Pagine da Arkel Avvolto_nel cielo stellato

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Dario Arkel Avvolto nel cielo stellato (giorni paralleli) postfazione di Francesco Napoli con una nota di Amerio Pace

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Dario Arkel

Avvolto nel cielo stellato(giorni paralleli)

postfazione di Francesco Napoli

con una nota di Amerio Pace

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In memoria di mio Padre.

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“Quando il bambino era bambino, se ne stava a braccia appese.Voleva che il ruscello fosse un fiume, il fiume un torrente, e questapozza il mare.

Quando il bambino era bambino, non sapeva di essere un bambino.Per lui tutto aveva un’anima, e tutte le anime erano tutt’uno.

Quando il bambino era bambino, su niente aveva un’opinione. Nonaveva abitudini. Sedeva spesso a gambe incrociate, e di colpo sguscia-va via. Aveva un vortice tra i capelli, e non faceva facce da fotografo.

Quando il bambino era bambino, era l’epoca di queste domande:perché io sono io, e non sono te? Perché io sono qui, e perché non sonolì? Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio? Non è lavita sotto il sole solo un sogno? Non è solo l’apparenza di un mondodavanti a un mondo, quello che vedo, sento e odoro? Esiste veramente ilmale, e ci sono persone veramente cattive? Come può essere che io, chesono io, non esistevo prima di essere? E che un giorno io, che sono io,non sarò più quello che sono?

Quando il bambino era bambino, per nutrirsi gli bastavano pane emela, ed è ancora così.

Quando il bambino era bambino le bacche gli cadevano in mano,come solo le bacche sanno cadere. Ed è ancora così. Le noci fresche gliraspavano la lingua, ed è ancora così. A ogni monte, sentiva nostalgiadi una montagna ancora più alta, e in ogni città sentiva nostalgia diuna città ancora più grande. E questo, è ancora così. Sulla cima di unalbero, prendeva le ciliegie tutto euforico, com’è ancora oggi. Aveva ti-more davanti a ogni estraneo, e continua ad averne. Aspettava la primaneve, e continua ad aspettarla.

Quando il bambino era bambino, lanciava contro l’albero un bas-tone, come fosse una lancia. E ancora continua a vibrare.”

peter hAnDke, Canzone della fanciullezza

sAbAto, shAbbAt, shAbes.

nel sogno vagavo per la stanza come un corvo acceca-to. era una sensazione di leggerezza, di una leggerezzaconsapevole. Avevo fatto il salto, finalmente, e da quelsenso di eterna e schiacciante colpevolezza, che mi avevacondizionato fin da ragazzo, ne uscivo libero e fiero.scendevo lo scalone di un palazzo dorato e la folla plau-dente si apriva davanti a me. si allungavano mani dastringere che desideravano il contatto, volevano la miaapprovazione come se fossi un angelo. era il mio trionfo.

risveglio. sensazione che tutto quanto accadutofosse svanito, cancellato. sia il mancato aumento di sti-pendio, sia l’atto di divorzio con la richiesta di un con-tributo impossibile da ottemperare.

Mi alzo dal letto, scostando il piumino con la solitasensazione di uscire dal sepolcro. sono risorto anch’io,in una dimensione alternativa alla realtà, solo mia.Insindacabile e imprendibile. e io sono io, non più l’al-tro che stimavo e apprezzavo, quell’altro non identifi-cato che “faceva” me, mi assegnava un ruolo, mi osser-vava e controllava. Quello non c’era più, non avevopiù bisogno di pensare a quest’altro per considerarmibravo. sono un brav’uomo punto e basta. Il suo giudi-zio tagliente ed efferato, di poche parole, che mi scuo-teva le fibre interiori, aveva fatto i bagagli. e sonorimasto solo e libero. Mi risveglio e con piacere mi

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ritrovo solo. Ma forse non sono solo, è soltanto un pen-siero. nella mia stanza come nella mia testa vivonotutti i personaggi. Mi sento come un angelo-corvo-accecato. bianco-nero-invisibile.

