apartheid. Penso che proprio lo Stato siadestinato a crollare.

IP: C’è bisogno di un cambio di regime.NC: Il punto qui non è l’apartheid; è una questione di

delegittimazione e di isolamento.IP: Mentre la comunità dei bianchi sudafricani era

omogenea dal punto di vista socioeconomico, tra isuprematisti israeliani si registra una polarizzazioneeconomica e sociale. Se a questo si aggiunge quel che

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dice Noam, ossia la delegittimazione di Israele a livellointernazionale, allora ci sono due forze molto potenti cheagiscono, una dall’interno e una dall’esterno, per minarela tenuta dello Stato. Infatti, è grave che all’interno dellarazza padrona sussista una simile polarizzazione.

Quindi agli israeliani tocca lavorare su due fronti: alivello internazionale, devono propagandare la legittimitàdel loro Stato a un mondo che la considera sempre menoaccettabile; in patria, devono spiegare agli ebrei poveried emarginati come mai l’appartenenza alla razza padronanon abbia migliorato la loro esistenza. Costoro sichiederanno com’è possibile che vivano ancora in quellemisere ayaratpitu’ah, le ‘città di sviluppo’, e perché laloro cultura non ha il posto che le spetta nella culturaegemonica di matrice europea. Gli strateghi israelianirisponderanno che stanno risolvendo questo problemacondividendo con il resto del mondo un nemico comune,una minaccia alla sicurezza, ossia muovendo guerraall’Islam. Nel corso dei decenni le spiegazioni e i pretestisono cambiati, ma la polarizzazione socioeconomica èrimasta la stessa. Certo per Israele non è facile, perchéc’è un limite alle scuse che si possono trovare pergiustificare l’emarginazione e la polarizzazionesocioeconomica. Dal 2008 la situazione è diventataancora più grave perché la classe media è andata via viaimpoverendosi e sono aumentati gli israeliani che nonhanno più accesso a una fetta della ricchezza nazionale,

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pur appartenendo al gruppo etnico “giusto”.Finora Israele era riuscito a convincere la popolazione

che l’appartenenza etnica la favorisse ancheeconomicamente, perché dagli Stati Uniti arrivavano aiutifinanziari generosissimi; ma oggi non è dato sapere quantodureranno ancora queste concessioni. Gli americanicominciano a non vedere di buon occhio che i loro soldifiniscano all’estero e questo non scaturiscenecessariamente da posizioni antimperialiste: chiedereuna riduzione degli aiuti a Israele non significa esserefilopalestinesi. Semmai gli americani potrebberodomandarsi se lo Stato ebraico costituisca un assetstrategico o piuttosto una voce in passivo.

Nel lungo periodo certamente queste dinamicheindeboliranno lo Stato sionista, ma i miei timori siconcentrano soprattutto sul prossimo futuro. Come mi haspiegato un autorevole leader e attivista dell’ANC, negliultimi anni il regime sudafricano dell’apartheid divenneparticolarmente feroce e violento. Analogamente,l’eventualità di un crollo del sionismo potrebbe portare auna fase assai pericolosa della storia della Palestina; perquesto dobbiamo stare in guardia su ciò che accadrà neiprossimi anni, più che nel lungo periodo. Riguardo allontano futuro, ci si può concedere di essere più ottimistiche la realtà cambi e ci sia maggiore giustizia.

NC: Secondo me non è il caso di forzare troppo ilraffronto con il Sudafrica, perché sussistono differenze

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non trascurabili. In primo luogo, furono i cubani a fareffettivamente crollare il regime sudafricano; un fatto cheper ovvie ragioni è messo sotto silenzio negli USA. Fugrazie all’intervento cubano che delle milizie di coloreriuscirono a cacciare dall’Angola e dalla Namibial’aggressore sudafricano, sfatando così il mito delsuperuomo bianco. All’epoca questo ebbe un pesoenorme. Ma ci vorrà molto tempo prima che maturi negliStati Uniti la stessa presa di coscienza. L’altra differenzal’hai evidenziata tu stesso: l’omogeneità della comunitàbianca, che si intreccia con la questione classista. InSudafrica fu possibile giungere a un compromesso che inIsraele sarebbe impensabile, ossia conservare lo stessosistema socioeconomico lasciando però che qualchepersona di colore girasse in limousine. In Israele non sipuò fare.

IP: Il confronto tra Sudafrica e Palestina ha i suoi puntideboli, ma ha anche dei punti di forza. All’interno diIsraele esiste una borghesia palestinese, mentre inSudafrica non c’erano certo primari di colore o altro. Siprenda ad esempio la Galilea: lì la mescolanza tra le duecomunità è sempre più tangibile, e chissà a che cosa puòportare in futuro. La natura dello Stato è ancora etnica esegregazionista, ma non per questo la transizione versouno Stato che accetti questa realtà di fatto sul territoriodeve necessariamente essere drammatica e drastica comein Sudafrica. Forse in altre zone del paese, soprattutto

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nella Cisgiordania e nell’area della Grande Gerusalemme,smantellare la realtà presente per sostituirla con unasocietà più giusta potrebbe implicare un processo piùsimile alla transizione avvenuta in Sudafrica. Dunque nonv’è nulla di male nell’analizzare il caso del Sudafrica;serve anzi a non ripetere gli errori commessi lì e acogliere meglio le differenze, in modo da elaborare unasoluzione adeguata al caso specifico di Israele ePalestina.

NC: Il Sudafrica è una realtà differente innanzituttoperché i bianchi avevano bisogno dei neri, checostituivano la loro manodopera. Israele invece non vuolei palestinesi. I sudafricani volevano i bantustan; volevanoche proliferassero perché avevano bisogno di nuovamanodopera e di un riconoscimento internazionale. Ledinamiche non sono le stesse, anche se ci possono esseredelle somiglianze specifiche. Una è quella a cui hoaccennato prima: come il Sudafrica, anche Israele hacapito che prima o poi diventerà uno Stato paria, ma nonse ne cura finché ci sono gli USA ad appoggiarlo. Eccoperché sono sempre stato convinto che quanti siproclamano amici di Israele non fanno che provocare lasua degenerazione morale e probabilmente, alla fine, lasua distruzione.

IP: Verissimo.1 Conversazione tra Noam Chomsky, Ilan Pappé e Frank Barat, registrata il

14 gennaio 2014, poi riveduta e ridotta.

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3. Il presente2FB:Qualedev’essereilruolodegliattivistichedifendonoilpopolopalestinese?

Devonoesserepragmaticiodevonoalcontrarioindicareilcamminoadottandoposizioniancorpiùeticheeradicali?Cisideveconcentraresull’occupazioneisraeliana,opropriosullanaturadelloStatodiIsraele?

NC: Per essere davvero d’aiuto ai palestinesi, gliattivisti devono saper essere anche pragmatici, purconservando ovviamente una posizione etica. Devonochiedersi che cosa può giovare e che cosa invece puòdanneggiare i palestinesi. Si prenda ad esempio ilmovimento di protesta contro la guerra in Vietnam: alcunigiovani erano giustamente indignati da quella guerra epensavano che la cosa giusta da fare fosse compiereazioni vandaliche contro le proprietà e le multinazionalistatunitensi, sabotare gli armamenti e via dicendo. Quelleazioni rispondevano a un’esigenza etica, ma si rivelarononocive. Tant’è vero che gli stessi vietnamiti eranofermamente contrari: a costoro non interessava se in quelmodo gli americani si mettevano a posto la coscienza, maquali ripercussioni ci sarebbero state per loro sulterritorio. Le conseguenze furono certamente negative,perché quelle azioni innescarono reazioni durissime efecero aumentare il consenso alla guerra. Questo tipo divalutazioni sono indispensabili quando si sceglie di agirenell’interesse di qualcuno; bisogna sempre chiedersi checosa farà bene alle persone che vogliamo aiutare, non checosa fa sentire meglio noi. Chiamatelo pure pragmatismo,se volete, ma per me questo è un atteggiamento etico:

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preoccuparsi dell’impatto delle nostre azioni sullepersone a cui si vuole mostrare solidarietà.

Il movimento di solidarietà al Sudafrica, ad esempio,riuscì nel suo intento: in quel caso gli attivisti optarono inlinea di massima per delle azioni che colpivano il regimesegregazionista ma allo stesso tempo facevano guadagnareconsenso al fronte antiapartheid nei loro paesi di origine.È questo che si può e si deve fare. Ritornando al caso diIsraele, un paio di giorni fa è stato pubblicato un serviziosul calo degli introiti di alcuni insediamenti della valledel Giordano a seguito del boicottaggio europeo. Questotipo di azioni raggiunge un duplice obiettivo: colpisce ilregime di occupazione e arriva subito all’opinionepubblica. Esse hanno dunque una valenza educativa,perché fanno capire alla gente che le politiche israelianesono criminali e che si stanno escogitando nuove tatticheper ostacolarle. È questo il modo giusto di procedere;altre azioni, invece, possono risultare dannose.Innanzitutto perché non incidono sulle politiche delgoverno, e anzi creano una reazione ancora più dura cheinasprisce quei crimini. Quando ad esempio Sharoninvase la Cisgiordania, oltre dieci anni fa, e a Jenin furonocompiute le atrocità di massa che ben conosciamo, qui inuniversità si scatenò un’ondata di proteste, e fu redatta unadichiarazione congiunta del MIT e di Harvard in cui sicondannavano quegli atti. Io la firmai, più che altro persolidarietà verso le persone che l’avevano promossa,

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anche se non ero d’accordo con la sua impostazione:conteneva delle proposte che sicuramente non sarebberostate capite dalla gente comune e in più avrebberoinnescato una reazione negativa. I suoi promotori volleroa tutti costi inserire una clausola sul fatto che l’universitàavrebbe dovuto disinvestire da Israele. Non se nespiegavano le ragioni, e nessuno capì quella proposta.Perché allora non disinvestire da Harvard? Il risultato fuquello che temevo: ci fu un’attività spropositata perboicottare la petizione. Nei due mesi successivi il temadel giorno non fu Jenin, che venne completamentedimenticata, ma il possibile antisemitismo di Harvard. Alnetto di tutto, l’impatto sui palestinesi fu negativo,com’era prevedibile. Prima di agire, bisogna semprechiedersi quali ripercussioni ci saranno per le vittime; èquella la priorità. Le scelte tattiche sono elementi da nonsottovalutare, perché da esse dipendono vite umane.

Si deve calcolare l’impatto sulle vittime e tutti i fattoriche ci sono in gioco. Innanzitutto, ci si deve domandarequanto quelle scelte colpiranno effettivamente le politichedello Stato; poi, quanto incideranno sull’opinionepubblica che si vuole mobilitare, coinvolgendola nelladisobbedienza civile o in altre iniziative. Ci sono alcunepersone, che pure rispetto, perlopiù cristiani convinti, checi mettono tutto il loro impegno e pensano che fareirruzione nelle istallazioni militari e sabotare i missilipossa davvero servire a qualcosa. Posso capire perché la

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pensano così, ma le loro azioni hanno inevitabilmente unesito disastroso. In primo luogo perché le persone chelavorano negli impianti non ne capiscono il motivo; sannosolo che così loro perderanno il lavoro. Non c’èun’attività preparatoria per spiegare perché si voglionosabotare quei missili; non c’è un’attività d’informazionenella comunità per far capire perché è importante agire inquel modo. Il risultato finale è solo un enorme spreco ditempo e di denaro nei tribunali, le testimonianze e tutto ilresto; poi un paio di persone finiscono in prigione e non siè ottenuto nulla. Bisogna valutare queste cose prima diagire.

IP: Secondo me ci sono tre fattori da tenere inconsiderazione: la frammentazione dell’entità palestinese;le colpe dell’ideologia sionista nella situazione in Israelee Palestina; il giusto equilibrio tra posizioni etiche eazioni concrete.

La frammentazione palestinese è stata forse la piùgrande vittoria del progetto sionista, e i palestinesi daquesto punto di vista hanno subito un danno maggiorerispetto ai vietnamiti o ai sudafricani (anche se non intermini di vite umane, quantomeno nel caso deivietnamiti). Sin dal 1948 quella dei palestinesi è stata unastoria di frammentazione, dalla quale consegue unadiversificazione delle politiche israeliane a seconda deidifferenti gruppi palestinesi. Non sempre è facile per unattivista capire quale sia la giusta linea di condotta

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quando c’è una realtà così frammentata, priva di unaleadership chiara, senza un indirizzo al quale rivolgersiper avere un’indicazione precisa in merito alle prioritànazionali del popolo che si vuole sostenere. In altreparole, è difficile adottare una linea etica che faccia gliinteressi di tutti i gruppi palestinesi. È naturale, adesempio, che rispetto alle politiche israeliane le personesotto occupazione in Cisgiordania abbiano prioritàdiverse rispetto ai rifugiati nel Libano, e può quindicapitare che al movimento di solidarietà si chiedano duecose differenti, a volte contraddittorie.

Il secondo aspetto si ricollega al ruolo e alleresponsabilità del sionismo. Mi pare che gli attivistiabbiano cercato di individuare un disegno generale chedesse ragione delle sofferenze delle diverse comunitàpalestinesi. Ciò premesso, può darsi il caso che alcunemisure siano più appropriate per un determinato gruppo emeno per un altro. A mio avviso negli ultimi annil’attivismo si è mosso bene in questo senso, perché hacercato di rapportarsi al sionismo non come aun’ideologia o a un enigma intellettualistico da decifrare,ma come alla fonte di tutti i mali di Israele e Palestina. Ipalestinesi sono soggetti a differenti modalità di abusi, madietro vi si cela un’unica radice ideologica.

Avere sempre ben in mente questo disegno generale èfondamentale, a mio avviso. Come ho già evidenziato, èanomalo il modo in cui il sionismo è stato messo al riparo

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da qualsiasi critica e denuncia. Agli attivisti occidentali èstato concesso di manifestare contro il regime sudafricanodell’apartheid, senza limitare il raggio d’azione dellaprotesta a qualche politica specifica del governo. Anchenel caso israeliano, gli attivisti vogliono mettere indiscussione l’ideologia che sta dietro alle singole sceltepolitiche.

Infine, la questione del giusto equilibrio tra posizionietiche e azioni concrete. A conti fatti, sono le azioniconcrete degli attivisti quelle che aiutano maggiormente lapopolazione sul territorio. Tuttavia, non sempre è facilericorrere a questa strategia, come ben sanno quelli delmovimento BDS. La loro attività può rivelarsi moltoefficace quando si concentra sui crimini compiuti inCisgiordania o nella Striscia di Gaza; ma l’obiettivo delmovimento è anche quello di coinvolgere le personeragionevoli di tutto il mondo, che non vogliono sosteneresoltanto un gruppo specifico ma combattere l’oppressionee la violazione dei diritti umani e civili ovunque essi siverifichino, e individuarne la radice.

Naturalmente si deve sempre tenere acceso il dibattitoinnescato dal BDS sull’essenza intrinseca di Israele e sullesue politiche, e ricorrere a quelle tattiche quando siaopportuno. Porterò due esempi del ruolo diverso che puòavere il BDS. Il piano Prawer – ossia il tentativo di Israeledi deportare i beduini dal Naqab – non è stato fermatodalle pressioni del BDS, bensì dal messaggio forte e chiaro

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lanciato dalle comunità beduine al governo israelianosulle conseguenze nefaste di espellere con la forza unacomunità che conta nelle sue file membri dell’esercito edella polizia, e che può addirittura avere accessoall’arsenale delle organizzazioni criminali. In parolepovere, nei dintorni c’erano armi in abbondanza.

Il secondo esempio riguarda il piano israeliano perespellere i palestinesi dall’antica città di Acri: l’unicomezzo efficace per fermarlo sarebbe una massicciacampagna internazionale trainata dal boicottaggioculturale. In questo caso sarebbero utili le azioni concretedel BDS, il cui scopo sarebbe anche di evidenziare laconnessione tra l’ideologia razzista del sionismo e lepolitiche specifiche attuate sul territorio.

È fondamentale capire di volta in volta qual è la stradagiusta da percorrere; del resto, il governo israeliano negliultimi tempi sta offrendo diverse occasioni per metterealla prova questa capacità di giudizio. Non bisognarimanere ancorati ai puri e semplici slogan, ma averecognizione di causa e discernere con spirito pratico conquale tipo di abusi si ha a che fare. Il dibattito accademicosul contesto generale può venire in un secondo momento,mentre gli attivisti devono essere un punto di riferimentoimmediato per le persone che vivono quegli orrori, pur inassenza di una leadership nazionale e con una realtà cosìframmentata.

NC: Sono d’accordo, e in questo senso il movimento

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antiapartheid per il Sudafrica è un ottimo modello diriferimento, perché manteneva un approccio moltoconcreto. Ad esempio, si protestava contro lapartecipazione delle squadre sudafricane allecompetizioni internazionali, oppure contro i metodirazzisti di reclutamento nelle università. Questo tipo diiniziative sono utili, perché indirizzate contro politicheben precise e perché il loro background è pienamentecomprensibile, anche dall’opinione pubblicainternazionale. Tuttavia, c’è un altro aspetto delmovimento di solidarietà sudafricano sul quale vale lapena riflettere. Negli anni Novanta il regimesegregazionista aveva ormai perduto il sostegno dellacomunità internazionale, a eccezione degli Stati Uniti e delRegno Unito, che appoggiarono convintamente l’apartheidfino all’ultimo, soprattutto Reagan. Questo al regimebastava; finché ci fossero stati gli americani, aisudafricani sarebbe importato ben poco degli altri,esattamente come in Israele oggi.

Ciò implica che sarebbe stato di cruciale importanzaindirizzare parte delle attività di protesta contro gli USA, econtro la Gran Bretagna. Lo era allora in Sudafrica e lo èanche adesso in Israele. Dunque, la fragilità concettualedel movimento BDS sta proprio in questo, ossia di averecome proprio bersaglio Israele ma non gli Stati Uniti. Einvece le politiche statunitensi hanno un peso enorme.Israele sa, come lo sapeva all’epoca il Sudafrica, che può

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anche essere isolato e osteggiato dal mondo intero, ma ciònon fa alcuna differenza finché ci saranno gli USA asostenerlo. È così per Israele come lo era all’epoca per ilSudafrica. Il movimento di protesta dovrebbe dare lapriorità a questo aspetto, e fare pressioni innanzitutto sullepolitiche statunitensi.

IP: Però, capita spesso che non sia facile distinguere trapolitica statunitense e politica israeliana.

NC: Fa parte del problema. Gli Stati Uniti appoggianoIsraele non per spirito umanitario, ma perché fa gioco alleloro politiche. Quindi sì, spesso le politiche dei due paesicoincidono. Lo si intuisce anche dagli intrecci culturali: ilsionismo cristiano, ad esempio, è diffusissimo nel partitoRepubblicano, che è convintamente filoisraeliano puressendo in generale antisemita. Sono tutte problematichesu cui è fondamentale intervenire.

IP: A mio avviso questo discorso vale anche per ilmondo industriale e quello accademico israeliano, chenon sono indipendenti, ma gravitano nell’orbitaamericana.

NC: Hai ragione. Non a caso la Rafael, la piùimportante industria militare israeliana, ha trasferito gliuffici direttivi a Washington, perché è lì che girano i soldi.

IP: Per questa ragione, condannando i gruppi di potereisraeliani per la connivenza o il coinvolgimento direttonegli abusi contro i palestinesi, non di rado si colpisconodi riflesso anche gli americani.

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NC: Ma va detto esplicitamente che dietro ci sono gliamericani, altrimenti non è così facilmente intuibile.

IP: È vero, va detto. È un’ottima osservazione.FB:Lepressioniesercitatedallasocietàcivilemedianteilboicottaggioealtretattichepossonodavveroinfluenzarelesceltepolitichestatunitensi?NC: La politica estera USA dovrà necessariamente

cambiare rotta, una volta messa sotto pressione; come delresto è sempre avvenuto. Ad esempio, fu la protestapopolare a indurre infine il Congresso, e finanche ilmondo economico, a isolare il Sudafrica. Il governoamericano tentò di fermare quel processo; Reaganrespinse le sanzioni del Congresso, ma la pressionepopolare fu tale che il Campidoglio poté aggirare il vetopresidenziale. Per imporre il suo volere, Reagan a quelpunto fu costretto a violare le leggi congressuali. In quelcaso, quindi, la pressione della società civile ebbe unpeso notevole. Lo stesso può accadere in ogni campo:diritti civili, diritti delle donne ecc. E anche nellaquestione israelo-palestinese andrebbe seguita questalinea. Mi chiedo se il BDS abbia la forza per farlo. Sì, puòaverla, anche se nei fatti non ci è riuscito fino in fondo,anzi ha rischiato di fare molti danni per il modo in cui èstato gestito. Però può farcela, sempre che a monte vi siaun’opera di informazione dell’opinione pubblica perspiegare queste azioni e far capire qual è la situazione,concentrandosi soprattutto sugli Stati Uniti. Nel caso dellavalle del Giordano, ad esempio, non mi risulta che sisiano organizzate attività di boicottaggio negli USA; e

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invece andrebbe fatto. Boicottare i prodotti che arrivanoda quella terra non serve soltanto a ostacolare il pianoinsediativo israeliano, ma anche, e soprattutto, a faresapere al mondo che USA e Israele hanno un progetto dispopolamento della valle, anzi di vera pulizia etnica,ossia cacciare i 60.000 palestinesi rimasti (dai 200.000 eoltre che erano nel 1967). La politica di spopolamentoserve ad agevolare l’insediamento di nuove colonieebraiche, e prepara il terreno per un’annessione mirante aisolare qualsiasi entità palestinese si possa formare infuturo; tutto questo su un’area pari al 30 per cento dellaCisgiordania. Gli Stati Uniti appoggiano queste azioni e lalinea politica che ne è alla base. Un’iniziativa semplicecome il boicottaggio delle merci può essere un ottimoespediente per far conoscere a tutti ciò che avviene sulterritorio, ed è facilmente comprensibile dall’opinionepubblica; una tattica che peraltro si è già rivelata vincente.Una delle migliori strategie è stata portata avanti neicollege, e la si deve in larga misura ai giovani attivistipalestinesi. Il clima nelle università è completamentecambiato, mentre fino a pochi anni fa se mi fossi messo aparlare, anche qui al MIT, della questione israelo-palestinese avrei avuto bisogno della scorta. Oggi è tuttodiverso: se domani tenessimo una conferenza sul tema,avremmo un uditorio sconfinato, composto da giovaniattivisti, e non ci sarebbero domande provocatorie. È uncambiamento enorme, e si può fare ancora di più.

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Già in passato l’attivismo studentesco ha dato vita amovimenti popolari a più ampio raggio; è stato così per ilmovimento per i diritti civili e per quello pacifista. Tuttoquesto può avere un’influenza enorme, e infatti preoccupale organizzazioni sioniste, che ne parlano, ne scrivono; sirendono conto che stanno perdendo terreno tra i giovani, eche questo può incidere pesantemente sul resto dellapopolazione, proprio come è avvenuto in tanti altri casi.Ovviamente il fenomeno viene sminuito negli ambienti checontano; ma leggendo con attenzione se ne rintracciano gliesiti vittoriosi anche nei documenti ufficiali. Per ritornareal Vietnam, ad esempio, alla fine dei Pentagon Papers silegge una cosa molto interessante, di cui non si è maiparlato perché ritenuta troppo scabrosa. I documenti delPentagono arrivano fino a metà del 1968, subito dopol’offensiva del Têt, una grande sollevazione nel Vietnamdel Sud protrattasi per un paio di mesi. A seguitodell’offensiva, il presidente Lyndon Johnson avrebbevoluto inviare altri soldati nel paese, ma tutti i capi diStato maggiore delle forze armate si dissero contrariperché quelle truppe dovevano servire per tenere sottocontrollo i disordini civili in patria. «Ci saranno –dicevano i militari – altre rivolte tra i giovani, le donne,gli studenti, le minoranze, e bisogna sedarle, nonpossiamo inviare altre truppe», e non le inviarono. Ciòrivela quanto fosse diffuso in quel periodo l’attivismopopolare. Se si riuscisse a fare la stessa cosa con la

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Palestina, si potrebbero davvero modificare le politicheUSA, che non sono scolpite nella pietra. Ci sono moltifattori che possono ostacolare questo processo, ma a benguardare non sono poi così solidi; se ad esempio lepotentissime lobby americane, soprattutto quelleeconomiche, dovessero rendersi conto che le politicheUSA a sostegno di Israele vanno contro i loro interessi, nonci metterebbero molto a cambiarle. È un obiettivorealistico.

IP: Stiamo parlando di due piani diversi. A un primolivello c’è l’attivismo organizzato, come i movimentilegati al BDS e l’Israeli Apartheid Week dei campusuniversitari, partite per la prima volta in Canada nel 2005.Si tratta di iniziative nate grazie ai giovani, perché daparte dell’OLP non c’è stata una guida chiara, unaleadership che indicasse alla società civile ilmodusoperandi più appropriato. Sono stati l’esperienzadel Sudafrica e i movimenti pacifisti a ispirare gliattivisti, i quali oggi sono riusciti a trasformare il lessicodelle università, come fa notare giustamente Noam. È untraguardo importante, perché argomenti che fino a ierierano un tabù oggi sono pienamente accettati: rispetto avent’anni fa, oggi essere filoisraeliani è diventato motivodi imbarazzo! Una conquista enorme che, per quanto nonpossa certo determinare nell’immediato un’inversione dirotta delle politiche americane, fa parte di un processo piùampio.

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A un secondo livello, l’attivismo implica la presa dicoscienza degli elementi di complessità insiti nella suaattività. Finora non è stata fatta una valutazioneapprofondita di quanto effettivamente l’attivismo abbiainciso sulla fine delle ingiustizie in alcuni episodi dellastoria recente. Si prenda il caso del Sudafrica: è difficilequantificare l’incidenza dell’attivismo o del movimento diliberazione interno, alla luce del ruolo che il crollodell’Unione Sovietica ebbe sulla fine del regimesegregazionista. D’altra parte, non è possibile ipotizzarequale evento storico analogo possa verificarsi nel caso diIsraele – il declino dell’Arabia Saudita, ad esempio, oqualcos’altro – ma certamente deve possedere una forzacatalizzatrice altrettanto dirompente. In ogni caso, nonpossiamo farci paralizzare dall’incertezza sul futuro. Ladomanda che invece dovremmo porci è se, nell’attesa diuna trasformazione radicale della linea politicaamericana, possiamo vincere qualche battaglia sul campo.Ci sono degli argomenti ai quali possono ricorrere gliattivisti per convincere i decisori americani a condannareo addirittura a fermare alcune azioni specifiche, adesempio la pulizia etnica nel Naqab, ad Acri o nell’areadella Grande Gerusalemme?

Probabilmente gli obiettivi immediati devono essere“modesti” rispetto al progetto complessivo, per quantonon v’è nulla di modesto nel voler fermare la strategia diimpoverimento in atto nella Striscia di Gaza. Sono un

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ottimista, e credo davvero che arriverà un eventocatalizzatore a ribaltare la situazione. Nel frattempo, miritrovo completamente nelle parole di Noam a propositodelle sofferenze del popolo in quella terra; come me,anche tu Frank, che sei stato nella valle del Giordano (ioci sono andato una settimana fa), sai bene che non è facilerisollevare lo spirito di quei disperati semplicementedicendo loro che l’opinione pubblica americana emondiale ha cambiato idea. Non allevia le lorosofferenze, e mentre tu parli a loro con entusiasmo dellacampagna BDS, loro giustamente ti lanciano sguardiannoiati, perché non hanno accesso all’acqua e alla terra erischiano di essere espulsi da un momento all’altro.

NC: Vero.IP: Le aspettative della gente sul territorio sono molto

più concrete e immediate. Il movimento di solidarietàinternazionale, ad esempio, riuscirà a convincere ilconsole americano a Gerusalemme Est ad andare a vederecon i suoi occhi i soprusi che la popolazione deve subireper colpa dell’occupazione israeliana? Bisogna trovare ilgiusto equilibrio tra il lavoro sull’opinione pubblicainternazionale – mediante il BDS e l’Apartheid Week – equalche tattica vecchio stile per ottenere risultati tangibilisul campo.

