Sicurezza e Lavoro Anno …...2 Anno II n. 5 - Novembre-Dicembre 2011 Attualità Sicurezza e Lavoro
OSSERVATORIO SICUREZZA LAVORO CONVEGNO del … · coordinatore dell’Osservatorio sulla sicurezza...
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OSSERVATORIO SICUREZZA LAVORO
CONVEGNO del 1.12.2010
SICUREZZA DEL LAVORO NEI CANTIERI EDILI
DOTT. GIORDANO:
Buon giorno, sono Bruno Giordano, magistrato presso l’ufficio GIP del Tribunale di Milano e
coordinatore dell’Osservatorio sulla sicurezza del Lavoro, istituito presso questo Tribunale sulla
base di un protocollo con il CPT per l’edilizia di Milano e con la Direzione Regionale dell’INAIL
della Lombardia.
Siamo oggi al secondo seminario, il primo è stato tenuto nel mese di giugno in quest’aula, con un
successo che ci ha incoraggiato a proseguire come da un piano di lavoro che avevamo redatto nella
fase iniziale di gestazione dell’Osservatorio sulla Sicurezza del Lavoro.
Oggi affrontiamo alcuni, non certamente tutti, i problemi legati all’applicazione dei temi della
sicurezza nei cantieri edili.
Il riferimento è ad alcuni temi che sono emersi già con il decreto 494/96 e quindi anche con
l’applicazione, da più di due anni, del titolo IV del TUSL così come riformato nel 2009.
Tutti voi siete tecnici o giuristi, quindi operatori e noi abbiamo scelto pertanto di dare alla materia
un taglio direttamente competente; eviteremo di approfondire delle partri che diamo già per note a
tutti gli operatori che hanno già professato e recepito questi temi.
Inoltre abbiamo scelto di non tenere un tradizionale e classico convegno ma abbiamo optato per una
forma seminariale, di intervista, durante la quale io proporrò degli argomenti ai nostri relatori in una
forma molto libera e durante la quale è auspicabile l’interlocuzione sugli argomenti, anche con
eventuale interruzione degli interventi.
E’ una formula che vuole incontrare il tema di cui ci occupiamo e che, anzi, è in qualche modo
imposta dal tema stesso. Tutti voi sapete che su parecchie di queste disposizioni ci arrovelliamo
quotidianamente: sul significato tecnico, sul significato giuridico, sulla coerenza e sull’applicabilità
stessa delle disposizioni e da ultimo anche sulle novità che irrompono per fonte giurisprudenziale e
per fonte legislativa indiretta su questo tema.
Mi riferisco alla sentenza della Corte di Giustizia del 7 ottobre ed al Decreto Tremonti, che ha
modificato alcuni profili dell’applicabilità di queste fattispecie.
Quindi gli argomenti sono nuovi e la scaletta è stata in parte modificata per l’assenza dell’ing. Tritto
dell’ANCE, che oggi viene sostituito dall’architetto Ciuffi, il cui nome quindi non vedete scritto
sulla scaletta.
E’ una coincidenza, peraltro fortunata, che oggi a Roma si stia svolgendo, proprio per iniziativa
dell’ANCE, dell’ASSIMPREDIL e di una decina di altre associazioni di tutte le parti sociali che si
occupano di edilizia, una manifestazione nazionale di protesta sui temi dell’edilizia; evidentemente
a dimostrazione che non solo la sicurezza ma, in genere, gli aspetti macroeconomici e
microeconomici dell’edilizia sono al centro dell’agenda delle imprese, dei sindacati e di tutte le
parti sociali, purtroppo non della politica italiana.
Mi correggano coloro che hanno una maggiore memoria storica rispetto alla mia ma io non ricordo
che ci sia mai stata una unanime manifestazione di tutte le parti sociali in materia di edilizia come
avviene oggi a Roma. Quindi il nostro incontro cade proprio in questa giornata ma è una
coincidenza meramente cronologica ancora più fortunata.
Ciò detto, ho a cuore una particolare memoria che voglio riportare all’attenzione di tutti voi.
Come avete notato il seminario di oggi è dedicato alla memoria dell’Avvocato Aurelio Cacace, che
doveva essere uno dei nostri relatori ma la relazione che avrebbe svolto Elio, come noi tutti lo
chiamvamo, oggi non sarà tenuta.
Vogliamo così manifestare non il classico e decorosissimo minuto di silenzio in quanto
probabilmente ad Elio non sarebbe piaciuto, non era persona che si sarebbe mai accontentata nella
sua vita di stare zitto; il silenzio non gli si addiceva.
Voglio quindi ringraziare la Signora Mirella per averci onorato della sua presenza e per averci
autorizzato a commemorare Elio in questa circostanza.
Consentitemi un breve ricordo personale da chi si onora di essere stato suo allievo.
L’Avvocato Elio Cacace era un uomo ed un giurista contemporaneamente, per cui è difficile
distinguere le due qualità. Per lui il diritto si alimentava di una certa umanità e l’umanità si
alimentava dello studio; forse, come qualcuno di noi gli ha rimproverato, richiudendosi spesso nello
studio, ma più volte Elio ha fatto delle scelte nella vita che hanno coniugato un senso alto di
giustizia.
Avvocato dello Stato in quel di Palermo negli anni, tremendi, successivi al terremoto del Belice,
Elio ha curato gli interessi dello Stato, senza mai cedere a facili professionalismi.
La cura degli interessi pubblici, della res publica, quando bisognava gestire gli appalti pubblici per
la ricostruzione del Belice – e voi tutti sapete quanto siano facili le infiltrazioni nell’ambito degli
appalti post terremoto- lui lo ha fatto, nell’interesse dello Stato, molte volte da solo, in quel di
Palermo quando, si badi, non c’erano le norme della Merloni, non c’erano le norme che abbiamo
oggi ma c’era un’unica buona arma che era la correttezza, il Codice Civile e poche norme in materia
di evidenza pubblica.
Ha dimostrato in quel momento, in quel periodo storico che non valeva la pena fare l’Avvocato
dello Stato ma valeva la pena essere Avvocato dello Stato, nel senso più nobile, della res publica; e
lo fece anche quando per ragioni personali scelse di trasferirsi all’Avvocatura dello Stato di Milano
e continuò ad occuparsi di appalti pubblici, oltre che di altre materie; lo fece individuando con
arguzia, con intelligenza e – mi permetto di aggiungere e a lui farebbe piacere- con quella capacità
che solo i napoletani possono avere di capire cosa c’era dietro certi appalti pubblici a Milano.
Certe inchieste poi lo scopriranno qualche anno dopo ma lui, come Avvocato dello Stato, l’aveva
già seguito e, forse, gli piacerebbe dire in questo caso che lui seguiva proprio da napoletano queste
vicende: “anema e codice”.
Ha usato in questi anni, prima di tutti gli altri e ci tengo a dire di tutti gli altri, il diritto comunitario
che altri non sapevano nemmeno dove cercare.
Più volte ho discusso con lui di diritto e lui mi invitava a buttare via la Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana e a leggere solo la Gazzetta della Comunità Europea.
Ha fatto questo in modo pionieristico ed io, con altri, gliene siamo grati; lo ha fatto con una visione
forse velleitaria ma pionieristica.
Per questo io ed altri gli siamo grati, perché ci ha insegnato che forse una nuova frontiera della
legalità si stava aprendo, non la legalità di un legislatore italiano improprio, interessato ed alcune
volte anche improvvisato, ma una legalità che lui era riuscito a dimostrare nei fatti.
Parafrasando Leonardo Sciascia, e forse anche questo a lui sarebbe piaciuto, Elio non era un
professionista dell’antimafia, nemmeno della legalità; lui era per la legalità dei fatti e ha continuato
a fare questo anche quando ha lasciato l’Avvocatura dello Stato, ha continuato ad occuparsi di
appalti pubblici, sempre dalla parte della Pubblica Amministrazione, come libero professionista.
Ma Elio Cacace, oltre questo, è stato soprattutto, per me e per altri, un maestro.
Ha istituito un corso di preparazione al concorso per magistratura ben trent’anni fa, insieme ad altri
colleghi; corso che è diventata una scuola che ha prodotto oggi altissimi magistrati, altissime
cariche istituzionali, tra cui la più alta carica in materia di Giustizia oggi in Italia; ha prodotto
magistrati che oggi sono procuratori dell Rapubblica, Presidenti di Tribunali e Presidenti di sezione
in Corte d’Appello - non ne cito ovviamente alcuno.
Ma soprattutto Elio ha insegnato a tutti noi allievi che bisognava scegliere una visione logica del
diritto, una visione lineare, arguta, anche provocatoria se volete, ma mai rassegnata alle
imprecisioni ed alle improprietà del legislatore spesso atecnico ed improprio.
Ogni argomento di diritto che altri direbbero “da fine giurista” non era per lui, perché
automaticamente, con una battuta in napoletano o con un proverbio palermitano, egli smontava tutto
e riportava, sebbene in modo frontale e, perché no? Scontroso, ma sagace ed arguto, ad una umiltà
dei ragionamenti. Faceva prevalere l’uomo sul giurista, la logica sulla lettera della legge, la natura
giuridica sulla tecnica della lettura.
Ricordo che proprio in materia di cantieri edili, circa dieci anni fa, in un affollatissimo convegno
con circa 1.000 persone, a Villa Igea a Palermo, paralizzò l’assemblea e me stesso distruggendo i
passi più importanti del Decreto 494 del 1996, con argomenti assolutamente semplici e logici. I fatti
degli anni successivi gli diedero ragione.
Un ultimo atto di memoria.
In questo palazzo Elio non tornava più con piacere, disilluso del fatto che il diritto diventasse solo
processo e, soprattutto, che vi fosse una ancora buona e dignitosa risposta da parte di
un’amministrazione della Giustizia claudicante.
Ricordo l’ultima telefonata; in cui, di fronte ad un mio malinconico silenzio da cui egli comprese
subito cosa fosse successo nella mia vita, mi apostrofò immediatamente, di fronte alla mia
spiegazione di un problema strettamente professionale, con una frase che fotografò tutta la realtà,
ancora una volta: “ho capito –disse- hai detto la verità in faccia a qualcuno. Cosa ti aspettavi? Solo
problemi potevi avere”. Aveva ragione, anche quella volta.
Ora noi allievi abbiamo accettato la sua sfida, una sfida umile ovviamente ma, come Elio sapeva,
l’umiltà è dei grandi e la modestia è dei mediocri. Ed Elio non era certo un modesto.
Grazie di quest’attenzione.
***
PRIMA SESSIONE: I COORDINATORI
Passiamo ora alla prima parte di questo seminario antimeridiano, riservandoci nella tavola rotonda
del pomeriggio di occuparci dei problemi legati alla vigilanza e di tutti gli aspetti che ne fanno da
corollario.
Stamattina abbiamo diviso i lavori in tre parti.
Nella prima ci occuperemo dei problemi, a tutti noti ma che vogliamo ripassare e rivedere, relativi
ai coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione.
Abbiamo chiesto al collega Maurizio Ascione della Procura della Repubblica di Milano e
all’architetto Borgazzi, esperto in materia di sicurezza dei cantieri edili, di affrontare a quattro mani
questo tema e, ovviamente, loro hanno già prestato il consenso reciproco ad interrompersi e ad
interloquire liberamente sui temi dei coordinatori.
La prima richiesta che vorrei porgere al collega Ascione è quella di riepilogarci brevemente i
compiti dei due coordinatori, per dare il là alla nostra successiva interlocuzione.
DOTT. ASCIONE:
Intanto saluto tutti e ringrazio per quest’occasione il collega Giordano.
Lo ringrazio anche della sua quasi commovente presentazione di questo convegno e, proprio
prendendo spunto da uno dei passaggi della presentazione del collega (ovvero l’importanza della
normazione europea a cui noi tutti dobbiamo fare riferimento, logicamente e temporalmente, in
quanto fonte del diritto e di regolazione dei nostri rapporti, anche nell’ambito della materia dei
cantieri e dell’edilizia) ricordo a tutti voi che la figura del coordinatore, che poi si sdoppia nella
figura del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione, trova la sua fonte
originaria in un atto normativo dell’Unione Europea e cioè nella Direttiva del Consiglio CEE 24
giugno 1992 n. 57.
I contenuti di tale atto, in fase di applicazione nel nostro paese, sono stati complessivamente ripresi
ed, in effetti, proprio la funzione di collegamento e di cerniera che questa figura ha tra il
committente (cioè il soggetto per conto del quale l’opera viene svolta) e l’impresa esecutrice (che si
occupa dell’effettiva esecuzione dell’opera) è stata ricostruita nella legislazione italiana prima con il
decreto legislativo 494 del 1996, poi con il D.P.R. 222 del 2003 e poi ancora con l’operazione di
riordino e risistemazione del Testo Unico, Decreto 81/08.
Ricordo soltanto che in sede di premessa della Direttiva CEE ne viene proprio espressa la ratio,
ovvero l’idea che ha spinto il legislatore europeo ad introdurre la figura del coordinatore, laddove
viene detto in alcuni passaggi: “considerando che i cantieri temporanei o mobili costituiscono un
settore che espone i lavoratori a rischi particolarmente elevati, considerando che scelte
architettoniche e/o organizzative non adeguate o una carente pianificazione dei lavori all’atto della
progettazione dell’opera hanno influito su più della metà degli infortuni sul lavoro nei cantieri
della Comunità Europea, considerando che all’atto della realizzazione di un’opera la carenza di
coordinamento, in particolare dovuta alla presenza simultanea o successiva di imprese differenti,
può comportare un numero elevato di infortuni sul lavoro...”.
Questi passaggi, nell’ambito di una più ampia premessa, sono esplicativi del pensiero del legislatore
comunitario sulla ragione di fondo dell’introduzione di una figura, quella del coordinatore, che si
inserisce, nell’ambito dei lavori edilizi, dal lato della componente soggettiva dei controllanti
(unitamente al committente e/o responsabile dei lavori), contrapposta all’altra componente dei
controllati (cioè i direttori delle imprese esecutrici).
Tale figura, quindi, si inserisce nella componente dei controllanti ma, al tempo stesso, funge (lo
dice spesso la Corte di Cassazione anche in recenti pronunce) da anello di collegamento e cerniera
tra il soggetto per conto del quale una certa opera edilizia viene svolta ed il soggetto incaricato di
svolgere l’opera in qualità di appaltatore o subappaltatore.
Il legislatore europeo ha dunque operato questa scelta e quello italiano lo ha seguito in maniera
perfettamente aderente in quanto, se andiamo a vedere il contenuto del D.lvo 494/96 e poi del
TUSL, vediamo che le nozioni di cantiere temporaneo o mobile, di committente, di responsabile dei
lavori, di lavoratore autonomo, di coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione sono le stesse
già adoperate nel 1992 dal legislatore europeo.
In particolare, quando la Direttiva e le norme interne nazionali affrontano la definizione di
coordinatore per la progettazione, esse vengono ad esprimere la necessità di individuare un soggetto
che, contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione, si occupi anche dell’adozione
delle misure di prevenzione per la sicurezza e la salute dei lavoratori attraverso la redazione del
Piano di Coordinamento per la Sicurezza e la formazione del Fascicolo.
Quindi il coordinatore per la progettazione idealmente segue, pari pari e ai fini della sicurezza, il
lavoro che fa il progettista a livello progettuale ed architettonico.
Testualmente, la norma dell’art. 90 del TUSL fa riferimento ai “cantieri in cui è prevista la
presenza di più imprese esecutrici anche non contemporanea”.
Qui il legislatore italiano riprende il pensiero di quello comunitario laddove esso si era espresso,
nella premessa della Direttiva, sull’esigenza di istituire una figura di coordinamento proprio in
presenza di cantieri in cui interagiscano, anche non contemporaneamente, più imprese. Questo
perché la compresenza di più imprese aumenta il livello di rischio che si verifichino infortuni
durante i lavori.
Allora, nei cantieri in cui è prevista la presenza anche non contemporanea di più imprese esecutrici,
il committente, contestualmente all’affidamento dell’incarico, designa il coordinatore per la
progettazione (art. 91) e quest’ultimo (art. 100) “redige il Piano di Sicurezza e di Coordinamento ed
il Fascicolo adattato alle le caratteristiche dell’opera”.
Occorre quindi distinguere questi due documenti.
Il primo rappresenta la valutazione di tutti i rischi e l’adozione di tutte le misure necessarie per
scongiurare gli incidenti sul lavoro, le quali sono contemplate a livello minimale nell’allegato XV
del D.Lvo 81/08; imponendosi poi al coordinatore per la progettazione un arricchimento e
un’integrazione delle stesse in consdiderazione delle caratteristiche del progetto.
In aggiunta al PSC è prevista, poi, la formazione del Fascicolo, che serve essenzialmente ad una
descrizione sintetica dell’opera da svolgere, arricchita con tutta la documentazione tecnica e
all’individuazione dei rischi e delle misure di prevenzione da adottare ai fini della manutenzione dei
lavori da porre in essere.
Questo è in estrema sintesi il compito del coordinatore per la progettazione.
Quanto invece all’art. 92 TUSL, in esso vengono individuati i compiti e quindi le responsabilità del
coordinatore per l’esecuzione il quale, partendo dal PSC formato dal coordinatore per la
progettazione, si occupa della fase esecutiva e di quella di adattamento del PSC alla dinamica ed
alla evoluzione dei lavori.
Non è da escludere (anzi spesso è utile ai fini pratici) una coincidenza fisica tra la figura del
coordinatore per la progettazione e quella del coordinatore per l’esecuzione.
Il PSC viene quindi integrato con i piani operativi da redigere da parte delle imprese esecutrici, ma
altri compiti del coordinatore per l’esecuzione sono contemplati a partire dalla lettera c) dell’art. 92
co. 1 TUSL.
Essenzialmente tali compiti vedono il coordinatore per l’esecuzione impegnato nel favorire il più
profondo e scrupoloso coordinamento, nonché lo scambio reciproco di informazioni tra le imprese
coinvolte, contestualmente o in via differita, in un certo cantiere edile.
L’idea del legislatore europeo del 1992 è stata dunque quella di istituire una figura che faccia da
anello di congiunzione tra più soggetti cooperanti in uno stesso contesto e favorisca la reciprocità
nello scambio di informazioni, di atti e di misure di prevenzione, perché nel cantiere non agiscano
più imprese in maniera isolata l’una dall’altra, dal momento che tale isolamento aumenta il rischio
di infortuni sul lavoro.
