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Paize Autu Pagina 8
Paize Autu
Direttore Responsabile: Alice Spagnolo
Registrazione del Tribunale di Sanremo
nr. 03/08 del 04/07/008
Sito internet: Mauro Sudi
Direzione-Amministrazione-Redazione:
18012 Bordighera Alta – Via alle Mura, 8
Le firme impegnano gli autori degli articoli
Stampato in proprio a Bordighera Alta
“U Risveiu Burdigotu”
Sede: Via alle Mura 8
18012 Bordighera Alta
Orario : lunedì e venerdi
dalle ore 16,00 alle 18,00
giovedì dalle 21 alle 23
e-mail: [email protected]
Internet: www.urisveiuburdigotu.it
Telefono: 3464923130
Spazio Etichetta
Bene a sapersi
C’è una campagna in atto nella nostra Provincia da parte delle forze dell’ordine per in-formare le persone su come difendersi da truffe e raggiri sempre più frequenti a disca-pito specialmente delle perso-ne anziane. Il 20 di marzo u.s., presso l’Unitre di Bordi-ghera, si è tenuto un incontro con il Capitano Lorenzo To-scano e con il Maresciallo Raffaele Pace del Comando Compagnia Carabinieri di Bor-dighera. Ecco le quattro regole d’oro: 1) I dipendenti delle aziende che forniscono elettricità, gas ed acqua, impiegati comunali, di banche, ecc., normalmente non vengono a casa tua se
non sei tu a chiamarli. 2) Gli appartenenti alle forze di polizia se vengono nella tua casa indossano l’uniforme ed hanno veicoli riconoscibili con scritte “Carabinieri”, “Polizia di Stato”, “Guardia di Finanza” o “Polizia Municipale”. 3) Diffida comunque di chiun-que ti chieda, direttamente o indirettamente, di mostrare documentazione di qualsiasi tipo, soldi, oggetti di valore. 4) In ogni caso in cui estranei si presentino alla tua abitazio-ne o ti fermino per strada in-giustificatamente telefona al 112, questo è per noi molto importante, non temere di disturbarci.
E Leccornie du Ciantafurche Ricette Tipiche Liguri
La "Cima ripiena", "il re dei piatti freddi". In principio, tuttavia, rappresentava una preparazione modesta. Nel-la sacca di carne finivano elementi - filoni, animelle, cervella, ecc- che venivano considerati volgari fratta-glie. Fu col tempo, coll'esercizio della fantasia sugge-rente arricchimenti, ma anche per il lievitare del prezzo degli ingredienti, che la Cima divenne piatto costoso, seppure delizioso. Per radicata tradizione, indispensabi-le nel pranzo pasquale. E la sua confezione aveva in passato qualcosa di liturgico: la gestazione amorosa del ripieno, la preparazione della tasca, con l'arte del cuci-to sposata alla culinaria; la cottura, col prezioso cusci-netto protetto da un lino; infine, il conferire alla Cima stessa la forma più aggraziata, l'espellere l'eventuale infiltrazione di brodo con l'imposizione del tagliere e d'un ulteriore peso: "una volta era di prammatica il fer-ro da stiro di ghisa o il chilo della bilancia a piatti…” La specialità si ritrova pure oltralpe, nella provenzale
"poitrine de veau farcie" (petto di vitello farcito).
Per sei persone. Occorrone 8 etti di punta di vitella in cui il macellaio avrà fatto un’ampia tasca, dove verrà posto il ripieno. Per il ripieno occorrono 4 uova; 2 etti di bietole tritate e cosparse di sale, spremute dopo un’o-ra; un po’ di mollica di pane imbevuta di latte e spre-muta; sale e pepe; 3 spicchi di aglio tritato; un rametto di maggiorana; 3 cucchiai di olio d’oliva; 15 grammi di pinoli pestati; 3 cucchiai di formaggio grana grattugiato. Si mescola bene e si introduce il ripieno nella tasca, che va poi cucita con ago e filo bianco. Si mette la cima in pentola con 2 litri di acqua, il sale e tutti i gusti per fare il brodo: carota, cipolla e sedano. Quando comincia a gonfiare, vi si fanno alcuni buchi. A cottura completa (circa 1 h), si estrae la cima dalla pentola e la si pone su un piatto largo, mettendovi sopra un peso per appiat-
tirla. Lasciatela raffreddare e tagliatela a fette.
Alessandro Seghezza U Ciantafurche
2° CONCORSO FOTOGRAFICO DEL GRUPPO BORDI-
GHERA.NET intitolato "FIORI, PIANTE, VEGETAZIO-
NE...A BORDIGHERA" ma anche A VALLEBONA, SE-
BORGA, SASSO E BORGHETTO S.N. (se possibile fare in
modo che nella foto si vedano i nostri luoghi). Si potrà parteci-
pare con una foto. Saranno rimosse le foto inserite in più e quel-
le fuori tema. Le foto dovranno essere inserite dai partecipanti
cliccando sul link indicato nella pagina Facebook del gruppo.
