Osservazioni sull'uso delle fonti nella "Geografia trasportata al morale" di Daniello Bartoli

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Osservazioni sull’uso delle fonti nella Geografia trasportata al morale di Daniello Bartoli Memoria di licenza presentata alla Facoltà di Lettere dell’Università di Friburgo (Svizzera) per il conseguimento del grado di licenziato in letteratura italiana da: Demis Quadri, Minusio, 2004

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Studio sulle fonti di Daniello Bartoli del signor Demis Quadri

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Osservazioni sull’uso delle fonti

nella Geografia trasportata al morale

di Daniello Bartoli

Memoria di licenza presentata alla Facoltà di Lettere dell’Università di

Friburgo (Svizzera) per il conseguimento del grado di licenziato in letteratura italiana da:

Demis Quadri, Minusio, 2004

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Sommario

Introduzione ......................................................................................................................................... 3

I. L’Isole Fortunate............................................................................................................................... 5

II. Mongibello .................................................................................................................................... 13

III. Itaca .............................................................................................................................................. 23

IV. La Cina......................................................................................................................................... 32

V. Il Capo Non ................................................................................................................................... 45

VI. L’Atlante ...................................................................................................................................... 50

VII. Le Cateratte del Nilo................................................................................................................... 56

IX. Zeilan ........................................................................................................................................... 60

X. Le Correnti .................................................................................................................................... 65

XV. Mitilene ...................................................................................................................................... 76

Conclusioni ........................................................................................................................................ 81

Appendice - Indice della Geografia ................................................................................................... 84

Bibliografia ........................................................................................................................................ 89

Opere di Daniello Bartoli................................................................................................................ 89

Opere di altri autori e antologie ...................................................................................................... 90

Studi................................................................................................................................................ 94

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Introduzione

Scopo del presente lavoro è quello di analizzare, senza un’ambizione di sistematicità, l’utilizzo

delle fonti in alcune parti della Geografia trasportata al morale (1664)1 del gesuita ferrarese

Daniello Bartoli,2 mettendo quando possibile in evidenza i procedimenti retorici utilizzati

dall’autore nell’immettere le notizie prelevate da altre opere all’interno delle sue descrizioni

geografiche.3 Le parti della Geografia che vengono qui considerate sono le sezioni iniziali di alcuni

capitoli, separate nell’editio princeps con uno spazio da quanto le segue, che vogliono presentare al

lettore alcuni aspetti di determinati luoghi, a partire dai quali Bartoli trae l’ispirazione per

sviluppare le proprie riflessioni morali. Questa delimitazione viene operata, in primo luogo, al fine

di evitare un ventaglio troppo ampio di dati, che dilaterebbero eccessivamente la lunghezza di

questo studio, e, secondariamente, per indirizzare la ricerca verso porzioni di testo dai contenuti

analoghi anche nelle intenzioni del gesuita ferrarese.

Le fonti bartoliane delle quali si parlerà nei capitoli che seguono4 sono principalmente quelle - in

gran parte classiche, cioè latine o greche,5 ma spesso pure italiane - che sono indicate esplicitamente

nelle note presenti nella princeps della Geografia. Altre fonti, in numero minore, sono state reperite

per altre vie, a volte grazie ad accenni presenti nel testo a particolari autori, per esempio nel caso di

Matteo Ricci all’interno del capitolo sulla Cina, o a note legate a citazioni esterne alle zone prese in

esame in queste pagine, come quando Bartoli descrive le cascate del Nilo sulla base della

1L’edizione di riferimento della Geografia utilizzata per le citazioni e i rimandi è la princeps (secondo quanto appare in C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Paris-Bruxelles, Schepens-Picard, 1890, vol. I, pp. 975-976), stampata presso l’editore Egidio Ghezzi a Roma nel 1664. In caso di dubbi mi fondo per i confronti sull’edizione delle Opere bartoliane di Giacinto Marietti (D. Bartoli, Delle opere del padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù, 1825-1856: la Geografia si trova al volume XXX, del 1839), sebbene poco affidabile dal punto di vista del restauro testuale (cfr. Aricò, 1994: 91). Per quanto riguarda le trascrizioni, i miei interventi si limitano alla distinzione di u e v, allo scioglimento dei termini abbreviati e all’aggiunta degli accenti mancanti. Il rimando alla princeps per le citazioni sarà indicato semplicemente, ove si tratti di brani esterni alle sezioni trascritte qui per l’analisi, con il numero della pagina riportato tra parentesi tonde. 2Non credo sia necessario soffermarsi sulla biografia di Bartoli. Mi limito a dare qualche indicazione bibliografica, rimandando il lettore a quanto scritto in proposito da Alberto Asor Rosa (1967: 563-571), da Mario Scotti (1969: 45-69) e da Marino Biondi (1994: 83-86). Pietro Tacchi Venturi (1949: 908) segnala che “per la biografia [di Bartoli], la più estesa si ha nel t. I delle Operette morali, spirituali e scientifiche, Venezia 1716; la medesima compendiata, ma con alcune aggiunte in A. Patrignani-G. Boero, Menologio, I, Roma 1859, pp. 247-251”. 3Parlare di “descrizioni geografiche” nel caso che ci interessa non è un modo di esprimersi precisissimo, anche se si tiene conto del fatto che Bartoli, come ci dice Adolfo Faggi nella sua introduzione a L’uomo al punto cioè l’uomo in

punto di morte (1930, vol. I: IX), intende il termine “Geografia nel senso più esatto e preciso di descrizione dello stato presente della terra”. All’interno di quelle che chiamo “descrizioni geografiche” in realtà il gesuita ferrarese narra anche eventi storici o aneddoti mitologici, incentrando a volte la sua attenzione proprio su questi (per fare due esempi, che utilizzano entrambi come fonte importante l’Eneide tradotta da Annibal Caro, si possono citare le parti dedicate al Mongibello e a Scilla e Cariddi). 4I capitoli che suddividono il presente lavoro sono disposti secondo l’ordine di quelli che compongono la Geografia - il lettore ne troverà l’indice nell’appendice di questo studio - e dai quali essi ereditano pure il titolo. 5Nella Geografia comunque i brani di autori greci sono sempre citati in latino. Nella mia trattazione per i confronti con i testi di questi autori e per ogni riferimento a determinati passaggi mi fondo sempre, poiché ignoro il greco antico, sulle traduzioni moderne segnalate in bibliografia.

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rappresentazione che delle stesse ci è data da Seneca, ma cita esplicitamente le Questioni naturali

soltanto un po’ più avanti. Purtroppo, come si vedrà meglio considerando il brano della Geografia

dedicato al Capo Non, non sempre è possibile capire a quale fonte abbia attinto il gesuita ferrarese,

anche perché a volte non si trovano segnali utili in tal senso trasmessi mediante note a piè di pagina

(può pure capitare che una nota ci sia, ma non sia agilmente interpretabile) o attraverso altre

indicazioni.

Per quanto riguarda i procedimenti retorici, si tratterà di vedere se in alcuni casi la fonte

utilizzata da Bartoli è anche stimolo di specifiche costruzioni stilistiche, come ad esempio nel caso

della descrizione del monte Atlante, nel sesto capitolo della Geografia, dove viene citato un

passaggio di Plinio il Vecchio relativo al Colosso di Rodi, o nel caso della rappresentazione delle

cascate del Nilo, dove viene sfruttato, sull’onda di quanto avviene nelle Naturales Quaestiones di

Seneca, il procedimento retorico della personificazione. Come base teorica per questo tipo di

operazione farò riferimento, oltre agli studi dedicati direttamente all’opera del gesuita ferrarese

citati in bibliografia, a tre volumi consacrati alla retorica, cioè a Les figures du discours di Pierre

Fontanier (1827-30),6 agli Elementi di retorica di Heinrich Lausberg (1969) e al Manuale di

retorica di Bice Garavelli Mortara (1998).

Prima di passare alla parte centrale di questo lavoro, può essere utile fornire brevissimamente al

lettore - onde renderlo quanto meno cosciente del meccanismo generatore della struttura di tale

opera - qualche informazione generale sulla Geografia.7 In un capitolo della Letteratura italiana

laterziana, così si esprimeva Alberto Asor Rosa:

Fra le opere [bartoliane] di unzione religiosa [...] e quelle che si sogliono definire più o meno propriamente scientifiche, si collocano [...] alcune operette, in cui il tentativo d’estrarre dal mondo naturale immediati significati d’ordine simbolico e religioso costituisce l’oggetto immediato e specifico della trattazione.8

Tra queste opere, l’esempio principale citato da Asor Rosa è proprio la Geografia, alla quale

vengono accostati i libri, scritti più tardi, De’ simboli trasportati al morale (1677). Nel caso della

Geografia gli spunti per una serie di riflessioni su tematiche morali è fornito, come ho già

accennato, dalle descrizioni geografiche che sono sviluppate all’inizio d’ogni capitolo, di modo che

6Tale testo verrà citato nel presente lavoro nella sua edizione del 1968. 7Eccezion fatta per un Mémoire di licenza presentato presso la Facoltà di lettere dell’Università di Friburgo da Krysia Binek (1974), che verte principalmente su aspetti sintattici dell’opera, non sono a conoscenza di alcuno studio specificamente dedicato alla Geografia trasportata al morale. Su altri aspetti linguistici della prosa bartoliana, posso segnalare, per chi voglia condurre un approfondimento in tal senso, alcuni studi: oltre alle pagine di Luca Serianni sulla lingua del Seicento (1997), utili a situare i lavori del gesuita ferrarese in quel quadro, si possono vedere gli studi di Gigliola Gamba (1957), di Bice Garavelli Mortara (1962, 1963 e 1982), di Giampiero Maragoni (in AA.VV., 1986) e di Sergio Bozzola (2000). 8Asor Rosa, 1974: 300-301.

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le Isole Fortunate, meglio conosciute al giorno d’oggi come Canarie, offrono per esempio la

possibilità di sviluppare alcune considerazioni sulle false speranze ingenerate dalla fama delle corti,

mentre l’isola di Madera, passata dallo stato selvaggio a quello di una grande fertilità dovuto alle

bonifiche volute dagli uomini, può persuadere di “Come si possa rinascere di sè stesso, migliore di

quel che si è nato” (p. 212). Si vedrà nel corso del lavoro - durante il quale si svilupperà un’analisi

puntuale di singole porzioni di testo che permetterà, nella conclusione, di raccogliere alcune tra le

vie maestre percorse da Bartoli nel suo comporre - quale influenza possa aver avuto la natura

dell’opera, accanto allo scenario culturare che a essa faceva da retroterra, sull’impiego di fonti e di

determinati procedimenti retorici.

I. L’Isole Fortunate

I. 1In udendo ISOLE FORTUNATE, misero voi, e me, se vi venisse talento di correre a metter

fuoco in quest’unico legno, su’l quale habbiam navigato, cercandole fin d’Europa, mille miglia d’inquietissimo mare. 2Così già fecero le ingannate madri Troiane, poiche il lor condottiere Enea prese terra in Sicilia. 3Paruta loro quella essere un’Isola Fortunata per chi non havea stanza altrove, non vollero andar più tapinando, a discretione de’ venti, e cercando terra in mare: che dove la troverebbon migliore? 4Dunque per non tornare addietro, e non passar più avanti si consigliarono ad abbruciar le navi. 5A chi non de’ altro che passar lungo quest’Isole, e in uno stesso vederle, e andarsene, non è fallo che nuoca il crederle quel che non sono, e si può per diletto udire quel che la Fatal Donzella, che sù lo speditissimo suo legnetto si conduceva Carlo, e Ubaldo per quell’incognito oceano, poiche fù di rincontro a quest’Isole, contarne quel che la semplice Antichità ne credette. 6Qui non fallaci mai fiorir gli olivi,a E’l mel, dicea, stillar da l’elci cave; E scender giù da lor montagne i rivi, Con acque dolci, e mormorio soave: E zefiri, e rugiade i raggi estivi Temprarvi sì, che nullo ardor v’è grave: E qui gli Elisi Campi, e le famose Stanze de le beate anime pose. 7Ma chi vuol farle patria sua, e menarvi sua vita, altri che sè non incolpi, se mal glie ne incoglie, credendo all’altrui dire quel che può intendere da’ suoi occhi. 8Hor a voi che le havete innanzi scoperte, e tutto desse, che ne dicono i vostri? se già non v’è più in grado d’udir quel che a me ne dicono i miei. II.

1I primi rozzissimi Dipintori,b *Quando ars quodammodo in lacte, & fascijs versabatur, che che rappresentassero in ritratto, havean mestieri di scrivergli a piè quel ch’era, o per più veramente dire, quel ch’essi volevan che fosse: altrimenti correva pericolo, che un huomo si credesse un piantone, o una pecora un cane. 2Così a me pare, che a chi naviga lungo quest’Isole, faccia bisogno di darsi a leggere in qualche piana costa di monte, a letteroni visibili dalla lungi, Queste dodici in un gruppo, son l’Isole Fortunate: altrimenti, avverrà di leggieri, il trapassarle, credendole sfortunate. 3Come no? 4S’elle non rispondono in nulla alle promesse del gran nome che portano. 5Se una d’esse è l’Inferno, un’altra è denominata da’ Lupi: e tutte da’ Cani; per ciò dette anco Canarie, e con tal nome conosciute in Europa, per lo ballo delle Canarie, quinci portatoci, e per i Canarini, uccelletti che cantano d’ogni stagione. 6Hor ditemi, se di quest’Isole

a Nota della Geografia: “T.c.15.st.36.” (Tasso, Gerusalemme liberata, XV, 36). b Nota della Geografia: “Aelian.v.hist.lib.10.” (Eliano, Storia varia, X, 10).

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non è vero quel che ne scrisse un antico Geografo, *De harum nominibus, expectari magnum mirum reor:c Sed INFRA FAMAM VOCABULI RES EST. 7Tal che tutta la forza con che allettare il desiderio de gl’inesperti, è posta nell’ingannar del nome, nel mentir della fama, nel favoleggiar della poesia: altrimenti, dove anche i lor beni fossero in egual misura con que’ d’Europa, chi, senon forsennato, per aver di più, danze di barbari, e musiche d’uccelletti, abbandonerebbe la patria, e per attraverso un sì tempestoso oceano, andrebbe a vivere forestiero nelle Isole Fortunate? III. 1Hor io non vo’ farmi a mostrarvele ad una ad una, e contarvene quel che soverchio sarebbe al bastevole che ne ho, per ravvisare in queste Isole, e nel lor nome, le Speranze della Corte. 2Ma da me tanto habbiatene l’argomento, il ragionarne sia vostro: perché io tutto simigliante al vecchio Veronese di Claudiano, Proxima cui nigris Verona remotior Indis, Benacumque putat littora Rubra lacum,d mai non mi son lasciato indurre a mettere il piede fuor della siepe del mio a me fertilissimo campicello: nulla ne so di veduta, e per udita, poco più di nulla: cioè sol quanto ancor da chi non vorrebbe sentirle, pur si fanno sentire le troppo alte voci de’ miseri, che a guisa de gli scampati dalle galee di Tunisi, di Biserta, di Tripoli, d’Algieri, colle catene in ispalla, scotendole, e chiedendo mercè d’un danaio, contano le passate loro sciagure etiandio a chi non ha di che sovvenirli.

[Geografia, pp. 1-3]

Nel primo brano della Geografia che prendiamo in considerazione, gli autori citati

esplicitamente, in nota o all’interno del testo, sono quattro: Torquato Tasso (I, I, 6) della

Gerusalemme liberata, Claudio Eliano (I, II, 1) della Storia varia, Caio Giulio Solino (I, II, 6) della

Collectanea rerum memorabilium e Claudio Claudiano (I, III, 2) del Carminum minorum

corpusculum. A questi autori, di cui Bartoli trascrive alcuni versi o frasi (ma sarà da vedere se i

brani menzionati non hanno un’influenza anche sulle zone circostanti alle parti direttamente

interessate dai rimandi bibliografici), si può aggiungere Virgilio dell’Eneide, che non viene

nominato dal gesuita ferrarese, ma nel cui poema è narrato un episodio che viene poi ripreso

sinteticamente nella Geografia (I, I, 2-4).9 L’episodio in questione racconta di come le donne

troiane, stufe dei continui spostamenti ai quali erano costrette, una volta giunte in Sicilia diedero

fuoco, istigate da Giunone, alle navi della flotta di Enea per porre fine al loro peregrinare. Bartoli,

immaginando di accompagnare il lettore dall’Europa fino alle isole Fortunate, stabilisce per

c Nota della Geografia: “Solin.c.60.” (Solino, Collectanea rerum memorabilium, 56, 15). d Claudiano, De sene Veronensi qui Suburbium numquam egressus est (Carminum minorum corpusculum, XX, 17-18). 9Si tratta della vicenda narrata in Eneide, V, 603-699. Se si considera il fatto che Bartoli, nelle pagine che qui ci interessano, cita esplicitamente i versi di quel poema a partire dalla versione di Annibal Caro, mi sembra probabile che anche in questo caso si sia fondato sul medesimo testo (A. Caro, Eneide, V, 845-993). Nella Geografia si trovano in effetti sette esempi dichiarati di ripresa dei versi dell’Eneide tradotta da Caro (pp. 10, 21, 100, 194, 361, 397 e 426), mentre Virgilio è citato direttamente solo tre volte (alle pagine 89 e 183 e in una pagina non numerata dell’Introduttione): in due casi si tratta di brani estratti dalle Georgiche, nel caso restante la fonte è l’ottava egloga. Vedremo nel prossimo capitolo (2. Mongibello) come si può interpretare la preferenza che Bartoli nella Geografia dà alla traslazione del Caro sull’originale dell’antico poeta mantovano. Per quanto concerne il discorso che intendo sviluppare nei presenti paragrafi, ad ogni modo, il problema di quale versione dell’Eneide utilizzasse il gesuita ferrarese non riveste particolare importanza.

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similitudine un confronto tra il comportamento delle troiane e ciò che egli sconsiglia di fare a chi

sbarca sul suolo delle Canarie, giacché il nome di quell’arcipelago atlantico è ingannevole.

Lo spunto che Bartoli trae dall’opera virgiliana permette qui di sviluppare due considerazioni

generali, la prima delle quali concerne l’utilizzo nella Geografia della similitudine. Maria Corti,

parlando delle figure della comparazione nella Ricreazione del savio in discorso con la natura e con

Dio (1659), afferma: “Quasi mai superflue, le [...] similitudini [di Bartoli] spaziano per l’universo

mondo naturale al fine di aggiungere nuovi stimoli artistici e didattici al discorso”.10 Al di là delle

motivazioni specifiche che si possono enumerare caso per caso, anche le similitudini che si trovano

nella Geografia con situazioni e personaggi letterari possono rispondere alla stessa funzione

stimolativa. Proprio il ruolo indicato si situa alla base della frequenza con la quale il tipo di

costruzione stilistica di cui stiamo parlando appare nelle pagine esaminate in questo lavoro: facendo

riferimento soltanto alle similitudini legate all’utilizzo da parte di Bartoli delle proprie fonti, oltre a

quella già indicata (I, I, 2-4), sono in grado di elencare almeno dodici casi in cui compare questa

figura.11 Bisogna notare, poi, che la natura stessa d’un opera come la Geografia, dove si sfrutta un

certo numero di descrizioni paesaggistiche per associarvi contenuti morali, origina un sostrato

propizio al germogliare di paragoni. È possibile affermare, dunque, che il ricorso alle similitudini è

nella Geografia conseguenza del modo di procedere del gesuita ferrarese e del meccanismo

ispiratore che l’opera presuppone.

Come accennato, oltre alla motivazione generale che si può vedere dietro l’utilizzo da parte del

gesuita ferrarese di similitudini, si possono trovare pure ragioni particolari ai diversi esempi

esaminati. Per quanto riguarda la specifica similitudine che ci interessa ora, i legami che tramite

essa si istituiscono tra l’azione dalla quale Bartoli vuole dissuadere il virtuale viaggiatore che sta

accompagnando e quella narrata nell’Eneide sono, fondamentalmente, due: il primo sta ovviamente

nell’atto di “metter fuoco” nel “legno” (I, I, 1)12 sul quale si è navigato; mentre il secondo si trova

nella situazione d’inganno in cui si trovano sia le donne troiane, sia chi si lasci gabbare dal mendace

nome delle isole Fortunate. È già presente, in questo concetto d’inganno, l’elemento base sul quale

si regge tutta la presentazione bartoliana dell’arcipelago delle Canarie: la dicotomia, determinante la

10Corti, 1992: XIV. 11Si vedano i seguenti passaggi: I, III, 2; III, I, 2; III, II, 5; III, III, 4; IV, IV, 5; V, I, 6; VI, 8; VII, 3; X, II, 4; X, III, 3; XV, I, 5; XV, II, 8. 12Di fronte alla considerazione di alcune parole prese pari pari dalla Geografia e alla luce, inoltre, di quanto detto in una nota precedente circa la probabilità che Bartoli si sia servito dell’Eneide tradotta dal Caro piuttosto che dell’originale virgiliano, ci si potrebbe chiedere se non esistano corrispondenze lessicali o sintattiche a conferma di tale tesi. In effetti, almeno dal punto di vista lessicale, alcuni punti di contatto tra il lavoro del Caro e quello del gesuita ferrarese ci sono, ma essi trovano sempre una rispondenza anche nei versi del poeta latino e, soprattutto, appartengono a quell’insieme di vocaboli più o meno necessari all’esposizione dell’episodio dell’Eneide (ai “legni” di cui parlano Daniello Bartoli e

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relazione che lega le “Speranze della Corte” alle isole Fortunate, tra le promesse del nome e la realtà

fattuale che questo nome designa. Questa prima evocazione letteraria vale quindi a introdurre,

benché implicitamente, quello che sarà il contenuto morale discusso nella pagine successive alla

descrizione geografica delle Canarie.

La seconda considerazione generale alla quale si apre il collegarsi del gesuita ferrarese al gesto

incendiario delle troiane concerne l’echeggiare, abbastanza frequente nella Geografia,13 di ricordi

letterari che vengono chiamati in causa tramite una brevissima sintesi - a volte un semplice accenno

- degli eventi coinvolti. Non mi riferisco alle situazioni, innumerevoli, in cui Bartoli invoca

dichiaratamente gli episodi e le fonti dalle quali essi sono tratti: soggetto di queste osservazioni

sono invece quegli ammiccamenti che nelle pagine della Geografia si rivolgono alla memoria

culturale del lettore, ricordando senza menzionarne la provenienza lo scontrarsi delle Simplegadi

(V, 4), per lasciare all’aleatorietà la scelta di un esempio, o la fine delle fatiche erculee (VI, 1).

Anche in questi casi si possono cercare motivazioni circostanziate per le varie occasioni in cui il

fenomeno si realizza, ma nell’ambito di una riflessione più ampia questi richiami letterari sono

interpretabili, più che nel senso di un gratuito sfoggio d’erudizione, come specchio del mondo d’un

uomo, Daniello Bartoli, “che per oltre trent’anni [...] visse, si può dire, in una stanzetta, tra un

crocifisso e pile di libri, di manoscritti, di documenti”.14 Rifacendosi a reminiscenze

dell’immaginario letterario, inoltre, il gesuita ferrarese cerca di avvolgere il lettore in un’atmosfera

che susciti sentimenti di meraviglia: nel fruire le pagine descrittive della Geografia, che già ci

proiettano in scenari esotici e spettacolari, veniamo così salutati da una serie di elementi che

incrementano l’alone fantastico che spira tra le frasi bartoliane.

Della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso,15 che il gesuita ferrarese definisce, nel suo Del

suono, de’ tremori armonici e dell’udito,16 “incomparabil poeta” e i cui scritti avevano segnato in

modo importante la scuola retorica della Compagnia di Gesù,17 Bartoli riporta per intero, nel primo

capitolo della Geografia (I, I, 6), l’ottava 36 del quindicesimo canto, in cui le Canarie, “isole Felici”

(Gerusalemme, XV, 35, 3) o “isole della Fortuna” (ibid., XV, 37, 3), vengono descritte come terre

Annibal Caro corrisponderanno, per esempio, le “naves” virgiliane, mentre le donne “stanche” nei testi italiani saranno “fessae” in quello latino). 13Rimanendo nei limiti che mi sono prefissato per questo lavoro, si possono menzionare qui sei esempi in cui questo fenomeno si verifica: I, I, 2-4; III, I, 1; III, I, 3; V, 4; VI, 1; X, IV, 5. 14Raimondi, 1960: 318. 15Il poeta di Sorrento nella Geografia è citato alcune volte, ma soltanto nel caso che stiamo considerando ora ciò si verifica esplicitamente con una nota. 16Roma, Tinassi, 1679, p. 113; citato in Baffetti, 1998: 229. 17Dante Balboni, nel suo intervento al convegno Daniello Bartoli storico e letterato, ci dice che “Bartoli si inserisce agevolmente nella scia dei letterati ferraresi, sia poeti che prosatori, tanto da essere chiamato il ‘poeta della prosa italiana’” (AA.VV., 1986: 47) e aggiunge, nel paragrafo successivo, che “Tasso, poeta cavalleresco della Corte Estense

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paradisiache. Il poema tassesco, la cui fortuna in epoca barocca fu considerevole,18 offriva “un gusto

di forme, un senso dello spettacolo, una ricerca delle figure e degli aspetti delle cose e del mondo”19

certamente non disprezzati dall’autore della Geografia, che, nel quadro degli esempi raccolti

all’interno del presente lavoro (I, I, 6; VI, 2; IX, I, 4), se ne serve per riportare scorci di paesaggi

suggestivi e immaginari,20 il cui sapore poteva senz’altro essere assaporato con diletto da un palato

secentesco. Il ricorso alla Gerusalemme nella Geografia pare dipendere, così, dall’affine

inclinazione verso un medesimo genere di rappresentazione che accomuna Tasso e Bartoli nel

rendere sulla loro pagina l’aspetto di determinati luoghi.

La descrizione delle isole Fortunate tratta dalla Gerusalemme, analoga per il gesuita ferrarese

all’idea delle Canarie presso gli antichi, proviene dalla sezione del poema dove si narra di Carlo e

Ubaldo che, a bordo di una piccola nave guidata dalla Fortuna, ovvero la “Fatal Donzella”, la quale

si sobbarca pure l’incarico di presentare l’aspetto della loro destinazione ai due compagni,

viaggiano in direzione dell’arcipelago atlantico per raggiungere il palazzo di Armida, che tiene

prigioniero Rinaldo (Gerusalemme, XV, 1-35). Tale contesto è brevissimamente delineato

dall’autore della Geografia in un passaggio che svolge la funzione di sintesi (I, I, 5), per la

realizzazione della quale Bartoli riprende alcuni elementi delle ottave della prima metà del canto,

lasciando inalterate le denominazioni che designano i personaggi (ovviamente i nomi propri “Carlo”

e “Ubaldo”, ma anche il “fatal donzella” - Gerusalemme, XV, 3, 8 - attribuito alla Fortuna) e

riducendo a termini singoli o in coppia alcuni sintagmi o proposizioni del poema tassesco: in questo

modo “picciola nave” (ibid., XV, 3, 7) diverrà nella Geografia “legnetto”, “speditissimo” perché

“Veloce sovra il natural costume / spingon la vela inverso il lido i venti” (ibid., XV 8, 1-2), mentre

l’“incognito oceano” deriva da “ignoto è il gran mar che solchi” (ibid., XV, 27, 1). È interessante

notare che questo riassunto non fornisce soltanto una cornice alle parole attribuite alla Fatal

Donzella e citate dal gesuita ferrarese, ma instaura anche un parallelismo tra la situazione narrata

nella Gerusalemme, che vede alcuni personaggi navigare verso le Canarie, e quella che si immagina

nella Geografia, dove si parla di altri navigatori delle stesse acque - quelli però che non devono

(+ 1595), aveva lasciato una forte impronta nella scuola retorica dei Gesuiti, separata con un orto-giardino dall’ospedale-prigione di Sant’Anna, su cui si affacciava la casetta dei Bartoli” (id.). 18Giovanni Getto sostiene che “se alle soglie del Seicento si trova Galilei con la sua famosa demolizione e la Crusca con la sua esclusione del T[asso] dalle prime edizioni del Vocabolario, tutto il secolo, nelle fondamentali ricerche liriche svolte sotto il segno del Marino e del Chiabrera, si rifece al T[asso], largamente vendemminado e anzi saccheggiando la fertile vigna della sua poesia” (Getto, 1986: 261). Lo stesso critico accenna inoltre alla “precisa responsabilità del T[asso] nella formazione del nuovo gusto barocco” (id.). 19Getto, 1986: 260. 20Le teorie sulla tettonica delle placche confermano la tesi, menzionata nella Geografia (VI, 1-2) e nella Gerusalemme

liberata (XV, 22), secondo la quale Europa e Africa erano un tempo unite, anche se poi non considerano i movimenti delle zolle geologiche come risultanti dalla forza dell’oceano. Non era comunque nelle intenzioni del gesuita ferrarese

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“altro che passar lungo quest’Isole, e in uno stesso, vederle, e andarsene,” e ai quali “non è fallo che

nuoca il crederle quel che non sono” (I, I, 5).

L’importanza rivestita dal passaggio della Gerusalemme, dimostrata pure dalle parole

introduttive che precedono i versi tasseschi nella Geografia, risiede probabilmente nel suo

sottolineare un primo termine per l’opposizione fondamentale che si è precedentemente indicata,

quella cioè tra una designazione fallace e la situazione reale che essa nasconde. Si crea quindi una

sorta di antitesi, se si prende questa parola nel significato estensivo che essa può assumere,21 per cui

alla rappresentazione amena delle isole Fortunate che ci offre il poema tassesco, analogamente a

quanto accade per via del nome dell’arcipelago, si contrappone un’immagine alquanto diversa,

negativa, verso la quale fa da ponte, dopo una frase che di nuovo consiglia di evitare di stabilire la

propria dimora su quelle terre, un aneddoto preso dall’opera di Eliano, il quale introduce

ironicamente un accorgimento - che al cinefilo dei giorni nostri potrebbe ricordare la scritta posta

sulle colline hollywoodiane - in grado di permettere ai naviganti in viaggio verso le Canarie, davanti

all’aspetto con cui esse si mostrano ai loro occhi, di riconoscerle come le isole dette Fortunate.

La Storia varia di Eliano è un opera scritta in greco che, dato il suo carattere di raccolta d’episodi

e curiosità su vari argomenti, si presenta come una miniera nella quale un autore come Bartoli può

trovare una gran quantità di immagini per arricchire i propri scritti.22 L’aneddoto che ci interessa ora

(Storia varia, X, 10)23, utilizzato nella Geografia come ispirazione per il suggerimento di scrivere a

grandi lettere, quale segno riconoscitivo, il nome delle isole Fortunate sulla superficie delle stesse,

narra di come i più antichi pittori fossero tanto goffi nella loro arte da dover scrivere, sotto le figure

che dipingevano, cosa avevano rappresentato. Della sua fonte il gesuita ferrarese riprende il

contenuto dell’episodio e una proposizione, citata in latino (I, II, 1), che situa metaforicamente

l’argomento dell’aneddoto nell’epoca in cui “l’arte era in certo modo lattante e in fasce”. Viene

invece modificata la forma del raccontare: se Eliano dice che un tempo “si dipingevano gli animali e

i vegetali in maniera così maldestra che i pittori scrivevano sui disegni: ‘Questo è un bue, questo è

l’esporre un’ipotesi scientificamente provata: la ripresa dei versi tasseschi rispondeva invece, oltre alle motivazioni che vedremo nel capitolo 6, al desiderio di proporre uno scenario che potesse colpire la fantasia del lettore. 21L’antitesi in retorica “è la contrapposizione di due [...] pensieri (res) di variabile estensione sintattica” (Lausberg, 1969: 209-210); ma, ci dice Bice Garavelli Mortara sulla scorta di Fontanier, “[p]erché la figura sussista, ci deve essere corrispondenza di costrutti nei membri contrapposti” (1998: 241): da qui la non appartenenza, a rigor di termini, del fenomeno che stiamo osservando a questo tipo di costruzione stilistica. 22Nella Geografia trasportata al morale Eliano non è tra gli autori più citati. I suoi scritti sono nominati esplicitamente in nota quattro volte (una nell’Introduttione, le altre alle pagine 2, 105 e 304). A proposito degli autori classici citati in Bartoli, è bene constatare che essi non sono il frutto di una scelta originale da parte del gesuita ferrarese. Anche solo dando un’occhiata all’indice dei nomi propri nell’edizione delle mariniane Dicerie sacre curate da Giovanni Pozzi (1960, pp. 611-623) - per prendere in considerazione un caso di prosa aromentativo-descrittiva secentesca analogo alla Geografia -, si può notare che gli scrittori latini e greci chiamati in causa sono sempre gli stessi, seppure con frequenze diverse e riprendendo brani che non mi sembrano mostrare corrispondenze significative.

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un cavallo, questo è un albero’” (Storia varia, X, 10); Bartoli (I, II, 1) dilata “in ampiezza e in

intensità sia la materia [del suo] discorso [...] sia l’espressione”24 e utilizza, in tal modo,

quell’operazione retorica che è detta “amplificazione”, al fine di rendere maggiormente efficace la

resa dell’episodio narrato. L’impiego del superlativo in “rozzissimi” e del suffisso accrescitivo in

“piantone” che, come altrove i vezzeggiativi e i diminutivi, possono avere “una funzione formale, di

coloritura e sfumatura pittorica”,25 e l’insistere sull’opposizione tra quanto i pittori primitivi

intendevano riprodurre (“quel ch’ei volevan che fosse”) e quello che invece appariva agli occhi

dello spettatore (che rischiava di prendere per pianta un uomo o per “pecora un cane”) sono

elementi assenti in Eliano, il cui modo di esprimersi è più piano. Legandosi alla tecnica

amplificatoria, il cambiamento nell’esemplificazione di immagini create dai più antichi pittori

potrebbe essere, in Bartoli, una conseguenza dell’inserto delle opposizioni tra il desiderio degli

artisti e la ricezione della loro opera: al posto del bue e del cavallo si trovano una pecora e un cane,

meno distinguibili se disegnati male, mentre alla pianta - già presente nella Storia varia - viene

associato per la propria postura eretta un uomo.

Dopo quella da Eliano, possiamo passare a una sezione della Geografia in cui viene citata la

Collectanea rerum memorabilium di Solino,26 dalla quale (56, 15) viene riportata alla lettera la frase

“De harum nominibus, expectari magnum mirum reor: Sed INFRA FAMAM VOCABULI RES

EST” (I, II, 6).27 La ripresa da Solino si trova al termine di una breve caratterizzazione che vuole

mostrare il vero volto delle isole Fortunate, quello che si cela “sotto la fama del nome” e che è in

netto contrasto con la descrizione delle Canarie attribuita alla Fatal Donzella. Il gesuita ferrarese ha

in effetti appena fornito su queste isole le informazioni secondo le quali una è l’Inferno e un’altra

riceve il nome dai lupi, mentre tutte sono conosciute come Canarie per via dei cani (I, II, 5). Tra

questi dati - in accordo con una possibile influenza dell’autore latino sul testo bartoliano al di fuori

di quanto dichiarato esplicitamente - può essere magari fatto risalire alla Collectanea di Solino (56,

17), ma la notizia era già in Plinio (Naturalis historia, VI, XXXVII, 205), che il gesuita ferrarese cita

spesso, come si vedrà, e l’opera del quale Solino sembra a volte ricalcare, quello secondo cui il

23Per accedere al contenuto della Storia varia mi fondo sulla versione francese di Alessandra Lukinovich e Anne-France Morand (cfr. Élien, Histoire variée, 1991). 24Garavelli Mortara, 1998: 109. 25Gamba, 1957: 14. 26Questo autore, grazie probabilmente al carattere di compendio geografico della sua opera, è citato con una certa frequenza nelle note della Geografia (cfr. pp. 3, 38, 40, 61, 82, 182, 277, 299, 358, 360, 365, 366, 440, 467). 27Nell’edizione della Collectanea rerum memorabilium che ho in mano (1958, pp. 212-213) si trova invece la variante “de harum nominibus expectari magnum non miror, sed infra famam vocabuli res est”, ma il curatore Mommsen riporta in nota anche le possibili lezioni senza “non” e “miror” ma con “mirum” e “reor”: quindi la differenza dipende dal testo che Bartoli usava. Le parole scritte in maiuscolo sono peculiari della princeps della Geografia.

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nome “Canarie” deriva dalla popolazione canina dell’arcipelago atlantico.28 Si può inoltre notare

che in Bartoli come in Solino (56, 16-17) si trova brevemente spiegata l’origine del nome di alcune

tra le isole Fortunate, ma l’unico punto comune rimane quello appena visto a proposito dei cani e

delle Canarie.29 Il passaggio di Solino più importante da prendere in considerazione nell’esame

delle pagine bartoliane mi pare, comunque, quello che il gesuita ferrarese cita esplicitamente e che

si lega anch’esso a nozioni concernenti le isole Fortunate: il mettere in guardia dalla differenza che

sta tra la reputazione tramandata da un nome e la situazione reale che si trova sotto quell’appellativo

permette, infatti, di collegare in modo diretto la sezione dedicata specificamente all’arcipelago

atlantico con quella dove si svilupperà il discorso d’ordine morale.

Prima di passare alla parte più consistente del capitolo, però, Bartoli si concede un paragrafo (I,

III) per alcune affermazioni che, se si conosce la biografia di questo autore, possono apparire assai

singolari. In questa porzione di testo, il gesuita ferrarese cita esplicitamente (ma senza indicare

l’opera di provenienza in nota) Claudiano, dal cui poemetto De sene Veronensi qui suburbium

numquam egressus est (Carmunum minorum corpusculum, XX) riporta due versi (17-18) per dirci

di sé stesso che, “tutto simigliante al Vecchio veronese di Claudiano, / Proxima cui nigris Verona

remotior Indis / Benacumque putat littora rubra lacum”, non si è mai “lasciato indurre a mettere il

piede fuor della siepe del [... suo] fertilissimo campicello” (I, III, 2). Secondo Giulio Marzot,

rispondevano bene agli “ideali artistici e letterari” di Bartoli “gli scrittori da ‘spoglio’, da antologia,

i creatori di stili molto personali e ricchi di scorci drammatici, i cercatori di stili nuovi, ne’ quali

potesse riversarsi l’anima sottile e ardente”:30 tra gli autori pagani menzionati dallo studioso in

questo senso31 troviamo anche Claudiano, che però non è certo tra le fonti più presenti nella

Geografia.32 Non ho controllato quale entità abbia la presenza dell’autore del De sene Veronensi in

altre opere del gesuita ferrarese: se una tale verifica dovesse rivelare che in generale Claudiano è

una fonte importante per Bartoli, come le parole di Marzot paiono suggerire, ciò potrebbe

significare che la sua relativa assenza nella Geografia dipenda dalla distanza tra le necessità di

quest’ultima e i contenuti dell’opera del poeta latino.

28Per la verità secondo Solino tra le isole Fortunate soltanto una è chiamata “Canaria” (“repleta canibus forma eminentissimis”, Collectanea, 56, 17). 29Un altro punto di contatto si può far emergere tra la Geografia e la Collectanea rerum memorabilium. In effetti anche in Solino troviamo diverse informazioni (che sovente coincidono con i dati che si trovano nella Naturalis historia di Plinio) circa l’inospitalità delle isole Fortunate: oltre che del problema dei cani, vi si parla di un’isola popolata da enormi lucertole, di un’altra caratterizzata dalla neve e dalle cattive condizioni meteorologiche e del fatto che tutto l’arcipelago è infestato dal fetore delle carcasse di mostruose creature che il mare lascia sulle sue spiagge (56, 14-19). 30Marzot, 1944: 120. 31Visto che alcuni tra gli autori elencati dal Marzot figurano tra le fonti della Geografia, ne riporto per intero la lista: “Fra i cristiani Tertulliano, S. Ambrogio, S. Agostino, S. Giovanni Crisostomo, S. Gregorio Nazianzeno; fra i pagani Seneca, Lucano, Tacito, Plinio, Marziale, Manilio, Velleio Patercolo, Claudiano, Luciano, Plutarco delle Operette

morali” (1944: 120).

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Anche se sappiamo dalle sue biografie che Bartoli ebbe una “straordinaria disposizione

all’ubbidienza”,33 per cui accettò di buon grado il ruolo sedentario di storico della Compagnia di

Gesù riservatogli dai vertici gesuitici, siamo pure a conoscenza dei suoi desideri giovanili, a

proposito dei quali così si esprime Mario Scotti:34

Fin dagli anni del noviziato sente vivissimo il richiamo della vita missionaria e chiede ai suoi superiori di destinarlo all’apostolato in Oriente. Una sua lettera, in data 2 febbraio 1627, inviata da Parma al p. Muzio Vitelleschi, generale dell’Ordine, così conclude: “Gittatomi dunque ai suoi piedi, Padre mio amatissimo, con ogni affetto possibile di nuovo me le offero ed in tutto indifferente ed in tutto bramoso di quanto prima mi sia possibile applicarmi alle fatiche dell’Indie ed al desiderato fine della divina gloria del martirio”.

Può quindi sembrare strana l’affermazione da parte del gesuita ferrarese di non aver mai voluto

allontanarsi dal suo “campicello”. Ma la similitudine tra l’io narrante e il vecchio veronese di

Claudiano, se considerata indipendentemente dalla biografia dell’autore della Geografia, ha una sua

utilità nell’economia del discorso che Bartoli sta conducendo. Dopo la messa in guardia dalle

illusioni provocate dal promettente nome delle isole Fortunate e, per analogia, di quello della vita di

corte, infatti, viene proposto l’esempio di chi non si è mai lasciato sedurre dal fascino menzognero

di terre lontane, accontentandosi delle ricchezze, più che sufficienti a un’esistenza dignitosa, che il

proprio suolo natio ha da offrire. È pure da osservare che, oltre ai versi citati alla lettera e all’idea

del non aver mai messo i piedi fuori del proprio “campicello”/“ager”, tra i versi di Claudiano si

trova anche un altro motivo che li rende adatti a una ripresa nel capitolo della Geografia: il

poemetto De sene Veronensi si chiude infatti su un’antitesi tra la scelta di chi decide di partire e la

saggezza di chi rimane in patria - “erret et extremos alter scrutetur Hiberos: / plus habet hic [il

vecchio veronese] vitae, plus habet ille viae” (Carminum minorum corpusculum, XX, 21-22) -, che

si può facilmente mettere in relazione con l’opposizione fondamentale che soggiace al nostro

capitolo, oltre ad accordarsi bene con l’invito bartoliano a non lasciarsi irretire dalle illusioni

suscitate da un nome che è veicolo di false speranze.

II. Mongibello

I. 1Alle ampie falde, alle fiorite costiere, a’ poggi in prima dolci, poi sempre più disagevoli a sormontare, indi al superbo levarsi della montagna, al gran circuito, a’ gran dossi, alla grand’erta, e per tutto essa, qui boschi, là diserti di cenere, e dirupi, e balze, e solitudine, e horrore: finalmente, alle nevose cime, all’orlo d’una immensa voragine, al fumo, al fuoco che continuo n’esalano; senza io altro dirvi, voi v’accorgete, che siamo innanzi al Mongibello. 2Cento Poeti, Oratori, Historici, che l’hanno in più maniere descritto, non bisognano a noi che il

32Il poeta in questione figura nelle note della Geografia soltanto quattro volte (pp. 134, 248, 251, 318). 33Asor Rosa, 1967: 564. 34Scotti, 1969: 46.