Il compito di coordinamento si sviluppa poi nel compito di censura contemplato dalle lettere d) e)
ed f) dell’art. 92 TUSL.
Si tratta del compito di segnalazione al committente (che è il soggetto interessato ai lavori) di tutte
le inosservanze poste in essere dalle imprese esecutrici rispetto ai contenuti del PSC e del POS (che
è il Piano Operativo di Sicurezza siccome modificato ed implementato in rapporto al PSC); del
compito di proporre, in presenza di tali inosservanze, la sospensione dei lavori, l’allontanamento
dell’impresa inosservante o la risoluzione del contratto con la stessa, fino a comprendere il potere di
sospendere in prima persona le singole lavorazioni quando ci si trovi in presenza di urgenza e di
immediato pericolo.
Quindi il coordinatore per l’esecuzione è una figura molto importante ma non si può direche sia più
importante di quella del coordinatore per la progettazione, perché i due soggetti agiscono in fasi
logicamente, ontologicamente e cronologicamente distinte e svolgono entrambi una funzione diretta
a ridurre sempre più il rischio di infortuni in un cantiere coinvolto da più imprese interagenti.
DOTT. GIORDANO:
Possiamo parlare allora della responsabilità del coordinatore, atteso che, oltre la giurisprudenza che
probabilmente citerà il collega Ascione, vi è sicuramente un dato già precedente al testo unico ed
anzi emergente nel periodo di vigenza del Decreto 494/96: gran parte delle sentenze di condanna in
materia di sicurezza del lavoro sono pronunciate nei confronti dei coordinatori per l’esecuzione,
anche se, da una prima lettura della norma, questa figura non era stata disegnata come figura sempre
responsabile di ogni infortunio sul lavoro ma come una figura avente funzioni diverse.
DOTT. ASCIONE:
Sì, sia dalla giurisprudenza che possiamo vedere in passaggi veloci, ma anche già dalla lettura della
norma ed in particolare da quelle lettere dell’art. 92 TUSL sui compiti del coordinatore si evidenzia
una funzione di impulso assegnata al coordinatore nello scambio reciproco di informazioni e di dati
tra imprese diverse.
Da tutti i compiti del coordinatore per l’esecuzione (di censura, di segnalazione ed addirittura, in
casi estremi, di sospensione) emerge evidentemente una AUTONOMA POSIZIONE DI
GARANZIA in capo a tale figura e tale posizione comporta la responsabilità dell’infortunio in caso
di inadempienze.
Dico AUTONOMA perché i compiti del coordinatore che vengono riconosciuti dalla legge, europea
prima e nazionale dopo, sono compiti specifici e direttamente pensati per questa figura, ovvero sono
compiti che non sono fungibili con quelli di altri soggetti come il committente o l’impresa
esecutrice.
Si tratta di compiti e responsabilità distinti ed autonomi, giuridicamente tali da configurare
autonome posizioni di garanzia che si realizzano in particolare, come dice la Cassazione in tempi
recentissimi (2010), in compiti di “alta vigilanza”.
Questa “alta vigilanza” del coordinatore è proprio espressione dell’autonomia del suo ruolo e della
sua responsabilità rispetto ai ruoli ed alle responsabilità del committente o del responsabile dei
lavori e delle imprese esecutrici.
La Cassazione, nella sentenza della Sez. IV pen. del 2010 n. 18149 e in quella del 2007 n. 7714,
afferma, infatti, che un conto è l’”alta vigilanza” spettante al coordinatore per l’esecuzione, altro
conto è il “super controllo” del committente o del responsabile dei lavori, altro conto ancora è la
“stringente verifica quotidiana, momento per momento”, spettante all’impresa esecutrice.
A questo proposito, riprendendo la sentenza del 2010, la Cassazione individua il coordinatore per
l’esecuzione come destinatario di un compito di vigilanza “alta” da non confondersi con quella
“operativa” affidata al datore di lavoro e alle figure che da esso ricevono poteri e doveri (dirigente e
preposto).
Viene rimarcata, quindi, la diversità di ruolo tra coordinatore per l’esecuzione e datore di lavoro
delle imprese esecutrici, qualificando il primo con un ruolo di vigilanza “alta, che riguarda la
generale configurazione delle lavorazioni e non la puntuale stringente vigilanza “momento per
momento”, che è invece demandata alle figure operative del datore di lavoro, del dirigente, del
preposto e del lavoratore.
Ricordavo, infatti, questa terminologia: “alta vigilanza” da un lato (demandata al coordinatore per
l’esecuzione) e “stringente vigilanza momento per momento” dall’altro (del datore di lavoro e del
lavoratore).
Questa differenza è valorizzata dalla giurisprudenza più recente, ma come dare poi applicazione
concreta a questa differenza?
Dice la Corte, preoccupandosi di dare dei parametri agli operatori: occorre analizzare le
caratteristiche del rischio per cui si è verificato l’incidente, cioè comprendere se si tratti di un
“accidente contingente”, scaturito estemporaneamente rispetto allo sviluppo dei lavori e come tale
affidato alla sfera di controllo del datore di lavoro (o del suo preposto) o se invece l’evento stesso
sia riconducibile alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione; in tale ambito al
coordinatore è affidato il formalizzato dovere generale di “alta vigilanza”, che non implica
normalmente la continua presenza nel cantiere con ruolo di controllo sulle contingenti lavorazioni.
Con questi passaggi direi che la Cassazione cerca di esplicare e creare un anello di collegamento tra
quel principio di differenziazione di cui si diceva e le esigenze pratiche che nel cantiere si
realizzano.
Cioè, la Cassazione viene a dire che un conto è un incidente legato ad una situazione contingente ed
estemporanea, un conto invece è un evento riconducibile all’organizzazione complessiva della
lavorazione.
Per chiudere, un altro livello di controllo viene individuato sempre dalla Cassazione anche in capo
al committente, per cui è importante distinguere i vari livelli di responsabilità.
Nella sentenza n. 7714 del 6 dicembre 2007 la Cassazione evidenzia, infatti, che gli obblighi dei
committenti e dei responsabili dei lavori sono specifici, in quanto essi “sono tenuti a svolgere una
funzione di supercontrollo, verificando che i coordinatori adempiano agli obblighi su di loro
incombenti, come quello consistente non solo nell’assicurare ma anche nel verificare l’applicazione
da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi delle disposizioni contenute nel PSC”.
Si può quindi pensare ad una ricostruzione degli obblighi di controllo e delle relative responsabilità
afferenti a queste figure “a cascata”, cioè: il primo livello è quello del “supercontrollo” del
committente, in quanto egli affida l’incarico al coordinatore e deve verificarne l’adempimento dei
compiti, il secondo livello è quello dell’“alta vigilanza” da parte del coordinatore, i cui compiti si
riverberano, infine, “ a cascata” sulle imprese esecutrici, ovvero il coordinatore verifica che il
titolare dell’impresa esecutrice adempia ai suoi compiti di controllo “momento per momento” circa
l’osservanza da parte dei lavoratori delle misure di sicurezza.
DOTT. GIORDANO:
Allora la mia osservazione è questa: sulla base di queste due sentenze si delinea una geografia delle
responsabilità in parte diversa da quella che noi abbiamo sempre pensato di leggere nella lettera
della normativa.
Infatti, al committente viene designata una veste di “supercontrollore”, al coordinatore per
l’esecuzione viene affidato un compito di “alta vigilanza” mentre ai responsabili della singola
impresa esecutrice (datore di lavoro, dirigente e preposto) quello di “vigilanza specifica”, ma allora
chiederei: come si fa a distinguere?
Peraltro, l’art. 92 TUSL, che ripete esattamente quanto diceva l’art. 5 del decreto 494/96, non parla
mai di obbligo di vigilanza in capo al coordinatore.
Nelle lettere a) b) e d) si parla di obblighi di verifica, nella lettera c) si parla di obbligo di
organizzare e nella famosa lettera e) si parla di obbligo di segnalazione al committente dopo
l’eventuale rilievo della violazione e con eventuale obbligo di sospensione.
E’ ovvio che tutto questo presuppone che il coordinatore per l’esecuzione vada in cantiere e
controlli, guardi, osservi e quindi vigili ma a me pare che l’interpretazione della Cassazione ci
rimandi un problema anziché risolverlo, ovvero ponga il problema di come distinguere quando il
coordinatore deve fermarsi all’interno di questo nuovo obbligo di “alta vigilanza”.
Quindi a me sembra che la Cassazione in questo si contraddica, perché prima parla di alta vigilanza
e poi di sicurezza di base, come se fosse solo un fatto pianificatorio…
DOTT. ASCIONE: la Cassazione usa anche il termine “complessiva”.
ARCH. BORGAZZI:
In effetti la cosa ingenera in po’ di confusione a mio avviso.
Per il distinguo di base bisogna risalire al critico dei D.P.R. 164, 547 e 303: già lì i rischi relativi
alle specifiche lavorazioni della singola impresa erano in capo, come posizione di garanzia, al
datore di lavoro dell’impresa esecutrice, coi suoi dirigenti e preposti, nonché ai lavoratori.
Non dimentichiamoci, infatti, dei lavoratori, perché a mio avviso non si tratta di una piramide: è
vero che c’è un potere decisionale e di spesa ma è orizzontale questa responsabilità, non è “a
cascata”. Ognuno vigila su quello che è stato delegato a vigilare, compreso il lavoratore, anzi il
lavoratore ha una doppia vigilanza, perché la norma prevede che egli abbia cura della propria
sicurezza e salute ma anche di quella di chi lavora con lui.
Quindi non vedrei questa responsabilità come una piramide, o almeno la vedrei così dal punto di
vista sanzionatorio (perché c’è un potere decisionale e di spesa che opera sul piano verticale) ma da
un punto di vista della responsabilità, secondo me è orizzontale.
Dal punto di vista delle lavorazioni, poi, già esisteva in modo ben identificato la responsabilità del
datore di lavoro, del dirigente e del preposto, che rimane, e quando è stato introdotto il decreto
494/96, di derivazione comunitaria, ci si è resi anche conto dei RISCHI INTERFERENZIALI, i
quali non erano governati da nessuno. Per questo e sono state create nuove figure professionali quali
il responsabile della sicurezza ed il coordinatore per la fase di progettazione ed esecuzione; sono
stati creati proprio per ovviare a questo inconveniente.
Quindi secondo me è già oggettivamente distinta la responsabilità: il datore di lavoro aveva le sue
responsabilità ben identificate, che non sono state annullate né abrogate, neanche da un punto di
vista meramente interpretativo, dalla nuova normazione ed è stata invece introdotta una nuova
figura professionale per sopperire ad una carenza.
Quindi non ci deve essere a mio avviso una sovrapposizione di ruoli come invece esisterebbe
secondo alcune interpretazioni.
Mi permetto di fare due esempi.
Il controllo sul Piano di Sicurezza, ovvero questa validazione che noi coordinatori facciamo, è
prevista in capo a noi, appunto.
In caso di subappalto, però, il decreto 81/08 prevede che, siccome l’appaltatore principale diventa
committente nei confronti del subappaltatore, il controllo e la verifica del Piano Operativo di
Sicurezza debba fare capo al primo.
Trovo assolutamente giusta questa previsione, anzi opportuna; peccato però che la norma, forse per
refuso o per volontà, non abbia tolto questo stesso incarico al coordinatore per la fase di esecuzione.
Di conseguenza rimane un duplice controllo: il coordinatore per l’esecuzione deve comunque
validare il POS anche quando tale operazione è già stata svolta dall’appaltatore principale o dal
subappaltatore nei confronti del sub-subappaltatore.
Quindi c’è una duplicazione. Non so se questa soluzione sia frutto di un refuso o di una precisa
scelta di duplicare un obbligo.
Per quanto riguarda i rischi interferenziali, volevo sottolineare quella che secondo me è una non
congruenza della norma: nel campo di applicazione della norma, nata per ovviare alla problematica
relativa ai rischi interferenziali (generati dalla compresenza di lavoratori autonomi e di più imprese
esecutrici), quando si va a specificare che la presenza di più imprese può essere anche non
contemporanea, io trovo che ci si trovi in presenza di una fortissima incongruenza. Perché se le
imprese agiscono non contemporaneamente, non ci sono rischi interferenziali e, quindi, non si
capisce per quale motivo debba essere nominato un coordinatore in fase di progettazione.
Cosa dovrebbe coordinare questo coordinatore? dovrebbe disciplinare una singola impresa come era
già disciplinato dal D.P.R. 164? Questo non mi è comprensibile.
Quanto al campo di applicazione, riscontro delle fortissime limitazioni dal punto di vista
professionale.
Innanzitutto il decreto 494/96, per quanto articolato, prevedeva la compresenza di più imprese come
condizione necessaria e non sufficiente (per l’applicazione della relativa disciplina) e come sub
condizione la presenza di più di 200 uomini-giorno e/o la caratteristica “a rischio” del cantiere. Già
su queste previsioni abbiamo discusso per 12 anni pur avendo la norma un suo senso.
La norma, in particolare, aveva un senso perché il legislatore ci aveva fornito, come in una formula
matematica, una base oltre la quale si rendeva obbligatorio nominare un coordinatore per la fase di
progettazione ed esecuzione, mentre al di sotto di quella soglia tale nomina non era obbligatoria.
Alcune interpretazioni però, che io personalmente ritengo un po’ forzate, addivenivano in sostanza
ad una sorta di paradosso giuridico in proposito: se noi prendiamo in considerazione le tre variabili
(più di una impresa, numero di uomini-giorno e allegato II) e diamo alle stesse un’interpretazione
restrittiva, vediamo che il coordinatore per la fase di progettazione e diesecuzione deve essere
nominato sempre.
Ma tale risultato è incongruo, perché il legislatore mi ha dato una formula per cui al di sopra della
soglia vi è un obbligo di nomina ed al di sotto della stessa tale obbligo non c’è.
Allora come faccio a forzare la norma fino a far sì che il coordinatore debba essere nominato
sempre?
In particolare, se nella locuzione “più di un’impresa” si comprendono, come ritiene una parte
ridotta degli interpreti, anche i lavoratori autonomi (interpretazione che mi trova discordante perchè
nel Codice Civile, dalla definizione di lavoratore autonomo, si evince che il lavoratore autonomo
non è impresa) allora dovremmo dedurre che in presenza di un’impresa e 6.000 lavoratori autonomi,
questi sarebbero coordinati da un coordinatore. a
Secondo me non è così, non sono coordinati da nessuno, per la letter della norma.
Se vogliamo che siano coordinati da qualcuno occorre riformulare la norma ma, rebus sic stantibus,
i lavoratori autonomi non sono impresa e non rientrano nella previsione. Allo stato, se si voleva
rggiungere questo risultato, la norma è stata mal formulata.
Se nella locuzione “più di un’impresa” si comprendono anche i lavoratori autonomi, ecco che in
edilizia ci troviamo ad avere sempre più di un’impresa.
Calcolate infatti che qualunque impresa anche la più strutturata, mediamente, non ha il lattoniere,
non ha il piastrellista, non ha l’idraulico ecc. per definizione.
Poi, se per “uomini–giorno” intendiamo quella formula matematica per cui andiamo ad interpolare
l’importo dell’opera ecc. (c’è una formula matematica per calcolare gli uomini-giorno) e si affida
tale calcolo a 10 coordinatori diversi, essi produrranno 10 diversi risultati; quindi il valore sarà di
199 o 201 dipendentemente dall’area geografica, per esempio, perché i listini prezzo della Camera
di Commercio riportano un costo lavoro della mano d’opera diverso a seconda delle zone.
Sull’allegato II, infine, che è la terza variabile, si può fare riferimento in modo critico per esempio
all’allegato II, comma I, lettera a): i lavori in quota sono definiti tali se svolti ad un’altezza
superiore ai metri 2 e questo è un parametro certo, ma è anche stato aggiunto “se non
particolarmente aggravati da rischi ambientali ecc.” e qui purtroppo la norma, che pure ha
rilevanza penale, mette in serie difficoltà, perché il titolare della posizione di garanzia come fa a
sapere se le circostanze del lavoro in quota rientrano nella definizione? Lo scoprirà solo dopo, in
fase di giudizio.
Quindi sul campo di applicazione del vecchio decreto 494/96 si può arrivare a dire che, se tutte e tre
le variabili sono così interpretate, il coordinatore si nomina sempre; ma questa pare un’affermazione
di principio sbagliata, perché il legislatore ha posto delle formule per determinare quando il
coordinatore deve essere nominato e quando no.
Secondo la nuova norma (D.lvo 81/08) il coordinatore deve essere nominato quando c’è più di
un’impresa e, ferme restando le definizioni di impresa e di lavoratore autonomo, questa norma, di
fatto, impone al cittadino a nominare sempre il coordinatore per la fase di progettazione ed
esecuzione.
Poi, per quanto riguarda la contestualità delle figure di responsabile dei lavori e di coordinatore per
la progettazione e per l’esecuzione (ed aggiungo io anche le deleghe che di fatto intervengono) la
norma esclude una fattispecie: il datore di lavoro dell’impresa esecutrice non può essere
coordinatore per la fase dell’esecuzione perché controllore e controllato coinciderebbero; né può
esserlo il suo RSPP o il suo dipendente.
Nella vecchia norma il divieto coinvolgeva solo il datore di lavoro, ora è stato giustamente ampliato
ma, a mio avviso, anche questa soluzione è superabile molto velocemente e forse sarebbe stato più
corretto prevedere che il coordinatore non gravi da un punto di vista economico sull’impresa e/o
non sia un satellite dalla stessa.
DOTT. GIORDANO:
Il coordinatore dovrebbe essere un soggetto indipendente.
Comunque questi aspetti sul “quando” deve essere nominato il coordinatore saranno poi ripresi
nella sessione pomeridiana del seminario, anche in riferimento alla recente sentenza della Corte di
Giustizia.
Ma riprendiamo da un punto che stava affrontando il collega Ascione: cosa deve fare il coordinatore
per l’esecuzione? Quali sono ad oggi questi obblighi, di verifica e supervisione del cantiere ecc.,
che hanno dato luogo ad una certa giurisprudenza ed anche ad una visione responsabilizzante se non
colpevolizzante del coordinatore?