NC: Sì.IP: Parlando con la gente della Striscia di Gaza si

coglie particolarmente quest’urgenza di ottenere risultati

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tangibili.NC: Però questi obiettivi si possono raggiungere da

qui, dagli Stati Uniti: ad esempio, gli attivisti potrebberomobilitare la popolazione affinché chieda al consoleamericano di recarsi in Cisgiordania. È già successo inSudafrica. Non voglio spingermi oltre nel paragone con ilSudafrica, ma sulla fine dell’apartheid, come ho già detto,pesò un fattore che è stato censurato negli Stati Uniti e nelRegno Unito per ragioni di fanatismo ideologico:l’intervento di Cuba. La letteratura accademica su questotema è vastissima. I cubani inviarono forze militari,perlopiù soldati di colore, a cacciare i sudafricanidall’Angola e dalla Namibia, sfatando il mito delsuperuomo bianco, e questo ebbe un impatto fortissimo sututto il Sudafrica, dei bianchi e dei neri. Del resto isudafricani ne erano perfettamente consapevoli: subitodopo la sua liberazione, la prima cosa che fece Mandelafu di ringraziare i cubani, perché con il loro esempio e illoro aiuto avevano contribuito enormemente alla finedell’apartheid. Sebbene negli Stati Uniti e in Inghilterraqueste vicende vengano taciute a causa di un fanatismoquasi religioso che impedisce di raccontare la verità, ilruolo di Cuba costituì un fattore decisivo nell’evoluzionesudafricana, che manca nel caso di Israele. Occorre quinditrovare altre strategie, ma intanto vanno innanzituttospezzate, qui in Occidente, le catene ideologiche cheimpediscono di riconoscere la realtà dei fatti. È

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fondamentale.IP: Quelle strategie sono state avviate, anche se poi non

sono maturate come in Sudafrica. Quando è cominciata lacosiddetta Primavera araba, ad esempio, ricordo losconcerto con cui hanno reagito gli israeliani nel vederedei giovani egiziani, laici, scendere in piazza e mostrareattaccamento ai medesimi valori in cui, almeno in teoria,credono loro – il liberalismo, la democrazia ecc. –, maallo stesso tempo manifestare una posizioneinequivocabilmente filopalestinese. Che tanti giovaniarabi difendessero la Palestina e contemporaneamente lademocrazia ha terrorizzato gli israeliani, per i quali è piùcomodo pensare che il sentimento filopalestinese siaassociato a tendenze antidemocratiche.

NC: Gli israeliani sono ancora legati al mito di Israelecome di un “giardino nel deserto”, salvo poi scoprire cheè il deserto a incombere sul giardino!

IP: Da storico, non mi lascio certo impressionare da ciòche accade nel volgere di pochi anni, e ritengo chedovremmo usare cautela nel prevedere gli sviluppi dellaPrimavera araba; sono però convinto che essa contenga unelemento di imprevedibilità che prima non c’era. I fattoriincogniti non ci consentono di prevedere con troppaprecisione le tendenze future. Siamo abituati ad avere ache fare con i regimi arabi e con l’ostilità del mondoislamico verso le politiche occidentali, ma gli equilibripotrebbero mutare con l’ascesa di una forza nuova.

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NC: Al momento ci troviamo in un limbo, ma nelleprime fasi della Primavera araba un’imponente ondata disolidarietà si è levata tra gli attivisti americani, europeied egiziani. La Primavera araba è partita più o meno nellostesso periodo della rivolta nel Wisconsin: diversimessaggi di solidarietà sono arrivati dai leader sindacaliegiziani agli attivisti del Wisconsin, e viceversa, dalpopolo dei manifestanti americani all’Egitto.

Peraltro, il ruolo del sindacato è uno degli aspetti dellaPrimavera araba di cui non si può dibattere negli USA perragioni ideologiche. La militanza sindacale è statafondamentale; una delle sue maggiori conquiste è stata diridare respiro a quell’organizzazione del lavoro che erastata eliminata dal vecchio regime. Eppure qui in Americaè uno degli argomenti su cui è meglio tacere.

FB:L’AmericanStudiesAssociation(ASA)haapprovatounarisoluzionediappoggioalboicottaggioaccademicodiIsraele.Pensatechesiaunsegnaleimportante?NC: È a questo che mi riferivo quando ho accennato al

fallimento dell’iniziativa per Jenin. La risoluzionedell’American Studies Association non è stata precedutada un lavoro preparatorio, quindi era scontato chescatenasse una reazione che l’avrebbe vanificata. Nonessendo stata progettata a dovere, il risultato è stato chel’attenzione si è spostata dai crimini di Israele, e dallacomplicità statunitense, alla questione della libertàaccademica, esattamente com’era avvenuto nel 2002:anche in quel caso il tema centrale non fu più Jenin, icrimini commessi in quell’area e il ruolo degli USA, bensì

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il presunto antisemitismo di Harvard. L’iniziativadell’ASA, come prevedibile, ha avuto come unico risultatodi innescare una discussione infinita sulla libertàaccademica, e questo certamente non giova ai palestinesi.Bisogna sempre riflettere su quale effetto potrà avereun’iniziativa quando non si siano create le premesseperché le persone a cui ci si rivolge capiscano appieno ilsenso e l’importanza di ciò che si vuole fare. Se non ci sipone prima queste domande quell’iniziativa porterà solodanni. È ovvio che chi sente parlare di quella risoluzionesi faccia delle domande. La risoluzione iniziava così:«Siccome gli Stati Uniti appoggiano i crimini israeliani,allora boicottiamo l’Università di Tel Aviv». Ma non èquesta la conseguenza logica; semmai si sarebbe dovutodire: «Visto che gli USA appoggiano i crimini israeliani,boicottiamo Harvard». Neanche questa sarebbe stata unabuona proposta, ma almeno avrebbe avuto una sua logica.Un centinaio di rettori universitari si sono affrettati acondannare l’iniziativa, e si è scatenato un dibattito sullalibertà accademica. Quali vantaggi possono mai derivarneper i palestinesi? Al contrario, tutto questo non fa chedistrarre l’attenzione dal problema, e non colpisce Israelein alcun modo. Io mi concentrerei piuttosto sulboicottaggio delle merci provenienti dalla valle delGiordano. Quella sì che sarebbe un’azione efficace,perché inciderebbe concretamente sull’economia e perchéla gente ne coglierebbe il senso. In più aprirebbe un varco

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per far venire allo scoperto i temi più caldi, a cominciareproprio dalle politiche di Israele in tutta la valle delGiordano. Ci si chiederebbe allora com’è possibile cheIsraele la faccia franca, e si capirebbe che ciò avvienegrazie al sostegno degli Stati Uniti. È questa la strategiagiusta da seguire, perché colpisce le politiche del governoisraeliano e allo stesso tempo contribuisce alla presa dicoscienza e alla mobilitazione della popolazionestatunitense; da questo può derivare una svolta politicareale. La risoluzione dell’ASA sortisce invece l’effettocontrario.

IP: Su questo punto non sono del tutto d’accordo conNoam. Sto trascorrendo un anno sabbatico in Israele, e hoavuto modo di osservare dal vivo le reazioni alladichiarazione dell’ASA e ad altre iniziative simili. A mepare che esse stiano raccogliendo buoni frutti in Israele,se non altro perché costringono le élite accademiche eintellettuali ad abbandonare la loro posizione di comodo.Gli intellettuali israeliani sono preoccupati perché sirendono conto che quel tipo di iniziative può avere uneffetto domino su di loro, e altre associazioniaccademiche americane potrebbero trovare nuovi modiper esprimere il proprio malcontento verso gli accademiciisraeliani e la loro posizione nei confronti delle politichegovernative.

Non v’è il rischio che si scateni una reazione da parteisraeliana semplicemente perché le élite politiche e

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culturali sono ormai irrigidite su posizioni talmentefanatiche che difficilmente possono diventare piùintransigenti. Quanto agli elementi sionisti liberalipresenti in queste cerchie, a mio avviso il loro eventualeimbarazzo è un fatto solo positivo, perché li costringe adassumere una posizione meno ambigua in meritoall’oppressione e all’occupazione militare, e a fare i conticon il fatto che la loro rappresentazione di Israele come diuna società democratica viene oggi messa in discussioneda persone che essi rispettano e da una società di cuivogliono far parte. Queste iniziative non possono chespronarli a reagire.

Inoltre, la reazione dei rettori è un problema legatoperlopiù al grado di democraticità del sistemaaccademico. Per la stessa ragione si potrebbe obiettareche un’iniziativa della società civile contro Israele nonsarebbe approvata dal Congresso USA, che anzi potrebbecontrapporvi una sua posizione di principio. Lo so chequel mondo non costituisce una struttura democratica, néci si aspetta che lo sia, e che è solo la risultante di unsistema culturale; ciononostante, è un mondo fatto anche dipersone, che annovera tra i suoi membri non soltantocoloro che ne sono ai vertici ma anche quelli chesemplicemente ne fanno parte. Questi ultimi hanno unapropria opinione su Israele e hanno diversi modi peresprimerla; tant’è vero che esistono anche delleassociazioni accademiche adhoc. Il fatto che costoro non

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si rispecchino nella posizione dei rettori non ènecessariamente un fatto negativo; è piuttosto un duroconfronto nato in seno a quel mondo accademico a cui noiapparteniamo.

NC: Ho fatto riferimento a quei cento rettori, ma inrealtà vale per tutto il mondo accademico. Sulla rivista«Chronicle of Higher Education», ad esempio, sono statipubblicati diversi articoli di autorevoli attivisti in cui sicondanna la scelta dell’ASA: mi riferisco a Linda Gordone ad altri che svolgono da sempre attività di militanzasulle questioni più disparate. Sono questi gli studiosi cheoggi condannano la risoluzione.

La dichiarazione dell’ASA sarebbe potuta essere piùefficace. Se avesse proposto, ad esempio, di boicottarel’Università di Bar-Ilan per via del campus di Ariel, sortonel bel mezzo della Cisgiordania, allora avrebbe avuto unsenso, sarebbe stato come il boicottaggio della valle delGiordano; la gente lo avrebbe capito – trattandosi in quelcaso della partecipazione attiva di un’istituzioneaccademica –, e in più esso avrebbe attirato l’attenzionesu ciò che implica concretamente l’occupazione. Ci sisarebbe chiesti come mai, proprio lì, sorge un campusuniversitario, e ci si sarebbe accorti che in quel modo laCisgiordania viene spaccata in due, forse in cinque partiormai. È importante portare a galla queste cose. Invece, sesi promuovono iniziative generiche contro le istituzioniisraeliane, alla gente viene naturale domandarsi perché

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allora non le si organizza contro le istituzioni americane.Chi è peggio? Insomma, la questione non coinvolgesoltanto i rettori; la risoluzione dell’ASA non si rivolgeagli operai ma al mondo accademico, e nel mondoaccademico era inevitabile che quell’iniziativa spostassel’attenzione dai crimini israeliani e dalla complicitàstatunitense al tema generale della libertà accademica,come nel caso di Jenin. Bisogna pensarci bene prima diprendere queste iniziative. Le istituzioni accademicheisraeliane non sono più colpevoli di quelle americane,anzi per certi aspetti lo sono di meno. Sarebbe stato piùutile, lo ripeto, colpire Bar-Ilan o altri centri chepartecipano attivamente all’occupazione.

IP: L’Università ebraica, per esempio, si staespandendo nell’area attorno a Issawiya.

NC: Ecco, queste sono le cose di cui si dovrebbeparlare.

IP: Sono d’accordo con Noam che sarebbe auspicabileavviare una ricerca accurata sull’argomento3. Ancora nonesistono studi che spieghino con chiarezza al popoloamericano perché si deve colpire anche il mondoaccademico israeliano. In effetti, è necessario addurreprove certe della sua connivenza e della suacollaborazione attiva all’occupazione e all’oppressione.

Il movimento BDS è scaturito dalla società civilepalestinese, ma contemporaneamente in Occidente sonostate lanciate iniziative simili dagli attivisti

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filopalestinesi. In quel modo si cercava di inviare aIsraele un messaggio chiaro, di fargli capire che la misuraera colma. Analogamente, un attivista accademico osindacale cerca di coinvolgere le persone della propriacerchia, spronandole a impegnarsi in quanto studiosi,giornalisti, artisti, registi e via dicendo. Naturalmentebisogna scegliere con cura il proprio bersaglio e sapereperché lo si vuole colpire. A differenza di Noam, nonvedo nulla di azzardato in questo modo di agire anche se,lo ribadisco, sono d’accordo che serva un’azione piùconcreta e trasparente: si deve spiegare alla gente perchési sta facendo una determinata cosa e non rimanere nelvago dicendo che sono tutti criminali e quindi vannocolpiti. A mio avviso sarebbe una critica costruttiva, chenon spegnerebbe lo stimolo ad agire.

Secondo me si tratta di un fermento positivo.Osservandolo dal vivo, si intuisce che uno dei prossimipassi, come ha suggerito anche Jibril Rajoub, sarà diestromettere la squadra israeliana di calcio dalla FIFA odalla UEFA. Il mondo sportivo israeliano sa che l’unicomotivo plausibile di una decisione del genere è iltrattamento riservato dallo Stato ai palestinesi in generalee ai calciatori palestinesi in particolare; di certo in questoambiente non s’intavolano discussioni su un eventualeantisemitismo.

NC: Anche nel caso del Sudafrica si adottarono misuresimili, che sono inaccettabili per lo Stato che le subisce

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ma perfettamente comprensibili dal pubblico che si vuolecoinvolgere. Invece l’iniziativa dell’ASA ha sortitol’effetto opposto.

FB:Sonod’accordosulfattocheandrebberofattideglistudiaccuratisullapartecipazionedelleistituzioniaccademicheisraelianeall’occupazioneeaicriminid’Israele...NC: In alcuni casi, come quello del campus di Ariel, è

talmente evidente che non c’è bisogno di fare nessunostudio.

IP: Sì, ma in generale non è così facilmente intuibile.NC: L’Università ebraica merita sicuramente un

approfondimento.FB:

...eppure,daquellocheholetto,lamaggiorpartediquelleistituzionisonocomplicidell’occupazioneisraeliana.Quindi,purconcordandosullanecessitàdicondurrestudiulteriori,ritengocheilpercorsodiinformazionepossaprocedereparallelamentealleiniziativecomequelladell’IP: Se ho capito bene, quello che Noam cerca di dire –

in ogni caso, io la penso così – è che ancora non si èriusciti a far passare l’idea che Israele, proprio in quantoentità politica, costituisca un problema. Si è forse riuscitia ottenere consenso sul fatto che Israele non debbaoccupare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, ma è unacosa un po’ diversa. Se l’intero movimento di boicottaggioavesse avuto come unico obiettivo quello di mandare vial’esercito israeliano dalla Cisgiordania e dalla Striscia diGaza, non sarebbero sorti tanti attriti. Com’è noto, io sonoconvinto che il problema sia lo Stato di Israele in quantotale; e non soltanto le sue azioni in Cisgiordania, ma anchea Haifa, nel Naqab e ad Acri. Questo concetto non è pernulla scontato in Occidente. Peraltro, chi vive in queiterritori non credo si renda conto di subire delle

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ingiustizie ancora più gravi rispetto a quelle perpetrate inCisgiordania e nella Striscia di Gaza. Il BDS finora harappresentato una tendenza, un fermento, più che una verae propria strategia. Questo fermento va ora integrato conuno sforzo analitico e di ricerca più amplio, oltre che conuna comunicazione adeguata.

NC: Aggiungo solo che è indispensabile coinvolgereanche gli Stati Uniti.

IP: Sì, sono d’accordo.NC: È da lì che arriva il sostegno alle politiche

israeliane, è bene ribadirlo; proprio come nel Sudafrica,dove furono proprio gli USA a difendere l’apartheid finoall’ultimo.

FB:InchemodocoinvolgerestedipiùgliStatiUniti?AmeparecheormaisiarisaputalaconnivenzadegliUSAcongliisraeliani.DadovedovrebbepartireilboicottaggiodegliStatiUniti?

NC: Prendiamo ad esempio i negoziati. Il movimento disolidarietà dovrebbe prestarvi la giusta attenzione: inegoziati sono gestiti dagli Stati Uniti, che però sono parteattiva nel conflitto. È come se l’Iran fosse chiamato amediare tra sciiti e sunniti in Iraq: un’ipotesi assurda. Ilfatto stesso che gli USA mettano in piedi un negoziatodovrebbe risultare ridicolo, eppure non se ne cogliel’assurdità. Non mi riferisco soltanto ai tre miliardi didollari di aiuti militari, ma anche a tutti i veti americani eall’avallo ideologico. Anche queste scelte politiche hannoun ruolo fondamentale. È illuminante a tal proposito lacensura statunitense rispetto al ruolo di Cuba nella

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questione sudafricana; un dato storico che alcuni studiosisi ostinano ancora oggi a negare. Sono problemi con cui cisi deve confrontare.

2 Conversazione tra Noam Chomsky, Ilan Pappé e Frank Barat, registrata il17 gennaio 2014, poi riveduta e ridotta.

3 L’Alternative Information Center ha pubblicato nel 2009 uno studiosull’argomento dal titolo “Academic Boycott of Israel and the Complicity ofIsrael Academic Institutions in Occupation of Palestinian Territories”,consultabile sul sito del movimento BDS, all’indirizzo<http://www.bdsmovement.net/files/2011/02/EOO23-24-Web.pdf> (nota delredattore inglese).

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4. Il futuro4FB:UnaPrimaveraisraelianaèpossibile?NC: La mentalità e la politica israeliana, soprattutto

negli ultimi dieci anni, hanno virato a destra, verso ilnazionalismo e l’estremismo, arroccandosi sulle proprieposizioni, un po’ com’è avvenuto nell’ultima fase delregime sudafricano. «Il mondo ci odia perché tutti sonoantisemiti, perciò noi facciamo quel che vogliamo»; non èmai colpa loro, sono sempre gli altri a sbagliare. E intantocompiono le peggiori efferatezze, talvolta davveroinimmaginabili. Penso ad esempio alle scene a cuiabbiamo assistito durante l’operazione “Piombo Fuso”,con gli israeliani seduti in spiaggia o appostati sullecolline ad applaudire ogni volta che cadeva una bomba suGaza. Una vera indecenza. Purtroppo, però, è unsentimento che appartiene a gran parte della popolazione.Esistono naturalmente anche delle spinte opposte, ma perquel che ne so sono troppo deboli. Si prendano le protestedi viale Rothschild a Tel Aviv: a prima vista possonosomigliare alla rivolta degli “indignati”, ma a benguardare sono molto più limitate, del tipo: «Voglioqualcosa di meglio per me, voglio riuscire ad avere unappartamento». Non è un caso che gli organizzatoriabbiano deciso di non fare alcun accenno ai palestinesi,quindi quella protesta serviva solo a strappare qualcheconcessione e a migliorare il proprio stile di vita. Lasocietà israeliana è passata da un modello

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socialdemocratico simile a quello scandinavo a unaversione estrema del neoliberismo, o meglio a unacaricatura del neoliberismo, come negli Stati Uniti, conprofonde disuguaglianze nella distribuzione dellaricchezza e dei privilegi. Poi però si cerca in tutti i modidi attirare i giovani occidentali e la cultura giovanilesbandierando lo stile di vita laico di Tel Aviv, dove adesempio ci sono molti locali per omosessuali, e anzipotrebbe diventare la capitale gay per eccellenza delMediterraneo.

La deriva della società israeliana è preoccupante, e inun certo senso sta diventando una società suicida. Gliisraeliani temono la “delegittimazione”, e in effetti èun’ipotesi plausibile; ma sono loro che hanno scelto didelegittimare se stessi. Sono convinto, come ho già detto,che tutto questo sia il risultato inevitabile della scelta fattanel 1971, quando gli israeliani rinunciarono alla sicurezzaper l’espansione; da quel momento si sono succeduti unaserie di eventi non dico ineluttabili ma certamenteprevedibili. E questo processo è ancora in corso: ci sonostate delle piccole evoluzioni nel regime repressivo versoi palestinesi, ma non so quanto possano davvero inciderein futuro. Un esempio lo si ritrova nelle leggi cheriguardano la terra, le più razziste in assoluto. Finoracirca il 92 percento dei terreni della Palestina è statogestito dal Keren Kayemeth, il Fondo Nazionale Ebraico,un ente parastatale incaricato di operare esclusivamente a

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vantaggio delle «persone di razza, religione e origineebraica» (le parole usate sono proprio queste), il chesignifica che tutto il ginepraio di disposizioni, struttureamministrative e burocrazia attribuiva in pratica ilcontrollo di oltre il 90 percento della terra agli ebrei,liberandola dagli arabi. Di recente, si è aperta una falla inquel sistema: circa quindici anni fa, la Corte suprema hainvalidato questo principio con una decisione su unospecifico insediamento. La Corte stabilì che non sipotevano estromettere gli arabi, e circa cinque o sei annidopo la coppia di arabi coinvolta nella vicendagiudiziaria poté finalmente ritornare nella terra che erastata confiscata. Purtroppo non mi risulta che quellasentenza abbia avuto ricadute positive su altrecontroversie simili, e intanto in Parlamento si vuol farpassare una legge per annullare tutto. Questo ci fa capirequanto siano inamovibili le politiche israeliane; ma sipossono enumerare molti altri episodi per mesconvolgenti. Ad esempio, ho saputo di recente daRuchama Marton, una donna straordinaria che è a capodell’organizzazione Israeli Physicians for Human Rights,che negli ospedali israeliani le cittadine palestinesidevono essere ricoverate in un reparto maternità separatoda quello delle ebree. Cose del genere sono all’ordine delgiorno.

Non mi sembra un quadro esaltante, né del resto siriesce più a distinguere tra Israele e Grande Israele, con i

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piani ormai in atto anche in Cisgiordania. O ancora lealture del Golan, di cui non si parla più: quell’area è stataoccupata illegalmente, violando gli ordini espliciti delConsiglio di Sicurezza dell’ONU, e il mondo preferisceignorare che si tratta in realtà di territorio siriano. Poinaturalmente c’è Gaza, che rimane una prigione orrenda,un luogo violentato; oggi la situazione è ancora peggioreperché il regime militare egiziano sta chiudendo i valichie minaccia Gaza. Per usare un eufemismo, la situazione èestremamente spiacevole; e temo che si aggraveràulteriormente.

IP: Sì, sono pienamente d’accordo. È giusto chiedersise sia possibile una Primavera israeliana, perché per unosservatore esterno, per un attivista e per chiunque valutila possibilità di un cambiamento dall’interno, la risposta aquella domanda può dettare la linea per l’avvenire. Se sigiunge alla stessa conclusione che era al cuore dellastrategia antiapartheid in Sudafrica, ossia che uncambiamento dall’interno non si verificherànell’immediato futuro, allora la pressione dall’esternodiventa l’unica speranza. L’alternativa sarebbe la vittoriamilitare, che era una delle opzioni all’epoca deimovimenti di liberazione, ma oggi pare meno probabile.

Vale la pena a questo punto soffermarsi su due questionicorrelate a questa, o meglio su due sparizioni. La prima èla scomparsa del sionismo liberale, che era stato unprotagonista importante della scena politica israeliana.

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Pare non esserci posto in Israele per chi prova abilanciare l’accezione razzista del sionismo con unavisione universalista, che sia il liberalismo o ilsocialismo.

La seconda è la scomparsa, dopo quarantacinque annidi occupazione, della Linea Verde; con essa scompareanche la distinzione tra ciò che è “da questa parte” e ciòche si trova “al di là”. A testimoniare questa sparizione cisono l’annessione silenziosa dell’Area C e la proposta diuno scambio di terra da parte del ministro degli Esteri,Avigdor Lieberman, concedendo l’annessione allaCisgiordania della regione israeliana di Wadi Ara,popolata perlopiù da palestinesi. Questi fatti mostrano conevidenza la natura etnica delle politiche di confisca eoccupazione, e provano che esse non sono più confinateentro un’area determinata o rivolte a un unico gruppo dipalestinesi.

Questi due fattori ci convincono ancor più che uncambiamento dall’interno di Israele non è pensabile.Qualche gruppo prova a mettere in discussione lo Statodall’interno, e nascono tra i giovani movimenti come nonse n’erano mai visti, ad esempio gli Anarchists Againstthe Wall, o il New Profile; ma si tratta di formazioniridotte che non crescono a un ritmo tale da far pensare chepossano diventare dei movimenti di massa.

A tal proposito è utile citare anche le protesteinneggianti alla giustizia sociale scoppiate nel 2011. Pur

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rivelando un mutamento all’interno della classe mediaisraeliana, esse purtroppo non sono in alcun modoricollegabili al conflitto con i palestinesi. Uno dei motiviper cui fino al 2011, anche dopo la crisi finanziaria del2008, gli israeliani vivevano meglio rispetto a molti paesioccidentali erano le generose linee di credito del sistemabancario. A prescindere dal proprio salario, si eraautorizzati a spendere dalla banca. Ciò significa che uncittadino della classe media poteva vivere ben al di sopradei suoi mezzi e del suo stipendio reale. Poi però la festaè finita e l’amara verità è venuta a galla: il reddito dellaclasse media non consente uno stile di vita dignitoso, inparticolare per quanto riguarda gli alloggi. È stata questascoperta ad aver scatenato le proteste del 2011: poiché lebanche hanno smesso di concedere scoperti e fidiillimitati, gli israeliani hanno dovuto cominciare aconfidare solo sui propri stipendi non certo lauti, nonpotendosi più permettere una casa, la merce più costosasul mercato. È stata questa la causa scatenante delmovimento di protesta.

In termini macroeconomici, ciò significa che la classemedia si appiattisce sul livello delle classi inferiori,mentre i ricchi diventano ancora più ricchi. Nel lungoperiodo questo fenomeno può incidere anche sullequestioni di cui stiamo dibattendo ora, poiché una societàpriva di integrità e solidarietà socioeconomica puòimplodere, e nemmeno un imponente indottrinamento

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ideologico può tenerla in piedi.NC: Da questo punto di vista sussistono delle

differenze con il Sudafrica. In quel caso la comunitàoppressa di colore era pari all’85 percento dellapopolazione e costituiva la manodopera da cui dipendevail paese. Vi fu pure una forte pressione esterna da parte diCuba, i cui militari intervennero nei paesi vicini che ilregime sudafricano cercava di assorbire nella propriaorbita. Ma oltre a tutto questo, vi fu un altro fattore cheincise profondamente sull’evoluzione del Sudafrica: neglianni Ottanta, e in particolare dopo il massacro di Sowetodel 1987, si sviluppò dall’interno un potente movimentodi militanza nera che non è paragonabile ai due fenomeniisraeliani appena descritti.

IP: No, infatti.FB:Analizziamooralasocietàelapoliticapalestinesi.DirecenteilprofessorHaidarEid,chelavoraaGaza,hascrittosu

«Al-Shabaka»:«L’unicaviad’uscitasarebbedissociarsidalsistemapoliticopalestinese;nonessendoviimarginiperuncambioradicaleall’internodelleattualistrutture,ipalestinesidovrebberoricostruiredalbasso,inmodoorganico,un’alternativapoliticacredibile».Sieted’accordoconl’ideadelladissociazione,enondovremmoforsepraticarlaanchenoiinEuropaeinOccidente?Poichéinostrigoverni,democraticiorepubblicani,didestraodisinistra,noncirappresentano,ladissociazionedall’attualesistemanonpotrebbeessereunmodopercostruirequalcosadimeglio?

NC: Che questa proposta arrivi da chi vive a Gaza,quasi come un grido di disperazione, è perfettamentecomprensibile. Come ho già detto, sono stato di recente inquella terra, e la situazione è gravissima, ma che cosasignifica dissociazione? Cioè, da che cosa ci si dissocia?

In Occidente non penso che abbia molto senso; è veroche i governi non ci rappresentano, tuttavia ci sono ampimargini d’azione, non viviamo in Stati fascisti. Ci sono

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tante strade da percorrere. Esiste un potere statale, ma lasua capacità repressiva non è troppo elevata; è unastruttura fragile, influenzabile e manipolabile. Noncapisco che cosa voglia dire dissociarsi... Vuol direandare nel Montana, prendere un pezzo di terra e vivere diciò che si coltiva? Quest’idea può forse avere un sensonel caso del localismo agricolo, ossia la produzione achilometro zero, o dell’agricoltura urbana, o di altreiniziative per liberarsi dal giogo delle forzesocioeconomiche dominanti; tuttavia, nel quadro delleistituzioni attuali vi è un margine amplissimo per operareun cambiamento dall’interno, a differenza di Gaza. Le duerealtà non sono paragonabili.

IP: Tuttavia, bisogna dare ascolto ai sentimenti cheattraversano quella terra, in particolare al desiderio difare meno affidamento sulle strutture politiche attuali,perché queste hanno deluso profondamente i palestinesi,ovunque essi si trovino.

Se si vuole davvero venire incontro a queste esigenze,si deve accortamente promuovere una nuova impostazionenelle relazioni tra ebrei e arabi tra il fiume Giordano e ilMediterraneo, non in contrapposizione con le struttureesistenti, bensì dialogando con esse. Quest’opera diriformulazione dovrebbe coinvolgere il maggior numerodi persone, anche gli esponenti di Fatah, di Hamas o deipartiti politici israeliani; sarebbe un buon punto dipartenza per analizzare e inquadrare la situazione

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presente. Se quelle strutture non sono più adeguate allanuova realtà, scompariranno comunque, non c’è bisognodi dichiarare apertamente l’urgenza di smantellarle.

Gli israeliani, ad esempio, possono anche far finta dinon vedere che convivono fianco a fianco con laCisgiordania ormai da decenni, ma rimane il fatto che è inquesto territorio più ampio (Israele e la Cisgiordania piùla Striscia di Gaza, non soltanto la Cisgiordania) che vatrovata una soluzione. I palestinesi, dal canto loro,possono anche negare l’esistenza della terza generazionedi coloni, ma devono accettare di aver ormai perdutol’occasione storica, se mai ce n’è stata una, di sbarazzarsidegli invasori, quelli della prima ondata.

Gli obiettivi, ovviamente, sono radicalmente diversi:gli israeliani vogliono conservare lo statusquo, mentre ipalestinesi cercano in tutti i modi di ribaltarlo. I primihanno tutto da perdere in termini di privilegi e di potere, isecondi tutto da guadagnare. La vera chiave per la pace ela riconciliazione sta quindi nell’esercitare pressioni sugliisraeliani.

