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OSSERVATORIO TERRORISMO

Newsletter n.8

OT

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OSSERVATORIO TERRORISMO

INDICE ARGOMENTI

• L'Editoriale…………………………………………..pag.2

• Introduzione alla newsletter n.8………………..pag.4

• Le Jihadisme des femmes, Pourquoi elles ont choisi

Daech………………………………………………….pag.6

• Stavo per diventare un terrorista!.................pag.11

• La rivista "Il club"…………………………………pag.13

• I "suicide bombers"……………………………….pag.17

• Il parere degli esperti……………………………..pag.23

• Banche e Sicurezza 2018………………………..pag.33

___________________________________________

NOTA DELLA REDAZIONE

In questa newsletter

raccogliamo alcune

recensioni redatte da colleghi

che hanno aderito

all’Osservatorio.

Noi continueremo nel

recensire testi di possibile

interesse degli iscritti, e a

proporre temi per stimolare

il dibattito. Attendiamo i

vostri contributi!

Osservatorio Terrorismo -

Newsletter

Comitato di Redazione: Pietro Blengino (Capo-redattore), Riccardo Barracchia, Salvatore Fratejacci, Mauro Mariani, Pierluigi Martusciello, Leonardo Procopio, Mario Sestito, Anthony Cecil Wright

ANSSAIF

Associazione culturale not for profit

Sito: www.anssaif.eu Email: [email protected]

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L’EDITORIALE

“C’è del male personale e sociale da sradicare e del bene, visibile o,

com’è più probabile, non visibile, da esaltare. Ma c’è, in tutta evidenza, lo squallido spettacolo della violenza, sempre meno episodico, purtroppo, sempre più finalizzato alla degradazione e all’imbarbarimento della vita, di fronte al quale è nostro dovere prendere posizione. Ne sono corrose le basi della convivenza civile ed è messo in causa lo Stato.”

Aldo Moro

(da “Agire uniti nella diversità”, Il Giorno, 10 aprile 1977)

a citazione è risalente a poco più di un anno prima della sua tragica

scomparsa di cui ricorre oggi il quarantesimo anniversario e ci è parsa essere,

nella ricchezza della sua eredità culturale, quella che meglio rappresenta lo sforzo

per guidare la nostra azione quotidiana. Da tempo avviato un percorso di analisi e

approfondimento di un fenomeno quale quello del terrorismo che pur presentando

mille sfaccettature è volto a distruggere le basi stesso del nostro vivere civile, della

nostra cultura intesa come valori e della nostra democrazia.

Non vogliamo dilungarci oltre, non è nel nostro stile, ma consentiteci due

considerazioni.

La prima quella che nei giorni scorsi l’E.T.A. ha annunciato la fine della sua ragion

d’essere e a quasi 60 anni dalla sua fondazione per combattere il franchismo ha

definitivamente annunciato la chiusura di un ciclo storico, proprio e comune alle

esperienze di altri paesi occidentali quali l’Italia, la Grecia, la Germania e non

ultima l’Inghilterra con l’I. R. A. Lasciando da parte il versante giudiziale con

l’accertamento se possibile delle responsabilità penali a questo punto diventa

importante la ricostruzione della verità storica, l’involuzione di un’organizzazione

nata nel 1958 per combattere una dittatura, la scelta del terrorismo e la

progressiva perdita di legami con la popolazione di cui perseguiva la “liberazione” e

l “’indipendenza”. Un altro elemento che ci colpisce è quello che con l’E.T.A. si

chiude l’epoca dei gruppi terroristici che avevano preso di mira l’entità statuale del

singolo Paese. Il nemico è lo Stato in quanto oppressore di classe di una minoranza

politica e/o religiosa ovvero di classi sociali relegate in posizioni subordinate. Il

nuovo terrorismo vive anch’esso una fase di globalizzazione in cui il nemico è un

sistema socio - culturale che a livello mondiale opprime una grande massa di

individui di fede musulmana.

L

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La seconda è un episodio minore avvenuto a Torino agli inizi degli anni ‘80 nella

periferia sud della città. I Carabinieri del Gen. Dalla Chiesa hanno individuato una

coppia di terroristi, li seguono e li arrestano nella zona di Piazza Bengasi. L’azione è

talmente rapida ed efficace che i due terroristi non hanno la minima possibilità di

reazione. Uno di loro rilascia un’unica dichiarazione: “se avessimo saputo fin

dall’inizio che eravate così non avremmo neanche iniziato”. In queste parole e

nella loro semplicità crediamo sia racchiusa l’essenza della lotta al terrorismo:

capacità di comprendere i fenomeni e di approntare reazioni adeguate. Non si

tratta solo di forza, pur se costituisce una condizione imprescindibile, ma anche di

coinvolgimento di tutti nella reazione e nel contrasto di una minaccia alla nostra

vita così come l’abbiamo concepita finora.

Una lettura che va nella direzione del cambiamento, non tanto dal punto di vista

squisitamente operativo, ma soprattutto dal punto di vista culturale, rilanciando

un modello collegiale e strategico sotto l’antico motto dei moschettieri: “tutti per

uno e uno per tutti!”.

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INTRODUZIONE ALLA NEWSLETTER N 8 DI OT

Partendo dalle riflessioni introdotte nell’editoriale, abbiamo voluto costruire l’ottavo

numero della newsletter OT cercando di ampliare gli orizzonti del nostro lavoro

analizzando alcuni aspetti sociali, culturali ed economici che dobbiamo imparare a

leggere anche come campanelli di allarme. Proprio a supporto di questo ambizioso

traguardo ci siamo soffermati su aspetti internazionali che hanno avuto lo

“svantaggio” di provare prima di noi, e sulla loro pelle, il confronto con il nuovo

modello terroristico.

• A pag.6 abbiamo inserito una riflessione sull’ultima opera di Fethi

Benslama e Farhad Khosrokhavar, “Le Jihadisme des femmes, Pourquoi

elles ont choisi Daech”, pubblicato l’anno scorso dalle Edition du Seuil.

Un volume dove i due autori, rispettivamente uno psicanalista Franco-

tunisino, e un sociologo - accademico iraniano (oggi direttore di ricerca

dell’Ecole des hautes etudes en sciences sociales di Parigi), ci accompagnano

in un percorso di comprensione del fenomeno delle donne e la Jhiad, un

tema che racchiude una delle sfide probabilmente più pregnanti e particolari

del nuovo modello di reclutamento terroristico.

• A pag.11 abbiamo selezionato un’importante testimonianza della

Psicoterapeuta Alessandra Zambelli responsabile della Formazione

dell’Institut Alfred Adler de Paris (IAAP). Con una riflessione sulla “genesi

dell’odio”, una lettura che ci rende contezza di due temi significativi, da un

lato la necessità di disegnare un nuovo ruolo di attori che fino ad oggi non

avevano un peso specifico nell’osservazione tecnica del fenomeno e dall’altro

le implicazioni sociali nella genesi del terrorismo, rilanciando anche in

questo la necessità di allargare la partecipazione ai “corpi intermedi” della

società in questa nuova Sfida.

• A pag.13 invece abbiamo voluto segnalare la presenza di un nuovo

interlocutore nel panorama dell’informazione sulla sicurezza con la rivista “Il

Club” rivista trimestrale supportata anche dall’Ambasciata inglese con

questo nuovo numero dedicato “La sicurezza dell’individuo” recentemente

presentato alla Biblioteca della Camera dei Deputati, nella Sala del Refettorio

di Palazzo San Macuto a Roma. In quella occasione in occasione hanno

partecipato, con Jill Morris CMG (Ambasciatore del Regno Unito in Italia),

Marco Minniti (Ministro degli Interni), Claudio Galzerano (Direttore Servizio

per il contrasto dell’estremismo e del terrorismo esterno), Andrea Manciulli

(Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare della

NATO), Raffaello Pantucci (Direttore dell’International Security Studies

Royal United Services Institute (RUSI), Alberto Simoni (Capo della

Redazione Esteri de La Stampa) e Francesco De Leo (Direttore de Il Club).

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• A pag. 17 di questo numero presentiamo un’articolata ricerca su chi sono i

“suicide bombers.” L’analisi è ricca di dati statistici estrapolati dai vari

attentati compiuti i questi anni grazie a una ricerca condotta dall’Università

di Chicago e a uno studio finanziato dalla N. A. T. O. Come spesso si dice i

numeri non mentono o comunque ci aiutano a oggettivare meglio le nostre

analisi. Emerge con chiarezza che vi è un trend in crescita dei attacchi

suicidi compiuti da giovani di età massima di 31 anni. Il profilo è quello di

un uomo (solo il 10 % degli attentati è compiuto da donne), single, con un

titolo di studio superiore e con una scarsa conoscenza della sharia.

• A pag. 23 lanciamo una tavola rotonda virtuale ma che assume ogni mese

maggiore concretezza con la presenza costante di un dibattito tra

professionisti. Ci siamo presi la libertà di sottoporre agli autori che abbiamo

recensito in questi mesi (speriamo non ce ne vogliano) alcune domande nate

dalla nostra ricerca. Le risposte sono state elaborate sulla base delle loro

opere e riproposte nel corso di un “seminario possibile”.