DOTT. ASCIONE:
Ora li esaminiamo ma prima, per chiudere su quanto stava riferendo l’architetto, vorrei dire
qualcosa sulla configurazione delle responsabilità come “orizzontale” piuttosto che “a cascata” ed
offrire in proposito qualche spunto di riflessione.
Puntualizzo che non c’è alcun rapporto nè gerarchico né verticale tra committenza, coordinatore ed
impresa esecutrice, in quanto ciascuno è un soggetto giuridico distinto e separato dall’altro, né
alcuno dà ordini all’altro. Anche perché il coordinatore rientra nella componente soggettiva del
controllanti del cantiere ed appartiene ad una fascia di soggetti, quindi, che si contrappone a quella
dei controllati (datore di lavoro, dirigente e preposto).
Se ci sono autonome posizioni di garanzia in capo a ciascuno di essi e, quindi, ciascuno è
destinatario di specifici obblighi, non ci può essere una gerarchia.
Quando parlavo di responsabilità “a cascata”, prendendo spunto dalla giurisprudenza recente, mi
riferivo a come viene delineato il quadro delle responsabilità, ovvero viene delineato in modo tale
da evitare sovrapposizioni o confusioni tra le responsabilità dei diversi soggetti coinvolti.
Per questo si parla di “supercontrollo”, “alta vigilanza” e “verifica stringente quotidiana”.
Se noi, invece, configuriamo idealmente come “orizzontale” la struttura di questi rapporti e di
queste responsabilità, probabilmente insorge di nuovo il rischio di sovrapposizione.
Per questo preciso che non si tratta di rapporto “verticale” ma di responsabilità “a cascata”, che
sono concetti diversi.
“A cascata” significa che il controllato controlla a sua volta e via dicendo, dal committente al datore
di lavoro ed anche, come sottolineava giustamente l’architetto Borgazzi, al lavoratore.
Mi aggancio, quindi, a quanto richiestomi dal dott. Giordano sugli specifici obblighi del
coordinatore.
Il TUSL, come sappiamo, opera una riorganizzazione di precedenti testi normativi e si tratta di una
fonte ricognitiva e risistemativa di quanto già avevamo con il decreto 494/96 e la Direttiva CEE 57
del 1992.
Il concetto di coordinatore inevitabilmente fa riferimento ad un soggetto che si pone “super partes”
per vigilare, controllare, censurare ed eventualmente intervenire in casi di urgenza.
Tale figura, così delineata, non può certo essere vista in termini gerarchici, ma neanche in termini di
rapporti orizzontali con le altre figure da lui non dirette. Egli, infatti, non dirige ma coordina e già il
legislatore europeo non parla di un soggetto che dà ordini ma di un soggetto che coordina.
Coordinare è infatti cosa diversa dall’ordinare ed il coordinamento non è gerarchia. Il
coordinamento è anche più impegnativo, significa mettere insieme le diverse imprese al fine di
migliorare le garanzie di sicurezza.
Il coordinatore per l’esecuzione deve verificare intanto la compatibilità tra il POS redatto dalle varie
imprese esecutrici e il PSC; tale compatibilità viene, infatti, richiesta a chiarissime lettere dal
legislatore quando prevede che il coordinatore debba verificare l’idoneità del Piano di Sicurezza, da
considerare come “piano complementare e di dettaglio del PSC”.
In effetti un legislatore più pigro poteva anche risparmiarsi tale precisazione e rimettere
all’interprete la definizione della natura giuridica ed applicativa del POS; invece la legge specifica,
pretendendo la più profonda integrazione e comunicazione tra il PSC ed i POS.
ARCH. BORGAZZI:
Se posso intervenire, sottolineo che tra gli obblighi del coordinatore c’è al primo posto l’obbligo di
verifica di quanto contenuto nel Piano di Sicurezza e Coordinamento e quello di validazione dei
Piani Operativi di Sicurezza.
Non c’è mai scritto nella legge che il coordinatore ha l’obbligo di verifica sull’applicazione della
normativa antinfortunistica in generale e questo è fondamentale, perché di fatto, invece, questa è
l’aspettativa nei confronti del coordinatore.
A mio personalissimo avviso, l’applicazione della normativa antinfortunistica rimane in capo al
datore di lavoro mentre il coordinatore ha appunto compiti di coordinamento.
Però nei fatti ai coordinatori viene richiesta un’attività di vigilanza equiparabile a quella della
Polizia Giudiziaria, senza però avere alcun potere repressivo, anche se certo c’è il potere di
sospensione dell’attività di cui alla lettera f) della norma citata.
Volevo comunque sottolineare che nella legge non c’è scritto che il coordinatore debba farsi garante
dell’applicazione di tutta la normativa antinfortunistica ma solo delle questioni relative al Piano di
Sicurezza, il quale dovrebbe contenere tutte le forme preventive e protettive volte ad evitare i rischi
di tipo interferenziale.
DOTT. ASCIONE:
Però la verifica antinfortunistica quotidiana, quella stringente “momento per momento” abbiamo
detto che spetta ai preposti ed ai dirigenti dell’impresa esecutrice.
Ci tengo a fare questa distinzione perché, altrimenti, la sovrapposizione porta, in sede processuale, a
non distinguere i vari obblighi facenti capo ai vari soggetti interagenti e non distinguere le diverse
responsabilità dei vari soggetti.
Riprendendo sui compiti del coordinatore, la norma dopo aver trattato la questione dell’integrazione
tra PSC e POS, affronta alla lettera b) la necessità dell’integrazione, strettamente attuativa ed
applicativa, tra PSC ed il Fascicolo nell’evoluzione e nella dinamica dei lavori.
Dice, infatti, la legge che il coordinatore “adegua il PSC ed il Fascicolo in relazione all’evoluzione
dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle imprese esecutrici
dirette a migliorare la sicurezza in cantiere” e verifica che “le imprese esecutrici adeguino, se
necessario, i rispettivi POS”.
Anche laddove la norma impone di valutare la compatibilità tra PSC e POS, da un lato, ed
evoluzione dei lavori, dall’altro, emerge la natura di stretto collegamento e non di gerarchia della
funzione di coordinatore.
Infatti la norma impone al coordinatore proprio la valutazione delle proposte delle imprese
esecutrici, mentre se ci fosse gerarchia o equipollenza o fungibilità dei ruoli non avrebbe senso che
il coordinatore valuti le proposte delle imprese, implicitamente riconoscendo alle stesse
un’autonoma posizione di garanzia.
Anche qui, quindi, si realizza secondo me il coordinamento in senso stretto.
Direi, dunque, che questo ultimo passaggio della lettera b) si collega al primo passaggio della stessa
lettera, in quanto si richiede la valutazione da parte del coordinatore circa la compatibilità del POS
non soltanto in rapporto al PSC ma anche in rapporto all’evoluzione dei lavori.
La lettera b) dà dunque una visione dinamica ed evolutiva del lavoro in cantiere, in quanto la
dinamica può comportare un rimescolamento dei lavori e, conseguentemente, un rimescolamento
dei rischi per la salute e per la sicurezza dei lavoratori.
Se si rimescolano le situazioni lavorative e quindi i relativi rischi, occorre infatti adattare volta per
volta il rapporto di cambio tra PSC e POS, tra PSC e lavori e tra lavori ed POS.
Quanto alla lettera c) - e personalmente ritengo che la lettera c) sia molto significativa - il
coordinatore deve organizzare tra i datori di lavoro la cooperazione ed il coordinamento
dell’attività, nonché la loro RECIPROCA INFORMAZIONE.
E’ quello che sto sottolineando dall’inizio, ovvero la necessità dello scambio di informazioni ed il
coinvolgimento collegiale di tutti i soggetti cointeragenti in uno stesso cantiere ai fini di un unico
comune scopo: assicurare la massima tutela della salute dei lavoratori e ridurre al minimo possibile,
secondo la miglior scienza ed esperienza, i rischio di verificazione di infortuni.
Per tale circostanza considero centrale sul piano concettuale la lettera c) di questa norma, secondo
me infatti proprio questa lettera c) dà al coordinatore dignità di autonoma figura di introduzione
europea.
Quanto alla lettera e), essa prevede che il coordinatore debba segnalare al committente o al
responsabile dei lavori (quest’ultimo in qualità di eventuale incaricato del committente di occuparsi
per suo conto della gestione del rapporto di committenza e del supercontrollo di cui si diceva),
previa contestazione scritta alle imprese, le eventuali inosservanze di queste ultime agli obblighi
loro demandati, come l’inosservanza al PSC, la mancata integrazione tra PSC e POS, il mancato
adeguamento del POS alla evoluzione dei lavori e tutto quello fin’ora detto.
Si passa qui dalla fase fisiologica a quella patologica, riconoscendo al coordinatore un potere di
censura che però non diventa ancora sanzionatorio, in quanto lo diventerà solo nel caso particolare
previsto dalla lettera f).
Quindi il coordinatore “segnala” ma è garantito il contraddittorio tramite l’obbligo di contestazione
scritta alle imprese e, a me pare, che anche tale compito del coordinatore partecipi a dare allo stesso
dignità di autonoma figura. Se non fosse riconosciuta autonoma dignità alla figura del coordinatore,
se quindi ci fosse gerarchia e non ci fosse coordinamento, non so se il legislatore avrebbe introdotto
questa frese “previa contestazione scritta alle imprese”.
Il coordinatore, poi, laddove vengano fatte segnalazioni alla committenza, propone alla stessa la
sospensione dei lavori, l’allontanamento delle imprese o la risoluzione del contratto.
Io credo che tale passaggio di interlocuzione tra coordinatore e committenza vada interpretato come
passaggio successivo rispetto alla previa contestazione scritta all’impresa esecutrice.
Va quindi prima instaurato il contraddittorio con l’impresa esecutrice, poi si verificano le
controdeduzioni dell’impresa e solo all’esito di tale verifica il coordinatore può o deve interessare
con proposte operative sanzionatorie la committenza. Se poi la committenza non adotta
provvedimenti in merito alla segnalazione senza idonea motivazione, il coordinatore è legittimato a
dare comunicazione di tale inadempienza alla ASL ed alla Direzione Provinciale del Lavoro.
Ricostruita così l’architettura della norma, mi pare che la dinamica, in presenza di situazioni di
patologia, si svolga nel pieno rispetto reciproco delle autonome posizioni di garanzia e valorizzi il
ruolo di coordinamento di questa figura del coordinatore.
In ordine alla lettera f), di cui chiedeva il collega Giordano, il coordinatore “sospende, in caso di
pericolo grave ed imminente direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli
intervenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate”.
Qui si riscontrano una serie di parole, aggettivi e sostantivi che vanno tenuti debitamente in
considerazione per realizzare questa eccezionale forma di intervento sanzionatorio diretto del
coordinatore.
Intanto si deve riscontrare non una situazione di rischio generale ma di “pericolo grave ed
imminente”, da distinguersi dal concetto di rischio contemplabile nel PSC, nel POS o nel fascicolo.
Deve riscontrarsi qualcosa di attuale ed importante, perché – dice la legge – “imminente” e “grave”
ed io tradurrei “attuale ed importante”.
Inoltre il pericolo deve essere “direttamente riscontrato”, quindi il coordinatore deve essere così
profondamente inserito nella dinamica dei lavori da direttamente riscontrare la patologia grave ed
imminente.
Questo concetto del “direttamente riscontrato”, peraltro, lo proporrei in maniera problematica
rispetto a quanto dicevamo all’inizio sul contenuto del potere di controllo del coordinatore, che è
quello di “alta vigilanza”.
Se, infatti, si tratta di alta vigilanza, per cui la Cassazione dice non essere richiesta la presenza
quotidiana giorno per giorno del coordinatore sui cantieri, occorre conciliare questa circostanza con
il fatto che il potere di sospensione diretta sia subordinato al riscontro diretto del pericolo grave ed
imminente.
Inoltre, ultimo aspetto, si parla di “singole” lavorazioni: in sostanza viene riconosciuto al
coordinatore non un potere di sospensione generale dei lavori, perché questo spetta al committente
siccome destinatario della segnalazione di cui alla lettera e), ma un potere di intervento in maniera
coattiva soltanto su quella vicenda lavorativa specifica in cui interviene questo rischio specificato
coi termini “grave ed imminente”.
DOTT. GIORDANO:
Una considerazione: mentre la lettera e) non prevede alcuna cadenza temporale (ovvero non dice
quando andare in cantiere, entro quando fare la contestazione scritta, entro quando fare la
segnalazione alla ASL o alla Direzione Provinciale del Lavoro, quanto attendere l’eventuale
motivazione del committente ecc.) la lettera f), parlando di pericolo “grave ed imminente” nonché
di riscontro immediato, fa pensare che il coordinatore non debba perdere tempo perché possiede il
potere di sospendere la singola lavorazione.
Allora chiederei all’arch. Borgazzi come vede, da operatore del cantiere, la mancanza di questa
cadenza temporale per cui la Cassazione non impone di andare ogni giorno ma si pone poi il rischio
che non andando qualcosa non funzioni.
ARCH. BORGAZZI:
In effetti è un grosso problema perché o una futura norma definirà la cadenza della presenza in
cantiere o, siccome la posizione di garanzia è quella del coordinatore, sarà il coordinatore che
decide, sotto la propria egida e responsabilità, quando e quanto andare.
Devo dire, per esperienza, che gli enti tutori del controllo sanzionano spesso per omessa vigilanza il
coordinatore per la fase di esecuzione, ma occorre avere un parametro numerico, matematico e
quantitativo che possa indicare quando andare in cantiere.
Alcuni criteri scientifici esistono, ma allora devono essere presi in considerazione prima della
sanzione.
Ci sono diversi criteri che possono indicare quando andare in cantiere. Per chi è del mestiere, c’è
una matrice dei rischi che esplicita l’individuazione, l’analisi e la valutazione del rischio fatta dal
datore di lavoro e la valutazione vuol dire dare un quantum a questo rischio: magnitudo per
probabilità del danno.
Quindi il datore di lavoro mi dice quando ci sono delle lavorazioni pericolose e, in base al POS, io
coordinatore lo so quando devo andare in cantiere perché ci sono delle lavorazioni pericolose.
Dal punto di vista strettamente interfernziale, poi, c’è il diagramma di Gant (volgarmente detto
cronoprogramma), dove ci sono indicate le fasi di lavoro nel tempo, non nello spazio perché per
questo c’è la descrizione dei lavori.
Quindi, cronoprogramma e descrizione dei lavori dicono quando ci sono delle fasi interferenti su
cui occorre fare un’analisi per verificarne la pericolosità.
Quindi ci sono degli strumenti di tipo diagnostico: se l’infortunio è il male ed il medico sono io, i
miei strumenti diagnostici sono la matrice di rischio che c’è nel POS, il PSC ed il diagramma di
Gant.
Allora, dal punto di vista scientifico, la risposta su quando andare in cantiere c’è, mentre non riesco
a comprendere come possa essere sanzionato un coordinatore senza un’analisi dettagliata di questi
strumenti.
Sul rischio “grave ed imminente” direi che dubbi non ne dovremmo avere.
Mentre sul “direttamente riscontrato” devo dire che la trovo un po’ una bizzarria, perché se io sono
il coordinatore per l’esecuzione di un cantiere e direttamente riscontro un rischio, ho un dovere
esplicito di vigilanza, un dovere esplicito di segnalazione e di intervento (segnalazione, risoluzione
del contratto ecc,); ma se il pericolo non è direttamente riscontrato?
Ovvero se io non riscontro direttamente il rischio ma ne sono a conoscenza, cosa faccio non
intervengo perché non l’ho direttamente riscontrato?
C’è poi un altro problema che ci sta a cuore. E’ il problema della segnalazione agli enti tutori, ASL
e Direzione Provinciale del Lavoro.
Ora, io mi occupo di grandi opere e mi è capitato di avere un committente per dieci anni, lo stesso
committente per dieci anni: come faccio a denunciare il mio committente? Le lo denuncio richio di
non averolo più come committente.
La trovo veramente una bizzarria.
Infatti io posso invitare le ASL a venire tutti i giorni, per tutto il tempo, nel mio cantiere ma che io
debba denunciare il mio committente lo trovo preoccupante.
Certo la norma è questa e l’applicheremo, ma consentitemi da professionista di dire che c’è una
forte remora in proposito.
DOTT. GIORDANO:
Ma nella valutazione del PSC si pone spesso il problema, per gli organi di vigilanza, della
incompleta, insufficiente o carente redazione del PSC.
Allora, in assenza di infortunio, qual è il limite dell’incompletezza o della carenza tecnica di cui in
contestazione (perché se c’è infortunio si fa presto a dire che qualcosa non è stata prevista in modo
completo)?
ARCH. BORGAZZI:
Questo problema era drammatico quando era in vigore il decreto 494/96 perché ci era dato incarico
di redigere i POS senza che ne fossero dettati i contenuti; per cui ti era detto che dovevi farlo ma
non come.
Tale circostanza, peraltro, credo creasse imbarazzo anche agli enti tutori, perché dovevano andare a
sanzionare senza sapere cosa dovesse esserci in più nel PSC.
C’era quindi il contenitore ma non c’erano i contenuti.
Il regolamento attuativo per i contenuti minimi dei PSC e dei POS, che doveva entrare in vigore sei
mesi dopo l’entrata in vigore del decreto 494/96 e invece è entrato in vigore sette anni dopo, ora c’è.
I contenuti minimi oggi li sappiamo, il D.lvo 81/08 li ha recepiti e, quindi, si sa dal punto di vista
meramente formale (come una chek list) quali contenuti dobbiamo avere obbligatoriamente come
contenuto minimo.
Ma al di la del piano formale, occorre verificare questi contenuti e, in merito, ho un’altra
perplessità: quella della duplicazione di alcuni doveri.
Per esempio sono previsti dei contenuti minimi del PSC e, se si fa un raffronto tra contenuti minimi
del PSC e contenuti minimi del POS, si riscontrano delle distinzioni molto precise - così come deve
essere.
Infatti, se il POS è definito con atto complementare e di dettaglio del PSC, è ovvio che non ci
devono essere sovrapposizioni tra i contenuti dei due documenti.