Forse un’altra via d’uscita è quella a cui ha accennatoNoam, ossia provare a convincere gli israeliani che illoro è un comportamento suicida, senza rinunciare, d’altrocanto, a evidenziare le loro colpe in questo stato di cose.Gli israeliani costruiscono muri, si armano fino ai denti,eppure la sicurezza è sempre più fragile. Solo in questocontesto si può conservare l’utopia di un avvenire senza

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Stato, trovando una struttura politica alternativa che pongafine quanto prima alle sofferenze di quella terra.

NC: Sospetto che gli israeliani percepiscano già laprecarietà del loro avvenire. Ne è prova il fatto chesempre più persone fanno richiesta per avere il doppiopassaporto.

IP: Verissimo.NC: Non conosco il numero esatto, ma so che sono

tantissimi.IP: Sì, è così.NC: Male che vada potranno trasferirsi a New York...IP: Non gli ebrei arabi... Loro non hanno un posto dove

andare!NC: Ho letto da qualche parte che la comunità ebraica

maggiormente in crescita è quella di Berlino...IP: Sì. Ironia della sorte!NC: Secondo me occorre innanzitutto capire che cosa

sta progettando Israele e quali piani riuscirà a mettere inpratica fintanto che godrà del sostegno degli Stati Uniti, eanche domandarsi che cosa faremo noi una volta che queipiani saranno realizzati, in un futuro non troppo lontano.Quel che ha detto Ilan a proposito dell’Area C e dellaregione del Wadi Ara, ad esempio, è vero. È evidente chesi sta cercando di creare il Grande Israele – che dovrebbeovviamente comprendere anche le alture del Golan – ed èchiaro l’intento di separare Gaza dalla Cisgiordania, inaperta violazione degli accordi di Oslo e di ogni altro

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compromesso. In merito alla Cisgiordania, sicuramente gliisraeliani hanno in mente di appropriarsi di tutto ciò che sitrova all’interno del cosiddetto “Muro di Separazione”, omeglio del muro di annessione. L’area della GrandeGerusalemme è cinque volte più estesa di quanto non losia mai stata, e i palestinesi ne sono sistematicamenteespulsi; non è rimasta quasi nessuna istituzionepalestinese. Poi c’è la questione dei corridoi. Ad esempioquello, costruito prevalentemente a partire dagli anniNovanta, che corre a est della Grande Gerusalemme eattraversando la città israeliana di Ma’ale Adumim tagliain due la Cisgiordania; il territorio di Ma’ale Adumimoggi si spinge ben oltre quell’insediamento fin quasi aGerico. Gli israeliani non sono ancora riusciti acolonizzare completamente questa zona, nota come AreaE1.

Finora, tutti i presidenti USA hanno sempre bloccato ilprogetto. Obama invece si è limitato a dichiarare che ilpiano «non è utile alla pace», cosicché gli israelianipotrebbero sentirsi autorizzati a completare il progetto diaccerchiamento della Grande Gerusalemme. A nord, duealtri corridoi dovrebbero tagliare in due il resto dell’area:uno che va verso il già citato insediamento di Ariel el’altro diretto a Kedumim. L’impressione è che gliisraeliani vogliano impadronirsi di tutta l’Area C, anchese lo negano, e del resto ci sono vaste zone che sono giàsotto il controllo israeliano. Quanto alla valle del

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Giordano, che Israele sostiene di avere occupatounicamente per questioni di sicurezza, oggi è di fattoinaccessibile alla maggior parte dei palestinesi perchéIsraele ha utilizzato la questione “sicurezza” peredificarvi ancor più insediamenti. A giudicare dai progettiche si stanno realizzando, l’intenzione sembra proprioquella di assumere il controllo della valle del Giordano.Se dovesse essere questa la fisionomia del GrandeIsraele, non rimarrebbero molti palestinesi escomparirebbe il cosiddetto problema demografico,un’espressione orrenda che sta a indicare un’eccessivapresenza di non ebrei nello Stato ebraico. Se questi pianisaranno messi in pratica, e io sono sicuro che l’intenzioneè quella, il problema demografico non si porrà più e laquota di palestinesi si ridurrà drasticamente. Naturalmentegli israeliani devono far finta di volere uno scambio diterra, ma sospetto che avverrà esattamente quel che hapaventato Ilan; del resto è ciò che si sta verificando nellaGalilea settentrionale, dove la presenza araba èconsistente. La popolazione araba non vuole lo scambio,non perché ami Israele ma perché non vuole andar via dauna società ricca e sviluppata per finire in un “poligono ditiro”, come un cittadino intervistato di recente da«Haaretz» ha definito la Palestina. Ma una società razzistali indurrebbe comunque ad andarsene, anche contro la lorovolontà. All’Occidente questo scambio sarà venduto comeuna gentile concessione di Israele, che donerà allo Stato

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palestinese un pezzo della sua terra – quella che nemmenogli israeliani vogliono perché ci sono troppi arabi – emagari anche un pezzettino del Negev. È così che sipresenta la situazione sul territorio, ed è a questo che cidobbiamo preparare.

FB:Inbaseaquelcheavetedettofinoramiparedicapirecheperlei,professorPappé,lanuovarealtàègià,difatto,unregimeunico,unsistemapoliticounicochegovernasiaipalestinesisiagliebreiisraeliani,un’entitàstatualeunica;dunqueleicistaesortandoaimpegnarcipercambiarelanaturadiquelsistema,lesueregole,lesueleggiinterneecc.Inveceperlei,professorChomsky,chehadifesoperannil’ideadiunoStatocomune,ounico,oadoppianazionalità,orabisognaorientarsiversolasoluzioneadueStatiperragionidiconsenso,perarrivareinseguitoaununicoStato?NC: Sì, perché per come la vedo io Israele e Stati Uniti

non accetteranno mai la soluzione a uno Stato. Dal loropunto di vista esiste un’alternativa migliore, che è quellache ho appena descritto, ossia assumere il controllo sututta l’area e creare un Grande Israele in cui rimanganopochi palestinesi, di sicuro una percentuale moltoinferiore rispetto ad oggi. I palestinesi andranno altrove, iloro insediamenti saranno al di fuori di quest’area.L’unica alternativa pensata per loro, secondo me, è andarein malora, oppure scegliere di fuggire. Nascerà a quelpunto una struttura tipicamente neocoloniale, con ungrosso centro per le classi elevate; gli occidentali in visitaa Ramallah ci troveranno belle case, teatri, locali, evedranno quant’è bella la Palestina. Del resto è così intutti i paesi del Terzo Mondo: anche nella nazione piùpovera dell’Africa centrale esistono delle aree pensateapposta per le élite, non diverse dai quartieri di Parigi odi Londra. Negli anni Novanta, gli industriali israelianichiesero esplicitamente al governo di abbandonare ilmodello coloniale, come essi stessi lo definirono, peradottarne uno neocoloniale, ossia un’entità con queste

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caratteristiche da Terzo Mondo: la maggioranza dellapopolazione poverissima, ma un grosso centro per ipalestinesi ricchi, i privilegiati, le élite. Se questoprogetto dovesse tradursi in realtà, allora ci saranno duepossibilità: o rimarranno pochissimi palestinesi, e il restoandrà altrove, oppure nasceranno due Stati. Quella a dueStati è una soluzione ormai degradata, ma almeno ha ilmerito di contare su un enorme appoggio internazionale;certo, è in stallo da trentacinque anni per colpa degli StatiUniti, ma almeno riscuote consenso. Non credo che gliinsediamenti siano un fatto irreversibile.

Su questo vorrei sapere che cosa ne pensa Ilan, ma ioho la sensazione che, se avesse voluto, Israele nonavrebbe avuto bisogno di sgomberare la popolazione[israeliana] da Gaza: fu più che altro una messinscena perimpressionare l’Occidente. Il primo agosto [2005]avrebbe potuto dire qualcosa del tipo: «Le Forze di difesaisraeliane (IDF) stanno per ritirarsi, lasceranno Gaza.Salite sui camion che vi abbiamo procurato, e saretetrasferiti dalle case sovvenzionate dallo Stato di Gaza innuove abitazioni sovvenzionate, più graziose, inCisgiordania». Poi avrebbe potuto fare la stessa cosa inCisgiordania: dire che l’IDF stava per ritirarsi, chepotevano andare lì, e un sacco di gente in Cisgiordaniaavrebbe convenuto che effettivamente era un bel postodove vivere e avrebbero avuto case sovvenzionate egradevoli quartieri residenziali, Tel Aviv e Gerusalemme.

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Con le autostrade superveloci che si ritrovano, gliisraeliani sarebbero potuti andare direttamente a Tel Avivsenza dover vedere arabi in giro. Insomma, se qualcunovuole rimanere aggrappato a un pezzo di terra, perché nonglielo si deve permettere? Quello potrebbe essere lo Statopalestinese. È una possibilità. Le probabilità che si avverinon sono tante, anzi sono pochissime, ma mi sembral’unica alternativa realistica alla prospettiva del GrandeIsraele.

La mia ipotesi è che, se si dovesse raggiungere unqualche compromesso a due Stati, per quanto cattivopossa essere, i confini andrebbero via via scomparendo,perché chi conosce quella terra sa che è praticamenteimpossibile tracciare una linea di demarcazione. Tant’èvero che nei periodi in cui le relazioni sono state piùdistese, anche i confini si sono fatti meno rigidi, piùsfumati, e sono fioriti scambi commerciali, culturali e diogni genere. Non sappiamo dove porterà questo percorso,ma può anche darsi che conduca a una maggioreintegrazione; magari nel lungo periodo potrebbe favorirela nascita di quella società integrata e federale che tuttinoi auspichiamo. Com’è noto, non è che io amiparticolarmente le frontiere di stampo imperialista, nonpenso che sia giusto conservarle, ma non vedoun’alternativa a queste due opzioni.

La soluzione a uno Stato può essere un’idea dacoltivare nella mente, ma al momento non mi sembra

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un’opzione concreta. Secondo me sono queste due lescelte in campo, ed è fuorviante che qualcuno, in qualsiasiambiente – che sia lo Shin Bet, la dirigenza palestinese ogli analisti stranieri – parli come se la scelta fosse tra idue Stati o lo Stato unico. Non è questa l’alternativa: lascelta è tra il Grande Israele o i due Stati. E nel GrandeIsraele non sono contemplati i palestinesi, o ve ne sonomolto pochi.

IP: Io la vedo un po’ diversamente. Secondo me, allaluce degli equilibri di potere sul territorio e dellerelazioni di Israele con gli Stati Uniti e la comunitàinternazionale, è inevitabile che la soluzione a due Statisarà realizzata più o meno secondo le modalità gradite aIsraele.

La versione israeliana corrisponde, appunto, al GrandeIsraele. Sebbene in teoria la comunità internazionaleappoggi una soluzione con due Stati diversi, il risultatofinale sarà sicuramente che le due entità sarannoindistinte. La differenza risiederebbe nella legittimazioneinternazionale e nell’indipendenza simbolica di cuigodrebbero i palestinesi, che potrebbero persino esporrequalche vessillo nazionale, ma le relazioni tra israeliani epalestinesi non cambierebbero nella sostanza.

Non mi pare logico appoggiare un accordo chefinirebbe col legittimare di fatto il Grande Israele. Nel2014, la soluzione a due Stati punta ormai a un unicoobiettivo, ossia la legittimazione a livello mondiale di

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questo compromesso: la comunità internazionale cercaqualcuno, come Abu Mazen, che accetti la versioneisraeliana della soluzione a due Stati. Se questo dovesseverificarsi, il Grande Israele potrà perpetuarsi grazie aquella legittimazione.

Sono convinto che occorra invece contrapporre alGrande Israele, che di fatto esiste già, una campagna perpromuovere il cambio di regime basata sull’uguaglianzadei diritti civili, e sperare che vi siano degli sviluppi alivello regionale e internazionale che lo portino amaturazione. L’atteggiamento della comunitàinternazionale ricorda quella vecchia storiella ebraica deltizio che cerca la chiave non dove l’ha persa, ma dove c’èpiù luce.

NC: Forse abbiamo aspettative un po’ diverse rispettoall’avvenire, ma nessuno può prevedere quel che accadrà,e almeno su questo dovremmo essere d’accordo. Ildiscorso dominante è fuorviante, perché non esiste unascelta tra due Stati e uno Stato; eppure tutti i fronticontinuano a tirarla in ballo, la leadership israeliana comequella palestinese. Sono rimasto molto sorpreso che ancheun esperto come Ian Lustick abbia di recente espresso unaposizione analoga, ma mi rendo conto che ormai è laversione universalmente accettata, pur essendoassolutamente impraticabile: non esiste l’opzione delloStato unico5. Le uniche due possibilità rimaste sono ilGrande Israele o una qualche forma di soluzione che

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potrebbe essere chiamata “a due Stati”, oppure qualcosadel tipo “consenso internazionale”. Bisogna piuttostodomandarsi quali probabilità ci sono che questo“consenso internazionale”, o qualcosa del genere, possarealizzarsi senza che sia semplicemente la versionegradita a Israele. Non lo sappiamo, e forse ha ragione Ilana dire che la soluzione a due Stati è ormai superata;eppure a mio avviso può essere ancora un’ipotesi valida,se ricalca modelli come il piano di Ginevra, che non era ilmassimo ma almeno era distante dall’idea del GrandeIsraele. Seguendo quella strada si prospetterebbe unasoluzione ben diversa, innanzitutto perché non vi sarebbecompresa la valle del Giordano né gran parte dell’Area C,mentre sarebbe prevista una divisione sfumata diGerusalemme, con la presenza di istituzioni palestinesi.Ancora, un eventuale scambio di terra non avverrebbe conla regione del Wadi Ara, bensì con un’area decisamentepiù fertile, ad esempio quella intorno a Gaza, il che leaprirebbe nuove prospettive. Certo, non si tratta didifferenze radicali, ma è comunque un passo avantirispetto all’opzione attuale, anche se non posso prevederequanto sia praticabile. La mia impressione è che questasoluzione diventerebbe realistica se ci fosse un cambio dirotta nelle politiche statunitensi.

Sebbene, come ho già detto, non si debba forzaretroppo il paragone con il Sudafrica, perché sono troppi ipunti di divergenza – tra cui appunto l’assenza in Israele

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di un movimento di massa come quello dei neri inSudafrica, o la sconfitta militare subita per mano di Cuba– alcune analogie ci sono, e tra queste la politica USA. Suquesto anche l’Europa potrebbe prendere posizione; ingenerale gli europei sono prudenti, non vogliono mettersicontro il volere del capo, ma non è detto che anche inquesto caso andrebbe così. Del resto, anche alcune areedel Terzo Mondo stanno diventando più indipendenti; gliUSA sono ancora una potenza dominante, ma gli equilibridi forze cominciano a bilanciarsi a livello internazionale equesto potrebbe fare la differenza. Non si tratta di nazioniparticolarmente potenti, ma potrebbero esserci ulteriorisviluppi nel mondo arabo; la Primavera araba non è finita,secondo me altre cose devono ancora succedere, e lenuove evoluzioni potrebbero spingere verso una soluzionea due Stati, brutta quanto si vuole ma certamentepreferibile all’alternativa di oggi. Non sappiamo cosa puòaccadere.

IP: Altre cose si possono fare. La dicotomia tra unoStato o due Stati può essere esaminata da due punti divista. Il primo è discutere di quale sia la soluzionemigliore nel futuro; il secondo è prendere inconsiderazione la realtà presente. Se per esempio ipalestinesi che vivono all’interno di Israele approvano lasoluzione a due Stati, significa che il loro cruccio èancora quello espresso da Arafat nei giorni di Oslo, ossiache essi non sono contemplati nella soluzione. E, ancora

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più importante, significa che preferiscono rimanerenell’attuale sistema israeliano invece di aderire alprogetto di altri gruppi palestinesi. Se invece accolgono laproposta di dissociazione lanciata da Haidar Eid, vuoldire che, pur non avendo il potere politico per cambiare larealtà oggi, essi difendono il diritto di “raccontare” –come scrisse Edward Said nel 1982 – la loro versione delpassato e del futuro.

Non posso negare che sia complicato farsi un’ideaprecisa della posizione dei palestinesi in materia,soprattutto di quanti vivono nella Palestina storica. Ipalestinesi che abitano in Israele forse vogliono che l’OLPcontinui a rappresentarli, pur sapendo che è disastrosoperché i rappresentanti palestinesi nella Knesset possonofare ben poco per difendere i loro interessi.

Nonostante queste difficoltà, i palestinesi comincianoad adattarsi alla nuova realtà. L’intensificarsi dei contatticulturali, politici, sociali ed economici tra i palestinesiche vivono sui due versanti della Linea Verde, e anche conle comunità di esuli all’estero, dimostra che, senza troppistrombazzamenti, costoro intravedono un futuro con unoStato unico e hanno anche una visione condivisa della suastruttura.

Da una prospettiva speculare, un fenomeno simile si staverificando sul fronte ebraico. I coloni anziani dellaCisgiordania sono lì ormai dallo stesso numero di anni dimolti ebrei in Israele; ci sono quelli che vogliono

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riscattare la loro antica terra continuando a sottrarne aipalestinesi, e quelli che si ritrovano a venire a patti con lapopolazione locale. Quel che conta non è il numero diisraeliani che appoggiano la soluzione a due Stati – sonoin molti – ma la loro opinione circa la GrandeGerusalemme, l’insediamento di Kiryat Arba, quello diAriel e la valle del Giordano. Per la maggior parte diloro, quelle aree dovrebbero far parte integrante delloStato ebraico in una soluzione a due Stati, e in unoscenario simile all’altro Stato non rimarrebbe nulla.Quindi in sostanza vogliono un unico Stato in cui ilsionismo razzista continui a prevalere; ma, seopportunamente convinti, potrebbero alla fine accettareuna base più democratica per questo Stato.

Nella mia ottica, quindi, sostenere la soluzione a unoStato significa portare avanti un’attività di militanza checonvinca tutti a immaginare l’intera area come un’unicaterra e l’intera popolazione come un unico popolo. Quelloa cui non dobbiamo soccombere è la versione sionista deidue Stati che vuole una Palestina ebraica con pochissimipalestinesi ed estesa su “appena” l’80 percento dell’area.Rimango convinto che il motivo principale del sostegnoisraeliano alla soluzione a due Stati non sia lariconciliazione con i palestinesi, ma il desiderio dicontrollare quanta più terra possibile, con il minor numeropossibile di palestinesi ad abitarla.

NC: Si tratta di una diversa prospettiva. Voglio

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ritornare sulla tua distinzione tra ciò che si può faredall’interno e ciò che si può fare dall’esterno. Iopreferisco concentrarmi su ciò che si può faredall’esterno, perché non posso intervenire sulle decisionidei palestinesi, mentre tu, giustamente, ti chiedi che cosasi può fare dall’interno. Questi due aspetti però sono inqualche misura complementari, non devono per forzaessere in contrapposizione. In merito all’azionedall’esterno, a mio avviso, l’obiettivo negli Stati Uniti ein Europa deve essere di delegittimare l’occupazione, edè un obiettivo realistico. Si può delegittimare Israelefintanto che continuerà a difendere l’occupazione, farepressioni sugli USA perché interrompano il loroostracismo unilaterale verso l’accordo diplomatico cosìcome è stato delineato trentacinque anni fa, e valutare seci sono alternative allo scenario del Grande Israele.

IP: Bisognerebbe però delegittimare gli israeliani ancheper le vessazioni ai danni dei palestinesi che vivonoall’interno di Israele.

NC: Certo. Dobbiamo sempre opporci all’oppressioneinterna, dovunque si manifesti.

Ma sono due cose distinte e non bisogna lasciarsifuorviare, un po’ come quando si usa il termine“apartheid”: all’interno di Israele esiste la repressione,ma non si tratta di apartheid. Vale anche per i TerritoriOccupati: lì la situazione è molto peggiore dell’apartheid,e l’Africa nera non era come i Territori Occupati.

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IP: Una separazione tuttavia sussiste anche in questaterra, per quanto gli israeliani non possano tenerla in pieditroppo a lungo. Del resto, le stesse unità che sono stateusate per disperdere le proteste nella Cisgiordania sonostate mandate a sedare i disordini nel Negev; e le stesseleggi, o meglio provvedimenti d’urgenza che primavalevano solo in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza,ora cominciano a insinuarsi anche in Israele, perché lerelazioni stanno evolvendo.

NC: È vero, ma se il Grande Israele diventerà realtà,agli israeliani non interesserà più quello che succede al difuori. Magari, occasionalmente, manderanno l’IDF amettere a ferro e fuoco Nablus, ma non sarà più cosìimportante. Saranno affari dei palestinesi, saranno loro adover marcire laggiù, mentre gli israeliani sipreoccuperanno solo di ciò che accade all’interno di unoStato in cui sarà rimasta ben poca traccia dei palestinesi.Penso che l’attivismo dovrebbe far uscire tutto questo alloscoperto, non censurarlo o lasciare che sia insabbiato daldibattito uno Stato/due Stati. Dunque, non censurate questecose, ma denunciatele e contrastatele.

IP: Sì, sono d’accordo.FB:IlSudafricahaabolitoufficialmentel’apartheidneglianniNovanta,maosservandolasocietàsudafricana–

professorChomsky,neabbiamogiàparlato–sihalanettasensazioneche,ancheseèstatopiazzatoqualchevoltodicoloreneipostidicomando,èrimastoinpiedilostessosistema.NelcasoincuisidovesseconcretizzareunoStatocomuneounicoinPalestina,checosasidovrebbefareperimpedirechesiripetaquantoaccadutoinSudafrica?

NC: Questo presupporrebbe che gli israelianiacconsentissero ad assorbire la popolazione palestinese

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della Cisgiordania e di Gaza, ma io non credo che saràcosì. È questa la differenza fondamentale con il Sudafrica:i sudafricani furono costretti a incorporare la popolazionenera, non avevano scelta. Innanzitutto perché costituiva lastragrande maggioranza, e poi perché era la loro forzalavoro. Non potevano lasciare che se ne andassero amarcire da qualche altra parte, come nel nostro caso: èquesto il piano del Grande Israele. Qualcuno, anche nelladestra, forse vorrebbe dominare su tutti i palestinesi, masecondo me quello che hanno davvero intenzione di fare èciò che ho appena detto: creare il Grande Israele, con unnumero esiguo di palestinesi e con un’azione repressivacontro quelli che rimangono all’interno [del paese]. In talcaso, il paragone con il Sudafrica non calza. La verità èche in Sudafrica il capitale internazionale, gliimprenditori sudafricani e gli Stati Uniti si resero conto,intorno al 1990, che quella situazione non poteva piùandare avanti per ragioni che in Israele non sussistono.Per questo strinsero un accordo, che Mandela approvònon appena fu liberato e assunse la leadership, in base alquale avrebbero formalmente posto fine all’apartheid maavrebbero conservato la stessa struttura socioeconomica.Per la comunità nera non cambiò granché, anzi forse fupeggio di prima. In Israele e Palestina non si verificherànulla di tutto questo, perché gli israeliani non vogliono lapopolazione palestinese.

IP: Anche se può suonare strano, secondo me un

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risvolto positivo c’è, e cercherò di spiegarlo. È evidenteche il modello del Sudafrica post apartheid non si possaapplicare in Israele: non si può convincere gli israeliani arinunciare alla loro ideologia razzista semplicementeprospettando dei vantaggi economici. Non funzionerebbe.L’apartheid, se possiamo chiamarla così, o l’ideologiarazzista israeliana ha una matrice molto più religiosa edogmatica rispetto al suprematismo bianco del Sudafrica.Sebbene anche il suprematismo avesse le sue chiese e lesue giustificazioni teocratiche e religiose, esso servivafondamentalmente a mantenere [intatti] i privilegi, e unavolta che questi furono messi al sicuro anche nel sistemapost apartheid fu facile guadagnarsi il sostegno di unalarga fetta della popolazione bianca; tutto questo in Israelenon funzionerebbe. Non è possibile convincere, adesempio, l’industria tecnologica che per preservare la suaricchezza debba operare in un sistema più democratico. Inche cosa consiste allora il risvolto positivo? Per quanto iosia pessimista sulla volontà delle giovani generazioni dicostruire un mondo migliore, nel XXI secolo quelloscenario è troppo spudoratamente deplorabile einaccettabile. Il mondo si accorgerà dell’esistenza di unasocietà segregazionista mossa esclusivamente daun’ideologia razzista, e sarà più facile vedere comestanno realmente le cose. Ecco perché la diversasituazione rispetto al Sudafrica può tornare utile.

NC: Non so se dico una cosa diversa, ma io insisterei

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sul fatto che la differenza cruciale tra Israele e Sudafrica èche Israele è separazionista, mentre il Sudafrica non loera. Il Sudafrica doveva incorporare anche la popolazionedi colore; Israele invece vuole sbarazzarsi dei palestinesi.E può riuscirci tracciando i confini attorno al GrandeIsraele ed espellendo i palestinesi che vi abitano. Ciò chedi fatto stanno già facendo, lentamente, è creare passodopo passo un’entità mostruosa – il Grande Israele – incui rimarranno pochissimi palestinesi. Il compromessosudafricano non è praticabile in Israele.

IP: No, infatti. In Israele non è possibile.4 Conversazione tra Noam Chomsky, Ilan Pappé e Frank Barat, registrata il

17 gennaio 2014, poi riveduta e ridotta.5 Cfr. Ian S. Lustick, “Two-State Illusion”, «The New York Times», 14

settembre 2013.

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5. Viaggio al centro di Israele6FB:Ilan,leièunostorico,hapubblicatonumerosilibri,tracuil’ormaicelebre,epertalunicontroverso,

La pulizia etnica dellaPalestina,del2006.Nel2007siètrasferitoinInghilterra,doveinsegnastoriaall’UniversitàdiExeter.Fapartedeicosiddetti“nuovistorici”,cheanalizzanoeraccontanoinmodonuovolastoriadelsionismoedellanascitadiIsraele.Inpiùdiun’occasionehaassuntounaposizionenettacontroloStatodiIsraele.Quandoeperchéhadecisodistaredallapartedeipalestinesi?Equalisonostateleripercussioniperlei,cheèisraeliano?

IP: Modificare il proprio punto di vista su unaquestione di così cruciale importanza è il frutto di unlungo viaggio, non avviene da un giorno all’altro o per unsingolo evento. In uno dei miei libri, Controcorrente, hocercato di descrivere questa fuga dal sionismo el’approdo a una posizione critica nei suoi confronti.Dovendo scegliere un evento epifanico che ha ribaltato lamia prospettiva, è stato certamente l’attacco israeliano alLibano del 1982. Per chi, come me, è cresciuto in Israele,quella fu la prima guerra non concordata, frutto di unascelta deliberata: Israele non era stato attaccato, Israeleattaccava. E dopo scoppiò la prima Intifada. Quegli eventiaprirono gli occhi a molti che, come me, nutrivano giàdelle perplessità sul sionismo e sulla versione della storiache ci avevano insegnato a scuola.

Si tratta di un lungo viaggio, ma una volta intrapresobisogna fare i conti con la propria società, finanche con lapropria famiglia, e garantisco che non è una posizionecomoda. Chi conosce Israele sa che la sua è una societàesuberante e dai legami forti, così quando ti metti ditraverso ne subisci le conseguenze in ogni aspetto dellatua esistenza. Per questo ci vuole del tempo prima di

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decidere che si è arrivati a un punto di non ritorno e che siè pronti a difendere le proprie idee, costi quel che costi.

FB:QuelcheleidiceapropositodiIsraeleèinteressante.TantiStati-nazionefannoaffidamentosuun’ottimapropaganda,maIsraelel’haportataaunlivellosuperiore.LaprofessoressaNuritPeled-Elhanan,cheleiconoscebene,hascrittounlibrosucomevengonoritrattigliarabineimanualiscolasticiisraeliani,permostrarealmondocheinIsraelelapropagandaeillavaggiodelcervellocomincianofindapiccoli.Puòdirciqualcos’altrosuquestasocietàesullasuaesperienzadiretta?

IP: Sì, è una società fortemente indottrinata,probabilmente più di tante società occidentali e nonoccidentali. Non è un indottrinamento coercitivo, perchécomincia fin dalla nascita e dura fino alla morte. Chi è alpotere sa che una persona non deciderà certo di tirarsenefuori da un momento all’altro, perché è come un liquidoamniotico che ti avvolge. Nei suoi libri, Nurit Peled-Elhanan afferma che può capitare che un antisionistaassuma lo stesso atteggiamento di un credente che, purconvertendosi all’ateismo, continui a pensare che forseDio esiste e lo punirà per la sua blasfemia. Bisognariflettere bene su come siamo stati educati prima dimettere in discussione determinati dogmi; bisognapurificarsi alla radice per essere sicuri di progredire,altrimenti continueremo a nutrire dei dubbi.L’indottrinamento nel quale siamo cresciuti è sempre statopervicace; eppure ravviso delle differenze tra la miagenerazione e quella dei nostri figli: grazie a internet, lorosono più informati rispetto a noi. Per questo oggi è piùcomplicato per gli israeliani confidare solonell’indottrinamento, per quanto continuino a fare unottimo lavoro; infatti, sono molto pochi i giovani che

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mettono in discussione il sionismo. Spero che il mondoapra gli occhi anche grazie a quel che è avvenuto nelmondo arabo. Fino a poco tempo fa queste erano societàchiuse, e non sapevano nulla di quel che accadeva intornoa loro; invece mi auguro che le cose stiano cambiando.Quanto a noi, abbiamo sempre vissuto come in una bolla,non sapevamo che esistesse una realtà diversa. Non èstato facile fuggire da quella bolla.