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veggiamo, nè a lui che fa lume a sè stesso, e ben si dà a vedere. 3Anzi, sua mercè, che a ravvisarlo desso non ci dà maggior segni: muggiti horribilissimi dentro le viscere, fuori della gran bocca fremiti e tuoni, e crollarsi di tremuoti la terra, e vomitar fuoco a torrenti, e sospignere fino alle nuvole nuvoli di denso fumo, e lampeggiarvi per entro spaventevoli vampe, e tumulti, e scoppi, e lor dietro i brani delle roventi sue viscere, una spessa tempesta di massi, e pezzi di scoglio riarsi, e delle ceneri tuttavia bollenti biancheggiar d’intorno il paese, fino a Tauromina, e Catania. II. 1Hor se questo non è un Fumaiuol dell’inferno, di cui scintille, e favilluzze, e fiocchi di filiggine accesa sian quegli che a noi paiono incendi, chi mai sarà che mantenga, e nutrisca, e sì furiosamente attizzi quella sempre viva fornace? e d’onde la sì abbondante materia, che basti a satiare l’insatiabile voracità d’una bocca sempre aperta, e larga il circuito di venti stadi? 2Dimandatene a’ Filosofi, che van sicuramente per tutto, e sopra i cieli, e per entro l’oceano, e sotterra, e veggono quel che vogliono, e ’l danno altrui a vedere: e delle immense caverne, de’ sotterranei condotti, delle vene d’inestingibili minerali, de’ grassi haliti del mare, e di che so io? vi conteran maraviglie. 3Io, per non vi dir men di loro, m’atterrò a’ Poeti, lealissima gente, che come qui vedrete, non si ardirebbono a spacciar per veduto da essi quel che solo han per udito: perciò quanto si è alle cagioni dell’ardere Mongibello, e dello straordinario risentirsi, È fama, che dal fulmine percosso, E non estinto, sotto a questa mole Giace il corpo d’Encelado sepolto. 4E che quando per duolo, o per lassezza Ei si travolve, o sospirando anhela, Si scuote il monte, e la Trinacria tutta. 5E del ferito petto il fuoco uscendo, Per le caverne mormorando esala, E tutte intorno le campagne, e ’l cielo, Di tuoni empie, di pomici, e di fumo.a III. 1Tanto essi ne dicono: ed io lor ne sento grado, per l’utile ammaestramento, che com’è lor consueto ci porgono Sotto ’l velame degli versi strani.b 2Cioè la Condannatione all’Infamia, terribilissima esecutrice della Giustitia punitiva, e sola essa dalle cui mani non v’è dove fuggire a camparsene; per la possente virtù ch’ella ha di punire altrui etiandio dove egli non è, con un tal rendere immortali i morti, che immortali sono solamente al supplicio; con un farli chiari tanto, che etiandio sotterrati siano in veduta del mondo, ma chiari non altrimenti, che al lume dell’incendio che li tormenta. 3E questa, ordinario è che sia pena riserbata a coloro, i quali per la sommità del grado in che sono, non havendo fra gli huomini chi delle loro ribalderie possa prender castigo, l’Infamia, almen dopo morti, li dà a farne ogni huomo processo, giustitia, e scempio: onde, come a ciascuno è in piacere, ne inquietano, anzi ne pestano l’ossa, ne abbruciano mille volte le statue, ne lordano la memoria sì che appuzza il mondo, ne crocifiggono i fatti, ne lapidan la generatione, ne saettano i nomi, con quant’altro fa, e puo farne chi ha in sì agevole il fare come in pugno lo scrivere, e su la lingua il dire. 4Tal è il supplicio dell’Infamia: supplicio da Enceladi, da Giganti, da Grandi: saviamente istituito, giustamente adoperato, e giovevolmente temuto.

[Geografia, pp. 20-22]

Per i paragrafi d’apertura del secondo capitolo della Geografia, la prima fonte facilmente

identificabile, perché dichiarata in una nota a piè di pagina, è la traduzione di Annibal Caro

dell’Eneide (III, 909-918).35 La motivazione della scelta bartoliana, per la quale è preferito

a Nota della Geografia: “Aen.lib.3.A.C.” (Caro, Eneide, III, 909-918). b Dante, Inferno, IX, 63. 35Del Caro e della sua presenza nella Geografia si è già parlato in due note del capitolo precedente (1. L’Isole

Fortunate).

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all’originale virgiliano un volgarizzamento italiano, potrebbe risiedere in una certa somiglianza di

gusto tra il gesuita ferrarese e il poeta marchigiano, che li porta a camminare per sentieri poggianti

su un’analmaga di influenze classiche e indole baroccheggiante. Se “la grandezza dello scrittore

gesuita consiste nell’essere egli riuscito a temperare l’eredità di una tradizione lussureggiante e

ricchissima come quella barocca con il freno di un’educazione sobriamente classica”,36 l’esercizio

che Annibal Caro svolge sull’Eneide appare a prima vista opposto a quel modo di procedere: egli

infatti ricama sullo stile sobrio e limpido dell’originale virgiliano, amplificando e aggiungendo

colore agli spunti che maggiormente colpiscono la sua sensibilità.37 Tuttavia, come si è visto per il

capitolo sulle isole Fortunate, dove si è parlato di un aneddoto proveniente dalla Storia varia di

Eliano, anche Bartoli adatta la materia che trae dalle sue fonti al proprio palato, cercando però di

evitare la caduta negli eccessi dello “stile che chiamano moderno concettoso”.38 E se, come detto, il

gusto del gesuita ferrarese è in qualche modo affine a quello di Annibal Caro, oltre all’importanza

che si deve dare all’operazione in quanto tale che quest’ultimo compie sui versi dell’Eneide, non

bisogna dimenticare che pure il poeta marchigiano cerca di dare un’eleganza e un’armonia formale

alla sua scrittura, in modo che essa non dilaghi in costruzioni e immagini eccessivamente

arzigogolate. Bartoli e Caro si trovano così a condividere un ideale, espresso dal gesuita, per cui il

proprio stile dev’essere “un torrente [, ...] ma limpidissimo; un fulmine, ma regolato. Con somma

varietà di figure, con mutazione d’affetti senza disordine misti: quasi una nuvola che nel medesimo

dà acqua e fuoco, fulmine e pioggia”.39

Gli endecasillabi del Caro citati dal gesuita ferrarese ci raccontano la leggenda secondo la quale

sotto la massa dell’Etna si trova Encelado, uno dei giganti fulminati da Giove, che muovendosi fa

tremare tutta la Sicilia (o Trinacria, come in A. Caro, Eneide, III, 914) e provoca le eruzioni col

fuoco che gli esce dal petto e che giunge in superficie attraverso le caverne che traforano la

montagna. È la ripresa di questo episodio da parte di Bartoli a permettere, nella Geografia, di

collegare la descrizione del Mongibello con l’insegnamento circa la paura della “Condannatione

all’Infamia” (II, III, 2) che deve fungere da “freno alla licenza de’ Grandi” (come recita il sottotitolo

36Asor Rosa, 1967: 569. 37“Non dovremo [...] misurare”, ci dice Renzo Cremante, “i risultati dell’esperimento [di Annibal Caro] sulla base della ‘fedeltà’ della trasposizione (l’approssimazione traduttoria del C[aro] tende, come è noto, alla sovrabbondanza e all’amplificazione), ma considerarne piuttosto la sostanza stilistica, eccezionalmente ricca e capace di armonizzare con sicura bravura e con composta eleganza i diversi e molteplici registri della narrazione virgiliana” (1986: 535). 38La formulazione deriva da un capitolo del bartoliano Uomo di lettere difeso ed emendato, nel quale il gesuita ferrarese si prende gioco di quegli autori a lui contemporanei che “fantasticando giorno e notte si struggono e si sviscerano il cervello come ragni per tessere d’ingegnose sottigliezze le tele de’ loro discorsi. Faticano in lavorare concetti, che il più delle volte riescono sconciature e sconcerti, fatture di vetro lavorate alla punta d’una lucerna che solo toccate, per non dir vedute, si spezzano” (D. Bartoli, Dell’uomo di lettere difeso ed emendato, Roma, 1645, II, 84; citato in Basile, 1993: 1006). 39D. Bartoli, Dell’uomo di lettere difeso ed emendato, Venezia, 1689; citato in Raimondi, 1982: 178.

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del capitolo): l’inserzione della figura di Encelado, uno dei Giganti sconfitti nella battaglia contro

gli dei olimpici, pone il lettore di fronte a un personaggio colossale e negativo che, malgrado la sua

definitiva uscita dalle lotte per il potere tra le divinità della mitologia classica, continua a mostrarsi

nelle conseguenze del suo agire, analogamente a quanto accade a chi, potente e di chiara fama ma

dissoluto, causa quello che dopo la morte sarà un ricordo di sè giustamente ignominioso. È facile

supporre addirittura che sia stato proprio il passo dell’Eneide a suggerire l’accostamento tra l’Etna e

la riflessione che Bartoli vuole sviluppare nel secondo capitolo della Geografia, dato che altrimenti

sarebbe arduo capire come lo spettacolo offerto da un vulcano in eruzione possa generare una serie

di considerazioni relative alla “Condannatione all’Infamia” e considerando, inoltre, che Encelado

viene rievocato anche nel concludere la sezione introduttiva del capitolo, quando l’infamia viene

definita come “supplicio da Enceladi, da Grandi” (II, III, 4).

Ci si può domandare ora se i versi di Caro sull’Etna abbiano avuto un influsso anche sulla

descrizione vera e propria che del vulcano ci fornisce il gesuita ferrarese. Prendendo in

considerazione gli endecasillabi 890-918 del terzo libro dell’Eneide italiana di Caro e un paragrafo

della Geografia (II, I), si possono in effetti notare numerosi punti di contatto interessanti. In primo

luogo le riprese lessicali:40 i termini “tuoni”, “spaventevoli”, “tempestano”, “monte”, “nube”,

“fumo”, “cenere”, “viscere”, “scogli”, “vomendo”, “bolle” (verbo), “superbo”, “foco” ed “esala” dei

versi del Caro si ritrovano in Bartoli con “tuoni”, “spaventevoli”, “tempesta” (sostantivo),

“montagna”, “nuvole”/”nuvoli”, “fumo”, “cenere”/“ceneri”, “viscere”, “scoglio”, “vomitar”,

“bollenti”, “superbo”, “fuoco” ed “esalano”. Se lo spettacolo rappresentato è lo stesso e il gesuita

ferrarese usa spesso il medesimo vocabolario del poeta marchigiano, le costruzioni sintattiche sono,

tuttavia, decisamente diverse nella Geografia rispetto a quelle dell’Eneide. Gli altri punti di contatto

tra il testo di Annibal Caro e quello di Daniello Bartoli vengono così a situarsi, piuttosto, su un

livello più vago e difficile da definire, ma comunque percepibile: un caso come “atra nube / mista di

nero fumo” (A. Caro, Eneide, III, 899-900), per esempio, influisce probabilmente su “nuvoli di

denso fumo”; l’immagine creata dai versi “immani sassi e scogli / liquefatti e combusti al ciel

vomendo / in fino al fondo romoreggia e bolle” (ibid., 906-908) è in qualche modo analoga a quella

espressa da “vomitar fuoco a torrenti”, mentre l’idea del vulcano che va con la sua eruzione a

toccare il cielo, anche se in maniere diverse (nel Caro le “fiamme / van lambendo a scolorir le

stelle” - ibid., 903-904 -, nella Geografia invece, meno iperbolicamente ma con figura etimologica,

“nuvoli di denso fumo” sono sospinti “fino alle nuvole”), è comune ai due testi.

40La disposizione delle parole elencate qui segue l’ordine di successione, non valevole per la Geografia, secondo il quale esse appaiono nell’Eneide di Annibal Caro.

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L’influenza che l’Eneide di Annibal Caro ha sulla descrizione del Mongibello realizzata da

Bartoli può essere una buona illustrazione di quanto, secondo Luciano Anceschi, rappresenta un

“‘far proprio’, che è segno del superiore dominio, della superiore libertà del ‘genio’ nel [...]

lavoro”41 del gesuita ferrarese. In un capitolo dell’Uomo di lettere che si occupa di Come si possa

rubare da gli scritti altrui con buona coscienza, e con lode, Daniello Bartoli scrive:42

V’è impunità di torre, pur che si tolga non come la Luna dal Sole, che quanto più gli s’accosta e più si riempie della sua luce ne’ perfetti novilunj ingratamente l’eclissa; ma come chi in uno specchio di puro cristallo riceve un raggio di Sole, e con ciò non solo non lo scema di luce, ma anzi, rendendoglielo con riflesso, maggiormente l’illustra.

Non si tratta per Bartoli di estrarre da testi esemplari e fonti elementi da inserire nei propri scritti, o

di copiare acriticamente interi stilemi come strutture da riempire poi con i mattoni che si hanno nel

proprio magazzino: per dirla ancora con Anceschi, il “furto degno di lode è, primamente, un imitar

con giudizio i grandi modelli: e, intanto, non è uno star fermi ai loro moduli prestabiliti, ma un

leggere con attenzione” per far proprie le “segrete giunture dell’arte”.43 Nel caso esaminato, si vede

come il gesuita ferrarese approfitti di una rappresentazione, quella fornita dal Caro, che vuole

mostrare uno spettacolo colossale e spaventoso, allo scopo di crearne una analoga del medesimo

vulcano, traendone diversi spunti, ma dando forma a una descrizione originale e senza dimenticare,

più tardi, di pagare un tributo alla propria fonte, citandola esplicitamente, in un secondo tempo,

all’interno del paragrafo successivo (II, II, 3-5).

Il problema dell’ascendente esercitato dal volgarizzamento italiano dell’Eneide sulle pagine

etnee della Geografia permette di soffermarsi sulla questione, importante quando si studiano le

opere bartoliane, relativo alla molteplicità delle fonti. Considerando il modo di procedere del

gesuita ferrarese - sia nell’ambito della sua attività di storiografo che in quella di autore morale o

scientifico - per cui era necessaria una grossa raccolta di materiale documentario,44 non è affatto da

escludere che la sua descrizione del Mongibello subisca, oltre a quella del poeta marchigiano, anche

la suggestione di altri scrittori. Se del resto è lo stesso Bartoli a dirci che una moltitudine di “Poeti,

Oratori, Historici [...] l’hanno in più maniere descritto” (II, I, 2), proprio questo grande numero

rende difficile il reperimento di ulteriori testi dai quali egli potrebbe avere ricavato notizie sul

41Anceschi, 1948: 204. 42Roma, 1645, II, 35; citato in Basile, 1993: 1004. Lo stesso brano è citato, senza che però ne sia indicata l’edizione di provenienza, anche nell’articolo di Luciano Anceschi La poetica del Bartoli (1984: 203). 43Anceschi, 1984: 203. 44A proposito del metodo lavorativo di Daniello Bartoli, così si esprime John Renaldo: “He chose a problem, collected all that had been written on it, organized his material, and then he proceeded to transcribe the data into well-written prose” (Renaldo, 1979: 134).

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vulcano o anche, semplicemente, la propria ispirazione.45 Tale difficoltà si estende del resto, nel

quadro di un lavoro sulle fonti della Geografia, sull’intero campo d’indagine e risulta essere

l’ostacolo maggiore, dove si esca dall’analisi dei debiti esplicitati, a una disamina esaustiva.

In relazione all’abbondante raccolta di materiale che pure le opere morali del gesuita ferrarese

presuppongono, se ne trova una palese testimonianza, nella Geografia, all’inizio del capitolo sulle

Termopili che, in una nota, rimanda il lettore a ciò che è stato scritto circa questo passo tessalico da

quattro autori, lievemente complicando così il compito - per l’assenza di precisi riferimenti

bibliografici legati ai singoli prelievi - di chi voglia distinguere la provenienza delle varie

informazioni che emergono dal periodare bartoliano, ma fornendo d’altra parte un buon ventaglio di

fonti utilizzate per la descrizione di un episodio della seconda guerra persiana e del suo scenario.

Muovendosi dall’esempio della descrizione delle Termopili si può quindi svolgere un esercizio

simile a quello che è già stato intrapreso - a partire dal materiale documentario che Bartoli ha

raccolto e lasciato a disposizione dei posteri - su una pagina della Istoria della Compagnia di

Gesù,46 per mostrare le ricerche, le valutazioni e le rielaborazioni che essa presupponeva. Bisogna

pure ossevare, però, che la posizione del gesuita ferrarese era più radicale di un semplice impostare

il proprio lavoro secondo una determinata direzione, visto che egli dissentiva decisamente, stando

alle asserzioni di Mario Scotti, da chi non riteneva necessaria un’ampia documentazione a

fondamento dei propri scritti:47

Della raccolta di materiali [...] il Bartoli aveva argutamente discusso in un capitolo dell’Uomo di lettere, sorridendo di quegli scrittori che si pongono all’opera solo con un foglio bianco, una penna e il proprio cervello, pretendendo di riuscire in uno stesso istante a trovare, disporre, comporre. Bisogna aver raccolto moltissimo dai libri, perché al successo di un’opera non basta l’altezza del soggetto, se non si ha di che nutrirlo: onde “accortamente fanno quegli, che, prima di risolversi a un argomento, misurano se v’è o se hanno onde possano trarre materia bastevole a compirlo”.

Anche se ciò si discosta dallo studio dei debiti della descrizione bartoliana dell’Etna, ritengo sia

importante, al fine di meglio comprendere in cosa consista la pluralità delle fonti nel lavoro del

gesuita ferrarese, affrontare l’esame dell’esempio del capitolo sulle Termopili, ricorrendo così, onde

evitare affermazioni fondate su basi ipotetiche, a un caso dove le diverse fonti sono dichiarate.

Leggiamo il lungo paragrafo che segue:

45A complicare la situazione, c’è anche il problema delle analogie che, in Bartoli, si presentano a volte tra le descrizioni di luoghi diversi. Nino Majellaro, in effetti, sostiene, nella sua introduzione al Giappone, che il gesuita ferrarese “[p]er descrivere il Fujisan [...] adopera le stesse frasi di quando descrive il Mongibello, e nello stesso tempo ne dà una versione mitologica” (1985: 37-38). Non ho approfondito la questione di tale punto di contatto tra la parte nipponica (1660) della Istoria della Compagnia di Gesù e la Geografia, ma affronterò la questione delle somiglianze tra rappresentazioni differenti nel capitolo 9. Le Correnti. 46Cfr. Scotti, 1969: 40-41 47Scotti, 1969: 38.

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XXII. Le Termopile

II. 1Già intendete ch’elle sono le famose Termopile, così dette ab antico, dallo scaturir che vi

fanno alla foce, polle d’acque boglienti, consagrate ad Ercole. 2La rupe, che da questa mano ci stringe,a tagliata dall’altissimo giogo fino a questo piè dove siamo, come una muraglia a piombo, è fenditura d’un fianco del monte Eta, dove i Poeti abbruciarono Ercole. 3Quest’altra in tutto a lei somigliante, è una falda pendice, in che viene a finire il Callidromo. 4La via che s’apre fra mezzo l’uno e l’altro di questi ertissimi balzi, misuratela a piè contati, dove più si ristringe, n’è venticinque, dove più s’allarga, muore in sessanta passi; e corre in lungo de gli stadi fino a trenta, cioè poco meno di quattro miglia nostrali. 5Fuor d’essa, non v’è tragitto, nè sentiere d’un passo: tutto scogli spezzati, greppi scoscesi, e punte d’alpi, spaventose a vedere, impossibili a montare. 6Questo è l’unico varco, questa la stretta gola, in cui non può di men che non entri chi vuole entrar nella Grecia, che di qua volge a mezzodì. 7Serse il volle, e traforare per esso con settecentomila fanti, e quattrocentomila cavalli, e in uscirne all’aperto, la Grecia era sua: ma tal vi trovò alla foce un non aspettato ingombro di Leonida con trecento Spartani, fior di bravura, arditisi a sostener soli essi quella gran piena, anzi quel mar di gente, che se s’imboccava in quello stretto, uscendone inonderebbe tutta la Grecia, che se il fatto andava a faccia a faccia, e a chi più può colle armi, conveniva al superbo Re, o spianar quelle rupi, e aprirsi, come poc’anzi, per entro le viscere del monte Ato il passo, o dar la volta indietro, vinto dalla vergogna più che dall’armi. 8Giunto innanzi a quel valico, su’l farsi a metter oltre il piede, incontrato da que’ valorosi colle punte dell’haste rivoltegli basse al petto, parò, si ritrasse, e come fuor di sè, rapillo uno stupore, che quivi innanzi il tenne quattro dì coll’armi otiose al fianco, non osando oltre, nè sapendo farsi a credere quel che vedeva, sì pochi haver cuore, e forze da contraporsi a tanti. 9Poscia, parendogli più vergognoso il darsi vinto al timore, che alle armi, spinse loro addosso una furia di Medi, e in poco più che esser entrati, ne li vide uscenti in rotta, ricacciatine a buone punte, e colpi di haste alle reni. 10A questi sottentrò l’insuperabil falange, detta de gl’Immortali, famosissima fra’ Persiani: ma se altrove l’hebbe, qui perdè il pregio d’insuperabile, e ’l titolo d’immortale. 11Impacciarono, più che dianzi non era, co’ lor cadaveri il malagevol passaggio, e Serse, che da un poggerel rilevato ne vedeva lo scempio, tre volte si drizzò a maniera di forsennato dal trono, battè palma a palma, e con gli occhi al Sole, dimandò non si sa se la vita a’ suoi, o a sè la morte.b 12Così, *Divina atque humana impellentem, & mutantem quidquid obstiterat, trecenti stare iusserunt. 13E già, Pudore quam damno miserior; abbandonava la mal vegnente impresa: indovinandogli fin d’allora il cuore, qual dovrebbe aspettarsi la riuscita d’un sì infelice cominciamento. 14Quel che di poi seguì, del traditor Efialte, e dell’attorcere fra sentieri da lui troppo saputi fra stretti di montagne il nemico, e presentarne a un medesimo tempo parte alla fronte, parte alle spalle de’ generosi Spartani, non ha mestieri descriverlo: peroché assai ci dà di che ragionare utilmente in emendation de’ costumi, l’infallibil maniera di vincere col Vantaggio del luogo, e coll’animo risoluto, quantunque a dismisura grande esser possa un esercito di nemici. 15L’havete qui in brievi parole veduto ne’ Persiani, uditelo ora alquanto più distesamente ne’ vizi.

[Geografia, pp. 333-335]

Se a prima vista si potrebbe pensare che sia possibile lasciare qui da parte quanto proviene

dall’opera di Seneca, a causa delle due citazioni (XXII, II, 12-13) che, per il loro marchio di riprese

letterali, sembrano distanziare il filosofo e scrittore latino dalle fonti che ci interessano in questo

momento, si deve mettere subito in chiaro che anche il De beneficiis si staglia con maggior forza

a Nota della Geografia: “Herodot.lib.7.Liv.dec.4.lib.6.Strabo lib.9.Aem.Prob.in Themist.”. Questi rimandi bibliografici concernono Erodoto (Storie, VII), Livio (Ab urbe condita libri, XXXVI, XV-XVI), Strabone (Geografia, IX, IV, 12-17) e Cornelio Nepote (Themistocles, 2, 2-5). Si noti che il De excellentibus ducibus externarum gentium di Cornelio Nepote era un tempo attribuito ad Emilio Probo: da qui l’errore nella nota di Bartoli. b Nota della Geografia: “Sen.de benef.lib.6.c.31.” (Seneca, De beneficiis, VI, XXXI, 11).

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alle spalle della pagina bartoliana: i sentimenti di Serse di fronte agli smacchi infertigli dagli

spartani pare infatti dipendere - più che dalle informazioni provenienti dai testi di Erodoto, Livio,

Strabone e Cornelio Nepote, cioè degli autori che nella Geografia sono nominati esplicitamente -

proprio dal testo dello scrittore di Cordoba.48 Ma sono certamente le Storie di Erodoto49 la sorgente

alla quale Bartoli attinge in più grande quantità le informazioni per la descrizione delle Termopili: il

gesuita ferrarese se ne serve infatti (XXII, II, 1-4) per alcuni dati circa la conformazione del passo

tessalico,50 ne richiama (XXII, II, 7) le figure di Leonida e dei suoi trecento spartani,51 le utilizza poi

(XXII, II, 10-11) per riferirsi alla rotta della temibile falange degli Immortali,52 ne evoca (XXII, II, 8

e 11) alcune reazioni di Serse di fronte alla propria provvisoria sconfitta53 e ne ricorda brevemente

(XXII, II, 14) la vicenda del traditore Efialte.54 Le notizie fornite dallo storico greco vengono in

seguito integrate con quelle degli altri autori richiamati nella nota sulle fonti della descrizione

bartoliana delle Termopili. Sotto le righe della Geografia impegnate nel delinare la morfologia del

passo tessalico si trova in primo luogo, oltre a Erodoto, anche Tito Livio, che scrive in uno dei suoi

libri Ab urbe condita (XXXVI, XV, 10-12):

Extremos ad orientem montes Oetam vocant, quorum quod altissimum est Callidromon appellatur, in cuius valle ad Maliacum sinum vergente iter est non latius quam sexaginta passus. Haec una militaris via est, qua traduci exercitus, si non prohibeantur, possint. Ideo Pylae et ab aliis, quia calidae aquae in ipsis faucibus sunt, Thermopylae locus appellatur, nobilis Lacedaemoniorum adversus Persas morte magis memorabilis quam pugna.

Oltre fornire al gesuita ferrarese un dato numerico - quello che stabilisce la larghezza massima delle

Termopili a sessanta passi (XXII, II, 4) - che nell’opera dello storico greco non è presente, l’autore

latino esprime alcune nozioni circa il passo tessalico utilizzando termini o formulazioni analoghi a

quelli scelti da Bartoli per la propria opera, lasciando supporre ad esempio che il “dette ab antico,

dallo scaturir che vi fanno alla foce, polle d’acque boglienti” (XXII, II, 1) aderisca al “ab aliis, quia

calidae aquae in ipsis faucibus sunt, Thermopylae locus appellatur” di Livio. La Geografia di

48Ritengo, per esempio, che dietro a formulazioni come “vinto dalla vergogna piu che dall’armi” (XXII, II, 7) e “parendogli piu vergognoso il darsi vinto al timore, che alle armi” (XXII, II, 9) si trovi la suggestione della frase senechiana, ripresa alla lettera più avanti (XXII, II, 13), “pudore quam damno miserior” (De beneficiis, VI, XXXI, 11). 49Il testo greco di Erodoto mi è accessibile grazie alla traduzione inglese di A.D. Godley (Herodotus, 1982). 50Oltre a qualche indicazione sulle dimensioni delle Termopili, Erodoto (in Storie, VII, 176) parla dei monti Eta e Callidromo menzionandone l’inaccessibilità e le pareti a precipizio, accenna alle acque termali che danno il nome al passo tessalico e nomina un altare dedicato a Eracle e costruito nei pressi della salutifera sorgente. 51Erodoto si sofferma su questi personaggi e sulle loro azioni in Storie, VII, 205-207. 52Lo storico greco descrive tale disfatta persiana come umiliante, oltre che per le differenze numeriche degli organici nemici, anche per le superiori doti belliche di cui gli uomini di Serse erano dotati rispetto ai greci (Storie, 211). 53L’aneddoto su Serse che si alza tre volte dal proprio trono è in Storie, VII, 212. 54Lo storico greco si occupa della vicenda di Efialte in Storie, VII, 213-214.

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Strabone55 aiuta invece a spiegare le occorrenze nel paragrafo bartoliano del nome di Ercole (XXII,

II, 1 e 2): nella sezione dell’opera del geografo greco dedicata al passo tessalico si trovano, infatti,

una chiara indicazione circa il fatto che la sorgente d’acqua calda delle Termopili fosse dedicata

all’eroe (Geografia, IX, 4, 13), mentre in Erodoto si menzonava semplicemente un altare in onore

dello stesso eroe, e un’allusione al rogo sul monte Eta (ibid., IX, 4, 14). Non è poi da escludere che

le pagine di Strabone (ibid., IX, 4, 16) abbiano avuto un influsso anche sulla sintesi di Bartoli delle

cause della sconfitta degli uomini di Leonida contro l’esercito persiano (XXII, II, 14). L’ultimo testo

da prendere qui in considerazione è il Themistocles di Cornelio Nepote, che serve al gesuita

ferrarese nel quantificare la fanteria e la cavalleria agli ordini di Serse, nel desiderio forse di evitare

le cifre stratosferiche proposte da Erodoto.56

Sebbene la comparazione del paragrafo di Bartoli sulle Termopili con alcuni brani tratti dalle sue

fonti latine e greche non sia in grado, purtroppo, di spiegare ogni informazione che affiora alla

lettura del brano del gesuita ferrarese, mi pare ne risaltino comunque abbastanza bene vari aspetti di

come l’autore della Geografia si pone di fronte al proprio materiale documentario.57 Dopo la scelta

dei diversi brani adatti alle proprie esigenze, Bartoli non si limita a comporre un collage di

informazioni prese da luoghi diversi, ma sviluppa la propria pagina in maniera originale, eleggendo

solitamente un’opera a fonte principale da seguire, per poi completare e correggere i dati di

quest’ultima con l’ausilio di ciò che sul medesimo tema si afferma in altri scritti. A volte l’utilizzo

dei testi sussidiari può anche prescindere da esigenze contenutistiche: in casi simili58 il gesuita

ferrarese riproduce più o meno fedelmente formulazioni di una fonte secondaria per una questione

di chiarezza o di affinità con i propri canoni estetici. Nella maggior parte delle situazioni, però, è a

livello concettuale che Bartoli effettua i propri prelievi, lasciando al proprio estro il compito di

rielaborare le informazioni in una forma inusitata e accattivante.

Dopo la lunga digressione, incentrata sull’esempio fornito dal capitolo dedicato alle Termopili,

sulla pluralità delle fonti nell’opera bartoliana, possiamo tornare al Mongibello. Il secondo autore

che emerge con evidenza come fonte nel capitolo della Geografia sull’Etna, anche se, a causa della

celebrità del verso che ne viene ripreso, il gesuita ferrarese non lo nomina esplicitamente, è Dante

55Per i riferimenti al nono libro della Geografia di Strabone mi fondo sulla traduzione francese di Raoul Baladié (Strabon, Géographie, 1996). 56Per Erodoto si veda Storie, VII, 184-187. Di Cornelio Nepote interessa sostanzialmente l’inciso, riferito a Serse, “huius enim classis mille et ducentarum nauium longarum fuit, quam duo milia onerariarum sequebantur, terrestris autem exercitus DCC peditum, equitum CCCC fuerunt” (Themistocles, 2, 5). 57Si noti tra l’altro come la gerarchia delle fonti corrisponda a quella proposta nella nota bartoliana. Sarebbe interessante sapere se si tratti di un caso o meno, ma purtroppo non ho trovato nella Geografia altri esempi di note analoghe con molteplici rimandi bibliografici. 58Un esempio di tale genere può essere il dato circa l’origine del nome delle Termopili, presente in Erodoto ma usufruita dal gesuita ferrarese attraverso la lezione di Tito Livio.

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Alighieri.59 Il verso in questione (citato in II, III, 1) è “Sotto ’l velame degli versi strani” (Dante,

Inferno, IX, 63) e fa parte di un passaggio in cui Dante si rivolge al lettore “invitandolo”, ci dice

Tommaso Di Salvo nel suo commento, “ad una maggiore, più acuta attenzione in presenza di una

situazione particolarmente interessante, per coglierne l’intero significato, che può essere essenziale

all’intelligenza del significato del viaggio e del poema”.60 A quel punto della prima cantica, Dante e

Virgilio si trovano davanti alle mura incandescenti della città di Dite e le tre furie, Megera, Aletto e

Tesifone, hanno chiamato Medusa perché muti il fiorentino in pietra; ma entro breve, preceduto da

“un fracasso d’un suon” (Inferno, IX, 65), giungerà un messo celeste che permetterà ai due poeti di

proseguire il loro viaggio. Nella Geografia, invece, l’endecasillabo citato si situa dopo la ripresa dei

versi di Caro che narrano della leggendaria origine dell’Etna (II, II, 3-5), quando Bartoli,

riallacciandosi a quanto aveva detto poco prima circa i poeti che, al contrario dei filosofi, per la loro

lealtà non oserebbero mai vendere per osservazioni proprie ciò che hanno soltanto sentito dire (II, II,

2-3),61 introduce il fruttifero insegnamento sull’infamia che sarà sviluppato nel seguito del capitolo

e che proprio i poeti, secondo il gesuita ferrarese, “com’è lor consueto ci porgono / sotto ’l velame

degli versi strani” (II, III, 1).

Nella Geografia si citano numerosi versi di Dante,62 autore certamente apprezzato da Bartoli che

però, sebbene lo dica (e non è poco) “impareggiabile per la virtù della lingua”, non ne offre “un

giudizio unitario [...] che vada al di là di una generica ammirazione nel quadro dell’accettazione del

valore della tradizione letteraria italiana”.63 Questi endecasillabi sono spesso ripresi dal gesuita

ferrarese senza che il loro quadro d’origine ne motivi l’utilizzo: usando le parole di Giulio Marzot,

che tuttavia applica l’idea a un ventaglio secondo me troppo ampio, si può dire che essi, “stralciati

dal contesto, valgono come documenti espressivi d’arte, come cartigli nitidi e raggianti di vita

poetica intensa, ben adatti a spargere lumi e a rendere cantante la nuova pagina”.64 Come si è visto

59Sui rapporti che Daniello Bartoli ha con l’autore della Divina Commedia, si possono consultare le poche pagine dedicate all’argomento da Umberto Cosmo in Con Dante attraverso il Seicento (1946: 67-68) e da Steno Vazzana nella voce dedicata al gesuita ferrarese nell’Enciclopedia dantesca (1970: 524). Vazzana cita nella sua bibliografia altri due testi che potrebbero contribuire all’approfondimento della tematica, ma che non ho consultato: G. Melandri, Intorno allo

studio dei padri della Compagnia di Gesù nelle opere di Dante Alighieri, Modena, 1871, pp. 8-9; D. Mondrone, “Gesuiti studiosi di Dante”, in Civiltà cattolica, 1965, quad. 2760, p. 541. 60Dante, Inferno, 1993, p. 182. 61Bartoli porta a sostegno della propria tesi gli endecasillabi del Caro che, al pari di quelli virgiliani (“Fama est Enceladi semustum fulmine corpus [...]”, Eneide, III, 578 e segg.), dichiarano esplicitamente il carattere non empirico della narrata notizia sull’origine dell’Etna (“È fama [...]”). 62Nelle note dell’editio princeps Dante o la sua opera si trovano nove volte (pp. 23, 34, 36, 148, 188, 195, 285, 296, 460) - contro le due apparizioni che sommati raccolgono i Triumphi di Petrarca (p. 19) e la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (p. 2) -, alle quali andrebbero aggiunti i casi, come quello che stiamo trattando, in cui i versi danteschi sono citati senza indicarne la fonte: la presenza della Commedia nella Geografia è quindi maggiore di quanto riferito da Umberto Cosmo (1946: 68) sulla scorta di Melandri (che deve aver contato soltanto le nove note). 63Vazzana, 1970: 524. Si noti però che Dante non era nel Seicento un autore tranquillamente accettato e ammirato. 64Marzot, 1944: 125. Nelle sezioni della Geografia riprodotte nelle presenti pagine, troviamo un solo ulteriore caso di verso dantesco impiegato in senso ornamentale (II, II, 3). Si noti che a volte in Bartoli sono presenti pure citazioni che,

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nel paragrafo precedente, quel che sta accadendo nella Commedia al momento in cui il narratore si

rivolge al lettore, invitandolo a mirare “la dottrina che s’asconde / sotto il velame de li versi strani”

(Dante, Inferno, IX, 62-63), è ben diverso da quanto si legge all’interno della Geografia nel punto in

cui l’endecasillabo dantesco viene ripreso. Naturalmente è analoga l’esortazione che il gesuita

ferrarese e l’autore della Commedia indirizzano al loro pubblico, cercando di spingerlo a

considerare il significato simbolico che si nasconde sotto la lettera dei testi che gli stanno

sottoponendo; ma in questo si trova soltanto la condizione che permette a Bartoli di citare

l’endecasillabo del poeta fiorentino: il significato delle parole che lo compongono è adatto anche al

contesto di un determinato passaggio della Geografia. Al di là del fascino di citare un piccolo

frammento della Commedia per il suo valore intrinseco e decontestualizzabile, arricchendo così la

propria pagina con un prodotto dell’officina dantesca, non credo quindi si possa in questo caso

cercare un significato profondo al prelievo operato dal gesuita ferrarese.

III. Itaca

I. 1Inchinatevi a questo male ordinato mucchio di sassi che havete innanzi, e avvegna che egli

pur sia un infelice scoglio, voi chiamatelo un’Isola fortunata: peroché tal v’è nato sopra, che la gran Creti per Giove, la mobil Delo per Apollo e Latona, non sono al par di questa famose. 2Vedete voi colassù quel piccol gruppo di rustichi habituri, che rassembrano, più che altro, un nido appiccato a un sasso? quella è la patria d’Ulisse, e questo scoglio è Itaca. 3Hor se una qual che si fosse statua, uscita delle mani di Fidia, rendea sì chiaro qualunque oscuro luogo l’havesse, che dove innanzi non se ne sapea pure il nome, o ch’egli fosse al mondo, poscia alla fama che ne sonava intorno, tutto il mondo glie ne invidiava la gloria: quanto più Itaca, per quella viva, e spirante statua della Prudenza, Ulisse, tutta lavorio di Pallade, e lavorio di tanti anni; per la naturale imagine ch’ella volle ricavar di sè stessa, e quanto far si poteva in materia sensibile, rapportarla in lui? II. 1Nè vi dia niun pensiero, il vedere uscir d’Itaca Ulisse giovane, e non tornarvi che già era d’età oltre a matura. 2Anzi nulla tanto l’honora quanto un tale andarsene, e un tal ritornarvi. 3Uscinne povero di virtù, ignudo di meriti, incognito fuor che a’ suoi scogli: corse strani paesi, provò mille diverse fortune,a Fece col senno assai, e con la spada: indi come al descriver d’un circolo, che si viene a serrare colà medesimo onde si cominciò, tornossene alla patria, a farvi gloria d’Itaca quanto havea di glorioso Ulisse. 4Intanto, dovunque il troviate, o nell’Ulissea d’Omero, o nella descrittion geografica de’ suoi viaggi nel nuovo Atlante, mai non sarà, che non gli veggiate la punta del cuore invariabilmente volta verso Itaca. 5Come la calamita, ancorché lunge Il fugace nocchier la porti errando, Hor dove nasce, hor dove more il Sole, Quell’occulta virtute, ond’ella mira

se a prima vista possono apparire come esempi di questo medesimo tipo di situazione, a un esame più attento si rivelano ingredienti importanti del comporre del gesuita ferrarese. Una circostanza del genere si trova nel capitolo sul Mar Morto (p. 323), all’interno del quale figura un endecasillabo della Gerusalemme liberata, “Svelte notar le Cicladi diresti” (XVI, 5, 1), il cui contesto d’origine presenta diverse analogie con il brano della Geografia dove esso è stato trapiantato (a livello contenutistico, perché sia in Bartoli che in Tasso si parla di scontri titanici, e a livello formale, in quanto nel testo del gesuita ferrarese riecheggiano memorie lessicali e semantiche del verseggiare tassesco). a Nota della Geografia: “Infer.c.16.” (Dante, Inferno, XVI, 39).

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La Tramontana sua, non perde mai.b III. 1Confessò egli medesimo al Grillo,c con cui Plutarco il mise a pruova in discorso, d’havere in quella sì gran parte e di terra e di mare che navigò, e corse, vedute isole d’ampissimo circuito, porti, e scale di traffico a un mezzo mondo, terre amenissime, e altrettanto feconde, città, provincie, regni, innanzi a’ quali la sua Itaca, piccolo scoglio, sassi ignudi, habitation diserta, era nulla. 2Egli, a quegli altri luoghi haver dato un mondo di lodi, ma riserbato sempre alla sua Itaca il suo amore. 3Per ciò lieve cosa a dire è quel che tanto parve allo Stoico:d *Ulysses, ad Ithacae suae saxa sic properat, quemadmodum Agamemnon ad Mycenarum nobiles muros. 4Ei si vuol dire col padre della Romana eloquenza, nè delitie, nè tesori, nè regni, nè l’immortalità stessa offertagli, haver potuto da lei divolgerlo, e frastornare:e *Tanta est vis, tanta natura, ut Ithacam illam in asperrimis saxulis tanquam nidulum affixam, sapientissimus vir immortalitati anteponeret.

[Geografia, pp. 33-35]

Le opere citate esplicitamente nella parte iniziale del terzo capitolo della Geografia sono sei, cioè

l’Inferno di Dante, l’Odissea (o, come dice Bartoli - III, II, 4 - l’Ulissea) di Omero, un “nuovo

Atlante” che presenta la “descrittion geografica de’ [...] viaggi” (id.) di Ulisse,65 il Gryllos di

Plutarco, le Epistulae ad Lucilium di Seneca e il De oratore di Cicerone. Nel secondo paragrafo del

capitolo compaiono pure cinque endecasillabi (III, II, 5) che instaurano una similitudine tra la “punta

del cuore” dell’eroe itacense, “invariabilmente volta verso itaca” (III, II, 4), e la lancetta del

magnete, che indica sempre, indipendentemente dalla posizione dell’oggetto, il nord. Se l’autore

della Geografia non offre nessuna indicazione circa l’origine di questi versi, sono riuscito, dopo

qualche ricerca, ad ascriverli all’opera maggiore del poeta ferrarese Battista Guarini: il Pastor fido.

Per quanto riguarda il verso dantesco, “Fece col senno assai, e con la spada” (III, II, 3; da Dante,

Inferno, XVI, 39), credo valga qui un discorso analogo a quello fatto in relazione a un altro

endecasillabo dello stesso autore (II, III, 1): questa citazione dal grande poeta fiorentino sembra

servire più che altro alla decorazione di una pagina della Geografia. Protagonista del verso riportato

è, nella Commedia, Guido Guerra, uno dei tre fiorentini incontrati da Dante all’interno del terzo

girone infernale, in quel settimo cerchio che ospita bestemmiatori, sodomiti e usurai; nell’opera del

gesuita ferrarese, invece, lo stesso endecasillabo viene riferito alle vicende che caratterizzarono la

vita di Ulisse. Nonostante Guido Guerra si trovi nell’inferno dantesco come anche il protagonista

dell’Odissea e sebbene egli sia stato, secondo l’immagine che ce ne trasmette la Commedia, uomo

nobile, magnanimo e fiero (malgrado il peccato di cui si macchiò) allo stesso modo - nell’idea del

personaggio emergente sia dalla Geografia che dalla Commedia - di Ulisse, trovo difficile

b G.B. Guarini, Il pastor fido, V, I, 15-19. c Nota della Geografia: “Plut. in Gryllo.” (Plutarco, Gryllos, 986-987). d Nota della Geografia: “Sen.Ep.66.al.67.” (Seneca, Epistulae ad Lucilium, VII, 66, 26). e Nota della Geografia: “Lib.I.de Or.” (Cicerone, De Oratore, I, XLVI, 196). 65A differenza degli altri testi elencati, il poema omerico e il “nuovo Atlante”, pur essendo menzionati nel corpo del testo, non sono presenti in alcuna nota e il gesuita ferrarese non ne riporta alcun passaggio preciso.