Quindi, quando succede un infortunio, ad esempio relativo all’utilizzo di una sega circolare da parte
di un lavoratore di una delle imprese esecutrici, l’ispettore chiede il PSC e quest’atto viene
prodotto. Allora viene chiesto dove, nel PSC, si parla dell’utilizzo di una sega circolare e la risposta
dovrebbe essere “da nessuna parte”, perché se ne parla nel POS. Purtroppo io non ho trovato molta
comprensione in questo senso, quindi alla fine nei nostri PSC, per volgarissima autotutela e non per
dignità intellettuale, siamo costretti a mettere 400 pagine di schede tecniche relative a tutte le
lavorazioni del cantiere anche se ci sono già nel POS.
Pertanto, quell’aspetto filosofico che vorrebbe nel PSC dei contenuti minimi della massima
semplicità, snellezza ed immediata comprensione viene a cadere nel momento in cui viene richiesto
di inserire nel PSC cose che ivi non dovrebbero esserci.
Quello dell’omessa vigilanza, comunque, è un grossissimo problema.
La Regione Lombardia ora sta facendo delle linee guida in merito a tutte queste tematiche e stanno
cercando di individuare, con avversi tutti gli ordini professionali lombardi, quando e quanto un
coordinatore debba andare in cantiere.
Noi non siamo d’accordo perché, ripeto, rivendichiamo la dignità di professionisti e quella di dire
noi quando dobbiamo andare in cantiere, visto che ne sopportiamo la relativa responsabilità.
Comunque mi va bene anche trovare un criterio oggettivo in proposito.
In realtà, un siffatto criterio era anche stato intelligentemente introdotto nella vigenza del decreto
494/96: quello degli uomini-giorno. Siccome la nomina del coordinatore è subordinata alla presenza
di rischi interferenziali e tale presenza dipende dalla presenza di più imprese, la nomina del
coordinatore dovrebbe dipendere non tanto dall’importo dell’opera ma dal numero di uomini-
giorno, opuure dalla presenza di rischi particolari (allegato II). Questo era un criterio sano.
DOTT. GIORDANO:
Su questo, poi, ci ricolleghiamo alla sentenza del 7 ottobre della Corte di Giustizia.
Ma facciamo un’ultima domanda sul Fascicolo dell’opera, perchè spesso ne viene contestata
l’assenza, l’incompletezza ecc..
ARCH. BORGAZZI:
Sì, il fascicolo dell’opera – consentitemi - è la barzelletta del cantiere, ma non dovrebbe esserlo,
perché è stato creato con uno scopo preciso.
Dov’sta il problema? Un primo problema sta nel fatto che il coordinatore viene nominato molto
frequentemente in modo tardivo e quindi egli non fa in tempo a partecipare alla progettazione.
Il che rappresenta un grave errore, perché quello che esce dalla porta poi rientra dalla finestra: a me
è capitato spesso, su opere importanti, che in fase esecutiva o in fase di collaudo non ci fossero
idonei accessi alle coperture, parapetti ecc. e di doverle fare solo dopo, in maniera posticcia, con
conseguenti richieste di risarcimento danni nei confronti del progettista.
Quindi, dal punto di vista concettuale è importante che il fascicolo venga fatto e venga fatto in
modo opportuno.
Poi oggi nelle opere di una certa consistenza, il Fascicolo viene esplicitamente e volutamente
richiesto, perché se si tratta di assicurazioni, banche o enti istituzionali che hanno un Servizio di
Prevenzione e Protezione come si deve, essi lo chiedono il Fascicolo e quindi va fatto e va fatto in
modo completo.
E’ però una barzelletta perché nel dettame normativo si richiede che il Fascicolo - in modo sbagliato
secondo me - venga redatto in fase di progettazione.
Ora, il Fascicolo entra in essere nel momento del collaudo dell’opera, quindi non ha senso che
venga fatto all’atto della progettazione, quando all’atto della progettazione ho solo dei progetti di
come le cose verranno costruite e non so con esattezza “come” poi verranno costruite.
Pensate ad un impianto elettrico, saprò solo alla fine dell’opera come effettivamente sia stato
realizzato l’impianto.
Quindi io coordinatore mi trovo con la problematica di non avere i dati per fare il Fascicolo e di
doverlo fare in un tempo non congruo, ovvero all’atto della progettazione.
Se si fosse prevista la realizzazione del Fascicolo in fase di esecuzione, entro la fine dei lavori,
sarebbe stato forse più opportuno.
Quindi non intendo dire, quando parlo di barzelletta, che il Fascicolo non sia importante; esso è
importante tanto quanto un PSC, perché garantisce la sicurezza all’esito dell’opera ma, per come è
formulata oggi la norma, di fatto esso è un raccoglitore con su scritto Fascicolo ma nulla con dentro
fino all’ultimo giorno di cantiere.
Andrebbe riscritta la norma, perché in fase di progettazione non si possiedono i dati per fare un
fascicolo, quindi non si è in grado di farlo.
****
SECONDA SESSIONE:
BRUNO GIORDANO:
Passiamo alla seconda sessione e ci addentriamo in un recentissimo problema, che ha avuto una
forte evoluzione in questi mesi.
Negli ultimi mesi, infatti, il tema del coordinatore e, in particolare, il tema della nomina necessaria
del coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione ha avuto un forte impulso per via di due atti
che rilevano sul piano normativo.
Il primo di questi atti, in ordine cronologico, è il Decreto Legge noto come Manovra Tremonti, il
quale ha abrogato la DIA sostituendola con la cd SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività)
e il secondo è la sentenza della Corte di Giustizia del 7 ottobre 2010.
Mi soffermo su questi due atti, su cui chiedo poi l’intervento dell’Avvocato Oddo, del collega
Salemme e dell’Avvocato Giannì, perché eravamo abituati fino a qualche settimana fa a leggere
l’art. 90 comma 11 del TUSL come la soglia per la nomina del coordinatore per la progettazione.
In particolare, l’art. 90 comma 11 TUSL dice, o diceva, che “la disposizione di cui al comma 3 non
si applica ai lavori privati non soggetti a Permesso di Costruire in base alla normativa vigente e
comunque di importo inferiore ad euro 100.000. In tal caso le funzioni del coordinatore per la
progettazione sono svolte dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori”.
Quindi la norma dice, o diceva, che non si deve applicare il comma 3 (che si riferisce appunto alla
designazione del coordinatore per la progettazione in caso di presenza di più imprese esecutrici
anche non contemporanea) soltanto laddove c’è il Permesso di Costruire o i lavori hanno valore
superiore a 100.000 euro.
Al di sotto di queste due diverse soglie, allora, secondo la norma non occorreva o non occorrerebbe
nominare il coordinatore per la progettazione.
I temi nascono innanzitutto dalla condanna da parte della Corte di Giustizia del 7 ottobre 2010 ma
anche dalla novità del Decreto Tremonti, che abolisce la DIA e la sostituisce con la SCIA, ma non è
ben chiaro se sia stata abolita anche la DIA in materia edilizia.
Problema, quindi, non da poco su cui le Regioni stanno litigando.
Comincio a chiedere, dunque, all’Avv. Oddo, che ha studiato particolarmente questo problema ed è
attentissimo da sempre al diritto comunitario in materia di sicurezza nonché non casualmente
collega di studio del compianto Elio Cacace, di riflettere con noi sulla portata di questa sentenza
della Corte di Giustizia.
Se possibile, Avv. Oddo, le chiederei di precisare il regime dei cantieri organizzatisi prima del 7
ottobre 2010 e di quelli organizzatisi successivamente alla sentenza della Corte di Giustizia, posto
che si pone certamente un problema di retroattività di questa novità, di cui poi parlerà il collega
Salemme.
AVV. ODDO:
Grazie innanzitutto per l’invito, che ho accettato con profonda condivisione e partecipazione anche
perché insieme all’Avv. Cacace, alla cui memoria è intitolato questo incontro, ho combattuto molte
battaglie per l’affermazione del primato del diritto comunitario; battaglie dettate non da un
sentimento di simpatia ma dai principi relativi ai rapporti tra ordinamenti. L’Italia, infatti, - anche
se a volte viene dimenticato - è “socio fondatore” dell’Istituzione comunitaria fin dal 1957 ed il
primato del diritto comunitario sul diritto interno fa parte di quelle limitazioni reciproche di
sovranità tra Stati membri liberamente e convenzionalmente aderenti ad un Trattato internazionale
che comporta tra le sue conseguenze, anche quelle oggi poste all’attenzione del Convegno.
L’importante, quindi, è valutare in concreto, visto che esistono due ordinamenti in rapporto tra loro,
con primato del diritto dell’uno rispetto al diritto dell’altro, quali siano le ricadute sul tema in
discussione.
Ancora, è da sottolineare che quanto verrà discusso oggi, per la natura stessa della materia trattata ,
comporta questioni e soluzioni di portata generale.
Oggi se ne discute in occasione di un’ennesima condanna dello Stato Italiano per l’inadempimento
di obblighi comunitari in materia di sicurezza sul lavoro, ma altre volte se ne è discusso in materia
di tutela dei consumatori o di tutela dell’ambiente o comunque per tutta una serie di altre questioni
le cui soluzioni non cambiano sul piano dei principi, in quanto sono soluzioni di diritto comunitario,
basate sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (che io ho portato con me
in alcune sentenze di portata “storica” ma prometto di leggerne il meno possibile, anche se qualche
riferimento concreto e preciso deve essere dato).
Vorrei dunque sottolineare la portata generale non solo delle questioni ma anche delle soluzioni che
ci occupano, in quanto il diritto comunitario si pone alla base della legislazione nazionale che è,
infatti,ormai in quasi tutti i settori, non più solo in quelli economici, come inizialmente si pensava,
derivata dal diritto comunitario.
Occorre pertanto tenere conto di una realtà che sarebbe inutile nascondersi, ovvero quella per cui,
da un lato, la legislazione nazionale è quasi tutta di derivazione comunitaria, non soltanto nel
settore economico ma anche in quelli di maggiore rilevanza sociale e, da un altro lato, la
trasposizione nell’ordinamento dello Stato italiano delle Direttive comunitarie è spesso tardiva e/o
difettosa, sicché non solo l’operatore economico e il professionista ma anche il cittadino comune si
trovano di fronte ad una serie di problemi derivanti dal fatto che spesso la legislazione nazionale
dice una cosa ed il diritto comunitario ne dice un’altra, non solo diversa ma anche opposta.
Dunque, si rende necessario analizzare cosa oggi succede nei cantieri dopo la sentenza del 7 ottobre
2010 della Corte di Giustizia.
Occorre dire subito che tale sentenza, in realtà, non è un fulmine a ciel sereno perché circa due anni
prima sulla stessa questione si era pronunciata senza mezzi termini la stessa Corte.
La Corte di Giustizia aveva, infatti, censurato la norma del decreto 494/96 laddove, pur in presenza
di più imprese nel cantiere, condizionava la nomina del coordinatore ad alcune soglie qualitative e
quantitative o alla presenza di determinati rischi, mentre la direttiva comunitaria 92/57/CEE (da cui
devono derivare fedelmente le norme nazionali in materia) prevede in modo assolutamente
inderogabile che nei cantieri in cui esiste la presenza di più imprese il committente o il responsabile
dei lavori debbano designare sempre uno o più coordinatori (quindi con riferimento sia al
coordinatore per la progettazione sia a quello per l’esecuzione).
La norma comunitaria, infatti, finisce qui e risulta essere, nel primo paragrafo dell’art. 3 della
Direttiva, tassativa ed assoluta.
Il secondo paragrafo della Direttiva, poi, parla dei piani di sicurezza e salute, prevedendo una
possibilità di deroga, per gli Stati Membri, all’obbligo di redigere il piano di sicurezza e salute: la
possibilità è condizionata in senso negativo esclusivamente dalla presenza di rischi particolari.
Il terzo paragrafo della Direttiva prevede, infine, la notifica preliminare.
Quindi, il primo paragrafo dell’art. 3 della Direttiva ha già determinato la censura dell’art 3 del
vecchio decreto 494/96, nella parte in cui quest’ultimo poneva delle condizioni e delle soglie
laddove, invece, la direttiva comunitaria è tassativa nel senso di stabilire che la presenza di più
imprese determini l’obbligo di nomina di entrambi i coordinatori (la cui funzione non può essere
scambiata, sovrapposta o posticipata), inderogabilmente ed indipendentemente da qualsiasi soglia.
Da questo punto di vista bastava leggere i considerando nel preambolo della Direttiva.
Le Direttive comunitarie, infatti, a preferenza sotto questo profilo (ma non solo) rispetto alle leggi
nazionali, hanno i considerando e non i “visto”, ”premesso”, ecc.. che non illuminano sullo spirito
delle leggi e non ne spiegano la ratio.
Nel considerando n. 6 della Direttiva 92/57/CEE si dice che la ragione della gran parte degli
incidenti nella Comunità Europea è da rinvenirsi in scelte architettoniche ed organizzative non
adeguate ad una corretta pianificazione dei lavori; tali scelte , infatti, hanno influito sulla gran parte
degli infortuni sul lavoro intervenuti nei cantieri della Comunità.
Ergo, caposaldo del sistema diventa la progettazione, ovvero il momento delle scelte progettuali e
di pianificazione che non possono – per la funzione e le finalità che le caratterizzano - essere
effettuate in un momento successivo alla progettazione. Altrettanto, si dice, mutatis mutandis, nel
considerando n. 8, con riferimento al coordinamento: una delle ragioni della gran parte degli
incidenti che si sono verificati nei cantieri della Comunità Europea è la mancanza di
coordinamento, per cui la presenza di più imprese deve determinare la nomina dei coordinatori
anche e specificamente per la funzione di coordinamento.
Evidenzio tali premesse perché spero che alcune “linee” guida”di cui si parla anche oggi, sotto il
profilo ora trattato, non ingenerino disorientamento negli operatori economici.
La necessità assoluta di designazione di entrambi i coordinatori per la semplice presenza in cantiere
di più imprese è un fatto inoppugnabile, tanto che le due sentenze della Corte di Giustizia, che si
sono succedute a distanza di quasi due anni, l’hanno rimarcato con estrema fermezza, sottolineando
come la norma comunitaria sia chiara e precisa nella sua formulazione.
I tentativi di difesa italiani, secondo i quali dalla norma europea non si sarebbe capito se la deroga
fosse prevista per il comma o per il paragrafo primo o secondo, o altri analoghi argomenti, sono
caduti miseramente nel processo davanti alla Corte di Giustizia, perché la norma comunitaria è
divisa in tre paragrafi e il fatto che la legge italiana, invece, consideri l’articolo e i commi senza
conteggiare i paragrafi non è di per sè assolutamente rilevante.
Il primato del diritto comunitario comporta, infatti, che bisogna prendere atto della struttura
normativa comunitaria per come essa è, con la conseguenza che, se le direttive prevedono i
paragrafi, se la deroga riguarda solo il piano di salute e sicurezza considerato dal secondo paragrafo
e se non è ammessa alcuna deroga in presenza di più imprese quando si tratti di nominare i
coordinatori, questo comporta delle ricadute necessarie ed inevitabili. Ovviamente, quindi, così
come è successo in precedenza quando la censura della norma italiana è ricaduta sull’introduzione
di una soglia di tipo qualitativo e quantitativo nonostante la presenza di più imprese, anche questa
censura successiva è stata necessaria (perché in questo senso il legislatore italiano è un po’
recidivo) ed inevitabile.
La censura è stata necessaria, in particolare, in quanto, abbandonate con la nuova formulazione del
D.Lgs. 81/08, su imposizione della Corte di Giustizia, le soglie precedentemente previste dal D.Lgs.
494/96, sono state tuttavia introdotte nuove soglie, relative ai cantieri di lavori privati, con criteri,
motivazioni e valutazioni di diritto interno che prescindono dalla natura e dal rischio dei lavori.
Si tratta, infatti, in ogni caso, di soglie che la Direttiva comunitaria non consentiva prima - e non
consente assolutamente neanche ora - di introdurre per condizionare e/o limitare l’obbligo di
designazione dei “coordinatori”.
Pertanto, la sentenza del 7 ottobre 2010 non poteva che censurare quella deroga prevista dal comma
11 dell’art. 90 TUSL, in quanto quando c’è la presenza di più imprese, la disposizione sulla nomina
dei coordinatori non può essere derogata né distinguendo tra lavori pubblici e privati, né con
riferimento al “Permesso di Costruire” o alla “Dichiarazione di Inizio Attività”, né con qualsiasi
altro riferimento.
Il coordinatore per la progettazione, in presenza di più imprese, deve essere sempre designato, al
momento della progettazione, durante la progettazione e mai dopo, come dice e fa capire la
Direttiva comunitaria nelle sue disposizioni e nel suo preambolo.
Le disposizioni italiane che si sono succedute nel tempo, invece, non hanno preso sufficientemente
in considerazione anche il fatto che la designazione dei coordinatori deve avvenire al momento
della progettazione e prima dell’esecuzione.
Sicché, non si possono fare deroghe basate sulla nomina o meno, né deroghe relative al momento
della nomina, in quanto tale nomina ha un senso nella logica comunitaria se avviene prima
dell’esecuzione ed al momento delle scelte progettuali e non dopo.
Tutto questo risponde ad esigenze fondamentali che rendono non seriamente contestabile la
motivazione della decisione della Corte, senza però risolvere ancora le questioni che mi sono state
poste e che conservano un’importanza enorme, perché ci troviamo di fronte a una chiarissima
sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la quale si afferma che il comma 11
dell’art. 90 TUSL è in contrasto con il diritto comunitario, ed, in particolare, con l’art. 3 della
Direttiva 92/57/CE (in quanto quest’ultima impone sempre la designazione di entrambi i
coordinatori, nei rispettivi momenti, perché hanno ruoli insostituibili ed infungibili), ma non
abbiamo, almeno a me non risulta, alcuna modifica normativa da parte del legislatore nazionale.
Al momento, quindi, salvo novità dell’ultima ora, la formulazione della legge italiana riguardante
l’errata trasposizione della c.d. “Direttiva Cantieri” – nella parte relativa alla deroga all’obbligo di
nomina del coordinatore per la progettazione - è ancora norma italiana formalmente vigente
secondo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Ci ritroviamo, quindi, di fronte ad una situazione nella quale, da un lato, la norma comunitaria è
stata interpretata con assoluta chiarezza e fermezza per ben due volte dalla Corte di Giustizia ma,
dall’altro, gli operatori economici ed i cittadini in genere si trovano nella difficoltà di dover fare
riferimento concreto ad un comportamento operativo, che deve avere riferimenti normativi anche
perché si tratta di comportamenti potenzialmente esposti a sanzioni penali in caso di violazione di
una norma giuridica che, pertanto, deve essere individuata prima e non dopo.