Premi per i primi tre classificati (scelti dal pubblico tramite i “mi
piace”), per la foto più artistica e per quella più curiosa.
“ Paize Autu” Poste italiane S.p.A. spedizione in Abbonamento Postale – 70% CNS/CBPANO/IMPERIA Anno 6 nr. 4 Aprile 2013
Periodico dell’Associazione “U Risveiu Burdigotu”
Cessa il vento calma la bufera Editoriale
Du Diretù
25 Aprile 1945. La guerra
è finita.
Nei libri di storia studiati da ragazzi, i resoconti di
battaglie combattute in
luoghi a noi remoti. Date
da imparare a memoria
per poi essere ripetute
davanti al temuto profes-sore e che restano impres-
se nelle menti degli stu-
denti quel tanto che basta
per raggiungere l’ambita
sufficienza. Ma la guerra, quella vera,
è un’altra cosa. Ma cosa?
E’ paura, innanzitutto, e
privazione. Paura di per-
dere tutto, tutti. Rabbia,
anche, per le innumerevo-li ingiustizie subite, per le
umiliazioni, per il dover
desiderare ardentemente
quelli che sono per gli uo-
mini diritti inalienabili. Ma come spiegare la guer-
ra? Cos’è? Cosa è stata?
Da insegnante me lo chie-
do spesso, giungendo ogni
volta alla stessa conclu-
sione: non si può. La guerra non è una sola: c’è
quella dei soldati e quella
dei civili. Ma non basta
questo, una semplice di-
cotomia non è sufficiente!
I soldati... uomini con gra-
di diversi, stellette appun-
tate sulle spalline, sulle maniche e sul colletto del-
la divisa. Capitani, mag-
giori, tenenti. La guerra,
come la gerarchia, non è
la stessa per loro.
Solo una cosa è certa: la guerra annienta tutti, ma
in modi diversi.
Ecco perché, più che spie-
gata (perché spiegazione
non può avere qualcosa di irrazionale), la guerra va
raccontata a chi non l’ha
vissuta, per quel sacro
dovere, quell’implicita re-
sponsabilità che abbiamo
nei confronti delle nuove generazioni.
Abbiamo dunque lasciato
la parola a quanti l’hanno
vissuta, a chi, dei nosci,
ha avuto la sua parte di amara verità su di essa.
Voci del popolo, narrazio-
ni personali che non si
trovano in nessun libro di
storia, ma che più di ogni
altra cosa si avvicinano a rispondere alla domanda
spesso posta: cos’è la
guerra?
Alice Spagnolo
Anche quest’anno, in tu Paize
veciu la nostra associazione ha
organizzato una dimostrazione
pratica per la realizzazione dei
tradizionali parmureli, che sono
stati poi venduti nel pomeriggio
di sabato 23 marzo u.s.. Nono-
stante il maltempo, siamo sod-
disfatti di aver venduto tutti i
nostri manufatti. Ringraziamo
Silvana, Armida, Vittoria, Cesa-
re, Luciana e Graziella per il
loro prezioso contributo.
PARMURELI
Lettera al Papa
Era tempo che desideravo una chiesa con meno fronzoli ed ecco che arrivi tu: Francesco. Non riesco neanche a chiamarti Papa, non perché manchi di rispetto, ma perché sei tu, sei l’uo-mo che aspettavo, l’umile strumento di Dio. Nei tuoi occhi l’abbraccio del Padre, nei tuoi gesti l’umanità e la freschezza dell’annuncio nella tua voce. Rapito dall’amore per Cristo, lo incontri in ogni fratello ai margini: risoluto nel rifiutare le formalità, scevro di ogni ricchezza esagerata, disponibile al dialogo, scendi dal trono e chiedi a noi una benedizio-ne: “vieni e seguimi” sembri dire come un compagno, un amico, come Gesù. Nella condivisione della sofferen-
za, sia essa fisica che spirituale, è la misericordia dell’Onnipotente. “Dio non si stanca di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere il Suo perdono”. Ec-co. Avevo dimenticato la parola misericordia che poi altro non è che l’amare di ogni padre per i suoi figli. Penso alla parabola del Buon Pastore o a quella del Figliol Prodigo. Nulla è perduto se ci abbando-niamo a Lui, se confidiamo in quell’abbraccio consolatorio. Ec-co Francesco, Papa France-sco: tu sei quell’abbraccio, sei le braccia di Dio. Addis Marinella
Giugà in tu Paize
U Risveiu Burdigotu e
le associazioni Genoa
Club e Fuoriasse Bor-
dighera hanno portato
in ta ciassa “Giugà in
tu Paize”, manifesta-
zione che si è svolta il
17 marzo scorso. Per i
carruggi e per le piaz-
ze del Centro Storico
sono stati proposti
antichi giochi di stra-
da, come le bocce
quadre e la cerbottana.