FB:Immaginoqualedissonanzacognitivadebbasperimentarelavecchiagenerazione,lasuaediNuritPeled-Elhanan:dopoavercredutofermamenteinqualcosaperunavita,ancheseifattiportavanointutt’altradirezione,nonèfacileammetterediessersisbagliatipertrenta,quarant’anni.SuccedeancheamoltichepartecipanoatuttigliincontrisullaPalestina;nesannoquantomedellaPalestinaediciòcheaccade.Alloramichiedo:com’èpossibilechecontinuinoadifendereIsraele?Forse,iocredo,èproprioperviadiquestoviaggiopersonaleedemotivo,percuinonriesconoadaccettarediaversbagliatoechetuttalaloroesistenza,inuncertosenso,èstataunamistificazione.

IP: È così. Né va sottovalutato il clima di violenza chesi respira in una società colonialista al cui interno covauna lotta anticolonialista. Quando cresci in un determinatocontesto e le politiche del tuo governo inducono anche lacontroparte a compiere degli atti di violenza, allora nonpuoi fare a meno di pensare che sei tu dalla parte dellaragione perché sul fronte opposto ci sono gli attacchisuicidi, le violenze, i missili lanciati da Gaza. Non vadimenticato che quell’esigenza di fuga di cui parliamoviene giudicata da persone che vivono in un contesto diviolenza permanente: insomma, gli israeliani non riesconoa discernere tra l’esperienza della violenza e le ragioni diquella violenza. È difficile far capire loro che c’è unacausa e un effetto, che quella violenza ha una sua fonte enon viene fuori dal nulla, per cui loro sono destinati astare dove si trovano.

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FB:Èquicheentranoingiocolaculturael’istruzione.Probabilmenteimediatradizionalieilsistemadell’istruzione,piùchemaiinIsraele,nonsvolgonoillorocompitoadovere.Adesempio,quiinOccidentesisentedire:«ChevoletechefacciaIsraele?HamaslanciacentocinquantarazzialgiornosuSderot,dovràpurreagire».Inun’epocaincuilastoriahavitabrevissima,nondicoseimesimaunasettimana,laspiraledellaviolenzanonsifermeràmaiproprioperchénonsiraccontanoifattielamissioneeducativanonècompiutaadovere.

IP: È vero. Bisognerebbe infatti trovare degli spaziadeguati per spiegare agli israeliani e agli occidentalicom’è cominciato tutto questo. Quando i primi colonisionisti arrivarono in Palestina e videro che quella cheritenevano una terra disabitata, e in ogni caso la loro terra,era in realtà piena di arabi, considerarono queste personecome stranieri; stranieri violenti che si erano impadronitidella loro terra. È questa mistificazione dell’altro adalimentare la percezione e la visione degli israeliani; sitratta di una disumanizzazione dei palestinesi cominciatagià alla fine del XIX secolo. Come spiegare agli israelianiche essi stessi sono il prodotto di uno straniamento? Unodei compiti più impegnativi per chi vuole dareun’istruzione alternativa è comunicare un messaggiodiverso alla società ebraica israeliana.

FB:PuòtracciareunprofilostoricodelprimissimocasodiIntifada,quellodifineanniTrenta,edellarivoltacontrol’imperialismobritannico?IP: Bisogna risalire ai decenni precedenti al 1936 per

capire il fenomeno, ossia alla fine del XIX secolo, quandonacque il movimento sionista. Esso aveva due nobiliscopi: trovare un luogo in cui gli ebrei non si sentisseropiù minacciati dall’antisemitismo che andavaaffermandosi, e ridefinire la propria ebraicità su basenazionale, non più soltanto religiosa. Il problema sorsequando costoro scelsero la Palestina per realizzare le loro

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aspirazioni: era ovvio che, essendo quella terra giàabitata, si dovessero imporre con la forza, contemplandoanche la possibilità di espellere la popolazione indigena.Tuttavia, la comunità palestinese non si rese subito contoche il piano era quello. Nemmeno con la DichiarazioneBalfour del novembre del 1917 la popolazione presecoscienza di quanto stava avvenendo, cosicché ipalestinesi non si ribellarono alle politiche britanniche ealla strategia sionista. Nel 1936 quella strategia diede isuoi primi frutti: i palestinesi furono espulsi dalla terrache nel frattempo era stata acquistata dal movimentosionista, e si ritrovarono disoccupati perché i sionistiavevano assunto il controllo del mercato del lavoro.Allora fu chiaro che la questione ebraica dell’Europasarebbe stata risolta in Palestina. Furono questi eventi afar reagire i palestinesi, che provarono per la prima voltaa ribellarsi. Per sedare le rivolte fu necessariol’intervento dell’impero britannico; ci vollero tre anni e siricorse a una serie di misure altrettanto violente di quelleusate dagli israeliani per reprimere l’Intifada del 1987 equella del 2000.

FB:Quelladel’36fuunaverarivoltapopolare:furonoifellah,icontadini,aimbracciarelearmi.Leggendoisuoilibri,hocapitotral’altrochelarepressioneviolentadiquellarivoltafacilitòilcompitoall’organizzazionesionistaHaganahnel1947-48.Inquelperiodo,infatti,ipalestinesieranodeboliperchétuttiileadereipotenzialicombattentieranostatiammazzatioeranoandatiinesilionel1936.

IP: Esatto. I vertici politici palestinesi abitavano nellecittà, ma le principali vittime del sionismo fino agli anniTrenta vivevano nelle campagne; per questo la rivolta

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scoppiò lì, anche se vi parteciparono anche alcunielementi dell’élite urbana. Sì, in uno dei miei libri hoscritto che gli inglesi uccisero o imprigionarono moltefigure della dirigenza palestinese politica e militare, opotenzialmente militare. In questo modo crearono ipresupposti perché la società palestinese si ritrovasseassolutamente indifesa quando, nel 1947, i sionisti,sapendo che di lì a poco sarebbe terminato il mandatobritannico, avviarono le prime operazioni. Anche perquesto i palestinesi non furono in grado di opporsi, unanno dopo, alla pulizia etnica della Palestina.

FB:LasuaricercastoricahacontribuitoasfataremoltimitisuIsraele.UnodiquestiècheessosianatoperchénellaBibbiac’èscrittochedovevaesseredatoalpopoloebraico.PuòdirciqualcosasuTheodorHerzl,unodeifondatoridelsionismo?Herzlnonerareligiosoenonparlavaneanchel’yiddish.

IP: È così. Nel sionismo era insita una componentespesso trascurata dagli storici, ossia la volontà disecolarizzare la realtà ebraica. Se però l’obiettivo era lasecolarizzazione della religione ebraica, non si poteva poiricorrere alla Bibbia per giustificare l’occupazione dellaPalestina; uno strano guazzabuglio, che a me piacedefinire come “un movimento di persone che non credonoin Dio ma a cui Dio ha promesso la Palestina”. A mioavviso questa contraddizione è alla radice dei problemiinterni che affliggono la società ebraica israeliana ancoraoggi. Va inoltre precisato che prima ancora di Herzldiverse figure professavano il sionismo, e tuttaviariconoscevano la presenza dei palestinesi in Palestina.Costoro immaginavano un rapporto completamente

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diverso con la Palestina e soluzioni alternative alproblema dell’incolumità degli ebrei in Europa; tra questi,Ahad Ha’am (pseudonimo di Asher Ginzberg), per ilquale la Palestina sarebbe dovuta essere l’epicentrospirituale degli ebrei e questi, qualora si fossero sentitiminacciati in Europa, avrebbero dovuto trasferirsi al difuori del continente oppure insediarsi in società europeepiù sicure. Ma a sabotare questa visione ci pensarono isionisti cristiani – già all’epoca una comunità potente –,convinti com’erano che il ritorno degli ebrei in Palestinafacesse parte del disegno divino. I sionisti cristianivolevano il ritorno degli ebrei in Palestina in primo luogoperché ciò avrebbe accelerato la seconda venuta delMessia, e poi perché erano antisemiti. Insomma, “duepiccioni con una fava”, visto che si sarebbero ancheliberati della presenza degli ebrei in Europa. È importantecapire che cosa avvenne alla fine del XIX secolo, perché inquell’epoca un concorso di forze – l’imperialismobritannico, il sionismo cristiano e naturalmente ilnazionalismo ebraico – esercitò una pressione tale dalasciare ben poco margine d’azione ai palestinesi.

FB:Comeharicordatolei,nonvatrascuratoilruolodell’antisemitismo.Arileggerelelorodichiarazioni,LordBalfouremoltialtripoliticideltempovolevanogliebreiinPalestinaperchénonlivolevanonéinInghilterranéinnessunanazioneeuropea.Lastoriaèfondamentale.Abbiamoappenaparlatodelsapereedelmodoincuivienetrasmesso.Puòdirciinchemodolastoriaelacultura,seopportunamentetrasmesse,possonoemanciparelepersoneemagarianchefarprogredirelalotta?IP: Lo abbiamo già evidenziato. Senza una prospettiva

storica e la conoscenza dei fatti, si accoglierà l’immaginenegativa che gli israeliani e il mondo hanno deipalestinesi. Dal punto di vista degli israeliani e di alcuni

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paesi dell’Occidente, il cosiddetto terrorismo palestinesenasce dal nulla e ci si chiede perché quelle persone sianocosì violente, magari perché sono musulmani o perché faparte della loro cultura politica. Solo se si ha unacomprensione storica si può ribattere: «Un momento, io soda dove nasce la violenza, qual è la sua radice. Trasferirsicon la forza in casa d’altri è un atto di violenza. Forsehanno torto a reagire a loro volta con la violenza, o forseno, ma tutto è cominciato quando il loro spazio, il luogo incui vivono, è stato invaso. Quell’invasione presupponevache sarebbero stati espulsi... Che altro potevano fare?». Inprimo luogo, la dimensione storica serve a capire perchéil conflitto continua. In secondo luogo, da un punto di vistapolitico, non si riuscirà mai a modificare l’approccio allaquestione palestinese se non si spiega com’è statomanipolato il sapere; è importante, ad esempio, capirel’uso di espressioni come “processo di pace”, o ladiffusione da parte dei media di certe idee, ad esempioquella di Israele come “l’unica democrazia del MedioOriente”, o quella sull’”arretratezza palestinese” ecc.Questo lessico è uno strumento di manipolazione delsapere che serve a formare un punto di vista ben preciso ea impedire che venga alla ribalta un pensiero dissenziente.

Dunque il compito è duplice: si deve conoscere lastoria di quella terra, ma anche capire com’è stataelaborata quella narrazione e com’è stata strumentalizzata.Solo allora ci si può interrogare sui modi per contrastare

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questa spinta. Nucleo centrale della nuova narrazione,propagandato finora con successo dagli israeliani, è chequella terra, per quanto non deserta, era abitata da personeche non avevano con essa un vero legame e non eranoquindi legittimate a viverci. Prima non erano legittimateperché non se ne ammetteva la presenza fisica; poi perchéerano un po’ beduini, un po’ nomadi e quindi non avevanoun interesse reale a stare lì; poi perché erano violenti;infine, dopo l’11 settembre, perché sono musulmani. Ogniepoca ha le sue espressioni per convincere la gente chequalunque cosa facciano gli israeliani, giusta o sbagliatache sia, non fa differenza perché la controparte non èlegittimata a proporre alcunché, e dunque tutto dipendedalla generosità degli israeliani. Analizzando il linguaggiodei processi di pace a partire da Oslo – anche prima, inverità, ma da Oslo il fenomeno si è accentuato – si noteràche è tutto incentrato sulle concessioni di Israele. Laparola chiave è “concessione”: gli israeliani faranno delleconcessioni ai palestinesi e solo allora si aprirà unospiraglio per la pace. Ma con queste premesse non cipotrà mai essere alcuna riconciliazione: «Ho invaso la tuaabitazione, ma sono così generoso da concederti ditornare a prendere il divano per portartelo nella nuovacasa». Non è certo un dialogo che punta a risolvere unconflitto, anzi è quasi più umiliante dell’invasione stessa.

FB:Nonèforseverocheognistoricohailsuopuntodivista?Peresempio,com’èpossibilecheleieBennyMorris,purconcordandosuifattidel1947-

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48,giungiateaconclusionicompletamentedivergenti?Comeselospiega?

IP: Innanzitutto esiste un complesso di fatti che èdoveroso riconoscere, ed è positivo che proprio BennyMorris per primo abbia detto che bisogna smetterla conquest’assurdità che i palestinesi abbandonaronovolontariamente la Palestina nel 1948. In un primomomento il dibattito verteva proprio su com’erano andati ifatti: erano partiti volontariamente o erano stati espulsi?Ma non ha senso ormai discutere di questo; tanto più cheprima ancora che in Israele ci fossero degli storici veri sisapeva che i palestinesi venivano espulsi, solo che non sidava credito alle loro parole. Cinque milioni di profughicontinuavano a ripetere di essere stati espulsi, e noi ciostinavamo a non credere loro, per il solo fatto che eranopalestinesi. Quando poi gli storici israeliani hannocominciato a dire che avevano ragione perché c’erano idocumenti a confermarlo, allora d’un tratto i palestinesidicevano la verità. Sicuramente è un passo avanti; perònon contano soltanto i fatti, bensì l’insegnamento chepossiamo trarne, le nostre considerazioni. Ecco che allorail dibattito diventa morale e ideologico. Che gli storicidebbano occuparsi solo dei fatti e non delle loroimplicazioni è la pretestuosa premessa di molte opere,comprese quelle di Morris. Nel primo libro Morris lasciaintendere di essere un po’ dispiaciuto per le vicende del‘48, mentre nell’ultimo sembra rammaricarsi che gli

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israeliani non abbiano completato la pulizia etnica; eppurei fatti analizzati sono identici. Le vicende sono le stesse,ma i libri sono impostati in modo completamentedifferente: in uno rifiuta l’idea della pulizia etnica,nell’altro la approva, cioè non soltanto la giustifica da unpunto di vista storico, ma la appoggia proprio come unprogetto da perseguire.

FLORENTBARAT:Èarrivatoilmomentodiunpo’dimusica.Ilan,leihasceltoduebranidaascoltare.Puòpresentarciilprimoespiegarciperchélohascelto?

IP: È una canzone di Cat Stevens che si intitolaPeaceTrain. Ho sempre amato Cat Stevens; sono un figliodegli anni Settanta e lui è uno dei miei idoli musicali. Tral’altro ammiro molto la scelta coraggiosa di convertirsiall’Islam e di non farsi intimidire da come lo avrebberogiudicato; ci vedo una grande onestà intellettuale. Nonsono sicuro che in questa canzone Stevens volesse direciò che penso io, ma non importa! Per me riassume tuttoquello che ho sempre sognato io: un treno della pace cheferma in Israele e Palestina. Certo, bisogna vedere chi è ilconducente e chi sono i passeggeri. In uno dei mieiarticoli ho scritto che c’è una bella differenza tra un trenodella pace che ci porta tutti verso una destinazionemigliore – insomma, un processo di pace che ancora nonesiste – e uno che travolge tutti nella sua corsa verso lacosiddetta pace, ossia il processo di pace attuale. Eccoperché mi piace tanto quest’immagine.

FB:LeisiètrasferitoaExeter,nelRegnoUnito,nel2007,maritornaspessoinIsraele.Com’ècambiatoilpaesenegliultimianni?IP: Cambiare la società ebraica dall’interno è un

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compito improbo, perché sembra sempre più arroccatasulle sue posizioni. Più ci penso e più sono pessimistasulle possibilità di un cambiamento dall’interno. Tuttavia,alcuni giovani sembrano guardare alla realtà in mododiverso; sono pochi, ma non era mai successo in Israele.Anche se nell’immediato non s’intravede una maturazioneinterna, alcuni segnali fanno quindi sperare che, conun’opportuna pressione dall’esterno, ci sarà in futuro unacomunità di persone con cui costruire una società diversa.Raffrontando l’Israele di oggi con quello in cui sonocresciuto io, però, non posso fare a meno di notare unaderiva ancor più sciovinista, etnocentrica e intransigente;il che ci fa disperare di raggiungere la pace e lariconciliazione confidando esclusivamente in uncambiamento interno della società ebraica.

FB:Dovremmoquindiconcentrarelenostreenergiesullepressionidall’esterno,odobbiamocontinuareadialogarecongliisraelianipermodificareilloropuntodivista?IP: Se siamo qui a parlare di questi temi è perché la

macchina di distruzione sul territorio non si ferma mai;non possiamo permetterci il lusso di aspettare ancora. Iltempo non gioca a nostro favore, e mentre aspettiamo altrecose orrende accadono. Però sappiamo anche che c’è unarelazione tra ciò che accade e la consapevolezza da partedegli israeliani che un prezzo da pagare per le loro azionic’è: se non ci fosse, velocizzerebbero ancor di più ilprocesso di pulizia etnica. Bisogna quindi agire su duefronti: trovare subito un modo per fermare quel cheaccade nel presente e allo stesso tempo impedire che

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accada qualcos’altro in futuro. Ecco perché èindispensabile un modello di pressione dall’esterno.Rispetto alla società civile internazionale, il movimentoBDS fa del suo meglio, ma non può essere l’unico modelloe l’unica forza in campo. Servono altri due fattori perchéil processo abbia successo. Il primo riguarda il frontepalestinese: urge affrontare la questione dellarappresentanza e trovare una soluzione adeguata. Insecondo luogo, è necessario un sistema d’istruzione cheeduchi gli ebrei israeliani a immaginare una realtà nuova ei vantaggi che potrebbero derivarne. Se questi fattorifunzionano all’unisono, e se noi adottiamo un approccioolistico al tema della riconciliazione, allora le cosepossono effettivamente cambiare.

FLORENTBARAT:Aquestoproposito,nonsarebbepiùutileinsegnareinIsraeleinvececheall’estero?NonpotrebbeinsegnareinIsraelequellocheinsegnanelRegnoUnito?

IP: Non mi piacerebbe comunque insegnareall’università. Le università non sono il luogo più adattoper educare alle realtà della vita o per cambiare il puntodi vista delle persone. Ormai le università servono allacarriera, non al sapere e all’istruzione. In ogni caso, amodo mio insegno anche in Israele, con i miei articoli ocon le conferenze che mi lasciano tenere, non molte a direil vero; mi piacerebbe portare avanti questa attività. NelRegno Unito, invece, lavoro sulla questione dellapressione dall’esterno più che sull’istruzione. Perpromuovere la campagna di Boicottaggio, Disinvestimenti

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e Sanzioni occorre innanzitutto spiegare alle personeperché è necessaria, dare loro gli strumenti e ilbackground per comprenderla; insomma, legittimarla. Nonsi smette mai di essere educatori e attivisti; l’importante èconciliare l’attività di militanza con il processoeducativo. Né dobbiamo spazientirci se la gente noncapirà subito; dobbiamo invece avere pazienza e spiegarela nostra posizione più e più volte finché non saràcompresa.

FB:Miinteressamoltoiltemadellasolidarietà,ilsuoverosignificato.Checos’èlasolidarietàperinonpalestinesi?Conchisiamosolidali?ChecosasuccederebbesechirappresentaipalestinesidovessedeciderecheglivabeneunoStatosull’11percentodellaPalestinastoricaechequestoStatodev’essereneoliberistaecapitalista?Comepotreiesseresolidaleconquesto?

IP: Innanzitutto, la solidarietà è verso le vittime di unadeterminata politica e ideologia, anche se non hannorappresentanza. La solidarietà è verso coloro chesoffrono, e implica il sostegno ai loro tentativi di fuggireda quella sofferenza. Detto questo, il tuo è sicuramente uninterrogativo interessante. Penso che la solidarietà siacome una buona amicizia: puoi dire a un amico checapisci che cosa cerca di fare, ma che secondo te stasbagliando. Quando ci si ritrova tra persone che sonosolidali con il popolo palestinese ci possono essere dellediscussioni, perché alcuni ancora appoggiano il processodi pace e la soluzione a due Stati; è nostro dovere direanche a loro che a nostro avviso stanno sbagliando.D’altra parte, credo che l’ipotesi avanzata nella domanda

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sia irrealistica: nessun palestinese acconsentirebbe mai aquella soluzione. Se dovesse accadere, allora dovremmorivedere completamente la nostra idea di solidarietà. Delresto il dibattito scaturisce dalla situazione concreta, noninventiamo noi la realtà; quindi il confronto sullasoluzione a uno Stato o a due Stati, o su qualsiasi altrastrada scelgano i palestinesi, è legato al dibattito internotra i palestinesi, non nasce da nulla. Si tradirebbe ilconcetto stesso di solidarietà se non si esprimesse ilproprio pensiero sulla base dei temi in gioco; d’altrocanto mi rendo conto che c’è una posizione nazionalistasecondo cui non essendo noi palestinesi non abbiamo ildiritto di parlarne. I movimenti sono fatti di persone, e lepersone sono diverse l’una dall’altra; non tutti voglionogiocare secondo le stesse regole. Per me solidarietàsignifica anche mettersi d’accordo su ciò che è giusto osbagliato fare. Fino a che punto si possono coinvolgerepersone dall’esterno? Non c’è una risposta assoluta aquesta domanda. Di solito l’argomentazione per cui non sipuò difendere la soluzione a uno Stato se non si èpalestinesi o israeliani è usata per soffocare il dibattito.Ma non perderei troppo tempo su questo punto; qualunqueattivista sa cosa significa solidarietà e cosa essa ciautorizza a fare.

FB:Parliamodi“soluzioni”.Esisteancoraundibattitosuquesto?Perleistituzionieigoverni,l’unicasoluzionesultavolosembraesserequellaadueStati.QuandosiparladiStatounico,sivienebollaticomeutopistioppuresivieneaccusatidiesserecontrol’autodeterminazionedegliebrei.Persinoileaderpoliticipalestinesi,opresuntitali,malgradoquellocheancoraoggisuccedenelterritorio,continuanoadappoggiarelasoluzioneadueStati.Lasoluzionepiùrazionaleepiùumana,ossiaquellaaunoStato,nonvieneminimamentepresainconsiderazione,emenchemenoipassiconcretidafareperrealizzarla.

IP: Vi sono due fattori da considerare. Uno riguarda la

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rappresentatività palestinese. Le persone che si sonoaccreditate come rappresentanti dei palestinesi dellaCisgiordania hanno finito per rappresentare tutto il popolopalestinese. Dal punto di vista cisgiordano, si intuisceperché una soluzione a due Stati è allettante: perchéporrebbe fine al controllo militare sull’esistenza di quellagente. È una posizione comprensibile, se non fosse chetrascura gli altri palestinesi: i rifugiati, i palestinesi diGaza e quelli che vivono all’interno di Israele. Quindi,uno degli ostacoli è quindi che alcune comunitàpalestinesi credono, a torto, che la soluzione a due Statisia la strada più breve per fermare l’occupazione. Io lapenso diversamente: gli accordi di Oslo hanno favorito ilperpetuarsi dell’occupazione, non la sua fine. Il secondofattore ha a che fare con la logica interna alla soluzione adue Stati. Quest’ultima è un’idea dell’Occidente,un’invenzione colonialista applicata anche in India e inAfrica, ossia il concetto di partizione, mentre il mondonon occidentale è molto più olistico. Questa concezione èdiventata quasi una religione, al punto da non poter piùessere messa in discussione, e si cerca solo il modo perrealizzarla al meglio. Tante persone anche intelligenti nehanno fatto una religione della logica: se si mette indubbio la razionalità di quella scelta, si viene criticati.Ecco perché gli occidentali rimangono ancorati aquell’opzione. Nulla che possa accadere sul territorio liconvincerà mai del contrario. Invece hai ragione tu; basta

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rimanere cinque minuti in quella terra per capire che loStato unico esiste già. È un regime non democratico, unregime segregazionista, certo, ma allora si deve cambiarequel regime. Non c’è bisogno di aggrapparsi allasoluzione a due Stati; occorre invece trovare un modo permodificare le relazioni tra le comunità e influenzarel’attuale struttura di potere.

FB:Giusto.Quindiancheleisidomandacom’èpossibilechepersoneintelligentieragionevolisostenganoancoraoggichelasoluzioneadueStatièl’unica,inevitabilestradapercostruireunarealtàmigliore.Sonoandatoadiverseconferenzesuquestotema,maancoranonhocapitoperché.Comedovrebbefunzionarequestasoluzione?IP: Come ho già detto, ciò scaturisce dal modo

razionalista, tipicamente occidentale, di concepire larealtà. In base a questo criterio, si può appoggiare soltantociò che è concretamente realizzabile, non ciò a cui siaspira realmente: poiché in questo momento storico ilconsenso mondiale propende per la soluzione a due Stati,bisogna orientarsi in quella direzione. In questo modo,però, non se ne valuta la dimensione etica, nonostantequella scelta modificherà la realtà. Dire che si tratta diuna soluzione ragionevole non sta in piedi, perché inrealtà essa non ha nulla a che fare con il conflitto: servesoltanto a Israele per convincere il mondo di aver bisognodi tutto il territorio occupato nel 1967, e di essere tuttaviadisposto a concedere una qualche forma di autonomia aipalestinesi. È questo il tenore del dibattito in Israele, iprincipi non entrano proprio in ballo. La necessitàprimaria di Israele è sempre la stessa: il sostegnointernazionale. Israele ha bisogno che le sue politichesiano approvate dalla comunità internazionale. E per

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questo ha bisogno anche di una rappresentanzapalestinese. Nel 1993, l’OLP sorprese Israele quandodichiarò che si sarebbe accontentato di un’area autonomasu una piccola porzione della Cisgiordania e che il restopoteva rimanere agli israeliani. È questa la soluzione adue Stati che tutti ci vogliono convincere a considerarecome l’unica via d’uscita. Il punto è che nessunpalestinese l’accetterà mai, e quindi il conflitto continua.

FB:DieciannifamorivaEdwardSaid.InsiemeaMahmoudDarwish,fuunodeipensatoridiriferimentodeipalestinesi.Leicheloconoscevabenepuòdirciqualcosasudiluiesulruolochehaavuto?IP: Manca molto a tutti noi. Non è stato una fonte

d’ispirazione soltanto per i palestinesi, ma uno dei piùgrandi intellettuali del secondo Novecento. Tutti noi loconsideravamo un punto di riferimento, non solo sullaPalestina ma su questioni legate al sapere, all’etica,all’attivismo. Ci manca il suo approccio olistico, la suacapacità di osservare le cose dall’alto, con uno sguardounitario. Quando vengono a mancare questi punti diriferimento, si è tentati di pensare che quellaframmentazione che Israele vuole imporre ai palestinesisia l’unica realtà. Invece si deve superare laframmentazione intellettuale, fisica, culturale che Israeleimpone a tutti, ai palestinesi come agli ebrei, e sforzarsidi tornare a uno sguardo più organico e unitario, cosicchéla terza generazione di coloni ebraici e la popolazioneindigena della Palestina possano costruire un futuroinsieme.

FLORENTBARAT:L’ultimadomanda,Ilan.Stalavorandoaunnuovolibro?

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IP: In realtà ce n’è più d’uno. Il primo è uscitonell’inverno 2014 per l’editore Verso, con il titoloTheIdeaofIsrael, e verte sulla produzione del sapere inIsraele. Poi, nel 2015, è prevista la pubblicazione di unlibro sulla storia dell’occupazione della Cisgiordania; siintitolerà MegaPrisonofPalestine.

6 Conversazione tra Ilan Pappé, Frank Barat e il fratello Florent Barat,registrata il 20 ottobre 2013, poi riveduta e ridotta.

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6. Viaggio al centro degli Stati Uniti7FB: Qual è la definizione di negoziato nel linguaggio

israelo-statunitense e perché l’Autorità Palestinesecontinua a stare al gioco?

NC: Dal punto di vista degli USA, i negoziati sono ilmezzo con cui Israele può continuare a impadronirsi dialtre porzioni di territorio in Cisgiordania, tenere sottoassedio Gaza, separare quest’ultima dalla Cisgiordania e,naturalmente, occupare le alture del Golan, che sonosiriane; tutto questo, appunto, con il sostegno degli StatiUniti. Negli ultimi vent’anni, fin dall’esperienza di Oslo, inegoziati sono stati il paravento istituzionale dietro cuioccultare queste politiche.

FB: Perché l’Autorità Palestinese sta al gioco econtinua a partecipare ai negoziati?

NC: Probabilmente questo atteggiamento nasce in partedalla disperazione. Noi possiamo chiederci se sia unascelta opportuna, ma loro non hanno molte alternative.

FB: Dunque secondo lei accettano quel paravento perpoter sopravvivere?

NC: Se dovessero rifiutarsi di partecipare ai negoziatigestiti dagli USA non riceverebbero più alcun aiuto; non vadimenticato che i palestinesi vivono soprattutto didonazioni. Israele ha fatto in modo che l’economiapalestinese sia improduttiva. È una società che in yiddishsarebbe definita schnorrer [‘mendicante’]: continui aprendere in prestito e vivi alla meno peggio.