• A pag.33 chiudiamo infine questa edizione con una importante iniziativa di

ABI, Convegno Banche & Sicurezza, con un ampio confronto sul tema

Security nelle sue molteplici declinazioni, dal tema aziendale

all’approfondimento istituzionale. Un dibattito che riteniamo di sicuro

interesse per i nostri attenti e qualificati lettori e per il quale inseriamo il

programma della tavola rotonda sul terrorismo; infatti, noi saremo presenti

con una “nostra” sessione “la prevenzione del terrorismo” cui parteciperanno

relatori di assoluto rilievo

Augurando buona lettura ai nostri lettori, speriamo di aver contribuito a

sottolineare la forte vocazione inclusiva e allo stesso tempo fortemente proiettata

all’estero dell’Osservatorio sul Terrorismo.

Una condizione quasi necessaria alla luce delle profonde ragioni valoriali da cui

trae origine e il supporto sempre più allargato con nuovi contributori. Nuove voci

che ci giungono anche da altri contesti europei, offrendoci nuovi spunti di analisi e

riflessione. Una pluralità di idee che ci offre maggiore consapevolezza sulla bontà e

la forza dell'iniziativa e ci spinge a proseguire nell’auspicio di aver intrapreso una

buona strada.

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Fethi Benslama, Fahad Khosrokhavar, Le Jihadisme des

femmes, Pourquoi elles ont choisi Daech, Edition Seul, 2017,

pp. 112, € 15.

Di Pietro Blengino

L’approfondimento dei motivi che spingono le persone, perlopiù giovani e

adolescenti, ad aderire a un’ideologia di morte e distruzione ci porta a interrogarci

anche sul ruolo delle donne nella jihad e più in generale nel terrorismo. Di certo

non mancano anche nella nostra storia recente figure di donne con ruoli di spicco

nelle formazioni terroristiche di estrema destra e di estrema sinistra, ma colpisce

l’adesione volontaria ed entusiasta a un’impostazione culturale che vede le donne

relegate a ruoli molto tradizionali e arretrati.

Uno psicanalista Franco-tunisino, Fethi Benslama, e un sociologo - accademico

iraniano, Fahad Khosrokhavar, oggi direttore di ricerca dell'EHESS, l’Ecole des

hautes etudes en sciences sociales di Parigi, ci accompagnano in un percorso di

analisi del fenomeno. Gli autori enunciano fin da subito che la costituzione di uno

stato islamico quale il Califfato ha dato una prospettiva nuova alla dimensione

femminile. Da un punto di vista sociologico le ragazze che aderiscono al Daech

provengono dalla piccola e media borghesia a differenza degli uomini che nascono e

vivono nelle banlieue disagiate. Esse vedono nel combattente del Daech la figura

dell’uomo idealizzato e virilizzato che si pone come marito ideale in grado di

ripristinare una “mascolinità” non vista nei ragazzi che hanno frequentato fino ad

allora.

Come abbiamo già visto nel libro di Luigi Zoja, Nella mente di un terrorista, anche

Benslama e Khosrokhavar ci evidenziano come la perdita dell’autorità dei padri e la

crisi delle relazioni coniugali tradizionali porta le ragazze a idealizzare una famiglia

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jihadista in cui accettano e apprezzano un ruolo complementare che respinge la

parità sessuale a favore di una “regressione antropologica”.

Un elemento fondamentale è l’attrazione della morte che affascina le ragazze. Esse

vedono nel jihadista combattente l’uomo nuovo che svetta sugli altri, un po’ come

le giovani che scrivono lettere d’amore a un assassino in carcere. L’Islam nella sua

versione estrema soddisfa un bisogno contraddittorio della nuova generazione: da

un lato una visione antimperialista e dall’altra una visione iper-patriarcale.

L’islamismo radicale nella versione divulgata dal Daech ha promosso il mito di una

nuova donna integrale, contemporaneamente alla moralizzazione dei rapporti

uomo/donna e a una visione ultra repressiva che ha affascinato le giovani vittime

di una crisi di identità.

A differenza però dei gruppi terroristici degli anni 70 e 80, in cui le donne avevano

ruoli di primo piano, nel caso delle spose islamiche è chiaro che sono condannate a

un ruolo marginale, di comparse.

Interessante è l’analisi del matrimonio islamico secondo il Daech dove il

matrimonio viene imposto prima delle relazioni sessuali o dell’intimità non sotto il

controllo della famiglia ma dello stato islamico, in rottura con la famiglia e i legami

comunitari. Ci troviamo a un’interpretazione paradossale dell’amore in cui la

ragazza conosce appena il futuro sposo e decide di raggiungerlo nelle zone di

combattimento. Oppure viene irretita on line da giovani che inviano loro immagini

in tenuta militare con i Ray-Ban calati sugli occhi. L’amore nasce e la giovane

sposa, mentre il marito va a combattere, è costretta a vivere in uno stato di

“sorellanza’” con le mogli di altri combattenti o con il figlio cui ha dato la vita. Così

come lo Stato Islamico ha fatto ricorso alla schiavitù sessuale femminile in Siria e

in Iraq, la novità del Daech è stata quella di aver istituzionalizzato il legame

matrimoniale prevedendo la possibilità del divorzio pronunciato da un tribunale

islamico.

Un approfondimento interessante è quello che riguarda il rapporto tra le donne

jihadiste e la morte. Nonostante il ruolo minore nel Daesch non sono rari i casi di

donne autrici di atti terroristici. Così come nel caso degli uomini anche nelle donne

ci sono gli stessi meccanismi di radicalizzazione: l’umiliazione, il risentimento

profondo, la capacità di agire supportata da un’organizzazione o dal bricolage in

seno a un gruppo, la volontà di umiliare l’umiliatore dotandosi, nei casi rilevanti

per il jihadismo, di uno statuto di martire ricompensato in cielo con un posto in

paradiso. Ci troviamo così nella situazione per cui se le donne uguagliano gli

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uomini nelle azioni diventa difficile negare loro una dignità propria. È per questo

motivo che il Daech ha fatto ricorso molto limitato alle donne kamikaze.

Un altro capitolo interessante è quello dedicato al rapporto tra le donne e la

religione. Gli autori giustamente distinguono se l’approccio al momento religioso è

quello dell’adolescente o della donna adulta. L’adolescente o il post-adolescente

vedono la religione come un mondo immaginario, sacro e intoccabile, privo di un

ancoraggio storico e sociale. È di immediata evidenza che questa interpretazione

attribuisce una radicalità pericolosa.

Nel neo salafismo le giovani donne vedono la possibilità di una riaffermazione di un

ruolo di “donna integrale” in contrasto con il femminismo che le avrebbe

spossessate del proprio corpo. La battaglia per l’eguaglianza dei sessi finisce ai loro

occhi per privarle della specificità femminile.

Analogamente l’adesione all’ideale femminile neo salafita viene in taluni casi visto

come una reazione a una visione laica “indurita” interpretata come l’imposizione di

un modello culturale diverso da quello più affine.

Per altre l’adesione all’islam radicale consente l’anelito verso quel “trascendente”,

quel sacro che viene invece negato dalla modernità secolarizzata. Le donne

jihadiste interiorizzano l’aspirazione al trascendente - nell’interpretazione di

Benslama e Khosrokhavar - reagendo contro un individualismo che tende a ridursi

a una capacità supplementare di consumare, nell’ambito di un mondo sempre più

diseguale e appesantito da una ‘libertà’ che non sbocchi in campo sociale e genera

un sentimento di appesantimento o di vacuità.

Gli autori evidenziano poi la severa morale sessuale manifestata dalle giovani

donne radicalizzate, prima ancora delle scelte religiose nelle forme salafite o

rigoriste. Spesso il passaggio adolescenziale è legato a un vissuto condannabile e

l’adozione di una morale severa consente di attenuare la sofferenza morale. Questa

scelta diventa tanto più forte quando la giovane ha subito violenza sessuale da

parte di parenti o persone vicine alla famiglia, e risulta trattarsi di un’ipotesi

tutt’altro che infrequente negli ambienti radicalizzati.

La ricerca di un marito “molto musulmano” consentirebbe di esaltare la virtù della

legge islamica e di contrastare il modello femminile occidentale decadente. Finiamo

così per ritrovarci in una situazione in cui la “gioia della servitù” nei confronti

dell’uomo costituisce un mezzo per reprimere il desiderio sessuale. La ricerca del

marito islamico ideale conduce talvolta le donne a recidere i legami familiari

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realizzando il rilievo di Freud secondo il quale più un soggetto è virtuoso più il suo

super-io è crudele.

In altri casi la scelta del cambiamento, una sorta di “pentimento”, ha luogo dopo

una rottura o una delusione amorosa che porta la giovane donna a cambiare

completamente la sua vita, passando da una condotta dissoluta al rigorismo più

stringente e alla ricerca pressante del matrimonio con un salafita, se non

addirittura più radicalmente con un jihadista che conforta la donna e la protegge

dalle sue paure trasgressive. Si tratta di casi successi anche in Italia e che hanno

colpito per il medesimo epilogo.