Il primo a venirmi in testa è un altro ancora, quellocon il volto di mio padre partigiano a vent’anni, che miguardava e diceva che dovevo assolutamente lasciareperdere, di non stare a pensare a sciocchezze così ter-rene, ignobili, vili… Quest’altro che per me avrebbepotuto mascherarsi con la rete che rende invisibili,quella di sigfrido, e assistermi nel duello, facendomivincere con un inganno doveroso, e che, invece, rifiutavacome sempre di farlo perché intanto tu te la cavi sempre.

Un tu che sono io. Che sono bruno e Alter. Che uni-sco e disunisco le mie due parti quando mi pare, masempre con dolore.

nel sogno, svernare nel mondo degli uomini era unostupido giochetto. Adesso invece realizzavo con males-sere che lunedì ero atteso al lavoro per l’ennesima stri-gliata, per una strizzata d’animo… ma il modo comela gente mi accoglieva in ufficio, inventandosi formulea loro vantaggio e a mio discapito, togliendomi ladignità, non assegnandomi compiti per i quali avevostudiato e fatto esperienza per trent’anni, ecco tuttoquesto si era vaporizzato come nebbia svanita nelvento, grazie alla coscienza dormiente. e non provavoalcun rancore. Il mio senso dell’essere era come unlegno levigato e perfetto, tanto liscio da risultare mor-bido al tatto.

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Questa mattina faccio i conti con le due parti di me.bruno mi porta sempre oltre, vaga per la stanza men-tre Alter è ancora a letto e sogna di sognare. Alter sipiazza la kippah a mezza testa, oggi che è shabbat,solo per un segno distintivo, mentre bruno si doman-da dove si va insieme a far danno? normalmente, quandol’uno parla, l’altro tace ma, sotto sotto, agisce e smon-ta i propositi di una giornata attiva, intensa nel lavoro,corretta nei confronti del prossimo, in linea con quel-l’altro giovane partigiano che indicava la strada del-l’impegno, della benevolenza, della noncuranza rispet-to a chi vive del male che fa.

La voce di bruno non riesco a fermarla, è lo stimo-lo continuo a ritrovare l’immediatezza del corpo, l’in-treccio con altri corpi, mettermi in competizione,ascoltare le onde di orgasmi che fino a poco fa altrihanno udito, e che non hanno niente di specificamentelegato a me. Alter vorrebbe evitare questi incontri cheportano dove si riscontra il nulla che si è, che perpetua-no l’illusione di potersi appropriare eternamente di ciòche sfugge e sparisce nell’irrisolto del vivere. brunonon vorrebbe, bruno esige il suo nutrimento, lo scambioquotidiano e promiscuo, il ritrovo d’alcova, il trapassodalla mestizia corretta allo sbando fuori ordinanza.bruno è fisiologico quanto Alter è flusso mentale e pon-derato, generatore di forza interiore, bruno è l’espe-rienza del piacere quanto Alter è la negazione di essa:la figura di un monaco col cilicio. Il sesso chiama. euno dice, prendi! e l’altro dice, ama!, e né l’uno né l’al-tro esprimono quel senso di pacificazione nell’affettoche la mescolanza delle mie due parti desidera. Forse.

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Mi sdraio nuovamente nel letto e prendo il sessonella mano, come per accertarmi che ci sia ancora.Quasi rotondo e goffo, rinchiuso nella guaina fin sottola cappella, una specie di lingua rosa arrotolata chefuoriesce da un fazzoletto. tutto ciò che desiderabruno è l’utilizzo di questo insieme di caverne imbevu-te, un breve rubinetto di calibro variabile, tutto ciò chedesidera invece l’altra parte di me è metterlo a tacere,avvolgerlo per sempre nel suo involucro. nessuno sti-molo, sono tornato a volare per la stanza senza luce.

“Nessuno entra nella mia camera senza che un raggio di lucedella mia vita interiore non gli vada incontro”. j. boUsQUet

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Il soffitto della camera incombe su di me come uncofano, e il mio sguardo si situa nella penombra tral’armadio e l’angolo del soffitto. Là, pensavo, deveesserci qualcuno, qualcosa. ecco, è l’altro primigenio.Un elfo, uno gnomo solidale ma dispettoso.