Sotto questo profilo, allora, sorge la questione legata al fatto che le Direttive comunitarie obbligano
soltanto gli Stati Membri e non comportano obblighi nei confronti dei singoli.
La Direttiva comunitaria, infatti, è un atto che vincola gli Stati Membri, limitatamente al risultato da
perseguire, con la conseguenza che essa non crea direttamente obblighi nei confronti dei “singoli”
quali soggetti privati, siano essi persone fisiche o giuridiche.
Una sentenza della Corte di Giustizia che interpreta disposizioni delle Direttive comunitarie non
può, quindi, di per sé e in quanto tale, creare obblighi nei confronti del soggetto “privato”, almeno
fino a quando non venga modificata la norma nazionale con una corretta trasposizione di quella
comunitaria, in conformità al dispositivo della sentenza.
Il soggetto privato si trova, allora, in una condizione in cui sa che, da un lato, c’è una norma
nazionale erroneamente trasposta ma non modificata e, dall’altro, una norma di diritto comunitario
diversa, la cui interpretazione è stata fissata sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Io certo non faccio un incitamento ad applicare selvaggiamente il comma 11 dell’art. 90 TUSL, ma
dico qual è, in questo momento, la ricaduta della sentenza della Corte di Giustizia, almeno fino a
quando lo Stato Italiano non provvederà ad adeguare la norma nazionale alla volontà comunitaria,
così com’è obbligato a pena di multe e sanzioni salatissime che decorrono in proporzione al tempo
di ritardata modifica della legge nazionale.
Sotto questo profilo, il problema si è posto non soltanto con riferimento alla sicurezza sul lavoro ma
anche con riferimento ad altre materie, quali la tutela dell’ambiente , laddove il legislatore
nazionale, con riguardo, ad esempio, allo scarico di sostanze pericolose nell’ambiente idrico della
Comunità Europea, aveva previsto delle distizioni e delle deroghe non consentite dal diritto
comunitario.
Altre ipotesi hanno poi riguardato, sul piano delle “fonti”, i Regolamenti comunitari e non soltanto,
dunque, le Direttive.
In tutte le ipotesi, comunque, è intervenuta la Corte di Giustizia con notevole coerenza e
sistematicità per rispondere al problema legato alla domanda: dato che la disposizione comunitaria,
più severa e più rigorosa rispetto alla disposizione nazionale, prevede tassativamente ed
inderogabilmente un’imposizione di obblighi, qual’ è la posizione attuale dell’operatore economico
che abbia usufruito di deroghe previste soltanto dal diritto nazionale?
In risposta a questo interrogativo sono intervenuti i seguenti chiarimenti basati sui principi del
Trattato e sull’interpreazione giurisprudenziale.
Le Direttive obbligano gli Stati Membri in ordine ai risultati da perseguire, diversamente dai
Regolamenti che hanno portata generale (erga omnes), sono obbligatori in tutti i loro elementi e
sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri.
L’obbligo previsto dalle Direttive riguarda tutti i poteri degli Stati Membri (legislativo, esecutivo e
giudiziario), nonché tutti gli organi, ivi compreso l’organo giurisdizionale.
Ne deriva che l’organo giurisdizionale è tenuto sempre ad interpretare il diritto nazionale in
conformità alla lettera, allo scopo ed allo spirito della Direttiva: si tratta del principio
dell’interpretazione conforme (questo è il motivo per cui è importante leggere sempre anche i
considerando delle Direttive che illustrano lo scopo normativo).
Il principio dell’interpretazione conforme, salvo che per i casi di cui parleremo, porta in molti casi a
rendere direttamente efficaci le Direttive anche nei confronti dei “singoli”, alle condizioni che sono
state fissate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
In particolare, per evitare che la mancata od errata trasposizione di una direttiva possa consentire
allo Stato membro di eludere i suoi obblighi nei confronti dell’Unione Europea, viene consentito al
cittadino, al professionista ed all’operatore economico di ottenere, anche automaticamente e
d’ufficio, la disapplicazione della norma nazionale in contrasto con quella comunitaria (in ogni caso
il principio di interpretazione conforme vale nei confronti dei poteri degli Stati Membri, ivi
compresi il potere giudiziario e quello esecutivo).
Il cittadino o l’operatore economico hanno, quindi, di fronte una Direttiva non trasposta od
erroneamente trasposta, la seguente possibilità: in tutti i casi in cui i “singoli” (in contrapposizione
agli “Stati”) ritengano vantaggiosa la posizione attribuita dalla Direttiva, essi possono trovare nella
Direttiva comunitaria (a condizione che questa abbia disposizioni chiare, precise e incondizionate)
un diritto che lo Stato nega loro ma che può essere ottenuto sulla base della Direttiva e con
l’applicazione immediata e diretta della stessa che si accompagna alla contestuale disapplicazione
configgente con la norma comunitaria.
Ma tutto questo vale nei confronti ed a favore del cittadino e dell’operatore economico.
Per esempio, con l’avv. Cacace – giustamente oggi ricordato - abbiamo sfruttato le opportunità
offerte dal diritto comunitario in occasioni di palese contrasto tra la norma comunitaria sulla
definizione di “responsabile dei lavori” e la norma nazionale, quando quest’ultima costringeva, in
materia di appalti pubblici, a considerare come “responsabile dei lavori” il “responsabile unico del
procedimento” limitando illegittimamente le facoltà e le libertà del “committente” che sono sancite
dal diritto comunitario.
Il cittadino, il professionista o l’operatore economico possono ottenere direttamente l’applicazione
della Direttiva comunitaria nei confronti dello Stato Membro che sia inadempiente agli obblighi
comunitari, ma non vale il viceversa.
Il principio è: la Direttiva ha efficacia vincolante soltanto nei confronti dello Stato, l’efficacia
vincolante verrebbe meno se lo Stato potesse eludere il vincolo non trasponendo o trasponendo
malamente le Direttive, ma, in ogni caso, i cittadini dello Stato non devono essere “vittime”
dell’errata trasposizione della Direttiva comunitaria.
Pertanto, laddove la Direttiva individui posizioni direttamente tutelabili sulla base di disposizioni
chiare e precise (come nel caso della definizione di “responsabile dei lavori” che è stata prevista
nella Direttiva 92/57/CEE in modo inconciliabile con la norma nazionale del decreto 494/96), vale
il principio dell’interpretazione conforme, ovvero dell’interpretazione della norma nazionale alla
luce della lettera e dello spirito della Direttiva, come interpretata dalla Corte di Giustizia. Nel caso
in cui, invece, alla luce della lettera e dello spirito della Direttiva, la suddetta interpretazione non sia
possibile, perché il contrasto tra norma comunitaria e norma nazionale risulta insanabile (e ce ne
sono tanti di questi casi purtroppo in Italia), il principio dell’interpretazione conforme fa sì che si
possa ottenere la disapplicazione della norma nazionale in contrasto con quella comunitaria.
Spesso, peraltro, tutto ciò avviene in favore di imprese, di professionisti e di operatori economici,
nei casi numerosi in cui il diritto nazionale è più contorto, più punitivo o, comunque, meno chiaro,
con conseguenze più o meno negative per i “singoli”.
Adesso però ci ritroviamo in una situazione molto particolare e diversa o, meglio, opposta in cui, al
contrario, il diritto nazionale è concessivo (perché ammette una deroga all’obbligo generale di
nominare i coordinatori in casi in cui ci sia la presenza di più imprese in cantiere), laddove il diritto
comunitario è arcigno e tassativo nella previsione di un obbligo che non ammette deroghe.
Allora la domanda è: vale anche in questo caso il principio dell’interpretazione conforme, per cui il
giudice nazionale prende la norma nazionale, la mette in rapporto con le sanzioni dell’art 157 del
D.Lgs. 81/08 e dice che in effetti, anche se il diritto nazionale prevede una deroga, la Corte di
Giustizia ha interpretato il diritto comunitario in modo diverso che porta ad escludere la deroga, con
la conseguenza, quindi, che occorre, nel caso da decidere, disapplicare il precetto ma applicare la
sanzione previsti dal diritto interno, anche se si tratta di sanzione penale?
Ebbene no, questo non è possibile, anche perché su questo punto è intervenuta, con una chiarezza
cristallina, la Corte di Giustizia (v. Sentenze del 13 novembre 1990, in causa C-106/89; dell’8
ottobre 1987, in causa 80/86; del 26 settembre 1996, in causa 168/95; del 7 gennaio 2004, in causa
C-60/02).
Tale giurisprudenza ha complessivamente affermato che:
- da un lato, è certamente vero che tutti gli organi dello Stato sono tenuti ad assicurare il
risultato perseguito dalla Direttiva (la Direttiva non è un Regolamento e quindi si ragiona in
termini di risultato) ed, in particolare, è in tal senso tenuto l’organo giurisdizionale che deve
applicare la norma confacente;
- dall’altro, però, la giurisprudenza della Corte di Giustizia è assolutamente coerente nel
ritenere che: “tuttavia, siffatto obbligo del giudice nazionale di fare riferimento al
contenuto della Direttiva, nell’interpretare le norme rilevanti del diritto nazionale, incontra
un limite qualora tale interpretazione comporti che ad un singolo venga opposto un obbligo previsto da una Direttiva non trasposta (nel nostro caso si tratta dell’obbligo
generale di designare i coordinatori senza ammissibilità della deroga prevista dal co.11
dell’art 90 TUSL) e a maggior ragione qualora abbia l’effetto di determinare o aggravare,
in forza della Direttiva ed in mancanza di una legge emanata per la sua attuazione, la responsabilità penale di coloro che ne trasgrediscono le disposizioni”.
Notate, la Corte dice “determinare o aggravare” e dice anche che “il diritto comunitario non
comporta un meccanismo che consenta al giudice nazionale di disapplicare disposizioni interne”
quando questa disapplicazione si tradurrebbe – disapplicando il precetto ma applicando la sanzione
nazionale - in una forma di punizione del soggetto.
Tale punizione, infatti, sarebbe inflitta, altrimenti, in contrasto con principi fondamentali
dell’ordinamento nazionale (ma non solo nazionale: si tratta di principi di civiltà giuridica) come la
certezza del diritto, l’irretroattività della legge penale, la riserva di legge assoluta in materia penale
ed il principio di legalità.
A ben vedere, quindi, anche se qualcuno potrebbe soffrire dell’applicazione di “due pesi e due
misure”, il diritto comunitario si applica direttamente solo se porta un vantaggio al cittadino e
all’operatore economico nei confronti dello Stato, quando lo Stato è inadempiente ai propri obblighi
comunitari, ma tutto questo – al di là dell’apparente incoerenza - ha una logica ben precisa.
Le Direttive obbligano lo Stato e non il “singolo” cittadino, sicché lo Stato si sottrarrebbe ai suoi
vincoli se non fosse costretto, quando non traspone o malamente traspone le Direttive, ad applicare
il diritto comunitario ed il cittadino verrebbe conseguentemente privato del diritto comunitario, se in
questi casi, non si potessero invocare direttamente le disposizioni delle Direttive.
Mentre la situazione è ben diversa se si valutano le ricadute dovute alla futura soppressione (ma non
attuale, secondo la legge ora vigente) della deroga prevista dal co. 11 dell’art. 90 TUSL.
Con riferimento al co.11, dell’art. 90 del TUSL, infatti, la situazione cambia rispetto alla portata ed
agli effetti del diritto comunitario, poiché fino a quando la disposizione della Direttiva non sia stata
trasposta in una legge nazionale, il giudice non potrà disapplicare il diritto nazionale attualmente
esistente, se tale disapplicazione si traduce in conseguenze negative per la posizione giuridica e
processuale dei “singoli”.
Tutti coloro che prima della sentenza del 7 ottobre 2010 abbiano attuato un comportamento
direttamente applicativo della Direttiva, dunque, hanno ben operato (perché si sono ispirati
direttamente al diritto comunitario, rinunciando alla deroga prevista dal diritto nazionale) e quindi
non sono punibili né per il diritto nazionale né per quello comunitario.
Ma quid iuris per la posizione di tutti quelli che, invece, prima della sentenza del 7 ottobre 2010,
hanno usufruito della deroga prevista dal diritto nazionale (posizione che tendenzialmente è la
regola)?
Ebbene, siamo un presenza di una situazione tale per cui sicuramente non può essere punita
nemmeno la condotta di questi soggetti, perché non può essere imposto l’obbligo previsto in modo
inderogabile da una disposizione comunitaria non ancora trasposta nell’ordinamento nazionale.
Da questo punto di vista la logica è evidente: come fa il “cittadino” (lato sensu intesa) , obbligato
dalla propria legge nazionale e non dalla Direttiva, a comportarsi in un certo modo prima di certe
interpretazioni e di certe modifiche della legge nazionale pubblicate nella Gazzetta Ufficiale?
Se ragionassimo in maniera diversa e, quindi, se dovessimo ritenere punibile la condotta del
soggetto che prima della sentenza del 7 ottobre 2010 abbia usufruito di una deroga (che oggi
sappiamo essere) in contrasto con un obbligo comunitario, ma che era (ed è) prevista da una norma
di legge, il soggetto sarebbe esposto a sanzioni in contrasto con i principi fondamentali che fanno
parte non solo dell’ordinamento comunitario ma anche degli ordinamenti di tutti gli Stati Membri,
nonché dell’ordinamento costituzionale italiano: il principio di legalità, di certezza del diritto, di
irretroattività della legge penale, di riserva di legge in materia penale, (principi di civiltà
giuridica, prima di tutto).
In effetti, si è fatto presente più volte questo aspetto – ormai abbastanza scontato – del diritto
comunitario che si preoccupa dell’applicazione delle Direttive, della trasposizione delle Direttive e
dell’efficacia diretta delle Direttive sia evitando che uno Stato si possa avvantaggiare dei propri
inadempimenti agli obblighi comunitari, sia premiando, invece, il cittadino che faccia riferimento
diretto alle Direttive; ma il fatto che non valga l’opposto – seppure meno scontato - si fonda su
principi anch’essi fondamentali e non meno evidenti.
Così, anche in questo caso, l’operatore economico che prima della sentenza della Corte di Giustizia
si sia avvalso della deroga non è punibile per il contrasto con la Direttiva comunitaria, in ossequio
ai principi fondamentali del diritto comunitario, nazionale e internazionale.
Ultimamente, infatti, la Corte di Giustizia europea ha ricompreso- con la sua giurisprudenza - nel
sistema anche il diritto internazionale, con l’art. 7 della CEDU, essendo il principio di legalità non
solo previsto all’art 25 della Cost. ma anche contemplato come principio generale di tutti gli Stati
Membri.
Il diritto comunitario, infatti, non interviene improvvisamente, ma è il risultato di tutta una serie di
convergenze basate sui sistemi costituzionali degli Stati Membri, che sono omogenei al punto che,
quando si fa resistenza all’ingresso nella Comunità di un aspirante “Stato membro”, lo si fa
principalmente perché quello Stato presenta una Costituzione non perfettamente in linea con i
principi di legalità, riserva di legge ed irretroattività della legge penale.
Quindi i principi comunitari sono principi consolidati che sono comuni al sistema di valori dei
diversi Stati e che danno un contributo di credibilità al “diritto” nel suo insieme, ai diritti nazionali
interni ed al diritto comunitario che li recupera tutti e li valorizza sul piano sopranazionale.
In definitiva, non c’è nessun obbligo che si possa fare derivare al cittadino direttamente dalla
Direttiva comunitaria, neanche quando essa sia interpretata con due sentenze della Corte di
Giustizia che si succedono a breve distanza di tempo e per la stessa materia.
DOTT. GIORDANO:
Allora, facciamo il punto e riassumiamo quanto è stato detto fin’ora per poi fare un passo avanti.
Chi, prima del 7 ottobre 2010, si fosse conformato all’art. 90 co. 11 TUSL, che oggi scopriamo
essere in contrasto con la Direttiva comunitaria, non è comunque punibile.
Ovvero non è censurabile, nè sul piano dell’elemento soggettivo nè su quello della punibilità, chi ha
voluto godere della deroga prevista dal legislatore italiano, confidando nel dettato normativo della
legge nazionale.
AVV. ODDO:
Sì, sotto questo profilo ho portato con me una serie di sentenze della Corte di Giustizia, perché a
volte qualcuno è portato a pensare che la risposta si possa basare su di un caso singolo ed isolato,
invece non è così, anzi è esattamente l’opposto: la risposta è basata su di un’interpretazione
uniforme e consolidata della Corte la cui giurisprudenza ha fissato i principi che regolano la
materia.
DOTT. GIORDANO:
Ora il problema si pone per il periodo successivo alla sentenza del 7 ottobre 2010.
Oggi sarebbe punibile chi dovesse osservare l’art. 90 co. 11 TUSL, che lo autorizza a non nominare
il coordinatore per la progettazione con riguardo ai lavori al di sotto del 100.000 euro (lasciando
perdere il caso del permesso di Costruire di cui poi parlerà l’Avv. Giannì)?
AVV. ODDO:
No, neppure questo soggetto è punibile.
Le sentenze della Corte di Giustizia, infatti, dicono che il principio dell’interpretazione conforme
incontra un limite insuperabile “qualora tale interpretazione comporti che ad un singolo venga
opposto un obbligo previsto da una Direttiva non trasposta e a maggior ragione qualora abbia
l’effetto di determinare o aggravare, in forza della Direttiva ed in mancanza di una legge emanata
per la sua attuazione, la responsabilità penale di coloro che ne trasgrediscono le disposizioni”.
L’attenzione quindi va posta sulla frase “in mancanza di una legge emanata per la sua attuazione”
e la risposta dipende da quella fornita alla domanda: ma questa legge oggi c’è o non c’è?
Ad oggi non mi risulta che tale legge ci sia.