Gli autori indicano che talvolta l’impegno religioso delle donne che si radicalizzano

molto spesso vede come terreno di scontro il loro stesso corpo e come nemico il loro

desiderio percepito con senso di colpa. Esse troverebbero nell’ideologia salafita

una protezione immunizzante e un’arma per lottare contro il proprio demone. La

religiosità di queste donne sarebbe legata a una moralità sessuale rigida e rigorosa.

Per quanto riguarda il rapporto tra la religione e il sacro, secondo Benslama e

Khosrokhavar, il jihadismo femminile ci consente di penetrare più profondamente

la natura stessa dell’ideologia jihadista. Questa non deriva semplicemente

dall’islam come religione ma da un richiamo al sacro che supera la religione in

quanto istituzione. La ragione è che il corpo delle donne sarebbe una fonte

pericolosa di miscredenza che solo il tabù può contrastare, senza altro fondamento

che il tabù stesso.

Un capitolo a parte è dedicato alla sacralizzazione della donna che è l’obiettivo

principale del salafismo e della sua versione guerriera costituita dal jihadismo.

Nella narrazione jihadista la donna in quanto madre è sacralizzata e sottratta alla

dimensione pubblica. Per delle giovani donne la cui femminilità ha fondamenta

poco solide la maternità diventa lo strumento per sfuggire una femminilità

angosciante, un’adolescenza martoriata. Benslama e Khosrokhavar citano

un’indagine su una sessantina di casi a loro disposizione in cui più di un terzo

delle giovani interessate che hanno espresso un’adesione radicale hanno avuto dei

problemi con le madri: madri che erano portate all’abbandono o al maltrattamento,

madri che esprimevano sentimenti di odio verso la femminilità delle figlie, madri

indifferenti, insensibili,..

Come avevamo già visto nella bella intervista di Omar Bellicini a Luigi Zoja un altro

ruolo altrettanto determinante lo gioca l’assenza dei padri. L’indebolimento della

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loro autorità finisce per spiegare la ricerca di figure tutelari e repressive

nell’adozione del jihadismo. Ovviamente non possiamo limitarci a una generica

affermazione di assenza della figura paterna in quanto quest’assenza si declina in

numerose e variegate situazioni, specularmente ai ruoli negativi delle madri. Si

tratta di padri delinquenti o violenti, indifferenti o che respingono, padri

sconosciuti o incerti, padri umiliati, sostituti incestuosi della figura paterna,... In

molti casi prima ancora dell’assenza ci troviamo di fronte a una mancanza o a un

cattivo comportamento che colpisce e danneggia la cura simbolica che deve fornire

un padre ai propri figli per inserirli in una catena di generazioni e in un desiderio

di non restare anonimi. Alla luce dei dati in loro possesso, gli autori citano i casi di

padri che si prendono gioco della legge, di padri che sono stati beffati loro stessi

dalla vita e di padri che sono sfuggiti ai loro obblighi, e vediamo che costituiscono

la maggior parte dei casi di retroterra familiare delle ragazze che hanno aderito al

Daech.

In conclusione Benslama e Khosrokhavar ci portano alla considerazione che tutte

le ragazze e le giovani donne che hanno aderito al Daech oscillano tra una

condizione di normalità e una patologica, senza intravedere in realtà alcuna

possibilità di affrancamento da quella condizione. Molte di loro appartengono alla

piccola classe media, a volte addirittura alla classe media.

In questa vicenda vi è un’ulteriore complicazione che è data dalla pluralità di

profili, almeno 4, che presentano la ragazze.

Questi sono solo alcuni degli spunti di un’opera breve ma molto intensa per i vari

argomenti, le interpretazioni e le considerazioni che vengono esaminate. Non ci

resta che augurarvi una buona lettura.

Pietro Blengino

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STAVO PER DIVENTARE UN TERRORISTA!

Riflessione breve sulla natura socioeconomica e psichica della

matrice terroristica

« Lo sa, Madame, stavo per diventare un terrorista!».

Con queste parole massicce, lucide, e apparentemente senza appello si è aperta una seduta con un mio

paziente nel mio studio del 93esimo dipartimento : il Bronx di Parigi. Un uomo giovane ma i cui

occhi dimostravano una durezza più antica.

Parole che erano il segno di un grande pericolo e allo stesso tempo la linea di demarcazione di una

grande consapevolezza, di un rischio che in qualche modo era passato e per questo mi sentivo di

affrontarlo con serenità.

« Avrei voluto far pagare la mia sofferenza, la mia rabbia a un mondo dove all'ingiustizia avrei

risposto con una vendetta - proseguì così Ahmed (nome di fantasia per il rispetto della privacy del

paziente) nel tentativo di liberarsi del peso della violenza in cui era cresciuto - questa società si fonda

sull'ingiustizia, sul principio di lasciare gli ultimi sempre per ultimi, di non dare possibilità di

riscatto e si arriva ad essere vittime di se stessi dove la cosa meno grave che si può fare è

abbandonarsi, c'è chi lo fa con le droghe, con l'alcool, io, da mussulmano, lo faccio nel cibo

mangiando in poco più di un quarto d'ora un chilo di spinaci surgelati e 8 hamburger di scarsa

qualità, quelli meno cari del supermercato ».

Questo era il ritratto dell'uomo che mi trovavo davanti, un uomo sofferente ma che aveva fatto la

scelta più grande della sua vita, quella di mettersi di fronte ad un terapeuta, per trovare la giusta via

d'uscita al suo odio e al suo malessere. L'aveva fatto con convinzione scegliendo un professionista

privato e non una struttura sociale pubblica, elemento che già fotografava una determinazione

importante ma al tempo stesso una scarsa fiducia nella società, nella capacità di potergli essere

d'aiuto.

Ahmed non aveva avuto la possibilità di continuare gli studi, e come moltissimi figli di immigrati di

3° generazione, benché nato in Francia vive ancora su due mondi in forte divario culturale. Ha avuto

un'infanzia disorganizzata e difficile, con genitori figli di emigranti del Maghreb, che hanno vissuto

lo scollamento delle due culture e delle due società di appartenenza come un trauma banalizzato, un

dato di fatto, e che hanno vissuto questo loro senso di disagio come maltrattamento sociale,

riversandolo inesorabilmente in famiglia. Così, senza accorgersene, si è ritrovato in un percorso dove

l'odio è solo la manifestazione terminale di una rabbia cresciuta nel susseguirsi dei giorni e innaffiata

copiosamente da quotidiane ingiustizie familiari e sociali, e da un terreno vuoto di appartenenza: un

disagio transgenerazionale.

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Mi colpì un'altra sua frase che esprimeva l'enorme sforzo e la straordinaria forza che quel ragazzo

stava impiegando in uno dei percorsi evolutivi più complessi, il cambiamento : « Madame, è duro

evolvere soli, talmente ingiusto essere sempre attaccati, non riuscire a manifestare se stessi, essere

costretti quotidianamente a lottare contro una società che innalza il livello di difficoltà, dove la

burocrazia rende tutto complicato e si arriva stanchi ad un punto dove i principi … non mi parlano

più, nemmeno quelli del Corano! »

In quel momento mi apparvero tutte le sue ferite : « Ahmed, lei m'insegna, e proprio con il Corano,

che questa durezza, questa fatica si può trasformare in orgoglio, che altro non è che il travestimento

del sentimento d'inferiorità, paradossalmente immaginario e relazionale al tempo stesso perché

concretamente sollecitato dalla sua famiglia, dall'ambiente dove lavora, dalla società tutta, che

sicuramente ha la responsabilità di non riuscire a coltivare il solo antidoto possibile: il sentimento

d'appartenenza. Ma la rabbia è la risposta che non premia la sua intelligenza, il suo sforzo di essere

qui e la sua lotta per il cambiamento ».

Mi rispose con uno sguardo penetrante : « La rabbia mi fa sentire vivo, in fondo è colpa loro e io

sono solo per poter affrontare il cambiamento!»

Con gli occhi allineati, gli offrii il mio sincero rispetto : « Ahmed, lei lo ha già fatto, lei ha già vinto,

oggi è qui perché il suo cambiamento è già iniziato. Quella rabbia vuole solo trovare una via

d’uscita, dovrà costruire la sua vita, e cercare le soddisfazioni negate, otterrà il suo diploma e farà il

suo concorso da infermiere perché anche se nessuno glielo ha mai detto lei ne ha le capacità,

altrimenti non sarebbe qui. Prenda quella rabbia, la canalizzi e la trasformi in creatività, prenda

esempio anche dai rapper delle ‘banlieues’».

Cominciò così il suo cammino verso il cambiamento, finché in una della ultime sedute mi disse: « In

realtà, Madame, in questi mesi, con il dialogo, il confronto, l’avere scoperto che nel poter essere

ascoltato e compreso, io evolvo, sino a poter capire che il percorso di quella rabbia che conduce

all'odio, ci è comune. Ma chi non ha la possibilità di provare il cambiamento rischia di essere

esposto a pressioni esterne che vogliono cavalcare il nostro malessere per fini … personali senza

scrupoli né valori».