Purtroppo il maltempo
ha reso impossibile la
realizzazione degli
altri divertimenti in
programma, come la
campana e la catapul-
ta. Una manifestazione
dedicata ai bambini,
dunque, che ha fatto
loro riscoprire un mo-
do di giocare antico
ma nuovo per chi, nato
da poco conosce quasi
solo i videogiochi.
Inoltre, per la prima
volta assoluta a Bordi-
ghera si è svolta una
tappa del campionato
italiano di Ciclo-
Tappi, che ha visto
vincitore Ivan Crespia-
ni. Ci auguriamo di
poter ripetere al più
presto l’evento, magari
con un clima più favo-
revole.
La Redazione
Pagina 2 Paize Autu
Concorso aspiranti artisti: il terzo vincitore è RUBEN
Per il terzo mese consecutivo, abbiamo il piacere di pubblicare
lo scritto di un bambino, Ruben, 10 anni, che ha voluto dedicare
un pensiero ad un partigiano imperiese.
Ruben ha voluto omaggiare Felice Cascione, già insignito della
Medaglia d’oro al valor militare, ricordando le sue imprese valo-
rose che hanno guidato molti uomini verso la libertà. Grazie al
suo scritto, la nostra redazione ha avuto modo di approfondire
l’argomento della Resistenza, tra l’altro inerente a quanto pub-
blicato anche nel resto del giornale.
Ci è sembrato giusto, infatti, raccogliere le testimonianze sulla
guerra vissuta da alcuni lettori.
Ci auspichiamo che questa nostra scelta lasci un messaggio di
pace nel cuore di tutti, in particolare dei nostri ragazzi che han-
no bisogno, più che mai, di ricevere insegnamenti da noi adulti.
Se non riusciamo ad instillare loro valori e ideali, allora falliremo
la nostra missione: i giovani sono il nostro futuro. Non abban-
doniamoli.
RAGAZZI ASPETTIAMO LE VOSTRE CREAZIONI!!!
Visto che si sta avvicinando il 25 aprile, anniversario
della Liberazione, vorrei parlarvi di Felice Cascione, un
comandante dei partigiani, che scrisse la canzone
“Fischia il vento”. Il testo narra del coraggio dimostrato
dai partigiani e dell’audacia con cui hanno cambattuto il
nemico. Purtroppo, Felice Cascione venne ucciso prima di
giungere alla Liberazione.
Anche quest’anno parteciperò al corteo per ascoltare
quelle famose parole: “Fischia il vento, urla la bufera,
scarpe rotte e pur bisogna ardir…”
Mi raccomando non dimentichiamo!!!
Ruben
25 Aprile
Nasce a Porto Maurizio, ora Impe-ria, il 02 maggio 1918, da una famiglia di umili origini. La madre è una maestra elementare ed il padre Gio Batta è un fonditore di campane. Felice non conoscerà mai suo padre che ammalatosi gravemente durante la prima guerra mondiale, torna a casa appena in tempo per vederlo na-scere. Cascione, attivo antifascista fin dal 1940, si laurea a Bologna nel 1943. Subito dopo, mentre cresce la sua fama di medico sensibile e generoso, "U megu" (il dottore)
nome di battaglia, guida, insieme alla madre, le manife-stazioni popolari ad Imperia per la ca-duta del fascismo. Ciò gli vale 40 gior-ni di carcere. Con l'8 settembre, rac-colto con sé un piccolo numero di giovani, Cascione organizza in locali-tà Magaletto Diano Castello la prima banda partigiana dell'Imperiese. Le azioni vittoriose contro gli occupanti e contro i fascisti si alternavano all'as-
sistenza che quel giovane medico - "bello e vigoroso come un greco antico" presta ai montanari delle valli da Albenga ad Ormea. La sua generosità di medico tradisce Cascione. Una fedeltà alla profes-sione così assoluta da condurlo all’errore. In uno scontro con i fascisti, in quella che si ricorda come "la battaglia di Montegra-zie", i partigiani catturano un te-nente e un milite delle Brigate nere, tal Michele Dogliotti. I due prigionieri rappresentano un im-paccio e, dopo un sommario pro-cesso, si decide di eliminarli. In-
terviene "U megu": "Ho studiato venti anni per salvare la vita di un uomo e ora voi volete che io per-metta di uccidere? Teniamoli con noi e cerchiamo di fargli capire". Così i due fascisti seguono la banda in tutti i suoi spostamenti. Cascione si prende particolarmen-te cura di Dogliotti, che è piuttosto malandato, e divide con lui le coperte, il rancio, le sigarette. A chi diffida e tenta di metterlo sull'avviso replica: "Non è colpa di Dogliotti, se non ha avuto una madre che l'abbia saputo educare alla libertà". Passa circa un mese e il brigatista nero fugge. Pochi giorni dopo, Dogliotti guida alcune centinaia di nazifascisti verso le alture intorno ad Ormea, che sa occupate da unità garibaldine. All'alba la battaglia divampa dal versante di Nasino di Albenga. "U megu", con i suoi, tenta un colpo di mano per rifornirsi di munizioni. Il tentativo fallisce; Cascione, gravemente ferito, rifiuta ogni soccorso e tenta di coprire il ripie-gamento dei suoi uomini. Ma due di loro non se la sentono di ab-bandonarlo e tornano indietro: Emiliano Mercati e Giuseppe Ca-stellucci incappano nei fascisti. Mercati sfugge alla cattura; Ca-stellucci, ferito, è selvaggiamente torturato perché dica dov'è il co-mandante. Cascione, quasi ago-
