ORTI DI PACE

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I testi del libro ORTI DI PACE - Il lavoro della terra come via educativa, uscito per le edizioni EMI di Bologna.Per ulteriori informazioni sulla rete Orti di Pace, consultare il sito http://www.ortidipace.org

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A cura di Gianfranco Zavalloni

ORTI DI PACEORTI DI PACE

Il lavoro della terra

come via educativa

EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA

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Disegno di copertina e illustrazioni di VITTORIO BELLI (http://www.studiobelliebaldaro.com)

Copertina di VALENTINA MONTEMEZZI

© 2010 EMI della Coop. SERMISVia di Corticella 179/4 – 40128 BolognaTel. 051/32.60.27 – Fax 051/[email protected]

N.A. 2748 ISBN 978-88-307-1972-9

Consapevole delle problematiche ecologiche che il ciclo di pro-duzione del libro comporta, la EMI è impegnata in un progres-sivo attenuamento dell’impatto ambientale delle sue edizioni. In particolare, l’Editrice utilizza carta proveniente da gestione sostenibile delle foreste e non contenente tracce di cloro elemen-tare.

RETE ORTI DI PACE

Segreteria: c/o Ecoistituto di CesenaVia Germazzo 189 - 47152 Cesena (FC)Tel./fax: 0547-323407www.tecnologieappropriate.itecoistituto@tecnologieappropriate.it

Sito uffi ciale: www.ortidipace.org

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INDICE

Presentazione ..................................................... Pag. 7

A scuola dai contadini di Gianfranco Zavalloni » 11L’orto scolastico come giardino del nostro tempo di Pia Pera ......................................... » 35L’orto tra la foresta e la vigna: ri/coltivare il selvaggio per la vita di Daniele Zavalloni .... » 41Una lunga storia di scuola, di bambini e di orti di Nadia Nicoletti ......................................... » 47Il giardino come spazio di apprendimento all’aperto di Alberto Rabitti .......................... » 57Obbedire alla paura? di Andrea Magnolini ...... » 65L’Orto in Condotta: l’esperienza di Slow Food di Annalisa D’Onorio ................................... » 75L’omaggio di Tonino Guerra: il manifesto dell’orto di Gigi Mattei Gentili ..................... » 81Suggerimenti per un piccolo orto biologico a scuola ........................................................ » 83Orti in rete. Siti internet dedicati a orti, giardini e dintorni a cura di Chiara Spadaro » 103

Gli autori ............................................................ » 109

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PRESENTAZIONE

Un tempo sono esistiti gli orti di guerra. Ora è giunto il momento di coltivare orti solo come esperienza di pace. In tante parti della terra ci sono persone che in pace colti-vano la terra. Abbiamo chiamato questo progetto e questa rete Orti di Pace: una libera associazione, un movimento di persone libere, che hanno a cuore orti e giardini di in-teresse pubblico.

La Rete Orti di Pace offre la possibilità di condividere le conoscenze sulla creazione di orti-giardini e gli sforzi per promuovere questa attività. È rivolta a tutti coloro che desiderano interessarsi alla cura di un orto.

Siamo partiti dagli orti didattici: un’iniziativa nata per stimolare la consapevolezza ecologica. Gli orti degli sco-lari sono un modo spontaneo, nella più completa libertà interiore, per fare più che per discettare, prendendo come maestra la stessa natura. Nell’orto scolastico gli studenti uniscono «teoria e pratica», cioè il pensare e il ragionare con il progettare e il fare. In un orto impariamo i modi, i momenti adatti per seminare. Gli orti e giardini nelle scuole contribuiscono a trasformare la scuola in qualcosa di vivo di cui prenderci cura. In questi anni, usando una sola frase, possiamo dire: abbiamo lanciato i semi.

Poi abbiamo riproposto la semplice esperienza degli orti, ma anche quella dei giardini: in defi nitiva orti come cuore dei giardini.