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giustificare la ripresa del verso dantesco da parte di Bartoli66 attraverso ragioni più profonde di

quella già indicata.67

Dopo Dante, all’inizio del terzo capitolo della Geografia vengono menzionati, come detto,

l’Odissea e un “nuovo Atlante” che, essendomi ignoto, non prenderò in considerazione. A proposito

dell’Odissea, indicata da Bartoli come uno dei possibili testi che presentano Ulisse con il cuore

rivolto sempre verso l’amata Itaca, ci si può chiedere se essa abbia avuto un’influenza sulla

descrizione dell’isola ionica situata nelle pagine della Geografia, il cui autore comunque non

doveva considerare il poema omerico tra le proprie opere preferite,68 se è vero quanto ci dice Giulio

Marzot, che a proposito dei gusti di Bartoli aggiunge: “Gli scrittori, per piacergli, dovevano avere

altri caratteri che non la divina semplicità di Omero, dal quale nulla poteva tesaurizzare di specioso

e rutilante e condensato”.69 Controllando, in ogni caso, le eventuali connessioni tra le due opere, un

primo elemento che ho notato concerne la petrosità di Itaca: se essa è definita di volta in volta dal

gesuita ferrarese come un “male ordinato mucchio di sassi” (III, I, 1), un “infelice scoglio” (id.), “un

sasso” (III, I, 2), uno (id.) o più “scogli” (III, II, 3), o ancora un “piccolo scoglio” (III, III, 1) e “sassi

ignudi” (id.), nel poema omerico ci si riferisce ad essa come “Itaca irta di rocce” (Odissea, XV, 510;

XVI, 124; XXI, 346)70 o “irta di sassi” (ibid., IX, 27; X, 417 e 463). Non mi pare tuttavia che

un’analogia di questo tipo possa essere ritenuta significativa, visto che probabilmente l’isola di

Ulisse è qualificata allo stesso modo in molte opere.71 Bisogna poi dire che in Omero Itaca, pur

essendo “aspra e impervia per i cavalli” (ibid., XIII, 424),72 non è descritta in modo negativo come

in Bartoli: l’isola ionica nel poema greco è più volte definita “chiara nel sole” (ibid., IX, 21; XIII,

212; XVI, 124; XXI, 252), in un caso “ricco paese” (ibid., XIX, 399) e nel tredicesimo libro se ne

parla nella maniera seguente: “È aspra e impervia per i cavalli, / non è troppo magra né vasta. / Vi è

66È comunque un verso che ha già variazioni illustri (cfr. per esempio Tasso, Gerusalemme liberata, I, 1, 3). 67Contro l’ipotesi che certi versi danteschi citati da Bartoli siano volti a impreziosire le pagine della Geografia, esisterebbe la possibilità che, data la fortuna anche popolare che certe espressioni della Commedia hanno avuto, alcuni endecasillabi venissero citati più che altro alla stregua di frasi fatte. Ritengo però di poter scartare un’idea del genere in ragione dell’evidenza, immotivata se fosse rivolta a modi di dire, che viene data a questi versi, attraverso accorgimenti grafici (per esempio in II, III, 1) o, analogamente al caso analizzato adesso, grazie all’indicazione in nota della fonte. 68Nella Geografia il poema omerico è segnalato in nota soltanto una volta (p. 285). 69Marzot, 1944: 120. 70In questo capitolo, per aggirare la grecità dell’Odissea mi sono basato sulla traduzione italiana di G. Aurelio Privitera (in Omero, Odissea, 1991). 71Per avere una conferma di questa situazione, basta dare un’occhiata alle frasi di Seneca (III, III, 3) e di Cicerone (III, III, 4) citate in questo capitolo. Al di là dei due autori latini menzionati, con una breve verifica nell’Eneide ho potuto constatare che anche Virgilio, senza ovviamente soffermarsi su quella terra, perché è lì che il maligno Ulisse è nato, parla d’un’“Itaca pietrosa”: “Effugimus scopulos Ithacae, Laërtia regna / et terram altricem saeui exsecramur Ulixi” (Eneide, III, 272-273). Per quanto riguarda l’Odissea, inoltre, si può aggiungere che la pietrosità non è una prerogativa esclusiva di Itaca: anche Samo, per esempio, è “rocciosa” (Omero, Odissea, IV, 671) o “irta di rocce” (ibid., IV, 845). 72Cfr. anche Omero, Odissea, IV, 605-608: “Ad Itaca non esistono né larghe piste né prato: / pasce le capre, ed è più amabile che se pascesse i cavalli. / Nessuna delle isole che giacciono in mare / è adatta ai carri o ricca di prati: Itaca meno di tutte”.

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grano da non dirsi in essa, / e vino, e sempre v’è pioggia e fitta rugiada. / È buona pastura di capre e

di buoi e vi è un bosco / con ogni albero e sempre v’è acqua negli abbeveratoi” (ibid., XIII, 242-

247).

Se la fonte per l’immagine di quel “male ordinato mucchio di sassi” che è l’Itaca della Geografia

non è quindi il poema omerico, il rimando da parte di Bartoli all’Odissea non è comunque campato

in aria. Il gesuita ferrarese ci dice che, ovunque ci si trovi davanti alla figura di Ulisse, “o

nell’Ulissea d’Omero, o nella descrittion geografica de’ suoi viaggi nel nuovo Atlante, non sarà mai,

che non gli” si veda “la punta del cuore invariabilmente volta verso Itaca” (III, II, 4). Ebbene,

all’affermazione bartoliana rispondono diversi passi omerici: nel primo libro, ad esempio, troviamo

Ulisse (o, per meglio dire, Odisseo) “che brama vedere almeno il fumo levarsi / dalla sua terra”

(Omero, Odissea, I, 58-59); mentre, nel libro nono, lo stesso personaggio afferma, dopo aver con

poche parole descritto la sua isola (“Bassa nel mare essa giace, ultima / verso occidente - le altre a

parte, verso l’aurora e il sole -, / irta di sassi, ma brava nutrice di giovani”, ibid., IX, 25-27), di non

saper “vedere / altra cosa più dolce, per uno, della sua terra” (ibid., IX, 27-28).

Resta da vedere quale sia la ragione del vago rimando all’Odissea che si trova nella Geografia:

l’intenzione del gesuita ferrarese era, presumibilmente, quella di sottolineare in modo deciso il dato

centrale delle pagine dedicate a Itaca, cioè l’affetto nutrito da Ulisse per la sua terra, che è

fondamentale pure, come vedremo, nei passaggi in cui Bartoli cita Guarini, Plutarco, Seneca e

Cicerone. Se nella Geografia questo affetto offre lo spunto per una riflessione morale sulla forza

che l’inclinazione esercita sugli individui,73 anche nel poema omerico esso ricopre un ruolo

stimolativo: è infatti per tornare alla sua amata isola che il protagonista intraprende il periglioso

viaggio che lo condurrà attraverso mille avventure. Pure l’Odissea viene così a costituire una buona

illustrazione, alla quale il gesuita ferrarese opportunamente rinvia il lettore, in modo che questi

possa poi fruirne secondo la determinata ottica che interessa il terzo capitolo della Geografia, della

“soave violenza del Genio”, per esprimersi con le parole del sottotitolo della sezione dell’opera

dedicata all’isola ionica.

I versi tratti dal Pastor fido (V, I, 15-19),74 pur non essendo nel loro contesto d’origine legati alla

figura di Ulisse, trovano nella Geografia una pianta che li rende particolarmente atti a un innesto. A

73Dopo aver completato la sezione introduttiva del capitolo su Itaca, Bartoli commenta: “Con cio eccovi in un singolare effetto, rappresentato al vivo l’universale, della soave, ma insuperabil forza, che in noi ha il peso dell’Inclination naturale, di portarci con tutto il desio dell’anima, chi ad una, e chi ad altra, fra sè differenti, e contrarie professioni di vita” (p. 35). 74Confrontando la versione dei versi guariniani riportata da Bartoli con quella che trovo nell’edizione del Pastor fido curata da Ettore Bonora, ho trovato una differenza legata al testo del quale il gesuita ferrarese si serviva o a una svista: il “nocchier” del verso 16 invece di “fugace” è “sagace”.

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sua volta ferrarese, Guarini,75 che, data la sua posizione di “iniziatore e nume della poesia

barocca”,76 possedeva le caratteristiche idonee per piacere al gesuita ferrarese, nel cominciare il

quinto atto della sua opera si occupa dell’attaccamento per la propria patria provato da chi non è

privo di sentimento, proponendo per bocca di Uranio e di Carino un dialogo che presenta diverse

affinità con la materia trattata all’inizio del capitolo bartoliano su Itaca. Legata essenzialmente alle

parole di Carino, l’influenza che il Pastor fido potrebbe aver esercitato sulla pagina del gesuita

ferrarese è percepibile in particolare all’inizio del secondo paragrafo del capitolo dedicato all’isola

ionica (III, II, 1-3), dove si trova un Ulisse che lascia la propria patria in giovinezza per tornarvi,

dopo varie vicissitudini e lunghi viaggi, soltanto in tarda età, analogamente a quanto accade il

personaggio guariniano, che di sé dice: “le paterne case / giovinetto lasciando e d’altro vago / che di

pascer armenti o fender solco, / or qua or là peregrinando, al fine / torno canuto onde partii già

biondo” (Pastor fido, V, I, 4-8). Un’altra affermazione di Carino che non stonerebbe nella

Geografia, tenendo conto della tematica che è comune ai diversi autori chiamati in causa da Bartoli

in questo capitolo77 e, soprattutto, del riferirimento che in esso si fa all’inclinazione di ciascun

individuo come a qualcosa di naturale, recita: “così chi va lontan da la sua patria, / benché molto

s’aggiri e spesse volte / in peregrina terra ancor s’annidi, / quel naturale amor sempre ritiene, / che

pur l’inchina a le natie contrade” (Pastor fido, V, I, 20-24).

Dopo aver considerato alcuni punti di contatto tra la Geografia e il Pastor fido, non sono da

dimenticare i versi guariniani che il gesuita ferrarese cita alla lettera e che, per la maggiore evidenza

concessa loro, rappresentano un elemento rilevante per il testo bartoliano. Il fondamento del

prelievo si situa in una fondamentale analogia tra gli argomenti trattati nei due testi, per cui si trova

sempre un soggetto sul quale un determinato luogo esercita una forza d’attrazione. Messi in

relazione con le altre fonti del passo bartoliano, i versi di Guarini rappresentano quindi un atomo di

quella molecola fondamentalmente monotematica - poiché ogni sua componente è coinvolta nel

discorso del gesuita ferrarese per la sua partecipazione a un medesimo universo semantico - che

costituisce il corpo delle fonti al capitolo della Geografia consacrato a Itaca.78 Ampliando l’arco del

discorso su una distesa più vasta, si può constatare come sia abbastanza tipico, in Bartoli,

l’accumulo di elementi che irrobustiscano, sottolineandolo, il nucleo delle descrizioni dalle quali si

75Guarini non compare mai nelle note della Geografia, dove presumibilmente è citato soltanto una volta. 76Malgarotto, 1986: 457. 77Escludendo l’autore della Commedia: anche in questo senso il verso di Dante rimane ancora il debito meno necessario all’economia del capitolo su Itaca. 78Si può qui parlare di citazioni a grappolo. Fatto un generico quanto inevitabile rinvio all’Odissea, Bartoli cita poi fonti meno attese (per esempio Plutarco) o eccentriche rispetto all’argomento, quindi “meravigliose”, e comunque a grappolo, nel senso che confluiscono tutte nello stesso oggetto e in bella gerarchia, come già per le Termopili. Un altro senso delle citazioni a grappolo è a volte quello di riprese già infilate una dietro l’altra quali si trovano in qualche repertorio; non mi pare tuttavia che ciò possa valere per Bartoli, autore la cui cultura pare essere di prima mano.

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astraggono in seguito le riflessioni morali. Ma se nella sezione dedicata alle isole Fortunate il

gesuita ferrarese martella, per esempio, sull’opposizione tra promesse nominali e realtà effettiva,

mentre nelle pagine sulla Cina picchia più volte il chiodo della paradossale ignoranza di una cultura

prodigiosa circa le caratteristiche terrestri, il gesuita ferrarese si avvale con intensità ancora

superiore dello stesso ribattente procedimento nel rendere conto dell’attaccamento di Ulisse per

Itaca.

Superati i versi di Guarini, il lettore della Geografia si trova davanti a un passo (III, III, 1-2) che

si fonda su alcune battute di un dialogo di Plutarco (Gryllos, 986-987), autore ammesso da Marzot

nella lista degli autori pagani consoni agli “ideali letterari e artistici”79 di Daniello Bartoli (cfr. 1.

L’Isole Fortunate) e che, a giundicare dalla sua importante presenza tra le pagine della Geografia,

doveva essere tra i favoriti del gesuita.80 Il dialogo in questione mette di fronte a Ulisse uno dei suoi

compagni di viaggio trasformato da Circe in maiale (Gryllos, italianizzato dal gesuita ferrarese in

“Grillo”), allo scopo di stabilire se anche gli animali siano razionali e se la vita degli esseri umani

sia invidiabile. A un certo punto dello scambio, il suino chiede al protagonista dell’Odissea se egli

ammiri maggiormente Itaca, isola più che aspra, pastura per capre, che a malapena frutta

all’agricoltore, dopo grandi sforzi e molta fatica, un magro, grossolano, insignificante raccolto, o la

terra dei Ciclopi, dove - come lo stesso maiale ha udito Ulisse confidare a Circe - nessuno semina

nulla, ma che è per natura così fertile e feconda da produrre spontaneamente ogni tipo di messe (cfr.

Plutarco, Gryllos, 986-987).81 Ulisse risponde alla domanda dicendo che, malgrado ami e abbia più

caro il proprio suolo natio, la terra dei Ciclopi vince la sua approvazione e la sua stima, permettendo

al proprio interlocutore di osservare che allora il più saggio tra gli uomini crede appropriato lodare e

approvare una cosa quando ne ama e preferisce un’altra (ibid., 987).82

Non è difficile notare come Bartoli in questo caso abbia modificato profondamente, a livello di

forma, i dati che egli trae dalla sua fonte: il discorso indiretto al posto di quello che caratterizza,

ovviamente, il dialogo di Plutarco pone già il mutamento nel quadro della struttura espositiva; gli

79Marzot 1944: 120. 80Questo scrittore e filosofo greco è certamente tra le fonti più rilevanti della Geografia: lui o la sua opera sono infatti citati esplicitamente in numerosissime note (cfr. una pagina non numerata dell’Introduttione e le pagine 8, 16, 34, 47, 48, 59, 62, 67, 74, 78, 85, 89, 91, 93, 100, 105, 106, 107, 118, 127, 128, 152, 154, 162, 164, 267, 168, 173, 188, 196, 207, 210, 217, 135, 237, 247, 262, 268, 269, 279, 291, 294, 310, 315, 319, 328, 331, 337, 340, 341, 357, 368, 372, 374, 414, 416, 417, 418, 420, 431, 435, 440, 444, 445, 449, 458, 474). 81La traduzione sulla quale mi baso nel riferirmi al dialogo di Plutarco è quella inglese di Harold Cherniss e William C. Helmbold (Plutarch’s Moralia, 1984). 82Il dialogo prosegue con il maiale che introduce una distinzione tra i terreni che offrono frutti materiali e quelli che ne offrono di spirituali, ammettendo che si possa preferire i secondi perché forniscono senza fatica un raccolto spontaneo di virtù, per poi giungere alla conclusione che l’anima degli animali, rispetto a quella degli uomini, ha una più grande capacità naturale per la generazione della virtù, visto che senza comando o istruzione presenta e sviluppa una virtù adatta ad ogni caso specifico (cfr. Plutarco, Gryllos, 987). Non credo però che questa parte del testo di Plutarco sia da prendere in considerazione per l’analisi della pagina che qui ci interessa.

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scopi del testo greco e di quello italiano, poi, sono molto diversi, per cui si può affermare che il

prelievo messo in atto dal gesuita ferrarese non tiene nessun conto del contesto d’origine della

notizia; gli stessi elementi contenutistici che avvicinano la Geografia al Gryllos - il sentimento di

Ulisse nei confronti di Itaca e l’ammirazione per terre più fertili, alcune caratteristiche dell’isola

ionica e quelle delle regioni ad essa contrapposte -, infine, sono presentati in maniera

completamente diversa. L’interesse di Bartoli per quanto gli è offerto dal testo di Plutarco si limita

quindi, nel passo che stiamo considerando, a un nuovo dato che gli permette di sottolineare ancora

una volta l’attaccamento del protagonista dell’Odissea per la propria terra (e, per analogia, di

evidenziare la forza con cui l’“Inclination naturale” spinge gli esseri umani a muoversi secondo la

propria disposizione), opponendo l’amore per la sua patria arida e sassosa alle attrattive di terre più

splendide e feconde. Per mettere in risalto questa opposizione, il gesuita ferrarese fa ricorso a

un’antitesi che mette in rapporto un’elencazione delle regioni meravigliose incontrate da Ulisse

nelle sue peregrinazioni (“isole d’ampissimo circuito, porti, e scale di traffico a un mezzo mondo,

terre amenissime, e altrettanto feconde, città, provincie, regni”, III, III, 1) a una breve enumerazione

che caratterizza Itaca (“piccolo scoglio, sassi ignudi, habitation diserta”, id.).83 Al fine di

sottolineare ulteriormente l’intenso legame tra il protagonista dell’Odissea e l’isola ionica, inoltre, è

presente in queste righe della Geografia una certa densità di aggettivi possessivi legati in maniera

esclusiva a Itaca o al sentimento di Ulisse per essa (troviamo così due volte “sua Itaca” e una volta

“suo amore”, id.).

Le Epistulae ad Lucilium di Seneca, autore tra i favoriti di Bartoli84 e presente nell’elenco

proposto da Marzot, sono citate (III, III, 3) con la frase, ripresa alla lettera, “Ulysses, ad Ithacae suae

saxa sic properat, quemadmodum Agamemnon ad Mycenarum nobiles muros” (Epistulae ad

Lucilium,VII, 66, 26). Di Seneca come di Cicerone - ci dice John Renaldo nel suo Daniello Bartoli.

A Letterato of the Seicento - il gesuita ferrarese trovava attraente la moralità stoica:85 e

effettivamente in questa sezione della Geografia e altrove il filosofo latino è definito da Bartoli

antonomasticamente “lo Stoico” (III, III, 3). A prima vista, sembrerebbe che il motivo del prelievo

83Si è già detto in una nota precedente che, per far sussistere la figura dell’antitesi, “ci deve essere corrispondenza di costrutti nei membri contrapposti” (Garavelli Mortara, 1998: 241). Sebbene in questo caso la conformità non sia fortissima, credo che il trovarci di fronte a due brevi liste permetta di considerare il passo come esempio di quel tipo di costruzione stilistica. 84Seneca o la sua opera sono in effetti citati frequentissimamente nelle note a piè di pagina della Geografia (cfr. tre pagine non numerate dell’Introduttione e le pagine 5, 11, 14, 15, 23, 28, 31, 34, 38, 51, 53, 54, 57, 59, 66, 72, 73, 76, 90, 94, 95, 96, 98, 102, 110, 111, 112, 114, 115, 116, 123, 126, 127, 129, 130, 138, 146, 148, 149, 152, 153, 159, 160, 161, 163, 170, 171, 173, 180, 181, 184, 185, 186, 188, 202, 203, 208, 210, 211, 221, 222, 223, 225, 229, 231, 236, 239, 241, 242, 258, 276, 277, 279, 280, 281, 283, 289, 290, 292, 297, 303, 304, 311, 320, 330, 335, 346, 354, 361, 368, 369, 372, 373, 381, 382, 384, 385, 391, 396, 401, 406, 410, 414, 416, 417, 421, 430, 432, 433, 438, 442, 444, 445, 446, 447, 449, 459, 465, 474, 476). A proposito dei rapporti di Bartoli con l’opera di Seneca, si possono vedere alcune pagine in Marzot, 1944: 119-126, 146, 154-161.

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dalle Epistulae ad Lucilium esuli, però, da ragioni esclusive che vadano oltre il denominatore

comune dei debiti contratti nella parte iniziale del capitolo su Itaca: il passaggio senechiano in

questione, che mostra come Ulisse e Agamennone si siano affrettati in modo analogo

rispettivamente verso le rocce di Itaca e verso le nobili mura di Micene, potrebbe semplicemente

rappresentare una reiterazione del tema dell’affetto che il protagonista dell’Odissea prova per la

propria terra, amplificato qui da Bartoli con l’asserzione secondo cui le parole dell’autore latino

sono poca cosa rispetto alla realtà che vogliono riferire (id.).86 La frase che nella Geografia segue il

passo senechiano - e che crea un collegamento con la successiva ripresa del De oratore di Cicerone

- suggerisce tuttavia la catena che stringe la pagina bartoliana a quella delle Epistulae ad Lucilium

essere più spessa: il gesuita ferrarese scrive infatti che Seneca, a proposito di Ulisse, “vuol dire col

padre della Romana eloquenza, nè delitie, nè tesori, nè regni, nè l’immortalità stessa offertagli,

haver potuto da lei [Itaca] divolgerlo, e frastornare” (III, III, 4). Il discorso che Bartoli sta portando

avanti nella Geografia effettivamente non solo è affine a quello che l’autore latino - spiegando

alcuni esempi, tra i quali quello sulla fretta di Ulisse e di Agamennone di tornare in patria, all’amico

Lucilio (“nemo enim patriam quia magna est amat, sed quia sua”, Epistulae ad Lucilium, VII, 66,

26) - propone nella sua lettera, ma pare trarre un importante spunto, nella sua esplicazione

dell’affermazione senechiana, dalla domanda che nelle Epistulae segue di pochissimo il passaggio

sull’itacense e sul miceneo: “Quorsus haec pertinet?” (ibid., VII, 66, 27). Parallelamente alla

risposta che lo scrittore latino dà circa la direzione verso cui mira il suo proposito,87 il gesuita

ferrarese, col suo “Ei si vuol dire” (III, III, 4), pare introdurre la propria replica alla medesima

questione.

L’ultimo passaggio citato da Bartoli nella sezione che stiamo considerando, tratto dal De oratore

di Cicerone (II, XLIV, 196) - autore precedentemente in voga, ma al culto del quale nella cultura

letteraria della Controriforma era subentrato quello di Seneca e di Tacito,88 e definito dal gesuita

ferrarese come “padre della Romana eloquenza” (III, III, 4) -,89 è: “Tanta est vis, tanta natura, ut

Ithacam illam in asperrimis saxulis tanquam nidulum affixam, sapientissimus vir immortalitati

85Renaldo, 1979: 26. 86In questo caso la meraviglia suscitata dall’amore di Ulisse per Itaca viene rafforzata pure dall’associare tale sentimento a quello provato da Agamennone per Micene, città caratterizzata positivamente nel passo senechiano e verso la quale è dunque più comprensibile un moto d’affetto. 87”Ut scias uirtutem omnia opera uelut fetus suos isdem oculis intueri, aeque indulgere omnibus et quidem inpensius laborantibus, quoniam quidem etiam parentium amor magis in ea, quorum miseretur, inclinat” (Epistulae ad Lucilium, VII, 66, 27). 88Cfr. Marzot, 1944: 133. 89Cicerone non è citato molto di frequente nella Geografia, le cui note menzionano esplicitamente lui o la sua opera soltanto cinque volte (pp. 34, 151, 170, 300, 409).

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anteponeret” (id.).90 Una prima osservazione che si può facilmente fare, tenendo presente tale passo

ciceroniano e gettando uno sguardo nella Geografia sul primo paragrafo del capitolo su Itaca, è che

il gesuita ferrarese è certamente debitore dell’oratore romano quando parla di “quel piccol gruppo di

rustichi habituri, che rassembrano, piu che altro, un nido appiccato a un sasso” (III, I, 2), fornendo

quella che è praticamente una traduzione del passo latino. Si noti che, con il suo modo di esprimersi

attraverso termini quali “asperrimis”, “saxulis” e “nidulum”, l’Arpinate, che, “educatosi in mezzo a

contrastanti indirizzi retorici e letterari, nella sintesi ch’egli ne tentava, accettava con simpatia la

‘concinnitas’ e insieme l’‘amplitudo’ asiatica”,91 sfoggia un’espressività affascinante per un

rappresentante della cultura barocca, che appare però smorzata nella traslazione italiana del gesuita

ferrarese. Bartoli evita inoltre nel caso considerato di attribuire esplicitamente la propria

formulazione alla suggestione del De oratore, forse per la consapevolezza dell’evidenza che a

questo debito viene fornita dalla citazione dichiarata delle parole di Cicerone o - ma ciò

contravverrebbe alla cura che il ferrarese riservava al proprio periodare - per non essersi reso conto

dell’influenza subita nel confrontare, attraverso una delle tante similitudini che compaiono nella

Geografia, il villaggio itacense a un nido attaccato alle rocce.92

Ma quale ruolo ha voluto attribuire Bartoli al passo del De oratore riportato nella Geografia? Se

le citazioni che troviamo nel capitolo su Itaca vogliono sottolineare l’attaccamento del protagonista

dell’Odissea per la propria patria, quella ciceroniana non si sottrae certo alla regola: il dato specifico

da evidenziare in questo caso si situa tuttavia nel modo in cui le parole dell’Arpinate si possono

porre rispetto al discorso morale che il gesuita ferrarese intende sviluppare nelle pagine seguenti.

Come già osservato, l’obiettivo del terzo capitolo della Geografia è mostrare la forza

dell’inclinazione naturale nel dirigere le azioni degli esseri umani: se Cicerone, che nella pagina da

cui proviene il passo ripreso da Bartoli sta parlando dell’interesse per il proprio paese che ogni

romano deve sentire insito nella sua persona (De oratore, I, XLIV, 195-196), si riferisce alla grande

forza (“tanta est uis”, ibid., 196) e alla notevole spinta naturale (“tanta natura”, ibid.) che si pongono

dietro il sentimento di Ulisse verso Itaca e muovono le sue azioni in una determinata direzione, il

gesuita ferrarese, dopo aver citato esplicitamente l’oratore romano, parlerà in maniera simile

dell’“insuperabil forza, che ha in noi il peso dell’Inclination naturale” nel dare a ciascuno un

90L’edizione del De oratore che ho in mano ci offre una lezione leggermente diversa, ma che in ogni caso non muta il senso del discorso: “tanta est uis ac tanta natura, ut Ithacam illam in asperrimis saxulis tamquam nidulum adfixam sapientissimus uir immortalitati anteponeret” (Cicéron, De l’orateur (livre I), 1985, p. 70). 91Marzot, 1944: 152. 92Pure l’affermazione “nè delitie, nè tesori, nè regni, nè l’immortalità stessa offertagli, haver potuto da lei [Itaca] divolgerlo [Ulisse], e frastornare” (III, III, 4) è debitrice del passo ciceroniano, che peraltro menziona soltanto l’immortalità e subisce dunque la tecnica amplificatoria del gesuita ferrarese; ma in questo caso l’origine del dato è specificata.

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impulso verso diseguali “professioni di vita” (p. 35). L’autore della Geografia si serve quindi della

formulazione ciceroniana, utile al fine di unire la sezione introduttiva del capitolo con le pagine che

seguono, agganciandovisi anche per cogliere qualche suggerimento lessicale e sfruttandola come

trampolino di lancio per tuffarsi, una volta staccatosi dall’esempio particolare di Ulisse e della sua

Itaca, nella propria riflessione sulla “soave violenza del Genio” (p. 33).93

IV. La Cina

I. 1Appunto qui a ridosso di questo bel gruppo d’isolette, diam fondo, riparati, collo

schermircene ch’elle fanno, dal fiotto di questo bestiale mar d’Oriente, che per sì poco s’adira, e non s’adira per meno che infuriare. 2Avvicinarsi, e mettere il piè curioso colà in terra ferma, il ciel ve ne campi: peroché questa che havete innanzi colla riviera in su’l mare, lunga quanto può correr l’occhio, è la Cina, nel cui Vocabolario politico, Forestiere, e Nemico, son voci d’un medesimo significato: tal che ogni Europeo che v’entri (e sol veduto, per le sì diverse fattezze, ravvisasi forestiero) si porta in faccia spiegato il processo della sua condannatione, reo di morir nella Cina, sol perché non vi è nato. 3Io dunque, in vece di condurvi per entro un paese sì mortalmente stranio de gli stranieri, eccovi, ve lo spiego innanzi, fedelmente delineato in questa carta, venutami di colà stesso, dove ha Geografi eccellenti, e non che le Provincie intere, ma ogni loghicciuolo vuole specchiarsi nella sua propria Mappa. II. 1Misuratene in prima l’ampiezza. 2Lunga è la Cina da Mezzodì a Settentrione, mille quattrocento miglia, o in quel torno: cioè da dicennove, fino a quarantadue gradi nel circolo Meridiano: larga, da Levante a Ponente, poco più o men di mille ducento miglia: e in tanta ampiezza di terra, trattone il sassoso de’ monti, non v’è palmo d’incolto, nè colto che non renda più d’una volta l’anno. 3Mercè, ch’ella è tutta venata di fiumi, diramati, e sparsi, con sì vario correre, e serpeggiare, che ne ricercano, e bagnano ogni sua parte: e dove la Natura non ne avviò, ve gli ha condotti la mano, per ampi, e diritti canali, entro sponde arginate d’un muro di vive pietre ben riquadrate, e tal un d’essi lungo oltre a un centinaio di miglia: spesa, e lavoro, di più che Romana magnificenza. 4Le città, quasi tutte lungo alcun fiume, o in su la riva a’ laghi, maestose a vedere, delitiose a godere, non sapete qual più: e per la grande ubertà del terreno, tutta la Cina sembra una Olanda, una Fiandra, a sì poco spatio ve ne ha: e gran numero d’esse maggiori delle Siviglie, delle Lisbone, de’ Parigi, delle Londre. 5Non vo’ qui ridirvi quel di che ho scritto un libro da sè, delle innumerabili, e ornatissime navi, incastellate d’un bel palagio che portano: de’ ponti, che sarebbon da aggiungersi alle sette Maraviglie del Mondo, se la Cina non isdegnasse d’esser parte del mondo. 6Della seta, che vi proviene a sì gran dovitia, che basterebbe a vestire tutti gl’ignudi d’Africa, e di Brasile, senza sentirne più caldo: sì dilicati ne tessono, e sottilissimi i drappi. 7Delle miniere d’ogni specie di metalli, e di marmi, onde quasi tutte le montagne son gravide: e d’ogni altra copia di beni, che la Natura ha divisi a diverse terre, e raunati in questa. III. 1Gente poi non ha il mondo di più colti, e limati costumi. 2Fin gli huomini di campagna si pregiano un non so chè di cavalleria; gentilissimi nel cerimoniare, e per innumerabili che ne siano i riti, tanto gelosamente si guardano, che ogni Cinese, alle gran riverenze che ha, sembra una mezza divinità: ogni riceversi in casa, e convitarsi, ha più cerimonie, e va, e vieni, che un solennissimo sacrificio: nè il punto del convenevole si guarda altrove tanto gelosamente quanto qui, etiandio fra la povera gente. 3Tutti poi di sottile ingegno, scaltriti, finissimi aggiratori, e gran maestri di fingere, e atteggiare il volto in tutt’altro aspetto di quello che si nascondon nel cuore. 4Non parliamo dell’arti, ne’ cui lavori, trattone poc’altro che il buon disegno, gli Europei ne perdono: Non delle savie leggi, per cui quindici regni a governo di Monarchia si reggono, con tanta concatenatione, e dipendenza per grado di Magistrati, e quinci tanta facilità, che tutta

93Non è da trascurare poi la necessità di esplicitare un debito poco prima contratto dal gesuita ferrarese: la similitudine del nido (III, I, 2).

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la Cina sembra una casa, tutti i suoi habitatori (trecento milioni) una famiglia. 5Solo è da raccordarsi la professione delle scienze, massimamente Politiche, e Morali. 6Questo sembra l’Imperio de’ Letterati: peroché non v’ha Principi, non chiarezza, e nobiltà di sangue, altrimenti che per via di lettere. 7Solo il sapere, che altrove è in così poco pregio, nella Cina è il tutto. 8Quindi le somme dignità, il supremo comando, le preminenze in Corte, i tesori in casa, la veneratione de’ popoli, lo splendore delle famiglie, e quanto è beatitudine in quel Regno. 9Nè a niun mette il piè innanzi chi gli dee star dietro: che non ha luogo il favore ove tutto va a punta d’ingegno, a pruova di più sapere, a sperimento d’esami, ad elettion di componimenti, de’ quali i giudici non risanno gli autori; talché possano indovinare, nè a cui nuocciono riprovando, nè a cui giovano eleggendo. 10Così ognun tanto vale quanto è, nè ad altri che a’ suoi medesimi meriti dee la sua ventura. IV. 1Con un tanto sapere, chi non si ammirerà, che i valenti Cinesi habbiano per molte centinaia d’anni accoppiata la maggiore ignoranza del mondo: qual è, darsi fermissimamente a credere, la lor Cina essere tutto il mondo; sè soli tutta l’humana generatione; quel che haveano, quanto può dar la Natura; quel che sapevano, quanto può dar l’ingegno. 2Del rimanente dell’Asia, della grande Africa, della nostra Europa, dell’una e l’altra America, a Settentrione, e a Mezzodì, niuna contezza haveano, più che noi di quel che sia sotto il Polo Antartico. 3Eccone in fede questa medesima loro carta Geografica che v’ho spiegata innanzi, e secondo essi, è la Mappa universale di tutta la terra: e null’altro contiene, che la lor Cina, intorniata dal mare, fuor che un po’ poco di verso la Tartaria. 4Al lembo d’essa, queste infelici strisce di terra, a maniera d’isole, credute da essi solitudini erme, e diserti da fiere: erano quanto mondo parea loro essere al mondo. 5E ben forte stupirono, quando il P. Matteo Ricci (havrà hora de gli anni ottanta) apertasi, come altrove ho scritto, la via da penetrare in quel fino allora impenetrabile Imperio, e conciliatasi col sapere, e colle savie maniere, la benivolenza di que’ gran Letterati, diede loro a vedere, tutta in eccellente disegno la descrittion della terra, lavorio delle sue mani: onde appariva, la Cina tanto non essere tutto il mondo, che conveniva cercarla, come cacciata in esilio colà in un cantone del mondo. 6Pur ne goderon que’ Savi, crescendone in sapere: ma forte più se ne afflissero, calando in havere: in quanto, dove prima erano il tutto, hor si vedevano una particella d’esso poco più che sensibile: e mille beneditioni davano a quell’antica loro ignoranza, in virtù della quale erano sì beati, come si credevano esser grandi. 7E di lor tanto basti. 8Rimettiam vela, portandone, se così v’aggrada, di che ragionarne un poco tra via, questo giovevolissimo argomento, della necessità di conoscersi, misurarsi, pesarsi, sapere il netto di quel che si è, e si vale: e non amare una cotale ignoranza, ch’empia di pensieroni da gigante un pigmeo, e levatolo in su uno smisurato paio di trampani, il facciano andar per aria, co’ piedi sopra le teste de gli altri, grandeggiando, e mirandosi, come que’ legni, ed egli, fosser tutt’uno.

[Geografia, pp. 43-47]

L’inizio del quarto capitolo della Geografia ci propone la descrizione di una Cina meravigliosa94

basata sull’Entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina (1609) del missionario

gesuita Matteo Ricci.95 Anche se in tal senso il gesuita ferrarese non indica esplicitamente l’opera o

il suo autore (ma Ricci è nominato - IV, IV, 5 - quale protagonista di un aneddoto fondamentale per

avviare la meditazione morale circa la cecità insita nella mancanza di autocoscienza), l’Entrata, la

cui edizione integrale adottata per il presente lavoro ha per titolo Storia dell’introduzione del

94Del resto la Cina per Bartoli è, ci dice Bice Garavelli Mortara, la “raffigurazione di una realtà vagheggiata e perciò ‘costruita’ dall’aspirazione di un viaggiatore mancato verso remoti orizzonti, di un letterato verso un mondo trasudante cultura e idolatria della forma” (1997: 22). 95Anche qui però potrebbe porsi il problema, su cui ci siamo soffermati nel capitolo 2. Mongibello, della molteplicità delle fonti bartoliane. Numerose sono in effetti le fonti alle quali il gesuita ferrarese, autore di un volume sulla Cina e le sue missioni gesuitiche (“di che ho scritto un libro da sè”, dice in IV, II, 5), che troviamo parzialmente pubblicato in

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Cristianesimo in Cina (1949), è infatti capace di rispondere praticamente a tutte le informazioni

sull’immenso paese orientale riprese in Bartoli:96 dai rapporti dei cinesi con i forestieri (ibid., vol. I,

pp. 69, 102-103), alle caratteristiche geografiche (ibid., pp. 11-16); dalle notizie su fiumi barche e

ponti (ibid., pp. 20, 91-92; vol. II, pp. 19-20, 36, 142-143), a quelle su quanto la Cina produce (ibid.,

vol. I, pp. 10, 17, 21, 26); dalle informazioni sulla cortesia dei cinesi (ibid., pp. 71-74), ma anche

sulla loro falsità (ibid., p. 101), a quelle sulle loro arti (ibid., pp. 29, 31-32); dai dati sulla monarchia

cinese (ibid., pp. 51-52), a quelli sull’importanza in quella terra delle lettere e dei letterati (ibid., pp.

36-37, 101), delle scienze morali e politiche (ibid., pp. 42-43) e degli esami necessari a raggiungere

la propria posizione sociale e politica (ibid., pp. 44-50, 55); per arrivare infine all’episodio del

mappamondo attraverso il quale Matteo Ricci ha presentato ai cinesi le reali dimensioni del mondo

esterno al loro paese (ibid., pp. 207-212).

Nell’iniziare l’analisi dell’uso che il gesuita ferrarese fa delle informazioni tratte dall’Entrata,

vorrei occuparmi in primo luogo di una divergenza tra quanto è detto nella Geografia e quella che è,

invece, l’opinione di Ricci. Gli studiosi che si sono occupati di Daniello Bartoli hanno spesso

sottolineato la sua scrupolosità nell’utilizzo delle fonti per la stesura della Istoria della Compagnia

di Gesù97 e Antonio di Grado, nel suo Il Gesuita e la morte, accenna alla “visionaria esattezza” con

la quale Bartoli si appropria di immagini, aneddoti o citazioni per poi dispiegarli e amplificarli nelle

proprie opere.98 Nel caso di alcune parti della Geografia, però, questa caratteristica dell’autore

gesuita sembra cadere. A un certo punto della descrizione della Cina nel quarto capitolo, per quanto

riguarda l’esempio di cui voglio occuparmi ora, Bartoli mette in guardia il lettore dallo sbarcare sul

vasto territorio del paese asiatico, in ragione del cattivo occhio col quale i cinesi guardano i

forestieri, al punto da condannarli a morte non appena riconosciuti come tali (IV, I, 2).99 Questa

informazione tuttavia non coincide con l’avviso del missionario maceratese, il quale nell’Entrata

scrive che “se qualche forastiero [...] entra [in Cina] di nascosto non lo ammazzano, come pensano

edizione moderna (D. Bartoli, La Cina, 1997) - ma a quanto pare da anni si sta lavorando all’edizione dell’intera Asia (cfr. l’intervento di Josef Wicki in AA.VV., 1986: 17) -, avrebbe potuto attingere per questo capitolo (cfr. Basile, 1984). 96Le poche notizie che non sono riuscito a reperire nell’Entrata si riducono al piccolo travisamento di cui si parlerà tra breve e all’indicazione demografica, che tuttavia potrebbe essermi sfuggita, circa la popolazione cinese (IV, III, 4). 97Cfr. ad esempio Trompeo, 1930: 248; Tacchi Venturi, 1949: 908; Scotti, 1997: 1169-1170. 98Di Grado, 1992: 16. Per il lettore che volesse approfondire la questione su testi specificamente dedicati a tale tema, Dante Balboni (AA.VV., 1986: 52) ci informa che una “riqualificazione del Bartoli come storico è stata compiuta da Brutto Baroni nella ‘Rivista di storia della storiografia moderna’, con un saggio spugna, indirizzato a cancellare il giudizio frettoloso o interessato di ‘scrittore di storie romanzate’” (vedi A.M. Brutto Baroni, “Daniello Bartoli storico”, in Rivista di storia della storiografia moderna, I, 1980, 2, pp. 77-102). Lo stesso Balboni (AA.VV., 1986: 54), sempre sul Bartoli storico, segnala anche un articolo di John Renaldo: “A seventeenth century Jesuit historian: Daniello Bartoli”, in Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici, 2, 1970, pp. 109-222. 99Questa è l’interpretazione più immediata del passo bartoliano, a meno di non pensare, in maniera macchinosa, che il “reo di morir nella Cina, sol perché non vi è nato” (IV, I, 2) sia da intendersi come una condanna a restare nel paese asiatico fino alla propria morte.

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i nostri, ma non lo lasciano più ritornare a sua terra, acciocchè non vadi là a machinare qualche male

alla Cina” (Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina, 1949, vol. I, 69).

Come si può interpretare il comportamento del gesuita ferrarese in questo caso? È da escludere

l’ipotesi che egli abbia voluto correggere la versione di Ricci, visto che nel primo libro della sua

Cina (1663) sostiene che il forestiero in quel regno “non perde ora la vita come già era in uso, ma in

perpetuo la libertà, e in gran miseria si guarda, acciò che mai più non torni a dar contezza a’ suoi di

qual sia ivi dentro il paese”.100 Ma anche se non fossimo in possesso di tale termine di confronto

non sarebbe difficile rigettare l’idea che l’autore della Geografia non fosse d’accordo con la

versione dei fatti di Ricci. Sempre nella Cina, Bartoli polemizza con un altro gesuita, il belga

Nicolas Trigault, colpevole di aver redatto una traduzione in latino dell’Entrata spacciandola per

un’opera propria nell’elaborazione della quale il ruolo di Ricci era relegato, attraverso la dicitura

“Ex Matthei Ricij Commentarijs”, a quello di semplice fonte.101 Tra quelle pagine, il gesuita

ferrarese, a proposito delle sue dichiarazioni contro Trigault, ci dice:102

a me si è convenuto manifestarlo, sì perché ragion vuole, che ciascuno abbia quel che di dovere è suo, e sì principalmente, perché a diffinir quistioni, e risolver dubbi sopra punti di Religione in quel Regno, lo scioglimento de’ quali, più che da null’altro dipende dalla certezza del fatto, d’altro peso in autorità è la testimonianza del P. Matteo Ricci, per l’uomo ch’egli era in ogni conto e di santità, e di saper maggiore d’ogni eccezione, che non del Trigaut, che stato nella Cina non più che due anni, quanti appena bastano ad intenderne la favella, ed esservi inteso, fu di colà rimandato in Europa per affari della Provincia [...].

A questa testimonianza si possono aggiungere, inoltre, quelle riportate da Pasquale d’Elia che, dopo

aver sostenuto che “Ricci è uno storico coscienzioso e accurato” e “le cose che egli ci narra,

veramente accaddero quali egli ce le narra”, riporta un giudizio proprio del gesuita ferrarese,

secondo il quale l’autore dell’Entrata “‘in quanto istorico’ è ‘esattissimo in cercare e fedelissimo in

descrivere le cose memorabili di quel regno’”.103 Pare dunque che a sul valore dell’opera e

dell’autorità del missionario maceratese per Bartoli non ci siano dubbi.