nizzante, sente i lamenti del suo uomo seviziato, si solleva da terra e urla: "Il capo sono io!". Viene crivellato di colpi. È il 27 gennaio 1944. Il comando della brigata, che prese poi il nome di Divisione Garibaldi "Felice Cascione", fu assunto dal fraterno amico Vittorio Bartolomeo Acquarone. All'indo-mani dell'uccisione di Felice Ca-scione, Italo Calvino aderisce, assieme al fratello Floriano, alla seconda divisione d'assalto parti-giana "Garibaldi" intitolata allo stesso Cascione. Calvino scrisse: “Non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani”. La madre di Felice apprende della morte del figlio solamente diversi giorni dopo. Per la sua avversione al regime e per la scelta del figlio, si è rifugiata a Savona sotto falso nome. Nel 1976 anche a lei viene conferita postuma la Croce al Merito di Guerra.
È strano come la biografia di Ca-
scione assomigli a quella di un
altro comandante, vissuto in tempi
e luoghi diversi, la cui effige cam-
peggia tuttora sulle bandiere e le
magliette dei giovani di tutto il
mondo. X.L.
Felice Cascione Medaglia d’oro al valor militare
Paize Autu pagina 7
La Biblioteca di Alice
“D’accordo, farò come se ave-ste ragione, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peg-giori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai so-gnarvi di essere!”. Con queste parole, spinte da una poco velata polemica con-tro i benpensanti dell’epoca, Italo Calvino, il più grande scrittore italiano del Novecen-
to, introduce il suo primo romanzo: “Il sentiero dei nidi di ragno”. In esso, come già ci ha avvertito lo stesso autore, è narrata la storia di un gruppo di partigiani che, dalle alture sopra Sanre-mo, combatte la diffi-cile lotta contro il ne-mico. Questo è, pos-siamo asserire, ciò che in realtà fa quasi da sfondo alla vicen-da umana e persona-le di Pin, un ragazzet-to selvatico abbando-nato da tutti. Non potevamo certo aspettarci che nel suo
romanzo d’esordio, Calvino si limitasse a descrivere la vita di un gruppetto di uomini “un po’ storti”. Questo avrebbe potuto farlo chiunque, ma non lui. Quella di Pin è una vicenda triste: la storia di un bambino che riversa la sua solitudine in canzoni oscene da grandi, ideali per essere eseguite in squallide bettole affollate da uomini abbruttiti dal consumo di alcolici. Pin non ha amici: i suoi coeta-nei gli stanno alla larga, messi in guardia da madri protettive ma poco sensibili nei confronti di un bambino che potrebbe esser figlio loro. E’ villano, sporco e perduto, oramai. Questo l’amaro giudizio, la
nomea che Pin porta con sé dovunque vada, soprattutto quando gironzola come un cane randagio per i carruggi del suo paese. Il suo vagabon-dare fuori casa è dovuto anche al mestiere poco nobile della sorella, prostituta che si vende soprattutto ai tedeschi. Della sorella, che sembra disinteres-sarsi completamente a lui, Pin ci dà un ritratto volgare, che nasconde una rabbia di bambi-no per una ferita che non potrà rimarginarsi mai. Gli pesa il suo essere solo, il suo senso di non appartenenza a nessun gruppo: né a quello dei bambi-ni, né a quello degli adulti, che lo sfruttano per alimentare le loro fantasie più spinte nei confronti della Nera di Carrug-gio Lungo, sua sorella. “Ma nell’osteria gli uomini sono un muro di schiene che non s’a-pre per lui”, scrive Calvino nel primissimo capitolo. Per trovare quell’amicizia a cui anela, Pin compie un gesto da grande: ruba la pistola di un tedesco “in visita” alla sorella. Vuol guadagnare il rispetto di quegli uomini che, di nascosto e senza che lui possa capirlo, non fanno altro che deriderlo. Quando Pin risentito dal loro comportamento decide di na-scondere il prezioso bottino, lo fa in un posto per lui magico, il luogo che dà il titolo al roman-zo: nel sentiero dove fanno il nido i ragni. Questo è uno dei particolari che fanno del libro
un racconto tanto storico quan-to fiabesco. E qui sta il genio di Calvino, che per narrare in modo antiretorico uno dei tanti avvenimenti che l’Italia ha esaltato e, al contempo, deni-grato, decide di scegliere un bambino come protagonista e affida al suo sguardo, scevro di ogni pregiudizio, il racconto della Resistenza. Pin, infatti, proprio in quanto possessore di una pistola, si unirà ad un gruppo di partigiani. Qui, più che per la libertà del suo pae-se, lotterà, come sempre, per trovare calore e affetto. E li troverà, alla fine, grazie ad un omone, Cugino che, come nelle favole, è il gigante buono che lo salverà dalla sua esi-stenza triste, prendendolo per
mano.