Le cose che vogliamo e possiamo fare sono tante: orti e giardini didattici nelle scuole, orti terapeutici dove colti-vare la pace interiore, orti per chiunque desideri coltivare

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fi ori e ortaggi in uno spazio pubblico pur non possedendo terra.

L’orto e il giardino in senso lato, quindi, come un luogo ideale per intrecciare tutta una serie di scambi con la na-tura, l’ambiente e la comunità.

Come far sì che si possano creare orti e giardini? Con-tiamo sull’esperienza di chi lo ha fatto da sempre: i conta-dini, gli agricoltori, gli ortolani. Ma vogliamo continuare a coinvolgere insegnanti, dirigenti scolastici, giardinieri e paesaggisti capaci di dare una mano nella progettazione di un orto-giardino dove muovere i primi passi, emanciparsi dall’analfabetismo di chi non sa nulla di come cresce il cibo di cui ci nutriamo.

Se poi orti e giardini saranno pure «ecologici», tanto meglio. Magari ispirati alla permacoltura, all’agricoltura sinergica, a quella biologica o biodinamica; in una parola, a qualsiasi forma di agricoltura che non danneggi il suolo, ma contribuisca anzi a svilupparne la fertilità.

Impareremo a coltivare il cibo, a conoscere i cicli del-le piante e delle stagioni, a vivere senza produrre rifi uti; l’orto si troverà dentro un giardino che farà da fascia di protezione, ma sarà concepito anche come luogo di bel-lezza, un’esperienza adatta a sviluppare il senso del bello, dell’armonia, della pace.

Quando coltiviamo un orto impariamo anche a rallen-tare: è quindi sempre un’esperienza che ci educa. Quando seminiamo e coltiviamo frutta e ortaggi mettiamo a frut-to le abilità manuali, le conoscenze scientifi che, lo svilup-po del pensiero logico-interdipendente. I tempi dell’orto ci educano all’attesa, alla pazienza di veder germinare il seme, maturare la pianta, produrre il frutto, riprodurre semi fertili. Ci piace pensare a orti dove sono coinvolti i bambini su cui vegliamo noi grandi (magari le nonne o i nonni) e insieme ci prendiamo cura delle piante. Insieme poi raccogliamo i frutti e i semi.

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Lavorare con la terra aiuta i bambini, i ragazzi e noi adulti a rifl ettere sulle storie familiari, sulla vita delle co-munità locali. Nella maggior parte delle famiglie c’è sicu-ramente un papà, un nonno o un bisnonno che ha o che ha avuto a che fare con la coltivazione della terra.

L’orto è un’esperienza di incontro fra popoli di tradi-zioni e culture diverse. Popoli dell’Est Europa, popoli che si affacciano sul Mediterraneo, popoli del Sud e dell’Ovest del mondo: facciamo tutti parte di mondi ricchi di fami-glie che lavorano la terra. Coltivare un orto può diventare oggi un’eccellente esperienza di educazione alla multicul-turalità.

Quando coltiviamo un orto entriamo a far parte di un modello economico basato sulla «stabilità» e non sulla crescita infi nita o sulla rapina delle risorse fi nite. Consu-miamo ciò che la natura ci offre in maniera ciclica.

Coltivare un orto è una piccola azione di pace, che ci educa a immaginare una società che non sia solo per noi, ma che duri nel tempo.

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A SCUOLA DAI CONTADINI

di Gianfranco Zavalloni

Una poesia scritta alcuni anni fa, in lingua romagnola, dall’amico Fabio Molari (poeta, maestro di scuola prima-ria e ora sindaco del più piccolo comune dell’Emilia-Ro-magna) così recitava:

FURMAI Blà… blà... blà...tè t’scorr, t’scorr, t’scorr...te fat al scoli grandi t’ lavour se compiutert’se ben l’ingloes t’ ci stae in America...Mo t’ci bon ad fae un furmai!?

FORMAGGIO

Bla... bla... bla...tu parli, parli, parli...hai fatto le scuole grandilavori col computerconosci bene l’inglesesei stato in America...Ma sei capace di fare un formaggio!?