Perché quindi il gesuita ferrarese fornisce al lettore una notizia che si allontana da quanto dice la

sua fonte e che, per lo meno, non rispecchia la situazione della Cina secentesca? Per rispondere a

tale domanda si può partire da un dato lievemente scontato: l’obiettivo della Geografia trasportata

al morale non è fornire al pubblico dati esatti sulle regioni di cui si occupa - altrimenti sarebbe

assurdo, da parte di Bartoli, ricorrere, come sovente accade in questo libro, a spiegazioni

100D. Bartoli, La Cina, 1997, p. 222. 101Per un approfondimento della questione, si vedano l’articolo Daniele Bartoli e Nicola Trigault di Pasquale d’Elia (1938) e alcune pagine di Daniello Bartoli. A Letterato of the Seicento di John Renaldo (1979: 63-68). 102D. Bartoli, La Cina, 1997, p. 152. 103D’Elia, 1949: CLXXXVII.

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mitologiche o a opere di fantasia per appoggiarvi le fondamenta delle proprie affermazioni.104 Come

vedremo soffermandoci sul capitolo dedicato alle Molucche, il gesuita ferrarese vuole

principalmente creare una sorta di geografia simbolica, che possa servirgli alla genesi di spunti per

le sue riflessioni morali. Procedendo in questo senso, egli può permettersi di modificare alcuni dati -

o comunque di utilizzare informazioni che, sebbene in un modo o nell’altro attestate, non

corrispondono, secondo le conoscenze di Bartoli, alla condizione di determinati luoghi - per poi

giungere a un certo tipo di risultati: nel caso del capitolo sulla Cina, l’autore della Geografia mirava

probabilmente a sottolineare la contrapposizione tra lo splendore della civiltà del paese asiatico e

l’ignoranza dei suoi abitanti, anche tra i più dotti, circa i territori stranieri. Per far questo, Bartoli

alterna, inoltre, alla rappresentazione di una Cina magnifica alcune notizie che evidenziano i suoi

cattivi rapporti con l’estero,105 con un avvicendarsi che, attraverso un meccanismo analogo a quello

indicato da Fontanier a proposito della figura della comparazione,106 permette di rafforzare una certa

idea mettendola in una relazione di contrasto rispetto a uno sfondo dal quale ci si immaginerebbe di

veder sorgere un altro tipo di situazione.107

Essendo l’alterazione di dati e delle scelte tendenziose nella Geografia rappresentativa

dell’operare e degli intenti di Bartoli, mi pare interessante soffermarsi anche sull’esempio fornito

dal capitolo sulle Molucche. L’arcipelago delle Molucche può richiamare, secondo il gesuita

ferrarese, “que’ valenti ingegni, che per la troppa astrattion della mente in che vanno, il mondo

chiama, Huomini alla Filosofica, e vuol dir egli, inetti a ciò che altro non è puro puro lavorio di

mente” (p. 261). Se tale inettitudine li porta a essere “niente belli al vederli” (p. 259), per cui alla

laidezza esteriore si oppone in loro l’opulenza interiore, si rendono in questo simili per Bartoli alle

104Bisogna comunque dire che in diverse occasioni il gesuita ferrarese dichiara il carattere fantasioso dei passaggi citati: nel capitolo su Scilla e Cariddi, per esempio, dopo aver riportato alcuni versi dell’Eneide di Annibal Caro su tali mostri mitologici, li classifica come “fantasie de’ Poeti”, per procedere poi in una descrizione maggiormente plausibile delle insidie dello Stretto di Sicilia (pp. 426-428). 105Ci troviamo di fronte a un nuovo esempio della tecnica ribattente considerata nel capitolo 3. Itaca. Per chiarire meglio la situazione che si presenta con la Cina, cercherò di delineare sinteticamente lo sviluppo di tali pagine bartoliane, in modo che sia percepibile lo spuntare, tra tante note elogiative, del grande handicap della civiltà cinese. Il capitolo si apre in segno negativo, con il gesuita ferrarese che sconsiglia al suo compagno di viaggio immaginario di sbarcare sulla vastissima costa cinese, perché in quel regno gli stranieri sono trattati alla stregua di nemici mortali (IV, I, 1-3). Poi, invece di fingere la visita di una paese tanto ostile nei confronti dei forestieri, Bartoli rappresenta la Cina in una sorta di ecphrasis, immaginando di mostrarla al destinatario del suo discorso attraverso una carta geografica (IV, I, 3): da qui comincia quindi una descrizione dell’immensità e delle ricchezze materiali di tale paese orientale (IV, II, 1-4), fino a quando viene introdotta per la seconda volta la tematica dell’estraneità della Cina rispetto al resto del mondo, parlando “de’ ponti, che sarebbon da aggiungersi alle sette Maraviglie del Mondo, se la Cina non isdegnasse d’esser parte del mondo” (IV, II, 5). Dopo questa osservazione, Bartoli continua ancora per qualche tempo a parlare dell’abbondanza di beni della Cina (IV, II, 6-7), prima di passare a un’ammirata esposizione di alcuni aspetti politici, culturali e sociali della civiltà cinese (IV, III, 1-10), per giungere infine alla stupefatta constatazione dell’ignoranza cinese circa le reali caratteristiche dell’orbe terracqueo (IV, IV, 1-2) che introdurrà l’aneddoto su Matteo Ricci e il mappamondo (IV, IV, 3-6). 106Fontanier, 1968: 377.

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Molucche, isole vulcaniche presentate come brutte, aride e pressoché invivibili, ma ciononostante

contese da molti monarchi per la loro unica ricchezza, il garofano, del quale “abbondano tanto, che

lor ne avanza a proveder tutto il mondo: e i selvaggi habitatori di que’ monti, il permutano colle

merci dell’India, e dell’Europa; onde anch’essi hanno a dovitia quello, che l’infelice loro paese non

rende” (p. 261).

Anche se nella sezione introduttiva del diciassettesimo capitolo della Geografia nessuna fonte è

citata esplicitamente, viene spontaneo chiedersi come mai il gesuita ferrarese, che doveva sapere le

caratteristiche ambientali di tale arcipelago non essere tanto ostili,108 abbia scelto di rappresentare in

questo modo le Molucche. Se si legge quanto di quell’arcipelago dicono per esempio Antonio

Pigafetta e, tra i missionari gesuiti, Francisco Perez, la rappresentazione che se ne trae è molto

diversa da quella bartoliana. Al “burrascoso mare” (p. 259) di cui parla l’autore della Geografia

quando immagina di avvicinarsi alle Molucche,109 si oppone la testimonianza di Pigafetta che, nella

sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo (1999, pp. 278-279), così si esprime: “Per tutte

queste isolle fin a Malucho, el menor fundo trovassemo era in cento e ducento bracia, al contrario

como dicevano li portughesi che quivi non si poteva navigare per li gran bassi e il çiello obscuro

como loro se avevano imaginato”. Il commento di Andrea Canova al passo citato fornisce una

possibile traccia, che non ho avuto occasione di percorrere, per reperire la fonte utilizzata da Bartoli

per la sua descrizione delle Molucche: secondo Canova in effetti “la propaganda portoghese

diffondeva notizie false sull’inospitalità delle Molucche onde tenere lontano altri colonizzatori, in

particolare gli spagnoli”.110 Come accennato, alla testimonianza del viaggiatore vicentino si può

accostare quella di Francisco Perez, che in una lettera dalle Molucche del 4 dicembre 1548 scrive:

“Llueve en esta tierra todo el anno, ansí que siempre hay herva verde. No sé como dizen allá eses

filósofos que esta tierra es muy seca et quod est inhabitabilis aestu” (AA.VV., Documenta indica,

1948, vol. I, pp. 374-375).111 Quando il gesuita ferrarese redigeva la Geografia, quindi, l’idea delle

Molucche come terra decisamente ostile era già stata smentita da qualche tempo pure in Europa,

107Rivelatore, in questo senso, mi pare sia anche il modo di esprimersi del gesuita ferrarese, quando egli dice: “Con un tanto sapere, chi non si ammirerà, che [...]” (IV, IV, 1). 108Bartoli era certamente informato sulla situazione delle Molucche, se in anni vicini alla pubblicazione della Geografia stava pure lavorando, nell’ambito della sua Istoria della Compagnia di Gesù, alle pagine dedicate all’Asia (la cui edizione definitiva risale al 1667), che nel sesto libro, come ci dice Josef Wicki nel suo intervento al convegno Daniello

Bartoli storico e letterato, si occupa proprio di quell’arcipelago (AA.VV., 1986: 17). 109Il gesuita ferrarese parla nel suo Giappone (1985, pp. 104-105) delle difficoltà di navigazione che il padre Valegnani e i suoi compagni di viaggio incontrarono, andando da Nagasaki a Macao, quando proprio nei pressi delle Molucche rischiarono di naufragare incagliandosi in uno scoglio; ma non credo si possano vedere particolari parallelismi con le pagine della Geografia di cui stiamo parlando. 110A. Pigafetta, Relazione del primo viaggio intorno al mondo, 1999, p. 278. 111Bisogna qui osservare che Bartoli non nega affatto che sulle Molucche piova (parla anzi, a pagina 260, di “gran diluvio di piogge”): ma non per questo esse sono secondo lui meno “smunte, e sitibonde”, a causa del “sempre vivo e

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anche se i due documenti citati dimostrano che non doveva essere difficile trovare scritti che

presentavano l’arcipelago in una cattiva luce. Ma perché dunque Bartoli ha deciso di seguire

quest’ultimo tipo di testimonianze? La situazione davanti alla quale ci si trova qui è

presumibilmente affine a quella individuata per la rappresentazione bartoliana della Cina: se lo

scopo del gesuita nella sua Geografia non è quello di fornire descrizioni dalla precisione quasi

scientifica, ma di presentare alcune immagini che, “come medaglioni di imprese”, possano essere

“interpretati metaforicamente per trarne insegnamenti morali”,112 l’immagine delle Molucche, per

farsi illustrazione analogica - onde presentare l’idea morale sotto il segno di un’altra idea più

concreta e incisiva -113 degli “Huomini alla filosofica, niente belli al vederli, tutto buoni al provarli”

(p. 259), risponderà bene allo scopo se presentata alla stregua di un arcipelago dove tutto il

“malvagio terreno” è “sabbion nero, riarso, morto di pura sete” (p. 260), ma che è pure ricettacolo di

un tesoro, il garofano, conteso da molti re.

Tornando al capitolo sulla Cina, possiamo ora considerare una parte delle riprese bartoliane

dall’Entrata di Ricci.114 Un primo elemento che salta subito all’occhio è la fedeltà generalmente

manifestata dal gesuita ferrarese verso la sua fonte, visibile già a livello di cifre: se, per il

missionario maceratese, il regno orientale “al mezogiorno comenza in 19 gradi del equinoctiale nel

insola di Hainan e va a finire in 42 gradi fuora de’ muri settentrionali dove comenza la Tartaria”

(Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina, 1949, vol. I, p. 12), Bartoli nella Geografia

mantiene i medesimi numeri latitudinali, conservando inoltre i riferimenti al mezzogiorno e al

settentrione (IV, II, 2). Quando, poco più avanti, il gesuita ferrarese si occupa dei fiumi e canali

cinesi (IV, II, 3), costruisce il proprio periodare sulla notizia ricciana secondo cui “è tanto distinta e

piena questa terra di fiumi che, quasi per ogni parte, si può andare per camino di acqua, parte per

fiumi naturali, parte per altri canali fatti per opera et industria humana” (Storia, p. 20). Bartoli si

impossessa dell’immagine di un paese solcato da innumerevoli corsi d’acqua, generati dalla natura o

dall’uomo, per caricarla attraverso la propria arte di una valenza enfatica sconosciuta al passo del

missionario maceratese, attraverso una maggiore caratterizzazione aggettivale e verbale e un

paragone che chiama in causa le grandi opere architettoniche dell’antica Roma. Quando Ricci

afferma poi che in Cina la seta è prodotta “in grandissima abondanza, tanto che non solo la vestono

bollente” fuoco che hanno “nelle viscere” (p. 260). L’estratto dalla lettera di Francisco Perez vale piuttosto come esempio di documento che nega le affermazioni circa l’invivibilità dell’arcipelago del Pacifico. 112Garavelli Mortara, 1992: XXX. 113Dice Fontanier nel suo Les figures du discours (1968: 99): “Les Tropes par rassemblance consistent à présenter une

idée sous le signe d’une autre idée plus frappante ou plus connue, qui, d’ailleurs, ne tient à la première par aucun

autre lien que celui d’une certaine conformité ou analogie” (il corsivo è di Fontanier). 114Come si è visto, i debiti del gesuita ferrarese verso il confratello maceratese riguardano l’intera sezione introduttiva del capitolo sulla Cina: per questa ragione, onde non debordare oltre i limiti che separano intenti esplicativi da tediose ambizioni totalizzanti, conviene limitare le osservazioni a un ventaglio rappresentativo di campioni.

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grandi e piccoli, poveri e ricchi, ma anco ne mandano molta a tutte le parti circonvicine” (Storia, p.

10), l’autore della Geografia gli fa eco affermando che la seta dalla Cina “proviene a sì gran dovitia,

che basterebbe a vestire tutti gl’ignudi d’Africa, e di Brasile” (IV, II, 6) e significando la medesima

copia serica, in tal modo, per mezzo dell’esotico richiamo a popolazioni di terre lontane.

Consideriamo infine un ultimo esempio: nel sostenere che nel vasto regno orientale quanti

desiderano ottenere una carica “non hanno necessità di nessuna gratia o favore, non dico de’

magistrati, ma nè anco dello stesso Re; perciochè tutto si dà per essami di lettere, prudentia, virtù et

habilità che mostrano avere negli offitij passati” (Storia, p. 55), il missionario maceratese suggerisce

a Bartoli un dato sui criteri meritocratici cinesi, che lo storico della Societas Iesu rielabora in

maniera originale, pur mantenendo l’artificio dell’elencazione e qualche elemento lessicale come

“favore”, “esami” e “virtù” (IV, III, 9).115

Come si vede dai brevi brani considerati nel paragrafo precedente, Bartoli, riprendendo le notizie

sulla Cina dall’Entrata, pur essendo a volte influenzato anche a livello lessicale e sintattico, ha una

certa tendenza, qui come altrove,116 ad amplificare e colorire i dati provenienti dalla sua fonte, senza

però tradire, salvo nei casi in cui egli intenda giungere a un risultato specifico, il contenuto di fondo

delle informazioni da trasmettere al lettore. Che la scrittura bartoliana risulti più elaborata di quella

di Ricci non sorprende, visto che l’autore dell’Entrata così si esprime manifestamente, nello

spiegare il motivo che lo spinge a scrivere la propria opera e parlando del metodo che adotterà nel

farlo (Storia, 1949, vol. I, pp. 5-6):

Per esser questa, opera di ridurre e convertire anime alla Fede catholica, non si deve dubitare esser tutta opera d’Iddio; e così non serà necessario nel riferirla usare di altri ornamenti di parole, poichè la semplice verità schiettamente proposta è quella che più diletta et aggrada in simili materie alle pietose orecchie.

Diverse sono invece le motivazioni che muovono il gesuita ferrarese: se i suoi “‘libretti spirituali’

sono meditazioni sulla condizione umana e sui misteri della fede, riflessioni escatologiche,

interpretazioni simboliche di aspetti del mondo creato, di episodi mitologici, di topói letterari,

ecc.”,117 e anche la Geografia risponde a un desiderio, in qualche modo analogo a quello

dell’Entrata, di verità connesse alla morale e alla fede cristiana, non bisogna dimenticare che per

Bartoli, come egli stesso ammette, gli scritti minori “volevano essere una divagazione e una

115È semplice rendersi conto di come alcune informazioni fornite dal gesuita ferrarese non sono presenti nei passi ricciani che ho citato: in effetti questi ultimi andrebbero integrati con brani che ho ignorato, principalmente perché entrare troppo nel dettaglio è inutile alle osservazioni che intendo sviluppare ora. Sulla base dei rimandi elencati nel primo paragrafo di questo capitolo, si potrebbe comunque continuare l’esposizione di passaggi della Geografia debitori dell’Entrata e procedere, inoltre, alla summenzionata integrazione. 116Ci siamo già occupati della tecnica amplificatoria bartoliana nel primo capitolo del presente lavoro, analizzando la ripresa (I, II, 1) di un episodio tratto dalla Storia varia di Eliano.

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‘ricreazione’ dalla sua fatica diuturna, gravosa (e ‘incredibilmente noiosa’) di storico della

Compagnia”.118 È quindi naturale che egli nelle sue operette morali, dato il loro carattere di svago

rispetto alla stesura dell’Istoria della Compagnia di Gesù, non si privasse di uno sfogo del proprio

gusto per le maestose costruzioni letterarie.119 Anche per il gesuita ferrarese, probabilmente, certe

verità non necessitano “ornamenti di parole” decoranti la pura e semplice esposizione, ma nella

Geografia egli cerca pure il piacere intellettuale per le belle forme, che intende trasmettere, “sempre

partendo il [...] da vero [dell’opera] all’utile, e ’l suo piacevole al diletto”, (pagina non numerata

dell’Introduttione), pure al lettore.

Avvicinando adesso l’episodio che narra di Matteo Ricci e del suo mappamondo (IV, IV, 1-6), si

affronterà il nucleo fondamentale della sezione introduttiva del capitolo sulla Cina. Ci si trova qui di

fronte a un exemplum, tramite il quale un fatto storico “viene messo a confronto con il pensiero vero

e proprio”,120 cioè con la riflessione sull’importanza del conoscere se stessi. Vale forse la pena di

fermarsi un momento, prima di procedere, per qualche considerazione generale circa

quell’abbondanza di paragoni che affonda le proprie radici nell’essenza più intima della Geografia.

Il meccanismo che sta alla base di tale opera bartoliana si situa nel quadro di quello che Carlo

Calcaterra, nel suo Parnaso in rivolta, definisce “orientamento spirituale” dell’epoca barocca, che

portava gli autori a tentare “sincretismi ingegnosi”, fondendo “dottrine tra loro inconciliabili, quali

l’aristotelismo e il galileismo, il platonismo e il naturalismo, il pitagorismo e l’empirismo”.121 Da

questo tipo di orientamento nascevano le “forme mentali barocche”, che conducevano gli “spiriti” di

quella cultura “a vedere, immaginare, parlare in barocco”:122 anche Bartoli, che per Calcaterra è il

maggiore dei prosatori barocchi,123 “non solo per la maestria della parola, ma per quell’animo

partecipe e staccato, con cui contempla l’arte sua”,124 accostando la geografia alla morale mostra di

partecipare a tale tipo di sensibilità e caratterizza il suo lavoro con un eclettismo, già avvertito da

117Garavelli Mortara, 1992: XXIX. 118Grana, 1961: 1670. Nella stessa Introduttione della Geografia parla di “quel poco, che ora [gli] si consente di scrivere, per una certa non irragionevole intramessa ad altro lavoro di piu fatichevole argomento” (pagina non numerata). 119Naturalmente pure le pagine dell’Istoria sono un ottimo esempio del gusto letterario di Bartoli, che però in quel caso doveva sentirsi meno libero, a causa del carattere ufficiale dell’opera, di lasciarsi andare a una scrittura rispondente ai suoi desideri. 120Lausberg, 1969: 225. 121Calcaterra, 1940: 127-128. 122Calcaterra, 1940: 128. 123I giudizi estetici sull’opera di Daniello Bartoli abbondano nella critica che si è occupata di questo autore - si vedano per esempio l’articolo di Adolfo Avetta Di alcuni giudizi letterari sul p. Daniello Bartoli (1903), l’Elogio di Daniello

Bartoli di Pietro Paolo Trompeo (1942), l’In difesa di Daniello Bartoli di Laura Giuliani (1950) o il lapidario parere di Benedetto Croce, che menziona del gesuita ferrarese “l’ingegnosità descrittiva, nella quale [egli] eccelle, sovrabbonda ed affoga” (1929: 443) - e hanno portato a dibattiti secondo me un poco sterili, anche se utili almeno per attirare l’attenzione sui testi bartoliani, che continuano ancora in anni recenti (cfr. Sommavilla, 1985). Il riferirmi al giudizio di Calcaterra, comunque, vale qui a dimostrare come egli ponga senza dubbio Bartoli tra i prosatori barocchi. 124Calcaterra, 1940: 150.

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Croce,125 che gli permette di accostare alle “sue eccellenti attitudini di osservatore paziente e

minuto, di lento e compiaciuto stilista”,126 l’impegno nel comunicare una serie di insegnamenti e

valori morali. Ma naturalmente la mentalità barocca non è l’unico sfondo di un’operazione

compiuta nella Geografia, che nel suo abbinare significati simbolici a immagini concrete procura

pure una maggiore tangibilità al messaggio morale.127 Accanto alla sollecitazione del “fascino di

quelle prose metamorfiche e immaginose, di cui la prosa barocca è così ricca”, infatti, come nota

Alberto Asor Rosa, altri stimoli culturali fanno da sfondo a un’opera come la Geografia o come gli

affini Simboli trasportati al morale (1677): tra di essi

quella letteratura degli “emblemi” e delle “imprese”, che tendeva a ridurre al succo di uno stemma o di un blasone o di un motto l’interpretazione di uno stato o di una forma dell’esistenza; più lontano si vede altresì riemergere la vecchia tradizione dei “bestiari” e degli “erbari” medievali, che non era mai scomparsa del tutto dalla cultura ecclesiastica e ben corrispondeva del resto alla mentalità complicata e curiosa dello strano e del bizzarro, dominante [nel Seicento]. 128

Percorrendo Bartoli il proprio cammino letterario in queste circostanze - distinte da una ricerca di

associazioni mirabolanti e da una produzione simbolica moralizzata - la fioritura di exempla poteva

trovare nella sua opera una serra ideale: e ciò particolarmente in un testo come la Geografia, dove

tecniche legate all’analogia forniscono l’impianto da cui scaturisce ogni sviluppo tematico

successivo. Anche solo tenendo presenti i brani scelti per l’analisi condotta in questo lavoro,

frequenti sono in effetti i casi in cui mi pare si possa parlare di exemplum: la vicenda di Encelado

che illustra le conseguenze del cattivo agire per i grandi personaggi pubblici (II, II, 3-5), la storia di

Ulisse che torna alla sua amata Itaca per commentare la gagliardia dell’inclinazione naturale (III, II-

III), il ricordo di Atlante che sorregge la volta celeste per mostrare come siano necessarie forze

notevoli al sostegno di grandi cariche (VI, 11-13), l’aneddoto circa la fuga degli abitanti di una città

dalla vicinanza delle cascate del Nilo per illuminare gli effetti nefasti degli sproloqui scroscianti

(VII, 4), il rimando al rapporto tra urbanistica e sanità a Mitilene per indicare come una brutta scelta

di linee direttive possa essere causa in seguito di importanti pentimenti (XV, II, 1-8). La tecnica

degli exempla viene quindi a collocarsi, per ragioni analoghe a quelle che fanno della similitudine

un fondamentale meccanismo ispiratore, tra i principi da tener presenti nel radunare le costanti

operative applicate da Bartoli nella stesura della Geografia.

125Croce, 1929: 65. 126Scotti, 1997: 1171. 127Un testo fondamentale nella formazione di autori come il gesuita ferrarese sono Gli esercizi spirituali del fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio da Loyola, che teorizza, quale “strumento efficace di contemplazione e di compunzione, la ‘visualizzazione’ delle figure, simboli, scene e sentimenti sacri e spirituali” (Asor Rosa, 1974: 299): è facile quindi farsi un’idea di come concretizzare i precetti morali attraverso la loro messa in immagini fosse quasi un automatismo per un uomo come Daniello Bartoli.

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Concentrandoci finalmente sull’episodio di Ricci e del suo mappamondo, cioè su quanto

rappresenta il contenuto storico dell’exemplum proposto dal gesuita ferrarese, possiamo partire dalla

sua introduzione, che ci fa vedere, mediante la carta geografica immaginaria proposta da Bartoli al

suo pubblico, quella che era la cognizione dell’orbe terracqueo e delle sue peculiarità per i cinesi

(IV, IV, 1-4). Come sempre all’interno del quarto capitolo della Geografia, tali notizie sono

reperibili nell’Entrata di Matteo Ricci, in primo luogo dove il missionario maceratese spiega che

i Cinesi avevano stampati molti mappamondi con titulo di Descrittione di tutto il mondo, i quali erano tutti occupando il campo con le quindeci provincie della Cina, et all’intorno pingevano un puoco di mare nel quale facevano certe insolette, nelle quali scrivevano i nomi di tutti [i] regni, quanti ne avevano auti notitia, che tutti insieme uniti non facevano una piccola provincia della Cina. (Storia, 1949, vol. I, pp. 208-209)129

A questo passaggio, si può forse aggiungere, per la definizione delle terre straniere come “diserti da

fiere” (IV, IV, 4), il dato fornito da Ricci quando egli afferma che, per i cinesi, i forestieri sono

“gente puoco inferiore alle bestie” che può essere definita con “lettere [...] composte di varij animali

e cose brutte” (Storia, 1949, vol. I, p. 103). Tutti gli elementi principali riportati da Bartoli sono

uniti da un forte legame con il testo ricciano, anche se le formulazioni utilizzate per comunicarli

sono differenti. Tra questi elementi, a spiccare maggiormente sono “la Mappa universale di tutta la

terra”, che dovrebbe rappresentare uno dei mappamondi intitolati “Descrittione di tutto il

mondo”,130 e le “infelici strisce di terra, a maniera d’isole”, derivate dalle ricciane “insolette”. Ma

sono ancora da rilevare almeno due punti di coincidenza contenutistica: le immagini della Cina

“intorniata dal mare” e dello stesso paese che occupa tutta la carta geografica. Oltre al desiderio da

parte di Bartoli, come già visto nel capitolo sul Mongibello, di non rubare in maniera indiscriminata

dalle sue fonti e ai modi di accostarsi alla scrittura che distinguono Ricci e il ferrarese, le differenze

formali tra i due testi sono dovute alla diversa prospettiva assunta dai due autori nella loro

rappresentazione: se l’autore dell’Entrata, che si concentra qui piuttosto su una dimensione

“quantitativa”, sembra interessato soprattutto a sottolineare la grande erroneità della geografia

cinese; l’altro gesuita, più attento a opposizioni d’ordine qualitativo, pare evidenziare piuttosto il

cattivo rapporto tra la Cina e le terre straniere, mostrate come “solitudini erme, e diserti da fiere”.

L’ottica di Bartoli si muove così in una direzione che meglio si adatta a un discorso d’ordine

morale, fondato su una certa gerarchia di valori e quindi su distinzioni di tipo qualitativo,

proponendo una versione dei fatti attenta a indicare le conseguenze negative (nel nostro caso

128Asor Rosa, 1974: 301. 129L’aggiunta dell’articolo determinativo plurale “i” tra parentesi quadre è di Pasquale d’Elia. 130Tale titolo potrebbe essere all’origine anche di un altro sintagma del gesuita ferrarese, che menziona una “descrittion della terra” per introdurre la carta geografica disegnata da Matteo Ricci (IV, IV, 5).

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specifico, il credere regioni vaste e civilizzate alla stregua di minuscole terre selvatiche) di un certo

modo di vedere le cose.131

Il capitolo bartoliano prosegue con la reminiscenza dell’entrata del missionario maceratese nella

terra dei mandarini e della presentazione in tale regno d’un mappamondo fondato sulle conoscenze

geografiche occidentali (IV, IV, 5). Sullo stesso tema, Ricci scrive nell’Entrata che i missionari

gesuiti in Cina avevano “posto nella loro sala un mappamondo universale di tutto il mondo in nostra

lettera” (Storia, 1949, vol. I, p. 207). Questo oggetto aveva incuriosito i cinesi, che ne avevano

chiesto una copia tradotta nella loro lingua. Matteo Ricci, “agiutato d’un letterato suo amico” (ibid.,

pp. 207-208), aveva risposto positivamente alla richiesta e, in breve, aveva realizzato “un Mappa

universale maggiore di quello che avevano in casa” (ibid., p. 208). Al momento in cui i cinesi sulla

carta (ibid., pp. 209-211)

videro il mondo sì grande e la Cina in un cantone di essa, sì piccola al loro parere, la gente più ignorante cominciò a farsi beffe di tal descrittione; ma gli più savij, vedendo sì bello ordine de’ gradi paralleli e meridiani, con la linea del equinoctiali, tropichi, e le cinque zone, con varij custumi de’ paesi, e tutta la terra piena de’ varij nomi voltati dal primo mappa, anco stampato, che dava assai credito a tanta novità, non potero lasciare di credere esser tutto questo verità.

Se le informazioni sulla reazione dei saggi cinesi viene ripresa da Bartoli alla fine della sezione

introduttiva del capitolo sulla Cina (IV, IV, 6), prima del congiungimento tra la descrizione di quel

regno orientale con la riflessione morale (IV, IV, 7-8), gli altri elementi dell’Entrata che si sono

appena riportati possono spiegare il passaggio in cui il gesuita ferrarese narra brevemente

dell’introduzione in Cina, da parte di Matteo Ricci, di una cognizione realistica della geografia

mondiale (IV, IV, 5). In questo caso non è stato ripreso dal testo ricciano un solo passaggio chiave

capace di sostenere, magari con l’ausilio di qualche integrazione minore, il ruolo di fonte per un

brano della Geografia: la ragione di tale maniera d’operare si trova nel fatto che l’esposizione di

Ricci nell’Entrata, ampia opera dedicata interamente alla Cina e dove dunque c’è spazio per

approfondire le diverse tematiche, è più estesa della versione bartoliana. Evidentemente il gesuita

ferrarese non aveva l’intenzione o il bisogno di soffermarsi su dettagli inutili: il carattere di

exemplum dell’episodio narrato132 necessitava infatti soltanto che esso fosse narrato nelle sue linee

131L’opinione dei cinesi circa i territori stranieri e le loro culture non è comunque un’invenzione del gesuita ferrarese, né è frutto della sua fantasia il mettere questo modo di pensare in relazione con le idee geografiche che caratterizzavano la popolazione della Cina. Matteo Ricci afferma, in effetti, che i cinesi, con la “loro imaginatione della grandezza del loro regno e piccolezza del resto del mondo, stavano tanto superbi che gli pareva esser tutto il mondo barbaro e inculto in sua comparatione” (Storia, 1949, vol. I, p. 209). Potrebbe addirittura essere questa notizia ad aver dato l’idea a Bartoli di legare la descrizione a una riflessione sull’importanza di conoscere se stessi. 132Non si trattava quindi di costruire con numerose componenti informative una monografia sulla Cina, anche perché questo era già stato fatto un anno prima con la parte della Istoria della Compagnia di Gesù dedicata a tale paese. Ci si potrebbe tra l’altro chiedere se Bartoli, più che ricorrere direttamente al testo di Ricci, non si sia rifatto piuttosto sulle

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essenziali - senza dimenticare però una coloritura in grado di renderlo interessante - in modo da

poter instaurare il confronto tra l’aneddoto e la riflessione morale che esso doveva illustrare.

Per quanto riguarda la coloritura dell’episodio, Bartoli, che al solito nel parafrasare la fonte non è

esente da alcune influenze lessicali e sintagmatiche di quest’ultima, accetta l’immagine offerta

dall’Entrata, che mostra l’opposizione tra il mondo com’era secondo i cinesi prima dell’arrivo di

Ricci col suo mappamondo e la rappresentazione di una terra è relegata in un “cantone” d’essa. Alla

rappresentazione fornita dal missionario maceratese, però, che in questo punto è più laconica

rispetto alla rielaborazione bartoliana, nella Geografia viene aggiunta una certa espressività: se

nell’Entrata si vede semplicemente “il mondo sì grande e la Cina in un cantone” (Storia, 1949, vol.

I, p. 209), nell’opera del gesuita ferrarese si sottolinea la miserabilità della Cina reale, molto

differente dal regno idealizzato dai suoi abitanti, mediante l’utilizzo di un verbo, “cacciare”,

dall’aura piuttosto spregiativa e familiare e d’un sintagma, “in esilio”, che evidenzia la perifericità

alla quale il paese orientale è condannato rispetto alla sua pretesa posizione centrale.

Nel rimanente del paragrafo dedicato alle vicende del missionario maceratese, mi pare vi siano

ancora tre elementi da menzionare a completamento di quanto già detto: in primo luogo una nuova

messa in evidenza del distacco tra la Cina, “fino allora impenetrabile Imperio” (IV, IV, 6), e il resto

del mondo; secondariamente, a prolungare l’opposizione133 tra il valore della civiltà cinese e

l’ignoranza geografica che domina quel paese, la specificazione della necessità, per conquistare la

“benivolenza” dei “gran Letterati” cinesi, di utilizzare il “sapere” e le “savie maniere” (IV, IV, 5); e,

terzo, la puntualizzazione di come la ricciana “descrittion di tutta la terra” fosse “tutta in eccellente

disegno” e “lavorio” delle mani del missionario maceratese che, aggiunta alle qualità necessarie per

penetrare in Cina, costituisce una nuova dichiarazione di stima nei confronti dell’autore

dell’Entrata. Aggiungendo questi nuovi tasselli alle osservazioni precedenti, si avrà una conferma

di come la ripresa da parte del gesuita ferrarese di materiale proveniente dalle sue fonti risponda

quasi sempre, nella Geografia, a funzioni specifiche per lo sviluppo del discorso o, comunque,

tocchino nodi rilevanti per una messa a nudo del gusto bartoliano.

Nella parte finale della sezione introduttiva al quarto capitolo della Geografia si trova, a

congiunzione con la seguente riflessione morale, il resoconto della reazione cinese davanti alla

“descrittion della terra” di Ricci (IV, IV, 6-8). Se si è citato in precedenza il passaggio ricciano dal

proprie pagine sul medesimo soggetto. Alla luce dei molti contatti tra la Geografia e l’Entrata, tuttavia, questa possibilità mi pare poco probabile. La parziale edizione della Cina curata da Bice Garavelli Mortara (1997), in ogni caso, non è in grado di fornire una risposta al problema, non comprendendo che in minima parte brani sui temi trattati nella Geografia. 133A sottolineare l’importanza delle contrapposizioni partecipano spesso, nella Geografia, formulazioni come (i corsivi sono miei) “penetrare in quel fino allora impenetrabile imperio” (IV, IV, 6) o “de’ ponti, che sarebbon da aggiungersi alle sette Maraviglie del Mondo, se la Cina non isdegnasse d’esser parte del mondo” (IV, II, 5).

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quale Bartoli può aver tratto spunto per riferire tale reazione, sembrerebbe però che il gesuita

ferrarese, rispetto alle informazioni dell’Entrata, abbia voluto ricostruire l’atteggiamento dei cinesi

- con una rappresentazione che al lettore d’oggi può ricordare l’invettiva contro Copernico nel Fu

Mattia Pascal di Pirandello - in maniera più congrua alla tematica che intende affrontare. Il modo in

cui nella Geografia gli orientali reagiscono alle nuove nozioni sulle caratteristiche dell’orbe

terracqueo - gioendo per il passo avanti sulla strada del sapere, ma rammaricandosi allo stesso

tempo per aver perso la posizione centrale nel mondo che pensavano di avere - può in effetti

rappresentare emblematicamente le conseguenze psicologiche del conoscere veramente se stessi, il

proprio peso e la propria posizione rispetto agli altri.

V. Il Capo Non

1Nè tuon di cielo, nè mugghio di mare adirato, risonò mai a gli orecchi de’ marinai tanto pauroso a sentirlo, come questa sì menoma, e sì formidabil sillaba, NON, fatta nome di questo, ne’ secoli addietro famoso, hora poco men che dimentico Capo dell’Africa. 2Quale ei sia, l’haverlo qui d’avanti vel mostra. 3Una punta di terra in mare, spiccatasi dall’estreme falde della gran montagna d’Atlante, il quale dallo Stretto di Gibilterra, dove pianta l’un piede, distesosi tutto in ver Mezzogiorno per i Regni di Fessa, e Marocco, viene a gittar l’altro fino all’ultime parti della Provincia di Sus, e ne ha qui la punta, presso a ventinove gradi d’Altezza Settentrionale. 4Hor la terribilità di questo agli antichi paurosissimo Capo Non, non crediate che provenisse, nè dal temersi colà in terra le trasformazioni di qualche Circe incantatrice, o qui in mare i canti delle Sirene che divorassero i passaggieri addormentati, nè del doversi condur la nave per mezzo al cozzarsi delle Simplegadi, o perché qui fosse qualche nuova Scilla, qualche seconda Cariddi, l’una a rompere, l’altra ad ingoiare i legni. 5Tutto lo spaventoso era l’ondeggiamento, e ’l dibattito, che i due mari delle due costiere affrontandosi nel capo di questa punta, e ripugnandosi l’un l’altro, facevano: e dove il vento un po’ poco caricasse, la tempesta vi si fa tanto più fiera, quanto il mar v’è da sè più sdegnoso. 6Hor percioché l’arte marinaresca de’ tempi antichi, come bambina senza forze da correre a mare aperto, andava terra terra, quasi tenendosi con una mano appoggiata al lito, al montar questo Capo, simile a tempestoso ancor quando era bonaccia, mancavale tutto insieme l’animo colla forza: e come tocca la catena attraversata fra le colonne d’Ercole, prendea la volta in dietro, portandone una giurata opinione, quegli essere i confini non della Natura no, ma del nostro mondo a Ponente: e se ne metta qual che sia nocchiero alla pruova, o Non passa, o Non torna: E questo tanto terribile, quanto mortale Non, fattosi nome proprio di questo Capo, ha per tanti secoli ritenuta l’Europa in Europa, e ’l desiderio delle ricchezze dell’Asia in agonia. 7Divenuta poi l’arte marinaresca, col tempo, e colla sperienza, più grande, più dotta, più animosa, fino a gittarsi per attraverso i maggior pelaghi, e perdere di veduta la terra a migliaia di miglia, s’è vergognata di que’ suoi fanciulleschi timori: e tal beffe si fa di questo a lei una volta sì pauroso Capo, che poche carte geografiche il segnano, poche navi passaggere il veggono, niun marinaio il teme: e l’India, dopo l’haverlo vinto, e passato, è divenuta in gran parte serva, con tante catene al piede, quante gli Europei v’han messe cittadelle, e fortezze. 8Hor tutto insieme questo memorabile avvenimento, a voltarlo in prò de’ costumi, parmi che chiaramente insegni, esser necessario ad ognuno, haver piantato in Capo un così fatto NON, che basti ad atterrire, e far dare in dietro la volta, disperate d’aggirarci, e di vincerci, le domande de gli arditi, che si avventano a levarci, chi la fedeltà, chi la giustitia, chi la concordia, chi l’honestà, e in tutte, l’incorrotta coscienza. 9Del troppo che ci darebbe a discorrere sopra il bene o male usare le Negative (e pur colà nelle Calme della Ghinea, havremo a dirne in diverso argomento) a questa sola parte che ho accennata, appigliamoci al presente.

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[Geografia, pp. 63-65]

Se il gesuita ferrarese non fornisce, per la sezione introduttiva del quinto capitolo della

Geografia, alcuna indicazione bibliografica, troviamo tuttavia, in una frase posta prima della

raffigurazione di quel che del Capo Non temevano gli antichi, una lista di alcuni rappresentanti

dell’immaginario letterario (V, 4).134 I riferimenti a Circe, alle sirene, alle Simplegadi e a Scilla e

Cariddi135 rimandano il fruitore per lo meno a due grandi viaggi della mitologia greca antica: il

ritorno di Ulisse a Itaca e la spedizione degli Argonauti. Considerando che la fama del Capo Non è

strettamente connessa al mondo della navigazione, si può supporre che Bartoli, con tali rimandi,

abbia voluto immergere il proprio pubblico in un ambiente marittimo, seppure connesso con

l’universo fantastico, onde irrobustire lo sfondo simbolico che doveva fungere da radice per la

successiva riflessione morale, dove allo stesso modo di quel che accade al navigatore, che deve

saper rinunciare ad affrontare ostacoli eccessivi per le sue forze, si argomenta la necessità di saper

rifiutare quanto si scontra con la propria etica. La figura di Ulisse, in particolare, pur riecheggiando

nella pagina bartoliana soltanto indirettamente, riflette in maniera efficace il nocciolo della

questione che in questo capitolo sta a cuore al gesuita ferrarese: la tradizione letteraria ci ricorda

infatti come il celebre itacense, nell’epilogo delle sue imprese, si sia reso protagonista di un’impresa

destinata al fallimento perché trasgrediva i limiti imposti dalla natura al consorzio umano. Il

protagonista dell’Odissea, che, se diamo retta al canto XXVI dell’Inferno, è condannato a pagare

per l’eternità le sue molte azioni fraudolente, ma che soprattutto era morto in quanto, per esprimersi

con le parole di Tommaso Di Salvo, “secondo una linea che Dante riprendeva dalla civiltà

cavalleresco-cortese e che aveva avuto una precisa indicazione nel Trésor di Brunetto Latini, era

stato irragionevole”,136 superando le Colonne d’Ercole (o il Capo Non) non aveva saputo rispondere

negativamente alla propria sete di conoscenza, rea di chiedergli il superamento dei confini più

estremi entro i quali i mortali dovevano rimanere. Egli aveva dunque disubbidito alla regola di

replicare con un meritato “no” alle domande indegne o immorali.137

Per quanto riguarda le fonti vere e proprie per la descrizione del Capo Non e delle sue

caratteristiche, non sono in grado, per la mancanza di dati forniti esplicitamente dal gesuita

ferrarese, di offrire informazioni certe. Tra i testi che Bartoli ha consultato sicuramente per la

134Ci siamo già soffermati su questo tipo di richiami alla sfera culturale nel primo capitolo del presente lavoro. 135Eccezion fatta per le sirene, tutti gli altri elementi della breve elencazione si trovano, più o meno espressamente, anche altrove nella Geografia: Circe è una presenza implicita nel collegarsi al Gryllos di Plutarco (III, III, 1-2), Scilla e Cariddi sono protagoniste del ventottesimo capitolo dell’opera, mentre le Simplegadi avrebbero dovuto essere affrontate nel suo progettato terzo volume (cfr. appendice). 136In Dante, Inferno, 1993, p. 493.