Alice Spagnolo
RICORDIAMO il 101esimo ANNIVERSARIO DALLA MORTE DI PADRE GIACOMO VIALE U FRATIN
Padre Giacomo Viale, nato ad Airole
nel 1830, entrò nell’Ordine dei Frati
Minori a Genova. Era nato per fare il
religioso e s’era fatto frate per vivere in
convento, povero per non toccare dena-
ro, francescano per essere libero come
una rondine: di tutte queste cose non
gliene fu consentita esternamente nem-
meno una, perché dal 1863, sino alla sua
morte avvenuta il 16 aprile del 1912 alle
ore 16,00, egli fu chiamato dall’obbe-
dienza a lasciare il convento e fare il
parroco in un paese che di parroci ne
aveva cacciati quattro, uno dopo l’altro:
Bordighera Alta.
Paize Autu Pagina 6
bambini. Un giovane solda-
to ci parlava della sua città,
che era stata bombardata:
“Kaputt! Kaputt”, ripeteva,
per farci capire che la sua
famiglia, della quale non
sapeva più nulla, poteva
esser stata sterminata. Do-
po la guerra, alcuni di que-
sti giovani tornarono con le
rispettive famiglie, ma lui
no: a Bordighera non fece
mai ritorno. Antonietta
Soldati Bosco di Courton luglio
1918
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie.
Ricordi: autunno 1944
Sì, ora ricordo. Era il ‘44,
visto che Franz, il quasi
imberbe austriaco della
Wermacht, non era ancora
in servizio al semaforo di
Regia Marina allora esi-
stente in tu Paize Veciu. E’
un particolare facile: sino
ad allora le nostre partite di
calcio si erano svolte con
palloni pressoché fasulli.
Lui invece ne aveva uno
nuovo di Wunder-Team
austriaco e… noi ruffiani
gli facevamo segnare tanti
goal, quando il suo capo lo
lasciava giocare con noi.
Assieme ai due sottoposti
militi italiani, i due teutoni-
ci svolgevano mansioni di
vedetta con i capaci can-
nocchiali esistenti in loco.
In dotazione c’era pure la
sirena di allarme che era
agitata a mano. Ricordo
bene che il superiore di
Franz sembrava suo nonno.
Fu il giovane ad avvistare
il caccia alleato, che lascia-
va una scia di fumo. L’ae-
reo “feniva da lefante
dafanti Sanremo”. Sorvolò
per fortuna u nosciu Paize
e cadde nel giardino della
Duchessa di Kent. Lo
schianto fu come una scos-
sa di terremoto. Non si capì
perché il pilota non si fosse
paracadutato. Forse per un
guasto al sistema d’espul-
sione o per perdita di co-
scienza. Si seppe che nei
frammenti furono trovati
alcuni suoi resti. Questo
disse un bersagliere di stan-
za alla casamatta che allora
sorgeva a “Punta du Ca-
sun”, attigua all’odierno
Hotel del Mare. Era pome-
riggio inoltrato. All’indo-
mani le dirimpettaie Libera
e mia madre commentaro-
no: “Un’altra madre che
piange per colpa delle stu-
pide guerre che nessuna di
noi vorrebbe”. Ciò a capire
che le madri di tutte le lati-
tudini sono sempre MAM-
ME. All’indomani, con il
mio gruppo di amici, trovai
il modo di recarmi presso il
luogo dello schianto. Io,
Francesco, Umberto, Gi-
gio. Due “sammarchini” ci
impedirono di avvicinarci
al posto di caduta. Da lon-
tano vedemmo comunque
il cratere, rami schiantati,
alberi bruciati. Due borghe-
si stavano impartendo in
tedesco ordini ai militi che
rimuovevano le lamiere
squarciate e contorte, scri-
vendo su dei taccuini. Ci
videro, urlarono e ci fecero
scacciare al grido di “Raus!