Vieni su – mi dice la voce della coscienza – sali, se vuoiporta qua il materasso, dormi con me, dobbiamo rinchiuderci,rannicchiarci insieme, abbracciarci quassù, dove nessuno ci puòvedere, nessuno può indovinare la nostra presenza. Da qua –continua – osserviamo non osservati il brulichio infinito dellapolvere e degli acari, quello che si sa e non si vede, tutta quellametafora umana di respiri più affannati del tuo. Sì, qui troviamocompagnia pulita: più vai in alto, più trovi qualcosa che evita ilrespiro insano. Respiriamo insieme il sabato nuovo, il riposo chepuò non angosciarti più.

Vorrei aprire la finestra, chissà che l’aria della cittànon sia meno pregna delle schifezze della notte, chissàche dall’esterno non arrivi un profumo di lenzuolastese, lavanda o sandalo, chissà che in un mattino comequesto il traffico non sia diradato, i rumori meno osses-sionanti, l’avvicendarsi dei passi meno affrettati. Marimango fermo, immobile. Con l’idea dello gnomocomplice, il terzo soggetto, appollaiato sull’armadio.Là, in quell’angolo ristretto e ottuso, potevo trovare ilrifugio, evitare di essere in casa, nascondendomi comeun bambino. Là, in qualche modo, sarei stato lontanoanche dal letto e dai due me che si randellavano, misarei esiliato nella giusta nicchia, nell’attesa che brunoo Alter si fossero messi d’accordo sul da fare.

Improvvisa emerge la voglia di piangere. Una parte

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di me, Alter, credo, vuole disperarsi, l’altra, all’oppostomi richiama.

A chi vuoi mostrare il tuo pianto? – bruno dice – sei solo,nessuno ti può vedere. Mùccala, non recitarti addosso!

eppure il magone mi attanaglia e la disperazioneesternata potrebbe liberarmi. Voglio piangere e nonc’è dubbio che prima o poi piangerò, ma ancora tornolà, su quell’armadio che pare il Monte bianco. e chic’è là? Lo gnomo e una compagnia di immagini ferme,come statuette di una rappresentazione cattolica. nelsenza tempo, mia madre mi teneva per mano, questolo sapevo dalla piccola fotografia, l’unica, che conser-vavo. e, accanto a lei, sua madre, mia nonna.

ora non so se incomincio a pregarle o solo ad evo-carne la presenza, a desiderare l’incontro con questeanime disperse tra il fondo della terra e l’idea di uncielo, ma le vedo distintamente nell’etere. Mia madreè un corpo sottile e un viso sorridente al quale chiedoaiuto, la forza di andare avanti come fossi ancora pic-colo. La nonna, invece, è solo un volto, il naso schiac-ciato e largo verso la bocca, i capelli bianchi come imiei. perché non vi occupate di me?, anche se sonovecchio ho ancora bisogno della vostra voce, di unabenedizione. Lo sapete che ho dato più di quanto horicevuto, lo sapete che tutto quanto ho fatto, l’ho fattosolo per respirare e sorridere, qualche volta… ora nonè più così, ho un’àncora al collo che mi fa sprofonda-re. Liberatemene, vi prego. perché anche chi pensavomi volesse bene mi vuole sprofondare nel silenzio, cac-ciare nel buco nero, eliminare dal mondo sensibile. Dame, che non ne ho, la ex-moglie vuole solo soldi, non

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le importa nulla di me. Ventitre anni insieme per poinon ricevere neppure un cenno d’affetto, ma chedico?, di rispetto. e sono il padre delle nostre figlie.Vedete dove abito? poco più di un buco che pago conun mutuo aldilà delle mie possibilità. Da sempre l’exdiceva che ho le mani bucate e mi interessano i soldi.ho cominciato a pensare che fosse davvero così.Qualcosa di vero c’è: mi piacerebbe trattarmi bene, semi fosse possibile. Ma senza mai togliere nulla aglialtri. non ho però mai vissuto nel lusso se non quan-do, per così dire, l’ex mi ha portato con sé nella villaereditata – pentendosene da subito, e io con lei, inquanto ero solo un intruso, e certe notti mi pareva diessere nel letto non con lei, ma con suo padre. nonvivo nel lusso ora né ci vivevo prima di sposarmi, e ilpeggior vivere l’ho subìto da presunto marito di pre-sunta moglie facoltosa. ora non ho proprio nulla,anche perché le poche e povere “gioie” della mammale ho dovute vendere per pagare le tasse, quando eroancora sposato, senza che nessuno battesse ciglio.