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stesura della Geografia, troviamo le pagine raccolte in Navigationi et viaggi da Giovanni Battista

Ramusio (1550, 1553, 1559),138 comprendenti anche una sezione dal titolo Delle navigazioni di

messer Alvise da Ca’ da Mosto, gentiluomo veneziano, che nel suo proemio, a proposito della

regione che qui ci interessa, informa di come “questo capo fu sempre il termine dove non si trovava

alcuno che, più oltra si fosse passato, mai tornasse, intanto che ’l si diceva Capo de Non, cioè chi ’l

passa non torna” (G.B. Ramusio, Navigazioni e viaggi, 1978, vol. I, p. 474). Il breve passaggio

appena trascritto potrebbe essere stato presente nella mente del gesuita ferrarese quando egli si

esprimeva, in maniera analoga, dicendo che il Capo Non era, secondo un’opinione accettata da tutti,

il limite estremo del mondo civilizzato a occidente: “e se ne metta qual che sia nocchiero alla

pruova, o Non passa, o Non torna” (V, 6). Se il resoconto dei viaggi di Alvise da Ca’ da Mosto

fosse realmente alla base delle parole bartoliane che ho citato, si potrebbe derivarne che, come

spesso accade nella Geografia in rapporto alle fonti, il gesuita ferrarese abbia cercato, lasciando

inalterato il contenuto del brano sul quale si è fondato, di renderne più incisivo il lato esteriore: e in

effetti rispetto alla pagina di Navigationi et viaggi è sottolineata maggiormente, attraverso l’uso di

aggettivi quali “terribile” e “mortale” e il ribattere sul termine “Non”, la pericolosa negatività del

capo. Sfortunatamente, però, Bartoli avrebbe potuto approfittare delle stesse notizie derivandole da

qualunque testo che spiegasse l’origine del nome “Capo Non” e, quindi, risulta difficile, in assenza

di specifici punti di contatto formali, affermare con certezza il legame tra le parole del gesuita

ferrarese e quelle del gentiluomo veneziano.139

Pure il più forte legame tra la Geografia e la pagina considerata di Navigationi et viaggi, cioè

l’“o Non passa, o Non torna” potenzialmente debitore di “chi ’l passa non torna”, è facilmente

riconducibile a un proverbio portoghese, riferito anche da Marica Milesi in una nota al testo di

Alvise da Ca’ da Mosto e che per la sua stessa natura di modo di dire doveva essere molto

conosciuto, che afferma: “chi passa il capo di Non o torna o no”.140 La medesima sentenza è tra

l’altro riportata in un altro testo presumibilmente noto a Daniello Bartoli, ovvero l’Historia de las

137Per le caratterizzazioni di Circe, delle sirene, delle Simplegadi e di Scilla e Cariddi che Daniello Bartoli ci offre non credo ci sia molto da dire, né una fonte particolare da indicare. Nel passaggio considerato l’autore della Geografia ha semplicemente riassunto in estrema brachilogia, con tutta probabilità, le qualità distintive che ogni topos portava con sé. 138All’interno del capitolo sulle Termopili, il gesuita ferrarese cita in effetti esplicitamente l’opera di Ramusio: “Soggiogata che i Castigliani ebbero l’isola detta Spagnuola, [nota di Bartoli: ‘Hist.Ind.lib.16.c.8.’] scoperta dal valoroso Colombo, [nota di Bartoli: ‘Ramus.50.3.fol.174.’] voltaronsi al conquisto della Sangiovanni, ella altresì una delle più Isole di quel mare” (p. 343). 139Anche i riferimenti a medesimi luoghi geografici, come il regno di Fessa e lo stretto di Gibilterra, non è un dato probante, visto che occupandosi della stessa regione due autori possono benissimo menzionare determinate località indipendentemente l’uno dall’altro. 140G.B. Ramusio, Navigazioni e viaggi, 1978, vol. 1, p. 474.

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Indias di Bartolomé de las Casas,141 che afferma (Obras escogidas de Fray Bartolomé de las Casas.

I. Historia de las Indias, 1957, p. 84):142

y tanto se temía por los navegantes apartarse de la tierra y pasar de aquel cabo de No adelante, que había este proverbio entre los portogueses marineros: Quem passar o cabo

de Nam, ou tornara ou nam; quien pasare del cabo de No o volverá o no.

E in effetti i punti di contatto tra la sezione della Geografia che stiamo considerando e lo scritto del

sacerdote e cronista spagnolo - il quale, se pure nel XVII secolo non fosse stato ancora reperibile in

traduzione, non avrebbe messo in difficoltà il gesuita ferrarese che, come ci comunica Josef

Wicki,143 malgrado preferisse servirsi per la sua Istoria di fonti trasposte nella sua lingua, in quanto

uomo di cultura italofono poteva senza difficoltà accedere a scritti in spagnolo e in portoghese -

sono più numerosi di quelli tra il testo bartoliano e quello di Navigationi et viaggi.

Al di là del legame che poteva esserci tra certe parole di Bartoli e il summenzionato proverbio

portoghese, anche altre affermazioni nella Geografia potrebbero dipendere dalla Historia de las

Indias: il dato dello scontro delle acque e dei venti del mare Mediterraneo con quelli dell’oceano

Atlantico, che secondo il gesuita ferrarese rendeva particolarmente temibile la navigazione oltre il

limite estremo dei viaggi marittimi della cristianità fino al XIV secolo (V, 5), per esempio, si trova

in una pagina di Bartolomé de las Casas, per il quale le navi non “podían pasar de allí, aunque lo

probaban y trabajaban, por razón de las grandes corrientes y vientos contrarios” (Obras escogidas,

1957, p. 85); la motivazione del nome del Capo Non (V, 6), presente pure nel testo di Alvise da Ca’

da Mosto, trova anch’essa un equivalente presso l’autore spagnolo, quando questi parla del “cabo o

promontorio que llamaban en aquellos tiempos el cabo de No, cuasi queriendo decir que ya, de allí

adelante o no había mas tierra, o que no era posible adelante de allí pasar” (Obras escogidas, 1957,

p. 84); il riferimento di Bartoli all’esperienza nell’arte dei navigatori (V, 7), poi, potrebbe essere

connesso all’affermazione di Bartolomé de las Casas circa “la poca expiriencia que tenían” (Obras

escogidas, 1957, p. 85) i marinai di epoche precedenti. Un altro dato interessante da aggiungere è

che, sebbene lo stile dell’autore della Historia de las Indias non sia elaborato quanto quello del

gesuita ferrarese,144 si percepisce, nel testo spagnolo come nella Geografia, un certo ribattere sulla

141Sebbene la Historia de las Indias di Bartolomé de las Casas sia stata pubblicata soltanto nel 1875, è probabile che proprio in quell’opera sia da identificare il titolo abbreviato nella Geografia, come si è già riportato in una nota precedente, con “Hist.Ind.lib.16.c.8.” (p. 343). Del resto Daniello Bartoli poteva avere accesso, data la sua posizione all’interno dell’archivio della Compagnia di Gesù, anche a documenti inavvicinabili per chi si servisse soltanto dei prodotti editoriali dell’epoca. 142Il corsivo è già nell’edizione sulla quale mi fondo. 143AA.VV., 1986: 29. 144Se l’opera di Bartolomé de las Casas è realmente la fonte utilizzata da Bartoli per descrivere il Capo Non, si può parlare anche qui, in senso retorico, di amplificazione, visto che, come quasi sempre quando si fonda su un testo di

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parola “no”. Le probabilità che Bartoli si sia realmente servito dell’opera di Bartolomé de las Casas

sono quindi abbastanza forti, a mio avviso, anche se in tal senso mi trovo ad essere ancora piuttosto

lontano dalla certezza, considerando l’inevitabilità dell’emergere di medesimi elementi nel trattare

uno stesso soggetto e tendendo presente il fatto che, per quanto riguarda la densità delle negazioni,

possono essere il nome e la fama del Capo Non a facilitare determinate costruzioni stilistiche.

Questa parte della Geografia pone dunque un problema generale e comune a diverse tra la

sezioni introduttive ai capitoli dell’opera, in particolare dove si affronti la descrizione di regioni

scoperte in epoche vicine al Seicento. In tali situazioni Bartoli, non fornendo alcuna indicazione

circa le proprie fonti, lascia in effetti lo studioso desideroso di occuparsi dei debiti contratti

nell’opera di fronte a uno sterminato mare di alternative o, al contrario, in un deserto che dovrà

certamente nascondere, tra le sue dune, l’agognata sorgente - ma dove? Le fonti dei capitoli sul

Capo Non, sulle Campagne d’Uraba e sulle Molucche rischiano quindi di rimanere nell’oscurità

senza un’investigazione lunga e faticosa. Più semplici da identificare sono invece i prelievi operati

dal gesuita ferrarese nel descrivere luoghi topici dell’antichità, perché, se pure non dichiarando

sistematicamente le proprie fonti classiche, di solito egli ricorre a un numero limitato di autori: se

nell’indicare opere cronologicamente più vicine alla propria epoca Bartoli è assai parsimonioso,

quando ci si troverà, per esempio, davanti alle sezioni introduttive dei capitoli sul lago Averno o

sull’Ultima Thule si potrà con relativo agio, tenendo presente il complesso delle informazioni a piè

di pagina nella Geografia, constatare un certo legame con il De rerum natura di Lucrezio nel primo

caso e, nel secondo, con la Collectanea rerum memorabilium di Solino.145 Può anche capitare che le

note relative a testi precedenti solo di pochi secoli anteriori alla vita di Bartoli siano presenti, ma

riescano piuttosto ermetiche: se nel brano dedicato alla descrizione del Mar Gelato c’è un rimando

bibliografico, “An.1594.95.96” (p. 321), esso rimane tuttavia ai miei occhi abbastanza misterioso da

non permettermi alcuna deduzione.146 Altre volte magari il lettore non trova un richiamo esplicito a

una determinata opera direttamente nella sezione introduttiva a un capitolo della Geografia, ma,

natura piuttosto divulgativa e lontano da esigenze d’elevatezza stilistica, il gesuita ferrarese rielabora il materiale a sua disposizione in modo da aumentarne l’intensità. 145Non mi soffermerò qui su tali relazioni. Mi limito a segnalare, per il capitolo sul lago Averno (pp. 411-412) che diversi dati derivano da Lucrezio, De rerum natura, 6, 738-839; mente per quello sull’Ultima Thule (pp. 156-158) che numerose analogie si possono riscontrare attraverso un confronto con Solino, Collectanea rerum memorabilium, 22, 2-12 e Codicum classium secundae et tertiae addimenta potiora, 22 (12-17). 146Il riferimento è quasi sicuramente relativo ad annali dedicati agli anni 1594-1596, ma le mie ricerche in proposito non mi hanno portato ad alcuna conclusione illuminante, nemmeno consultando, in considerazione del legame tra i fatti narrati nel capitolo sul Mar Gelato e la ricerca di una via rapida per le Molucche, i volumi dei Documenta indica dedicati agli anni 1592-1594 e 1595-1597 (AA.VV., Documenta indica, 1984, vol. XVI, e 1988, voll. XVII-XVIII) e quello dei Documenta malucensia per gli anni 1577-1606 (AA.VV., Documenta malucensia, 1980, vol. II). Curiosamente l’oscuro riferimento bibliografico di Bartoli è assente nell’edizione Marietti della Geografia (cfr. D. Bartoli, Delle opere del padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù, 1839, vol. XXX, pp. 272-275), forse perché nemmeno chi si occupò di quella pubblicazione riuscì a risalire al documento menzionato.

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proseguendo, l’avvicinamento delle pagine morali gli permetterà poco più avanti di soddisfare la

propria curiosità circa il materiale utilizzato dal gesuita ferrarese;147 oppure un aiuto fondamentale

verrà fornito dal rifarsi nel testo a un episodio legato all’autore di un opera, come accadeva nel

capitolo sulla Cina col richiamo a un’impresa di Matteo Ricci. È convenuto soffermarsi un

momento su queste considerazioni in quanto, se il grado di difficoltà presentato da i diversi brani

bartoliani è variabile, ciò non toglie che l’assenza di note esplicite resta forse l’ostacolo di maggior

peso all’investigare il retroterra letterario della Geografia.

VI. L’Atlante

1O sian le favole che habbiano filosofato, o la filosofia che abbia favoleggiato, un medesimo è il sentir d’amendue; questa Bocca di mare in cui hora entriamo, larga da labbro a labbro, sette o poche più scarse miglia: questa, su le cui sponde Ercole piantò i termini delle sue fatiche, e i buoni antichi il Non più oltre della Natura: questa, per cui si sbocca nell’immenso Oceano Atlantico, e per cui l’Oceano s’imbocca, ed entra ad allargare quanto occupa di paese il piccolo nostro Mare mediterraneo; essere stato continuamento di terra ferma, per cui scambievolmente s’univano l’Africa, e l’Europa. 2Passovvi a forza l’Oceano, e l’onda Abila quinci, e quindi Calpe spinse, Spagna, e Libia partio con foce angusta; Tanto mutar può lunga età vetusta.a 3Ma di ciò sia che vuole, già che niun ne sa dire il quando: anzi il Tempo stesso che il tutto vede, e nota, non sel raccorda egli, nè per quanto ne cerchi, il truova registrato nelle memorie de’ suoi Annali. 4Quello a che fare io v’ho messo per entro a questo memorabile Stretto, si è il volgervi alla destra parte in ver l’Africa, e levati ben bene altissimo gli occhi, con uno sguardo che sia tutto insieme geometrico, e di maraviglia, misurar dalla cima al piede questo impareggiabile Re de’ monti, l’Atlante che ci sovrastà. 5Miratelo, come tutto monta in sè stesso, e si rizza, e la superba testa sollieva, e volge verso la sempre da lui temuta, e sempre a lui nemica Europa, in atto di riconoscerla, e spiarla: e come allarga lo smisurato dorso verso quella gelosa frontiera della sua Africa, in atto di sicurarla, e difenderla colle spalle. 6Nè per molto che sia quel che ne veggiamo, è egli perciò nè il tutto dell’Atlante, nè il più, ma solamente il sommo. 7Raccorderovvi quel che lo Storico scrisse di Rodi antica, misurato che n’hebbe lo smisurato Colosso di bronzo, cui il mondo stimò degno d’essere un de’ suoi sette miracoli: soggiunse egli:b *Sunt alij minores hoc in eadem urbe, Colossi centum in numero, sed ubicunque singuli fuissent, nobilitaturi locum. 8Così è de gli altissimi altri monti, che di questo, a guisa di figliuoli, e nipoti, escono per lunghissima discendenza, e si spargono parte attraverso i Regni di Fez, e Marocco, e la Numidia dalla Barbaria dividono, parte corrono fino alla Provincia di Sus, dove bagnano il piè nell’Oceano: tutte montagne altissime, che dovunque altrove fossero, ciascuna da sè sarebbe un Atlante; ma presso al lor padre Atlante, sembran colline. 9Hor qual ei sia nell’horribile aspetto che di sè danno i rovinosi suoi fianchi; e le foltissime selve, che a g<ui>sa di veste qua e là squarciata mal ne ricuoprono la nudità delle rupi: e le tante vene, che dall<a> cima, da’ fianchi, dal piè menan giù fiumi d’acque, e per tutto il paese le partono; e il fumo, e i fuochi, che dalle sotterranee sue viscere gli escono per intorno alle cime; e le cime stesse coperte, e i profondi valloni chiusi d’altissime nevi, cui nè tiepida aura, nè Sollione mai può nulla a dissolverle, nè ad ammollirle: non ha mestieri dirvene, così da presso il vedete. 10Io ve ne torno all’altezza, e piacemi farvi udir d’essa in un solo Geografo

147Un esempio di questo tipo verrà affrontato nel capitolo dedicato alle Cateratte del Nilo. a Tasso, Gerusalemme liberata, XV, 22, 5-8. b Nota della Geografia: “Plin.lib.34.c.7.” (Plinio, Naturalis historia, XXXIV, XVIII, 42).

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tutti gli altri:c *Atlas mons (dice Solino) e medio arenarum consurgens, & eductus in viciniam Lunaris circuli, ultra nubila caput condit. 11Il che udito, raccordivi dello schernire che Aristotele fa la materiale invention de’ Poeti,d i quali imaginando, dice egli, il cielo essere pesante, e rovinoso, il providero a sostenerlo delle forti spalle d’Atlante. 12Ma che che egli si dica, non fu mai vero, che da vero sentissero sì pazzamente que’ savi maestri di nascondere al volgo, non dico sol le memorie antichissime che lor dee l’historia, ma ben assai de’ misteri d’ogni ordine di morale, politica, naturale, e teologica disciplina, sotto il velo de’ lor fantastichi ritrovamenti: e qui per avventura un ve ne ha de’ primi, e sì manifesto da sè che non abbisogna di troppo sottile interpretazione a rinvenirlo: cioè, Grandi spalle doversi a gran carica: gran sovrastare a gli altri per eminenza di senno, in chi loro sovrastà per dignità, e ne dispone il governo. 13Un Atlante, che lieva il capo alto per fino al cielo, poter con esso reggere, e sostenere il cielo: e universalmente, Proportionato all’ufficio del comandare, dover essere l’attitudine che a quel rilevantissimo ministero è necessariamente richiesta: altrimenti, se le forze non vi bastano a tanto, vi ci convien cader sotto, e la rovina del publico si fa vostra. 14Il che non sol è vero delle sommissime dignità, qual era in Atlante Re della più felice parte dell’Africa, ma a proportione d’ogni altro minor carico di governo: e sol di questi sia utile il ragionare, con riguardo A chi gli elegge, A gli eletti stessi, e A’ popoli che lor si danno a governare.

[Geografia, pp. 80-83]

Le opere menzionate esplicitamente all’inizio del sesto capitolo della Geografia sono,

nell’ordine, la Naturalis historia di Plinio il Vecchio (VI, 7), la Collectanea rerum memorabilium di

Solino (VI, 10) e il Del cielo di Aristotele (VI, 11). Prima di citare tali testi, però, il gesuita ferrarese

trascrive quattro endecasillabi della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (VI, 2).148 Se a prima

vista parrebbe che la ripresa dall’opera del poeta sorrentino risponda fondamentalmente al desiderio

di introdurre il lettore nella regione del monte Atlante, al quale si aggiunge quello di mantenere la

rappresentazione geografica nell’ambito di uno scenario “meraviglioso”, si può tuttavia trovare

un’altra ragione alla base della scelta bartoliana: oltre a permettere qualche osservazione circa

alcuni legami tra i capitoli sul Capo Non e sull’Atlante, i versi tasseschi appartengono in effetti a

una sezione della Gerusalemme il cui ruolo assume un certo rilievo nell’ispirazione della

Geografia.149 Il risalto concesso al canto quindicesimo del poema tassesco è con tutta probabilità

dovuto al soggetto marinaresco dei suoi endecasillabi: la descrizione del viaggio di Carlo e Ubaldo

accompagnati dalla fatal donzella verso le isole Fortunate è costellata da una serie di riferimenti a

celebri luoghi e personaggi - appartenenti alla sfera dell’immaginario letterario o a quella della

realtà storica - che a volte tornano pure nel libro del gesuita ferrarese,150 ma soprattutto si presta, per

c Nota della Geografia: “Cap.27.” (Solino, Collectanea Rerum Memorabilium, 24, 8). d Nota della Geografia: “2.Coeli.c.4.” (Aristotele, Del cielo, II, 1). 148Di questo autore si è già parlato in precedenza (cfr. I. L’Isole Fortunate). Si noti che nel caso di Torquato Tasso, come in quello di Dante Alighieri (ma il discorso vale anche per Francesco Petrarca), i versi effettivamente citati nella Geografia sono più numerosi di quelli indicati nelle note dell’edizione romana presso Egidio Ghezzi. 149Qui come in altri due esempi di riprese bartoliane dalla Gerusalemme si attinge infatti al quindicesimo canto (I, I, 6; e p. 323, con “Svelte notar le Cicladi diresti”, Gerusalemme, XVI, 5, 1), mentre in un altro esempio (IX, I, 4) la fonte del gesuita ferrarese rimane nei paraggi, visto che Bartoli preleva una coppia di endecasillabi dal sedicesimo canto del medesimo poema. 150All’interno della sezione introduttiva al capitolo sull’Atlante compaiono i seguenti personaggi o luoghi che già erano nella Gerusalemme (tra parentesi ho inserito prima i rimandi alla Geografia, poi quelli al poema tassesco): Ercole (VI, 1

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le sue qualità distintive di rappresentazione fondata sul fascino esotico di certe allusioni, a

influenzare un’opera incentrata sull’incontro immaginato con numerose località.

Per quanto riguarda gli elementi di congiunzione tra i capitoli quinto e sesto della Geografia, un

primo dato che salta subito all’occhio è quello della vicinanza geografica dei luoghi descritti nelle

due sezioni contigue, anche se in generale l’indice dell’opera non pare rispondere, salvo alcune

eccezioni,151 a un disegno particolarmente significativo.152 Come si può desumere dai molteplici

punti di contatto rilevabili,153 il legame tra i brani menzionati - che lascia supporre una stesura

cronologicamente ravvicinata e una sensibile unità d’ispirazione - è però più profondo di quanto sia

possibile intuire dal semplice dato della prossimità del Capo Non e del monte Atlante: in entrambi i

casi si trova un accenno ai regni di Fessa e di Marocco (V, 3; VI, 8) che pare mutuato dalla

Gerusalemme liberata (“ch’or di Marocco è il regno, e quel di Fessa”, XV, 21, 7); nel capitolo

dedicato al promontorio africano è presente un chiaro accenno al Capo Non (dove si parla della

“Bocca di mare [...] su le cui sponde Ercole piantò i termini delle sue fatiche, e i buoni antichi il

Non più oltre della Natura”, VI, 1); nella sezione introduttiva sul Capo Non, viceversa, si parla delle

“estreme falde della gran montagna d’Atlante” (V, 3); i due frammenti della Geografia, infine,

danno la possibilità al lettore di rammentare la vicenda del fatale ardire di Ulisse nel proprio varcare

i confini imposti ai mortali, già richiamata nel capitolo precedente154 e, soprattutto, sintetizzata da

Tasso in alcuni versi del canto quindicesimo del suo capolavoro.155 Sebbene nella prospettiva del

poeta sorrentino sembri si identifichino le Colonne d’Ercole con un confine eccessivamente

/ XV, 25, 1; XV, 30, 1), Atlante (VI, 6; VI, 8; VI, 10; VI, 11; VI, 13; VI, 14 / XV, 51, 6), Africa (VI, 1; VI, 4; VI, 5; VI, 14), Abila (VI, 2 / XV, 22, 6; XV, 31, 8), Calpe (VI, 2 / XV, 22, 6; XV, 28, 7), Spagna (VI, 2 / XV, 22, 7), Libia (VI, 2 / X, 19, 4; XV, 22, 7; XV, 25, 2), Rodi (VI, 7 / XV, 17, 1), Marocco (VI, 8 / XV, 21, 7), regno di Fessa o Fez (VI, 8 / XV, 21, 7) e Numidia (VI, 8 / XV, 21, 1). Ampliando il discorso al resto dei brani trascritti nel presente lavoro, si possono aggiungere ancora questi nomi: Isole Fortunate (I, I, 1; I, II, 2; I, II, 7 / XV, 37, 3), Sicilia (I, I, 2 / XV, 19, 5), Carlo (I, I, 5 / XV, 38, 1; XV, 49, 1), Ubaldo (I, I, 5 / XV, 24, 5; XV, 27, 7), la Fatal Donzella (I, I, 5 / XV, 3, 8), Campi Elisi (I, I, 6 / XV, 36, 7), Tunisi (I, III, 2 / XV, 19, 1), Biserta (I, III, 2 / XV, 20, 7), Tripoli (I, III, 2 / XV, 18, 2), Algieri (I, III, 2 / XV, 21, 3), Encelado (II, II, 2, II, III, 4 / XV, 34, 6), Creta (III, I, 1 / XV, 17, 1), Apollo (III, I, 1 / XV, 45, 8), Ulisse (III, I, 2; III, I, 3; III, II, 1; III, II, 3; III, III, 3 / XV, 34, 6), Africa (IV, II, 6; V, 1 / XV, 17, 2), Atlante (V, 3 / XV, 51, 6), regno di Fessa (V, 3 / XV, 21, 7), Marocco (V, 3 / XV, 21, 7), Nilo (VII, 1; VII, 4 / XV, 16, 3; XV, 51, 6), Colombo (X, IV, 4 / XV, 32, 4), Pompeo (XV, I, 6 / XV, 15, 8). 151In posizione finale si trova, per esempio, il capitolo sulla Terra Santa, regione che assume certamente un profondo significato simbolico nell’ambito dell’opera morale d’un autore religioso come il gesuita ferrarese; le parti sulle Termopili e sulla Tessaglia sono contigue e si susseguono come nella Geografia di Strabone, autore citato esplicitamente nel primo dei due capitoli bartoliani (p. 334); alcuni capitoli vicini tra loro, inoltre, sono dedicati a regioni geograficamente prossime o in relazione tra loro, come nel caso che qui ci interessa, relativo al Capo Non e al monte Atlante, o in quello del Mar Morto e della Terra Santa. 152Cfr. appendice. 153La questione dei punti di contatto tra i capitoli della Geografia verrà approfondita nel capitolo X. Le Correnti. 154Si veda in proposito il commento a V, 4. 155“Ercole, poi ch’uccisi i mostri / ebbe di Libia e del paese ispano, / e tutti scórsi e vinti i lidi vostri, / non osò di tentar l’alto oceano: / segnò le mète, e ’n troppo brevi chiostri / l’ardir ristrinse de l’ingegno umano; / ma quei segni sprezzò ch’egli prescrisse, / di veder vago e di saper, Ulisse. // Ei passò le Colonne, e per l’aperto / mare spiegò de’ remi il volo audace; / ma non giovogli esser ne l’onde esperto, / perché inghiottillo l’ocean vorace, / e giacque co ’l suo corpo anco coperto / il suo gran caso, ch’or tra voi si tace” (Gerusalemme liberata, XV, 25-26).

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restrittivo per le legittime ambizioni umane, l’episodio di Ulisse avventuratosi in maniera temeraria

nell’oceano Atlantico si fa debitore anche nella Gerusalemme delle terzine dantesche,156 dove

invece la fine dell’eroe itacense è paradigmatica nell’indicare come l’uomo debba mantenersi entro

certi limiti. Abbiamo visto nel capitolo precedente come una frase (V, 4) potesse rimandare

implicitamente alla vicenda del figlio di Laerte, considerata per il suo invito a non sconfinare oltre

determinate barriere: tale episodio, però, oltre a esser presente in un canto del capolavoro tassesco di

cui si è notata l’importanza e a riguardare il protagonista della sezione introduttiva al terzo capitolo

della Geografia, pare assumere un significato più vasto nell’economia dei precetti morali proposti

da Bartoli, essendo facile da collegare con un certo numero di tali norme, per esempio quella sulla

necessità di conoscere sé stessi o quella sull’esigenza di replicare negativamente alle domande che

lo meritano, oppure, per pescare in un’affermazione precisa allontanandosi dai titoli, quando si parla

dei “nostri ingegni, che talvolta con insofferibil baldanza osano non chiamati inoltrarsi nelle

segretissime cose invisibili” (X, II, 10). Naturalmente anche il messaggio veicolato dal capitolo

sull’Atlante può essere ricondotto all’exemplum di Ulisse, dato che alla dichiarazione della necessità

di forze adeguate al sostegno di grandi pesi è sottinteso l’invito a non sopravvalutare i propri mezzi

e a non superarne i limiti. Mi pare quindi possibile ravvisare nell’ultimo viaggio dell’eroe itacense

un altro elemento d’una qualche consistenza nel retroterra culturale della Geografia.

Il passo della Naturalis historia di Plinio (XXXIV, XVIII, 42) citato nel capitolo sull’Atlante (VI,

7) non concerne il monte africano in questione: tale frase ci informa infatti di come oltre a quello

più celebre ci fossero a Rodi altri cento colossi più piccoli, ma ciascuno dei quali sarebbe stato

sufficiente a rendere illustre il luogo.157 La scelta di collegarsi al passo dell’autore latino, che è

presente nella lista di scrittori cari al gesuita ferrarese proposta da Marzot158 ed è - per la natura

encicolpedica della sua opera - tra gli autori maggiormente citati nella Geografia,159 non è gratuita e

si spiega tenendo conto di un procedimento retorico di cui Bartoli fa largo uso, la

156Si pensi ad esempio a Gerusalemme, XV, 26, 1-2, dove i versi tasseschi si formano dalla contaminazione di due endecasillabi della Commedia (Inferno, XXVI, 100: “ma misi me per l’alto mare aperto”; e 125: “dei remi facemmo ali al folle volo”), o a Gerusalemme, XV, 26, 4-5, in cui si richiama Inferno, XXVI, 142 (“infin che ’l mar fu sopra noi richiuso”). 157La versione del brano che troviamo nella Geografia diverge in parte da quella che trovo nell’edizione moderna della Naturalis historia da me utilizzata: “Sunt alii centum numero in eadem urbe colossi minores hoc, sed ubicumque singuli fuissent, nobilitaturi locum” (Plinio, Histoire naturelle (livre XXXVI), 1983, p. 122). Le differenze comunque risalgono come sovente alla versione dell’opera di Plinio che Bartoli usava. 158Marzot, 1944: 120. 159La Naturalis historia o il suo autore sono menzionati in moltissime note, anche se meno frequentemente di Seneca o di Plutarco (cfr. due pagine non numerate dell’Introduttione e le pagine 6, 17, 18, 25, 26, 41, 42, 76, 81, 83, 103, 104, 125, 126, 129, 134, 141, 158, 159, 165, 166, 169, 222, 237, 251, 270, 271, 278, 282, 296, 309, 330, 333, 347, 359, 379, 384, 389, 404, 405, 407, 431, 438, 450, 451, 456, 467).

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personificazione,160 che trova ampio spazio anche nei brani considerati in questo lavoro161 e che

permette, col suo presentare sotto sembianze umane creature e cose d’altra specie, di dinamizzare i

soggetti trattati. Nel caso specifico di cui ci occupiamo ora, il paragone di Atlante con una

gigantesca statua antropomorfa si presta a rafforzare l’idea che vede nel monte africano la figura di

un “impareggiabile Re” (VI, 4) con la sua “superba testa” (VI, 5), il suo “smisurato dorso” (id.), i

suoi “rovinosi [...] fianchi” (VI, 9), una veste fatta di selve (id.) e una fila di monti minori a

fungergli da figli e nipoti (VI, 8). La ripresa dalla Naturalis historia è dunque motivata sul piano

stilistico, più che su quello strettamente relativo al contenuto del capitolo, nel suo porsi accanto a

una serie di indicazioni utili a fare del monte Atlante un gigante che, per lanciare una nuova

riflessione morale del gesuita ferrarese, verrà poi presentato nell’atto di sostenere sulle spalle la

volta celeste.

Dalla Collectanea rerum memorabilium di Solino162 (24, 8) viene ripresa una frase (VI, 10)163

che già nel suo contesto d’origine partecipa a una sezione dedicata all’Atlante: in questo caso

dunque la ragione primaria della citazione è evidente, trattandosi di informazioni direttamente

legate alla montagna descritta nella Geografia. L’influenza dello scrittore latino non si limita però

all’elemento trascritto esplicitamente e sembra addirittura costituire la fonte principale per la

rappresentazione bartoliana di un nuovo paesaggio. Di questa situazione non è difficile trovare una

prova: se si legge quanto sull’Atlante è detto nella Collectanea, si nota come numerose notizie

passino nel testo del gesuita ferrarese tramite formulazioni che a volte si fanno debitrici anche del

160La prosopopea o personificazione, ci dice Bice Garavelli Mortara nel suo Manuale di retorica (1998: 163), “consiste nel raffigurare come persone esseri inanimati o entità astratte”. Non tutti sono però d’accordo con l’identificazione di queste due figure di pensiero: Pierre Fontanier (1968: 404; i corsivi sono dell’autore di Les figures du discours), ad esempio, sostiene che “La prosopopée, qu’il ne faut confondre ni avec la Personnification, ni avec l’Apostrophe, ni

avec le Dialogisme, qui l’accompagnent presque toujours, consiste à mettre en quelque sorte en scène, les absens, les

morts, les êtres surnaturels, ou même les êtres inanimés; à les faire agir, parler, répondre, ainsi qu’on l’entend; ou tout

au moins à les prendre pour confidens, pour témoins, pour garans, pour accusateurs, pour vengeurs, pour juges, etc.;

et cela, ou par feinte, ou sérieusement, suivant qu’on est ou qu’on est pas le maître de son imagination”. La personificazione, figura d’espressione, invece, “consiste à faire d’un être inanimé, insensible, ou d’un être abstrait et

purement idéal, une espèce d’être réel et physique, doué de sentiment et de vie, enfin ce qu’on appelle une personne; et

cela, par simple façon de parler, ou par une fiction toute verbale, s’il faut le dire” (Fontanier, 1968: 111). Per quanto mi riguarda, al fine di mantenere una certa semplicità, nella mia analisi adotterò in ogni caso la definizione di Bice Garavelli Mortara. 161Si possono qui citare almeno undici casi in cui tale figura è utilizzata: I, II, 1 ; II, I, 1; II, I, 3; II, III, 2; IV, I, 1; IV, II, 7; V, 6; V, 7; VII, 1-2; IX, I, 6; X, II, 6. 162Di questo autore abbiamo già parlato all’inizio del presente studio (cfr. I. L’Isole Fortunate). Si noti che anche in questo caso una parte delle informazioni fornite da Solino paiono provenire dalla Naturalis historia di Plinio, ripresa sovente dall’autore della Collectanea. Pure la frase sull’Atlante citata da Bartoli nella Geografia deve certamente qualcosa all’“E mediis hunc harenis in caelum attolli prodidere” (Naturalis historia, V, 6) dello scrittore di Como. Credo tuttavia che il gesuita ferrarese, citando esplicitamente Solino, abbia voluto indicare l’opera sulla quale si è fondato per descrivere il monte africano. 163Anche in questo caso la versione del brano latino fornita da Daniello Bartoli diverge da quella presentata nell’edizione moderna che ho consultato, dove si legge: “Atlas mons e media harenarum consurgit vastitate et eductus in viciniam lunaris circuli ultra nubila caput condit” (Solino, Collectanea rerum memorabilium, 1958, p. 109). Anche in

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lessico di Solino. Lo scrittore latino (Collectanea, 24, 8) suggerisce infatti a Bartoli (VI, 9), col suo

“manat fontibus”, che il monte africano sia venato da corsi d’acqua; mentre con “nemoribus

inhorrescit” probabilmente fornisce lo spunto per un riferimento alle sue selve, come con “rupibus

asperatur” propone l’immagine delle sue rupi. Altri dati che passano al gesuita ferrarese da Solino

concernono le nevi eterne e l’attività vulcanica dell’Atlante (id.), derivando rispettivamente da

“vertex semper nivalis” e “lucet nocturnis ignibus” (Collectanea, 24, 10). Anche l’idea

dell’“horribile aspetto” (VI, 9) del monte africano sembra dipendere almeno in parte dall’opera

dello scrittore latino, che accennando ai fuochi usciti dalle viscere della terra si esprime non “sine

horrore” (Collectanea, 24, 10). Dal punto di vista lessicale si possono ancora aggiungere alcuni

punti di contatto interessanti tra il testo di Solino e quello di Bartoli: il “caput” del primo (24, 8)

diventerà per esempio “capo” nel secondo (VI, 13), “Oceanum” (24, 8) passerà a “Oceano” (VI, 1),

“nuda” (24, 8) potrà aver influito su “nudità” (VI, 9) come “vestiuntur” (24, 8) su “veste” (VI, 9). Si

conferma così di nuovo l’ipotesi secondo la quale Bartoli si fonda spesso nel suo lavoro su una

fonte principale, alla quale vengono integrati altri testi, anche se in questo caso le opere secondarie

valgono più nel loro ruolo di ausili estetici che nel completare o correggere informazioni.

Alla specifica situazione concernente la descrizione del monte Atlante fa apparentemente

eccezione il dato fornito da Aristotele in Del cielo (II, 1),164 che però si lega a un’immagine

mitologica nota a tutti, ovvero quella di Atlante che regge la volta celeste sulle proprie spalle: mi

sembra dunque difficile affermare che Bartoli abbia dovuto ricorrere al filosofo di Stagira per

completare la rappresentazione della montagna africana fornita dalla Collectanea rerum

memorabilium. Un’ipotesi plausibile è che il gesuita ferrarese, uomo di chiesa, apprezzasse

l’immagine di Aristotele - autore tra l’altro relativamente poco presente tra le pagine della

Geografia -165 che si prende gioco delle credenze pagane, anche se per la verità in Del cielo mi pare

mancare quell’elemento di scherno (VI, 11) la cui origine è probabilmente di matrice bartoliana:166

lo stagirita si limita a negare la necessità per la volta celeste - incorruttibile, eterna e quindi immune

dai fastidi propri alla condizione dei mortali - di un una base che la sostenga come se essa fosse

pesante e di natura terrosa (Del cielo, II, 1). Più interessante mi pare però osservare un dato che,

posto accanto a quanto già detto per esempio a proposito del ruolo della citazione dall’Eneide

tradotta da Annibal Caro (II, II, 3-5) nella genesi del capitolo sul Mongibello, è rappresentativo di

questo caso, dato che la formulazione della Geografia non aggiunge né toglie nulla al significato della frase soliniana, la causa della differenza va cercata nella biblioteca del ferrarese. 164Fondo le mie affermazioni circa il testo di Aristotele sulla traduzione francese di Paul Moraux (Aristote, Du ciel, 1965). 165Aristotele è citato in otto note a piè di pagina della Geografia (pp. 25, 52, 60, 75, 82, 94, 163, 446). 166Anche in questo caso l’intenzione del gesuita ferrarese era probabilmente quella di vivacizzare il proprio discorso, animando il contenuto dalle intenzioni scientifiche della sua fonte.

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una tendenza generale nella Geografia di fondare il legame tra rappresentazione geografica e

riflessione morale su precisi referenti di provenienza letteraria. Se per descrivere i luoghi scelti per

la propria opera Bartoli può fondarsi su diverse fonti, frequentemente coglie lo spunto per i suoi

accostamenti da un brano singolo e definibile.167 Tale passaggio può essere legato al testo dal quale

il gesuita ferrarese preleva le informazioni per presentare ai suoi lettori un determinato paesaggio,

come nel caso del capitolo sulla Cina, oppure - e qui si considerano allora i casi simili a quello che

trattiamo adesso - può provenire da un’opera diversa: per descrivere il monte Atlante l’autore della

Geografia pare servirsi principalmente della Collectanea di Solino, ma il discorso circa la necessità

di avere grandi spalle per sopportare carichi importanti germoglia dal seme di una notizia fatta

esplicitamente discendere da un testo di Aristotele e assente nelle pagine dello scrittore latino.

VII. Le Cateratte del Nilo

1Sbigottimento, e horrore, ma misto d’altrettanto piacere, cagiona la veduta di questa spaventosa, e dilettevole, perché innocente cascata del Nilo; che al trovarsi ristretto fra le angustissime foci d’una fenditura di monte, sasso vivo, e non possibile ad aprirsi per qualunque sia forza, ivi, come un Re imprigionato, s’adira, e schiuma, e smania, e minaccia: e percioché tutto è in darno, per affrettarsi ad uscirne, ingrossa, e sospigne, e caccia sè stesso, con tanta foga, che quel suo non è correre, è precipitare: fin che finalmente sboccato, gittasi giù a rompicollo di quant’alto il provate all’horrore del riguardarlo. 2Ma, come io diceva, le sue rovine sono a lui innocenti: perché egli medesimo qui al piano accoglie mollemente sè stesso, cadente di colassù, e in brieve spatio tranquillasi, e dipon lo sdegno, anzi il furore, che il portò a diruparsi giù da que’ balzi. 3Hor non vi par egli vedere un fiume ritto in piè, o come dell’Arassi, che similmente precipita, scrisse Pomponio Mela,a *Aquis pendentibus semetipsum sine alveo ferens incurvus, arcuaroque amne? 4Ma gli sprazzi che gitta rompendosi con sì horribile scroscio, i contrari colori del tutto biancheggiare sopra se stesso, sarebbon un piacer da fermarvisi a goderne, senon che il fremito, il rimbombo, l’intolerabil fracasso, che scacciò gli habitatori di questa, che qui intorno vedete, una volta città, hora diserto, e rovine, non soffera, che senza pericolo di partircene assordati, ci tratteniam qui altro che un brevissimo spatio, quanto basterà a riscontrare in questo diluviar d’acque, in questo romoreggiar che stordisce, la fastidiosa cosa che sono i gran Parlatori, che non senza offesa de gli orecchi di chi è costretto d’udirli, tengono altrui come alle Cateratte del Nilo.

[Geografia, pp. 97-98]

L’unica opera citata esplicitamente nella sezione introduttiva del capitolo sulle cascate del Nilo

(VII, 3) è il De chorographia di Pomponio Mela, autore che nonostante il carattere geografico del

proprio lavoro non è molto presente nella Geografia trasportata al morale,168 forse perché quanto

egli propone si riduce in massima parte a un repertorio di nomi e non offre a Bartoli una gran

quantità di rappresentazioni attrattive. Il passo latino ripreso qui dal gesuita ferrarese è comunque

167Può capitare pure, come abbiamo visto a proposito delle citazioni a grappolo nel capitolo su Itaca, che le fonti poste a base dell’analogia fondamentale di un capitolo siano molteplici, portando in tal modo a una reiterazione più o meno intensa di una medesima notizia. a Nota della Geografia: “Lib.3.c.5.” (Pomponio Mela, De chorographia, III, 5, 40).

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legato alla ricerca di un’immagine adatta ad aggiungere per similitudine169 una nuova componente

suggestiva alla descrizione delle cascate del Nilo: se lo scrittore di Tingentera si sta occupando del

fiume Arasse (De Chorographia, III, 5, 40), le sue parole non possono essere utilizzate nel parlare

del Nilo che mediante l’allestimento di un nesso analogico.170 Ma l’influsso del De chorographia

sul testo bartoliano non si limita a tale relazione e, ampliando la lettura dell’opera di Pomponio

Mela fino al termine della sezione dedicata all’Arasse, si può supporre facilmente che l’idea del

Nilo che “al piano accoglie mollemente sè stesso, cadente di colassù, e in brieve spatio tranquillasi,

e dipon lo sdegno” (VII, 2) sia debitrice di quella del fiume asiatico che “deinde ubi incuruus

arcuatoque amne descendit, fit tranquillus, iterumque per campos tacitus et uix fluens in id litus

elabitur” (De chorographia, III, 5, 40).

Se soltanto Pomponio Mela è citato esplicitamente nel brano della Geografia che ho riportato, la

fonte principale per la descrizione delle cascate nel Nilo si trova però nelle Naturales quaestiones di

Seneca (II, 3-5), dove si presentano proprio tali Cataractae. In effetti tuttavia, se pure Seneca non è

menzionato da Bartoli nell’introduzione del capitolo sul Nilo, un tributo gli è pagato poco più

avanti, quando si dice “Viensene questo real fiume dall’Ethiopia, fra le spatiose rive, e tutto in piana

terra, fino a poche miglia lontano dalla famosa Elefantina: * At ubi in scopulos cautium intravit,

spumat, & illi, non ex natura sua, sed iniuria loci color est” (p. 98), citando esplicitamente le parole

del filosofo di Cordoba (Naturales quaestiones, II, 5). Anche se l’origine delle notizie sulle cascate

del Nilo non fosse dichiarata in tale maniera, le prove del legame tra il testo del gesuita ferrarese e

quello dell’autore latino rimarrebbero comunque numerose, dal punto di vista formale e soprattutto

sul piano contenutistico. A livello lessicale troviamo diversi termini presenti sia in Bartoli che in

Seneca (Naturales quaestiones, II, 5): “angustissime” (VII, 1) risponde per esempio a “angusta”,

“sasso” (id.) a “saxis”, “schiuma” (id.) a “spumat”, “diruparsi” (VII, 2) a “rupes”, “colori” (VII, 4) a

“color” e “acque” (id.) a “aquis”. Per quanto riguarda le immagini evocate dai due scrittori, i punti

di contatto assumono ancora maggior rilevanza: se il gesuita ferrarese parla del Nilo descrivendolo

mentre è impedito nel suo corso dalla roccia “d’una fenditura di monte” (VII, 1), preleva dall’autore

168Oltre al caso di cui ci occupiamo qui, tra le note della Geografia troviamo menzionati Pomponio Mela o la sua opera soltanto altre due volte (pp. 296 e 362). 169Ci siamo già soffermati sull’importanza di tale figura nel primo capitolo del presente lavoro (I. L’Isole Fortunate). 170Si noti che il passo di Pomponio Mela sull’Arasse ripreso da Bartoli mostra qui differenze di un certo peso rispetto all’edizione “Les Belles Lettres” che ho consultato, dove si trova la seguente formulazione: “non declinet statim undam, sed ultra quam canalem habet euehat, plus iugeri spatio sublimis et aquis pendentibus semet ipse sine alueo ferens;

deinde ubi incuruus arcuatoque amne descendit” (De chorographia, III, 5, 40; il corsivo è mio). Le possibili cause di tali divergenze sono a mio avviso due: a) il volume di cui si è servito il gesuita ferrarese presentava una versione del testo latino piuttosto diversa, almeno nel punto che ci interessa, da quella ricostruita da A. Silberman (Pomponius Méla, Chorographie, 1988); b) l’autore della Geografia ha modificato le parole tratte dal De chorographia per adattarle alle esigenze del proprio testo. In mancanza di prove che possano confermare la prima o la seconda ipotesi, non sono in grado di propendere né per l’una né per l’altra.