Raus!”. Fortunati i giovani
di oggi, che il crucco grido
di “Via! Via!” non dovran-
no udire mai. Il giovane
Franz sarà tornato al sob-
borgo natio del Prater di
Vienna, oppure sua madre
avrà pianto come troppo
altre mamme? Il gruppo
degli adolescenti paizen-
ghi, tornando a casa, aveva
recepito sicuramente che le
guerre, vinte o perse, porta-
no solo lutti e pianti. Come
avevano già detto le mam-
me Libera e Zaira.
Mario Armando
25 Aprile
Ci avevano detto che la
guerra era finita e noi sia-
mo corsi tutti fuori con i
tovaglioli bianchi, per
sventolarli sopra i tetti.
Eravamo contenti e pensa-
vamo: “Mangiamo riso
come tutti i giorni, ma al-
meno in pace”. Passavano
gli aerei e noi sventolava-
mo, felici, i tovaglioli.
Antonietta
Il 25 aprile del 1945 ero in
campagna sul Beodo con
mio fratello e mio padre.
Mio padre era intento a
piantare dei fagioli. Ad un
tratto udimmo le campane
della chiesa del Sasso suo-
nare a festa. Mio padre si
alzò e si fece il segno della
croce, nonostante fosse
poco avvezzo alle pratiche
religiose. Si voltò verso me
e mio fratello e ci disse:
“La guerra è finita! Siamo
liberi!”. Nonostante fossi
molto piccola ricordo quel
momento come se fosse
ieri. Provai un senso di sol-
lievo e di gioia mai provato
prima di allora. Silvana
Ecco, la guerra è finita. Si è
fatto silenzio sull’Europa.
E sui mari intorno ricomin-
ciano di notte a navigare i
lumi. Dal letto dove sono
disteso posso finalmente
guardare le stelle. Come
siamo felici.
Antologia bordigotta: racconti di guerra
Le poesie inserite tra i ricordi di guerra sono, in ordine di S. Quasimodo; G. Ungaretti; G. Ungaretti; D. Buzzati.
Paize Autu Pagina 3
STORIA DI UNA CANZONE Fischia il vento
Nel dicembre del 1943 il partigiano Giuseppe Giaco-
mo Sibilla, reduce della
Campagna di Russia, si unisce alla banda di Felice
Cascione.
Sul Don, Sibilla, frequen-tando i prigionieri russi ed
alcune ragazze, impara le
parole e l’aria della popola-re canzone russa Katjusha e
le “porta” con sé al mo-
mento di salire in monta-gna.
In quei giorni di macchia ai
gregari di Felice Cascione viene l’idea di scrivere un
proprio inno. Dopo innu-
merevoli e svariate propo-
ste, Sibilla intona Katiuscia. La canzone piace a tutti
moltissimo: Cascione e la
sua brigata la scelgono all’unanimità.
Manca però il testo. Si fan-
no avanti Cascione e Alteri-sio. I partigiani hanno a
loro disposizione una chi-
tarra . Sibilla intona e Feli-
ce inizia a comporre. È un momento di tregua e così
intorno ad un fuoco pren-
dono vita le prime due stro-fe. ”Lo spirito ed il senso
romantico della vita preval-
gono sulla durezza del pe-riodo storico”.
Dopo la Battaglia di Mon-
tegrazie, durante un’altra tregua si risveglia tra i com-
ponenti della brigata il desi-
derio di continuare a com-porre le parole dell’inno.
Così Felice si rimette al la-
voro e dopo alcuni giorni il testo è pronto.
Grande è il successo e l’en-
tusiasmo tra i partigiani che
finalmente hanno la loro canzone. La imparano subi-
to e la cantano in coro. Feli-
ce nel mentre si preoccupa di far pervenire la sua com-
posizione alla madre, mae-
stra, che ne corregge le im-perfezioni e la tramuta in
quella che oggi è la versione
conosciuta.
In pochi mesi, nonostante
la guerra e le comunicazio-
ni a dir poco difficoltose, la canzone è sulla bocca di
tutti i partigiani italiani e ne
diventa l’inno più emble-matico.
Non tutti sanno che, appe-
na finita la guerra, la madre di Felice deve intraprendere
una lotta burocratica este-
nuante e durissima affinché
le parole di “Fischia il ven-
to” rimanessero patrimonio
del figlio e non venissero fatte oggetto di plagi o inde-
bite appropriazioni.
L’ultima “battaglia” di una madre devota che, in nome
della libertà, ha pagato il
prezzo più alto, perdere l’unico, amatissimo figlio.
X.L.
Bordigotti
immortalati nel
quartiere di Via
dei
Pescatori,
località Arziglia
alla fine della
Seconda Guerra
Mondiale. Bello
ritrovarsi uniti
e
sorridenti dopo
lunghi mesi di
sofferenza e
privazioni,
durante i quali
non si erano
potuti
incontrare.
BORDIGHERA… DOPO LA LIBERAZIONE
Nella foto riconosciamo Angela Amoretti, Antonio Taggiasco “Pantalì” e Luigi Pe-
stalardo “U fiu du Cé”, ancora tra noi. Sta a voi riconoscere gli altri: mandateci de-
gli aneddoti.