Sono passati alcuni anni, oggi Ahmed è un infermiere e addirittura riuscì a fare il “rappresentante

degli studenti” nel triennio della sua formazione, ha una compagna e nuovi amici, è mussulmano e

rispetta il Corano, ha imparato a rassicurare e tramutare quella rabbia e la sua inferiorità condizionata

in determinazione positiva e responsabilità, uscendo dal sentimento d'ingiustizia e d'impotenza, non è

merito del terapeuta, perché ogni paziente è l’artefice del proprio cambiamento, ma due domande mi

rimangono, quanti Ahmed non ci hanno ancora cercato? E perché?

Dott.ssa Alessandra Zambelli

Supervisore Psicoterapeuta Analista Adleriana e

Responsabile della Formazione

Institut Alfred Adler de Paris (IAAP)

http://institut-alfred-adler-paris.fr

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RIVISTA “IL CLUB”

Presentazione dell’ultimo numero dedicato a “La sicurezza

dell’individuo”

http://www.ilclubmagazine.com/

Lo scorso 3 maggio abbiamo partecipato alla presentazione dell’ultimo della rivista

“Il Club” Abbiamo scoperto con piacere che si tratta di una rivista interessante e

autorevole, da seguire con attenzione. In primo luogo ci ha colpito lo standing dei

relatori, moderati dal capo della redazione esteri de La Stampa Alberto

Simoni, quali l’ambasciatore del Regno Unito in Italia Jill Morris, il direttore de Il

Club Francesco De Leo, il direttore del Servizio per il contrasto dell’estremismo e

del terrorismo esterno Claudio Galzerano, il presidente della delegazione italiana

presso l’Assemblea parlamentare della Nato Andrea Manciulli, e il direttore

dell’International Security Studies Royal United Services Institute (Rusi) Raffaello

Pantucci, nonché il Ministro dell’Interno Marco Minniti.

Proprio quest’ultimo ha ricordato che la sconfitta dello Stato islamico sul suo

terreno in Siria e Iraq, aumenta la componente asimmetrica della minaccia e

dunque i rischi per i Paesi europei. In tutto questo, è logico pensare che la via più

battuta dai foreign fighters di ritorno dalle zone di conflitto sia quella dei traffici di

esseri umani, con una sovrapposizione preoccupante tra terrorismo e criminalità.

Dobbiamo avere ben chiaro che la consapevolezza della minaccia che si ha di fronte

è il primo elemento su cui dobbiamo impostare la nostra strategia di difesa.

Abbiamo di fronte “un’organizzazione terroristica senza precedenti al mondo,

capace di tenere insieme due elementi che nessuna organizzazione terroristica è

stata in grado di tenere insieme”. Primo, la capacità di portare avanti la doppia

minaccia: asimmetrica, con “attacchi che provocano terrore e paura”; e simmetrica,

“con campagne militari che gli hanno permesso di conquistare e gestire un

territorio nella drammatica illusione di un terrorismo che vuole farsi Stato”. Un

ruolo fondamentale lo ha giocato la capacità dello “Stato islamico ha saputo usare

lo strumento della comunicazione via web come un pesce nell’acqua”, ricorrendo a

Internet per finalità di “reclutamento, istruzione, emulazione e radicalizzazione”.

L’Isis ha dimostrato “tanta sapienza nell’usarlo che ora dispone di una rete di

terroristi di cui lo stesso Stato islamico”.

A tutto questo si deve aggiungere il rischio derivante dai foreing fighters. Dei circa

25/30mila che sono giunti in Siria e Iraq, “molti sono morti, altri sono in prigione,

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ma molti stanno scappando verso rifugi sicuri, le proprie case o zone di particolare

fragilità statuale”, ha detto Minniti spiegando che “è logico pensare che la via più

battuta sia quella dei trafficanti di esseri umani”. E’ quindi necessario “lavorare

sul nord Africa, contrastando i traffici e impedendo la formazione di rifugi sicuri”.

Grazie al nuovo percorso intrapreso, evidenzia Minniti “nei primi mesi quattro

dell’anno gli arrivi di migranti sono diminuiti del 75%, mentre per quanto riguarda

la Libia siamo a -82 %.; dal 1 luglio dello scorso anno al 30 aprile di quest’anno,

sono arrivate 100mila persone in meno: un colpo drammatico ai trafficanti degli

esseri umani”.

Sempre il Ministro ha sottolineato che in questo sforzo comune non può mancare il

Regno Unito, “un pezzo importante delle politiche di sicurezza europee”, ha detto

Minniti. “Quando la Brexit sarà compiuta, l’Europa dovrà fare qualcosa per

mantenere e preservare i rapporti di sicurezza tra Europa e Regno Unito, e con

l’altra sponda dell’Atlantico; dobbiamo trovare dei canali speciali per la

cooperazione su questi temi”, ha aggiunto il ministro dell’Interno. “La sicurezza è

un tema emblematico per dimostrare l’importanza di non permettere che Brexit ci

separi”, ha confermato l’ambasciatore del Regno Unito in Italia Jill Morris. “La

sicurezza e la difesa dell’Europa sono al cuore dell’approccio del Regno Unito;

condividiamo gli stessi valori e non esiste Paese che possa affrontare da solo la

minaccia alla sicurezza; la collaborazione è fondamentale, con gli alleati europei e

con l’Italia, oltre a quella che si realizza a livello internazionale multilaterale”. Su

questo non impatterà la Brexit, ha assicurato la diplomatica: “La nostra dedizione

è incondizionata, nel senso che non è legata ai negoziati sui rapporti economici e

commerciali del futuro. L’Europa – ha rimarcato la Morris – è il nostro continente;

lasciamo l’Unione europea e non l’Europa; la vostra sicurezza è la nostra

sicurezza”.

Sia il direttore dell’autorevole Rusi Raffaello Pantucci. sia il direttore

dell’antiterrorismo Claudio Galzerano, hanno evidenziato le caratteristiche della

nuova minaccia. Dichiara infatti Pantucci che se “prima era tutto più chiaro, con

filiere definite che esistono ancora oggi, ma a cui si aggiunge un nuovo fenomeno:

il terrorismo con mezzi più semplici, come coltelli”. Abbiamo pertanto la necessità

di difenderci e qui ci aiuta mettere a confronto dei modelli differenti. Il modello

britannico di antiterrorismo si caratterizza per due elementi. Primo, “il

coinvolgimento di più enti nella lotta al terrorismo per seguire la diffusione della

minaccia”, sebbene con l’attenzione “di mantenere il delicato equilibrio tra

sicurezza dell’individuo e apertura della democrazia”, evitando il rischio di

trasformare il Paese in “uno Stato poliziesco”. Secondo, ha detto ancora Pantucci,

“con la spinta alla creazione di nuove idee e nuovi concetti, tra cui l’attaccamento

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all’Inghilterra, per prevenire l’adesione di molti giovani alle idee della

radicalizzazione”.

Il modello italiano ci ha chiarito C. Galzerano. “si fonda anche su esperienze ed

errori del passato….La stagione del terrorismo e della criminalità organizzata ha

forgiato intere generazioni di ufficiali e componenti delle forze di polizia”,

permettendo di superare un modello “a camere stagne, senza dialogo”, e di

giungere alla “mentalità e alla cultura della condivisione, una conquista

faticosissima”. Lo stesso Galzerano ricorda che “oggi abbiamo uno strumento, il

Comitato di analisi strategica antiterrorismo (Casa) in cui si incontrano la cultura

di intelligence e il law enforcement, l’analisi e l’intervento operativo, una

congiuntura che si è potuta verificare e che altri Paesi non conoscono”. Da qui,

nonostante la cooperazione operativa sia “la più difficile”, l’idea di esportare il

modello italiano.

CONCLUSIONI

Il Presidente della delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della Nato,

Andrea Manciulli, ha dichiarato che “È importante che tutti coloro che operano nel

campo della sicurezza e dell’Alleanza Atlantica capiscano i valori su cui si

fondano”. Rispetto a una minaccia nuova come quella del Daesh, “anche l’Alleanza

Atlantica ha dovuto dire che le armi non bastano, ma che bisogna unire piani e

settori differenti”. E’ necessario che “tutti i Paesi Nato si dotino del doppio registro

nel contrasto al terrorismo: repressivo e preventivo”, in questo modo, “l’Italia e il

Regno Unito devono essere quelli che battono il chiodo a Bruxelles, affinché la Nato

abbia uno standard preventivo sul tema del terrorismo”.