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latino l’informazione secondo cui il normale corso del medesimo fiume viene a un certo punto rotto

da blocchi di pietra;171 l’immagine del Nilo che nella Geografia si affretta e mostra la sua forza nel

cercare di uscire dall’angustia di certe gole (id.) deriva da quella, presentata dal filosofo di Cordoba,

delle acque mosse con violenza e rapidità attraverso passaggi troppo stretti;172 il senechiano “in

uastam altitudinem subito destitutus cadit” (Naturales quaestiones, II, 5) è invece reso da Bartoli

con “gittasi giù a rompicollo di quant’alto il provate all’horrore del riguardarlo” (VII, 1); quando,

infine, il gesuita ferrarese finge di mostrare al lettore una città abbandonata dai suoi abitanti a causa

del fracasso provocato dalle cascate del Nilo (VII, 7), riprende certamente l’aneddoto delle

Naturales Quaestiones secondo cui un popolo portato in quella regione dai Persi aveva dovuto

fuggire in una regione meno rumorosa.173 Sul piano stilistico è poi da notare come sia nelle

Naturales questiones che nella Geografia si ricorra a una figura toccata nel capitolo precedente, la

personificazione, capace di mostrare il tumulto delle acque del più celebre tra i fiumi africani in

termini di atteggiamenti umani: se in Bartoli troviamo il Nilo rappresentato come un re incollerito

(VII, 1),174 ma più avanti acquietato dopo aver raggiunto la pianura (VII, 2), Seneca, attribuendo a

un corso d’acqua sentimenti e percezioni umane, parla di un fiume che “uincit aut uincitur” o che

“non ex natura sua sed ex iniuria loci color est” (Naturales Quaestiones, II, 5). È semplice quindi

notare che ancora una volta il gesuita ferrarese si appropria di notizie, spunti lessicali e strumenti

stilistici per realizzare in seguito una pagina che, pur incentrandosi sul medesimo tema di quello

trattato all’interno della propria fonte, risulta sviluppata in maniera originale.

Nel cominciare la sua descrizione della regione delle cascate del Nilo, Seneca si esprime così:

“Ab hac Nilus magnus magis quam uiolentus Aethiopiam harenasque per quas iter ad commercia

Indici maris est praelabitur. Excipiunt eum Cataractae, nobilis insigni spectaculo locus” (Naturales

Quaestiones, II, 4). Mostrando le cateratte alla stregua di uno spettacolo, lo scrittore latino adotta

una prospettiva caratteristica in misura molto maggiore dell’opera di Daniello Bartoli, che

rappresenta i suoi paesaggi come se vi fosse davanti.175 Afferma Bice Garavelli Mortara:

171“Frangitur enim occurrentibus saxis et per angusta luctatus, ubicumque uincit aut uincitur, fluctuat” (Seneca, Naturales quaestiones, II, 5). 172“... et, illic excitatis primum aquis quas sine tumultu leni alueo duxerat, uiolentus et torrens per malignos transitus prosilit dissimilis sibi” (Seneca, Naturales quaestiones, II, 5). 173“Quem perferre gens ibi a Persis collocata non potuit obtusis assiduo fragore auribus et ob hoc sedibus ad quietiora translatis” (Seneca, Naturales quaestiones, II, 5). 174Se il filosofo di Cordoba non si riferisce al Nilo come se si trattasse di un monarca, ne parla comunque definendolo “nobilis” (Naturales quaestiones, II, 4): se pure tale termine si riferisce piuttosto alla fama del luogo che non alla sua nobiltà, potrebbe darsi che alla mente dell’italofono gesuita ferrarese abbia suggerito un’immagine di grandezze aristocratiche. 175In tal senso si può citare l’utilizzo di un avverbio, “ecco”, che non compare nel brano preso in considerazione adesso, ma di cui possiamo trovare alcuni esempi nelle sezioni della Geografia trascritte nel presente lavoro (IV, I, 3; IV, IV, 3; IX, III, 1; XV, II, 7). A proposito degli enunciati introdotti da “ecco”, Sergio Bozzola (2000: 79) spiega come una figura sintattica e lessicale di questo tipo sia “in funzione della descriptio: sostituisce, per così dire, il gesto del maestro che

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La vita [...] appare [al gesuita ferrarese], per usare le parole di uno studioso del Bartoli [E. Raimondi, in Trattatisti e narratori del Seicento, 1960, p. XV] come un “teatro”, uno “spettacolo” edificante di avventure e di personaggi che popolano via via la grande scena del mondo. Spettatore e insieme presentatore di questo spettacolo, il Bartoli proietta sempre davanti a sé l’oggetto della sua osservazione, esteriorizzandolo.176

Di un atteggiamento del genere troviamo numerose prove anche nei brani riportati in queste pagine.

Limitando qui il campo d’indagine alla sezione sulle cascate del Nilo, si potranno notare le

molteplici spie che testimoniano come il gesuita ferrarese si muova in questo senso, andando molto

al di là della semplice constatazione senechiana della spettacolarità delle Cataractae e aggiungendo

in pratica un dato stilistico personale a quanto poteva esser desunto dalla fonte. Un esempio di tali

segni rivelatori si trova nei numerosi verbi che chiamano in causa i sensi del lettore: “provate” (VII,

1), “riguardarlo” (id.), “vedere” (VII, 3), “vedete” (VII, 4), “partircene assordati” (id.). Sono poi da

notare le diverse formulazioni il cui effetto è quello di mettere in relazione gli elementi del

paesaggio con l’immaginario punto di osservazione: “questa” cascata (VII, 1), “qui al piano” (VII,

2), “colassù” (id.), “questa, che qui intorno vedete, una volta città” (VII, 4), “ci tratteniam qui” (id.),

“questo diluviar d’acque” (id.). Da osservare ci sono ancora i riferimenti alle sensazioni che la vista

delle cascate del Nilo è supposta provocare nello spettatore: “Sbigottimento, e horrore, ma misto

d’altrettanto piacere, cagiona la veduta di questa spaventosa, e dilettevole” (VII, 1); “all’horrore del

riguardarlo” (id.); “sarebbon un piacer da fermarvisi a goderne” (VII, 4). Bartoli, che nell’esprimersi

utilizza frequentemente verbi alla seconda persona plurale, si rivolge ai fruitori della Geografia

quasi fosse una guida che mostra un panorama suggestivo a un gruppo di turisti, cercando di destare

nel pubblico un sentimento di quella meraviglia che abbiamo già toccato nelle pagine precedenti e

che è un dato fondamentale della letteratura secentesca. Il rivolgersi direttamente al lettore ha la

funzione di coinvolgerlo maggiormente nella rappresentazione delle diverse regioni, fingendo che

egli sia messo realmente davanti ai paesaggi descritti e, dunque, in una relazione priva di

intermediari con l’oggetto osservato. Se il gesuita rappresenta i paesaggi come se si trovasse nei

diversi luoghi scelti a tema del proprio periodare e come se fosse accompagnato dai destinatari del

testo, in conclusione, ciò è ancora una volta dovuto al desiderio di rendere più interessanti le pagine

della Geografia, tramite un allontanamento dallo stile di quella che sarebbe una nuda e cruda

presentazione a fine espositivo.

elenca i dettagli di un oggetto [...] o i commi di un argomento, ed è finalizzata all’intensificazione dei singoli particolari della descriptio, poiché presuppone deitticamente che la descrizione sia visivamente supportata (ed è la stessa icasticità della scrittura a supplire tale carenza [...]). In questo senso potremmo forse dire che la figura qualifica il tratto di testo che la ospita come procedimento dell’ékphrasis, se la parola designa, come vuole Lausberg, l’esposizione dettagliata di un oggetto concreto [...]. La sua frequenza pertanto non deve stupire in testi essenzialmente descrittivi”. 176Garavelli Mortara, 1965: 130.

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IX. Zeilan

I. 1Già che, testimonio Seneca,a gli Storici han licenza di chiamar Soli le imagini del Sole, che

tal volta specchiandosi nelle nuvole, si stampa in una o più d’esse, e Pareli Grecamente si dicono, *Quia accedunt ad aliquam similitudinem Solis: farommi lecito anch’io, con questa bella Isola di Zeilan, dove hora, solcato il gran mare dell’India Orientale, approdiamo, di chiamarla Paradiso terrestre, percioché veramente il pare. 2Anzi pur l’è; tanto sol che il vogliamo credere a’ paesani, che a questa fortunata loro Isola dan nome di Ternasseri, che in nostra lingua è dire, Terra delle delitie: e quella ertissima rupe, che colà in mezzo d’essa vedete poggiar fino alle nuvole, la chiamano il gran Monte d’Adamo, e ne mostrano su le altissime cime intagliate, o come essi vogliono che si dica, impresse nel vivo sasso, l’una e l’altra orma de’ piedi: smisurate sì, che a regola di proportione, il corpo d’Adamo era un colosso, a cui potea servire di piedestallo un monte. 3Ma quanto a Zeilan, non v’era bisogno d’aiutarla le favole a parere un Paradiso. 4Ella ha due Stati, e due Verni, cioè due volte Primavera, e due Autunno, che tali sono le sue Stati, e i suoi Verni: e tutto l’anno v’è per lavorio di Natura, quel che altri hebbe mestieri di fingerlo per magia in un poetico paradiso: Co’ fiori eterni, eterno il frutto dura, E mentre spunta l’un, l’altro matura.b 5Ciò che a tutto il rimanente dell’India è diviso, in questa isola è adunato. 6Un ciel sempre ridente, un’aria d’ogni stagione piacevole, e salubre, il mare che l’intornia, mansuetissimo, e tutto in fondo tempestato di madriperle. 7Il terreno, a pianura, a colline, a monti utilmente boscosi. 8Ruscelli poi, e fiumi di limpidissime acque, tutta d’ogni parte la corrono, e piacevoli venticelli, che sempre il mare sveglia, la mantengono fresca sì, che dentro la Zona torrida, e vicina non più che sei gradi al circolo Equinottiale, non sa che sia stemperamento di caldo; e se punto se ne accende, sono preste a spegnerlo le piogge che vi cadono ogni mese. 9De gli animali, e dimestichi, e selvaggine, specie utile non le manca. 10Selve poi d’ebano, e di palme Indiane, e d’ogni desiderabil pianta d’agrumi. II. 1Ma quello, che più di null’altro fa Zeilan famosa in Europa, e per cui si navigan fin colà quindicimila miglia di mare, si è l’albero della Cannella, che ivi nasce l’ottima, e in abbondanza bastevole a proveder tutto il mondo. 2Una pianta è questa di statura ordinaria fra gli alberi, peroché o nulla, o di poco sopravanza gli Ulivi: ramosa, e ben fogliuta, e le foglie simiglianti a quelle del cedro, ma d’un verde più carico quanto il sia l’alloro. 3Fiorisce, e frutta, ma nè il legno, nè il fior, nè il frutto hassi in verun conto. 4Tutto il suo buono è la seconda sua scorza, che tagliata a suoi tempi, e coll’arte saputa solo da Cingali, in convenevoli strisce riseccasi, e in seccando, per sè stessa convolgesi, e s’accartoccia. III. 1Ed eccovi in un bel mistero della Natura, il ritratto d’una certa generatione d’huomini, tutto il cui buono sta nel di fuori: dentro non v’è cosa che vaglia: e per dirne appunto quel che Plinio dell’albero della Cannella, ogni lor pregioc *Corticis IN QUO SUMMA GRATIA. 2Hor ragionanne un poco, e sol accennando alcun de’ moltissimi fini a che si ordina l’apparenza: che a dir di tutti, e’ son tanti, e sì vari, che vi bisognerebbe un intero volume a spacciarsene.

[Geografia, pp. 123-125]

Benché nella sezione introduttiva del capitolo consacrato a Zeilan (o, come si direbbe oggi,

Ceylon) siano citati esplicitamente due autori, Seneca e Plinio il Vecchio, accanto ai quali sono

riportati letteralmente due versi della Gerusalemme liberata, nessuno tra tali scrittori può essere

considerato la fonte utilizzata da Bartoli per la rappresentazione geografica che ci interessa ora. Ci

troviamo dunque di fronte a un problema analogo a quello già toccato nell’analizzare la descrizione

a Nota della Geografia: “Nat.quest.lib.1.c.11.” (Seneca, Naturales quaestiones, I, XI, 2). b Tasso, Gerusalemme liberata, XVI, 10, 7-8. c Nota della Geografia: “Lib.12.c.19.” (Plinio, Naturalis historia, XII, XLII, 91).

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del Capo Non. Nel caso presente, tuttavia, la consultazione della raccolta Navigation et viaggi del

trevigiano Giovanni Battista Ramusio - e in particolare il Libro di Odoardo Barbosa - pare essere

più fruttuosa per chi cerchi di stabilire quali testi avesse in mano il gesuita ferrarese mentre si

dedicava a Zeilan di quanto non lo fosse per vedere a quale sorgente egli attingesse informazioni

sull’estremo limite occidentale del mondo antico.177 Numerosi sono in effetti i punti di contatto tra

le pagine di Odoardo Barbosa e quelle bartoliane: se il gesuita ferrarese spiega come gli abitanti di

Ceylon chiamassero la loro isola Ternasseri, cioè “terra delle delizie” (IX, I, 2), la stessa

informazione si trova anche nei libri di Ramusio, dove si parla di “una bellissima e grande isola, che

li Mori arabi, persiani e di Soria chiamano Zeilam, e gl’Indiani Tenarisim, che vuol dire terra delle

delizie” (Navigazioni e viaggi, 1979, vol. II, p. 662); anche quando l’autore della Geografia si

sofferma sulle immense ricchezze naturali dell’isola asiatica, sulla sua situazione meteorologica

privilegiata e sulla salubrità del suo clima (IX, I, 5-6), potrebbe fondarsi sulle affermazioni di

Odoardo Barbosa, secondo cui Ceylon, “oltra tutte le comodità e delizie del mondo, è paese di

temperatissimo aere, e gli uomini vivono più longamente che in alcuna altra parte dell’India e

sempre sani, e pochi sanno quel che si sia malattia” (Navigazioni e viaggi, 1979, vol. II, p. 663);178

dove Bartoli accenna alla presenza a Ceylon di “ogni desiderabil pianta d’agrumi” (IX, I, 10), può

aver tenuto presente un’altra notizia, peraltro relativa a una caratteristica piuttosto conosciuta

dell’isola,179 secondo cui lì “nascono molti frutti, e quelli anco eccellenti: li monti sono coperti di

naranci [...]; limoni [...] e molte altre sorti di frutti che non si trovano nelle nostre parti”

(Navigazioni e viaggi, 1979, vol. II, p. 663); se il gesuita ferrarese racconta, aiutandosi con due versi

di Torquato Tasso,180 di come sugli alberi di Ceylon vi siano perennemente fiori e frutti (IX, I, 4), si

basa ancora una volta su un dato presente nei libri di Ramusio, dove si afferma che sul territorio

dell’odierno Sri Lanka “gli arbori di continuo sono carichi tutto l’anno, e di continuo si veggono

fiori, frutti, e maturi e immaturi” (Navigazioni e viaggi, 1979, vol. II, p. 663); dove l’autore della

Geografia sostiene che nella grande isola dell’oceano Indiano “De gli animali, e dimestichi, e

selvaggine, specie utile non [...] manca” (IX, I, 9), potrebbe aver tratto spunto dal passaggio di

Navigationi et viaggi in cui si dice che a Ceylon “si trova grandissima abondanza per il vivere

177In una nota del quinto capitolo del presente lavoro, dove si stava considerando la possibilità che la descrizione del Capo Non fosse debitrice di alcune pagine di Alvise da Ca’ da Mosto, si è già visto perché si può affermare che nella redazione della Geografia Daniello Bartoli ha certamente consultato i volumi di Navigationi et Viaggi. 178È interessante qui constatare due dati: in primo luogo, il paragone tra la situazione di Ceylon e quella dell’India è presente, sebbene in relazione ad aspetti diversi, sia nella Geografia (IX, I, 5) che in Navigationi et viaggi; secondariamente, la formulazione del gesuita ferrarese ricorda molto da vicino una frase che abbiamo già incontrato nel capitolo sulla Cina (“e d’ogni altra copia di beni, che la Natura ha divisi a diverse terre, e raunati in questa”, IV, II, 7). Torneremo dedicandoci a Le Correnti su ritorni di questo tipo, abbastanza frequenti nella Geografia. 179Marica Milesi, in una sua nota a Navigazioni e viaggi (1979, vol. II, p. 663), afferma infatti: “La ricchezza di agrumi di Ceylon sarebbe diventata famosa”.

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d’ogni sorte di carni di diversi animali e uccelli, e tutte delicate, e similmente copia grande di peschi

che si pigliano appresso l’isola” (Navigazioni e viaggi, 1979, vol. II, p. 663); quando il gesuita

ferrarese parla di come la fama di Ceylon in Europa sia dovuta alla grande abbondanza e all’ottima

qualità della cannella (IX, II, 1), segue probabilmente un’analoga informazione riportata da Odoardo

Barbosa (“La miglior cannella che sia in queste parti nasce in questa isola sopra li monti: l’arbore è

simile al lauro”, Navigazioni e viaggi, 1979, vol. II, p. 663);181 il mare che circonda l’isola asiatica

nella Geografia è descritto “come mansuetissimo, e tutto in fondo tempestato di madriperle” (IX, I,

6), probabilmente sulla stregua di quanto si riferisce in Navigationi et viaggi, che riporta la notizia

secondo cui “Appresso la detta isola in mare vi è una secca coperta di dieci in dodici braccia di

acqua, dove si trova grandissima quantità di perle minute e grosse, molte fine, e alcune fatte in

forma di pero” (Navigazioni e viaggi, 1979, vol. II, p. 665); in Bartoli, infine, si parla del grande

Monte d’Adamo, sorta di alta e scoscesa roccia sulle cui cime sarebbero impresse le orme del primo

uomo (IX, I, 2), di cui parla anche Barbosa, dicendo che “Nel mezzo di questa isola vi è un’altissima

montagna, in cima della quale si vede un sasso assai alto, e ivi vicino uno stagno d’acqua chiara che

di continuo risorge. Nel detto sasso è fatta la forma delli piedi d’un uomo, che gl’Indiani dicono

essere la pedata del nostro primo padre Adam, che essi chiamano Adam Baba” (Navigazioni e

viaggi, 1979, vol. II, p. 663).

Naturalmente le informazioni mancanti in Navigationi et viaggi e presenti nella Geografia

lasciano supporre che i libri di Ramusio non siano stati la fonte esclusiva per la descrizione

bartoliana di Ceylon.182 A rafforzare questa tesi, troviamo alcune discrepanze tra quanto riportato

dal gesuita ferrarese e quel che scrive Odoardo Barbosa: in particolare a livello di forme

toponimiche, dove se il secondo parla di “Zeilam” e di “Tenasirim” il primo preferisce le forme

“Zeilan” e “Ternasseri”, proponendo due termini a mio avviso spiegabili soltanto ammettendo che

nella stesura della descrizione di Ceylon nella Geografia si sia fatto ricorso anche ad altri materiali,

visto che altrimenti non si capirebbe come mai Bartoli avrebbe dovuto procedere alle sostituzioni

menzionate.183 Al di là delle lacune e delle divergenze, comunque, mi pare che i numerosi punti di

contatto messi in risalto tra il testo del gesuita ferrarese e le pagine riportate nei volumi

dell’umanista e geografo di Treviso dimostrino, nonostante la mancanza di una dichiarazione

esplicita in tal senso, il debito contratto nella Geografia, dove probabilmente si possono trovare

180Ritorneremo più avanti su tali endecasillabi della Gerusalemme liberata. 181Si noti come sia in Bartoli (IX, II, 2) che in Navigationi et viaggi si fa riferimento all’alloro o lauro. 182Il problema della molteplicità delle fonti utilizzate dal gesuita ferrarese è già stato trattato nel secondo capitolo del presente lavoro. 183È comunque da osservare che la forma “Zeilan” è presente anche tra le pagine di Navigationi et viaggi, per esempio nella sezione dedicata ai Viaggi di Marco Polo (Navigazioni e viaggi, 1980, vol. III, pp. 266-267 e 277-278).

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altre tracce della consultazione di Navigationi et viaggi pure all’esterno dei brani presi in esame nel

presente lavoro.

Passando ora a un autore citato esplicitamente, possiamo considerare la ripresa dalle Naturales

Quaestiones di Seneca.184 Dell’opera dell’autore latino Bartoli (IX, I, 1) riporta alla lettera una frase,

“Quia accedunt ad aliquam similitudinem Solis” (Naturales Quaestiones, I, XI, 2), ma riassume in

italiano anche l’intero paragrafo dedicato ai pareli, cioè a quei fenomeni atmosferici che si

manifestano nell’apparizione, accanto al disco solare, d’altri dischi di minore luminosità. Non mi

pare vi siano particolari osservazioni da fare su come il gesuita ferrarese trasponga nel proprio testo

le notizie tratte dallo scrittore di Cordoba: se questi, per esempio, dice, riferendosi ai pareli,

“Quomodo nunc me hoc loco geram? Quid uocem? Imagines solis? Historici soles vocant [...].

Graeci parhelia appellant” (id.), Bartoli, mantenendosi in una posizione di fedeltà concettuale,

riporterà che “gli Storici han licenza di chiamar Soli le imagini del Sole [... che] Pareli Grecamente

si dicono” (IX, I, 1). Può invece essere più interessante cercare di stabilire quale sia il ruolo della

ripresa di un brano delle Naturales quaestiones che pare non aver nulla da spartire con una

rappresentazione di Ceylon e il cui ruolo, a prima vista, sembrerebbe unicamente quello di motivare

per analogia la possibilità di attribuire all’isola asiatica un appellativo come “Paradiso terrestre”

(id.). Quando però si considera che il nono capitolo della Geografia è dedicato al “ritratto d’una

certa generatione d’huomini, tutto il cui buono sta nel di fuori” (IX, III, 1), ci si accorge che il

legame tra il brano di Seneca e quello di Bartoli ha radici più profonde: se Seneca presentando i

pareli propone al lettore la descrizione di immagini meramente esteriori del sole, col quale dunque

non sono accomunate da quelle caratteristiche interne permettenti la produzione per conto proprio di

luce e calore, in maniera simile il gesuita ferrarese dedica alcune sue pagine al mostrare quegli

uomini il cui apparente valore è emanazione d’un bell’aspetto, ma che son privi delle qualità

interiori sulla base delle quali è lecito giudicare positivamente una persona - uomini quindi che,

come la cannella, devono il pregio in cui sono tenuti alla loro corteccia. La ripresa delle parole dello

scrittore di Cordoba nasconde così l’intenzione di presentare già in apertura di capitolo una notizia

che sottintenda la differenza, fondamentale nel successivo sviluppo della riflessione morale, tra

facciata e intima architettura.

Il secondo scrittore citato letteralmente nella sezione introduttiva del capitolo su Ceylon è

Torquato Tasso (IX, I, 4),185 che fornisce in questo caso due endecasillabi (Gerusalemme liberata,

XVI, 10, 7-8) prelevati da un gruppo di ottave consacrato alla descrizione dell’incantevole giardino

184Della presenza di Seneca nelle pagine della Geografia si è già parlato, soprattutto nel capitolo su Itaca. 185Di questo autore e della scelta da parte di Bartoli di determinati passi della Gerusalemme liberata si è già parlato in diverse occasioni, in particolare nei capitoli sul monte Atlante e sulle isole Fortunate.

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del palazzo di Armida. La descrizione di tale parco, condotta tramite l’enumerazione di qualità atte

al dipingere i tratti d’un locus amoenus, si presta con facilità all’innesto in una pagina dedicata a

un’isola presentata in maniera esplicita come un “Paradiso terrestre” (IX, I, 1); ma soprattutto

presenta un dato che ricorda quanto affermava Odoardo Barbosa sulla generazione frutticola a

Ceylon, cioè come in quell’isola gli alberi siano carichi durante tutto l’arco dell’anno e come

sempre si vedano “fiori, frutti, e maturi e immaturi” (Navigazioni e viaggi, 1979, vol. II, p. 663). Al

di là delle analogie tra i paesaggi descritti da Tasso e da Bartoli, mi pare possibile affermare che in

questo caso il debito contratto nella Geografia con la Gerusalemme sia da ascriversi, come accadeva

per esempio per l’endecasillabo dantesco considerato nel capitolo sul Mongibello, al desiderio di

impreziosire la pagina con un nuovo gioiello letterario: il gesuita ferrarese può servirsi dei due versi

del poeta di Sorrento perché il significato delle loro parole si adatta al contesto della descrizione di

Ceylon e del messaggio morale illustrato da tale isola - in Tasso come in Bartoli ci si trova di fronte

a una terra le cui ricchezze si riducono a pura apparenza - e , presumibilmente, qui si arresta la

ragion d’essere dell’inserzione.

Il dodicesimo libro della Naturalis historia di Plinio il Vecchio186 fornisce al proprio lettore

alcune notizie sulla cannella e riporta tra l’altro: “Vtilissimum quod radicibus proximum, quoniam

ibi minimum corticis, in quo summa gratia, eaque de causa praeferentur cacumina, ubi plurimus

cortex” (Naturalis historia, XII, XLII, 91), frase dalla quale Bartoli preleva alla lettera le parole che

ho trascritto in corsivo (IX, III, 1). Il gesuita ferrarese pare inoltre approfittare di alcuni altri dati

provenienti dall’opera dell’erudito latino, come per esempio quello sul pregio della seconda

corteccia degli arbusti di cannella (IX, II, 4).187 Ciò che è più importante notare, tuttavia, è relativo a

quanto nella Geografia è esplicitamente attribuito a Plinio, il passo cioè in grado di istituire un

collegamento tra le caratteristiche della cannella e quelle del genere di uomini verso i quali Bartoli

dirige la sua attenzione nel capitolo su Ceylon. Anche qui il legame tra descrizione geografica e

riflessione morale sembra fornito da uno specifico spunto letterario proveniente da un luogo diverso

dalla fonte scelta a fondamento della rappresentazione paesaggistica, ma in questo caso il gesuita

ferrarese addirittura parte per il suo discorso da un testo dove si parla semplicemente della cannella

ignorando Ceylon. L’analogia posta alla base del capitolo non dipende direttamente dallo scenario

insulare proposto nella sezione introduttiva: a partire dalla constatazione che a Ceylon si produce

molta cannella, Bartoli sposta la propria attenzione su tale pianta, descrivendola brevemente (IX, II)

e circoscrivendone poi una caratteristica da porre a illustrazione visiva del discorso sulle apparenze

186Nel presente lavoro abbiamo già incontrato l’autore comasco della Naturalis historia, soffermandoci su di lui durante l’analisi della descrizione bartoliana del monte Atlante.

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esteriori di certi individui. La rappresentazione dell’isola asiatica si trova quindi a giocare un ruolo

secondario nell’economia di questo capitolo bartoliano, mentre la cannella, presentata con l’aiuto

delle affermazioni di Plinio, assurge sul piano dell’ispirazione al grado di nucleo centrale.

X. Le Correnti

I. 1Morto quel Zeusi, che havea renduti immortali quanti havea fatti vivere nelle sue tele,

hebbevi chi gli appese al sepolcro, tutto alla rinfusa in un fascio, i pennelli sfioccati, le tele avvolte, laceri i disegni, i modelli schiacciati, e quanto ha di strumenti il dipingere, infranto: e scrissevi sotto: Morto Zeusi (anzi diposto quel che havea di mortale, per farsi innanzi alle pure Idee, e ricavarne le imagini più perfette) Niuno speri, non che il vanto di vincerlo, ne anche la gloria di pareggiarlo: perché, come, vivendo, egli havea fatta l’Arte, così, morendo, se ne havea seco portato il Magistero. 2Il qual dire in lode dia Zeusi morto, fu imitatione di quello, che già di lui vivo havea cantato il Poeta Apollodoro, celebrandone i meriti con un simile sentimento. II. 1Hor io di questo medesimo suo pensiero mi varrò in acconcio di spiegarvene un mio, nel dar che qui debbo una brieve contezza dell’impenetrabil miracolo di natura, che a me paiono le Correnti, nelle quali hora vi metto. 2La Sapienza Ingegnera, e fabricatrice di questo così ben inteso lavorio dell’Universo, nell’organizzarne le parti, e assegnarne secondo l’invariabil disegno dell’eterno esemplare, a ciascuna il luogo, la natura, e ’l proprio ministero, venuta al morto elemento delle acque, infuse loro (chi sa dir quale?) uno spirito, per cui elle non han bisogno di spirito per parer vive. 3Così, senza niuno sospignerle, elle, tutto da sè, e con istabile andamento si muovono. 4E primieramente, quel di che altrove ragioneremo, col Flusso, e ’l Riflusso, elle vanno, e tornano a maniera di chi passeggiasse da una sponda della terra all’altra, o dal mezzo del Mare alle sponde. 5E questo è di tutta insieme la gran massa delle acque del Mediterraneo, e dell’uno e l’altro Oceano. 6Ma nulla è ciò, rispetto all’impareggiabil maraviglia, che cagiona il vedere, qua, e là sparsamente, hor per lo mezzo de’ pelaghi, hor terra terra lungo le piagge, e i liti, hor fra canali che s’intramezzano all’Isole, hor intorno alle costiere de’ monti che forman capi, e sporgono il gran piede in mare; veder, dico, un correr d’acque tanto a capriccio, ch’elle sembrano forsennate: e nol son mica; peroché elle hanno i lor tempi al mettersi in carriera, al parare, al dar volta, e misuratissimamente l’osservano: e ’l viaggio, loro una volta, cioè da che il mondo è al mondo, prescritto, l’han così bene alla mente, che mai non se ne stornano, nè trasviano largo un passo, ma sempre su’l medesimo camin battuto, ancorché senza pesta, nè orma che lor l’insegni, o additi, fedelmente si tengono. 7Così van le Correnti: anzi, come hor hora vedremo, con ancor più strano disordine ordinate. 8In tanto, quel che ci rende attoniti per istupore, e mutoli per vergogna, è il non haver saputo fin hora huomo di quantunque curioso, e fortunato ingegno, rinvenire il principio che le cagiona, nè il fine dell’utile che la Natura dee trarne. 9E l’uno, e l’altro v’è certamente. 10Ma la Sapienza dell’Ingegnero, di cui ella fu inventione, fatto il lavoro, ne portò via l’arte, e chiusosi in seno il libro, ove tutta è in disegno l’originale idea di questo bell’Universo, lasciò un’utile correttione alla temerità de’ presuntuosi nostri ingegni, che talvolta con insofferibil baldanza osano non chiamati inoltrarsi nelle segretissime cose invisibili, che sopra i nostri capi si lievano, e d’infinito spatio sormontano i confini dell’intendimento humano: mentre intanto, queste sensibili, e materiali nature, che habbiam fra’ piedi, c’impacciano il cervello per modo, che la maggior parte di loro, quanto più ripensandole ci dibattiam per uscirne colla vittoria dell’haverle comprese, tanto più vi ci avviluppiam dentro: onde a ben misurarlo, il più del saper nostro, non passa oltre al saper dubitare; e saviamente filosofa, chi intende il perchè del suo medesimo non intendere.

187“Praecipua bonitas uirgultorum tenuissimis partibus ad longitudinem palmi, secunda proximis breuiore mensura, atque ordine” (Naturalis historia, XII, XLII, 91). a Nota della Geografia: “Plin.lib.35.c.9.” (Plinio, Naturalis historia, XXXV, XXXV, 62).

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III. 1E in verità, fosse, o no, come anzi a me ne pare, che l’universal Maestro delle migliori scuole, Aristotele, affaticatosi lungamente indarno per invenir la cagione del vicendevole travasarsi che fanno, hor sette, hor fino a dodici volte il giorno, l’un nell’altro i due mari, che mettono dentro allo Stretto di Negroponte, tanto in lui potè la vergogna di sè medesimo, che men gli parve agro il morire, che vivendo sentirsi continuo rimproverare la sua ignoranza, dalle pazze acque di quell’Euripo; e gittandovisi capovolto ad annegar dentro, ne accompagnò l’atto con quel giuchevole motto, *Tu me cape qui te non capio: b ben proverà davero chiunque si è che si metta nelle Correnti, ad investigare il come elle si facciano; convenirgli abbandonarsi, e gittarvi ad annegar dentro la speranza di già mai rinvenirlo. 2Mirate lo stupendo miracolo ch’elle sono. 3Colà in mezzo all’oceano, benché tutto in bonaccia, e sereno, incontrar fiumi d’acque, larghi a dismisura, e profondi: i quali, altrettanto che se havessero proprio letto, e quinci e quindi sodi argini, e sponde, corrono per lo mezzo dell’acqua che loro sta da’ lati immobile, e tranquilla. 4E ’l dir corrono è poco; rovinano sì, che non v’è torrente che giù da qualunque sia grand’erta di montagna precipiti, con gagliardia d’impeto, e foga pari al furioso andar di queste acque mobili fra le quiete; e quelle e queste tutte giacenti al medesimo piano. 5E non è mica ch’elle o sgorghino da gli abissi di sotto ’l mare, o d’altronde gli sopravengano forestiere: egli è il mare stesso, che fila, allunga, e caccia in corsa una parte di sè, e dentro sè quasi genera un fiume. IV. 1Han dieci, e tal una, undici vele tese al vento le gran Caracche dell’India, quelle, che senza forse mai veder terra, per cinque in sei mesi di continuata navigatione, prendono a fare una carriera di quindici o più mila miglia distese sopra l’Oceano. 2Se favorevole il vento tutte le dieci vele gonfia, e sospigne, egli è alla nave un andar su per l’acque a volo; tanta è la forza dell’impeto a romperle, e solcare. 3Ma sia quantunque esser possa, ella tutta in istanti si snerva, e cade, al disavveduto entrare che tal volta fa da sè stessa la nave, o all’improvviso mettersi d’una Corrente che le vien contro a filo: con un sì verisimile inganno nel frangere, e romoreggiare, e levare alto sprazzi, e schiuma dell’acque ripercosse alla proda, che il male accorto nocchiero, ben si crede andar oltre a gran passi, e raddoppiare il viaggio, per lo parergli che fa, l’impeto della nave esser quello che gli ribalza davanti, e rompe a sì gran forza il mare; essendo il vero, che l’ingannato suo legno, o poco avanza, o sta fermo, o fatto spron della poppa, senza niuno avvedersene, va in dietro: temperandosi, quando sta immobile, il sospigner del vento, col rispignere della Corrente, in un sì bello non vincerla nè l’uno, nè l’altra, che pur movendosi continuamente la nave, ella non pertanto sta ferma. 4E per non dir di mille, che come a cosa d’ogni anno v’incappano; il Colombo, quel domatore d’un fino allora incognito, e sì sterminato oceano, quanto è di qua fino al nuovo Mondo, ito una volta un dì intero a tutta forza di venti, e di vela, si trovò in fine haver fatto un meschino, e scarso miglio di viaggio. 5Hor mi raccordi, se v’è chi già mai il vedesse, quel tanto vero, quanto non creduto miracolo della Remora; o quell’altro delle mai nell’India non trovate Ostriche Indiane, *Quarum quietus tactus (scrisse il Goto Re Teodorico colla penna del suo Segretario Cassiodoro)c plus dicitur retinere, quam exagitata possint elementa compellere. 6Stat pigra ratis tumentibus alata velis, & cursum non habet cui ventus arridet. 7Sine anchoris figitur, sine rudentibus alligatur, & tam parva animalia plus resistunt, quam tot auxilia prosperitatis impellunt. 8Ita cum subiecta unda praecipitet cursum, supra maris tergum navigium constat infixum. V. 1Ma il non avanzar delle navi quasi arrenate, e immobili nelle Correnti, pur è un non piccolo avanzare, dovendosi mettere in conto di buon guadagno il non perdere le quattro, le cinque, e sei centinaia di miglia, che in assai de’ viaggi all’Indie truovo esser tornate senza avvedersene indietro le navi, rapite dall’impeto delle Correnti: e ciò perché prive di vento, erano altresì prive della forza lor bisognevole a contrastare il sospignimento delle acque vittoriose al portarsele. 2Truovo altresì mal sicure a dar fondo, le due, e le tre ancore, inutilmente aggrappate, dove il violentissimo correr del mare strappandole le sferrava. 3Truovo spezzate, come fossero sottili e

b Presumibilmente anche in relazione a questa citazione avrebbe dovuto esserci, nella princeps della Geografia, un rimando bibliografico, che però è assente, come manca pure nell’edizione Marietti (Delle opere del padre Daniello

Bartoli della Compagnia di Gesù, vol. XXX, 1839, p. 130), dove comunque il “giuchevole motto” è trascritto in corsivo. Purtroppo non sono in grado di porre rimedio alla lacuna. c Nota della Geografia: “Variar.lib.1.ep.35.” (Cassiodoro, Variae, I, XXXV, 3).

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deboli fila, le gomone rinforzate: e tal una d’esse per più canapi attorcigliati insieme, grossa il giro di ventisette dita. 4Truovo il gittare dello scandaglio inutile a sapere la misura del fondo, dove il precipitoso corrimento dell’acque seco ne porta poco meno che a galla il piombo. VI. 1Finalmente, chi può ridur presso che a regola, lo sregolato mettersi, il capriccioso andare, il diverso trascorrere delle Correnti? 2La sottil diligenza de gli Anatomisti ha trovata in questi ultimi anni la Circolatione del sangue per entro a’ corpi nostri; e mostrano qua e là ripartite per i canali delle vene le cateratte, e i sostegni, per cui dall’un tronco d’esse il sangue a schizzi s’imbocca, e tragitta nell’altro, ond’è conseguente il circolare: altrimenti un tal perpetuo andar oltre, senza mai ringorgare, non sarebbe moto continuo. 3Ma di questo sì pazzo, e nondimeno, convien dire che savissimo ordine senza ordine, delle Correnti, che travasano l’acque del mare dall’un luogo nell’altro, chi ne sa rinvenire il come o il perché: etiandio sed dessimo a Seneca il muoversi, e dell’aria ne’ venti, e dell’acqua nelle Correnti, essere atto d’anima operante in que’ due vivi elementi? 4Altre, mai in tutto l’anno non restano: altre, hanno i lor punti estremi, fra essi il numero de’ giorni, e dell’hore misuratissimo al mettersi, e al niente più, o meno durare. 5Queste, senza dar volta indietro, corron sempre inverso la medesima parte: quelle, vanno, e tornano. 6Certe, a maniera di vagabonde, si spatiano in alto mare: certe, si strisciano alla terra, e non mai se ne scostano. 7Alcune, sempre diritte s’allungano a centinaia di miglia; altre, serpeggiano, e fan mille torcimenti, e Meandri. 8E quel che a me, veggendolo, è paruto stranissimo, due se ne scontrano insieme, amendue rapidissime, correnti all’opposto, e l’una sì rasente l’altra, che in ispatio di quanto è quattro passi, questa vi rapisce a Levante, quella a Ponente.

[Geografia, pp. 141-147]

Malgrado la lunghezza della sezione introduttiva del capitolo sulle correnti, non sono molte le

fonti per tale porzione della Geografia che Bartoli cita esplicitamente: esse si limitano infatti a un

passo tratto dalla Naturalis historia di Plinio (X, I, 2), a uno proveniente dalle Cassiodori senatoris

variae (X, IV, 5-8) e a uno infine preso dalle Naturales quaestiones di Seneca (X, VI, 3). Da parte

mia, non sono sono riuscito a reperire altre sorgenti alle quali il gesuita ferrarese abbia certamente

attinto, anche se oltre alle tre opere menzionate egli si riferisce pure a Cristoforo Colombo e ad

Aristotele, senza però coinvolgerne direttamente gli scritti. Ho comunque deciso di occuparmi di

questo brano della Geografia in ragione delle molteplici considerazioni sul retroterra culturale del

libro che esso permette di sviluppare, per esempio a proposito dell’importanza rivestita in Bartoli

dall’influsso delle arti figurative, del pensiero di alcuni filosofi o delle notizie fornite dal mondo

scientifico. Nei paragrafi seguenti, dopo aver commentato le apparizioni Plinio, Aristotele,

Cristoforo Colombo, Cassiodoro e Seneca, cercherò dunque di far emergere alcuni di quegli

elementi che permettono di ampliare il ventaglio delle suggestioni intellettuali sulle quali le pagine

della Geografia hanno potuto germogliare.

Dell’opera di Plinio188 il gesuita ferrarese cita, senza riportarlo alla lettera, un passo su Zeusi,

cioè questa frase: “In eum Apollodorus supra scriptus uersum fecit, artem ipsis ablatam Zeuxim

ferre secum” (Naturalis historia, XXXV, XXXV, 62). Il passo dello scrittore comasco, consacrato ad

alcune vicende legate alla vita del celebre artista greco, non è alla base dell’aneddoto riportato nella

d Nota della Geografia: “Nat.quest.lib.5.c.5.&6.” (Seneca, Naturales quaestiones, V, V e VI).

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Geografia circa l’anonimo atto che voleva significare la morte contemporanea di Zeusi e del sommo

vertice possibile nell’applicazione della sua arte (X, I, 1), ma viene ripreso soltanto per istituire un

paragone tra l’epigramma di Apollodoro e quello lasciato sul sepolcro del pittore. Il ribattere, grazie

alla citazione da Plinio, su come Zeusi fosse l’unico depositario del più alto grado di maestria

nell’esecuzione pittorica e come con la sua morte anche il segreto della sua abilità fosse destinato a

scomparire, serve, probabilmente, a sottolineare per analogia un dato per Bartoli fondamentale

nell’osservare il moto delle correnti, cioè quello secondo cui, terminata la creazione del mondo da

parte di Dio, non sia più possibile svelare la ragione nascosta dello stupefacente muoversi dei flussi

d’acqua nei mari. Nonostante il nocciolo della questione morale considerata nel decimo capitolo

della Geografia concerna problemi relativi al “Lasciarsi torre giù di strada, e darsi a portare alla

pazza Opinione del volgo” (p. 141), nella sezione introduttiva presa ora in esame si sottolinea più

volte l’impossibilità di spiegare i moti delle correnti e, più in generale, di spingere le conoscenze

umane oltre un certo limite.189 A questo punto viene però spontaneo chiedersi quale sia il legame tra

l’argomento morale sul quale il gesuita ferrarese vuole portare la sua riflessione e un dato che,

malgrado il suo peso tra le pagine della Geografia, non sembrerebbe direttamente implicato nel

capitolo sulle correnti: la risposta sta forse nello stato di confusione al quale il lasciarsi travolgere

dagli altrui pareri può condurre, facendo perdere all’individuo la concezione di quanto è

umanamente utile e lecito chiedersi.