Devo dire, peraltro, che in questo la giurisprudenza della Corte di Giustizia è uniforme, consolidata
ed anche progressiva, in crescendo, in quanto tale principio viene ribadito con crescente vigore in
tutta una serie di sentenze confermative dell’indirizzo secondo il quale l’obbligo del cittadino può
derivare soltanto dalla legge nazionale attuata. Anche in presenza di una sentenza della Corte di Giustizia che chiarisca quale sia il significato di
una Direttiva, la punibilità non può essere ritenuta fino a quando il legislatore italiano non si
scomodi a modificare la legge. E’ infatti evidente, – e qui concludo – che le Direttive, nella loro
portata che deriva dall’ interpretazione giurisprudenziale, vincolano gli Stati Membri, e mai i
“singoli”che non ne sono destinatari diretti se non alle condizioni fissate dalla stessa giurisprudenza
comunitaria.
Il “cittadino” è tenuto all’applicazione della propria legge nazionale finché essa si presenta nel
modo che risulta dalla formulazione ufficialmente pubblicata nella G.U. italiana come “Diritto”
(nazionale ) vigente. Questo impone il principio di certezza del diritto e questo impone il principio
della riserva assoluta di legge in materia penale (peraltro, le sanzioni penali non sono previste dal
legislatore comunitario, neanche quando si tratti di Regolamenti, perché sotto questo particolare
profilo lo Stato non ha rinunciato ad alcuna sovranità).
Allora, se tali sono i principi, il cittadino non è punibile fino a che non venga modificata
formalmente ed ufficialmente la legge italiana.
Tali sono i principi non soltanto dell’ordinamento comunitario ma anche del nostro ordinamento
costituzionale e di quello degli Stati Membri che aderiscono all’Unione Europea.
DOTT. GIORDANO:
Sentiamo ora il dott. Salemme su questo stesso problema.
Volevo solo precisare che in base all’art. 90 co. 3 TUSL vi è una regola: quella che impone di
nominare il coordinatore per la progettazione.
L’art. 90 co. 11 TUSL rappresenta poi l’eccezione, ovvero la possibilità di non nominarlo in alcuni
casi.
Tale eccezione è saltata dopo la sentenza della Corte di Giustizia, con la conseguenza che si
riespande la regola dell’obbligo di nomina del coordinatore per la progettazione.
In termini spero più semplici rispetto a quanto ci dice la sentenza, questo è il problema:
riespandendosi la regola e scomparendo l’eccezione, i comportamenti che prima erano non punibili
ora rientrerebbero, o rientreranno, nella regola e quindi nella punibilità?
DOTT. SALEMME:
Per rispondere alla domanda: penso che alla luce dell’interpretazione del diritto comunitario e del
diritto interno esistano oggi degli strumenti idonei a far addivenire a conclusioni diverse rispetto a
quelle fin’ora correttamente sostenute dall’Avv. Oddo in relazione all’intepretazione
giurisprudenziale e dottrinale corrente.
Esiste un problema ed è quello di garantire la legalità comunitaria, la quale è una legalità diversa da
quella interna.
Si tratta di parametrare la legalità interna alla legalità comunitaria sotto il profilo particolare
dell’efficacia delle Direttive, perché qui stiamo parlando dell’attuazione interna della Direttiva
57/92.
Quindi il problema è quello di analizzare l’atto normativo comunitario che prende il nome di
Direttiva, nonché la disciplina interna di attuazione.
La premessa è quella correttamente e splendidamente esposta dall’Avv. Oddo: un’autorità nazionale
non può far valere a carico di un privato la disposizione di una Direttiva per la quale non si sia
ancora proceduto alla necessaria attuazione nell’ordinamento nazionale (art. 249 del Trattato, come
interpretato dalla Corte di Giustizia in un noto caso giurisprudenziale dell’8 ottobre 1997).
Richiamo la vostra attenzione sulle parole utilizzate dalla Corte di Giustizia: “Direttiva per la quale
non si è ancora proceduto alla necessaria attuazione”.
Abbiamo quindi una Direttiva che esiste nel diritto comunitario ma non è stata attuata
nell’ordinamento interno.
Il che significa che l’ordinamento interno non prevede una disposizione di legge o di regolamento
che disciplini la fattispecie prevista dalla Direttiva.
Ovvero: esiste il diritto comunitario, non esiste il diritto interno.
Questa giurisprudenza della Corte di Giustizia dice che non è possibile trarre una conseguenza di
applicazione diretta della Direttiva in pregiudizio del cittadino.
La Direttiva infatti non dispiega un’efficacia definita verticale in senso discendente: il cittadino non
può ricevere pregiudizio, in questa particolare situazione, da una norma restrittiva contenuta in una
Direttiva comunitaria.
Sotto altro profilo, la giurisprudenza della Corte è sempre stata chiarissima sui rapporti tra diritto
comunitario e diritto penale già dal 1981 (sentenza 11 novembre 1981, caso CASATI).
La Corte dice, infatti, che in via di principio la legislazione penale e le norme di procedura penale
restano di competenza degli Stati Membri.
Tuttavia, sia in una sentenza del 1982 sia in una sentenza del 1986, la Corte ha anche specificato
che “non di meno, l’efficacia del diritto comunitario non può cambiare a seconda dei diversi settori
del diritto nazionale”. Quindi l’efficacia del diritto comunitario non può cambiare neanche in
relazione a quei settori che prevedono l’applicazione di una sanzione penale.
Tale è la posizione della Corte di Giustizia.
Rispetto a questo panorama di rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, sono sopravvenuti
due elementi di novità, anzi tre.
I primi due stanno all’interno del diritto comunitario, mentre il terzo sta nell’ordinamento italiano.
Cominciamo da quest’ultimo.
La Legge Costituzionale n. 3 del 2001 modifica l’art. 117 co. 1 della Costituzione e dice:” la
potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione”.
Lo sapevamo, la Costituzione abilita la legislazione ordinaria.
Però, poi, la norma aggiunge: “nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali”.
Quest’ultima parte prima non c’era e la Costituzione non prevedeva il vincolo per la legislazione
ordinaria di rispetto del diritto comunitario.
Tenete conto, peraltro, che l’art. 117 co. 1 è una norma di rango costituzionale, tanto quanto l’art 25
della Costituzione che disciplina la legalità penale (nullum crimen nulla poena sine lege).
Abbiamo quindi l’art. 25 Cost. che subisce l’influsso di una disposizione equiparata, il novellato art.
117 comma 1 della Costituzione che impone il rispetto del vincolo comunitario anche alla legge
interna penale.
A fronte di tale apertura internazionalistica della Costituzione, troviamo nella legislazione
comunitaria la previsione (inserita in una Direttiva che non riguarda i cantieri, la Direttiva 99/08 sui
rifiuti) di un obbligo di penalizzazione di condotte rilevanti dal punto di vista comunitario.
La faccio breve, questa Direttiva prevede che talune condotte ritenute particolarmente pericolose
per la salute pubblica debbano essere necessariamente sanzionate con una disposizione penale e non
semplicemente amministrativa. Questo è il testo della direttiva.
Badate, per i cultori del diritto comunitario, che questa Direttiva interviene a seguito
dell’annullamento da parte della Corte di Giustizia (nel 2005) di una Decisione di identico
contenuto ma situata nel cd Terzo Pilastro dell’Unione Europea. Il Terzo Pilastro è il Pilastro della
cooperazione internazionale, dei rapporti tra Stati appartenenti all’Unione Europea.
La Corte di Giustizia del 2005, dunque, annulla quella Decisione entro in Terzo Pilastro ed espone
come l’adozione di una normativa siffatta debba essere attratta nel Primo Pilastro, in quanto non
riguarda più i rapporti tra Stati ma disciplina direttamente i rapporti individuali.
A fronte di questo dato normativo, abbiamo in materia di rifiuti la recentissima sentenza della Corte
Costituzionale italiana del 25/28 gennaio 2010 n. 28. La materia di cui si tratta è quella dei rifiuti,
perché i rifiuti hanno una disciplina penale particolarmente penetrata dalla legislazione comunitaria.
Vi chiedo di seguirmi brevemente su questa questione dei rifiuti perchè ci consente poi di tracciare
un parallelo con la normativa relativa ai cantieri.
L’art. 183 co. 1 lett. n) del D.lvo 152/06 sui rifiuti, nel testo precedente il cd “correttivo rifiuti”, è
secondo la Corte costituzionalmente illegittimo, ai sensi dell’art. 11 e dell’art. 117 della
Costituzione, nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrino tra i sottoprodotti non
soggetti alle disposizioni di cui al D.lvo stesso.
Le ceneri di pirite sono il prodotto di una certa lavorazione.
Una Direttiva comunitaria in materia di rifiuti prevedeva la classificazione anche delle ceneri di
pirite come rifiuti, mentre la disciplina interna di attuazione di quella Direttiva non prevedeva la
classificazione delle ceneri di pirite come rifiuti e quindi nemmeno come sottoprodotto dei rifiuti.
Come si vede, il caso è analogo a quello dei cantieri, perché il commercio dei rifiuti e lo stoccaggio
dei rifiuti sono fattispecie penalmente rilevanti, ma una volta che il diritto interno esclude le ceneri
di pirite dal novero dei rifiuti, la condotta penalmente rilevante alla luce del diritto comunitario
perde rilevanza sotto il profilo penale dal punto di vista dell’ordinamento interno.
La Corte Costituzionale, decidendo questa fattispecie, afferma che “ l’impossibilità di non applicare
la legge interna in contrasto con una Direttiva comunitaria (peraltro non munita di efficacia diretta)
non significa, tuttavia, che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario;
controllo che spetta a questa Corte davanti alla quale il giudice può sollevare questione di
legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117 comma 1 della Costituzione”.
Trasponiamo ora questo discorso fatto a proposito dei rifiuti nell’ambito della Direttiva-Cantieri.
La disciplina è identica.
L’art. 90 co.11 TUSL prevede una causa di non punibilità, ovvero una causa che scrimina la
condotta, altrimenti penalmente rilevante, di colui che osserva il comma 11. Questo soggetto, che
appunto osserva il comma 11, ora, dovrebbe osservare, per effetto della giurisprudenza comunitaria,
il comma 3 e non già il comma 11. Ma il comma 3 è sottoposto a sanzione penale.
Questo è il quadro.
Ha ricordato l’Avv. Oddo che questa sentenza del 2010 della Corte di Giustizia è in realtà una
riedizione dell’attività giurisdizionale della Corte, perché fa seguito ad un’altra sentenza (quella del
25 luglio 2008, causa C504/06) che riguardava l’art. 3 del decreto 494/96.
Il legislatore italiano non si è inventato nulla con l’art. 90 comma 11 TUSL, contrario alla
normativa comunitaria, perché già l’art. 3 del decreto 494/96 prevedeva appunto delle cause di non
punibilità, sotto il profilo dell’entità del cantiere (i 200 uomini –giorno) e sotto il profilo della
presenza di rischi particolari (allegati II e XI).
La Corte di Giustizia aveva detto in quella sentenza, che riguarda una procedura di infrazione nei
confronti dello Stato italiano per inadempienza all’obbligo di correttamente attuare le Direttive
comunitarie, che la disposizione italiana, nel prevedere delle cause di non punibilità, era illegittima
sotto il profilo del diritto comunitario.
In effetti il legislatore italiano aveva tentato di difendersi, nella causa intentata dinnanzi alla Corte
di Giustizia, dicendo che l’art. 90 TUSL non prevede più quelle cause di non punibilità già
censurate dalla Corte nel 2008. Ma la Corte non ritiene rilevante tale osservazione ed afferma che
anche la seconda norma è in contrasto con il diritto comunitario e condanna lo Stato italiano.
Lo Stato italiano, quindi, è recidivo perché con la legge comunitaria del 2009 (la legge 7 luglio
2009 n. 88), all’art. 39, introduce nuovamente, anche se con forma diversa, una causa di punibilità
non ammessa nel diritto comunitario.
Allora, traendo le conclusioni, siamo di fronte ad un caso in cui la Direttiva non ha trovato
attuazione o siamo di fronte ad un caso in cui la Direttiva ha trovato attuazione, per un breve
periodo di tempo conformemente al diritto comunitario e dopo in maniera non più conforme al
diritto comunitario?
La conseguenza è che la giurisprudenza correttamente esposta dall’Avv. Oddo in materia di
impossibilità di estendere in malam partem gli effetti di una Direttiva è una giurisprudenza espressa
in relazione alla mancata attuazione originaria di una Direttiva, ma qui la Direttiva ha conosciuto un
periodo di attuazione anche corretta, ovvero il periodo di un anno di vigenza dell’art. 90 vecchio
testo del TUSL.
Con la dichiarazione di illegittimità comunitaria dell’attuale co. 11 dell’art. 90 riprende, quindi,
vigore la disposizione precedente (relativa all’assenza di cause di giustificazione o di non
punibilità).
La Corte di Giustizia ha negato, infatti, che il giudice possa applicare la normativa attuale
(abrogativa di quella relativa all’assenza di cause di non punibilità) per contrasto con la disciplina
comunitaria e, pertanto, rivivono le previsioni del precedente art. 90, che di cause di non punibilità
non ne prevedeva affatto.
Quali le conseguenze?
Dopo la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea della sentenza di cui si tratta,
sicuramente gli organi di accertamento debbono prevedere la procedura di accertamento
dell’infrazione di chi non ottemperi al dispositivo di quella sentenza.
Lo debbono fare non soltanto in previsione di un procedimento penale ma anche in previsione di
tutto quell’apparato sanzionatorio amministrativo che precede il procedimento penale e a cui tutti
gli organi dello Stato debbono obbedienza in conformità dell’ordinamento comunitario.
Badate che la Corte di Giustizia ha sempre detto che tutti i poteri dello Stato e, più in generale, tutti
i funzionari dello Stato debbono dare applicazione diretta al diritto comunitario.
Allora, per le fattispecie consumatesi prima della pubblicazione di questa sentenza della Corte di
Giustizia il problema, dal punto di vista del diritto penale, è il seguente: la fattispecie comunque
sussiste sul piano oggettivo perché la disciplina del testo attuale dell’art. 90 co 11 TUSL è non
applicabile (non è applicabile da quando è sorta, perché gli effetti della sentenza sono dichiarativi),
ma sul piano soggettivo non si può pretendere dal cittadino una conoscenza tale dei meccanismi del
diritto comunitario da renderlo più realista e diligente del legislatore italiano.
Non è esigibile, quindi, dal cittadino l’obbligo di conformarsi al diritto comunitario prima ancora
che lo faccia lo Stato.
Pertanto si sposta il profilo dell’eventuale assoluzione (e sottolineo eventuale), la formula non sarà
“perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, né “perché il fatto non sussiste”: il fatto di
reato c’è ma non è “visto” dall’agente come reato sotto il profilo dell’elemento psicologico, sotto il
profilo della colpa come requisito minimo di ascrivibilità della condotta.
DOTT. GIORDANO:
Volevo solo dare un dato cronologico cui è stato fatto riferimento: il comma 11 di cui trattiamo è
stato introdotto non con il D.lvo 81/08 ma con l’art. 39 della Legge Comunitaria per il 2008, ovvero
la Legge del 7 luglio 2009 n. 88.
Quindi la differenza temporale in cui il collega colloca la ricaduta del legislatore statale nel vizio di
violazione del diritto comunitario parte dal luglio 2009 e non è da attribuire né al TUSL del 2008 né
alla riforma di agosto 2009, ovvero la 106 del 2009.
Replica l’Avv. Oddo.
AVV. ODDO:
Anche in occasione dell’ultima sentenza del 7 ottobre 2010, la giurisprudenza comunitaria si era
preoccupata delle ricadute penali dei “pasticci” dello Stato sui cittadini innocenti.
La Corte aveva infatti detto: “per fornire al giudice del rinvio una risposta esaustiva, si deve
ancora ricordare che, secondo una costante giurisprudenza della Corte, una Direttiva non può di
per sé creare obblighi a carico di un singolo e la disposizione di una Direttiva non può quindi
essere fatta valere in quanto tale nei confronti del singolo”.
Nel momento in cui la Corte è intervenuta nei confronti dello Stato italiano, pertanto, si è
preoccupata di precisare che gli obblighi di cui si tratta sono obblighi esclusivamente nei confronti
dello Stato con la conseguenza, dunque, che i medesimi obblighi, non devono ricadere sui “singoli”
innocenti.
A questo proposito devo precisare che tutta la giurisprudenza che io ho citato, o almeno la parte più
significativa – ivi compresa la sentenza “pilota” con il noto “caso Arcaro” (del 26-9-96), si riferisce
non già a Direttive non trasposte (per le quali lo Stato non ha provveduto al recepimento,
nonostante la scadenza del termine, ) ma a Direttive non correttamente trasposte (anche nella già
citata sentenza “pilota” del 26/9/96 si era sollevata questione relativa sostanzialmente a “deroghe”
previste – rispetto ad obblighi tassativi - dal decreto di recepimento italiano ma non dalla direttiva).
A proposito di queste Direttive non correttamente trasposte, che è dunque un’ipotesi frequentissima,
esse “non possono avere l’effetto di per sé, ed indipendentemente da una legge emanata per la sua
attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità del singolo”.
Quando la Corte dice “indipendentemente da una legge emanata per la sua attuazione”fa
riferimento ad una legge e la legge è diversa da una sentenza.
Se il cittadino, per il quale già è difficile inseguire le leggi, dovesse inseguire anche le sentenze
della Corte di Giustizia, si ritroverebbe ad inseguire un qualcosa che non è previsto e che non può
obbligarlo in alcun modo.
La Corte infatti, con giurisprudenza ripetuta e consolidata, parla di “legge” ed io mi sono
preoccupato di citare una giurisprudenza anche recentissima nel merito e nel “cuore” delle questioni
trattate.
Nel 2004 la giurisprudenza ha ribadito questi principi dicendo che qualora, per effetto di una
Direttiva comunitaria ed in mancanza di una legge non trasposta (di una legge e non di una
sentenza, perché le sentenze non si traspongono), si dovessero far ricadere sui cittadini conseguenze
che riguardano la determinazione o l’aggravamento di una responsabilità inesistente sulla base
della legge interna, “si violerebbero al tempo stesso i principi della certezza del diritto e della
irretroattività della legge penale, ma principalmente il principio della legalità delle pene” (il
principio dell’art. 7 CEDU), i quali costituiscono “principi generali che fanno parte integrante del
diritto comunitario, che è comune alle Costituzioni degli stati Membri che vietano di sanzionare
penalmente condotte che non siano previste da una legge dello Stato”.