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Comitato Scientifico della rivista Il Club:

Paolo Alli (Deputato AP-CPE-NCD. Presidente Assemblea Parlamentare della NATO), Giuliano

Amato (Giurista e accademico), Gianluca Ansalone (Responsabile Affari Istituzionali e

Comunicazione – Area Sud Europa di British American Tobacco), Antonio Armellini

(Ambasciatore), Gianfranco Baldini (Professore associato di Scienza politica all’Università di

Bologna), Tim Bale (Professore di Scienze Politiche alla Queen Mary University di Londra),

Annamaria Bernini (Senatrice Forza Italia. Già Ministro per le Politiche Europee), Philip

Booth (Senior Academic Fellow all’Institute of Economic Affairs), Edoardo Bressanelli

(Insegna Scienze Politiche al King’s College London), Elena Di Giovanni (Consulente di

comunicazione internazionale e di promozione culturale), Filippo di Robilant (Analista di

politica internazionale), Alessandro Dragonetti (Managing Partner di Bernoni Grant

Thornton), Francesco Giavazzi (Professore ordinario di Politica Economica all’Università

Bocconi), Claudio Giua (Digital Strategy Advisor, Gruppo Editoriale L'Espresso), Sandro Gozi

(Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri), Giulia Guazzaloca

(Professoressa associata di Storia Contemporanea all’Università di Bologna), Nadey Hakim

(Medico chirurgo. Cavaliere della Legione d’Onore. President’s Envoy dell’Imperial College),

Dominic Johnson (Fondatore di Somerset Capital Management), Tim Knox (Direttore del

Centre for Policy Studies), Andrea Manciulli (Presidente della delegazione italiana presso

l’Assemblea Parlamentare della NATO), Alessandro Minuto Rizzo (Ambasciatore. Presidente

della Nato Defense College Foundation), Domenico Meliti (Managing Director Emd Group),

Michela Montevecchi (Senatrice Movimento 5 Stelle. Presidentessa della Sezione Bilaterale di

Amicizia UIP Italia-Gran Bretagna), Nello Pasquini (Teaching Fellow di Diritto Italiano,

Università di Oxford), Andrea Peruzy (Presidente e Amministratore Delegato della Società

Acquirente Unico), Marco Piantini (Consigliere per gli Affari Europei del Presidente del

Consiglio dei Ministri), Stefano Polli (Vice Direttore ANSA), Gaetano Quagliariello (Senatore di

Idea, Popolo e Libertà), Lia Quartapelle (Capogruppo del Partito Democratico in Commissione

Esteri), Fabrizio Ravoni (Analista economico), Andrea Romano (Storico), Vittorio Sabadin

(Editorialista de La Stampa), Giulio Sapelli (Storico dell'Economia), Paul Sellers (Direttore per

l’Italia del British Council), Daniel Shillito (Presidente, The British Chamber of Commerce for

Italy), Stefania Signorelli (Legal and Business Consultant Northern Fides), Leonardo

Simonelli (Presidente, The Italian Chamber of Commerce and Industry for the UK), Massimo

Teodori (Storico), Giulio Tremonti (Senatore di GAL. Già Ministro dell’Economia e delle

Finanze), Raffaele Trombetta (Ambasciatore d'Italia in Regno Unito), Raffele Volpi (Deputato

Lega Nord), Philip Willan (Giornalista).

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I “SUICIDE BOMBERS”.

Premessa.

Gli attacchi suicidi stanno divenendo sempre più frequenti e devastanti e in molti

ciò genera il desiderio di comprendere quali siano le motivazioni che inducono tanti

giovani a morire suicidi, anche ai fini di capire cosa si potrebbe fare per prevenire e

contrastare il fenomeno.

Non ci siamo posti l’obiettivo di eseguire una ricerca ed uno studio approfonditi ed

esaustivi, finalizzati a dare una risposta e a fornire un nostro parere sul da farsi.

Non abbiamo questa presunzione: non vogliamo sostituirci alle Istituzioni e a tanti

eccellenti esperti, bensì abbiamo scelto di limitarci a fornire alcuni dati e

informazioni in modo da stimolare la curiosità nei nostri lettori. Successivamente,

qualora vi fosse interesse per approfondire il tema trattato, si potrebbe pensare di

organizzare un evento nel quale invitare degli esperti sull’argomento a discuterne.

Stabiliti gli obiettivi, abbiamo avviato una ricerca iniziando dalla individuazione di

dati che ci consentissero di quantizzare meglio il fenomeno e comprenderne le

radici, e, successivamente, procedere con la raccolta di pareri di esperti sulle

possibili misure preventive e di contrasto.

La raccolta di dati statistici relativi esclusivamente al fenomeno dei “Suicide

bombers with Improvised Explosive Devices” (SIED) si è rivelato difficile e, una

volta trovata una fonte, i dati si sono rivelati parziali e non più aggiornati.

Ciò nonostante abbiamo ritenuto opportuno citarli, ritenendo che comunque siano

utili per gli obiettivi prefissati ed aprano la strada a nuove e più significative

ricerche di fonti autorevoli al riguardo.

Anche per quanto riguarda i commenti e suggerimenti, ci siamo limitati a

consultare e a sintetizzare quanto recentemente alcuni importanti rappresentanti

delle Istituzioni hanno dichiarato, nonché quanto è stato scritto nei libri da noi

recensiti in questi mesi.

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I soci ANSSAIF e i colleghi di OSSIF sono invitati a proporsi per approfondire

questa od altre ricerche e studi sui fenomeni che ci occupano.

Il database della Università di Chicago

Per fare ciò, ci siamo basati sul data base creato da un progetto della Università di

Chicago1 che riporta le rilevazioni fatte dal 1974 ad ottobre del 2016 e dedicate

proprio agli attacchi di questo tipo, eseguiti tramite cintura esplosiva, o con veicolo

o con altro mezzo. La peculiarità è che raccoglie solo quegli attentati nei quali

l’attentatore muore e provoca morti e feriti.

Le nostre elaborazioni sono state eseguite sui dati a partire dal 2011, in quanto i

numeri precedenti sono piuttosto bassi: ciò in analogia con quanto un’altra

associazione, finanziata dalla NATO, ha fatto. E’ in questo periodo, infatti, che si è

avuta una crescita sostenuta nel numero di attacchi e nel numero di civili colpiti:

nel periodo esaminato essi hanno rappresentato il 51% dei morti ed il tasso di

letalità è stato pari a 14 deceduti per attentato.

Nelle tabelle che seguono abbiamo riportato alcune nostre elaborazioni nelle quali

abbiamo voluto comparare i dati relativi anche ai soli attentati con cintura

esplosiva, o con veicolo, in quanto ci si attendono effetti molto diversi fra loro.

Un’altra ripartizione ha riguardato il sesso dell’attentatore, data la percezione che

ad eseguire gli attentati siano nella quasi totalità di sesso maschile.

1 fonte: Chicago Project on Security and Terrorism (CPOST). 2016. Suicide Attack Database

(October 12, 2016 Release)

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Tabella 1

Come si può notare, gli attacchi con la sola cintura esplosiva, pur rappresentando

il 35% degli eventi, hanno mediamente una maggiore “efficacia” rispetto a quelli

con un veicolo carico di esplosivo (30,7 contro 25,9).

Per quanto invece riguarda le donne, non sono pochi i loro attacchi e

rappresentano il 10% del totale, con una efficacia paragonabile a quella degli

uomini.

Se osserviamo l’andamento nel periodo 2011 – 2015, si osserva che nel 2015 sono

avvenuti una volta e mezza il numero degli attacchi e dei deceduti che si erano

avuti nei 4 anni precedenti; segno questo di un incremento notevole.

La maggior parte degli attacchi sono avvenuti in Nigeria, Cameroon, Russia, e ad

opera prevalentemente di gruppi ignoti (o non registrati), di Boko Aram ed altri

come Al-Shabaab.

I dati di attentati da parte di donne nel 2016 (dati parziali) segnalano solo 5 casi

(su 308 totali) con 51 deceduti e 187 feriti, ma con una caratteristica: gli obiettivi

erano i civili ed avvennero nel 73% dei casi con un veicolo. Due attentati furono

opera del PKK.

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In tabella 2 abbiamo invece evidenziato gli attacchi raggruppati per “campagna” /

organizzazione, riportando solo quelli che hanno avuto maggiore frequenza ed

impatto.

Tabella 2

Nell’esame del database, è emerso che per il 90% degli attentatori non è stata

rilevata alcuna informazione relativa al livello di educazione, alla occupazione al

momento di aderire al gruppo terroristico, né di eventuali precedenti penali.

Una nostra ricerca su altre fonti di informazioni, ci ha permesso di raccogliere una

quindicina di schede di terroristi europei (pochi ahimè!) e solamente per circa la

metà di essi si sono potute reperire le sopradette informazioni. Per tutti invece era

indicata l’età: il 90% era fra i 20 ed i 30 anni, di cui il 50% fra i 25 ed i 30.

Trattasi di pochi soggetti che, quindi, non possono rappresentare un campione

significativo.

Un altro campione, non significativo, nel quale ci siamo imbattuti, è quello di 149

soggetti, provenienti da 51 Paesi, che avevano compilato il questionario per

l’adesione all’ISIL. I dati sono relativi ai mesi di novembre e dicembre 2013, e sono

stati ricevuti da un foreign fighter che aveva abbandonato l’ISIL ed era tornato in

Europa.

Pur non essendo un campione significativo, per completezza informativa crediamo

di fare cosa utile ai nostri Lettori se riportiamo comunque alcuni dati:

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• I 149 volontari erano tutti maschi;

• l'81% aveva meno di 31 anni,

• il 75% un titolo di studio di scuola secondaria o di università,

• il 70% non era coniugato,

• il 15% uno o più figli (uno ne ha dichiarati ben 8),

• il 68% aveva solo una conoscenza di base della shaaria,

• 20 di loro indicarono di avere già avuto esperienza nella jihad e hanno

indicato dove: 16 tra Siria, Libia ed Afghanistan, uno in Iraq, due in Pakistan

e uno in Yemen.