Ma perché dovrei vergognarmi di desiderare ilbenessere? Che cos’altro sono i soldi se non la sicurez-za, la libertà, l’autonomia, l’autoprotezione, l’indipen-denza? ecco, quand’ero sposato ero un dipendentedell’azienda della sua famiglia, seppure non a libropaga. La mia professione era “marito della figlia omarito della sorella”: la mia personale, bisognosa,famiglia era una parte minimale non redditizia e anzisempre in perdita di un’azienda che, pur diffusa intutto il mondo, abbisognava di questo piccolo ingra-naggio perché tutto deve essere a posto, e non si sa mai

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che cosa riserverà il mercato, e magari uno spiccioloereditato alla fine dei tempi, potrà venire bene percambiare qualche lampadina in uno degli uffici dihong-kong. Io, dipendente pubblico, in realtà lavora-vo inconsapevolmente per il mercato familiare diun’angosciosa multinazionale. Quando uscivo dai con-solidati schemi di conservazione e di ambigua dirittu-ra morale e mi trinceravo nel mio “comunismo d’an-tan”, apparivo fuori luogo, ridicolo e pure ipocrita per-ché non potevo rinunciare a quanto era elargito allamia personale famiglia ristretta. per questo udivo lenon udibili risate dell’apparato. e mentre altri cognatisapevano stare al gioco e fingere, io cadevo puntual-mente nella trappola, protestando preventivamentecon il silenzio, tipica disapprovazione dei lacché mai difatto preparati all’ipocrisia, ma solo all’ingenuità.

Il denaro è sempre una nuova possibilità, una speciedi madre risorta, della quale abbiamo bisogno pervivere. perché avrei dovuto, e a maggior ragione devonegarlo ora, che non ho più nulla di nulla? Le miefiglie godrebbero dei miei soldi, aprirei loro porte enuove possibilità, e lo farei liberamente, senza porrealcuna condizione, come deve fare un buon padre, noncome chi specula sulle indecisioni altrui.

Dire di non aver bisogno dei soldi è come affermaredi non aver bisogno di una madre, della sua rassicura-zione e della consolazione. e io non posso negare checerco nel denaro, quello che mai ho avuto. Ma comespiegarlo a chi posa lo sguardo sulla laccata superficiedelle cose? non cerco giustificazione, ma solo un po’d’ascolto poiché ormai so neutralizzarmi da me.

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Vedi bene – si intromette bruno – che chi può dare è solol’umile, lo sai.

Per lo meno può ricoprirti di comprensione e affetto. La tua exe i colleghi della “multiangosciosa” certo non lo fecero. Quantoracconti, Alter, è comunque acqua passata. Smettila con questesciocchezze, è chiaro che sei solo, nessuno ti ascolta, neppure tuamadre e tua nonna, e se pure ti ascoltassero, là, sopra l’armadio,avrebbero solo pena di te.

hai ragione – gli dico – hai ragione. Ma spiegamiuna cosa…

Che cosa?spiegami perché la mamma è morta.Incidente domestico, come ti è noto, Alter. Quella sera cupa di

gennaio, il dodici, mi pare. Tu avevi otto anni e lei trentotto. Eria letto con gli orecchioni, ascoltavi la musica, quella raccolta del“Reader’s Digest”. Dopo il ritornello del “Toreador” c’era quelpezzo che ti metteva tristezza, “La grande Pasqua russa”,Rimski-Korsakoff, ricordi?

sì.Tua madre si affaccia sullo stipite della porta e ti dice che va

a fare il bagno, aveva un panino con il formaggio in mano.eh sì, è così, bruno.Poi non l’hai più vista. Ma l’hai sentita...sì… ah, che stupido, che stupido...Sentivi dei lamenti strani, dei rumori, qualcosa che non capivi…bruno, mia madre era persona spiritosa, alle volte

giocava, faceva scherzi strani, sì. Le mandavo la miavoce: mamma, lo so che scherzi, dai…

Invece tua madre stava morendo.era anche tua madre…Sì. Ma, io mi sento comunque nato dopo.

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