A mio parere, quindi, il riferimento costante e continuo alla legge dello Stato ed ai principi generali
del diritto internazionale, comunitario e costituzionale dovrebbero portare a conseguenze che
riguardano il diritto penale non soltanto per l’eventuale reato contravvenzionale di pericolo nella
sua sussistenza, ma anche, con riferimento a quell’ “aggravamento” di cui parla la Corte, a quegli
aspetti ed a quei profili colposi, in caso di infortunio, presi in considerazione anche da reati
costituenti delitti colposi e, quindi, anche per illeciti diversi dai reati contravvenzionali di pericolo.
DOTT. GIORDANO:
In attesa che il legislatore si decida ad intervenire (in quanto è l’unica cosa che ci permetterebbe di
risolvere il problema) dobbiamo evidenziare che il comma di cui si discute trova il suo fondamento
in una questione molto seria.
Il legislatore italiano, contrariamente alla Direttiva europea, ha costruito questa soglia su due
parametri.
Il primo è quello dei lavori di valore inferiore ai 100.000 euro.
Con tale parametro il legislatore si è esposto alla critica, sempre fatta da noi tutti, per cui non è detto
che un lavoro da 90.000 euro sia meno pericoloso rispetto a quello con valore di 105.000 euro.
Quindi, ovviamente questa è una soglia di rischio di poca credibilità, anche perchè dobbiamo tenere
conto di un dato ovvio, ovvero che proprio nelle piccole imprese edili, dove ci sono lavori di scarso
importo, generalmente il datore di lavoro ed i committenti sono portati ad aggirare le norme in
materia di sicurezza se non altro per un conteggio di tipo economico. Quindi ci preoccupa molto
che il legislatore possa non eliminare questa soglia.
L’altro parametro, su cui invito a riflettere l’Avv. Giannì, da esperto amministrativista, riguarda la
necessità di un Permesso di Costruire.
Secondo la norma attuale, infatti, quando il lavoro non richiede il Permesso di Costruire non
occorre nominare il coordinatore per la progettazione.
Allora, in subordine al problema di cui abbiamo già parlato, ci chiediam: quando, ad oggi, dopo il
decreto Tremonti, non abbiamo necessità del Permesso di Costruire?
E poi, quando c’è la DIA? C’è ancora questa DIA in edilizia?
AVV. GIANNI’:
Innanzitutto ringrazio il Coordinatore dell’Osservatorio per avermi invitato.
Io mi sono posto il problema di come riuscire a trattare la DIA edilizia, sopravvissuta o defunta che
sia, nonché la SCIA in un contesto di norme sulla sicurezza nei cantieri.
Quando il Dott. Giordano mi ha sottoposto la questione della sopravvivenza o meno della DIA
edilizia alla luce di quanto previsto nell’art. 90 co.11 TUSL, io che non sono un esperto di sicurezza
per prima cosa sono andato a leggermi la norma.
Devo dire che sotto questo aspetto ho dei giudizi leggermente e parzialmente difformi da quelli del
collega Oddo e del dott. Salemme.
La norma sostanzialmente prevede una condizione di vantaggio, di non punibilità, attraverso la
possibilità di non nominare il coordinatore per la progettazione, quando si tratti di lavori non
soggetti a Permesso di Costruire o di importo inferiore ai 100.000 euro.
Ma la norma non finisce qua, essa si completa prevedendo che le funzioni del coordinatore per la
progettazione siano svolte in quei casi dal coordinatore per l’esecuzione.
Dobbiamo riflettere su questo ed io non ho dubbi nel credere al pragmatismo del legislatore
comunitario.
Nelle conclusioni delle sentenze della Corte di Giustizia si afferma che la norma comunitaria, così
come interpretata, diverge rispetto a quella nazionale (che è incompatibile con la prima).
Secondo la Corte, la norma deve essere interpretata nel senso della necessaria presenza di almeno
un coordinatore per la sicurezza, il quale va nominato durante la fase della progettazione e prima
dell’esecuzione dei lavori.
La normativa italiana, allora, differisce da quella comunitaria sia quando ci siano più imprese in
cantiere sia quando ce ne sia una sola: in ogni caso il legislatore comunitario pretende la nomina di
almeno un coordinatore per la sicurezza e non si preoccupa del fatto che i lavori richiedano un
permesso o sino di un dato importo.
Il legislatore comunitario si preoccupa solo del fatto che ci siano dei lavori in un cantiere e che
questi lavori siano potenzialmente pericolosi per i lavoratori. Di conseguenza è fatto obbligo al
committente di nominare almeno un coordianatore per la sicurezza.
Come si lega la questione dell’art. 90 comma 11 TUSL con la normativa italiana in materia di titoli
edilizi e quindi con la normativa urbanistica?
Occorre un esame sistematico del comma 11 dell’art. 90 TUSL.
L’esame sistematico, peraltro, è anche la ragione per cui il legislatore ha previsto questa causa di
non punibilità.
Il legislatore esonera dall’obbligo di nominare il coordinatore per la progettazione quando i lavori
non richiedano il Permesso di Costruire, perché se non c’è tale permesso, secondo la legislazione
italiana, può esserci una attività di edilizia libera, un’attività soggetta a DIA o, oggi, un’attività
soggetta a SCIA.
Allora, per la legge italiana, in caso di attività di edilizia libera (disciplinata dal TU Edilizia all’art.
6, che prevede almeno sei tipologie di interventi minori eseguibili oggi con una semplice
comunicazione, sempre che non si tratti di manutenzione straordinaria implicante un incremento
quantitativo dell’immobile o un aumento di volume), non è prevista la nomina del coordinatore per
la progettazione.
Per il legislatore comunitario, invece, siamo in presenza comunque di un’attività edilizia, non
importa se completamente libera, avviata con una semplice comunicazione o asseverata con una
serie di allegazioni tecniche del progettista; ciò che conta per il legislatore comunitario è il
potenziale rischio per la sicurezza nel cantiere, rischio che impone la nomina di un coordinatore in
grado di redigere un Piano per la Sicurezza prima dell’esecuzione dei lavori.
Quello che vale per l’attività edilizia libera, dunque, vale anche per l’attività sottoposta a DIA cd
“non onerosa”, ovvero la DIA edilizia disciplinata dal D.lvo 380/01 e dall’art. 42 della L.15 della
Regione Lombardia.
Cosa cambia, quindi, per gli operatori su questo punto?
Sostanzialmente nulla, perché la Regione Lombardia ha equiparato la DIA cd “onerosa” al
Permesso di Costruire.
Voi sapete che gli interventi di trasformazione edilizia ed urbanistica si possono fare con la DIA
“onerosa” o con il Permesso di Costruire, quindi i due strumenti sono completamente alternativi.
Dove invece la DIA non è alternativa al Permesso di costruire? La DIA non è alternativa al
Permesso di Costruire se si tratta di interventi che non importano le trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio (che possono anche realizzare plurimanufatti ma senza che questi
manutaffi intervengano in una zona da considerare non edificata).
Quindi si tratta degli interventi di ristrutturazione edilizia, di manutenzione e risanamento
conservativo e degli interventi manutenzione straordianaria non liberalizzati (cioè quelli che
importano un aumento quantitativo dell’immobile e un aumento di volumetria).
Qui il punto è: oggi la DIA edilizia sopravvive ancora o è stata sostituita dalla SCIA?
Nel luglio di quest’anno, con decorrenza 31 luglio 2010, è entrata in vigore una legge di modifica
dell’art. 19 del D.P.R. 241/90 sulla disciplina della DIA ordinamentale.
Qui è bene non fare confusione: noi conosciamo tre tipi di DIA, una ordinamentale prevista dall’art.
19 L. 241/90, una DIA in materia di commercio e una DIA edilizia.
Tutti quanti siamo a conoscenza dell’istituto della DIA edilizia, che rappresenta uno strumento di
semplificazione. Essa è una denuncia che sostituisce il titolo abilitativo; di qui il richiamo al TUSL,
nonché agli interventi del coordinatore e delle Pubbliche Amministrazioni in caso di violazione
delle norme antinfortunistiche (vi ricordo che si tratta di interessi sensibili che legittimano
l’intervento della PA in ogni momento, anche laddove i lavori siano iniziati con DIA o SCIA).
Infatti la norma prevede che i titoli abilitativi siano sospesi in caso di violazione delle norme
antinfortunistiche.
Ovviamente nella DIA e nella SCIA un titolo abilitativo non c’è.
Secondo il legislatore (per il tenore letterale e per la disciplina prevista) la SCIA avrebbe sostituito
integralmente la DIA.
Pertanto occorre verificare se tali conclusioni risultino verosimili o meno.
Il Ministero per la semplificazione, interpellato sul punto dalla Regione Lombardia, ha affermato
che la SCIA avrebbe sostituito integralmente anche la DIA edilizia ed occorre verificare se questa
sia una conclusione legittima o una conclusione a cui muovere delle riserve.
In realtà questa conclusione è molto frettolosa, per una serie di ragioni.
Sono cinque gli argomenti che militano a favore della piena sostituzione della DIA con la SCIA e
cinque sono anche le ragioni che militano per la sopravvivenza della DIA, ovvero per la separazione
tra DIA e eSCIA.
Ora, a me pare che l’argomento più rilevante richiami le ragioni di ordine sistematico su cui nasce
la SCIA.
La SCIA è una Segnalazione Certificata di Inizio Attività che si spiega solo in un contesto di libera
concorrenza e di tutela dell’iniziativa economica privata; mentre non ha nulla a che vedere con la
disciplina edilizia, che è autonoma e speciale.
Pertanto non può dirsi che il TU Edilizia sia stato modificato dall’art. 19 L. 241/90, come novellato
quest’estate.
Già questo rilievo sarebbe sufficiente: un istituto riguarda la materia economica (la SCIA) e l’altro
riguarda l’ambito edilizio (la DIA).
Allora, però, perché il legislatore si è incaponito nel voler fornire un’interpretazione (autorevole in
quanto derivante da un ufficio legislativo) nel senso della piena sostituzione della SCIA con la
DIA? E, soprattutto, la SCIA rappresenta una tutela o un aggravio di oneri per gli operatori?
Qui vi dico che la SCIA rappresenta un aggravio di oneri per l’imprenditore, perché noi eravamo
abituati a conoscere la DIA come strumento di semplificazione, sostitutivo di un titolo abilitativo,
che si attuava con una denuncia e la decorrenza di un termine di 30 gg (lasciati alla PA per
intervenire con un eventuale ordine di non eseguire o di interrompere le opere con ripristino dello
stato dei luoghi, ovviamente fatto salvo il potere della PA di intervenire in ogni momento in
autotutela in caso non sia riuscita ad effettuare il controllo nel termine di 30 gg).
Però la DIA era, è, una denuncia fatta dal privato e accompagnata da certificazioni e relazioni
asseverate da parte del professionista; essa fa scattare delle conseguenze per le false dichiarazioni o
asseverazioni ed ha un’efficacia limitata a tre anni, sempre che i lavori vengano iniziati nel termine
di un anno.
La DIA cd “onerosa”, che sostituisce integralmente il Permesso di Costruire, ovviamente impone
anche degli oneri in capo al soggetto che la presenta; oneri che invece nella SCIA non sono previsti.
Cosa cambia nella SCIA?
E’ la scelta del cd “principio del minimo mezzo” per avviare un’attività economica (principio
sicuramente valido anche a livello comunitario): contemporaneamente alla comunicazione,
l’operatore può già iniziare la propria attività e la PA non ha più 30 gg. ma 60gg. per esercitare il
potere di controllo ed ordinare il ripristino dello stato dei luoghi o inibire i lavori laddove non
fossero ancora cominciati.
Ma per l’operatore ci sono delle conseguenze terribili, perché egli sostanzialmente potrebbe essere
denunciato nel momento in cui allegano alla SCIA certificazioni, dichiarazioni ed elaborati tecnici
falsi o mendaci rispetto alle descrizioni urbanistiche.
Ragioni di ordine sistematico, ma anche di vantaggio per l’operatore, impongono quindi di preferire
la scelta della sopravvivenza della DIA e della sua non completa sostituzione con la SCIA.
Ad oggi, però, la posizione in Lombardia non è una posizione chiara, perché il Comune di Milano,
nel proprio sito istituzionale, ha lasciato inalterati gli istituti della DIA e del Permesso di Costruire;
mentre la Regione Lombardia, facendo propria l’interpretazione del Ministero per la
Semplificazione, ha invece prodotto una circolare nella quale sostiene che la SCIA ha
completamente sostituito la DIA.
La dottrina è divisa sul punto.
Molti sono favorevoli all’autonomia della DIA edilizia rispetto alla SCIA per una impraticabilità
sotto il profilo delle materie coinvolte.
Certamente, ragioni di prudenza consigliano all’operatore di non iniziare immediatamente i lavori
con la SCIA, perché si pongono poi problemi di tipo diverso nel momento in cui i lavori vengono
avviati immediatamente. L’eventuale ordine successivo della PA, infatti, in questi casi non è più un
ordine di non effettuazione dei lavori ma è un ordine di abbattimento e di riduzione in pristino dei
lavori già effettuati e se la PA dovesse riscontrare che la SCIA non rispettava i parametri
urbanistici, l’operatore avrebbe già realizzato un manufatto in difformità con le prescrizioni
urbanistiche (con conseguente abuso edilizio).
Quindi la volontà del legislatore di creare uno strumento per il quale l’inizio dell’attività,
accompagnato dall’inerzia della PA per 60 gg., equivalga ad una sorta di situazione di fatto che
consente la prosecuzione dell’attività nel campo edilizio, oltre che contrastare con dei principi
generali che governano l’urbanistica e la tutela del territorio in generale, sembra estremamente
pericolosa per gli operatori.
Grazie.
DOTT. GIORDANO:
Grazie Avv. Giannì.
A conferma di quanto è stato detto vorrei riepilogare e dire che non soltanto in Lombardia c’è una
diversità di vedute tra Enti Locali (in questo caso tra Comune e Regione), ma tale diversità vedute si
pmaifesta anche tra varie Regioni d’Italia.
Per esempio, ritengono che la SCIA non si applichi le seguenti Regioni: Toscana, Lazio, Sicilia,
Basilicata, Friuli Venezia Giulia e la Provincia Autonoma di Bolzano.
Ritengono, invece, che la SCIA si applichi in edilizia le Regioni: Liguria , Piemonte, Lombardia,
Emilia Romagna, Veneto, la Provincia Autonoma di Trento, marche, Abruzzo, Umbria e Calabria.
Invece, altre Regioni hanno fatto ricorso alla Corte Costituzionale: Valle d’Aosta, Liguria e
Toscana.
Altre Regioni ancora hanno emesso una circolare interpretativa: Abruzzo, Lombardia e Valle
d’Aosta.
Quindi alcune di queste Regioni hanno optato per due diverse manovre e questo dà l’idea di quanto
sia grave lo confusione sul punto.
****
DIBATTITO:
DOTT. GIORDANO:
Darei ora la parola a chiunque voglia intervenire, mentre l’altra sessione verrà rinviata al
pomeriggio.
Ora facciamo il dibattito, per chi avesse delle domande o delle repliche. Riprendiamo comunque nel
pomeriggio con la sessione dedicata al committente, all’affidatario, all’impresa esecutrice ed ai
rapporti tra questi soggetti. Ovviamente a seguire ci sarà la Tavola Rotonda che è stata prevista con
i rappresentanti degli organi di vigilanza e degli organi rappresentativi in materia di controllo.
DOTT. ASCIONE:
Sull’aspetto che è stato ora trattato dagli avvocati e dal collega Salemme, relativo all’art. 90 comma
11TUSL, volevo subito evidenziare che in effetti, al lato pratico, finchè questo comma 11 è rimasto
vigente, non è che venissero meno i compiti e le responsabilità di un soggetto sotto il profilo della
funzione di coordinatore per la progettazione, perchè la norma chiudeva prevedendo che le funzioni
del coordinatore per la progettazione fossero svolte dal coordinatore per l’esecuzione.
Quindi dal lato pratico, venivano riconosciuti comunque in capo ad un coordinatore, quello per
l’esecuzione, i compiti originariamente previsti in capo al coordinatore per la progettazione, ovvero
i compiti di redazione del PSC e di formazione del Fascicolo.
Quindi diciamo che quelle esigenze di tutela dai rischi per la salute e per la sicurezza dei lavoratori
venivano di fatto previste e soddisfatte con l’attribuzione in capo al coordinatore per l’esecuzione
degli oneri e dei compiti del coordinatore per la progettazione.
Sul piano pratico, allora, il margine di sicurezza e di tutela non veniva intaccato per effetto
dell’inciso di chiusura della stessa norma.
In punto di diritto, invece, volevo dire che la questione della vigenza di una certa previsione di
cautela in capo a qualcuno, nonchè quella della durata temporale di questi obblighi del coordinatore
hanno rilievo sul piano penale e chiamano in gioco l’art. 2 del Codice Penale sulla successione di
leggi nel tempo.
Infatti, nel caso che è stato trattato fin’ora, si è in presenza di una sentenza dichiarativa con efficacia
ex tunc.
Certamente, quindi, a seguito di questa sentenza, occorrerà richiedersi se anche in presenza di
cantieri caratterizzati da quelle condizioni previste dal vecchio comma 11 dell’art. 90 TUSL debba
procedersi alla nomina del coordinatore per la progettazione.
Ma per il passato, ovvero per il periodo intercorrente dall’entrata in vigore della Legge Comunitaria
del 7 luglio 2009 fino alla sentenza del 7 ottobre 2010, sembra arduo pretendere che il singolo
cittadino dovesse disporre comunque la nomina del coordinatore per la progettazione, non essendo
la stessa prevista dalla normativa nazionale.
Però questo caso, di iniziale “non previsione” della nomina del coordinatore cui segue la successiva
“previsione” della nomina, è un caso diverso da quello di cui si è occupata con due sentenze la
Corte di Cassazione (Cass. Sez. IV, 3.4.2003 n. 24010 e 25.10.2006 n. 2604). In queste ultime
pronunce, infatti, si è affrontata l’ipotesi in cui inizialmente sussisteva un obbligo in capo al
coordinatore ma poi l’obbligo è venuto meno.
In merito, ci si è chiesti se il sopravvenuto venir meno di un obbligo consentisse di scagionare da
responsabilità il coordinatore che non aveva osservato quell’obbligo al tempo della sua vigenza,
posto che tale obbligo era stato introdotto successivamente, per effetto di un intervento normativo.