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Non è chiaro se abbiano un’alternativa, ma sedovessero respingere la richiesta di negoziato degli StatiUniti, pur con le sue inaccettabili condizioni, verrebberomeno i presupposti per continuare a ricevere aiuti. E ineffetti ne ricevono parecchi – dall’estero – tanto che leélite palestinesi vivono in modo dignitoso, anzi spesso nellusso, mentre la società attorno a loro collassa.

FB: Quindi, il crollo e la scomparsa dell’AutoritàPalestinese sarebbe un male oppure no?

NC: Dipende da che cosa dovrebbe sostituirla. Adesempio la liberazione di Marwan Barghuthi, come fu conMandela, probabilmente avrebbe un effetto rivitalizzantesulla società palestinese, che a quel punto potrebbeavanzare delle richieste più sostanziali. Ma lo ripeto, ipalestinesi non hanno molta scelta.

Le basi per gli accordi di Oslo furono gettate durante inegoziati della Conferenza di Madrid; all’epoca a guidarela delegazione palestinese era Haidar Abdel-Shafi, unnazionalista di sinistra molto stimato in Palestina. Eglirigettò le condizioni poste da Israele e Stati Uniti, basatesul principio che l’espansione degli insediamenti dovessecontinuare. Il suo rifiuto portò allo stallo dei negoziati.

A quel punto Arafat e i palestinesi stranieri rientraronoin scena con Oslo e assunsero il controllo, mentre HaidarAbdel-Shafi era talmente contrario a quel compromessoche non presenziò nemmeno all’inutile farsa in cui Clintonsorrideva mentre Arafat e Rabin si stringevano la mano.

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Abdel-Shafi non si presentò perché era convinto che ipalestinesi si stessero svendendo. Lui era un uomo diprincipi e proprio per questo non riuscì a concluderenulla. Né del resto concluderemo nulla noi fino a quandoci sarà il sostegno dell’Unione Europea, degli Stati delGolfo e, soprattutto, degli Stati Uniti.

FB: Secondo lei che cosa c’è realmente in gioco nelleattuali vicende della Siria, e che cosa comportano per laregione in generale?

NC: Be’, la Siria è condannata al suicidio. È una storiatremenda, e andrà sempre peggio. Non si vedono spiraglidi luce all’orizzonte. Se continuerà così, con ogniprobabilità la Siria finirà per essere ripartita in treregioni. Una sarebbe la regione curda, che di fatto si stagià formando e che potrebbe distaccarsi e aderire inqualche modo alla regione semiautonoma del Kurdistaniracheno, forse con qualche accordo di sorta con laTurchia.

Il resto del paese sarebbe suddiviso tra una regionedominata dal regime di Assad – un regime brutale,terrificante – e un’altra governata da milizie di variogenere, da quelle più estremiste e violente a quelle laichee democratiche.

Intanto Israele sta a guardare e si gode lo spettacolo.Anche agli Stati Uniti va bene così e non vogliono una

vera soluzione. Se USA e Israele volessero davveroaiutare i ribelli – ma così non è – potrebbero farlo, anche

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senza un intervento militare. Basterebbe ad esempio cheIsraele dispiegasse dei militari sulle alture del Golan –che sono siriane, ricordiamolo, anche se ormai il mondotollera o addirittura approva l’occupazione illegale diquell’area da parte di Israele – per costringere Assad aspostare dei contingenti al sud, il che alleggerirebbe lepressioni sui ribelli. Ma non ne ha la minima intenzione;come del resto non sta prestando aiuto umanitario allamassa di profughi disperati. Non fa nulla di quello chepotrebbe fare.

Da ciò si evince che agli Stati Uniti e a Israele vabenissimo quel che accade, e nel frattempo Israele puòfregiarsi di essere una “villa nella giungla”. Su «Haaretz»è uscito un interessante articolo in cui il direttore AlufBenn racconta degli israeliani che vanno in spiaggia e sidivertono, fieri di essere una “villa nella giungla”, mentrele bestie feroci là fuori si fanno a pezzi. E naturalmente inquesto quadretto Israele non fa nient’altro che difendersi.Agli israeliani piace questa situazione e neanche agli StatiUniti sembra dispiacere. Il resto è un gioco di ombre.

FB: Che cosa ne pensa dell’eventualità di un attaccostatunitense? Secondo lei ci sarà?

NC: Un bombardamento?FB: Sì.NC: Negli Stati Uniti è in corso un dibattito. L’estrema

destra, che in un certo senso si chiama fuori dall’arcopolitico internazionale, è contraria all’attacco, anche se

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per ragioni che a me non piacciono. Si oppone perché nonvuole sprecare le risorse americane per risolvere iproblemi degli altri. L’interrogativo per l’estrema destrapiù o meno è questo: «Chi difende noi quando ciattaccano, visto che andiamo ad aiutare delle popolazionidall’altra parte del mondo?». Quanto alla destra“moderata”, basta leggere quel che scrive sul «New YorkTimes» David Brooks, un punto di riferimento intellettualedella destra. A suo dire, il ritiro dei contingenti USA dallaregione non sta sortendo quell’”effetto moderatore” che siauspicava. Secondo Brooks, la presenza militarestatunitense avrebbe quindi un effetto moderatore: bastaguardare l’Iraq per accorgersi di quanto sta migliorandola situazione. Se invece ritiriamo i soldati non potremopiù moderare e migliorare la situazione.

È questa l’opinione dominante, dagli intellettuali didestra ai media tradizionali, ai democratici liberali, che sidomandano se anche in questo caso gli USA debbanoassolvere il loro “dovere di proteggere”. Ma analizziamoquesto concetto: il solo fatto di averlo concepito ci dicemolto sull’universo morale e intellettuale degli Stati Uniti,e in realtà di tutto l’Occidente.

Va peraltro precisato che il “dovere di proteggere” èun’evidente violazione del diritto internazionale. L’ultimauscita di Obama è che non è stato lui a fissare la “linearossa” rispetto alla Siria, bensì la comunitàinternazionale, mediante le diverse convenzioni in materia

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di guerra chimica. In effetti la comunità internazionale untrattato ce l’ha, ed è quello che Israele non ha firmato eche gli Stati Uniti hanno sempre ignorato, ad esempioquando approvarono l’uso terribile che Saddam Husseinfece delle armi chimiche. Poi le armi chimiche sono stateusate come capo d’accusa contro lo stesso Saddam,dimenticando che il loro uso fu non soltanto tollerato maaddirittura incoraggiato dall’amministrazione Reagan.Ovviamente, quella convenzione non prevede nessunmeccanismo di attuazione.

Né vi è contenuto il “dovere di proteggere”, che è unaimpostura inventata dagli intellettuali occidentali. In realtàil principio esiste, anzi, ce ne sono due. Uno è quellosancito dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ilquale parla, sì, del “dovere di proteggere”, ma nonautorizza alcun tipo d’intervento che non segua le espliciteprescrizioni dello Statuto delle Nazioni Unite. Poi neesiste un’altra versione, adottata solo dall’Occidente, cioèdagli USA e dai suoi alleati, che si basa sul principio diunilateralità e dice in sostanza che il «dovere diproteggere» contempla «l’intervento militare delleorganizzazioni regionali nella regione di loro competenzasenza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza».Tradotto, significa che autorizza gli USA e la NATO aesercitare la violenza dovunque vogliono senzal’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Questo è ilsignificato del “dovere di proteggere” nel lessico

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occidentale. Se non fosse tragico, sarebbe comico.7 Intervento tratto dalla conversazione tra Noam Chomsky e Frank Barat

del 6 settembre 2013, poi pubblicato per la prima volta sulla rivista «Ceasefire»,7 settembre 2013.

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PARTE SECONDARiflessioni

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7. I tormenti di Gaza, i criminidi Israele, le nostre colpe8

diNoamChomskyAlle tre del mattino, ora di Gaza, del 9 luglio 2014,

mentre era in atto l’ennesima prova di ferocia di Israele,ricevetti una telefonata da un giovane giornalista di Gaza.Sentivo il pianto del figlio appena nato e il rumore dellebombe e degli aerei che colpivano abitazioni e civili. Ilmio interlocutore aveva appena visto un suo amico saltarein aria mentre si trovava in un’auto contrassegnatachiaramente con la scritta “stampa”. Sentiva le urla nellacasa accanto dopo un’esplosione, ma non poteva uscirealtrimenti avrebbero colpito anche lui. Era una zonatranquilla, non c’erano obiettivi militari; solo civilipalestinesi, che ormai sono un facile bersaglio per lasofisticata macchina militare israeliana, ovviamenterifornita dagli USA. Il giornalista mi spiegò che era statodistrutto il 70 percento delle ambulanze, che più disettanta persone erano state ammazzate e ne erano stateferite trecento, di cui due terzi donne e bambini, mentreerano stati colpiti pochi militanti di Hamas e qualche sitodi lancio dei razzi. Insomma, le vittime di sempre.

Va però raccontato com’è la vita a Gaza quando Israele“non agisce”, ossia nei periodi di tregua tra le crisi createad arte, come in questo caso. Un’idea ce la dà il rapportodell’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso

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e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi nel VicinoOriente) redatto da Mads Gilbert, il bravo e coraggiosomedico norvegese che ha lavorato per lunghi periodi aGaza, anche durante la feroce e sanguinosa operazione“Piombo Fuso”. Stando a quanto si legge, la situazione èdisastrosa da tutti i punti di vista. Gilbert riferisce: «Ibambini palestinesi di Gaza soffrono immensamente.Un’alta percentuale è affetta da malnutrizione, provocatadal blocco imposto da Israele. L’anemia tra i bambiniinferiori a due anni ha un’incidenza del 72,8 percento,mentre perdita di peso, deperimento e arresto dellacrescita si attestano rispettivamente al 31,45 percento, al34,3 percento e al 31,4 percento». Il rapporto continuacon dati ancora più inquietanti.

Quando Israele “si comporta bene”, in mediarimangono uccisi oltre due bambini palestinesi allasettimana: uno schema che si ripete da più di quattordicianni. La causa primaria di tutto questo è l’occupazionecriminale di Gaza e le politiche pensate deliberatamenteper ridurre la vita dei palestinesi a mera sopravvivenza,mentre in Cisgiordania la popolazione è confinata incantoni invivibili e Israele si prende tutta la terra chevuole, in totale spregio del diritto internazionale e delleesplicite disposizioni del Consiglio di Sicurezza, oltreche, ovviamente, della decenza. Israele continuerà acomportarsi così fino a quando ci sarà Washington adaiutarlo e l’Europa a tollerare la situazione, per nostra

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eterna vergogna.8 Pubblicato per la prima volta il 12 luglio 2014 sulla rivista «Z»

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8. Breve storia del genocidioprogressivo di Israele9

di Ilan PappéIn un articolo pubblicato nel settembre del 2006 per

«The Electronic Intifada», definii la strategia israeliananella Striscia di Gaza come un genocidio progressivo.

L’offensiva del 2014 dimostra purtroppo che quellapolitica continua indisturbata. L’espressione “genocidioprogressivo” serve a inquadrare le barbarie israeliane –passate e presenti – in un contesto storico più ampio.

Il popolo di Gaza e di altre aree della Palestina èdeluso dall’assenza di un’incisiva risposta internazionalealla morte e alla devastazione che l’operazione israelianaha lasciato dietro di sé nella Striscia di Gaza, ma Israeleha elaborato una narrazione convincente per giustificarequel massacro: è una tragedia causata da un attaccomissilistico, non provocato, di Hamas contro lo Statoebraico; un’aggressione alla quale Israele aveva il doveredi reagire per legittima difesa.

Pur avendo delle riserve sull’uso sproporzionato dellaforza da parte di Israele, il mondo mediatico, accademicoe politico occidentale accetta il principio di fondo diquella argomentazione. La propaganda israeliana è invecerigettata dal cyberattivismo e dai media alternativi, checondannano unanimemente questa offensiva definendola uncrimine di guerra.

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La differenza fondamentale tra questi due approcci (unod’alto e l’altro dalla base) sta nella maggiore volontàdegli attivisti di capire il contesto ideologico e storicodelle operazioni compiute oggi a Gaza. Dallacontestualizzazione storica degli attacchi del 2006 e del2014 si evince chiaramente la politica genocidiale attuataa Gaza, ossia una strage progressiva che più che ilprodotto di singoli atti di ferocia è il risultato inevitabiledella strategia complessiva di Israele in tutta la Palestinain generale, e nei territori occupati nel 1967 inparticolare.

Occorre insistere sul contesto, a maggior ragioneperché la macchina propagandistica israeliana tendesempre a spiegare le sue politiche decontestualizzandole eadopera lo stesso pretesto delle precedenti devastazioniper giustificare ogni nuovo massacro compiuto nei campidi sterminio della Palestina.

La tattica sionista di spacciare le brutali offensive perrisposte mirate contro determinate azioni palestinesi èantica quanto la presenza dei sionisti stessi in Palestina.Questa è la scusa usata da sempre per giustificare delleoperazioni che servono invece a realizzare il sognosionista di una Palestina senza palestinesi, o con unnumero molto esiguo.

I mezzi per raggiungere questo fine sono cambiati neglianni ma la formula è rimasta la stessa: quale che sia lavisione sionista dello Stato ebraico, si può concretizzare

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soltanto se non ci sono troppi palestinesi in giro. Laversione moderna di quel sogno prevede che Israele siestenda su quasi tutta la Palestina storica, in cui vivonoancora milioni di palestinesi.

L’attuale ondata genocidiale, come le precedenti, haanche un obiettivo più immediato: sabotare la scelta deipalestinesi di formare un governo di unità nazionale, alquale neanche gli Stati Uniti possano opporsi.

Il fallimento dell’iniziativa “di pace” del segretario diStato USA John Kerry ha legittimato i palestinesi arivolgere un appello agli organismi internazionali affinchéfermino l’occupazione. Non solo: un ampio placetinternazionale è stato accordato al governo di unità, chedovrebbe servire a elaborare una nuova strategiacoordinata tra le varie formazioni palestinesi.

Israele ha sempre fatto di tutto pur di non concedere lacittadinanza, con i relativi diritti, alla popolazioneindigena dei territori occupati nel giugno del 1967. Nelfrattempo, però, ha partecipato alla messinscena del“processo di pace” per occultare la colonizzazioneunilaterale e guadagnare tempo per espanderla ancora dipiù.

Negli ultimi decenni Israele ha differenziato le aree sucui voleva mantenere il controllo diretto da quelle cheavrebbe gestito indirettamente, con l’obiettivo a lungotermine di ridimensionare il più possibile la popolazionepalestinese mediante la pulizia etnica e lo strangolamento

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economico e geografico. Così la Cisgiordania è statasuddivisa, di fatto, in zone “ebraiche” e zone“palestinesi”: una situazione accettabile per gli israelianifintanto che gli abitanti dei bantustan palestinesi non siribellano al confinamento in queste megaprigioni. Data lacollocazione geopolitica della Cisgiordania,l’impressione – quantomeno degli israeliani – è che lasituazione possa rimanere inalterata senza che vi sia unaterza rivolta né troppo sdegno da parte della comunitàinternazionale.

Per via della sua straordinaria collocazionegeopolitica, nella Striscia di Gaza non è altrettanto facileattuare questa strategia. Dal 1994, e soprattutto quandoAriel Sharon divenne primo ministro nei primi anni delXXI secolo, la strategia in quell’area è stata quindi direndere Gaza un ghetto, nella speranza che i suoi abitanti –ad oggi circa 1,8 milioni – cadessero nel più completooblio.

Tuttavia, venne fuori che il ghetto non era per nulladisposto ad accettare lo strangolamento, l’isolamento, lafame e il collasso economico. Né ci fu verso di farloannettere all’Egitto, né nel 1948 né tantomeno nel 2014.Nel 1948 Israele aveva fatto confluire a Gaza (prima chediventasse una striscia), centinaia di migliaia di rifugiatiespulsi dal Naqab settentrionale e dalla costameridionale, nella speranza che questi si decidessero adandare via dalla Palestina.

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Per un po’, dopo il 1967, Israele provò a tenere laCisgiordania come un unico distretto che fornivamanodopera non qualificata, priva però di diritti umani ecivili; ma quando il popolo sotto occupazione si ribellòall’oppressione, con la prima e la seconda Intifada, allorala suddivise in piccoli bantustan accerchiati dalle colonieebraiche. Questa strategia non poteva funzionare nellaStriscia di Gaza, troppo piccola e densamente popolata;gli israeliani, insomma, non riuscirono ad applicare ilmodello “Cisgiordania” alla Striscia di Gaza. Cosìdecisero di recintarla come un ghetto, e quando lapopolazione si ribellò l’esercito fu autorizzato a usare learmi più letali per sedare le rivolte. L’esito inevitabile delconcatenarsi di reazioni così violente è il genocidio.

Il 15 maggio 2014, le forze israeliane hanno ucciso dueragazzi palestinesi nella città cisgiordana di Beitunia;quell’omicidio a sangue freddo da parte dei cecchini èstato immortalato in un video. I loro nomi – NadimNuwara e Muhammad Abu al-Thahir – si aggiungono allalunga lista di morti degli ultimi mesi e anni.

Nel giugno successivo tre adolescenti israeliani, di cuidue minorenni, sono stati rapiti e poi ammazzati inCisgiordania, forse come rappresaglia per l’uccisione dibambini palestinesi. Malgrado tutte le aggressioni delregime di occupazione, quell’episodio è bastato comepretesto per distruggere la fragile unità che andavacostruendosi in Cisgiordania anche grazie alla decisione

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dell’Autorità Palestinese di rinunciare al “processo dipace” e chiedere agli organismi internazionali digiudicare Israele secondo il criterio del rispetto dei dirittiumani e civili. Questi due fatti avevano infatti destatoallarme in Israele.

Il rapimento e l’assassinio dei tre ragazzi hanno fornitoanche l’appiglio per realizzare il vecchio sogno dispazzare via Hamas da Gaza, in modo da far stare dinuovo tranquillo il ghetto.

Sin dal 1994, prima ancora dell’ascesa al potere diHamas, gli israeliani avevano capito che, data laparticolare posizione geopolitica della Striscia, l’unicomezzo per una punizione collettiva (come quella inflittanel 2014) sarebbe stato ricorrere a stragi e devastazioniindiscriminate: in altre parole, a un genocidio costante.

Questa terribile consapevolezza non ha mai impedito aigenerali al comando di ordinare i bombardamenti sullapopolazione da terra, dal mare e dal cielo. In fondo,ridimensionare il numero di palestinesi nella Palestinastorica rimane tuttora il sogno sionista. E a Gaza questoobiettivo viene perseguito nei modi più disumani.

Questa nuova ondata genocidiale, come quelle passate,presenta alcuni fattori specifici. In Israele covano ancorale rivolte interne scoppiate nel 2011, con la popolazioneche chiedeva il taglio delle spese militari per dirottare isoldi dall’enorme bilancio per la “difesa” ai servizisociali. Secondo l’esercito un’eventualità del genere

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sarebbe suicida; non c’è niente di meglio, quindi, diun’operazione militare per mettere a tacere le voci chechiedono al governo di tagliare la spesa militare.

Tutti i tratti presenti nelle precedenti tappe delgenocidio progressivo compaiono anche in questa nuovaoffensiva. Ancora una volta, ad esempio, si deve tenerconto del consenso pressoché unanime degli ebreiisraeliani al massacro di civili nella Striscia di Gaza,senza voci dissenzienti di rilievo. Quei pochi che hannoosato protestare a Tel Aviv sono stati picchiati daglihooligan ebraici, con la polizia che stava a guardare.

Il mondo accademico, come sempre, è una ruotadell’ingranaggio. L’Interdisciplinary Center Herzliya, unaprestigiosa università privata, ha istituito un “quartiergenerale per i civili” dove gli studenti possonopresentarsi per andare a lavorare all’estero comevolontari nelle campagne di propaganda, e diversi altriistituti offrono allo Stato l’aiuto dei loro studenti perdiffondere la narrazione israeliana nel cyberspazio e suimedia alternativi.

Anche i media israeliani si sono schierati dalla partedel governo, scegliendo di non pubblicare le immaginidella catastrofe umanitaria provocata da Israele einformando i lettori che questa volta «il mondo ci capiscee ci appoggia». Un’affermazione verissima, visto che ivertici politici dell’Occidente continuano a garantire alloStato ebraico l’immunità di sempre; la richiesta dei

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governi occidentali al procuratore della CorteInternazionale di Giustizia dell’Aia di non indagare suicrimini israeliani a Gaza ne è un esempio lampante.Moltissimi media occidentali si sono allineati a questaposizione e hanno giustificato le azioni israeliane,comprese le testate francesi – in particolare France 24 – ela BBC, che continuano colpevolmente a divulgare lapropaganda israeliana. Del resto non c’è da stupirsi, vistoil lavoro indefesso delle lobby filoisraeliane per perorarela causa israeliana in Francia e nel resto d’Europa, oltreche, ovviamente, negli Stati Uniti.

La copertura distorta dell’offensiva israeliana sullastampa è dovuta anche alla percezione, ormai diffusa tra igiornalisti occidentali, che le vicende di Gaza siano nullain confronto alle atrocità in Iraq e in Siria. Sono raffrontifatti senza tenere nella dovuta considerazione laprospettiva storica, quando invece sarebbe opportunoallargare lo sguardo sulla storia palestinese perconfrontare in modo corretto le sofferenze di quella terracon i massacri che avvengono in altre regioni.

Tuttavia, non è necessaria soltanto la visione storicaper comprendere appieno il massacro di Gaza; serveanche un approccio dialettico per individuare il nesso tral’immunità di Israele e le orribili vicende delle altre aree.La disumanizzazione in Iraq e in Siria, ad esempio, èaltrettanto diffusa e terribile di quella di Gaza, ma c’è unadifferenza fondamentale tra quei casi e le violenze

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israeliane: i primi sono giudicati barbari e inumani datutto il mondo, mentre le seconde sono ancora autorizzatee approvate pubblicamente dal presidente degli StatiUniti, dai leader dell’Unione Europea e da tutti gli amicidi Israele sparsi per il mondo.

Far bruciare vivo un giovane palestinese diGerusalemme, ucciderne altri due per puro divertimento aBeitunia o massacrare intere famiglie a Gaza: sono attiche possono essere compiuti soltanto se le vittimevengono disumanizzate. L’unica chance per contrastare ilsionismo in Palestina è quindi una campagna per i dirittiumani e civili che non faccia distinguo tra una violazionee l’altra, ma che allo stesso tempo indichi con precisionevittima e carnefice.

Tutti dovrebbero essere giudicati secondo un unicocriterio etico e morale: gli arabi per le efferatezze aidanni di minoranze oppresse e comunità inermi, così comegli israeliani per i crimini contro il popolo palestinese.Sono tutti criminali di guerra, per quanto in Palestinasiano all’opera da molto più tempo. Non importal’identità religiosa di chi compie quelle atrocità o in nomedi quale religione costoro pretendono di parlare: sianojihadisti, giudaici o sionisti, devono essere trattati tuttiallo stesso modo.

Se il mondo la smettesse di usare due pesi e due misurenei rapporti con Israele, potrebbe rispondere in modo piùefficace ai crimini di guerra commessi in ogni parte del

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pianeta.L’unico modo per rendere davvero incisivo l’intervento

internazionale nel Medio Oriente è porre fine al genocidioprogressivo di Gaza e restituire ai palestinesi, dovunqueessi siano, i loro fondamentali diritti umani e civili.

9 Questo intervento è una sintesi degli articoli “Israel’s IncrementalGenocide in the Gaza Ghetto”, pubblicato il 13 luglio 2014 su «The ElectronicIntifada», e “The Historical Perspective of the 2014 Gaza Massacre”,pubblicato il 23 agosto 2014 su «Information Clearing House».

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9. Incubo a Gaza10diNoamChomsky

L’obiettivo dell’ultima, feroce offensiva israelianacontro Gaza è semplice: la “quiete in cambio di quiete”,ossia il ritorno alla norma.

In Cisgiordania, la norma è che Israele costruiscaillegalmente nuovi insediamenti e infrastrutture in mododa inglobare tutto quello che ritiene di valore,condannando così i palestinesi a rimanere in cantoniinvivibili e a subire repressioni e violenze.

A Gaza, invece, la norma è un’esistenza miserabile inun crudele e devastante stadio d’assedio, gestito daIsraele in modo da garantire la mera sopravvivenza enulla più.

Da quattordici anni, la norma è che Israele uccide inmedia oltre due bambini palestinesi alla settimana.

A scatenare l’ultima barbarie di Israele è stato ilbrutale assassinio di tre adolescenti israeliani in unacomunità di coloni nella Cisgiordania occupata. Un meseprima due ragazzi palestinesi erano stati uccisi nei pressidi Ramallah, sempre in Cisgiordania, ma la vicenda avevaattirato scarsa attenzione, il che è comprensibile visto chelì si tratta di ordinaria amministrazione.

Come ha scritto l’analista del Medio Oriente MouinRabbani, «l’indifferenza sistematica dell’Occidente allecondizioni di vita in Palestina spiega non soltanto il

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ricorso alla violenza dei palestinesi, ma anche il recenteattacco di Israele nella Striscia di Gaza».

Grazie alla strategia “quiete in cambio di quiete”Israele può inoltre portare avanti il progetto diseparazione di Gaza dalla Cisgiordania; un progettoperseguito con costanza, e con l’aiuto degli USA, anchedopo la firma degli accordi di Oslo, nonostante essidicessero chiaro e tondo che le due regioni costituisconoun’unità territoriale inseparabile. Guardando la cartageografica si comprende la logica di quel progetto: Gazagarantisce alla Palestina l’unico accesso al mondo esternocosicché, una volta che i due territori fossero separati, ipalestinesi cisgiordani rimarrebbero imprigionati tra dueStati ostili, ossia Israele e Giordania, indipendentementeda un’eventuale concessione di autonomia allaCisgiordania. Quel carcere diventerà ancor più soffocantecon il progredire del progetto israeliano di nuoviinsediamenti nella valle del Giordano e la conseguenteespulsione dei palestinesi da quell’area.

La “norma” di Gaza è ben illustrata dall’eroico mediconorvegese Mads Gilbert, che ha lavorato nell’ospedaleprincipale di Gaza nei momenti più atroci delleoperazioni israeliane, e vi è ritornato anche durantel’ultima offensiva. Nel giugno del 2014 Gilbert haconsegnato all’UNRWA – l’agenzia delle Nazioni Unite checerca disperatamente, con un budget risicato, di prendersicura dei profughi – un rapporto sulle condizioni sanitarie

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di Gaza.«Almeno il 57 percento delle famiglie di Gaza – si

legge nel rapporto – non ha accesso regolare al cibo ecirca l’80 percento riceve aiuti». Ancora: «A causa dellamancanza di un’alimentazione regolare e dell’aumentodella povertà, moltissimi residenti non hanno il necessarioapporto calorico giornaliero, mentre oltre il 90 percentodell’acqua è risultata non adatta al consumo umano».Questa situazione è aggravata dagli attacchi israeliani alsistema idrico e fognario, che privano 1,2 milioni dipersone anche dei servizi più elementari.

L’avvocato per i diritti umani Raji Sourani, che inquesti anni di ferocia e terrore di matrice israeliana èsempre rimasto a Gaza, ha dichiarato in un’intervista:«Quando nomini il cessate il fuoco, la cosa che ti sentirispondere più spesso è: “Per noi è meglio morire chetornare alle condizioni in cui ci trovavamo prima dellaguerra. Non vogliamo più vivere così, abbiamo perso ladignità e l’orgoglio. Siamo soltanto dei facili bersagliormai. O la situazione migliora davvero, oppure è megliomorire”». Sourani poi spiega: «A pensarla così non èsoltanto la gente comune, ma anche gli intellettuali, gliaccademici. È così per tutti».

Non è certo la prima volta che sentiamo esprimere unsentimento del genere: meglio morire con dignità cheessere soffocati lentamente dal torturatore.

Fu Dov Weisglass, fido consigliere di Ariel Sharon e

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responsabile dei negoziati per il ritiro dei coloniisraeliani da Gaza nel 2005, a chiarire come funziona la“norma” a Gaza. Accolto come un gesto nobile in Israele,e dagli accoliti e gli illusi di altre nazioni, quel ritiro erain realtà la messinscena di un “trauma nazionale”organizzata a bella posta, e giustamente ridicolizzata daicommentatori israeliani ben informati, tra cui il piùautorevole sociologo israeliano, il defunto BaruchKimmerling.

La verità è che i falchi israeliani, guidati da Sharon,avevano già deciso che sarebbe stato meglio trasferire icoloni illegali dalle comunità, finanziate dallo Stato, chesorgevano in una Gaza ormai devastata negli insediamentidi altri territori occupati, su cui invece Israele volevamantenere il controllo. Invece di limitarsi a trasferirli,come sarebbe stato più semplice, gli israeliani pensaronoquindi che sarebbe stato più d’effetto mostrare al mondole immagini di bimbi che imploravano i soldati di nondistruggere le loro case, mentre la gente urlava «Mai più».A rendere ancor più evidente che si trattava di una farsa èil fatto che in realtà era una replica dello stesso traumamesso in scena quando Israele dovette evacuare il Sinaiegiziano nel 1982. Ma fu recitato con maestria a beneficiodel pubblico straniero.