• Alcuni hanno indicato il desiderio di essere “suicide bomber”.

Si possono trarre delle conclusioni?

Se una prima conclusione si vuol trarre da tali (pochi) dati, si potrebbe comunque:

• confermare il trend di crescita degli attacchi suicidi,

• l’aumento nel coinvolgimento delle donne,

• la giovane età dei suicidi, e

• l’efficacia degli attacchi con cintura esplosiva;

• riportare che il numero medio delle vittime per ciascun attentato è di circa

10, ed è di 30 considerando anche i feriti;

• non è facilmente possibile (in base ai dati che siamo riusciti a reperire) poter

tratteggiare il profilo tipico del terrorista: cioè sulla base della occupazione,

del titolo di studio, se con eventuali precedenti penali, lo stato civile, ecc.

Quali misure preventive?

Nella nostra ricerca, ci siamo imbattuti in una pubblicazione della “ACTION ON

ARMED VIOLENCE” (AOAV). La pubblicazione è stata finanziata da: “the NATO

Counter Improvised Explosive Devices Centre of Excellence (C-IED COE) and the

Government of Norway, Ministry of Foreign Affairs”) e, oltre a delle schede su

alcuni terroristi, riporta nelle conclusioni “Preventative measures” i suggerimenti

sul da farsi per bloccare i suicidi con esplosivi (i c.d. SIED).

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Anche se dubitiamo che si possano bloccare, senz’altro degli interventi ad ampio

spettro, condotti dalle Istituzioni, possono senz’altro ridurne il numero.

Qui di seguito riassumiamo il loro pensiero.

Il capitolo sulle misure preventive parte da lontano; infatti, inizia ricordando che

prima del 1980 gli attacchi suicidi erano di esclusivo uso dei militari.

A parere di AOAV non hanno mai avuto l’effetto desiderato, ma, anzi, effetti

inattesi. A dimostrazione di ciò ricordano come i kamikaze giapponesi non

procurarono i danni attesi sulle truppe americane e che invece ebbero l’effetto di

spingere l'America ad anticipare la fine della guerra sganciando due bombe

atomiche che provocarono almeno 129.000 morti.

Tra il 1980 e l'11 settembre 2001 ci furono globalmente almeno 188 attacchi

suicida. Tra questi, i principali erano attuati per forzare l'uscita di truppe straniere

da un paese o per far cambiare strategia al governo.

Fra questi eventi, viene citato ampiamente il caso del Libano. La forza

multinazionale in Libano soffrì il più grande numero di vittime il 23 ottobre del

1983 quando degli sciiti suicida fecero esplodere due camion pieni con esplosivo

(equivalente a 6 tonnellate di TNT): ciò provocò la morte di 241 americani e 58

paracadutisti francesi.

Nel marzo del 1984, a distanza di 5 mesi, l'America uscì dalla forza multinazionale

ed abbandonò il Libano.

Il rapporto spiega ampiamente che in realtà l'uscita dell'America non fu dovuta

interamente all'attentato in quanto fu colta l’occasione per uscire da una

situazione che nessuno aveva voluto, tranne il presidente che lo approvò senza

l'approvazione del Congresso. Una mancanza quindi di un supporto politico

senz'altro diede la spinta alla uscita da quella missione; gli altri attentati suicidi di

quel periodo non diedero l'atteso risultato.

Il rapporto procede quindi nel descrivere alcune ipotesi di interventi ai fini, come

abbiamo detto, di bloccare questa crescita di attentati suicida.

I punti principali sono i seguenti:

a) prevenire gli abusi dei diritti umani;

b) analizzare i “drivers” che inducono i giovani al suicidio;

c) bloccare la diffusione della Islamofobia;

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d) individuare ed affrontare gli individui vulnerabili all'estremismo;

e) non diffondere i messaggi estremisti;

f) sostenere il dialogo con i capi islamici;

g) rivedere attentamente l'impatto dell'attuale politica estera dell'ovest nei

territori e in particolare nel medio oriente e nel Nord africa;

h) incoraggiare la pace nella regione mediorientale e del Nord africa;

i) raccogliere in maniera precisa gli impatti degli attacchi suicidi;

j) controllare efficacemente i componenti gli ordigni esplosivi;

k) assicurare finanziamenti in modo da assicurare che la società civile, gli

imprenditori, gli addetti al commercio, le unità di polizia, le agenzie delle

Nazioni Unite, i militari e le altre componenti chiave della rete collaborino per

rispondere in maniera creativa ed efficace a questa terribile arma.

Non ci pronunciamo su quanto suggerito nel rapporto, se non che, nei riguardi del

suggerimento i), confermiamo che vi devono essere statistiche complete ed affidabili

sul fenomeno dei suicidi con esplosivi (così come per le altre modalità di attacco).

Ci auspichiamo comunque che questo, come altri argomenti da noi affrontati in

questa sede, trovino uno o più momenti di dibattito con i colleghi che si occupano

di Security e di Risk Management.

Preferiamo vedere che cosa altre fonti autorevoli suggeriscono al riguardo.

ACW

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IL PARERE DEGLI ESPERTI.

Abbiamo quindi ripreso i libri in nostro possesso, e recensiti negli ultimi mesi, per

vedere cosa autorevoli professionisti e rappresentanti delle Istituzioni hanno

affermato al riguardo.

Abbiamo immaginato di riunirli virtualmente attorno ad un tavolo (sperando che i

diretti interessati non si offendano!), chiedendo loro lumi nei riguardi del profilo di

questi soggetti e delle motivazioni che hanno indotto dei giovani ad aderire al

terrorismo islamico.

Domanda: «Dai dati in nostro possesso, e poc’anzi citati, si evidenzia che la grande

maggioranza dei giovani suicidi non conoscono la “sharia”. Come risponde alla sua

domanda, prof. Zoja: “Perché esplode ora questa follia in tante giovani menti, che si

autodefiniscono islamiche, malgrado la maggior parte dei teologi dell'Islam non sia

d'accordo con il loro “missionarismo distruttivo”?”».

Luigi Zoja " Le ragioni che lo causerebbero, infatti, esistevano da decenni o

addirittura da generazioni: mancata integrazione culturale di giovani immigrati, di

prima o addirittura di seconda generazione, esistenza di versioni integraliste e

antimoderne della loro religione, rapporto di odio-invidia con la cultura europea

eccetera.”.

Seconda domanda: “perché, simmetricamente, in noi occidentali esplodono una

paura, una irrazionalità e al limite una follia altrettanto sproporzionate, che

permettono di far risorgere movimenti quasi fascisti, e di trascurare problemi più

urgenti?".

Luigi Zoja:"Il mondo vive oggi un'epoca in cui, in apparenza, le guerre non sono

così frequenti; ma il clima collettivo sembra disporsi più agli scontri che alle

mediazioni necessarie per gestire la politica e l'economia. In questo modo le

opposizioni si radicalizzano, formando una corrente planetaria parente del

"nihilismo", ma meno filosofica, più popolare e drastica, che potremmo chiamare

"no-ismo". La necessità di trovare capri espiatori sembra particolarmente attiva

nell'immaginario di tutti i paesi. Lo studio della paranoia, infatti, è ben lontano dal

riguardare solo la psicopatologia: deve occuparsi del nostro rapporto con il male -

che può oscillare tra la proiezione e la consapevolezza -, quindi appartiene alla

morale, che è un problema di tutti.".

Domanda di Omar Bellicini: "Come mai le seconde e terze generazioni degli

immigrati, che si sentono tagliate fuori da un benessere fortemente desiderato,

reagiscono con strumenti più violenti di quelli dei padri?”.

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Luigi Zoja: ”Pur migliorando le condizioni, le seconde o terze generazioni restano ai

gradini più bassi delle società in cui cercano di integrarsi. Se invece rivalutano la

propria identità etnica e religiosa, scoprono con stupore di poter guardare gli

europei con fierezza, addirittura dall'alto. E non completamente a torto. Si gonfiano

di disprezzo per i nostri obbiettivi effimeri, egoisti, per il nostro materialismo.

Soprattutto in campo sessuale. Dobbiamo anche considerare la globalizzazione. È

un fattore inedito nella storia dell'uomo: non era mai avvenuto che tutte le civiltà

comunicassero tra loro. L'Islam finisce gomito a gomito con l'Occidente in ogni

angolo del mondo. Resta da stabilire se sia un elemento di avvicinamento o di

ulteriore destabilizzazione. Stando alla cronaca, si potrebbe propendere per la

seconda ipotesi, ma non bisogna lasciarsi andare a valutazioni frettolose: il

cammino dell'evoluzione ha tempi lunghi.”.

Domanda di Omar Bellicini: “C'è anche uno scontro generazionale?”.