Paize Autu Pagina 4
Antologia bordigotta: racconti di guerra
Primavera del 1944: Do-
menica delle Palme
Non avevo ancora compiu-
to sei anni e mio fratello ne
aveva tre, erano circa le
7,30 di un giorno lumino-
so, ero in casa con mio fra-
tello mentre mia madre era
scesa in piazza per fare la
povera spesa: un po’ di
pane con poco companati-
co, che per quei tempi tutti
si permettevano, o meglio
tutti quelli che non erano
inseriti per loro scelta nelle
maniche di chi gestiva il
potere.
Ad un tratto sentii un colpo
forte alla porta, forse un
calcio, e io tranquillo andai
ad aprire: mi apparvero due
militari tedeschi che, con
fare minaccioso, entrarono
in casa, dove trovarono
solo noi bambini. Nel frat-
tempo ecco apparire sull’u-
scio mia madre con la bor-
sa della spesa, i militari ci
fecero uscire di casa e
scendere per le scale dicen-
do: “Raus! Raus!”. Mia
madre fece appena in tem-
po a lasciare uno scritto per
mio papà che si trovava in
mare a pescare per infor-
marlo di quanto accaduto.
Scendemmo in piazza con i
nostri vicini di casa: lì c’e-
rano diversi militari, alcuni
vestiti con le divise fasci-
ste, e molti civili, anziani,
donne e bambini. Ci fecero
incolonnare e ci condusse-
ro dentro la galleria vec-
chia del treno, ormai in
disuso, facendoci passare
in un viottolo che sbucava
a 50 metri dalla galleria e
che ora non esiste più. Mi
ricordo che durante il tra-
gitto a piedi, mia madre
vide i miei nonni paterni
(Adele e Giacumin) che
avevano più di 84 anni. In
poco tempo la galleria si
riempì di gente: vi erano
stipati tutti gli abitanti del
centro storico. Il motivo di
questa operazione non si è
mai saputo: ricordo solo
che quel giorno ci tennero
in quelle condizioni di di-
sagio sino al pomeriggio
inoltrato. Noi mangiammo
quel poco di pane imbottito
di niente, ma buono che
era… Un ricordo dramma-
tico di quel giorno è stato
che mio nonno paterno
aveva, da buon ligure, il
cosiddetto “mugugno faci-
le” e rivolgendosi ad un
militare, senz’altro con
voce un po’ alterata, disse
di lasciarci ritornare nelle
nostre case. Quell’ignobile,
come risposta, gli diede un
colpo secco con il calcio
del fucile in sua dotazione
e lo fece cadere a terra.
Sono trascorsi sessantano-
ve anni da quel giorno, ma
quei ricordi sono incisi nel-
la mia mente e nel mio
cuore -anche se allora ero
solo un bimbo piccolo- e
hanno lasciato un senti-
mento di ribellione per
quell’atto compiuto verso
una persona anziana, debo-
le e indifesa. Crescendo ho
capito che quella non era
una guerra contro il nemi-
co, ma era una guerra fra-
tricida che ha lasciato una
ferita profonda nella Storia
della nostra Patria. Giacomo Ganduglia Lupo
UOMO DEL MIO TEMPO
Sei ancora quello della
pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri
nella carlinga,
con le ali maligne, le meri-
diane di morte,
t’ho visto – dentro il carro
di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho
visto: eri tu,
con la tua scienza esatta
persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo.
Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccise-
ro i padri, come uccisero
gli animali che ti videro
per la prima volta.
E questo sangue odora co-
me nel giorno
Quando il fratello disse
all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E
quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la
tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nu-
vole di sangue
Salite dalla terra, dimenti-
cate i padri:
le loro tombe affondano
nella cenere,
gli uccelli neri, il vento,
coprono il loro cuore.
Bombardamenti 1
Vedevamo le navi e guar-
davamo gli aerei bombar-
dare Ospedaletti. Le navi al
mattino erano tutte schiera-
te all’orizzonte: facevano
paura. In Via dei Colli, una
bomba partita da una nave
aveva ucciso un uomo. Da
Mont Agel hanno bombar-
dato una casa in via Gar-
nier, dove abito tutt’ora.
Eravamo in cantina quando
udimmo una fortissima
Paize Autu Pagina 5
Antologia bordigotta: racconti di guerra
sima esplosione. Pensava-
mo che la nostra casa fosse
crollata tanto era stato vio-
lento lo scoppio e la conse-
guente scossa. Il mio pen-
siero andò subito a mia
madre, che si trovava
nell’alloggio soprastante la
cantina: “C’è rimasta!”,
dissi. Poi quando uscim-
mo, vedemmo mia madre
che scendeva verso di noi
e la nostra casa ancora in-
tera: era stata colpita una
casa vicino, fortunatamen-
te disabitata, visto che i
proprietari erano già sfol-
lati. I resti della casa sono
ancora visibili, a ricordare
lo scempio della guerra.