Anche se non sono in grado di asserire niente sulla fonte utilizzata da Bartoli nel riportare

l’aneddoto sulla disperazione di Aristotele davanti al problema delle correnti nell’Euripo e,

soprattutto, sull’origine delle parole “tu me cape qui te non capio” attribuite al filosofo di Stagira

(X, III, 1), ci si può ugualmente trattenere un momento per qualche constatazione su tale passo.190 In

primo luogo, si può ricordare come Aristotele, filosofo definito in questa porzione di testo

“l’universal Maestro delle migliori scuole” (X, III, 1), pur non essendo citato con particolare

188Su Plinio e la sua Naturalis historia ci siamo soffermati brevemente nel capitolo sull’Atlante. 189Si vedano le seguenti frasi: X, II, 1; X, II, 10; X, III, 1; X, VI, 1; X, VI, 3. Della questione dei limiti dello scibile concesso ai mortali abbiamo parlato, richiamando la figura di Ulisse, nel capitolo dedicato al monte Atlante. Bruno Basile, nel suo Argomentazione e scienza: due esempi secenteschi (1989: 105) - articolo secondo me per alcuni aspetti discutibile, perché mette a confronto un testo scientifico di Redi e un’opera bartoliana, La ricreazione del savio, i cui fini erano diversi - afferma, commentando un passo dedicato alla descrizione delle chiocciole, che la “curiosità” del gesuita ferrarese “si arresta al tópos dell’ineffabile, con cui lo scienziato, ora divenuto retore, riporta al divino la presenza di regole d’organizzazione geometrica del reperto, sfuggite alla limitatezza del suo intelletto umano”. La tematica dei confini della conoscenza umana nell’opera di Bartoli trascende dunque i limiti della Geografia. 190Pollack (1909: 1282) ci informa che “nach eine Sage soll Aristoteles aus Verzweiflung darüber, dass er das Problem des E[uripos] nicht lösen konnte, gestorben sein”. Questa leggenda è riportata per esempio nella Storia delle guerre dello storico bizantino Procopio di Cesarea (VIII, VI, 19-21), ma non credo che l’autore della Geografia si sia fondato su tale testo (da me consultato in: Procopius of Caesarea, History of the Wars, with an English translation by H.B. Dewing, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press / London, William Heinemann ltd., vol. V, 1978, pp. 106-109).

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frequenza tra le pagine della Geografia,191 assuma una certa importanza nell’ambito del pensiero del

gesuita ferrarese:192 in tal senso, riprendendo quanto detto nel paragrafo precedente circa i limiti

dello scibile umano, il mostrare l’impotenza di un grande pensatore di fronte a un inspiegabile

fenomeno della natura vale a portare a galla di nuovo un concetto ribadito più volte all’inizio del

capitolo sulle correnti. Che questa sia la direzione in cui Bartoli vuole muoversi è confermato anche

dal fatto che uno dei passi dove si menziona l’impossibilità di spiegare il moto delle correnti (id.)

segue immediatamente la battuta attribuita ad Aristotele, mentre a precedere la vicenda del

medesimo personaggio alle prese con le acque dell’Euripo si trova l’avviso secondo cui “il più del

saper nostro, non passa oltre al saper dubitare; e saviamente filosofa, chi intende il perchè del suo

medesimo non intendere” (X, II, 10). Ma la presenza dello stagirita in queste pagine della Geografia

si radica ancora più in profondità: come vedremo più avanti, nella sezione introduttiva che ci sta

occupando ora sono presenti palesi riferimenti al pensiero di due tra i più noti filosofi della Grecia

antica, Socrate e Platone, accanto ai quali, a completare una compagnia tanto illustre, viene quasi

automatico collocare anche l’autore dell’Etica nicomachea.193

Pure il successivo riferimento a un personaggio storico mi mette in difficoltà: anche nel caso del

riferimento a Cristoforo Colombo (X, IV, 4), quindi, non sono riuscito a scoprire da quale fonte esso

dipenda.194 Cinonostante ci si può di nuovo soffermare un momento per evidenziare qualche

elemento di interesse concernente, più che il navigatore genovese in quanto autore, lo stesso

personaggio inteso come icona dello scopritore di nuove terre. Dato il contenuto della Geografia, la

presenza di Cristoforo Colombo ovviamente non stupisce e in effetti egli non viene nominato

soltanto nel caso di cui ci si occupa.195 Indipendentemente dalle tematiche trattate nell’opera di

Bartoli, tuttavia, il navigatore genovese è una presenza di una certa importanza nella cultura

secentesca, all’interno della quale, accostato a un pioniere d’un altro campo, Galileo, trova spazio in

“un diffusissimo topos celebrativo dell’avventura della scienza moderna”.196 Colombo, “domatore

191Lo si è visto nel capitolo sul monte Atlante. 192Nella sua introduzione a L’uomo al punto cioè l’uomo in punto di morte, Adolfo Faggi (1930: XVI) si sofferma su un passo dove è “manifesto l’aristotelismo o peripatetismo del Bartoli”, facendone emergere i debiti verso le distinzioni proposte dallo stagirita tra forma, materia, atto e potenza. 193È da osservare tra l’altro che proprio la frase precedente l’aneddoto su Aristotele (X, II, 10) mi pare presentare chiare tracce di idee platoniche e socratiche. 194Nella mia infruttuosa ricerca di tale fonte mi sono fondato essenzialmente su: C. Colombo, Gli scritti, a cura di Consuelo Varela, Introduzione di Juan Gil, traduzione e revisione dei testi di Pier Luigi Crovetto, edizione italiana a cura di Paolo Collo, Torino, Einaudi, 1992. 195Abbiamo già incontrato Colombo in una nota al capitolo sul Capo Non, dove veniva citato un passo della parte della Geografia dedicata alle Termopili. 196Baffetti, 1998: 221-222. Lo stesso Baffetti (1998: 222) segnala che la “storia della topica comparazione è ricostruita dettagliatamente da A. Battistini, ‘Cedat Columbus’ e ‘Vicisti, Galilaee!’: due esploratori a confronto nell’immaginario

barocco, in ‘Annali d’italianistica’, X, 1992, pp. 115-32”. Sempre Baffetti (1998: 222) ricorda anche un’ottava del decimo canto dell’Adone dove tale topos si manifesta: “Aprendo il sen del’oceano profondo, / ma non senza periglio e senza guerra, / il ligure argonauta al basso mondo / scoprirà novo cielo e nova terra. / Tu del ciel, non del mar Tifi

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d’un fino allora incognito, e sì sterminato oceano, quanto è di qua fino al nuovo Mondo” (X, IV, 4),

dato il valore simbolico attribuito alla sua persona, sottilinea nuovamente un concetto fondamentale

per il capitolo sulle correnti, quello della conoscenza, ma in una prospettiva apparentemente opposta

a quella vista finora considerando la citazione da Plinio e l’apparizione della figura di Aristotele: il

navigatore genovese ha infatti osato superare le Colonne d’Ercole e spingersi arditamente verso

l’ignoto, per poi raggiungere, a differenza di quanto era avvenuto per Ulisse, quelli che - almeno

agli occhi dei posteri, essendosi spento Colombo lontano dalla gloria e senza sapere d’aver scoperto

nuove terre - sarebbero stati risultati di grande valore. È probabile però che nel caso presente

l’interesse di Bartoli per la figura di Cristoforo Colombo - pur dipendendo magari in parte dalla

tendenza barocca, già vista nel capitolo sulla Cina, a tentare “sincretismi ingegnosi” e

dall’atteggiamento spesso ambivalente dei gesuiti nei confronti delle nuove scoperte, per cui

bisognava far collimare l’interesse per i progressi scientifici con l’ortodossia religiosa - sia da legare

piuttosto all’intenzione di mostrare una volta ancora un uomo dalle grandi doti messo in difficoltà

dalla tremenda potenza delle forze naturali, visto che in questo caso, nonostante le notevoli capacità

del navigatore genovese, le correnti riescono a innalzare un ostacolo importante allo svolgersi della

traversata dell’Atlantico. Daniello Bartoli quindi, pur con la chiamata in causa del proprio amore

per la scienza e le nuove scoperte, testimoniato nella sua opera anche da alcuni testi scientifici, torna

a ribadire la necessità di atteggiarsi con modestia di fronte a taluni misteri del creato.

Di Cassiodoro, alto funzionario nell’organizzazione amministrativa del regno ostrogoto di

Teodorico e uno degli unici due cristiani, assieme a Tertulliano,197 tra gli autori latini citati

esplicitamente nella Geografia, il gesuita ferrarese (X, IV, 5-8) riprende alcune frasi tratte dalle

Variae (I, XXXV, 3),198 ovvero da quel corpus di lettere in dodici libri che ha costituito il modello

retorico per le cancellerie successive. Forse proprio tale importanza in ambito retorico può spiegare

la presenza, peraltro non troppo rilevante,199 di Cassiodoro tra le pagine della Geografia. Essendo in

questo caso la ripresa operata dal gesuita ferrarese una semplice trasposizione letterale, non credo ci

sia nulla da osservare a livello formale. Un paio di elementi interessanti sono invece da osservare in

secondo, / quanto gira spiando e quanto serra / senza alcun rischio, ad ogni gente ascose / scoprirai nove luci e nove cose” (Marino, L’Adone, a cura di G. Pozzi, Mondadori, Milano, 1976, X, 45). 197Scrittore, questo, che a differenza di Cassiodoro è presente nella lista degli autori congeniali ai gusti di Bartoli proposta da Marzot (1944: 120). 198A parte le differenze relative alla punteggiatura, dovute sicuramente all’edizione delle Variae utilizzata dal gesuita ferrarese, ci sono due punti in cui le frasi di Cassiodoro nel testo ricostruito da Mommsen (Cassidori Senatoris Variae, 1981, p. 34) divergono da quelle riportate nella Geografia: il primo concerne il “possint”, che nella lezione scelta da Mommsen è “possunt”; mentre il secondo è relativo alla mancanza in Bartoli, che comunque nel citare qui non tiene conto della parte finale dell’ultima frase dell’autore latino (“miroque modo natantia inconcusse retinentur, dum innumeris motibus unda rapiatur”), di “stare” tra “navigium” e “constat”. La prima differenza dovrebbe derivare ancora una volta dal testo che il gesuita aveva in mano, visto che Mommsen segnala in apparato anche l’opzione “possint”. Più difficile esprimersi sull’assenza di “stare”: anch’essa può però benissimo derivare dalla biblioteca bartoliana.

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ambito contenutistico, sulla base di quello che è il ruolo assunto nel libro bartoliano dal brano dello

scrittore latino. Come mai il gesuita ferrarese fa riferimento alle ostriche indiane, che malgrado la

loro piccolezza riscono a resistere alla forza degli elementi, restando fisse al loro posto pur senza

avere ancore o canapi? In primo luogo certamente per fornire un termine di paragone alla situazione

della nave di Colombo, che nella circostanza raccontata poco prima da Bartoli era rimasta pressoché

immota malgrado la gagliardia dei venti (X, IV, 4). Ma il passo di Cassiodoro assume maggior

rilievo se si considerano i due precetti morali che contano maggiormente nella sezione introduttiva

del capitolo sulle correnti, ovvero l’indipendenza dalle folli opinioni popolari e la modestia

intellettuale di fronte ai grandi misteri naturali. Con le “mai nell’India non trovate Ostriche Indiane”

(X, IV, 5) tornano evidentemente di nuovo alla ribalta le questioni delle scoperte e indirettamente

dei limiti delle conoscenze umane, visto che non si possono esprimere certezze su molluschi

conchiferi di cui non si hanno notizie empiriche. L’incredibile capacità attribuita a queste ostriche di

mantenersi saldamente aggrappate al loro appiglio malgrado le tumultuose spinte delle correnti,

invece, fa di loro una buona illustrazione del comportamento di chi risponda positivamente

all’invito a non “Lasciarsi torre giù di strada, e darsi a portare alla pazza Opinione del volgo”

(p.141). Se finora pareva maggiormente concentrato a sottolineare l’impenetrabilità delle segrete

ragioni dei movimenti delle masse idriche, nel caso presente dunque il gesuita ferrarese si serve

finalmente di una citazione per avvicinarsi anche alla questione che dovrebbe stare al centro delle

pagine sulle correnti.

Riassumendo in poche parole, in un paio di paragrafi delle sue Naturales quaestiones (V, V e VI)

Lucio Anneo Seneca200 sostiene che l’acqua e l’aria hanno in se stesse un principio di vita, in quanto

altrimenti non si capirebbe, in relazione alla prima, perché mai essa si muova anche in assenza di

vento e possa generare forme biologiche, allo stesso modo di come non si comprenderebbero le

ragioni delle correnti della seconda. Di tali notizie, Bartoli si limita a riprendere l’idea secondo la

quale “il muoversi, e dell’aria ne’ venti, e dell’acqua nelle Correnti,” sarebbe “atto d’anima operante

in que’ due vivi elementi”, per chiedersi chi, anche quando si prenda per buona un’opinione come

quella del filosofo e scrittore latino, sarebbe in grado di spiegare veramente le maniere e le cause

degli spostamenti delle masse idriche (X, VI, 3). Il motivo più superficiale della citazione dalle

Naturales quaestiones è facile da reperire: se nel testo del gesuita ferrarese si sta parlando delle

correnti è normale che vi si possa inserire la spiegazione del medesimo fenomeno fornita da un

autore antico. Sotto questa prima ragione però se ne cela un’altra, grazie alla quale si può ricondurre

anche la presenza senechiana al denominatore comune di tutte le fonti avvicinate fin qui nel corso

199Cassiodoro o la sua opera sono presenti nelle note della Geografia soltanto quattro volte (pp. 87, 117, 133, 145).

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del capitolo, ovvero la questione dello scibile umano e dei suoi limiti. La delucidazione contenuta

nelle Naturales quaestiones in merito ai flussi aerei e idrici viene in effetti introdotta in

un’espressione interrogativa che, prima ancora di considerare le affermazioni del filosofo di

Cordoba, ne nega la sufficienza a esplicare una manifestazione naturale oscura come quella delle

correnti. Se pure in modo meno evidente di quanto accadeva nella sezione su Itaca, sembra quindi

che ci troviamo di nuovo di fronte a un grappolo di citazioni in una maniera o nell’altra destinate a

ribadire sempre un medesimo concetto: il quale, in questo caso, va a collocarsi prepotentemente

accanto al precetto morale annunciato esplicitamente nel titolo del capitolo.

La tematica della conoscenza umana e dei suoi limiti ottiene però un’importante sostegno anche

da un afflato filosofico derivante dal pensiero di Socrate, Platone e Aristotele. Per quanto concerne

il primo dei tre, si sente con forza la presenza della più celebre tra le sue affermazioni201 nell’asserto

bartoliano secondo cui la massima scienza alla quale possiamo giungere è quella di saper dubitare e

di rendersi conto delle ragioni della propria ignoranza (X, II, 10). L’influsso di Platone è invece

riconoscibile nei riferimenti in questa sezione della Geografia alla teoria sul mondo delle idee: ad

essa infatti viene condotta facilmente la memoria del lettore quando Bartoli parla di Zeusi che

“diposto quel che havea di mortale” può “farsi innanzi alle pure Idee, e ricavarne le imagini più

perfette” (X, I, 1) e del “libro, ove tutta è in disegno l’originale idea di questo bell’Universo” (X, II,

10). Aristotele, infine, come abbiamo visto, è chiamato in causa esplicitamente in relazione al suo

leggendario e vano tentativo di spiegare le correnti dell’Euripo (X, III, 1). Senza voler penetrare

nell’ambito delle convinzioni filosofiche del gesuita ferrarese - impresa ardua, ove si voglia andare

oltre la fedeltà ai dettami dell’ortodossia cristiana, se si considera la promiscuità dottrinale alla

quale può portare il gusto per l’erudizione e gli accostamenti strabilianti di Bartoli - mi pare

interessante sottolineare qui come, al di là dell’ausilio prestato dalle fonti dichiarate, si possa a volte

riscontrare nella Geografia l’utilizzo di un panorama culturale più vasto, coinvolto attraverso una

serie di richiami meno immediatamente percepibili, ma che vanno comunque a rafforzare un

concetto base della trattazione. La filosofia, con le sue implicazioni epistemologiche e con la sua

etimologia di “amore del sapere”, evoca la questione della conoscenza ribadendone, ancora una

volta, la centralità.

Allontanandoci per ora dalla tematica dello scibile umano, possiamo considerare un altro

elemento culturale importante che emerge nel capitolo sulle correnti, cioè quello legato alle arti

200Di Seneca si è già parlato, in particolare analizzando la descrizione di Itaca. 201Secondo la tradizione, Socrate, dopo qualche peregrinazione alla ricerca di una spiegazione al responso oracolare secondo cui egli è il più saggio tra gli uomini, giunge alla conclusione che il significato dell’asserzione del dio di Delfi corrisponde a una lode a chi sa di non sapere (cfr. Platone, Apologia di Socrate, 20c-23b, traduzione italiana di Manara Valgimigli, in Opere complete, vol. I, Laterza, Roma-Bari, 1988).

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figurative. In un capitolo della Letteratura italiana laterziana, Alberto Asor Rosa afferma:

“Sappiamo che l’intreccio di gusto figurativo (sia plastico sia pittorico) e di gusto letterario è una

componente indissociabile del gusto del [diciassettesimo] secolo (si rammenti La galeria di G.B.

Marino)”.202 Per quanto riguarda l’interesse del gesuita ferrarese per la pittura, diversi sono gli

studiosi che si sono soffermati su una suggestiva testimonianza del suo amore per tale arte, ovvero

sulla sua celebre ed efficace descrizione del Martirio di San Lorenzo di Tiziano offerta nell’Uomo

al punto.203 Pure tra i brani della Geografia riportati nel presente lavoro troviamo alcune

manifestazioni di questo interesse: il riferimento all’opera dei primi “dipintori” nel capitolo sulle

isole Fortunate (I, II, 1), le critiche alle scarse capacità nel disegno dei cinesi (IV, III, 4) e il richiamo

alla figura di Zeusi nell’aprire la sezione sulle correnti (X, I, 1-2). Anche in relazione al mondo della

scultura si possono rintracciare un paio di esempi chiamanti in causa tale genere d’attività artistica:

uno nel capitolo consacrato a Itaca, dove si fa riferimento allo scultore Fidia (III, I, 3), e uno in

quello dedicato al monte Atlante, dove viene coinvolto il Colosso di Rodi (VI, 7). Andando al di là

degli aneddoti letterari su personaggi e situazioni legati al mondo delle arti figurative, uscendo in tal

modo da un ambito che nel suo relazionarsi alla pittura o alla scultura rimane pur sempre libresco, si

può tentare di vedere se dietro le descrizioni geografiche del gesuita ferrarese si nascondono statue o

dipinti veri e propri.204 Un’immagine nel capitolo sulle correnti che potrebbe derivare

dall’iconografia sacra medievale è quella della “Sapienza dell’Ingegnero” con il libro “ove tutta è in

disegno l’originale idea di questo bell’Universo” chiuso in seno (X, II, 10): tale immagine ricorda in

effetti le rappresentazioni, risalenti a epoche di scarsa alfabetizzazione, in cui si mostravano i libri -

oggetti magico-sacrali agli occhi delle masse d’illetterati - stretti rigidamente sul petto dei

personaggi raffigurati.205 Purtroppo non ho approfondito lo studio di questo genere di debiti

contratti da Bartoli, per cui non sono in grado di menzionare ulteriori esempi in tal senso: ritengo

202Asor Rosa, 1974: 298. 203Cfr. AA.VV., Trattatisti e narratori del Seicento, 1960, p. 492. Alberto Asor Rosa osserva, commentando tale passo, come si debba “notare che Bartoli, lettore di pittura, dimostra una così morbida e ardente sensibilità (non a caso, del resto, l’oggetto dell’ammirazione è Tiziano, e quel Tiziano), da farci meglio capire su quali basi di preparazione artistica in senso lato, oltre che strettamente letteraria, poggiasse la sua abilità di stilista” (1974: 298). Altri critici che hanno considerato tale passo bartoliano sono Mario Scotti (1969: 22-23), Antonio Di Grado (1992: 13) e Walter Moretti (in AA.VV., 1986: 68). 204Anche quando non si fondi su opere d’arte precise, sembra che il gesuita ferrarese si appropri di tecniche che in qualche modo sono debitrici del mondo pittorico. Secondo Mario Scotti (1969: 23), che trae l’ispirazione per queste affermazioni dalla descrizione bartoliana del Martirio di San Lorenzo, “la fantasia dello scrittore si muove spesso tra composizioni scenografiche ricche di spazio e di colori, ma sa talora dar vita a immagini il cui rilievo è affidato a un essenziale rapporto di luce e di ombra, in cui le figure balzano su sottolineate e incise in una prospettiva non staticamente composta, ma in una visione cinematica che ne altera il canone strettamente ideale”. 205Cfr. A. Petrucci, Il libro manoscritto, in Letteratura italiana Einaudi, Torino, Einaudi, 1983, vol. II, pp. 504-507.

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comunque che una ricerca riguardante i rapporti tra le pagine della Geografia e le arti figurative

potrebbe portare buoni frutti.206

Un’immagine che può riportare alla mente un’opera d’arte pittorica come La lezione di anatomia

del dottor Nicolaes Tulp di Rembrandt (1632) ci permette però di passare ad un altro elemento del

retroterra culturale della Geografia: la frase consacrata dal gesuita ferrarese alla scoperta della

circolazione sanguigna (X, VI, 2) fa in effetti emergere un interesse verso i recenti progressi

scientifici.207 Se il ricorso a rappresentazioni anatomiche, testimoniato anche nel Dialogo sopra i

due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei (1632),208 non doveva essere raro nella letteratura

secentesca e quindi potrebbe essere considerato un elemento topico d’una pagina di gusto

strettamente letterario, in generale la curiosità per la scienza di Bartoli - la cui prosa comunque

normalmente “non giunge alla legge del problema, ma solo alla fenomenologia delle sue ricorrenze

‘mirabili’”, collocandosi così tra tra quelle di coloro “che risolvono sempre la scienza in

‘spettacolo’, in collectanea rerum memorabilium” -209 è ben attestata da opere come La tensione e

la pressione disputanti qual di loro sostenga l’argento vivo ne’ cannelli dopo fattone il vuoto

(1977), Del suono, de’ tremori armonici e dell’udito (1679) e Del ghiaccio e della coagulazione

(1681). Lasciando qui da parte altre apparizioni di tematiche scientifiche nella Geografia, di cui si è

occupata in parte Krysia Binek,210 si può osservare come la questione della circolazione sanguigna,

oltre a farsi nuova certificazione di un generico moto intellettuale nell’opera bartoliana verso le

meraviglie della scienza, assume nel capitolo sulle correnti, dati i suoi contenuti fortemente correlati

a problemi cognitivi, un significato particolare, situandosi all’interno di una struttura retta in gran

parte da considerazioni sui pregi e i limiti delle indagini degli uomini.

Un altro elemento importante alla base della Geografia e che ancora una volta può essere legato,

per quanto concerne il capitolo sulle correnti, a una riflessione sullo scibile umano è quello dei

riferimenti religiosi. Nonostante la Bibbia non sia mai citata esplicitamente, mentre si lascia poco

spazio a testi religiosi di matrice cristiana, si possono rilevare nei brani riportati in queste pagine, al

206Oltre a individuare i debiti verso la pittura e la scultura, potrebbe essere interessante vedere se anche l’architettura fornisca spunti alla prosa della Geografia. Un indizio del fatto che Bartoli possa essersi mosso anche in questa direzione potrebbe trovarsi nelle diverse citazioni da Vitruvio, autore sul quale ci soffermeremo brevemente nel prossimo capitolo. Che in altre opere il gesuita ferrarese abbia fatto utilizzo di un linguaggio legato all’architettura è in ogni caso mostrato in un articolo di Bruno Basile (1989: 106-107). 207A questo aspetto della personalità del gesuita ferrarese si sono dedicati Bruno Basile (1989: 103-121), Giovanni Baffetti (1998: 219-233) e Maria Luisa Altieri Biagi (1980: pp. LXIV-LXVI e 1187-1188). 208Per la precisione all’inizio della seconda giornata, Sagredo racconta l’episodio di un filosofo peripatetico che, pur avendo visto con i propri occhi demolita la tesi aristotelica sul sistema nervoso umano, risponde a chi aveva cercato di convincerlo attraverso la dissezione di come i nervi partissero dal cervello: “Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera” (G. Galilei, Dialogo dei Massimi Sistemi, Milano, Mondadori, 2004, p. 115). 209Altieri Biagi, 1980: 1188.

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di là dei precetti morali conformi alla dottrina cattolica, alcuni passaggi che rinviano quanto meno a

immagini tipiche delle sacre scritture, per esempio dove si parla di incendi tormentatori (II, III, 2), di

crocifissioni (II, III, 3), di lapidazioni (id.), di miracoli (VI, 6; X, II, 1; X, III, 2; X, IV, 5), del paradiso

terrestre (IX, I, 1) e del suo primo abitante umano (IX, I, 2).211 Nel brano che stiamo analizzando

assume però particolare significato il riferimento alla “Sapienza Ingegnera, e fabricatrice di questo

così ben inteso lavorio dell’Universo” (X, II, 2), dove è suggerito un rimando ai libri sapienziali

dell’Antico Testamento, i quali in alcune loro sezioni trattano proprio di questioni cognitive centrali

nella sezione introduttiva del capitolo della Geografia sulle correnti: si pensi per esempio al passo

della Sapienza in cui un fittizio re Salomone, lasciando implicitamente intendere come soltanto il

volere divino possa permettere ai mortali di conoscere “tutto ciò che è nascosto e tutto ciò che è

palese” (7, 21), afferma che Dio gli ha “concesso la conoscenza infallibile delle cose, / per

comprender la struttura del mondo e la forza degli elementi” (7, 17); oppure si ricordino gli asserti

sulla vanità della scienza e della sapienza contenuti nell’Ecclesiaste (1, 12-18; 2, 12-26).212 Alla

luce di quanto osservato in questi ultimi paragrafi, si può quindi trovare ulteriore conferma di come,

anche quando si sposti la propria attenzione su elementi eterogenei del background culturale della

Geografia, Bartoli manifesti una notevole capacità di far convergere materiali molto diversi tra loro

verso un unico obiettivo fondamentale.

Un ultimo problema che vorrei trattare traendo spunto da questa sezione sulle correnti

ingrandisce la portata dei legami che si instaurano tra parti diverse della Geografia, rendendone più

omogenee - al di là del meccanismo comune posto a fondamento d’ogni capitolo - le pagine prese

nel loro insieme malgrado la loro grande varietà in ambito di forme, contenuti e citazioni.

Considerando in primo luogo gli argomenti toccati nei vari brani bartoliani riportati nel presente

lavoro, un dato immediatamente evidente, che si spiega con tutta probabilità tenendo presente la

biografia del gesuita ferrarese e l’unico evento avventuroso che in essa ha trovato posto,213 è il

frequente ritorno della rappresentazione di mari tempestosi o difficilmente navigabili, che

210Binek, 1974: 51-58 e 78-93. 211Non sarà poi da dimenticare il significato religioso che possono assumere nella Geografia due capitoli come quello sul Mar Morto e quello sulla Terra Santa, non analizzati in queste pagine, che come si vede nell’indice riportato qui in appendice sono posti a chiusura del libro. 212Che la “Sapienza Ingegnera” (X, II, 2) abbia uno sfondo fortemente legato al mondo cristiano mi pare confermato dalla successiva menzione della “Sapienza dell’Ingegnero” (X, II, 10) che è connessa a un’immagine forse proveniente, come si è visto, dall’inconografia religiosa medievale. 213Scrive Marino Biondi a proposito del nostro autore che, “all’origine del suo talento di scrittore di tempeste e naufragi, sta un episodio di vita vissuta, il naufragio al largo di Capri della galea maltese sulla quale viaggiava da Napoli a Palermo nel gennaio 1646, descritta in una lettera del 17 febbraio 1657, da cui salvò prima la vita, quindi le carte della predicazione, esperienza tradotta subito in esemplare di provvidenza che lo restituisce al popolo delle chiese reduce dal fondo del mare ‘come un Giona’” (1994: 26).

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ovviamente non manca in un capitolo consacrato a movimenti di masse idriche.214 Altri elementi

reiterati da Bartoli nel suo periodare mescolano invece il piano contenutistico e quello formale:

paragonando un paragrafo sulle isole Fortunate con un altro dedicato alle correnti si troverà, per

esempio, che in parallelo alle “ingannate madri Troiane” e all’“incognito oceano” menzionati nel

primo caso (I, I, 2 e 5) si trovano, nel secondo, un “ingannato suo legno” e di nuovo un “incognito

[...] oceano” (X, IV, 3 e 4); sempre restando nella sezione sulle correnti, si può notare poi come nel

soffermarsi sulla circolazione sanguigna il gesuita ferrarese parli di “cateratte” e di sangue che “a

schizzi s’imbocca” (X, vi, 2), utilizzando una terminologia molto simile a quella di cui si era servito

per parlare delle cascate del Nilo, altre “Cateratte” (VII, 4) che sboccano da una spaccatura di rocce

montane (VII, 1) e gettano “sprazzi” (VII, 4); ancora più vicine alle cascate africane sono però

proprio le correnti marine, visto che se nelle prime quello del fiume “non è correre, è precipitare”

(VII, 1), per certi flussi d’acqua oceanici “’l dir corrono è poco; rovinano sì, che non v’è torrente

che giù da qualunque sia grand’erta di montagna precipiti, con gagliardia d’impeto, e foga pari al

furioso andar di queste acque mobili fra le quiete” (X, iii, 4), dove il paragone con un’ipotetica

cascata non fa che rafforzare il legame tra i due passi della Geografia - legame ancor più consistente

se si pensa che già nella sezione sulle cateratte del Nilo si parlava di acque adirate (VII, 1) e di altre

tranquille (VII, 2). Non credo sia il caso di estendere tediosamente l’elenco dei casi dove pagine

differenti della Geografia presentano passaggi dalle caratteristiche più o meno simili: quel che

importa qui è osservare come i diversi capitoli dell’opera sembrino attingere, almeno in parte, da un

fondo comune di immagini e di formulazioni. Se non sarebbe sforzo da poco cercare di stabilire un

collegamento tra tale fondo e determinate fonti, si può comunque supporre certi elementi reiterati da

Bartoli derivare dalla suggestione delle letture di Bartoli, anche quando queste ultime fossero assai

discoste dall’oggetto trattato nella porzione di testo sulla quale hanno agito. Sulla base di questa

ipotesi è poi possibile congetturare l’esistenza di un nucleo forte all’interno del retroterra culturale

della Geografia e capace, omogeneizzandolo fino a un certo punto nella sua globalità, di rendere il

libro più consono al modello d’un insieme armonico e uniformemente ispirato.

XV. Mitilene

I. 1Nobile accoglimento è questo che ci si fa al primo metter piede in terra, su’l porto

Settentrionale di questa pregiatissima Mitilene di Lesbo. 2Tre grandi huomini, un Romano, e due Greci, ciascun d’essi nelle diverse loro professioni eccellenti, Strabone Geografo, Plutarco Filosofo, Vitruvio Architetto, come già sapesser di noi, e qui ne attendessero la venuta, ci si fanno incontro, caramente c’invitano a seguitarli, e mostreranci quel che ognun d’essi indovina

214Al di fuori del capitolo sulle correnti, questo genere di immagini si trova nei seguenti passi: I, I, 1; I, I, 7; IV, I, 1; V, 1; V, 5; V, 6; VI, 2.

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dover’essere più in grado a un curioso paio di forestieri. 3a Strabone primieramente, ci dà a vedere la famosa, non so qual più, Reggia, o Accademia di Pittaco, un de’ sette Savi del Mondo, che qui nacque, qui filosofò, qui fu Re: fin che non patendogli il cuore che la patria statagli madre, gli fosse serva, coronò lei Reina, e sè incatenò all’ubbidienza di schiavo. 4Poi, il solitario, e riverito habituro d’Alceo il Lirico dal sollevato stile, e con un dir brieve, nondimeno facondo. 5Per ultimo, i delitiosi giardini di quella tanto rinomata Saffo Poetessa, degna di contarsi la decima fra le Muse, tanto sol ch’ella fosse, non vo’ dir vergine, ma pudica. 5b Plutarco, un solo edificio ce ne mostra, il Teatro de’ solenni spettacoli, ma egli di tanta insieme bellezza, e maestà, che questa gran Mitilene, che per la sontuosità de’ palagi sembra tutta essere un Teatro, non vede spettacolo più degno del suo stesso Teatro: adoperato poi, non alle rabbiose cacce delle fiere selvagge, nè alle mortali zuffe de’ duellanti, cosa da boschi, e da macelli, ma alle innocenti gare d’Historici, d’Oratori, di Poeti, d’ogni altra maniera di Letterati, fior d’ingegno, che da tutta Lesbo vi concorrono alla gloria del vincere in più sapere. 6Pompeo il Grande v’udì celebrar le sue lodi da un choro di famosi Poeti, che ne cantarono a pruova: e tanto si compiacque di sè, vedutosi comparir Grande anco in così gran Teatro, che rapportatolo in disegno, come degno di sè, un simile ne fabricò in Roma e dedicollo all’immortalità del suo nome. II. 1c Seguiam hora Vitruvio: avvegnaché egli a niun determinato luogo ci guidi, e quel ch’è più strano, con havervi tanto che vedere in opere di mirabile architettura, ch’è il suo mestiere, di niuna fa motto, ma solo innanzi a qualunque casa passiamo, ci fa tener l’orecchio attento a udirne d’entro, un tossir disperato, un spurgare a gran forza, e a gran pena; e parlando, tutte le voci fioche, peroché anco i giovani son rantolosi. 2Domin, che sarà questo? Un così gran popolo, accordarsi ad imbolsire tutti insieme in un dì? 3Ma se ciò vi cagiona stupore, dalla presente maraviglia vi trahe Vitruvio, mettendovi in un’altra maggiore. 4Hor se vedeste (dice egli) ciò che avviene assai delle volte infra l’anno, tutta in un dì questa medesima gran Mitilene divenire uno Spedale, con tanti infermi quanti vi sono habitatori: indi a poco più che il dì appresso, i medesimi tutti sani, di bel colore, e in buone forze, tornarsene a ripigliare le intramesse faccende! de’ quali tutti strani accidenti una medesima è la cagione. 5d *In Insula Lesbo, oppidum Mitylene magnificenter est aedificatum, & eleganter; sed POSITUM NON PRUDENTER. 6In qua civitate, Auster cum flat, homines aegrotant: cum Caurus, tussiunt: cum Septentrio, restituuntur ad sanitatem: sed in angiportis, & plateis non possunt consistere, propter vehementiam frigoris. 7Eccovi quanto fa la sciocca elettione d’un posto statuitosi a mettervi casa, e menar sua vita, pagandone un gran fitto di guai, per sino alla morte: conciosiaché il lasciarlo a chi già v’ha messe le fondamenta, sia difficile, quanto l’emendarlo ch’è del tutto impossibile. 8Hor non vi par’egli che questa Mitilene sia degna, che in lei si riscontri la somigliante stupidità, di quegli che fanno appunto quel che disse il Poeta, Vommene in guisa d’orbo senza luce, Che non sa ove si vada, e pur si parte?e 9Io vo’ dire, che tutto alla cieca si gittano ad eleggere un durevole stato di vita, senza nulla prima discutere la natura, e le conditioni d’esso, e del bene, e del male ch’è ragionevole aspettarne, far seco una diligente comparatione.

[Geografia, pp. 234-236]

Gli autori citati esplicitamente nella descrizione di Mitilene sono tre, “Strabone Geografo,

Plutarco Filosofo, Vitruvio Architetto” (XV, I, 2), ai quale si aggiunge Petrarca, definito

genericamente “il Poeta” e dai cui Rerum vulgarium fragmenta son ripresi alla lettera due versi

(XV, II, 8). Questo capitolo è costruito in modo un po’ diverso rispetto agli altri esaminati nel

a Nota della Geografia: “Geogr.lib.13.” (Strabone, Geografia, XIII, II, 3). b Nota della Geografia: “In vita Pomp.” (Plutarco, Vita di Pompeo, XLII). c Nota della Geografia: “Lib.1.c.6.” (Vitruvio, De architectura, I, VI, 1). d Nota della Geografia: “Ibid.” (Vitruvio, De architectura, I, VI, 1).

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presente lavoro: invece di seguire come al solito una fonte principale, alla quale vengono poi

integrate informazioni provenienti da altri testi per completarne le notizie, oppure per indirizzare la

rappresentazione verso un obiettivo funzionale a determinati intenti, o ancora al fine di impreziosire

la pagina con versi sostanzialmente decorativi, il gesuita ferrarese in questo caso - distanziandosi

pure dalla tecnica cumulativa delle citazioni a grappolo - sceglie tre fonti distinte, espone quanto

queste dicono del capoluogo di Lesbo e sfrutta l’ultima (il De architectura di Vitruvio - su Petrarca

andrà fatto un discorso separato) traendone lo spunto per una nuova riflessione morale, attraverso la

quale potrà rendere attento il lettore su come una “stolta elettione di vita” possa essere “materia di

pentimento per tutta la vita” (p. 234). Nel riprendere i dati forniti dalle sue fonti Bartoli - seguendo

un meccanismo già visto nel capitolo sulle cascate del Nilo - procede inoltre a un mutamento di

prospettiva rispetto ai testi sui quali si fonda: Strabone, Plutarco e Vitruvio sono infatti presentati

nella Geografia alla stregua di personaggi le cui vesti sono quelle di guide che conducono il lettore,

attraverso una visita virtuale finalizzata all’istituzione d’un maggiore coinvolgimento, per le strade

di Mitilene, mostrandogli alcuni tra i suoi tratti più mirabili o caratteristici.

Il primo nome chiamato in causa da Bartoli per presentare alcune meraviglie di Mitilene (XV, I,

3-4) è quello del greco Strabone, autore - malgrado i buoni presupposti derivanti dai contenuti della

sua opera - poco utilizzato nella Geografia trasportata al morale,215 che nella propria Geografia216

consacra alcune pagine del tredicesimo libro a Lesbo e al maggiore tra i centri abitati di quest’isola.

Nel riprendere alcune notizie provenienti dal testo dello scrittore pontico, il gesuita ferrarese fa

nuovamente ricorso, con tutta probabilità per motivi eminentemente estetici, all’amplificazione:

parlando di Pittaco, egli segue Strabone (Geografia, XIII, II, 3) nel dire che questi era uno dei Sette

Savi e che fu re per qualche tempo - fino a quando non restituì alla città la sua indipendenza -,217 ma

vi aggiunge colore coinvolgendo i sentimenti del personaggio per la propria patria (XV, I, 3);218

riferendosi al poeta Alceo, Bartoli è con il geografo pontico (Geografia, XIII, II, 3) nel ritenerlo tra

gli uomini artefici dello splendore del capoluogo di Lesbo e somma però a tale pregio una lode più

precisa per il suo “sollevato stile” e il suo “dir brieve” e contemporaneamente “facondo” (XV, I, 4);

a proposito di Saffo, infine, che dall’autore della Geografia greca era definita “meravigliosa” e

e Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, XVIII, 7-8. 215Nelle note della Geografia Strabone compare solo tre volte (pp. 234, 334, 473). Ci siamo già soffermati su questo celebre greco nel capitolo sul Mongibello, quando si è fatta una digressone sulla sezione introduttiva del capitolo sulle Termopili. 216Per aggirare la grecità di tale testo mi fondo sulla traduzione inglese di Horace Leonard Jones (The Geography of

Strabo, vol. VI, 1970, pp. 138-145). 217Manca in Bartoli rispetto a Strabone la notizia secondo cui Pittaco accettò il ruolo di monarca al fine di rovesciare gli oligarchi (cfr. Strabone, Geografia, XIII, II, 3).

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insuperabile nell’arte poetica da qualsivoglia donna di cui si abbia avuto notizia (Geografia, XIII, II,

3), il gesuita ferrarese si mantiene nei toni d’uno sperticato elogio, spingendosi addirittura fino a

paragonarla a creature sovrannaturali come le figlie di Zeus e Mnemosine (XV, I, 5). Un’altra

importante aggiunta di Bartoli rispetto al testo Strabone sta nella menzione della reggia di Pittaco,

della casa di Alceo e dei giardini di Saffo: in questo caso l’idea del gesuita era quella di rafforzare,

col rappresentare una serie di concreti elementi urbani, la finzione della passeggiata a Mitilene.

L’aiuto di Plutarco219 serve a Bartoli per presentare il grande teatro del capoluogo lesbico (XV, I,

5-6). Nella sua Vita di Pompeo (XLII)220 il filosofo di Cheronea spiega come il generale romano

apprezzò il teatro di Mitilene, dove potè ammirare alcuni spettacoli a sé dedicati, e decise che se ne

doveva costruire uno simile, seppure di maggior grandezza e splendore, a Roma. Ancora una volta il

gesuita ferrarese, oltre a servirsi dell’autore dell’opera su cui si fonda inserendolo nella Geografia

nel ruolo di guida turistica, si impossessa delle notizie fornite dalla sua fonte e le modifica per

amplificazione, col “dilatare in ampiezza e in intensità [...] la materia”221 che si trova per le mani:

quanto in Plutarco era espresso con poche parole viene in pratica sviluppato nella Geografia in due

frasi occupanti quasi mezzo paragrafo, lungo il quale la magnificenza del teatro di Mitilene è

esaltata attraverso un paragone che la vuole superiore a quella dell’insieme degli altri sontuosi

palazzi della città, ma non tanto degna quanto le esibizioni ivi rappresentate le quali, al posto dei

soliti spettacoli cruenti, propongono “innocenti gare d’Historici, d’Oratori, di Poeti, d’ogni altra

maniera di Letterati, fior d’ingegno” (XV, I, 5). Per quanto riguarda le reazioni di Pompeo di fronte

allo spettacolo di tale teatro e delle sue offerte artistiche, Bartoli anima i dati portati dal filosofo di

Cheronea rappresentando le sue reazioni e i suoi sentimenti in maniera meno laconica è più viva.

Dopo aver descritto Mitilene come una città ricca di tesori, il gesuita ferrarese si serve delle

parole e della figura di Vitruvio - la cui presenza in più punti della Geografia222 potrebbe essere

legata a un certo interesse per l’architettura223 o al ruolo di tale arte nella concezione bartoliana della

scienza consacrata alla descrizione della Terra -224 per opporre allo splendore le conseguenze

negative di una situazione che alla sontuosità dei palazzi lesbici fa da base (XV, II, 1-6). In questo

caso, oltre ad aggiunte analoghe a quelle già viste per Starbone e per Plutarco, cioè all’inserimento

218A questo scopo il gesuita ferrarese utilizza nel proprio testo termini come “cuore”, “madre” o “patria”, inserendo poi un riferimento alla disponibilità di Pittaco al sacrificio per la sua Mitilene asserendo che egli si “incatenò all’ubbidienza di schiavo” (XV, I, 3). 219Ci siamo soffermati brevemente su questo autore nel capitolo consacrato a Itaca. 220Per avvicinare il contenuto di quest’opera mi fondo sulla traduzione inglese di Bernadotte Perrin (cfr. Plutarch’s

Lives, vol. V, 1968, pp. 222-227). 221Garavelli Mortara, 1998: 109. 222Vitruvio e il suo De architectura sono presenti in otto note della Geografia (pp. 38, 56, 58, 235, 236, 301, 317, 466). 223Come si è visto a proposito del capitolo sulle correnti, Bartoli nutre un certo interesse per le arti figurative, accanto al quale si può presumibilmente collocare anche una certa attrattiva esercitata su di lui dalle bellezze architettoniche.