La Cassazione, rispetto a questo problema, si pronuncia negativamente ed esclude sia la possibilità
dell’assoluzione del coordinatore sia quella del venir meno dell’obbligo, perché sostiene che gli
obblighi di cautela facenti capo al coordinatore non integrano il precetto della norma penale, non
integrano il contenuto di incriminazione della norma penale ma sono elementi normativi esterni
della fattispecie.
Quindi tali elementi non risultano soggetti alle regole che governano la successione delle leggi
penali nel tempo di cui all’art. 2 Codice Penale, ma sono sottoposti alle regole degli elementi
normativi della fattispecie o degli elementi naturali della fattispecie.
In questo caso la Cassazione opera ragionamenti analoghi a quelli svolti per vicende simili che si
sono verificate in altri settori dell’ordinamento penale, come quella del decreto n. 286/98 in materia
di immigrazione clandestina. Anche in quel caso, infatti, la Cassazione ha è escluso che venisse
meno il reato di mancato rispetto dell’ordine del Questore di lasciare il territorio nazionale da parte
del cittadino Rumeno o Bulgaro per il solo fatto che in epoca successiva alla commissione del fatto
si sia verificato l’ingresso nell’Unione Europea della Romania e della Bulgaria.
Nel caso al nostro esame, dunque, la Cassazione ha ritenuto che gli obblighi di cautela e di garanzia
facenti capo al coordinatore siano elementi normativi della fattispecie e che essi, non componendo
il precetto, non soggiacciono alle regole dell’art. 2 Codice Penale.
Cito la massima:” in tema di infortuni sul lavoro, poiché le norme che disciplinano gli obblighi dei
soggetti cui è affidato il compito di tutelare la salute dei lavoratori non hanno funzione integratrice
del precetto penale ma quella di individuazione delle persone sulle quali incombe il dovere di
osservare e far osservare le regole di cautela, la loro modificazione, nel senso di rimodulazione
degli obblighi di tutela, non ricade nella disciplina della successione delle leggi penali nel tempo e
non può quindi produrre come effetto quello di rendere legittima una condotta precedentemente
vietata in vista della responsabilità penale dell’imputato. Nella specie, il coordinatore per la
progettazione e per l’esecuzione dei lavori, a cui era stata contestata la violazione dell’obbligo di
assicurare l’osservanza del PSC, a norma del decreto 494/96, pretendeva, in relazione
all’infortunio occorso prima delle modifiche introdotte col decreto 528/99, che si applicasse l’art.5
di quest’ultimo, secondo il quale non è più previsto l’obbligo di assicurare ma solo quello di
verificare l’applicazione delle disposizioni impartite dagli appaltatori”.
AVV. ROLANDO DUBINI:
In relazione a quest’ultima sentenza, preciso che la Cassazione aveva anche detto che “assicurare”
equivale a “verificare”, cioè aveva stabilito l’equivalenza tra i due termini. Questo è il vero motivo
della decisione, per cui la Cassazione ha detto sostanzialmente che non è cambiato nulla, nonostante
la modifica legislativa, con riguardo agli obblighi del coordinatore.
Invece, volevo far riferimento alla questione dell’art. 90 co.11 TUSL.
La Direttiva 57/92 dice, nei considerando, che la progettazione è la causa di più della metà degli
infortuni mortali nei cantieri e che, quindi, avere il coordinatore per la progettazione durante la fase
in cui ancora si sta pensando a come fare il cantiere è fondamentale.
Il coordinatore per l’esecuzione è una cosa diversa rispetto al coordinatore per la progettazione. Il
coordinatore per l’esecuzione è una figura preposta al controllo puntuale, ma il coordinatore deve
esserci fin dalla fase della progettazione.
Non è una questione marginale ma essenziale.
Dobbiamo andare a vedere l’intenzione del legislatore e ricordarci l’art 12 delle preleggi, per cui
l’interpretazione non può essere solo letterale ma deve tenere conto dell’intenzione del legislatore.
Il legislatore comunitario ci comunica la sua intenzione nei considerando, i quali rappresentano una
parte di legislazione comunitaria che non viene mai recepita ma che va letta attentamente.
Tenete conto anche della logica del miglioramento continuo.
Noi, a livello nazionale, abbiamo quasi l’obbligo di avere leggi più restrittive, perché il Trattato
istitutivo della Comunità Europea dice che il recepimento più restrittivo è autorizzato ed anzi
auspicato. La direttiva 391 del 1989 ha come titolo il miglioramento della sicurezza e salute, quindi
siamo nella logica del miglioramento continuo.
Sulla presenza non contemporanea di imprese sottolineo che i rischi interferenziali ci sono, anche se
le imprese non agiscono in contemporanea.
Ho letto una recente sentenza della Cassazione dove la circostanza che un cantiere sia stato
concluso male e lasciato con residui di lavorazioni ha determinato il fatto che un operaio abbia
preso una fune trovata in cantiere e l’abbia usata per sollevare un carico, uccidendosi con questa
fune pericolosa.
Quindi noi le interferenze le abbiamo anche in caso di non contemporaneità del lavoro delle
imprese, perché il cantiere non pulito e non ordinato, con situazioni non regolate, diventa di per sé
un elemento del PSC e del POS. Come tale, la non contemporaneità è un elemento da considerare
ed è essenziale.
Altro punto è sul coordinatore per l’esecuzione, egli ha un potere impeditivo rilevante anche a sensi
dell’art. 40 del Codice Penale, perché l’ultima lettera dell’art. 92 TUSL gli dà il potere di impedire
il pericolo direttamente riscontrato.
Allora il coordinatore deve andare a riscontrare il pericolo, nonchè deve porsi il problema di come
mettersi nelle condizioni di riscontrare i pericoli. Se poi viene chiamato dal cantiere egli deve
andare a vedere immediatamente cosa succede.
Anche l’obbligo di segnalazione, secondo me, non è solo un obbligo di “alta vigilanza”.
E’ vero solo in parte che si tratti di un obbligo di vigilanza, ma la legge parla anche di segnalare le
inosservanze degli articoli 94, 95 e 96 TUSL riguardanti compiti operativi. Quindi il coordinatore
deve segnalare la violazione dell’allegato XV, ovvero deve farsi una chek list del cantiere per
controllare che gli artt. 94, 95 e 96, nonché l’allegato XIII siano costantemente rispettati e
mantenuti, altrimenti ne risponde per omessa segnalazione.
Il coordinatore deve fare due segnalazioni: la prima al committente o al responsabile dei lavori e, se
riceve una risposta motivata, non deve segnalare più nulla; mentre se non riceve osservazioni
adeguate procede alla seconda.
Il coordinatore, pertanto, non è che denuncia il suo committente ma deve avvertirlo che, quando non
adotta i provvedimenti, deve darne una motivazione logica, in modo che, se il committente dà una
motivazione logica, il coordinatore non è tenuto a segnalare nulla.
Salto poi i collegamenti con la responsabilità amministrativa ex decreto 231/01, perché le aziende
che gestiscono male i cantieri, i PSC, i POS o hanno coordinatori che non coordinano hanno poi dei
problemi legati anche alla responsabilità amministrative dell’impresa.
Un altro punto importante è quello dell’art. 97 TUSL, perché il decreto correttivo 106/09 sposta
l’attenzione sull’impresa affidataria, per cui abbiamo un bel dire che il coordinatore rimane il centro
di gravità. Certo se parliamo sempre del coordinatore, tutti penseranno che egli sia il centro di
gravità ma se invece andiamo a leggere l’art. 97 TUSL vediamo che l’impresa affidataria deve lei
stessa verificare la sicurezza in cantiere e controllare i POS di tutte le imprese a cui affida i lavori,
anzi deve avere un soggetto che si occupa della sicurezza, altrimenti non si possono affidare i lavori
all’impresa affidataria.
L’allegato XVII lo dice molto chiaramente: l’impresa affidataria, anche se non esegue i lavori, deve
avere un responsabile della sicurezza e se non ha questo responsabile violat l’art. 90 comma 9
TUSL (il quale prevede l’idoneità sia per le imprese affidatarie esecutrici, sia per quelle non
esecutrici, sia per il lavoratori autonomi).
Di fatto questo responsabile dell’impresa affidataria è un terzo coordiantore e questa è una novità di
cui si parla troppo poco. Ed oltretutto tale circostanza rappresenta un problema per il coordinatore,
perché se io sono un coordinatore per l’esecuzione e la mia impresa affidataria è attiva quando si
scelgono le altre imprese cambia tutto.
Poi riguardo al discorso dei lavoratori autonomi: a mio parere non deve farsi entrare in cantiere
nessun lavoratore autonomo che non sia inquadrato nel POS dell’impresa esecutrice. Lì deve
avvenire il coordinamento. Se c’è una sola impresa e 600 lavoratori autonomi, questi devono essere
tutti inquadrati nel POS dell’impresa, anche perché l’organo di vigilanza potrebbe ritenerli
dipendenti di fatto di qualcuno e, allora, per evitare questo problema, il committente o responsabile
imporrà che l’impresa affidataria che chiama i lavoratori autonomi li inserisca nel suo POS.
Concludo sul Fascicolo per la progettazione. Nel 2008 la Cassazione ha condannato un coordinatore
che non aveva elaborato il Fascicolo, ma aveva fatto un PSC fotocopia dei testi sacri che ci sono in
commercio. La Cassazione ha rimarcato la differenza tra PSC e Fascicolo, evidenziando che
quest’ultimo non è secondario, anzi è previsto dal diritto comunitario.
Sulla giurisprudenza oscillante non lo so, io ho letto la sentenza Montefibre che non è affatto
oscillante ma anzi è un esempio di giurisprudenza costante e solida. Addirittura, secondo me, noi
abbiamo una fortuna in materia di sicurezza, quella di avere una giurisprudenza meno oscillante
rispetto agli altri settori del diritto.
AVV. CAROZZI:
Voglio cogliere un’osservazione del collega Dubini.
Sentivo poco stamattina l’accenno all’art. 30 TUSL, alla responsabilità amministrative delle
imprese ad ai modelli di gestione che, se si vuole ben comprendere l’impostazione del TUSL, non
possono essere trascurati.
Il legislatore comunitario ha infatti usato una particolare grammatica che contiene la logica dei
sistemi di gestione.
Naturalmente, trasportare questi elementi in una legge vincolante crea delle difficoltà interpretative,
ma la logica a monte è sempre quella e se si entra in questa logica si capisce bene il gioco delle
responsabilità ed il processo che tiene in piedi l’intero percorso. Dopo di che risulta più agevole
andare a capire quali siano le effettive responsabilità nella fattispecie, proprio perché i ruoli sono
normalmente determinati di un modello organizzativo.
ING. MESSINA:
Mi vorrei allacciare al discorso dell’art. 90 comma 11. Per me è un errore concettuale trasferire ad
una fase esecutiva l’elaborazione del PSC, perché il PSC non è altro che un elaborato progettuale
che va integrato con la fase di progettazione.
Il che significa che quando il coordinatore predispone il PSC, potrebbe attuare anche delle scelte
progettuali incidenti sulla costruzione.
Se devo costruire un solaio, per esempio, posso costruirlo in opera o posso portare nel mio cantiere
un solaio prefabbricato. Questa è una scelta progettuale che incide sui rischi. Ma se io porto la fase
di progettazione nell’esecuzione, questa scelta non la posso più fare senza fere una variante.
Se è il coordinatore per l’esecuzione a proporre questo tipo di intervento ai fini dell’abbattimento
dei rischi, a questo punto interviene anche una modifica del prezzo. Anche perché il coordinatore
per l’esecuzione dovrà tenere conto dei costi della sicurezza e tali costi saranno diversi, perché in
fase di progettazione saranno stati esplicitati (nei lavori pubblici è un obbligo della stazione
appaltante esplicitare i costi della sicurezza in fase di gara).
Secondo me l’unica soluzione è quella di non tenere conto dell’art. 90 comma 11 TUSL.
In tal caso occorrerà chiedere la nomina del coordinatore per la progettazione contestualmente
all’incarico di progettazione.
In secondo luogo, con riferimento agli incarichi negli appalti pubblici, la norma prevede che se il
direttore dei lavori ha i requisiti per potere avere l’incarico di coordinatore per l’esecuzione deve
farlo lui; mentre questo non avviene in fase di progettazione.
Se la progettazione è integrale negli appalti pubblici è prevista la figura del Responsabile
dell’Integrazione Progettuale (RIP) ma per gli appalti medio piccoli, dove può esserci anche un solo
progettista, secondo me sarebbe opportuno che il progettista svolgesse anche il ruolo di
coordinatore per la progettazione.
Questo perché, come diceva l’architetto Borgazzi, succede che il coordinatore per la progettazione
non venga nemmeno interpellato e quindi le scelte progettuali e di sicurezza risultano
completamente separate da quello che poi andrà a fare il coordinatore per la progettazione.
Quindi il mio auspicio sarebbe quello di avere un progettista che svolga anche l’incarico di
coordinatore per la progettazione e quello di avere in fase esecutiva in direttore dei lavori separato
dal coordinatore per l’esecuzione. Questo perché, secondo me, le responsabilità e gli obiettivi del
direttore dei lavori sono completamente diversi da quelli del coordinatore per l’esecuzione.
ARCH. BORGAZZI:
In merito all’osservazione dell’Avv. Dubini, essa è valida con riguardo ai lavoratori autonomi da
subordinare al POS di un appaltatore principale, ovvero quando c’è un general contractor, ma in
caso di appalti splittati e diretti del committente tale soluzione non è possibile. Se il committente,
infatti, dà incarico ad un’impresa esecutrice e a 20 lavoratori autonomi direttamente, lui ne risponde
ma non risulta possibile inserirli in un POS, per quanto auspicabile.
Stiamo ponendo molta attenzione a questo articolo normativo che consente di non nominare il
coordinatore per la progettazione (art. 90 comma 11 TUSL), tuttavia io ritengo tale problema un po’
marginale.
In effetti, perché io committente non dovrei nominare un coordinatore per la progettazione?
Cosa ci si guadagna a non farlo?
Inoltre sottolineo che il coordinatore in fase di progettazione redige il PSC, i cui contenuti minimi
prevedono gli oneri della sicurezza, quindi se il coordinatore non viene nominato ed occorre
comunque stimare i costi della sicurezza, come posso stimarli senza aver firmato un contratto con
cui mi viene conferito l’incarico? In questo senso l’articolo è inapplicabile, oltre ad essere in totale
contrasto con la ratio della norma laddove questa prevede l’esistenza di un coordinatore per la
progettazione in senso logico.
In merito al caso dell’infortunio citato dall’Avv. Dubini io ho delle perplessità ma non è questa la
sede per parlarne. Ritengo comunque che in quel caso (in cui si è ritenuta la realizzazione del
rischio interferenziale) in realtà l’operaio abbia usato un’attrezzatura, lasciata da altri, che non
avrebbe dovuto utilizzare. Quindi secondo me non è un rischio interferenziale, o non qualificherei
in un mio PSC il divieto di usare una fune lasciata da altri come prevenzione di un rischio
interferenziale.
AVV. ODDO:
Volevo richiamare l’attenzione sul fatto che il confronto tra le opinioni è sempre interessantissimo
ma, in questo caso dura lex sed lex.
L’interpretazione della Direttiva comunitaria compete esclusivamente alla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea e, quindi, tutta la giurisprudenza comunitaria va considerata, mentre qualsiasi
altra interpretazione ed opinione esporrebbe purtroppo l’Italia alla terza condanna da parte della
Corte di Giustizia.
Sotto questo profilo l’art. 90 co.11 TUSL, sia nella formulazione precedente sia in quella attuale, è
sicuramente in contrasto con quanto prevede l’unico giudice che può interpretare la materia della
contrarietà o meno del diritto nazionale rispetto a quello comunitario.
Nel momento in cui si ammette che la Direttiva nega ogni possibilità di derogare all’obbligo di
nominare un coordinatore al momento della progettazione e prima dell’esecuzione dei lavori, vuol
dire che il legislatore comunitario si disinteressa di quanti siano i coordinatori; quello che al
legislatore comunitario interessa sono i ruoli, le funzioni, il momento e la temporalità.
Per cui se il legislatore nazionale, con la prima o la seconda formulazione, non rispetta la
temporalità funzionale, non rispetta non soltanto la Direttiva ma anche la ratio della stessa della
normativa e si allontana dall’obiettivo.
Per questo io mi limito a leggere il portato della Direttiva, augurandomi che il confronto tra le
opinioni non porti poi ad una serie di interpretazioni libere, interessanti, anche affascinanti ma
contrarie a quanto ritenuto dall’unico giudice che ha parola in materia.
ANDREA SALEMME:
In relazione all’art. 90 TUSL e quindi alle prescrizioni di cui al comma 3 della stessa norma, esse
“sono di fondamentale importanza e non sono adempimenti burocratici”.
Queste parole sono della Corte di Giustizia, riportate nella sentenza del 25 luglio 2008.
Lo Stato italiano, per sostenere le sue difese, aveva detto che l’introduzione di tutte queste
fattispecie costituirebbe un aggravamento burocratico inutile, in danno soprattutto alle piccole
imprese. La Corte risponde: “occorre rilevare che, come emerge dal Preambolo della Direttiva 57
del 199, lungi dal costituire una semplice formalità amministrativa, la designazione di un siffatto
coordinatore è necessaria per assicurare la salute e la sicurezza dei lavoratori in un settore che li
espone a rischi particolarmente elevati; deve pertanto essere considerata un obbligo fondamentale
alla luce dell’obiettivo perseguito da detta Direttiva di combattere l’aumento del numero di
infortuni sul lavoro nei cantieri temporanei o mobili”.
La seconda osservazione riguarda la circostanza che l’art. 90 TUSL fa riferimento a “più imprese
esecutrici”, mentre la Direttiva parla di “pluralità di imprese”.
Vi è una discrasia, sotto tale profilo, tra la disciplina interna e quella comunitaria, perché la
disciplina comunitaria vuole l’applicazione indefessa dell’art. 90 comma 3 TUSL a qualsiasi
impresa, mentre la disciplina italiana precisa che il carattere dell’impresa deve essere quello di
impresa esecutrice. Rimetto alla vostra riflessione questa discrasia.