Weisglass spiegò così il trasferimento dei coloni daGaza: «Con gli americani ci siamo messi d’accordo che iprincipali insediamenti della Cisgiordania non saranno

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sgomberati, e il resto non sarà ceduto a meno che ipalestinesi non diventino come i finlandesi». Deifinlandesi un po’ speciali, però, perché dovrebberoaccettare il governo di una potenza straniera. «Il senso delritiro è il congelamento del processo politico», continuaWeisglass. «Congelando quel processo si evita la nascitadi uno Stato palestinese e tutte le discussioni sui profughi,i confini e Gerusalemme. In questo modo, l’interopacchetto dello “Stato palestinese”, con quello che c’èdentro, viene rimosso a tempo indeterminato dall’agenda,per di più con l’autorizzazione di George Bush e laratifica dei due rami del Congresso».

Weisglass precisò che gli israeliani avrebbero messo«a dieta» gli abitanti di Gaza, ma «senza farli morire difame»; un’uscita che certo non giova alla già discutibilereputazione di Israele. Gli esperti israeliani, grazie al lorofamoso efficientismo, davvero calcolarono con precisionele calorie giornaliere necessarie agli abitanti di Gaza persopravvivere, mentre intanto li si privava di medicine,materiali edili e altre cose indispensabili per costruirsiuna vita dignitosa. Le forze militari israeliane liconfinarono – via aria, mare e terra – in quello che ilpremier britannico David Cameron ha giustamente definitoun campo di prigionia. Proprio grazie al ritiro, Israele hacosì assunto il pieno controllo su Gaza, diventando unapotenza occupante secondo i principi del dirittointernazionale.

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La versione ufficiale è che, dopo il generoso dono diGaza da parte di Israele (nella speranza che vi nascesseun florido Stato), i palestinesi hanno rivelato la loro veranatura con le continue aggressioni missilistiche contro gliisraeliani e con la pretesa di far diventare dei martiri lepersone ivi prigioniere, mettendo per di più in cattiva luceIsraele per non aver saputo prevedere per tempo questoscenario. La realtà, ovviamente, è completamente diversa.

Nel gennaio del 2006, i palestinesi commisero poi uncrimine gravissimo: alle elezioni, monitorate conattenzione e ritenute regolari, votarono dalla partesbagliata consegnando il Parlamento nelle mani di Hamas.I media non fanno che ripetere che il fine ultimo di Hamasè la distruzione di Israele. In realtà, i suoi leader hannodichiarato più volte di essere disposti ad accettare unaccordo a due Stati, allineandosi così alla posizione dellacomunità internazionale, di fatto ostacolata perquarant’anni da Stati Uniti e Israele. A parte qualchevacua dichiarazione rilasciata di tanto in tanto, è Israelead avere come fine ultimo la distruzione della Palestina, elo persegue con costanza.

Certo, Israele accettò la roadmap per la soluzione a dueStati avviata dal presidente George W. Bush e poi presa incarico dal Quartetto che aveva il compito di monitorarla,ossia Stati Uniti, Unione Europea, Nazioni Unite e Russia;ma l’allora premier Sharon, pur acconsentendo a quelnegoziato, vi aggiunse quattordici condizioni che di fatto

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lo vanificavano. Erano fatti già noti agli attivisti, marivelati all’opinione pubblica per la prima volta da JimmyCarter nel libro del 2006 intitolatoPalestine:PeaceNotApartheid. Ancora oggi quei fatti nontrovano spazio negli articoli di cronisti ed editorialisti.

Nel programma elettorale del 1999 (mai abiurato) delpartito uscente, il Likud di Benjamin Netanyahu, sileggeva che il partito «rifiuta la nascita di uno Stato arabopalestinese a ovest del fiume Giordano». E quelli cheamano spulciare tra inutili statuti forse vorranno sapereche lo zoccolo duro del Likud, ossia il vecchio partitoHerut di Menachem Begin, non ha mai rinunciato alladottrina secondo cui il territorio su entrambe le spondedel Giordano fa parte della Terra d’Israele.

Il crimine commesso dai palestinesi nel gennaio del2006 fu subito punito: gli Stati Uniti e Israele, conl’Europa vergognosamente al rimorchio, imposerosanzioni durissime alla popolazione colpevole, e ilgoverno israeliano innalzò il livello della violenza. Nonsolo: USA e Israele pianificarono immediatamente ungolpe militare per rovesciare il governo regolarmenteeletto. E quando Hamas ebbe l’impudenza di sventare quelpiano, gli attacchi e l’assedio israeliani divennero ancorapiù spietati.

Non credo ci sia bisogno di ripercorrere nuovamente ifatti vergognosi che si sono succeduti da allora. L’assedioe le implacabili offensive sono intervallati da periodi in

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cui “si falcia il prato”, per usare la simpatica espressionecon cui gli israeliani definiscono le azioni periodiche incui sparano alle persone come fossero birilli, che peròper loro rientrano nella “guerra difensiva”.

Una volta che il prato è falciato e la popolazionedisperata cerca di riprendersi in qualche modo dalladevastazione e dagli assassini, ci si accorda per uncessate il fuoco. L’ultimo è stato stabilito dopol’aggressione dell’ottobre del 2012, denominataoperazione “Pilastro di Difesa”. Sebbene Israele abbiamantenuto l’assedio, Hamas ha rispettato il cessate ilfuoco, come ammesso dagli stessi israeliani. Le cose sonoprecipitate ad aprile del 2014, quando Fatah e Hamashanno stretto un accordo di unità per formare un governotecnico non riconducibile a nessun partito.

Ovviamente l’accordo ha fatto infuriare gli israeliani,anche perché persino l’amministrazione Obama haespresso la sua approvazione, allineandosi al restodell’Occidente. L’accordo di unità non soltanto disinnescal’argomentazione di Israele di non poter negoziare con unaPalestina spaccata, ma mina anche l’obiettivo finale diseparare Gaza dalla Cisgiordania e perseguire i suoiprogetti devastanti in entrambe le regioni.

Qualcosa andava fatto, e l’occasione si è presentata il12 giugno, quando sono stati uccisi quei tre ragazziisraeliani in Cisgiordania. Il governo Netanyahu sapevache erano già morti, ma ha fatto finta di niente per avere

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l’opportunità di lanciare un attacco in Cisgiordania controHamas. Il premier ha poi dichiarato che le informazioni insuo possesso indicavano Hamas come responsabile.Anche questa era una menzogna.

Uno dei maggiori esperti di Hamas, il giornalistaisraeliano Shlomi Eldar, ha scritto quasi subito che gliassassini provenivano con ogni probabilità da un clandissidente di Hebron, da tempo una spina nel fianco diHamas. Così scrive Eldar: «Sono sicuro che non abbianoricevuto il via libera dai vertici di Hamas; hanno solopensato che fosse arrivato il momento di agire».

L’offensiva israeliana dopo il rapimento è duratadiciotto giorni ed è riuscita a logorare il governo di unitàtanto temuto, oltre che intensificare le azioni repressive diIsraele. Stando ad alcune fonti militari israeliane, i soldatihanno arrestato 419 palestinesi, tra cui 335 affiliati aHamas, e ne hanno uccisi altri sei, rastrellando inoltremigliaia di siti e confiscando 350.000 dollari. Israele haanche lanciato decine di attacchi a Gaza, uccidendocinque esponenti di Hamas il 7 luglio.

Alla fine Hamas ha reagito, lanciando razzi per laprima volta da diciannove mesi e fornendo così a Israeleil pretesto per avviare, l’8 luglio, l’operazione “Marginedi Protezione”.

Al 31 luglio, circa 1400 palestinesi erano statiammazzati, in gran parte civili, tra cui centinaia di donne ebambini, oltre a tre civili israeliani, e vaste aree di Gaza

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erano ridotte in macerie. Nelle brevi pause tra unbombardamento e l’altro, le persone cercavanodisperatamente i corpi martoriati dei familiari e oggettivari nelle case ormai sventrate. Sono stati attaccati quattroospedali, l’ennesimo crimine di guerra. Anche la centraleelettrica è stata colpita, riducendo ulteriormente la giàscarsa elettricità e, peggio ancora, l’esigua fornitura diacqua potabile: anche questo un crimine di guerra. Intanto,venivano bersagliate ripetutamente anche le squadre disoccorso e le ambulanze. Efferatezze di ogni genere intutta Gaza, mentre Israele dichiarava che il suo obiettivoera distruggere i tunnel al confine.

I funzionari israeliani elogiano l’umanità di quello chedefiniscono «l’esercito più etico al mondo», perchéinforma i residenti che le loro case saranno bombardate.Questa pratica, come ha scritto la giornalista israelianaAmira Hass, è «puro sadismo, ipocritamente ammantato dicompassione»; si tratta di «un messaggio registrato in cuisi invitano centinaia di migliaia di persone a lasciare leloro case, già prese di mira, per andare in un altro posto,altrettanto pericoloso, a dieci chilometri di distanza».

È vero: nella prigione di Gaza non c’è un posto alriparo dal sadismo israeliano, che forse in questa nuovaoffensiva ha superato i crimini atroci commessi durantel’operazione “Piombo Fuso” del 2008-09.

Le tremende rivelazioni hanno prodotto la solitareazione nel presidente “più etico al mondo”, Barack

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Obama: grande solidarietà con gli israeliani, duracondanna di Hamas, un appello alla moderazione aentrambi.

Una volta terminata quest’ennesima prova di sadismo,Israele spera di riprendere tranquillamente le suepolitiche criminali nei Territori Occupati senzainterferenze, e anzi con il sostegno di sempre da partedegli USA: militare, economico e diplomatico. Oltre cheideologico, naturalmente, grazie a una rappresentazionedella questione israelo-palestinese conforme alle dottrineisraeliane. Gli abitanti di Gaza saranno liberi di tornarealla normalità nella prigione gestita da Israele, mentrequelli della Cisgiordania potranno starsene in pace aguardare gli israeliani che devastano ciò che rimane deiloro possedimenti.

È un esito quasi scontato, se gli Stati Uniti siostineranno a garantire un appoggio decisivo e quasiunilaterale ai crimini di Israele e a ignorare la richiestaunanime della comunità internazionale per un accordodiplomatico. Il futuro potrebbe invece esserecompletamente differente se gli USA dovessero decidersi arevocare quell’appoggio.

In quel caso Gaza potrebbe avvicinarsi a quella“soluzione durevole” invocata dal segretario di Stato USAJohn Kerry; un’espressione che naturalmente ha scatenatouna reazione isterica in Israele, perché potrebbe leggersicome un appello alla fine dell’assedio e degli attacchi

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israeliani. E addirittura, quale orrore!, quelle parolepossono essere interpretate come una richiesta diapplicazione del diritto internazionale anche nei TerritoriOccupati.

In realtà la sicurezza di Israele non sarebbe per nullaminacciata dal rispetto del diritto internazionale; anzi, conogni probabilità ne uscirebbe rafforzata. Ma, come giàquarant’anni fa spiegò il generale israeliano EzerWeizman, poi divenuto presidente, in quel caso Israelenon potrebbe più «esistere secondo quelle proporzioni,quello spirito e quei valori che incarna oggi».

Ci sono casi simili nella storia recente. I generaliindonesiani giurarono che non avrebbero mai rinunciatoalla «provincia indonesiana di Timor Est», come la definìil ministro degli Esteri australiano Gareth Evans, il qualeal tempo aveva in ballo un accordo per impadronirsi delpetrolio di quella “provincia”. Fintanto che i generalipoterono contare sul sostegno degli Stati Uniti, pur avendocompiuto per decenni massacri paragonabili a ungenocidio, quel loro obiettivo rimase realistico. Tuttavia,nel settembre del 1999, dopo forti pressioni interne einternazionali, il presidente Clinton si decise infine ainformarli che il gioco era finito e che dovevano ritirarsiimmediatamente; intanto Evans si riciclava come veneratoapostolo del “dovere di proteggere”, ma declinato inmodo da consentire all’Occidente di ricorrere comemeglio crede alla violenza.

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Un altro esempio calzante è il Sudafrica. Nel 1958 ilministro degli Esteri sudafricano fece sapereall’ambasciatore USA che se anche il suo paese eraconsiderato un paria a livello internazionale, ciò nonsarebbe stato un problema finché ci fossero stati gli StatiUniti a sostenerlo. Le sue valutazioni si rivelarono esatte.

Trent’anni dopo, Reagan ancora si ostinava a difendereil regime dell’apartheid. Tuttavia, nel giro di pochi anniWashington si allineò alla posizione del resto del mondo eil regime crollò. Non solo per quello, ovviamente; fattorecruciale fu il ruolo svolto da Cuba nella liberazionedell’Africa, un fatto perlopiù ignoto in Occidente ma nonnel continente africano.

Quarant’anni fa Israele fece una scelta decisiva,preferendo l’espansione alla sicurezza, allorché rifiutò ilpieno accordo di pace offerto dall’Egitto in cambiodell’evacuazione dal Sinai egiziano, dove gli israelianistavano avviando progetti di insediamento e di sviluppo.Da allora è sempre rimasto fedele a quella scelta,seguendo lo stesso ragionamento del Sudafrica nel 1958.

Nel caso di Israele, se gli Stati Uniti decidessero diallinearsi alla posizione del resto del mondo, l’impattosarebbe ancora maggiore. L’equilibrio di forze tra i dueStati non consente margini di trattative, com’è risultatochiaro le volte in cui Washington ha chiesto a Israele didesistere dai suoi propositi. Né del resto Israele puòcontare su altre risorse, visto che per colpa delle sue

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politiche è ormai temuto e disprezzato anche da coloroche un tempo lo ammiravano. Politiche che continua aperseguire con cieca determinazione in questa marciainarrestabile verso il disfacimento morale e, forse, ladistruzione definitiva.

La linea politica degli USA può cambiare? Forse non èimpossibile. Negli ultimi anni l’opinione pubblica è moltocambiata, soprattutto tra i giovani; un dato che non si puònon tenere in conto.

Da alcuni anni si stanno creando le basi perché lapopolazione esorti Washington al rispetto delle sue stesseleggi e al taglio degli aiuti militari a Israele. Lalegislazione statunitense prescrive che «non si può fornireassistenza in materia di sicurezza ai paesi i cui governisiano coinvolti in azioni sistematiche che violano i dirittiumani riconosciuti a livello internazionale». E Israelecertamente è colpevole da questo punto di vista, da moltianni.

In diverse occasioni Patrick Leahy, senatore delVermont e autore di quella disposizione di legge, hadimostrato la sua applicabilità al caso di Israele. Seaccompagnate da un lavoro di informazione, dimobilitazione e di militanza queste iniziative possonorisultare vincenti.

Oltre ad avere un forte impatto di per se stesse, questeattività possono fare anche da trampolino di lancio adaltre iniziative, per costringere Washington ad aderire

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davvero alla “comunità internazionale” rispettandone leleggi e le norme.

Nulla sarebbe più d’aiuto per i palestinesi, poverevittime di violenze e vessazioni che durano da decenni.

10 Sintesi degli articoli “Nightmare in Gaza”, pubblicato su «AlterNet» l’1agosto 2014, e “Outrage”, pubblicato su «Information Clearing House» il 3agosto 2014.

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10. L’inutilità e l’immoralitàdella partizione della Palestina11

di Ilan PappéUna famosa massima ebraica dice che si dovrebbe

cercare la chiave dove la si è smarrita e non dove c’è piùluce. Il cosiddetto processo di pace, che ha come suoprincipio fondamentale la soluzione a due Stati, somigliaun po’ a questa ricerca inutile sotto un lampione luminosoma lontano dalla chiave perduta.

Il radunarsi alla luce del lampione di leader mondiali,mediatori, sionisti liberali, dei palestinesi cosiddettimoderati e anche di alcuni amici occidentali dellaPalestina è causato da un travisamento del conflittopalestinese, come se a contrapporsi fossero duemovimenti nazionali. A questo si ricollegano due equivociulteriori: che il conflitto sia nato più o meno nel 1967, conl’occupazione israeliana della Cisgiordania e dellaStriscia di Gaza, e che queste due aree siano più“palestinesi”, per la loro natura e la loro storia, rispetto alresto della Palestina. Lontano dal lampione si nascondonoverità scomode, non soltanto per i sionisti, evidentemente,ma per chiunque tema uno scontro diretto con lo Statoebraico. Lì, al buio, si trova l’unica inquadratura giustadel conflitto in Palestina: una lotta tra un movimentocoloniale insediativo e una popolazione indigena che durasin dalla fine del XIX secolo.

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Sul fronte del colonialismo di insediamento, il conflittorappresenta lo sforzo costante e implacabile perimpadronirsi di un’area il più possibile estesa dellaPalestina, lasciando in essa il minor numero dipalestinesi. Paradossalmente, la volontà di dearabizzare ilpaese nacque dal sogno sionista di creare una democraziadi stampo europeo nel cuore del mondo arabo, conun’unica clausola: doveva essere una democrazia ebraica.

Per questa ragione i coloni furono sempre mossi daconsiderazioni di ordine non soltanto geografico ma anchedemografico. Nelle sue prime fasi, il movimento fuguidato da leader pragmatici, come David Ben Gurion, iquali sapevano di dover conquistare la Palestina zolladopo zolla, senza mai dimenticare l’obiettivo finale dellamaggioranza esclusivamente ebraica. Durante il mandatobritannico (1918-1948) gli ebrei costituivano meno di unterzo della popolazione; così il movimento propose unapartizione della Palestina che garantisse alla minoranzadei coloni l’esclusività demografica in determinate areedel territorio, nella speranza di attirare in seguito altricoloni e quindi altra terra. In effetti, già a partire daglianni Trenta i leader sionisti tentarono di persuadere ilgoverno britannico ad aiutarli a realizzare questo sognorimuovendo i palestinesi dalle aree che in futurosarebbero diventate ebraiche, in modo da risolvere ilconflitto che andava montando. Ma l’impero non si lasciòconvincere.

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Così il movimento sionista dovette agire da solo,progettando sia la conquista dello spazio per la futurademocrazia ebraica sia la rimozione dei palestinesi che loabitavano. L’esigenza di ricorrere alla forza per cambiarel’equilibrio demografico in un paese in cui i coloniebraici costituivano solo un terzo della popolazione(1948) era ancor più pressante, perché il movimentosionista non riusciva ad acquistare un numero sufficientedi terreni. L’esito ineluttabile fu la massiccia puliziaetnica cominciata prima ancora che gli inglesi lasciasseroil paese nel febbraio del 1948 e terminata agli inizi del19491.

Fu questa operazione a creare la Cisgiordania e laStriscia di Gaza, due realtà geopolitiche nate dal progettodi acquisizione progressiva della Palestina da parte delmovimento sionista (lo stesso dicasi per una terza area, ilWadi Ara, in precedenza parte della Cisgiordania ma poiannessa con la forza a Israele, quando la Giordania, perevitare la guerra, la cedette agli israeliani nell’aprile del1949 nell’ambito di un armistizio bilaterale)12.

La Cisgiordania era quindi la risultante delle porzionidi Palestina assegnate a un venturo Stato arabo dal Pianodi partizione ONU del 29 novembre 1947. Quella fu lacontropartita per il consenso della Giordania a prendereparte solo marginalmente al tentativo di salvataggio dellaPalestina da parte del mondo arabo (la Legione giordana eil nascente esercito israeliano combatterono tuttavia una

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dura battaglia per il controllo di Gerusalemme, e alla finela divisero in due parti). La Striscia di Gaza fu invecericavata dal Naqab, o Negev, e Israele volle crearla perfarne un enorme centro di raccolta dei profughi. Le forzeisraeliane fecero, infatti, una sistematica pulizia etnicadegli abitanti a sud di Giaffa, costringendoli a confluire inquella che sarebbe diventata la Striscia di Gaza13. Questedue unità geopolitiche erano dunque gli avanzi dell’operadi giudaizzazione dell’intera Palestina: una fu il risultatodi un compromesso strategico con la Giordania, mentrel’altra nacque dall’esigenza di risolvere il problemademografico.

Questa era la vera ripartizione della Palestina fino al1967. La pretestuosa “partizione per la pace” – illampione di cui si è detto – fu concepita da Israele solodopo la guerra del ‘67. L’idea della partizione siaccompagnò a una serie di scelte strategiche deltredicesimo governo di Israele, dettate perlopiù dalmalcontento di numerosi dirigenti politici per il tacitoaccordo del ‘48 con la Giordania. Una lobby, inparticolare, faceva forti pressioni sul primo ministro BenGurion, al potere fino al 1963, perché riconsiderassequell’alleanza e trovasse un pretesto per occupare alcunearee della Cisgiordania, se non addirittura tutta. Si trattavadi persone potenti: alcuni avevano servito come generalinella guerra del ‘48, ad esempio Yigal Allon e MosheDayan; altri erano ideologi che consideravano la

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Cisgiordania il cuore dell’antico Israele, senza il quale loStato ebraico non sarebbe sopravvissuto. I militariinventarono anche il mito del fiume Giordano comebarriera naturale contro eventuali aggressioni da est alloStato ebraico. Chiunque fosse andato sul Giordano, anchein un giorno di buona visibilità, si sarebbe reso conto chequel fiumiciattolo non avrebbe fermato un gruppo di asini,figuriamoci dei carri armati14.

Quella lobby ebbe l’occasione di tradurre i suoi sogniespansionistici in un vero piano strategico quando BenGurion lasciò il potere nel 1963. Ben Gurion si eraopposto fermamente all’occupazione di altre parti dellaPalestina, poiché era terrorizzato dall’idea di assimilarealtri palestinesi. Una volta scaduto il suo mandato, però, ilgoverno intensificò le manovre per la futura espansione.Quand’era ancora in carica, Ben Gurion aveva impeditoche una pericolosa circostanza potesse sfociare in unaguerra; circostanza simile a quelle che avrebbero portatoalla guerra del ‘67. Nel 1960 Gamal Abdel Nasser, leaderdell’Egitto e di tutto il mondo arabo, aveva adottato unastrategia del rischio calcolato che anticipava le manovreda lui attuate nel 1967. Se all’epoca ci fossero stati unaltro premier israeliano e un altro segretario generaledell’ONU non avrebbero impedito la guerra, come invecefecero loro nel 196015.

Dal 1963 gli strateghi israeliani lavorarono piùintensamente ai preparativi per l’occupazione della

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Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Tra questi c’eraanche la pianificazione dettagliata della gestione delle duearee sotto l’occupazione militare16. Nel giugno del 1967quei piani divennero operativi nel giro di pochi giorni.Tuttavia, questo non bastava; bisognava elaborare unastrategia complessiva. A questo scopo il governo si riunìdiverse volte nei mesi successivi alla fine del conflitto.

Subito dopo la fine della guerra del 1967, iltredicesimo governo di Israele avviò una serie di riunionidalla quale emersero decisioni di vario tipo, tutte peròmiranti a confinare per sempre gli abitanti dellaCisgiordania e della Striscia di Gaza nella più grandemegaprigione mai vista nella storia moderna. I palestinesifurono incarcerati in quei luoghi per crimini che nonavevano mai commesso e per non ben definiti torti maiindividuati né ammessi. Oggi in quella megaprigione vivela terza generazione di “detenuti”.

Il governo che prese quelle decisioni così spietate edisumane godeva di un consenso amplissimo tra i sionisti:ogni corrente e posizione ideologica del sionismo vi erarappresentata. I socialisti del Mapam sedevano accanto airevisionisti dell’Herut di Menachem Begin, e sispartivano gloria e potere con le diverse fazioni checomponevano il sionismo laburista. Ad essi si aggiunseroanche numerosi esponenti di altri partiti, dai più laici eliberali a quelli religiosi e ultrareligiosi. Mai prima diquel governo, e neanche dopo, ci fu una coalizione tanto

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larga a guidare lo Stato di Israele nelle decisioni cheavrebbero segnato il suo futuro.

Contrariamente alla vulgata sulla storia dellaCisgiordania e della Striscia di Gaza, nessuno come quelgoverno ebbe un ruolo tanto cruciale nel decidere ildestino di quei territori e delle persone che ci vivevano.Le scelte adottate da quei ministri nella seconda metà digiugno del 1967, e poi tra luglio e agosto, costituisconoancora oggi la chiave di volta della politica israelianarispetto ai Territori Occupati. Nessun governo successivosi è mai sognato di deviare dalle decisioni prese in quellaparticolare congiuntura storica.

Le risoluzioni di quei tre mesi, tra giugno e agosto del‘67, hanno dettato i principi seguiti poi religiosamente datutti gli altri governi, che non se ne discostarono nemmenonei momenti più drammatici degli anni successivi, che sitrattasse della prima o della seconda Intifada, delprocesso di Oslo o del vertice di Camp David del 2000.

La ragione della solidità di quelle decisioni è darintracciare nella straordinaria composizione del governodel 1967; come già accennato, quel governorappresentava, come mai né prima né dopo di allora, tuttolo spettro delle correnti sioniste. Non va però trascuratonemmeno il clima di euforia diffusosi in quel periodo perla pesante sconfitta che l’IDF aveva inflitto a sei esercitiarabi e per la vittoriosa guerra lampo che avevaconsentito l’occupazione militare di terre e paesi arabi.

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Per questo, un’aura quasi messianica avvolgeva in queigiorni i governanti israeliani, incoraggiandoli a prenderetemerarie e storiche decisioni, che i loro successoridifficilmente avrebbero potuto rigettare o modificare.

Eppure queste spiegazioni, per quanto plausibili,partono dal presupposto che quelle politiche fossero ilprodotto diretto delle circostanze specifiche edeccezionali del giugno del 1967. In realtà, quelle scelteerano perlopiù l’inevitabile sbocco dell’ideologia e dellastoria sioniste (indipendentemente dalla definizione che sivuol dare di quell’ideologia o dalle sfumature e variantiche se ne vogliono individuare). Dunque, quellespecifiche circostanze servirono solo a rammentare aipolitici la loro eredità ideologica e a riportarli – come giàera accaduto nel 1948 – sul cammino sionista digiudaizzazione della Palestina storica.

La prima decisione presa dal governo fu la rinuncia allapulizia etnica, nonostante s’intendesse espandere lo Statoebraico fino a quelli che per molti erano i confini naturalie storici dell’antico Israele. I ministri accarezzaronol’idea ma poi la scartarono, perché dubitavano chel’esercito avesse la volontà, i mezzi e la predisposizionementale per portarla a termine17.

La seconda decisione fu di escludere la Cisgiordania ela Striscia di Gaza da ogni eventuale accordo di pace subase territoriale (un criterio che, almeno in teoria, ilgoverno invece accolse per la penisola del Sinai e per le

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alture del Golan). In quelle riunioni il sentimentopredominante era la sicurezza che i piani di espansioneterritoriale godessero dell’immunità internazionale. E ineffetti era così, non tanto perché quei piani fosseroapprovati di per sé, ma perché si voleva evitare unoscontro diretto. A condizione, però, che fosseun’annessione defacto ma non dejure18.

La terza decisione fu di non concedere la pienacittadinanza alla popolazione sotto occupazione per nonmettere a repentaglio la maggioranza demografica degliebrei. Nonostante l’obiettivo degli israeliani, allora comeoggi, fosse assumere il pieno controllo della Cisgiordania,costoro si rendevano conto – e anche adesso è così – chenon conveniva annettere ufficialmente quei territori e che,d’altro canto, non si poteva espellere in massa lapopolazione. Sulla Striscia di Gaza le mire sono semprestate più ambivalenti, anche se il primo impulso sarebbedi farla scomparire. Questi i punti principali di unavisione partorita nel 1967, e diventata oggi un inquietantepiano d’azione. Tuttavia, per coloro che elaboraronoquella visione conservare questi territori, con lapopolazione all’interno, era un bisogno altrettanto vitaledi preservare la maggioranza ebraica nello Stato ebraico.

I verbali delle riunioni di governo del ‘67 sono oraconsultabili dagli storici. Da quei documenti trasparel’inconciliabilità di quei due impulsi: da una parte l’ansiadi possedere una porzione sempre più ampia di terra e

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dall’altra la riluttanza a espellere o ad assimilare lapopolazione che vi viveva. In essi si nota però anchel’autocompiacimento per aver trovato una via d’uscita aquell’impasse ideologica e teorica. I ministri erano infatticonvinti, come tutti i loro successori, di aver scoperto laformula che avrebbe consentito a Israele di conservare iterritori cui anelava senza annettere una popolazioneindesiderata, salvaguardando al contempo l’immunità e lareputazione internazionale19.

Ogniqualvolta i tre obiettivi appena citati si sonotradotti in scelte concrete, hanno prodotto una realtàdisumana e spietata. Né del resto può esistere unaversione moderata o illuminata di una politica che punta atenere la popolazione in uno stato permanente di apolidia.C’è solo un’invenzione umana che sottrae ai cittadini,temporaneamente o per lunghi periodi, gli elementaridiritti umani e civili: la prigione.

Fu così che, nel 1967, un milione e mezzo di personefurono ridotte a detenuti di una megaprigione a causadell’oscillare degli israeliani tra due aspirazioniinconciliabili, quella colonialista e quella nazionalista.Non si trattava di un carcere per pochi reclusi, messi lì atorto o a ragione; fu imposto a un’intera società. Era ed èun sistema perverso creato per ragioni abiette; ma c’èdell’altro. Alcuni dei suoi architetti cercarono davvero diprogettare un modello di prigione che fosse il piùpossibile umano, probabilmente perché sapevano che si

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trattava di una punizione collettiva per un crimine maicommesso; altri, invece, non si diedero nemmeno la penadi ricercare una via più vivibile. In ogni caso, all’epocaqueste due visioni convivevano; perciò il governo offrìalla popolazione palestinese due versioni diverse dellamegaprigione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza: laprima era una prigione a cielo aperto, l’altro un carcere dimassima sicurezza. Se i palestinesi non avessero accettatola prima, era pronto per loro il secondo.