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all’interno della Geografia dell’autore citato nella posizione di personaggio e a una certa coloritura

dei dati rispetto a come eran presentati nella fonte, Bartoli riporta letteralmente (XV, II, 5-6) il passo

in cui l’architetto latino parla di Mitilene (De architectura, I, VI, 1).225 Se a proposito della ripresa

letterale non ritengo ci sia molto da dire, se non notando come probabilmente essa sia da

interpretarsi in relazione al desiderio di affidarsi direttamente alla voce dell’autore chiamato in

causa e, inoltre, di ribadire un concetto già presentato con altre parole, diverse osservazioni possono

essere sviluppate partendo dalle frasi in cui il gesuita ferrarese mostra con parole proprie i guai

derivanti dal cattivo orientamento delle vie nel capoluogo lesbico (XV, II, 1-4). In primo luogo si

può notare come l’opposizione tra lo splendore e i problemi di Mitilene, utile nella Geografia per il

suo far meglio risaltare il dato negativo che permetterà lo sbocco a una nuova riflessione morale, era

già presente in Vitruvio, visto che questi, prima di presentare le conseguenze dei vari venti sulla

salute dei cittadini, spiega come “Mytilenae magnificenter est aedificatum et eleganter” (De

architectura, I, VI, 1): in modo analogo a quanto accadeva in altri casi visti precedentemente,

quindi, Bartoli sfrutta un espediente derivato dalla sua fonte. L’importanza per l’economia del

discorso della situazione mostrata da Vitruvio spiega poi lo spazio concesso dal gesuita ferrarese

all’accrescimento delle notizie derivate dal De architectura: l’autore della Geografia non si limita

infatti a circostanziare la descrizione dei problemi di salute degli abitanti di Mitilene, ma immagina

pure l’atteggiamento dell’architetto latino nel percorrere le vie della città (XV, II, 1) e cerca di

alimentare lo stupore dei lettori col chiedersi esplicitamente, di fronte ai mali che ammorbano un

luogo tanto mirabile, “Domin, che sarà questo? Un così gran popolo, accordarsi ad imbolsire tutti

insieme in un dì?” (XV, II, 2), per poi acuire ulteriormente il senso di meraviglia presentando come

ancor più sbalorditivo, in una sorta di escalation dello sbigottimento, il fatto che la situazione

sanitaria della città greca possa mutare sensibilmente più volte l’anno (XV, II, 3-4). Nonostante lo

sfruttamento essenzialmente giustappositivo delle fonti classiche esplicitate nella sezione

introduttiva del capitolo su Mitilene, è facile notare come anche qui un testo venga a prevalere sugli

altri, sia dal punto di vista funzionale che da quello formale, generando ancora una volta una

gerarchia dei debiti.

Dopo gli autori greci e latini, il gesuita ferrarese (XV, II, 8) riprende due versi d’un sonetto

petrarchesco, “vommene in guisa d’orbo, senza luce, / che non sa ove si vada et pur si parte”

(Rerum vulgarium fragmenta, XVIII, 7-8), attribuendolo antonomasticamente al “Poeta” (XV, II, 8).

224Cfr. Faggi, 1930, vol. I: IX. 225Rispetto al testo stabilito da Philippe Fleury (cfr. Vitruve, De l’architecture, livre I, 1990, pp. 31-32), escludendo la punteggiatura, l’uso delle maiuscole e di simboli grafici come “&”, nella lezione riportata dal gesuita ferrarese ci sono due differenze dipendenti dal volume che questi utilizzava: un “Caurus” (XV, II, 6) al posto di “chorus” e un “sanitatem” (id.) invece di “salubritatem”.

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Petrarca, sebbene secondo Steno Vazzana sia citato da Bartoli molto più frequentemente di

Dante,226 è poco presente tra le pagine della Geografia,227 forse perché, con la sua lingua fondata su

un vocabolario elitario composto principalmente da un numero limitato di parole privilegiate, non

asseconda i gusti del gesuita, fautore d’un’opera caratterizzata da una notevole ricchezza e varietà

terminologica. Nel diciottesimo sonetto del Canzoniere troviamo però, grazie al suo fondarsi

sull’uso della rima equivoca, una costruzione abbastanza complicata da poter attirare la curiosità

d’uno scrittore barocco: da questa circostanza si può supporre dipenda la scelta bartoliana di

inserirne un estratto nel sezione introduttiva consacrata a Mitilene. Per il resto, considerando i

contenuti assai diversi del componimento petrarchesco e del capitolo della Geografia, dove solo la

comune possibilità di riferirsi attraverso una similitudine all’andatura d’un cieco perdutosi permette

l’utilizzo dei medesimi endecasillabi, ritengo la ripresa dai Rerum vulgarium fragmenta un nuovo

esempio di citazione che vuol essere una mera decorazione artistica, secondo quel tipo d’impiego

visto in particolare considerando la ripresa d’un passo dantesco nel capitolo sul Mongibello.

Conclusioni

Nella sua introduzione al volume Istoria della Compagnia di Gesù. Dell’Italia, Marino Biondi

dice:

Conformista nei contenuti di pensiero, il Bartoli mantiene mano libera nell’anticonformismo delle forme, contro il proibizionismo dei grammatici e il purismo grammaticale, morfologico e lessicografico. Non sopporta che le bellezze della lingua siano codificate una volta per tutte dai grammatici pedanti, dai teologi del linguaggio [...].228

Leggendo i passaggi della Geografia riportati nel presente lavoro, si può notare come anche a

livello retorico il gesuita ferrarese si faccia promotore della varietà, di modo che leggendo le pagine

delle sue opere si potrà apprezzare la sfilata di una moltitudine di procedimenti stilistici. All’interno

di questo assortimento è tuttavia possibile reperire, come si è visto esaminando l’utilizzo delle fonti

nelle sezioni introduttive che abbiamo considerato, alcuni espedienti che, per la frequenza con cui

compaiono, assumono una certa rilevanza: tra questi saranno senz’altro da indicare le similitudini -

accanto alle quali vanno tenuti presenti gli exempla e le altre analogie di vario genere -, la cui

importanza è da legare alla natura stessa della Geografia, dove proprio attraverso meccanismi

fondati sulle affinità tra oggetti diversi viene costruita la struttura portante dell’opera;229 vi sono poi

226“D[ante], sebbene detto impareggiabile per virtù della lingua, non sta [...] in testa nella frequenza delle citazioni, lasciato indietro di lungo tratto da Petrarca, Boccaccio e Villani” (Vazzana, 1970: 524). 227Una volta soltanto in nota, a pagina 19. 228Biondi, 1994: 69. 229Sulle similitudini ci siamo soffermati in particolare nel capitolo sulle isole Fortunate, mentre degli exempla si è parlato esaminando la descrizione della Cina.

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le numerose personificazioni, atte con l’animazione che ne consegue a vivacizzare materie

altrimenti più o meno inerti, e capaci quindi di aumentare la spettacolarità dei paesaggi

rappresentati;230 si trovano inoltre molti casi di amplificazione, un procedimento retorico utile al

gesuita ferrarese per sviluppare le notizie prelevate dalle sue fonti in modo da renderle più

soddisfacenti dal punto di vista estetico e, a livello contenutistico, più congrue allo svolgimento di

un determinato discorso;231 abbiamo infine l’esteriorizzazione dei paesaggi rappresentati nella

Geografia, grazie alla quale “Bartoli proietta davanti a sé l’oggetto della sua osservazione”232 e il

lettore si trova a poter essere immerso con l’immaginazione nello scenario descritto.233

Prendendo in considerazione direttamente l’utilizzo delle fonti nella Geografia, invece, si

possono notare diversi elementi che, ancora una volta per l’intensità con cui essi figurano tra le

pagine studiate nel presente lavoro, vengono a costituire aspetti tipici del modo d’operare del

gesuita ferrarese. Il primo tra questi elementi è legato all’influenza delle fonti sugli aspetti formali

del periodare bartoliano: conseguenza logica quando si segua un testo per attingervi informazioni

utili per sviluppare uno scritto proprio, ma che testimonia pure la profondità con la quale il gesuita

ferrarese ha assorbito la cultura procuratagli dai suoi studi.234 Un altro aspetto caratteristico nella

costruzione della Geografia è l’utilizzo, per il prelievo delle notizie fondamentali per una

determinata sezione introduttiva, di una fonte principale alla quale vengono accostati altri testi

secondari per completare le informazioni o, a volte, semplicemente per ragioni stilistiche.235 In altri

casi invece Bartoli usa diverse citazioni relative a una medesimo dato per sottolineare meglio

quanto gli sta a cuore in quel momento,236 oppure si serve di diversi spunti culturali differenti per

incanalarli in una certa direzione e far emergere così una questione basilare secondo le sue

convinzioni etiche.237 Un ultimo elemento tipico da menzionare sulle citazioni nella Geografia

concerne l’utilizzo di uno spunto letterario identificabile come base del legame che viene poi

instaurato tra descrizione geografica e riflessione morale: in molti casi infatti è facile notare come,

più delle caratteristiche fisiche di un paesaggio, sia stato un preciso aneddoto riportato in una certa

opera a fungere da trampolino di lancio per il trattamento di un tema, di modo che a volte le

230La presenza di personificazioni nella Geografia è stata affrontata soprattutto nell’avvicinare la rappresentazione bartoliana del monte Atlante. 231La dilatazione in ampiezza e in intensità (cfr. Garavelli Mortara, 1998: 109) delle notizie che Bartoli preleva da altre opere è stata considerata nel presente lavoro in molteplici occasioni, prima tra le quali è quella relativa al debito con la Storia varia di Eliano nel capitolo sulle isole Fortunate. 232Garavelli Mortara, 1965: 130. 233Su questo fenomeno ci siamo soffermati nel capitolo sulle cascate del Nilo. 234Casi di questo genere di influenze sono reperibili, per esempio, nei capitolo dedicati al Mongibello e alla Cina. 235Abbiamo parlato di questo aspetto del modo di lavorare del gesuita ferrarese nella digressione sulle Termopili all’interno del capitolo sul Mongibello. Si possono comunque trovare situazioni, come si è visto parlando di Mitilene, dove diverse fonti vengono giustapposte e la preminenza di una di esse sulle altre non è così schiacciante. 236Come nel caso delle citazioni a grappolo che si trovano nella descrizione di Itaca.

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considerazioni svolte dal gesuita ferrarese possono addirittura dipendere da una notizia la cui

importanza è tutto sommato molto relativa rispetto alle peculiarità del luogo rappresentato.238

Si può a questo punto vedere di accostare l’utilizzo delle fonti e lo sfruttamento di determinati

procedimenti retorici - che comunque in queste pagine sono stati studiati proprio in relazioni alle

citazioni presenti nella Geografia - per sottolineare le due vie maestre percorse da Bartoli nel

complesso di tali ambiti. Da una parte è evidente come le ragioni estetiche (sia per quanto concerne

il contenuto, tenendo conto di come viene data senz’altro una preferenza alle notizie rispondenti a

un gusto per il “meraviglioso”, che in relazione alle forme) abbiano un ruolo di notevole importanza

per la genesi degli scritti del gesuita ferrarese: i testi citati riportano frequentemente informazioni

già di per se stesse eccezionali, ma Bartoli non rinuncia di solito ad amplificare e ad animare

ulteriormente tali dati al fine di dar vita a rappresentazioni ancora più spettacolari, al fine di

coinvolgere il lettore in un universo il cui tratto maggiormente caratteristico sia la straordinarietà.

L’utilizzo delle fonti e delle figure retoriche ad esse applicate, però, risponde solitamente anche a

questioni collegate agli obiettivi didattici della Geografia: quest’opera rimane pur sempre un testo

che vuole portare ai suoi fruitori una serie di insegnamenti morali, a sostegno dei quali il gesuita

ferrarese mette in moto un retroterra culturale i cui contenuti sono modellati con sapiente abilità

stilistica perché possano meglio soddisfare le esigenze tematiche più profonde alle quali l’autore li

ha destinati.

237Si è vista una situazione del genere nella sezione introduttiva al capitolo sulle correnti. 238Ci siamo soffermati su questo aspetto del modo di lavorare di Bartoli nel capitolo consacrato al monte Atlante.

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Appendice - Indice della Geografia

Si riportano qui gli indici della Geografia presenti nell’editio princeps del 1664.239 In essi, che

non menzionano l’Introduttione, sono elencati i titoli completi dei capitoli di tre parti dell’opera,

anche se soltanto la prima parte della Geografia è stata poi veramente realizzata.

INDICE Della prima parte.

I. L’ISOLE FORTUNATE. Le speranze di Corte. [1-19] II. MONGIBELLO. L’Infamia, freno alla licenza de’ Grandi. [20-32] III. ITACA. La soave violenza del Genio. [33-42] IV. LA CINA. La cecità del non conoscere sè stesso. [43-62] V. IL CAPO NON. Contro alle brutte domande, un bel Nò per risposta. [63-79] VI. L’ATLANTE. Grandi spalle convenirsi a gran carichi. [80-96] VII. LE CATERATTE DEL NILO. Proprietà de’ gran parlatori, assordare chi gli ode, o far fuggire per non udirli. [97-107] VIII. LE CAMPAGNE D’URABA. La vita lunga esser brieve a chi non fa altro che vivere, la brieve farsi lunga coll’operare. [108-122] IX. ZEILAN. Huomini, tutto il cui buono sta nella scorza. [123-140] X. LE CORRENTI. Lasciarsi torre giu di strada, e darsi a portare alla pazza opinione del Volgo. [141-155] XI. L’ULTIMA THULE. I Mali della mala Solitudine, i Beni del ben Conversare. [156-173] XII. CAPO DI BUONA SPERANZA. Il male Antiveduto è mezzo vinto: l’Improvviso, ha mezzo vinto. [174-192] XIII. LE STROFADI. La Giustitia fatta servire all’Avaritia. [193-211] XIV. LA MADERA. Come si possa rinascere di sè stesso, migliore di quel che si è nato. [212-233] XV. MITILENE. Una stolta elettione di vita, materia di pentimento per tutta la vita. [234-247] XVI. CAPRI. La vita de’ Grandi, perche son grandi, non potersi nascondere. [248-258]

239Nel primo indice, i numeri tra parentesi quadre si riferiscono alle pagine occupate dai capitoli nella princeps. I corsivi e le maiuscole rispettano la grafia com’è nella stessa edizione.

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XVII. LE MOLUCHE. Certi huomini alla Filosofica; niente belli al vederli, tutto buoni al provarli. [259-273] XVIII. IL PROMONTORIO CAFAREO. Il rompere de’ Grandi all’Adulatione, scoglio sott’acqua. [274-294] XIX. GLI ANTIPODI. I capovolti, nel procedere al rovescio, e sentire al contrario de gli altri. [295-305] XX. RODI. Il valore dell’animo tronfante nelle sue perdite. [306-320] XXI. IL MAR GELATO. Il Timor savio, e la pazza Timidità. [321-332] XXII. LE TERMOPILE. I Vizi tutti insieme invincibili, vincersi combattuti a un per uno. [333-350] XXIII. LA TESSAGLIA. I mezzi huomini, e mezzi bestie. [351-363] XXIV. LA LIBIA DISERTA. Chi è diserto, e non si guida colle stelle, è perduto. [364-376] XXV. ANTICIRA. Una savia ammonitione data a tempo, torna savio un pazzo. [377-394] XXVI. TERRA INCOGNITA. I sempre Morti nella dimenticanza: I sempre Vivi nella gloria. [395-410] XXVII. IL LAGO AVERNO. Il pestifero fiato d’una Bocca maledica. [411-425] XXVIII. SCILLA, E CARIDDI. La disperatione, consigliera di fuggire da un mal minore gittandosi in un maggiore. [426-436] XXIX. IL MAR MORTO. La nobiltà del sangue perduta nell’Ignobilità de’ costumi. [437-450] XXX. TERRA SANTA. Farsi la propria casa una Terra santa. [451-476]

INDICE Della seconda parte.

I. Malta. Un Cuore senza veleno: una Lingua contra veleno. II. Il Mondo nuovo. Uno val per mille, mille non vaglion per uno. III. Le sette Eolie, isole de’ Venti. La Reputatione bene o male usata, mena chi a perdersi, chi a

salvare. IV. La Linea de’ conquisti tirata da Alessandro IV. La Ragione dee porre alcun termine a’ desiderij. V. La Scithia vagabonda fu i carri. Farsi da sè medesimo la fortuna. VI. L’Isoletta Ormuz scala di tutto l’Oriente. Conoscere a che vale un huomo, e valersene. VII. Il Mare Egeo. Le tempeste d’un cuore in preda alle sue passioni. VIII. Il Monte Parnaso. La pazza vita di chi canta d’altrui, e ha che pianger di sè.

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IX. La Zona torrida. Non ogni via di mezzo essere la migliore. X. L’Africa dentro. I mostri dell’ingegno, nati dalla sete o dello smoderato sapere, o

della gloria di saper piu degli altri. XI. L’Isola Palma, col primo Meridiano. Le gare dell’ambitione per lo Primato. XII. Il Flusso, e Riflusso del mare. Il va, e viene dell’Incostanza. XIII. La S. Elena, isoletta a mezzo la navigatione d’Europa all’India. La Cortesia. XIV. L’Ethiopia. La bellezza, e bruttezza dell’animo fatta visibile ne’ colori del

volto.

XV. I due Oceani entro allo stretto del Magaglianes. Le zuffe de’ Letterati in contesa a chi piu puo d’ingegno. XVI. Alfeo d’Arcadia, e Aretusa in Sicilia. Le corrispondenze segrete. XVII. Porto Seguro. Un amico fedele. XVIII. Il Capo di Comorin col verno nell’una sua costiera, mentre è state nell’altra. Le ritirate dell’animo per ogni stagion che corra, prospera, o

avversa. XIX. Il Fare d’Egitto. Il gran fare dell’esempio de’ Grandi.

XX. Le Sirti dell’Africa, nè mare, nè terra. Il Promettere, e ’l Tradire de gli huomini Doppi.

XXI. Le due antiche Balearidi. I mali colpi de’ bei motti che offendono.

XXII. Il Canal delle perle tra Zeilan, e la Pescheria. La Verità, pescagione degna di Principe. XXIII. Tenedo, e Troia. La troppa sicurezza esposta a gran tradimenti. XXIV. L’isola S. Tomaso su l’Equatore. L’equatione d’una ben contemperata natura.

XXV. Il Mar Rosso. Gl’inganni del simile: le fallacie del Verisimile.

XXVI. I Promontori. I pericoli del troppo avvicinarsi a’ Grandi. XXVII. Le costiere marine della Ghinea. Le gratie lungamente stentate. XXVIII. La Dragoniera isola del mar Tirreno. L’infelicità del non poter habitare seco medesimo. XXIX. Il Capo Falso nella punta australe dell’Africa. Un perfido Consigliero.

XXX. Sidone inventrice dell’Astronomia per uso del navigare in traffico. Il Meglio, fatto servire al Peggio.

INDICE. Della terza parte.

I. Il Meandro. L’arte dell’aggirare, e col tirare in lungo vincere per istracca.

II. L’Isola Negroponte unita a terraferma con un ponte.

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Farsi d’altrui, e non lasciar d’essere tutto suo.

III. I gioghi del Monte Tauro. Saper tacere dov’è pericoloso il parlare.

IV. Le sette bocche del Nilo. Diramare, e ben compartire le gratie.

V. Capua l’antica. Felicità nuova, e senno antico difficilmente si uniscono.

VI. La felice Arabia. L’essere in gran concetto, hor è giovevole, hor dannoso.

VII. L’Isole galleggianti. Cedere, dove il cedere è vincere.

VIII. Il Mar nero. Un cuore in malinconia.

IX. La Tebe dalle cento porte. La stoltezza dell’aprirsi tutto ad ognuno.

X. L’inondation dell’Egitto. La cura del corpo, nè soverchia nè poca.

XI. Los Pintados, barbari dell’America, ignudi, e dipinti. Le bruttezze del vitio non v’ha protesti nè scuse, che bastino ad

abbellirle. XII. Il Rubicone. A grande impegno vuol precedere gran consiglio.

XIII. L’Arcadia, e l’Attica. La Bontà naturale tutta in fatti, la Virtù filosofica tutta in parole.

XIV. La Terra sottoterra. I seni d’un cuor cupo, e machinator coperto.

XV. I monti Acrocerauni. A gran contrasti si espone chi s’alza per sovrastare.

XVI. Panamà, e Nombre de Dios, fra le due Americhe. L’Antipathia.

XVII. La Guardiana sotterra. Le disavventure, col ben usarle, fatte avventurose.

XVIII. La Florida. Il Vocabolario degl’inganni. XIX. L’Inghilterra, e la Scotia divise con una muraglia attraverso. Come ben possa farsi che una metà sia maggior del suo tutto. XX. Le fonti del Nilo occulte. Il beneficar da Magnanimo.

XXI. La Terra del fuoco. La Discordia in casa.

XXII. Sparta. Altro è un huomo fuso di getto, cioè sol per natura, altro un

lavorato a scalpello per maschia istitutione.

XXIII. Il monte Ato. Chi da sè è piccolo, è piccolo ancor se havesse un monte per base.

XXIV. I Cauci, ogni sei hore alternatamente in isola, e in terraferma. La franchezza dell’animo in ogni variar di fortuna.

XXV. Le Simplegadi su le foci del Bosforo. L’Invidia su’l passo a chi va innanzi.

XXVI. La divisione de’ Climati, secondo il piu avanzarsi del lor massimo giorno. Le forti ragguagliate al sommar de’ beni, e de’ mali in ciascuno.

XXVII. L’isola Portosanto. I prestigi dell’Ipocrita.

XXVIII. Il Peru.

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Il pregio d’una gran mente che ha onde far ricco il mondo.

XXIX. Il Caucaso. L’indegnità dell’innalzare gl’indegni.

XXX. Gli Arimaspi. In che affari vegga meglio un sol occhio che due.

Et cetera.

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Bibliografia

Questa bibliografia è divisa in tre parti: la prima dedicata alle edizioni delle opere di Daniello

Bartoli che ho consultato, la seconda ai volumi di opere letterarie fungenti da riferimento nel

presente lavoro, mentre la terza raggruppa studi critici sul gesuita ferrarese e la sua opera, sugli

scritti di altri autori o su determinati problemi letterari. Nella sezione dedicata agli studi, che

riunisce sia i testi da me utilizzati nella fase preparatoria all’elaborazione di queste pagine che quelli

citati esplicitamente nel corso della mia analisi, ho deciso di mescolare ogni tipo di scritto critico240

perché, non mirando a un’elencazione sistematica di tutti i lavori su Bartoli,241 mi pareva superfluo

aggiungere un’ulteriore suddivisione per separare gli studi sul gesuita ferrarese da quelli su soggetti

differenti - frazionamento che oltre tutto avrebbe complicato i rimandi bibliografici dal nucleo

centrale del mio lavoro.242

Opere di Daniello Bartoli

BARTOLI, Daniello

1664 - Della geografia trasportata al morale, Roma, Ghezzi

1825-1856 - Delle opere del padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù, Torino,

Tipografia di Giacinto Marietti, 39 voll.243

1930 - L’uomo al punto cioè l’uomo in punto di morte, introduzione e note di Adolfo Faggi,

Torino, UTET, 2 voll.

1982 - La selva delle parole, a c. di Bice Mortara Garavelli, premessa di Maria Corti, Parma,

Università di Parma Regione Emilia-Romagna

1985 - Giappone - Istoria della Compagnia di Gesù, a c. di Nino Majellaro, prefazione di Guido

Sommavilla S.J., Milano, Spirali

240Si noti che, per facilitarne il reperimento in quanto testi critici, le varie introduzioni alle opere di Bartoli si trovano, sotto il nome dei diversi autori, anche nella sezione dedicata agli studi. 241È possibile osservare ad esempio che questa bibliografia non contempla la monografia Daniello Bartoli di Belloni, pubblicata a Torino nel 1931, che, data la quantità di materiale critico di cui già disponevo e considerando come nessuno dei testi da me consultati la giudichi imprescindibile per la conoscenza dell’opera del gesuita ferrarese, non ho ritenuto necessario prendere in mano. 242Redigendo il mio lavoro, onde facilitare i movimenti del lettore, ho adottato una distinzione tra due tipi di rimandi bibliografici: nel primo caso, riferito alle opere letterarie bartoliane e non, quando si trattava di un rinvio a edizioni precise, specificavo il nome dell’autore, il titolo dell’opera, l’anno di pubblicazione e il numero di pagina interessato (per esempio: D. Bartoli, Missione al Gran Mogòr, 1998, p. 74); nel secondo, relativo ai testi presenti nella sezione della bibliografia consacrata agli studi, mi limitavo a segnalare il nome dell’autore, l’anno di pubblicazione e il numero di pagina (ad esempio: Bozzola, 2000: 66). 243La Geografia trasportata al morale occupa il volume XXX (del 1839). Per un elenco completo dei titoli dei diversi volumi si veda l’articolo “Bartoli, Daniello” nel Dizionario critico della letteratura italiana (Scotti, 1986: 229).

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1992 - La ricreazione del savio, a c. di Bice Mortara Garavelli, premessa di Maria Corti, Parma,

Ugo Guanda Editore

1994 - Istoria della Compagnia di Gesù. Dell’Italia, scelta dei brani, introduzione e nota a c. di

Marino Biondi, Firenze, Ponte alle Grazie

1997 - La Cina, a c. di Bice Garavelli Mortara, Milano, Bompiani (1a ed. 1975)

1998 - Missione al Gran Mogòr, a c. di Bruno Basile, Roma, Salerno Editrice

BARTOLI, Daniello / SEGNERI, Paolo

1969 - Prose scelte, a c. di Mario Scotti, Torino, UTET

Opere di altri autori e antologie

AA.VV.

1948-1988 - Documenta indica, edited by Joseph Wicki and John Homes S.J., Romae apud

“Institutum Historicum Societatis Iesu”, 18 voll. (Monumenta Historica Societatis Iesu a patribus

eiusdem Societatis edita)

1960 - Trattatisti e narratori del Seicento, a c. di Ezio Raimondi, Milano-Napoli, Ricciardi

1969 - Viaggiatori del Seicento, a c. di Marziano Guglielminetti, Torino, UTET (1a ed. 1967)

1974-1980 - Documenta malucensia, edited and annotated by Hubert Jacobs S.J., Rome, Jesuit

Historical Institute, 3 voll. (Monumenta Historica Societatis Iesu a patribus eiusdem Societatis

edita)

1980 - Scienziati del Seicento, a c. di Maria Luisa Altieri Biagi e di Bruno Basile, Milano-Napoli,

Ricciardi

1994 - La Sacra Bibbia, Roma, Conferenza Episcopale Italiana

ARISTOTELE (Aristote)

1965 - Du Ciel, texte établi et traduit par Paul Moraux, Paris, Société d’édition “Les Belles

Lettres”

CARO, Annibal

1954 - Versione dell’Eneide, a c. di Arturo Pompeati, Torino, UTET

CASSIODORO

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91

1981 - Cassiodori Senatoris Variae, Recensuit Theodorus Mommsen, Berolini apud

Weidmannos (Berlin, Weidmannschen Verlagsbuchhandlung), 1894 / München, Monumenta

Germaniae Historica

CICERONE (Cicéron)

1985 - De l’orateur (livre I), texte établi et traduit par Edmond Courbaud, Paris, Société

d’édition “Les Belles Lettres”

CLAUDIANO (Claudian, Claudien)

1972 - Claudian, with an English translation by Maurice Platnauer, London, William Heinemann

ltd. / Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, vol. II

2000 - Oeuvres, texte établi et traduit par Jean-Louis Charlet, Paris, Les Belles Lettres, tome II

CORNELIO NEPOTE (Cornélius Népos)

1923 - Oeuvres, texte établi et traduit par Anne-Marie Guillemin, Paris, Société d’édition “Les

Belles Lettres”

DANTE ALIGHIERI

1993 - Inferno, La Divina Commedia annotata e commentata da Tommaso Di Salvo, Bologna,

Zanichelli

ELIANO (Élien)

1991 - Histoire variée, traduit et commenté par Alessandra Lukinovich et Anne-France Morand,

Paris, Les Belles Lettres

ERODOTO (Herodotus)

1982 - Herodotus, with an English translation by A.D. Godley, Cambridge, Massachusetts,

Harvard University Press / London, William Heinemann ltd.

GUARINI, Battista

1977 - Il pastori fido, a c. di Ettore Bonora, commento di Luigi Banfi, Milano, Mursia

LAS CASAS, Bartolomé de

Page 92: Osservazioni sull'uso delle fonti nella "Geografia trasportata al morale" di Daniello Bartoli

92

1957 - Obras escogidas de Fray Bartolomé de las Casas. I. Historias de las Indias, texto fijado

por Juan Pérez de Tudela y Emilio López Oto, estudio critico preliminar y edición por Juan Pérez de

Tudela Bueso, Madrid, Atlas

LIVIO (Livy)

1948 - Livy, with an English translation by Evan T. Sage, Cambridge, Harvard University Press /

London, William Heinemann ltd., vol. X

LUCREZIO (Lucretius)

1982 - De rerum natura, with an English translation by W.H.D. Rouse, revised with new text,

introduction, notes, and index by Martin Ferguson Smith, Cambridge, Massachusetts, Harvard

University Press / London, William Heinemann ltd.

MARINO, Giovanbattista

1960 - “Dicerie sacre” e “La strage de gl’innocenti”, a cura di Giovanni Pozzi, Torino, Einaudi

OMERO

1991 - Odissea, introduzione di Alfred Heubeck, traduzione di G. Aurelio Privitera, Milano,

Mondadori

PIGAFETTA, Antonio

1999 - Relazione del primo viaggio intorno al mondo, testo critico e commento di Andrea

Canova, Padova, Editrice Antenore

PLINIO (Pline l’Ancien, Pliny)

1949 - Histoire naturelle (livre XII), texte établi, traduit et commenté par A. Ernout, Paris,

Société d’édition “Les Belles Lettres”

1980 - Histoire naturelle (livre V), texte établi, traduit et commenté par Jehan Desanges, Paris,

Société d’édition “Les Belles Lettres”

1983 - Histoire naturelle (livre XXXIV), texte établi et traduit par H. Le Bonniec, commenté par

H. Gallet de Santerre et par H. Le Bonniec, Paris, Société d’édition “Les Belles Lettres”

1985 - Histoire naturelle (livre XXXV), texte établi, traduit et commenté par Jean-Michel

Croisille, Paris, Société d’édition “Les Belles Lettres”

Page 93: Osservazioni sull'uso delle fonti nella "Geografia trasportata al morale" di Daniello Bartoli

93

1989 - Natural History, with an English translation by H. Rackham, Cambridge, Massachusetts /

London, England, Harvard University Press, vol. II

PLUTARCO (Plutarch)

1968 - Plutarch’s Lives, with an English translation by Bernadotte Perrin, London, William

Heinemann ltd. / Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, vol. V

1984 - Plutarch’s Moralia, with an English translation by Harold Cherniss and William C.

Helmbold, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press / London, William Heinemann ltd.,

vol. XII

POMPONIO MELA (Pomponius Méla)

1988 - Chorographie, texte établi, traduit et annoté par A. Silberman, Paris, Société d’édition

“Les Belles Lettres”

PROCOPIO DI CESAREA (Procopius of Caesarea)

1978 - Procopius, with an English translation by H.B. Dewing, Cambridge, Massachusetts,

Harvard University Press / London, William Heinemann ltd., vol. 5

RAMUSIO, Giovanni Battista

1978 - Navigazioni e viaggi, a c. di Marica Milesi, Torino, Einaudi, vol. I

1979 - Navigazioni e viaggi, a c. di Marica Milesi, Torino, Einaudi, vol. II

1980 - Navigazioni e viaggi, a c. di Marica Milesi, Torino, Einaudi, vol. III

RICCI, Matteo

1949 - Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina, Edizione nazionale delle opere edite e

inedite di Matteo Ricci S.J., edite e commentate da Pasquale M. D’Elia S.J. sotto il patrocinio della

Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, La Libreria dello Stato, 3 voll.

SENECA (Sénèque)

1961 - Questions naturelles, texte établi et traduit par Paul Oltramare, Paris, Société d’édition

“Les Belles-Lettres”, 2 voll.

1972 - Des bienfaits, texte établi et traduit par Paul Oltramare, Paris, Société d’édition “Les

Belles Lettres”, tome II

Page 94: Osservazioni sull'uso delle fonti nella "Geografia trasportata al morale" di Daniello Bartoli

94

1987 - Lettres à Lucilius (livres V-VII), texte établi par François Préchac et traduit par Henri

Noblot, Paris, Société d’édition “Les Belles Lettres”, tome II

SOLINO (C. Iulius Solinus)

1958 - Collectanea rerum memorabilium, iterum recensuit Th. Mommsen, Berolini apud

Weidmannos (Berlin, Wiedmannsche Verlagsbuchhandlung)

STRABONE (Strabo, Strabon)

1970 - The Geography of Strabo, with an English translation by Horace Leonard Jones, London,

William Heinemann ltd. / Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, vol. VI

1996 - Géographia, texte établi et traduit par Raoul Baladié, Paris, Les Belles Lettres, tome VI

(livre IX)

TASSO, Torquato

1999 - Gerusalemme liberata, a c. di Lanfranco Caretti, Milano, Mondadori (“i Meridiani”, 1a

ed. 1979)

VIRGILIO

1995 - Eneide, prefazione di Beniamino Placido, introduzione e traduzione di Enrico Oddone,

Milano, Feltrinelli

VITRUVIO (Vitruve)

1990 - De l’architecture (livre I), texte établi, traduit et commenté par Philippe Fleury, Paris, Les

Belles Lettres

Studi

AA.VV.

1986 - Daniello Bartoli storico e letterato, Atti del convegno nazionale di studi organizzato

dall’Accademia delle scienze di Ferrara (Ferrara, 18 settembre 1985), Ferrara, Tipografia artigiana;

contiene le seguenti relazioni: WICKI, Josef, “Daniello Bartoli, ‘L’Asia’, I, libro 7 sull’India, 1553-

1572” (pp. 15-30); MARAGONI, Gian Paolo, “Glosse ad alcuni stilemi de ‘La tensione e la

prssione disputanti’” (pp. 31-43); BALBONI, Dante, “Bibliografia sul Bartoli nell’ultimo ventennio

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(1964-1985)” (pp. 45-59); MORETTI, Walter, “Storia e natura in Daniello Bartoli” (pp. 61-75);

CAPODARCA, Donatella, “Daniello Bartoli e la tradizione rinascimentale estense” (pp. 77-88);

CENACCHI, Giuseppe, “Cenni di antropologia filosofica nel pensiero di Daniello Bartoli” (pp. 89-

113); DI DONNA PRENCIPE, Carmen, “Le biografie degli ‘uomini santi’” (pp. 115-137)

ALTIERI BIAGI, Maria Luisa

1980 - “Introduzione”, in AA.VV., Scienziati del Seicento, op. cit., pp. IX-LXVIII

ANCESCHI, Luciano

1958 - “Gusto e genio nel Bartoli”, in La critica stilistica e il Barocco letterario, Atti del

secondo Convegno internazionale di studi italiani, a c. dell’Associazione internazionale per gli studi

di lingua e letteratura italiana, Firenze, Le Monnier, pp. 135-145244

1984 - “La poetica del Bartoli”, in id., L’idea del Barocco - Studi su un problema estetico,

Bologna, Nuova Alfa Editoriale, pp. 193-219245

ARICÒ, Denise

1994 - “Fra teologia e censura: lettere inedite di Daniello Bartoli a Giovanni Battista Riccioli”,

Filologia e critica, XIX, fasc. 1, pp. 91-131

1997 - “Martiri e storiografia in lettere inedite di Daniello Bartoli”, Studi secenteschi, XXXVIII,

pp. 57-105

ASOR ROSA, Alberto

1967 - “Bartoli, Daniello”, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della

Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, vol. 6, pp. 563-571

1974 - “Daniello Bartoli e la prosa gesuitica”, in La letteratura italiana. Storia e testi, vol. 5:

ASOR ROSA, Alberto / ANGELINI, Franca / NIGRO, Slavatore S., Il Seicento - La nuova scienza

e la crisi del Barocco, Roma-Bari, Laterza, tomo 2, pp. 287-322

AVETTA, Adolfo

1903 - “Di alcuni giudizi letterari sul p. Daniello Bartoli”, Rivista d’Italia, I, pp. 527-535

244Riporta le stesse informazioni dell’articolo, comunque più ampio e dal quale si consiglia di citare, “La poetica del Bartoli” (Anceschi, 1984).

Page 96: Osservazioni sull'uso delle fonti nella "Geografia trasportata al morale" di Daniello Bartoli

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BAFFETTI, Giovanni

1998 - “Narrazione e descrizione nella scrittura scientifica del Seicento: l’‘esperienza’ di

Daniello Bartoli”, in AA.VV., Dal primato allo scacco - I modelli narrativi italiani tra Trecento e

Seicento, a c. di Gian Mario Anselmi, con un saggio introduttivo di Francisco Rico, Roma, Carocci

editore, pp. 219-232

BASILE, Bruno

1984 - “‘L’Asia’ del Bartoli”, Lettere italiane, XXXVI, n. 3, pp. 301-318 (ora in BASILE,

Bruno, Il tempo e le forme. Studi letterari da Dante a Gadda, Modena, Mucchi, 1990, pp. 107-130)

1989 - “Argomentazione e scienza: due esempi secenteschi”, in AA.VV., Come si legge un testo

- Da Dante a Montale, a c. di Maria Luisa Altieri Biagi, Milano, Mursia, pp. 101-121

1993 - “Dell’uomo di lettere difeso ed emendato di Daniello Bartoli”, in Letteratura italiana. Le

opere. II. Dal Cinquecento al Settecento, diretta da Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, pp. 991-

1014

1996 - Il tempo e la memoria. Studi di critica testuale, Modena, Mucchi, pp. 203-283: “Bartoli e

la ‘Grande Muraglia’ cinese” (pp. 203-217), “Bartoli e Confucio” (pp. 219-237), “Temperamento e

scrittura. Nota sull’Uomo di lettere” (pp. 239-249), “Per la storia di Padre Bartoli di Riccardo

Bacchelli” (pp. 251-283)

1998 - “Introduzione”, in BARTOLI, Daniello, Missione al Gran Mogòr, op. cit., pp. 7-20

BINEK, Krysia

1974 - “Della Geografia trasportata al morale di Daniello Bartoli”, Mémoire présenté à la Faculté

des lettres de l’Université de Fribourg (Suisse), Fribourg, le 30 septembre 1974

BIONDI, Marino

1994 - L’Istoria italiana di Daniello Bartoli, in BARTOLI, Daniello, Istoria della Compagnia di

Gesù. Dell’Italia, op. cit., pp. 11-92

BOZZOLA, Sergio

2000 - “Costrutti nominali e appositivi nella prosa di Daniello Bartoli”, Lingua nostra, Firenze,

Casa editrice Le Lettere, vol. LXI, fasc. 3-4, settembre-dicembre, pp. 65-84

245Articolo già apparso nel 1943, che riporta in modo più ampio le informazioni di “Gusto e genio nel Bartoli”

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97

CALCATERRA, Carlo

1940 - Il Parnaso in rivolta, Milano, Mondadori, pp. 125-158 (“III. La ‘Diffalta del sillogismo’ e

la ‘Svogliatura del secolo’”)

CORTI, Maria

1982 - “Premessa”, in BARTOLI, Daniello, La selva delle parole, op. cit., pp. 9-11

1992 - “Premessa”, in BARTOLI, Daniello, La ricreazione del savio, op. cit., pp. IX-XX

COSMO, Umberto

1946 - Con Dante attraverso il Seicento, Bari, Laterza

CREMANTE, Renzo

1986, “Caro, Annibal”, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da Vittore Branca,

Torino, UTET, vol. I, pp. 533-537

CROCE, Benedetto

1929 - Storia dell’età barocca in Italia, Bari, Laterza, pp. 64-66 e 441-444

D’ELIA, Pasquale M.

1938 - “Daniele Bartoli e Nicola Trigault”, Rivista storica italiana, serie V, vol. III, fasc. II, pp.

77-92

1949 - “Preliminari alla storia del Cristianesimo in Cina”, in RICCI, Matteo, Storia

dell’introduzione del Cristianesimo in Cina, op. cit., vol. I

DI GRADO, Antonio

1992 - Il gesuita e la morte. Congetture su Daniello Bartoli, Catania, Cooperativa Universitaria

Editrice Catanese di Magistero

FAGGI, Adolfo

1930 - “Il Bartoli e la presente sua opera”, in BARTOLI, Daniello, L’uomo al punto cioè l’uomo

in punto di morte, op. cit., vol. I, pp. V-XXXVI

(Anceschi, 1958).

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98

FONTANIER, Pierre

1968 - Les figures du discours, introduction par Gérard Genette, Paris, Flammarion

GAMBA, Gigliola

1957 - “Ricerche sulla lingua delle opere scientifiche di Daniello Bartoli”, Archivio glottologico

italiano, Firenze, Le Monnier, vol. XLII, fasc. I, pp. 1-23

GARAVELLI MORTARA, Bice

1962 - “Un uso particolare dell’infinito in Daniello Bartoli”, Atti dell’Accademia nazionale dei

Lincei. Rendiconti. Classe di scienze morali, storiche e filologiche, XVII, fasc. 7-12, pp. 486-495

1963 - “Osservazioni sul discorso indiretto in Daniello Bartoli”, Atti dell’Accademia nazionale

dei Lincei. Rendiconti. Classe di scienze morali, storiche e filologiche, XVIII, fasc. 7-12, pp. 526-

532

1965 - “Note sui ‘ritratti’ di Daniello Bartoli”, Lettere italiane, XVII, n. 2, pp. 129-140

1982 - “Introduzione”, in BARTOLI, Daniello, La selva delle parole, op. cit., pp. 15-27

1992 - “Introduzione”, in BARTOLI, Daniello, La ricreazione del savio, op. cit., pp. XXI-LIII

1997 - “Introduzione, in BARTOLI, Daniello, La Cina, op. cit., pp. 7-22

1998 - Manuale di retorica, Milano, Bompiani (nuova edizione ampliata; 1a ed. 1988)

GETTO, Giovanni

1986 - “Tasso, Torquato”, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da Vittore

Branca, Torino, UTET, vol. IV, pp. 252-265

GIULIANI, Laura

1950 - “In difesa di Daniello Bartoli”, Lettere italiane, II, pp. 46-51

GRANA, Gianni

1961 - “Daniello Bartoli”, in Letteratura italiana - I minori, Milano, Mondadori, vol. 2, pp.

1669-1738

JANNACO, Carmine / CAPUCCI, Martino

1986 - Il Seicento, in Storia della letteratura italiana, a c. di Armando Balduino, Milano,

Vallardi (1a ed. 1963), vol. VIII, pp. 72-73, 714-716, 860-864, 910-911

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99

LAUSBERG, Heinrich

1969 - Elementi di retorica, Bologna, il Mulino

MAJELLARO, Nino

1985 - “Introduzione”, in BARTOLI, Daniello, Giappone - Istoria della Compagnia di Gesù, op.

cit., pp. 23-41

MALGAROTTO, Pia

1986 - “Guarini, Battista”, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da Vittore

Branca, Torino, UTET, vol. II, pp. 456-459

MARZOT, Giulio

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Demis Quadri Vic. dell’Aratro 16 6648 Minusio � 091/743.28.85

CURRICULUM VITAE Sono nato a Locarno (Canton Ticino) il 2 ottobre 1978 da Gianfranco e Cinzia nata Micheletti. Attinente di Capriasca, sono domiciliato a Minusio, dove ho frequentato le scuole elementari (1985-1990) e medie (1990-1994). Nel 1998 ho conseguito la maturità federale di tipo B presso il Liceo Cantonale di Locarno, per poi immatricolarmi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Friburgo. Ho frequentato i corsi di Letteratura italiana (prof. Alessandro Martini), filologia romanza (prof. Aldo Menichetti) e etnologia (prof. Christian Giordano).

DICHIARAZIONE Io, Demis Quadri, dichiaro sul mio onore che ho compiuto la mia memoria di licenza solo e senza aiuti esterni non autorizzati. Minusio, 10 giugno 2004