Antonietta
Fratellanza in guerra
Io non ero un vero e pro-
prio partigiano, perché non
ero ufficialmente aggrega-
to a nessuna brigata. Mio
fratello invece sì ed il suo
nome di battaglia era Mer-
curio. Lo posso citare per-
ché, mio fratello ci ha or-
mai lasciato da diversi an-
ni e si sa che il nome di
battaglia si rivela solo do-
po la morte. Mi ero dovuto
dare alla macchia per non
subire le ritorsioni inflitte
ai parenti più stretti dei
partigiani. Ero molto gio-
vane… In quei giorni ero
rifugiato in un casolare
sulle alture di Ventimiglia.
Io e i miei compagni era-
vamo lì ormai da diverso
tempo ed i viveri iniziava-
no a scarseggiare: non po-
tevamo muoverci perché
eravamo accerchiati e ri-
schiavamo la fucilazione
se catturati. Passarono an-
cora alcune giornate nelle
quali non toccammo prati-
camente cibo. Bisognava
spostarsi, tanto le uniche
alternative erano solamen-
te: morire fucilati o morire
di fame. Ci dividemmo. Io
rimasi con un amico cono-
sciuto in montagna. Lui
era riuscito ad evitare la
deportazione scappando
dal treno merci che lo sta-
va conducendo in campo
di concentramento. Era un
po’ più vecchio e malanda-
to di me perciò io cercavo
di trascinarlo ed aiutarlo
nei tratti più impervi del
nostro cammino. Stavamo
cercando di ritornare ad
Isolabona: in linea d’aria e
se avessimo percorso i
sentieri canonici non era-
vamo lontani. Purtroppo
dovendo camminare in
mezzo ai boschi la strada
si allungò di parecchio.
Passammo sotto Carmo
Langan, dove si trovava
l’accampamento partigia-
no, e ci accorgemmo che i
tedeschi si stavano prepa-
rando ad attaccarli. Erava-
mo circondati! Se ci aves-
sero preso, saremmo stati
perduti. Cercammo il più
possibile di non dare
nell’occhio, di non fare
capire ai tedeschi che era-
vamo dei fuggiaschi. For-
tunatamente non eravamo
armati e perciò, quando
incontrammo la prima ca-
mionetta nemica che ci
chiese informazioni, riu-
scimmo a mentire sulla
nostra vera identità. Ta-
gliammo per i boschi, sem-
pre più affamati, trovam-
mo un albero di mele rin-
secchite che divorammo in
un batter d’occhio senza
troppo soffermarci sull’a-
spetto ed il gusto. Conti-
nuammo la nostra marcia
verso Isolabona sotto un
implacabile temporale;
passammo la notte in un
bosco sempre sotto una
pioggia scrosciante. Sedu-
to su una rivassa (pendio
scosceso) e coperto da una
semplice cerata, quella
notte riuscii persino a dor-
mire per qualche minuto.
Arrivammo ad Isolabona,
dopo quasi due giorni di
cammino, alle prime luci
dell’alba. Eravamo strema-
ti e sempre più affamati.
Incontrammo un contadino
che si stava recando in
campagna: gli chiedemmo
aiuto e qualcosa da man-
giare. L’uomo di poche
parole uscì una formagget-
ta dalla sua bisaccia, la
divise in due parti uguali e
consumò con noi la sua
parca colazione. Bruno
Bombardamenti 2
Non so perché quando
suonava l’allarme quasi
sempre facevo colazione:
una tazza di caffelatte con
qualche pezzo di pane.
Allora bisognava scappare
e abbandonare tutto per
rifugiarsi negli angusti
magazzini di Via Conda-
mine. Oltre alla paura c’e-
ra la rabbia di dover ab-
bandonare quella che per
me, in quei giorni, era
un’ambita leccornia… Un
impulso irrefrenabile mi
faceva sbattere i denti co-
me se fuori ci fossero stati
50° sotto zero. In quei ma-
gazzini eravamo stipati
come delle sardine. Quella
era la nostra unica speran-
za di salvezza, anche se,
ripensandoci da grande era
altrettanto pericoloso che
rimanere sotto le bombe.
Eravamo talmente nume-
rosi in quegli angusti per-
tugi che è stato un miraco-
lo se non è mai morto nes-
suno soffocato. Silvana
San Martino del Carso
Valloncello dell'Albero
Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E' il mio cuore
il paese più straziato
Tedeschi
In Piazza del Popolo, sopra
l’attuale Ufficio Tecnico,
dal semaforo (torretta di
avvistamento e segnalazio-
ne) era stata installata una
mitragliatrice tedesca con
la quale i soldati cercavano
di colpire gli aerei. Alcuni
tedeschi di stanza distri-
buivano il cioccolato a noi