La prigione a cielo aperto garantiva un certo grado diautonomia, sotto il controllo diretto o indiretto degliisraeliani; il carcere di massima sicurezza privava ipalestinesi di ogni libertà e li assoggettava a misuredurissime fatte di punizioni e restrizioni, portandoli, nelpeggiore dei casi, alla morte. La disumanità della prigionea cielo aperto serviva a scoraggiare ogni forma diribellione della popolazione reclusa, mentre il carcere disicurezza veniva imposto come punizione nel caso in cuila rivolta fosse scoppiata. In generale, il modello piùmoderato entrò in funzione in due periodi, tra il 1967 e il1987 e tra il 1993 e il 2000; invece il carcere duro tra il1987 e il 1993 e tra il 2000 e il 2009.

La prigione a cielo aperto divenne quindi un falsoparadigma di pace grazie alla propaganda che ne feceIsraele, oltre che gli alleati americani ed europei,spacciandola per un’idea ingegnosa con cui risolverefinalmente il conflitto. I migliori modelli di prigione a

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cielo aperto furono propagandati durante gli accordi diCamp David del 1979 tra Israele ed Egitto (conclusisi conun nulla di fatto), in cui si parlò di “una regioneautonoma”, e poi nell’accordo di Oslo del 1993, conl’idea dello “Stato palestinese indipendente”. Quandol’occupante dovette attuare l’accordo di Oslo, fu chiaroquanto il presunto “Stato” somigliasse in realtà a unaprigione, con la suddivisione della Cisgiordania nelleAree A, B e C e con l’esclusione degli insediamenti ebraicidi Gaza dal controllo palestinese. In base all’accordo diOslo del 1994, invece, solo piccole aree dellaCisgiordania e della Striscia di Gaza godevano diautonomia, mentre la sicurezza e la sovranità sulle enclaverimanevano nelle mani degli apparati militari israeliani.Non appena il regime israeliano percepì che la sicurezzaera minacciata, applicò immediatamente il modello delcarcere duro, nel 2002; in qualche misura quel modello èin vigore ancora oggi, visto il costante stato d’assedio e diisolamento in cui si trovano i riottosi prigionieri di Gaza.

Far passare il modello della prigione a cielo aperto perun’iniziativa diplomatica non sarebbe stato possibile se ilcosiddetto “processo di pace” non avesse avuto ilsostegno di ampi settori della dirigenza politicapalestinese, della sinistra sionista e persino di alcuniautorevoli sostenitori della causa palestinese di tutto ilmondo. Ma è stata soprattutto la nuova creatura, ilQuartetto – una sorta di tribunale internazionale adhoc per

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la Palestina composto dall’Unione Europea, dalla Russia,dagli Stati Uniti e dall’ONU –, a dare a quel processo lalegittimazione necessaria per trasformarsi in un paradigmadi pace.

Grazie al lessico usato in Israele e in Occidente e allacontiguità dei media e del mondo accademico, il modellodella prigione a cielo aperto è stato accreditato, a livelloetico e politico, come la soluzione ideale al “conflitto”,oltre che come un buon progetto di vita per gli abitantidella Striscia di Gaza e della Cisgiordania. “Autonomia”,“autodeterminazione”, e finanche “indipendenza” sonostate le parole usate, e anzi abusate, per definire laprigione a cielo aperto generosamente offerta da Israele aipalestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Ma non bastano queste parole per cancellare la realtà, el’iperbolico discorso sulla pace e sull’indipendenza nonpuò certo rendere sorde le persone ragionevoli di tutte lesocietà coinvolte, nei Territori come in Israele e nel restodel mondo. Nell’era di internet, della stampa alternativa,della mobilitazione della società civile, dell’impegnosempre maggiore delle ONG, non è facile mettere in scenala farsa della pace e della riconciliazione in una terra cheospita la più grande prigione mai vista nella storiamoderna.

Per questa ragione Israele ha dovuto inventarsi laformula magica dell’”occupazione temporanea”, anche seil suo vero obiettivo rimane sempre il controllo sulla

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regione a tempo indefinito e la negazione dei diritti umaniai suoi abitanti. In base a quella formuletta, lo status dellapopolazione sarà poi stabilito una volta per tutte «quandoarriverà la pace». Questo modusoperandi consente aIsraele di continuare ad accreditarsi come “Statodemocratico” e di accedere ai numerosi privilegi correlatia quello status nello scacchiere internazionale.

Ecco dunque com’è possibile che nessuno ravvisi lacontraddizione tra concetti come “processo di pace” e“due popoli, due Stati” e il regime di occupazione,neanche l’”occupazione temporanea” del 1967. Sono tuttesovrastrutture concettuali e politiche progettate perperpetuare lo statusquo quanto più a lungo possibile.

Naturalmente non sarebbe così facile per Israelepubblicizzare questa finzione in giro per il mondo se altripaesi non lo aiutassero, alcuni per interesse personale,altri animati da intenzioni buone ma sbagliate. Anche ivertici del movimento nazionale palestinesecontribuiscono a dare credibilità a questo falso processodi pace, che è infatti accettato da buona parte dellaleadership dei palestinesi che vivono all’interno dellaLinea Verde. Del resto, anche molti pacifisti stranieri sonocaduti nella stessa trappola.

Intanto, Israele lavora sul campo per aumentare ilcontrollo sulla terra, sull’acqua, sull’economia e su ogniaspetto della vita dei palestinesi. Sta creando unasituazione per cui, anche se dovesse nascere uno Stato

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palestinese con Mahmoud Abbas come presidente, essonon avrebbe praticamente alcun peso.

Non c’è modo di uscire dal pantano palestinese senzasmascherare la messinscena del processo di pace e dellasoluzione a due Stati. È tempo di cercare la chiave dovel’abbiamo perduta. Bisogna innanzitutto individuare allaradice il problema e dire chiaramente che il sionismo è unmovimento colonialista e Israele uno Stato razzista deditoall’apartheid. Non esiste un altro sionismo o un altroIsraele. Già solo questa denuncia potrebbe avere unimpatto enorme, non solo perché Israele ha bisogno delsostegno internazionale per preservare la sua supremaziarispetto alle altre forze regionali, ma anche alla luce deiconflitti interni alla società israeliana.

Ogni soluzione deve scaturire da un’analisiapprofondita del problema. Si dovrebbe dunque partireavviando un dibattito serio tra tutti gli abitanti del paesesu come convivere con pari diritti, in condizioni diuguaglianza e cooperazione. Anche i profughi palestinesidovrebbero essere coinvolti, perché hanno il diritto ditornare in Palestina e di contribuire al futuro del paese. Èfondamentale inoltre porsi come meta la nascita di ununico Stato per tutti gli abitanti e anche per i profughi,perché in questo modo si stabilisce una volta e per semprechi deve partecipare alla costruzione dell’avvenire.

Il sionismo ha fatto e fa di tutto per spaccare il popolopalestinese e portarlo su un binario morto. In passato lo

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fece allontanando i rifugiati al di fuori dei confini dellaPalestina e confinando la popolazione palestineseall’interno dei territori stabiliti nel 1948. Oggi è in attoanche una separazione politica tra la Cisgiordania e laStriscia di Gaza. Porsi nuovi obiettivi che siano condivisida tutti i settori del popolo di Palestina è il primo passoverso la soluzione, e la tecnologia dà ormai gli strumentiper una discussione che travalichi confini e checkpoint,con una piattaforma che preveda contatti costanti e unprogetto comune.

Non è facile; le relazioni tra i diversi settoridell’opinione pubblica, tra laici e religiosi, trapopolazione autoctona e coloni della terza generazionesono problematiche. Senza contare che serve una nuovaredistribuzione delle risorse per risarcire confische ediscriminazioni che durano da decenni. Né è chiaro chefisionomia avrà la nuova società e quale struttura politicacostruiremo assieme. Ma è di vitale importanza avviare unserio confronto su questi temi. Quel che ci aspetta è unadura lotta contro un regime oppressivo che considera ogniprospettiva diversa dallo Stato ebraico razzista come un“suicidio” o una “minaccia alla sua esistenza”.

Ma è questo il cammino da percorrere, e questi iproblemi da risolvere. Finché non guarderemo in faccia larealtà staremo solo sprecando tempo prezioso; alcontrario, analizzare il problema e trovare una soluzioneautentica può innescare una spinta potente per modificare

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gli equilibri di forze.11 I. Pappé, TheEthnicCleansingofPalestine, Oxford, Oneworld, 2006

(trad. it. LapuliziaetnicadellaPalestina, Roma, Fazi, 2008).12 Sui negoziati si veda A. Shlaim,

CollusionAcrosstheJordan:KingAbdullah,theZionistMovement,andthePartitionofPalestineNew York, Columbia University Press, 1988.

13 I. Pappé, LapuliziaetnicadellaPalestina, cit., pp. 193-199.14 Su questa lobby, si veda T. Segev,

1967:Israel,theWar,andtheYearthatTransformedtheMiddleEast, New York,Metropolitan Books, 2007.

15 A. Gluska, TheIsraeliMilitaryandtheOriginsofhe1967War, Londra,New York, Routledge, 2007, pp. 122-125.

16 Su questi piani, si veda I. Pappé “Revisiting 1967: The False Paradigmof Peace, Partition and Parity”, in «Settler Colonial Studies», 3, nn. 3-4, 2013,pp. 341-351.

17 l verbale di quelle riunioni è ora consultabile pubblicamente presso gliarchivi di Stato israeliani: Sezione 43, 4, riunioni di Gabinetto dall’11 al 20giugno 1967.

18Ibid. In questo caso le riunioni in cui si prese la decisione furono quelledel 18 e 19 giugno.

19Ibid.

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11. I cessate il fuoco e le loroincessanti violazioni20

di Noam ChomskyIl 26 agosto 2014 Israele e l’Autorità Palestinese si

sono accordati per un cessate il fuoco dopo l’attaccoisraeliano su Gaza, durato cinquanta giorni, che ha causatola morte di 2100 palestinesi e ha lasciato dietro di sé unpaesaggio di devastazione. L’accordo prevede la finedelle azioni militari sia da parte di Israele che di Hamas,oltre che un alleggerimento dello stato di assedio chestrangola Gaza da molti anni.

Si tratta tuttavia solo dell’ultimo di una serie di accordiper il cessate il fuoco siglati dopo le periodicheescalation di violenza su Gaza da parte di Israele. Itermini dell’accordo rimangono sostanzialmente gli stessi.Lo schema consueto, a quel punto, è che Israele viola ilcessate il fuoco mentre Hamas lo rispetta – comeammesso pubblicamente dagli stessi israeliani –, finchél’impennata di violenza non induce Hamas a reagire, ilche innesca a sua volta una risposta ancor più brutale daparte di Israele. L’espressione più adatta per descriverel’ultima operazione non è “falciare il prato”, secondol’usuale lessico israeliano, bensì “smuovere le zolle”,come l’ha definita un alto ufficiale statunitense, rimastosconcertato dai metodi di un esercito che però amadefinirsi “il più etico al mondo”.

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Il primo cessate il fuoco fu l’Accordo sui Movimenti el’Accesso stretto tra Israele e l’Autorità Palestinese nelnovembre del 2005. Esso prevedeva il transito tra Gaza el’Egitto attraverso Rafah di merci e persone, la messa inopera di altri valichi tra Israele e Gaza perl’import/export di merci e il transito di persone, lariduzione degli ostacoli alla mobilità all’interno dellaCisgiordania, la creazione di linee di autobus e ditrasporto merci tra Cisgiordania e Gaza, la costruzione diun porto a Gaza e, sempre a Gaza, la ricostruzionedell’aeroporto distrutto dai bombardamenti israeliani.

L’accordo fu raggiunto poco dopo il ritiro da parte diIsraele dei coloni e delle forze militari da Gaza. Il motivoreale di quel disimpegno è stato illustrato da DovWeisglass, fido consigliere dell’allora primo ministroAriel Sharon nonché responsabile del negoziato e dellasua implementazione. «Il senso del ritiro è ilcongelamento del processo di pace», dichiarò Weisglassalla stampa israeliana. «Congelando quel processo sievita la nascita di uno Stato palestinese e tutte lediscussioni sui profughi, i confini e Gerusalemme. Inquesto modo, l’intero pacchetto dello “Stato palestinese”,con quello che c’è dentro, viene rimosso a tempoindeterminato dall’agenda, per di più con l’autorizzazionedi George Bush e la ratifica dei due rami del Congresso».E in effetti così avvenne.

«Il disimpegno è come la formaldeide», aggiunse

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Weisglass. «Ci garantisce la quantità di formaldeidenecessaria per non avviare alcun processo politico con ipalestinesi». I falchi israeliani si resero anche conto che,anziché investire ingenti risorse per tenere qualchemigliaio di coloni nelle comunità illegali in una Gazaormai devastata, sarebbe stato più sensato trasferirli nellecomunità, altrettanto sovvenzionate e altrettanto illegali,presenti nelle aree della Cisgiordania alle quali Israelenon intendeva rinunciare.

Il piano di ritiro fu quindi spacciato per un gesto nobileverso la pace, ma le cose non stavano affatto così. Israelenon ha mai allentato la presa su Gaza, e per questa ragioneè considerato una forza d’occupazione dall’ONU, dagliStati Uniti e da altre nazioni (Israele a parte, ovviamente).In un’esauriente analisi storica dell’insediamento neiTerritori Occupati, gli studiosi israeliani Idith Zertal eAkiva Eldar raccontano la verità dei fatti su quel ritiro: ilterritorio, ormai degradato, non si è liberato «neanche perun momento dalla morsa militare israeliana, e i suoiabitanti continuano a pagare ogni singolo giorno il prezzodell’occupazione». Dopo il disimpegno, «Israele ha fattoterra bruciata, devastando tutti i servizi e privando lapopolazione del suo presente come del suo futuro. Ladistruzione degli insediamenti è stata una manovraingenerosa da parte di un occupante nient’affattoilluminato, che continua a controllare il territorio,uccidendo e vessando i suoi abitanti grazie a una

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schiacciante supremazia militare».Leoperazioni“PiomboFuso”e“PilastrodiDifesa”Il pretesto per violare l’accordo di novembre si

presentò molto presto. Nel gennaio del 2006, i palestinesicommisero un gravissimo crimine. Votarono “in modosbagliato” alle elezioni politiche, attentamente monitoratee giudicate libere, consegnando così il Parlamento aHamas. Immediatamente Israele e Stati Uniti imposerosanzioni severissime, mostrando al mondo cosa intendonocon l’espressione “promuovere la democrazia”. El’Europa si adeguò colpevolmente a quelle misure.

Secondo uno schema ormai consueto, Stati Uniti eIsraele progettarono poi un colpo di Stato militare perrovesciare il governo, reo di essere stato regolarmenteeletto. Hamas riuscì a sventare il golpe nel 2007, e a quelpunto l’assedio su Gaza si fece ancora più spietato, conperiodiche aggressioni militari da parte di Israele. Giàvotare per il partito sbagliato era abbastanza grave, maopporsi a un golpe orchestrato dagli Stati Uniti si rivelòun affronto imperdonabile.

Nel giugno 2008 si raggiunse un nuovo accordo per ilcessate il fuoco. Anch’esso prevedeva l’apertura deivalichi di frontiera per «consentire il transito delle merciil cui ingresso a Gaza era stato bandito o limitato».Formalmente Israele acconsentì, annunciando però fin dasubito che non avrebbe aperto i confini fino a quandoHamas non avesse rilasciato il soldato israeliano Gilad

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Shalit.Anche Israele annovera una lunga lista di rapimenti di

civili in Libano e in acque internazionali, detenuti perlunghi periodi, talvolta come ostaggi, senza capi d’accusaplausibili; e ovviamente anche nei territori sotto il direttocontrollo israeliano, la reclusione di civili senza capid’accusa, o di dubbia validità, è una prassi. Ma tuttoquesto non ha importanza, vista la distinzione tipicamenteoccidentale tra persone e “non persone” (secondol’efficace definizione di Orwell).

Israele non soltanto ha mantenuto lo stato d’assedioviolando l’accordo per il cessate il fuoco del giugno del2008, ma lo ha anzi inasprito, impedendo addiritturaall’UNRWA – l’agenzia ONU incaricata di provvedere allafolla di profughi ufficialmente registrati a Gaza – di farerifornimento di scorte.

Il 4 novembre, mentre l’attenzione dei media era tuttaconcentrata sulle elezioni presidenziali americane, isoldati israeliani entravano a Gaza e ammazzavano cinqueo sei miliziani di Hamas, il quale poi reagì lanciandomissili e aprendo il fuoco (i morti furono tutti palestinesi).A fine dicembre Hamas propose un nuovo cessate ilfuoco. Dopo aver valutato l’offerta, Israele la rifiutò,preferendo invece lanciare l’operazione “Piombo Fuso”:un’incursione di tre settimane nella Striscia di Gazadurante la quale gli israeliani dispiegarono tutta la loropotenza militare, compiendo efferatezze inaudite e

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ampiamente documentate dalle organizzazioni per i dirittiumani, non soltanto internazionali ma anche israeliane.

Mentre l’operazione “Piombo Fuso” era al suo apice,l’8 gennaio 2009 il Consiglio di Sicurezza ONU approvòall’unanimità (solo gli Stati Uniti si astennero) unarisoluzione in cui si intimava «il cessate il fuocoimmediato, seguito dal completo ritiro di Israele, dallibero afflusso a Gaza di cibo, carburante e medicine e danuovi accordi internazionali per impedire il traffico diarmi e munizioni».

In effetti un nuovo cessate il fuoco fu siglato, ma le suecondizioni, come nei casi precedenti, non furono mairispettate, ed esso naufragò del tutto quando a novembredel 2012 Israele si mise di nuovo a “falciare il prato”, conl’operazione “Pilastro di Difesa”. Quel che successe nelfrattempo lo si intuisce dal numero di vittime registratodal gennaio del 2012 al lancio dell’operazione: unisraeliano morto sotto il fuoco proveniente da Gaza, e 78palestinesi ammazzati da quello israeliano.

Il primo atto di questa nuova offensiva fu l’omicidio diAhmed al-Jabari, un importante esponente dell’alamilitare di Hamas. Aluf Benn, direttore dell’autorevolequotidiano israeliano «Haaretz», ha definito Jabari un“subfornitore” di Israele a Gaza, perché per oltre cinqueanni era riuscito a ristabilire nel territorio una relativatranquillità. Come al solito, Israele fornì prontamente lagiustificazione per quell’assassinio, anche se il pacifista

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israeliano Gershon Baskin ne ha dato una spiegazione piùconvincente. Baskin, che per anni aveva avuto rapportinegoziali diretti con al-Jabari, riferisce che alcune oreprima di essere assassinato il leader di Hamas «avevaricevuto la bozza di un accordo di tregua permanente conIsraele, nel quale si prevedevano anche dei meccanismiper mantenere il cessate il fuoco anche in caso di unanuova impennata di scontri tra Israele e le fazioni dellaStriscia di Gaza».

Del resto, è lunga la lista delle azioni israeliane volte asventare la minaccia di un accordo diplomatico. Dopo cheIsraele ebbe falciato il prato, fu siglato l’ennesimo cessateil fuoco. Ripetendo la formula ormai consueta, l’accordoprevedeva la cessazione delle operazioni militari daentrambe le parti e la fine dell’assedio su Gaza, «conl’apertura da parte di Israele dei valichi, l’agevolazionedel transito di merci e persone e la fine delle restrizionialla libertà di movimento degli abitanti e delle violenzesui residenti nelle zone di confine».

Nathan Thrall, esperto di Medio Oriente pressol’International Crisis Group, racconta quel che successedopo. L’intelligence israeliana sapeva che Hamas avrebberispettato i termini del cessate il fuoco. «A quel puntoIsraele – scrive Thrall – aveva scarso interesse arispettare l’accordo. Nei tre mesi successivi al cessate ilfuoco i militari israeliani continuarono a fare incursione aGaza, sparando contro gli agricoltori e contro la gente che

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cercava di recuperare qualcosa dai rifiuti e dalle rovinelungo il confine, e aprendo il fuoco contro le imbarcazioniper impedire ai pescatori di entrare nelle acque di Gaza».Insomma, l’assedio non era affatto finito. «I valichi furonochiusi e furono ripristinate all’interno di Gaza lecosiddette zone cuscinetto [che costituiscono oltre un terzodella poca terra coltivabile della Striscia e che sonoprecluse ai palestinesi]. Le importazioni crollarono e leesportazioni furono bloccate, mentre i permessi di transitoper recarsi in Israele e Cisgiordania furono concessi a unnumero ridottissimo di abitanti».

Operazione“MarginediProtezione”Le cose sono andate avanti più o meno così fino

all’aprile del 2014, quando si è verificato un avvenimentoimportante: le due principali formazioni palestinesi –Hamas a Gaza e l’Autorità Palestinese, composta perlopiùda esponenti di Fatah, in Cisgiordania – hanno siglato unaccordo di unità. Hamas ha fatto concessioni importanti,perché nel governo di unità non figurava nessuno dei suoimembri o alleati. In sostanza – come rileva Nathan Thrall– Hamas ha consegnato il governo di Gaza nelle manidell’Autorità Palestinese. Migliaia di uomini delle forzedi sicurezza dell’AP sono stati mandati a Gaza, el’Autorità Palestinese ha anche piazzato le sue guardielungo i confini e ai valichi, senza alcuna reciprocità perHamas, poiché i suoi uomini non sono confluitinell’apparato di sicurezza della Cisgiordania. Inoltre, il

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governo di unità ha accettato le tre condizioni a lungorichieste da Washington e dall’Unione Europea: la nonviolenza, il rispetto degli accordi precedenti, ilriconoscimento di Israele.

Questo, naturalmente, ha fatto infuriare Israele, il cuiesecutivo ha immediatamente annunciato che avrebberifiutato qualsiasi accordo con il governo di unità e haannullato i negoziati. Il nervosismo è aumentato quando gliStati Uniti hanno espresso approvazione per il governo diunità, allineandosi così alla posizione del resto delmondo.

Israele ha valide ragioni per opporsi alla riunificazionedei palestinesi. Innanzitutto, i contrasti tra Hamas e Fatahfinora sono stati un ottimo pretesto per non impegnarsi inun negoziato serio. Come si fa a negoziare con un’entitàcosì frammentata? Fatto ancor più importante, per più divent’anni Israele ha tentato in tutti i modi di separare Gazadalla Cisgiordania, in violazione degli accordi di Oslodel 1993, i quali prescrivono che Gaza e la Cisgiordaniasono un’unità territoriale indivisibile.

Basta osservare la carta geografica per comprendernela ragione: una volta separate da Gaza, le enclavepalestinesi rimaste in Cisgiordania non avrebbero accessoal mondo esterno, essendo schiacciate tra due potenzeostili, Israele e la Giordania, entrambe alleate degli USA;malgrado quello che si vuol credere, gli Stati Uniti nonsono affatto un “mediatore onesto” e neutrale.

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Israele, inoltre, continua ad allungare le mani sullavalle del Giordano, espellendo i palestinesi, creandonuovi insediamenti, scavando pozzi e in definitiva facendotutto il possibile per inglobare la regione – che costituiscecirca un terzo della Cisgiordania e ospita la gran partedella terra coltivabile –, oltre alle altre aree di cui si staimpadronendo. Ecco perché i cantoni che rimarrannopalestinesi saranno completamente accerchiati.L’unificazione con Gaza interferisce con questi piani, cherisalgono all’alba dell’occupazione e sono sempre statiavallati da tutti i fronti politici, anche da figure di solitoritenute delle “colombe”, come l’ex presidente ShimonPeres, che fu in realtà uno degli artefici dell’insediamentonel cuore della Cisgiordania.

Anche in questo caso, dunque, era vitale trovare unpretesto per muovere l’offensiva del 2014. L’occasione siè prontamente presentata con il brutale assassinio di treragazzi israeliani di una comunità di coloni inCisgiordania; la polizia israeliana ha subito arrestatoalcuni esponenti di un gruppo dissidente di Hebron,dichiarando senza alcuna prova che si trattava di“terroristi di Hamas”. Il 2 settembre «Haaretz» riportavache, dopo interrogatori approfonditi, le forze di sicurezzaisraeliane erano giunte alla conclusione che il rapimentodei ragazzi «era stato compiuto da una cellulaindipendente» senza alcun legame diretto con Hamas.

Quei diciotto giorni di assalti da parte dell’IDF sono

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riusciti a logorare il tanto temuto governo di unità e aprovocare la reazione di Hamas, che per la prima voltadopo diciotto mesi ha lanciato dei razzi, fornendo così ilpretesto a Israele per avviare l’8 luglio l’operazione“Margine di Protezione”. Quest’offensiva, duratacinquanta giorni, è stata il caso finora più cruento di“falciatura del prato”.

Operazione(ancorasenzanome)Oggi Israele si trova nella condizione di abbandonare

finalmente la vecchia strategia di separazione di Gazadalla Cisgiordania – che viola tutti gli accordi da essostesso sottoscritti – e di rispettare per la prima volta unimportante accordo sul cessate il fuoco. In Egitto laminaccia democratica, almeno per il momento, si èattenuata, e la feroce dittatura militare del generale Abdal-Fattah al-Sisi può rivelarsi un alleato comodo permantenere il controllo su Gaza.

Come detto poc’anzi, il governo di unità palestinese stapiazzando le forze di sicurezza dell’AP, addestrate dagliStati Uniti, a guardia dei confini di Gaza, e la governancepotrebbe passare nelle mani dell’Autorità Palestinese, lacui sopravvivenza e le cui finanze dipendono da Israele.Quest’ultimo, da parte sua, potrebbe decidere che ilcontrollo sui territori della Cisgiordania è ormai tale cheuna limitata autonomia palestinese nelle enclave rimastenon può più impensierire.

E forse c’è del vero nelle parole del primo ministro

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Benjamin Netanyahu: «Numerosi attori nella regione sirendono ormai conto che, nelle tensioni che li minacciano,Israele non rappresenta un nemico bensì un alleato».Tuttavia, Akiva Eldar, il più autorevole corrispondentepolitico israeliano, commenta: «I “numerosi attori dellaregione” sanno anche che non ci può essere all’orizzontealcun serio passo avanti diplomatico senza un accordosulla fondazione di uno Stato palestinese basato suiconfini del 1967 e una soluzione equa e concordata allaquestione dei profughi». Niente di tutto questo ècontemplato nell’agenda israeliana, sottolinea Eldar, eanzi è in aperta contraddizione con il programmaelettorale formulato nel 1999 dalla coalizione di governodel Likud, e mai rinnegato, che «rifiuta la nascita di unoStato palestinese a ovest del fiume Giordano».

Alcuni commentatori israeliani ben informati, inparticolare l’editorialista Danny Rubinstein, ritengono cheIsraele sia in procinto di invertire la rotta e allentare lapresa su Gaza.

Vedremo.Le vicende degli ultimi anni suggeriscono un esito

diverso, e di certo i primi segnali non fanno ben sperare.Non appena l’operazione “Margine di Protezione” si èconclusa, Israele ha fatto sapere di essersi impadronita diquasi mille acri di terra in Cisgiordania, l’espropriazionepiù ampia mai realizzata negli ultimi trent’anni. Secondola radio israeliana, la confisca è stata una risposta

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all’uccisione dei tre adolescenti ebraici da parte di“miliziani di Hamas”. Un ragazzo palestinese è stato arsovivo come rappresaglia per quell’omicidio, ma di certonon è stata consegnata terra israeliana ai palestinesi; né viè stata alcuna reazione quando il 10 agosto un soldatoisraeliano ha ammazzato Khalil Anati, dieci anni, in unatranquilla stradina del campo profughi nei pressi diHebron (nel frattempo, l’esercito “più etico al mondo”faceva a pezzi Gaza) per poi andarsene via a bordo dellasua jeep mentre il ragazzino moriva dissanguato.

Stando ai dati dell’ONU, Anati era uno dei ventitrépalestinesi (tra cui tre bambini) uccisi in Cisgiordaniadalle forze d’occupazione israeliane mentre era in corsol’offensiva a Gaza, oltre a più di duemila feriti, il 30percento dei quali a causa di colpi d’arma da fuoco.«Nessuna delle vittime stava mettendo in pericolo la vitadei soldati», scrive il giornalista israeliano Gideon Levy.A tutto ciò non è seguita alcuna reazione, come non c’èstata mentre Israele uccideva in media più di due bambinipalestinesi alla settimana negli ultimi quindici anni.Dopotutto, sono delle “non persone”.

Da più parti si sostiene che, se la soluzione a due Statimuore per colpa della confisca delle terre palestinesi,l’esito probabile sarà la nascita di un unico Stato a ovestdel Giordano. Alcuni palestinesi accolgono con favorequesta ipotesi, perché a quel punto potrebbero condurreuna lotta per i diritti civili sul modello della campagna

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antiapartheid in Sudafrica. Diversi analisti israeliani, daparte loro, temono che il conseguente “problemademografico” – ossia un numero di nascite tra gli arabimaggiore rispetto agli ebrei e il calo dell’immigrazioneebraica – faccia naufragare la speranza di costruire “unoStato ebraico democratico”.