Luigi Zoja: "Ci può anche essere, tanto per intenderci. Però non sarebbe un

fenomeno specificatamente islamico; tutt'al più potrebbe essere accentuato

dall'indebolimento dei legami familiari, che la frizione con una società diversa da

quella di origine è in grado di provocare. Ma non vedo una soluzione di continuità

rispetto alla tradizione dei padri. Piuttosto, sembra essersi instaurata quella che ho

definito altrove la società dei fratelli: un legame orizzontale che prevale su quello

verticale. Una comunità che non desidera più un’autorità patriarcale: non perché

sia post-patriarcale, al contrario perché ha padri umiliati e non abbastanza

carismatici. Loro, i figli "combattenti", si vedono come una banda di uguali con,

tutt'al più, un capo carismatico che non abbia una funzione paterna specifica. Una

"band of brothers", per dirla con Shakespeare. Paradossalmente, può essere una

conseguenza della maggiore integrazione dei giovani nelle società di approdo. Se è

vero, infatti, che molti di questi terroristi conducevano una vita ai margini, spesso

ai confini con la piccola criminalità, è altrettanto vero che avevano adottato i

costumi dei propri coetanei di origine europea, dall'alcol al sesso. Un aspetto che li

allontana dai comportamenti dei genitori, rafforzando il legame orizzontale.".

Domanda di Omar Bellicini: "Sui giovani pesa una maggiore incertezza e diventa

sempre più difficile fornire una fisionomia precisa alla propria vita, se non altro in

termini lavorativi. È ovvio che non si tratti di una causa diretta della

radicalizzazione, ma non le sembra uno dei fattori per cui la propaganda dell’ISIS,

che focalizza molti dei suoi contenuti sul tema della missione da compiere, trovi un

terreno fertile in tanti ragazzi?”.

Luigi Zoja: "E’ un'analisi condivisibile. Con una riserva: siamo di fronte a un

processo sensibilmente più complesso. Che fra le cause vi siano serie componenti

economiche è indiscutibile, ma come spiegazione è insufficiente: altrimenti

avremmo visto infinite altre radicalizzazione terroristiche, in infiniti luoghi e infinite

generazioni. (…) Possiamo ammettere che l'idea di far parte di un progetto più

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grande di sé eserciti fascino. L'ipotesi di ricostituire il califfato è una sfida

accattivante, proprio nella misura in cui si presenta titanica. Del resto, il sistema

immunitario dell'Occidente è molto debole: il senso di appartenenza alla comunità

si è ridotto, mentre si tratta di una necessità psichica profonda che non può essere

soppressa del tutto. Il punto è questo: l'individualismo presenta il conto che la

nostra società è eccessivamente sbilanciata verso i valori e gli interessi personali.

Consideri ancora la figura dell'eroe: l'iconografia classica ne esalta la forza. Ma che

genere di forza? Tradizionalmente un'energia prima di tutto fisica, finalizzata alla

difesa del gruppo, potremmo dire. Guardi come è distorta oggi: il corpo muscoloso

non è più lì per dare, ma per ricevere. È diventato una qualità egoistica che

consente di essere guardati. O addirittura di guardarsi.".

Domanda di Omar Bellicini: "l'adesione a una religiosità di rottura può derivare dal

rifiuto di una vita intesa come semplice occupazione del tempo?".

Luigi Zoja: "E’ un fattore da considerare. Siamo diventati troppo laici. Anche quelli

che abbracciano formalmente una liturgia, spesso allontanano dal quotidiano ogni

forma di spiritualità. Cerchi di intendermi, non voglio farne un messaggio religioso:

può anche trattarsi di una devozione laica, di matrice filosofica o politica. Quello

che voglio dire è che non basta andare in chiesa, in sinagoga, in moschea o in una

sezione di partito. La questione è più intima: serve una ricerca di valori.".

Domanda a Dimitri Bontinck: «nel suo libro lei racconta come non si è accorto della

radicalizzazione di suo figlio e di come poi, essendo egli andato a combattere in

Siria, sia poi riuscito a portarlo a casa. Quale è la sua opinione riguardo a quanto

sino ad ora detto?».

Dimitri Bontinck: "Mio figlio Jay crebbe come un ragazzo belga assolutamente

normale. Era curioso, sembrava una spugna. A 14 anni, lo scoprii a leggere dei

libri sulla massoneria, e poi sui cavalieri templari. Quegli uomini che avevano

provato a cambiare il mondo lo affascinavano, semplicemente.

(…) Mio figlio trovò una nuova fidanzata, una ragazza marocchina musulmana.

Quando iniziarono a parlare, lei gli chiese: "perché non ti converti all'Islam?". Mio

figlio si piazzò davanti al computer e scrisse "che cos'è l'Islam?". Non sapeva niente

di quella religione, in realtà -né di positivo né di negativo. Voleva solo parlare con

una ragazza. Trovò la pagina di Wikipedia sull'Islam e iniziò a leggere. 30 secondi.

Sono sufficienti per cambiarti la vita. Jay aveva i miei geni avventurosi, il mio

bisogno di trovare delle risposte alle grandi domande esistenziali. Si era separato

da una ragazza, e voleva cambiare.

Mi chiedo dove fossi io il 1 agosto 2011, in quel momento, quando mio figlio si alzò

in piedi nella moschea, con un microfono in mano, pronto a intraprendere una

nuova vita. Facevo la spesa o guardavo una partita di calcio? Avevo appena preso

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in mano il telecomando per cambiare canale? A neanche 1 km da casa mia, a mia

insaputa, mio figlio cambiò.

Un giorno mio figlio incontrò un giovane vivace, carismatico. Lo devo ammettere

perfino io. Era sfacciato e sicuro di sé e sembrava traboccar energia. Aveva un

modo di parlare che era allo stesso tempo scaltro e pieno di aneddoti storici e di

nozioni. Mio figlio in seguito disse che era come un'iniezione di droga. La nebbia si

dissolse dalla vita di Jay e lui vide il mondo con chiarezza per la prima volta in

molti mesi. Il caos dell'esistenza, la ricerca di un modo con cui condurre una vita

significativa, furono spazzati via. Il predicatore radicale fu il tassello finale del

puzzle. L'esistenza di mio figlio-amici, calcio, rap, danza-gli sembrava ridicolmente

piccola, adesso. C'era una vita epica che lo aspettava, un modo di ribellarsi di

vivere per sempre da martiri. Quale adolescente avrebbe potuto resistere?".

Guido Olimpia: «Ambasciatore Romano, “è sorpreso dall'uso esteso, potremmo dire

quotidiano, dei kamikaze?"».

Sergio Romano: "è certamente un'arma efficace contro cui è difficile proteggersi. Ma

è sorprendente che essa venga usata con giustificazioni religiose dai fedeli di una

confessione che condanna il suicidio. Ed è ancora più sorprendente che quest'arma

venga usata da persone che dichiarano di trovare nei testi della loro fede tutte le

norme necessarie all'organizzazione civile e politica della società. Per i grandi

monoteismi il suicidio è sempre stato un segno di disperazione, quindi una

implicita negazione dell'esistenza di Dio e della sua infinita saggezza.".

Domanda:«Dott. Magdi Allam, quale è il suo pensiero a questo riguardo?».

Magdi Allam: "su un piano generale noi siamo psicologicamente, culturalmente,

politicamente e militarmente impreparati a fronteggiare il terrorista suicida, perché

tendiamo istintivamente a considerare che ciascuno abbia a cuore la propria vita,

così come le nostre leggi e i nostri sistemi di sicurezza sono stati concepiti per

confrontarsi con un'attività di crimine organizzato dove non si considera che si

intenda perseguire il crimine tramite il suicidio-omicidio premeditato e organizzato.

Ecco perché diventa vitale comprendere correttamente la dimensione organica della

"fabbrica di kamikaze" che, come in una catena di montaggio, parte dalla

predicazione violenta, perlopiù nelle moschee ma anche sui siti Internet, che

inneggia alla jihad intesa come guerra santa

La predicazione violenta non può essere estrapolata dal suo contesto e fraintesa

come una libertà d'espressione. Se è vero che non tutte le moschee sono

integraliste, estremiste o terroriste, è però vero che tutti gli integralisti, gli

estremisti e i terroristi islamici sono diventati tali all'interno di una moschea.

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Domanda: «Dott. Allam, come può conciliarsi il suicidio-omicidio con i dettami del

Corano?».

Magdi Allam: “Nell'ottobre 2002 un gruppo di 28 Ulema, giureconsulti,

dell'università islamica di Al-Azhar, una sorta di Vaticano dell'Islam maggioritario

sunnita, emise una fatwa, un responso legale, che legittimava il "martirio", ovvero

il terrorismo suicida islamico, come il più alto grado di jihad, lo sforzo per

avvicinarsi a Dio. Vi si afferma: "Le operazioni di martirio che i palestinesi

compiono ora nei territori occupati per liberarsi dall'oppressione, sono il grado più

alto nel jihad, e la morte nel compiere queste operazioni è considerata la forma più

alta in assoluto di martirio. Nessuno può dire che la resistenza con tutti i mezzi

possibili contro l'occupazione è un fatto illegittimo. È sbagliato, altresì, il tentativo

di confondere il martirio con il suicidio, perché il suicida è un disperato a causa

della sua vita, mentre il martirio è un atto eroico compiuto da una persona che

sacrifica la sua anima sulla retta via di Dio per difendere sé stessa, la patria, la

comunità, la dignità, l'onore, la religione e i luoghi sacri.".