Ma sono ipotesi poco credibili.L’alternativa realistica alla soluzione a due Stati è che

Israele continuerà a portare avanti il piano che segue daanni, appropriandosi di tutto quanto reputa di valore inCisgiordania, impedendo che i palestinesi si concentrinoin comunità ed espellendo i palestinesi dalle aree cheaccorpa al suo territorio. Basterebbe questo a eliminare iltanto temuto “problema demografico”.

Tra le aree da accorpare a Israele figurano anche unaGrande Gerusalemme ancor più estesa, la zona all’internodel “Muro di Separazione” (illegale), i corridoi cheattraversano i territori a est, e sicuramente anche la valledel Giordano. Con ogni probabilità, Gaza rimarrà sottoassedio, separata dalla Cisgiordania. Anche le alture delGolan siriane – annesse, come Gerusalemme, violando leprescrizioni del Consiglio di Sicurezza – sarannoinglobate senza troppo clamore nel Grande Israele. Ipalestinesi della Cisgiordania, nel frattempo, sarannoconfinati in cantoni invivibili, con un trattamento specialeriservato solo alle élite, nella migliore tradizioneneocoloniale.

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Sono queste le linee guida seguite sin dalla conquistadel 1967, secondo i principi enunciati al tempo dalministro della Difesa Moshe Dayan, uno dei leaderisraeliani più comprensivi nei confronti dei palestinesi.Fu lui a spiegare ai colleghi di partito che avrebberodovuto informare i profughi palestinesi in Cisgiordaniache «non abbiamo soluzioni e che loro continueranno avivere come cani. Chi lo desidera può andarsene, evediamo dove ci porta questa strada».

Il consiglio di Dayan ricorda il pensiero formulatoqualche anno più tardi, nel 1972, dal futuro presidenteChaim Herzog: «Non nego che i palestinesi possano avereun posto, una posizione, un’opinione su ogni materia... Madi certo non sono pronto a considerarli come dei pari inuna terra che è stata consegnata nelle mani della nostranazione migliaia di anni fa. Per gli ebrei di questa terranon ci sono dei pari». Dayan, peraltro, voleva che fosseistituito nei Territori Occupati il “governo permanente” diIsraele (“memsheletkeva”). Netanyahu non è certo unpioniere, visto che esprime la medesima posizione oggi.

Come anche altri Stati, Israele usa la “sicurezza” comepretesto per giustificare le sue aggressioni e le sueviolenze. Ma gli israeliani più addentro alle questionisanno come stanno veramente le cose. A dimostrare che larealtà dei fatti è sempre stata ben presente ci sono leparole pronunciate nel 1972 dal comandantedell’aeronautica (e futuro presidente) Ezer Weizman. Fu

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lui a spiegare che non ci sarebbe stato alcun problema perla sicurezza se anche Israele avesse accettato la richiestainternazionale di ritirarsi dai territori conquistati nel1967, ma che in quel caso il paese non sarebbe più potuto«esistere secondo quelle proporzioni, quello spirito e queivalori che incarna oggi».

Per un secolo la colonizzazione sionista della Palestinasi è ispirata al pragmatismo: agire senza troppo clamoresul campo per poi far accettare al mondo la situazione difatto. Questa strategia senza dubbio ha pagato, dunque nonv’è ragione di ritenere che non prosegua fino a quando gliStati Uniti continueranno a fornire assistenza militare,economica, diplomatica e ideologica. Per quelli che hannoa cuore i diritti dei palestinesi non ci può essere altrapriorità se non impegnarsi per modificare le politichestatunitensi. Un sogno per nulla irrealizzabile.

20 L’intervento è una versione rivista dell’articolo “Ceasefire in WhichViolations Never Cease” apparso su «TomDispatch» il 9 settembre 2014.

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12. Discorso alle Nazioni Unite21di Noam Chomsky

Sono felice di trovarmi qui a confrontarmi con voi.Numerosi sono i problemi del mondo, così intricati chenon è facile trovare una via per mitigarli.

Il conflitto israelo-palestinese è uno di questi.Le linee generali di una soluzione diplomatica a quel

conflitto, tuttavia, sono chiare da almeno quarant’anni.Recuperarle non segnerebbe certo la fine del percorso –niente lo è mai – ma sarebbe quantomeno un importantepasso avanti. Quelle linee guida furono presentate proprioin questa sede, in una proposta di risoluzione avanzata alConsiglio di Sicurezza dell’ONU nel gennaio del 1976. Inessa si proponeva un accordo a due Stati sulla base deiconfini riconosciuti a livello internazionale, «con lagaranzia – cito testualmente – per entrambi gli Stati deldiritto di esistere in pace e in sicurezza entro confinisicuri e riconosciuti». La risoluzione fu proposta dai treprincipali Stati arabi: Egitto, Giordania e Siria,denominati talvolta “Stati contrapposti”.

Israele si rifiutò di partecipare a quella sessione,mentre gli Stati Uniti bocciarono la risoluzione. Un vetostatunitense ha una duplice valenza: la risoluzione nonviene mai realmente attuata e l’evento è cancellato dallastoria. Per questo è difficile trovarne traccia, eppureesiste. Lo schema inaugurato in quell’occasione si è poi

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ripetuto puntualmente. L’ultimo veto degli USA risale alfebbraio del 2011, durante il mandato di Obama, quandola sua amministrazione bocciò una risoluzione chechiedeva la fine dell’espansione degli insediamenti e, diconseguenza, l’effettivo rispetto di Washington dellaposizione contraria adottata a livello ufficiale. Vale lapena precisare che il vero problema non è l’espansionedegli insediamenti, bensì gli insediamenti in sé, tuttiinequivocabilmente illegali, oltre che i progettiinfrastrutturali che li accompagnano. Da lungo tempoormai la posizione unanime della comunità internazionaleè a favore di un accordo delineato secondo questi termini.Lo schema inaugurato nel gennaio del 1976, dicevamo,continua invece a ripetersi: Israele rifiuta quel tipo diaccordo e da molti anni impiega ingenti risorse perassicurarsi che esso non venga mai attuato, con il sostegnocostante e decisivo degli Stati Uniti: militare, economicoe diplomatico. Oltre che ideologico, naturalmente, graziea una rappresentazione della questione israelo-palestinese, all’interno degli USA e della sua ampia sferad’influenza, conforme alle dottrine di Israele.

Non è il caso di ripercorrerne tutte le tappe in questasede, ma per individuarne il principio di fondo bastaosservare le vicende degli ultimi dieci anni a Gaza,naturale prosecuzione dei crimini precedenti. Il 26 agosto2014 l’Autorità Palestinese e Israele hanno concordato uncessate il fuoco, e viene spontaneo chiedersi cosa

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succederà a questo punto. Per rispondere è opportunorivolgersi nuovamente al passato. Anche in questo caso siritroverà uno schema costante: si concorda il cessate ilfuoco; Israele non lo rispetta, continua le aggressioni suGaza, mantenendone altresì lo stato d’assedio, e compieperiodicamente atti di violenza in Cisgiordania,portandovi avanti l’espansione insediativa e i progetti disviluppo; Hamas rispetta il cessate il fuoco, comeammesso pubblicamente dallo stesso Israele, fino aquando un’offensiva israeliana non sollecita una suareazione, che induce a sua volta Israele a “falciare ilprato”, per usare la sua metafora, lanciando operazioniogni volta più cruente e devastanti. Il primo della serie ful’Accordo sui Movimenti e l’Accesso del novembre del2005. Spiego meglio di cosa si tratta. L’accordoprevedeva l’apertura, a Rafah, di un valico tra Gaza el’Egitto per l’esportazione delle merci e il transito dellepersone; la garanzia di attraversamenti costanti tra Israelee Gaza per l’importazione e l’esportazione di merci e iltransito delle persone; la riduzione degli ostacoli allamobilità all’interno della Cisgiordania; la creazione dilinee di autobus e di trasporto merci tra Cisgiordania eGaza; la costruzione di un porto a Gaza e, sempre a Gaza,la ricostruzione dell’aeroporto demolito da Israele. Lestesse condizioni si ripetono nei successivi cessate ilfuoco, anche in quello siglato poche settimane fa.

La tempistica dell’accordo del novembre 2005 è

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importante: in quel periodo Israele stava attuando il pianodi disimpegno – così viene chiamato –, ossia iltrasferimento di migliaia di coloni da Gaza. Quel ritiro èstato spacciato per un gesto nobile verso la pace e losviluppo, ma la realtà è ben diversa. Per rendersene contobasta leggere le parole di Dov Weisglass, il funzionarioincaricato di negoziare e attuare il cessate il fuoco, nonchéfido consigliere dell’allora premier Ariel Sharon. ComeWeisglass spiegò alla stampa israeliana, scopo deldisimpegno era – cito testualmente – «congelare ilprocesso di pace» per «evitare la nascita di uno Statopalestinese» e per fare in modo che la soluzionediplomatica fosse «rimossa a tempo indeterminatodall’agenda». Alcuni tra i più autorevoli studiosiisraeliani dell’occupazione hanno ben descritto la realtànel territorio; mi riferisco all’illustre storica Idith Zertal eal più importante corrispondente politico di Israele, AkivaEldar. Il libro di Zertal ed Eldar è una pietra miliare percomprendere la strategia insediativa; si intitolaLordsoftheLand, dove i signori della terra sono appunto icoloni. Ecco ciò che gli autori scrivono a proposito deldisimpegno: «Il territorio, ormai degradato – all’epoca loera realmente, e fu quella la ragione vera del trasferimentodei coloni –, non si è liberato neanche per un momentodalla morsa militare israeliana, e i suoi abitanticontinuano a pagare ogni singolo giorno il prezzodell’occupazione. Dopo il disimpegno Israele ha fatto

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terra bruciata, devastando tutti i servizi e privando lapopolazione del suo presente come del suo futuro. Ladistruzione degli insediamenti è stata una manovraingenerosa da parte di un occupante nient’affattoilluminato, che continua a controllare il territorio,uccidendo e vessando i suoi abitanti grazie a unaschiacciante supremazia militare». Un’analisi accurata,elaborata dalle più autorevoli fonti israeliane.

Vent’anni fa gli accordi di Oslo sancirono che Gaza e laCisgiordania costituiscono un’unità territorialeindivisibile, la cui integrità non può essere infranta.Invece per vent’anni Stati Uniti e Israele hanno fatto ditutto per separare Gaza e la Cisgiordania, violando gliaccordi cui avevano acconsentito. Osservando la cartageografica se ne capisce la ragione. Gaza garantisce allaPalestina l’unico accesso al mondo esterno: se fosseseparata da Gaza, qualunque autonomia si dovesseconcedere la Cisgiordania rimarrebbe schiacciata traIsraele e la Giordania, altrettanto ostile. L’altro obiettivodi sempre di Israele, con l’appoggio degli USA, èimpadronirsi della valle del Giordano, che costituiscecirca un terzo della Cisgiordania, perlopiù terracoltivabile; ciò strangolerebbe ancora di più il resto dellaregione nel caso in cui fosse separata da Gaza. È questa lavera ragione strategica per cui Israele, con l’avallostatunitense, insiste nel voler separare le due aree, inspregio agli accordi di Oslo e alla sequela di cessate il

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fuoco siglati dal novembre del 2005.L’accordo del novembre 2005 durò qualche settimana.

A gennaio del 2006 si verificò un evento storico: le primevere elezioni democratiche del mondo arabo, monitoratecon attenzione e poi giudicate libere e regolari. Il lorounico difetto fu di far vincere la parte sbagliata: Hamasconquistò il Parlamento. Naturalmente a Stati Uniti eIsraele quell’esito non andava bene. Ricorderetesicuramente che all’epoca lo slogan sulla bocca di tuttiera “promuovere la democrazia”. L’impegno prioritarioper gli USA in quel periodo era la promozione dellademocrazia nel mondo. Quello palestinese era un buonbanco di prova, perché la democrazia in quel caso nonaveva funzionato bene. Gli Stati Uniti decisero all’istante,insieme con Israele, di punire i palestinesi per aver votatomale: fu imposto un severo stato d’assedio e altrepunizioni di vario genere, la violenza aumentò e gli USAcominciarono subito a progettare un golpe militare perrovesciare quel governo inaccettabile. Del resto è unapratica già nota, non c’è bisogno di enumerarne gli infinitiesempi storici. L’Unione Europea, colpevolmente e a suodiscredito, stette al gioco. Immediatamente scattòl’offensiva israeliana; quella fu la fine dell’accordo dinovembre, seguita da una serie di attacchi da parte diIsraele.

Un anno dopo, nel 2007, Hamas commise un crimineancora più grave: sventò il golpe militare e riprese il

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controllo su Gaza. In Occidente e negli Stati Uniti si disseche Hamas aveva preso Gaza con la forza:un’affermazione non del tutto falsa ma certamentelacunosa. L’uso della forza servì infatti a contrastare iltentativo di golpe per rovesciare un governo regolarmenteeletto. Già era stato abbastanza grave aver votato maledurante una libera elezione, ma vanificare un colpo diStato ideato dagli USA era imperdonabile. A quel punto gliattacchi su Gaza s’intensificarono, le offensive israelianefurono ancor più violente. Finalmente, nel gennaio del2008, fu siglato un nuovo cessate il fuoco; i termini eranopressoché identici agli altri accordi che ho citato. Israelerespinse pubblicamente il cessate il fuoco, rendendo notoche non l’avrebbe rispettato. Hamas invece lo rispettò,come ammesso anche da Israele, nonostante il rifiutoisraeliano.

Tutto questo durò fino al 4 novembre 2008, la stessadata delle elezioni USA. Quel giorno le forze israelianeinvasero Gaza e uccisero cinque o sei miliziani di Hamas.Questo spinse Hamas a lanciare i razzi Qassam controIsraele, che contrattaccò duramente, provocando la mortedi moltissime persone, tutte palestinesi naturalmente. Unpaio di settimane dopo, alla fine di dicembre, Hamaspropose l’ennesimo cessate il fuoco. Dopo aver valutatola proposta, l’esecutivo israeliano la respinse. Attenzione,si trattava di un governo formato da “colombe” e guidatoda Ehud Olmert; eppure rifiutò l’offerta e decise di

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lanciare una nuova operazione militare, denominata“Piombo Fuso”, che fu spietatissima, tanto da suscitare losdegno internazionale e indurre le commissioni ONU,Amnesty International e Human Rights Watch a indagaresui fatti. Per inciso, l’assalto fu organizzato in modo taleda terminare subito prima dell’insediamento delpresidente Obama. Obama era già stato eletto ma non siera ancora insediato, così quando gli fu chiesto dicommentare le efferatezze che si andavano consumando,rispose che non poteva farlo perché gli Stati Uniti hannoun unico presidente, e lui in quel momento non era ancorain carica. In realtà aveva cominciato a esprimere il suoparere su molte altre questioni, ma su quello no. Poichél’operazione era terminata prima del suo insediamento,Obama poté limitarsi a rispondere: «Non è più il tempo diguardare al passato, guardiamo piuttosto al futuro».

Come qualunque diplomatico sa, quella è la frase tipicadi chi è coinvolto in gravi crimini: «Dimentichiamo ilpassato, pensiamo invece a un futuro glorioso». Tuttoquesto mentre infuriava l’offensiva di Israele. A quelpunto il Consiglio di Sicurezza approvò una risoluzione –all’unanimità, ad eccezione degli Stati Uniti, che siastennero – per chiedere il cessate il fuoco immediatosecondo le solite prescrizioni. Era l’8 gennaio 2009. Quelcessate il fuoco non fu mai rispettato, e naufragò del tuttoquando nel novembre del 2012 gli israeliani si misero dinuovo a “falciare il prato”. Per capire che cosa accadde

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in quei mesi basta consultare le cifre delle vittime nel2012: 79 persone uccise, di cui 78 palestinesi, la solitastoria... Israele ammise che Hamas stava rispettando ilcessate il fuoco, quindi a maggior ragione – come harilevato l’autorevole analista del Medio Oriente NathanThrall – «aveva scarso interesse» a fare altrettanto. Gliattacchi militari su Gaza aumentarono e furono imposterestrizioni ancor più severe sulle importazioni. Leesportazioni furono bloccate e anche i permessi per usciredal territorio.

La situazione è andata avanti in questo modo fino adaprile del 2014, quando i palestinesi hanno commesso unaltro crimine: Hamas, a Gaza, e l’Autorità Palestinese, inCisgiordania, hanno firmato un accordo di unità. La cosaha fatto infuriare gli israeliani, ancor di più perché ilmondo intero ha approvato quell’accordo; persino gliStati Uniti hanno espresso un debole apprezzamento.Dietro la reazione di Israele si celano svariate ragioni. Laprima è che l’unità tra Gaza e la Cisgiordania, e tra le dueformazioni politiche, mette a repentaglio i piani, ormai inatto da tanti anni, per separarle, per i motivi cui ho giàaccennato. L’altra ragione è che un governo di unità favenir meno uno dei pretesti addotti da Israele per rifiutaredi partecipare seriamente ai negoziati: come si puònegoziare con un’entità così spaccata al suo interno?Ebbene, se i due fronti sono uniti quel pretesto crolla.

Israele, dicevamo, è andato su tutte le furie; così ha

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attaccato i palestinesi in Cisgiordania, prendendo di mirainnanzitutto Hamas. Centinaia le persone arrestate,perlopiù esponenti di Hamas. A Gaza la stessa storia,anche lì diversi omicidi. Naturalmente gli israelianiavevano pronta la giustificazione, ce n’è sempre una.Questa volta si trattava del rapimento e del brutaleassassinio di tre adolescenti israeliani che si trovavano inuna comunità di coloni. Gli israeliani hanno dichiarato chepensavano fossero ancora vivi e per questo avevanoavviato un’operazione in Cisgiordania durata diversesettimane, nella speranza, a loro dire, di trovarli ancoravivi. Intanto, arresti, aggressioni e tutto il resto. Poi èvenuto fuori che gli israeliani sapevano fin dall’inizio chei ragazzi erano stati uccisi, e sapevano anche che con ogniprobabilità Hamas non era coinvolto. Il governo hadichiarato che le informazioni in suo possesso indicavanoun coinvolgimento di Hamas; eppure finanche i loroanalisti più esperti (tra cui Shlomi Eldar) avevano dettoimmediatamente che il rapimento e l’omicidio – reatiorribili, non v’è dubbio – erano stati sicuramente opera diun clan dissidente, il Qawasameh di Hebron, a cui Hamasnon aveva dato il via libera e che rappresenta anzi unaspina nel fianco per la formazione palestinese. Edevidentemente è questa la verità, a giudicare daisuccessivi arresti e condanne.

In ogni caso, il pretesto per l’aggressione c’era, e per leuccisioni a Gaza anche. Le azioni israeliane alla fine

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hanno provocato la reazione di Hamas, seguitadall’operazione “Margine di Protezione”, ancor piùspietata e devastante delle precedenti. Lo schema dunqueè chiaro, e continua ad essere seguito alla lettera. L’ultimocessate il fuoco è stato siglato il 26 agosto, maall’accordo è subito seguita la più vasta confisca di terradegli ultimi trent’anni, quasi mille acri nell’area di GushEtzion [‘blocco di Sion’], nei pressi della GrandeGerusalemme, cinque volte più estesa di quanto non lo siamai stata Gerusalemme, annessa da Israele violando leprescrizioni del Consiglio di Sicurezza. Il Dipartimento diStato USA ha informato l’ambasciata israeliana che «leattività israeliane nell’area di Gush Etzion vanificano glisforzi americani per difendere Israele presso le NazioniUnite», e ha fatto presente che Israele non dovrebbefornire appigli a «coloro che, all’interno delle NazioniUnite, potrebbero interpretare queste attività come unirrigidimento della posizione israeliana».

In realtà quell’ammonimento risaliva già al settembredel 1967, al tempo della prima colonizzazione illegale diGush Etzion. Di recente lo storico israeliano GershomGorenberg ci ha ricordato che quella frase era stata giàpronunciata quarantasette anni fa. Dunque non è cambiatogranché da allora, a parte l’escalation dei criminiisraeliani, che continuano ininterrottamente, con ilsostegno costante degli Stati Uniti. Quanto al futuro, l’ideacomunemente accettata da tutti i fronti – Israele, Palestina,

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analisti indipendenti, diplomatici – è che vi siano solo duealternative: o la soluzione a due Stati, che gode di unconsenso internazionale schiacciante, oppure, se dovessefallire, uno Stato unico, con Israele ad assumere ilcontrollo della Cisgiordania e i palestinesi pronti aconsegnare le chiavi, come si usa dire. In più diun’occasione i palestinesi si sono espressi a favore diquesta eventualità, perché in questo Stato unico governatoda Israele essi potrebbero condurre una lotta per i diritticivili sulla falsariga della campagna antiapartheid inSudafrica. Agli israeliani invece questo scenario nonpiace, per via del cosiddetto “problema demografico”,ossia l’eccessiva presenza in uno Stato ebraico di nonebrei, che in pochi anni costituirebbero la maggioranza.Queste sono le due alternative ipotizzate da tutti, conpochissime eccezioni.

La mia opinione – da me più volte espressa, senza peròaver convinto nessuno, anche se proverò a convincere voi– è che questo scenario sia una mera illusione. Non sonoqueste le due opzioni sul tavolo, a mio avviso. Secondome una delle due alternative è una soluzione a due Statiunanimemente accettata a livello internazionale,sostanzialmente secondo le condizioni del gennaio del1976. Finora questa opzione ha raccolto il favore,quantomeno a livello informale, di quasi tutti gli Stati,anche della Lega araba, dell’Organizzazione dellaCooperazione Islamica, di cui fa parte anche l’Iran,

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dell’Europa e dell’America latina. L’altra ipotesi, a mioavviso più realistica, è che Israele continuerà a fareesattamente ciò che fa ora, davanti ai nostri occhi, conl’aiuto, altrettanto palese, degli Stati Uniti. Quello chesuccede in quella terra non è certo un segreto: bastasfogliare i giornali per capirlo. Israele, come ho dettopoc’anzi, si sta impadronendo di quella che loro chiamanoGerusalemme e che in realtà è un’area vastissima, cinquevolte più estesa della Gerusalemme storica, ossia laGrande Gerusalemme, che incorpora un’ampia zona dellaCisgiordania, con la relativa confisca e demolizione dinumerosi villaggi arabi, da sostituire con gli insediamentidei coloni. Queste politiche sono doppiamente illegali.Tutti gli insediamenti sono illegali, come già stabilito dalConsiglio di Sicurezza e dal parere della CorteInternazionale di Giustizia; ma gli insediamenti diGerusalemme sono illegali anche perché violano leesplicite disposizioni del Consiglio di Sicurezza del1968, votate all’epoca anche dagli Stati Uniti, che vietanoqualsiasi modifica allo status di Gerusalemme. Eppurel’espansione va avanti e la Grande Gerusalemme cresce.

Poi ci sono i corridoi che si estendono verso est. Il piùimportante è sicuramente quello che corre daGerusalemme fin quasi a Gerico e attraversa la cittàisraeliana di Ma’ale Adumim tagliando praticamente indue la Cisgiordania. Questo corridoio fu creatoprevalentemente sotto l’amministrazione Clinton con

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l’evidente proposito di spaccare la Cisgiordania; unterritorio ancora poco conteso, ma l’obiettivo era quello.Poi ve n’è uno che si spinge verso nord e comprendel’insediamento di Ariel, spaccando quasi in due l’arearimanente; e un altro, sempre verso nord, che si dirigeverso la città di Kedumim. Osservando la carta geograficasi noterà che questi corridoi sostanzialmente spezzettanola Cisgiordania in tanti cantoni. A prima vista puòsembrare che rimanga comunque una larga fetta diterritorio, ma non è così; la gran parte di quelle terre sonoinfatti un deserto inabitabile, per di più isolate dalla giàcitata valle del Giordano, che costituisce un terzo dellaterra coltivabile e nella quale Israele si sta espandendolentamente.

Ufficialmente Israele non sta cercando di acquisirne ilcontrollo, ma porta avanti la strategia adottata da unsecolo: avanzare un passo alla volta, in modo che nessunose ne accorga o faccia finta di non accorgersene, per poiistituire una zona militare. A quel punto gli abitantipalestinesi vanno espulsi perché si tratta di zone militari enon è consentito alcun insediamento; dopo un po’ invecespunta un insediamento militare, ad esempio quello diNahal, poi un altro, finché, presto o tardi, non diventa uninsediamento a tutti gli effetti. Nel frattempo si scavanopozzi, si espropria la popolazione, si creano delle “zoneverdi” e si adottano le stesse tecniche che dal 1967 a oggihanno ridotto gli arabi da 300.000 a 60.000 unità. Come

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ho già spiegato, queste misure accerchiano ancora di piùil territorio rimanente; e non credo che Israele abbia laminima intenzione di accorpare a sé le comunitàpalestinesi, che non rientrano in questi piani.

Spesso si paragona Israele al Sudafrica, ma è unparagone fuorviante. Il Sudafrica aveva bisogno dei neri,che rappresentavano l’85 percento dell’interapopolazione, perché costituivano la sua manodopera. Isudafricani dovevano preservare la popolazione dicolore, proprio come gli schiavisti devono salvaguardareil loro capitale; così fecero di tutto per non perderla,provando addirittura a far accettare i bantustan allacomunità internazionale. Gli israeliani non hanno in serbosimili progetti per i palestinesi, non vogliono avere nientea che fare con loro: se vanno via va bene, e se muoiono vabene lo stesso. Secondo il tipico schema neocoloniale,peraltro, Israele sta creando o consentendo la creazione diun centro per le élite palestinesi a Ramallah, con ristorantiraffinati, bei teatri e così via; la stessa cosa si è verificatain tutti i paesi del Terzo Mondo assoggettati a un regimecoloniale. È dunque questo il quadro che si prospetta;esso prende forma dinnanzi ai nostri occhi. Finora hafunzionato bene, e se dovesse continuare così Israele nonavrà più un problema demografico da risolvere. Una voltache queste regioni saranno inglobate, la percentuale diebrei nel Grande Israele aumenterà e ci sarannopochissimi palestinesi. Tutto questo sta accadendo davanti

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ai nostri occhi. A mio avviso è questa l’alternativa piùrealistica alla soluzione a due Stati, e c’è ogni ragione dicredere che continuerà così fino a quando gli Stati Unitil’appoggeranno.

21 Questo saggio si basa sul discorso tenuto da Noam Chomskyall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 14 ottobre 2014.

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RingraziamentiAncora oggi mi devo abituare all’idea di aver davvero

realizzato un secondo libro con Noam Chomsky e IlanPappé.

Un enorme grazie va quindi innanzitutto a loro peravere accettato e trovato il tempo per farlo. È stataun’esperienza straordinaria stare con loro a Cambridge,nel Massachusetts, al MIT, dove lavora Noam. Poi, girareper Boston con Ilan è stato fantastico (anche se lui poi sen’è andato via a metà partita quando giocavano i BostonCeltics).

Sono sempre felice di lavorare con la HaymarketBooks. È stato fantastico collaborare di nuovo conAnthony Arnove, e il lavoro di editing di Dao Tran è statoeccellente. Grazie anche a Laura Gottesdiener per avermiaiutato a organizzare il manoscritto.

Un grande ringraziamento ai Lyons, per la lorosplendida accoglienza a Boston. È stato bello stareinsieme a voi.

Anche questa volta mio fratello Florent mi è statoaccanto. È venuto a Boston con me e ha anche partecipatoa una delle interviste con Ilan. Per me la sua presenza èfondamentale in ogni cosa che faccio.

Le mie “famiglie” (di sangue e non) mi aiutano senzaneanche rendersene conto: mio padre, Min, Mae,Christopher, Laury, Romane, Florence, Tania, Ewa, Maria,Fay, e ancora Herve, Rafeef, Aneta, Noura, Kasia,

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William, Awatef, Aneta e Maximilien. Sapere che ci sietemi rende più forte.

Jeanne, tu sei la mia compagna di viaggio, sei quellache fa andare avanti le cose, che mi mostra qual è lastrada giusta. Sei la fonte delle mie energie, del mioamore e delle mie risate. Sei la mia luce. In tutto quelloche faccio c’è un pezzo di te. Il fatto che dalla nostraunione siano nati i nostri due splendidi figli, Leo e Thom,mi fa sperare di più nel presente e nel futuro e mi faapprezzare la bellezza della vita come mai prima d’ora.

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Table of ContentsLe terreColophonFrontespizioIndicePalestina e Israele: che fare?Introduzione1. Le vecchie e le nuove conversazioniParte prima. Dialoghi

2. Il passato3. Il presente4. Il futuro5. Viaggio al centro di Israele6. Viaggio al centro degli Stati Uniti

Parte seconda. Riflessioni7. I tormenti di Gaza, i crimini di Israele, le nostrecolpe8. Breve storia del genocidio progressivo di Israele9. Incubo a Gaza10. L’inutilità e l’immoralità della partizione dellaPalestina11. I cessate il fuoco e le loro incessanti violazioni12. Discorso alle Nazioni Unite

Ringraziamenti