Domanda: «Generale Mori, adesso abbiamo avuto attentati anche in Europa. Chi

sono?».

Mario Mori: "I protagonisti di questi attentati sono in massima parte persone

residenti, se non addirittura originari, delle città in cui si sono verificati i fatti e con

cittadinanza negli stessi Stati nel mirino degli attacchi. Praticamente tutti loro

avevano avuto contatti, passaggi o soggiorni prolungati nelle aree del medio

oriente, radicalizzandosi e conseguendo un sufficiente addestramento al

combattimento. Il prestigio militare conquistato dai gruppi jihadiste i mediorientali,

dunque, ha determinato un cospicuo flusso di combattenti stranieri che, secondo

uno studio del Soufan Group, provengono da Stati diversi ma con assoluta

predominanza di elementi originari del medio oriente.

Questi combattenti sono di varia estrazione sociale e, più che dalla condivisione dei

precetti dell'Islam radicale, sono attratti da una causa in cui trovano

un'identificazione e per la quale ritengono valga la pena combattere e sacrificare la

propria vita. Tra costoro, i cittadini occidentali sono all'incirca 3000, con le punte

più alte che riguardano francesi e belgi, ma è molto significativa anche la presenza

di elementi provenienti dalla Russia e dalle repubbliche del Caucaso.

Malgrado il numero ancora contenuto di coloro che sono rientrati, questi individui

sono ben addestrati alla violenza e dunque in grado di compiere attacchi anche

multipli e coordinati, fabbricare ordigni esplosivi e fare opera di propaganda nelle

comunità islamiche delle città europee e occidentali dove è possibile trovare

simpatizzanti della causa jihadista.

I foreign fighters, inoltre, non presentano patologie psicologiche precise nè disordini

mentali.

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Gli analisti tendono a rintracciare in una serie di fattori l'origine dell'adesione a

movimenti e gruppi jihadisti. I fattori religiosi sono importanti, ma solo accanto ad

altre motivazioni come: alienazione, disaffezione alla vita, discriminazione ed

emarginazione, crisi personali, odio per i valori occidentali, idea di partecipare a

una lotta epica per la realizzazione dell'utopia di uno Stato islamico. L'aspetto

romantico e tragico dell'adesione all'ISIS è particolarmente evidente nel caso delle

giovani donne occidentali che hanno raggiunto il Califfato per sposarsi con i

combattenti islamici.

Domanda: «E quindi, che fare?».

Mario Mori: “Le attività di contrasto dovrebbero essere fondate su: prevenzione,

conoscenza, mitigazione e repressione.

L'attività di prevenzione si realizza nelle seguenti fasi: intraprendere iniziative volte

a impedire o limitare la radicalizzazione; contrastare la radicalizzazione attraverso

il Web con specifiche azioni di contro terrorismo on-line e rimozione di contenuti;

monitorare e contrastare la radicalizzazione nelle carceri; rendere difficili, se non

impedire, i viaggi dei combattenti volontari; costruire un database sui foreign

fighters e sui terroristi combattenti; generalizzare i sistemi di tracciamento e

identificazione redigendo liste ed elenchi come avviene con le liste dei passeggeri.

Conoscenza: costruire database di terroristi combattenti effettivi e potenziali da cui

estrarre, attraverso metodologie statistiche, indicazioni sui fenomeni da sorvegliare

e analisi predittiva al fine di identificare i nemici (terroristi effettivi e potenziali) che

vivono nella società.

Sviluppare modelli decisionali che sappiano tradurre le evidenze fornite dai modelli

statistici in priorità operative su cui concentrare le iniziative investigative.".

Domanda: «On. Manciulli, quali conclusioni?».

Andrea Manciulli: “L'Occidente, l'Europa soprattutto, si trovano davanti alla

necessità di affrontare con una strategia unitaria, multilaterale e sviluppata su più

livelli, le sfide alla sicurezza e all'ordine internazionale, che il terrorismo jihadista

ha prodotto in questi anni e del quale, dall'11 settembre fino ad oggi, abbiamo

avuto molte concrete testimonianze anche sul nostro territorio. L'alternativa ad

essa è, al contrario, subire, passivamente, chiudendoci noi stessi e reagendo in

maniera disordinata agli effetti prodotti dal disordine globale emergente

sull'opinione pubblica e sul sistema politico e sociale.

Non sarà una scelta semplice, ma la strada da percorrere è obbligata e non può

non vedere un nuovo protagonismo e una nuova determinazione da parte europea

e occidentale. I nostri valori al progetto euro-Atlantico fondato sulla democrazia e

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la libertà sono sempre attuali, e, in tempi in cui la Vulgata populista e l'antipolitica

hanno messo in discussione la loro utilità, è necessario rilanciarli, con forza e

coraggio, non tanto per imporre agli altri il nostro modello, quanto per costruire

forme di collaborazione e di cooperazione orientate a garantire la sicurezza, il

benessere diffuso, la pace.

Negli ultimi anni, anche di fronte a opinioni pubbliche refrattarie nei confronti del

tema delle spese per la difesa e la sicurezza, fortemente condizionate dalla crisi

economica, dall'arretramento del perimetro del benessere nazionale cui erano

abituate e impaurite da una generale incapacità di comprendere fino in fondo le

mutazioni in atto per effetto della globalizzazione, in molti paesi europei e in tutto

l'Occidente si è smarrita spesso la consapevolezza della centralità del tema della

sicurezza nella sua globalità.

Il nemico che abbiamo di fronte conosce bene le nostre debolezze, le fragilità insite

nel nostro sistema. Sa bene, come la storia recente degli attentati che abbiamo

subito e della propaganda diffusa nelle nostre città, quanto le nostre società aperte,

tolleranti e democratiche possano essere colpite in profondità e ferite,

dolorosamente. Rinunciare ai nostri valori e alla nostra democrazia potrebbe nel

caso non bastarci. Certo, la sicurezza di tutti e la sopravvivenza dell'ordine

democratico può richiedere anche sacrifici, oltre che maggiore consapevolezza dei

pericoli, che sono propedeutici ad affrontare i nostri nemici con tutti i mezzi

necessari a batterli. Ma non sarà l'Europa divisa da nuovi muri e cortine, non sarà

la rinuncia alla tolleranza religiosa o i diritti civili tout court a proteggerci e a

riportare la pace nel Mediterraneo.

Razzismo e intolleranza sono armi pericolose che i jihadisti, come ogni estremista,

cercano di alimentare, per colpirci ancora più in profondità.

Se non riusciremo ad affrontare le nostre debolezze e le nostre contraddizioni,

celate dietro le pieghe della nostra società, non avremo la forza e la convinzione

sufficienti ad affrontare i nostri avversari. Non sarà di sicuro isolandoci, ognuno

dietro i propri confini, o inseguendo la chimera dell'uomo forte al comando, che

supereremo questa prova decisiva per il nostro futuro.

Non siamo soli.

Siamo in tanti e possiamo vincere questa sfida. Lo dobbiamo fare, per il nostro

presente e per noi stessi, ma soprattutto per il futuro che abbiamo davanti e per

chi verrà dopo di noi. Senza rinunciare a quello che siamo, alla nostra storia, ai

nostri valori, alla nostra sicurezza, che è un bene primario indispensabile anche

all'esistenza degli altri beni e diritti.

In un mondo insicuro non si può vivere più liberi, le Istituzioni democratiche non

avranno vita facile, né tantomeno sarà possibile costruire un benessere diffuso

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capace di garantire le opportunità di vita cui ogni persona ha diritto. I nostri valori,

come le nostre vite, devono essere protetti dai nemici che li minacciano. E per

proteggerli, nella maniera migliore, dobbiamo renderli attuali e promuoverli, nelle

nostre azioni concrete con le nostre decisioni, ogni giorno.

Per sconfiggere il terrorismo jihadista dobbiamo avere tutto questo ben presente.

ACW

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Bibliografia.

Dimitri Bontick: Il cacciatore di terroristi, la storia vera di un padre che ha salvato

suo figlio dall’ISIS. Ed. Newton Compton Editori.

Andrea Manciulli: Sconfiggere il terrorismo, L’evoluzione della minaccia jihadista e

gli strumenti legislativi di contrasto. Ed. Camera dei Deputati.

Mario Mori: Oltre il terrorismo, Collana servizi e segreti.

Gaetano Quagliarello e Andrea Spiri: Sfida all’Occidente. Il terrorismo islamico e le

sue conseguenze. Ed. Rubbettino.

Sergio Romano: Anatomia del terrore, colloquio con Guido Olimpio. Ed. Corriere

della Sera.

Luigi Zoja: Nella mente di un terrorista, Conversazione con Omar Bellicini. Ed.

Giulio Einaudi Editore.

Luigi Zoja: Paranoia. La follia che fa la storia. Ed. Bollati Boringhieri.

Luigi Zoja: La morte del prossimo. Ed Einaudi.

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Terminata di comporre il 9 maggio 2018

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