Ecco il senso del libro che andiamo ad aprire con que-sta pagina: la scuola dovrebbe avere un rapporto stretto con la terra. La terra è una grande maestra. Ci insegna ad avere pazienza, a rispettare ritmi naturali. È poesia, arte, scienza.

La terra ci obbliga a confrontarci con gli altri. È biodi-versità ecologica, culturale e sociale. E quando penso alla scuola penso al grande insegnamento dei contadini, senza i quali non esisteremmo. Coltivare la terra è il mestiere più importante per l’umanità, eppure è stato considerato da sempre il più infi mo.

Ancor oggi vengono usate parole che nel gergo comune vogliono dire disprezzo, inferiorità, ignoranza. Pensiamo a termini come contadino, villano, paesano, montanaro, bi-folco.

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È un problema di carattere storico-culturale dell’intero pianeta. In Brasile, ad esempio, si usano parole che poi sono entrate nel linguaggio comune come termini dispre-giativi: caipira, jeca, botavermelha. In italiano vogliono dire «campagnolo», «ritardato», «stivali rossi» alludendo al fat-to che un contadino ha sempre le scarpe sporche di terra (in Brasile prevalentemente rossa). Jecatutù nel linguaggio comune oggi signifi ca una persona che arriva in città dalla campagna e non può fare nulla.

Nella mia esperienza da dirigente scolastico, quando entro in una classe – magari di campagna – e chiedo a tutti gli studenti che sono «fi gli di contadini» di alzare la mano, conto generalmente pochissime mani alzate. Dopo aver spiegato loro la fondamentale importanza del mondo agri-colo e della grande opportunità che hanno avuto nell’es-sere fi gli di contadini (come lo sono io), ecco che le mani alzate crescono. Fra gli argomenti a favore di ciò metto in evidenza le innumerevoli opportunità che loro hanno e che chi vive in città non ha. C’è anche chi all’ultimo mi-nuto si aggiunge con la mano alzata dicendo di avere il nonno o lo zio contadino. In sintesi: ci si vergogna di esse-re fi gli di contadini, di venire dalla terra. Essere contadini equivale – nel comune modo di pensare – ad essere igno-ranti, a un lavoro squalifi cante, a una posizione sociale di basso livello. Alcuni anni fa, ai primi di settembre, durante un incontro fra dirigenti scolastici, un collega, parlando di docenti della scuola secondaria, usò l’espressione «braccia rubate all’agricoltura». Profondamente indignato da que-sta espressione manifestai ad alta voce il mio totale dissen-so… spiegando che questo pregiudizio siamo noi operato-ri del mondo della scuola a perpetuarlo. A ben rifl ettere il mestiere dei campi, dell’agricoltore, del coltivatore, è uno dei mestieri più diffi cili al mondo, che richiede grandi abi-lità, esperienze e competenze multiple. E la scuola può e dovrebbe imparare dal mondo degli agricoltori.

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Per il diritto alla contadinanza

Da anni è pratica usare il concetto di «cittadinanza at-tiva». È tempo che iniziamo a usare anche quello di «con-tadinanza attiva». Dal Vocabolario della lingua italiana di Devoto-Oli leggo la defi nizione del sostantivo femminile cittadinanza: «Vincolo di appartenenza a uno stato, richie-sto e documentato per il godimento di diritti e l’assogget-tamento a particolari oneri». A livello culturale, a partire dalla Rivoluzione francese, la parola cittadino è diventata sinonimo di «persona con pari e pieni diritti». Cittadinan-za attiva è oggi sinonimo di un coinvolgimento nella vita della propria comunità di appartenenza, assumendo in questa un ruolo di responsabilità e facendo scelte di con-divisione.

Nel vocabolario non esiste invece il termine contadi-nanza e quindi nessuno ha mai parlato di «contadinanza attiva». Esiste chiaramente il sostantivo maschile contadi-no, che sta per «chi lavora la terra, specifi catamente per conto di un padrone. In termini spregiativi: persona rozza e goffa». Dobbiamo rovesciare questo clima culturale che, ancora oggi, è presente nel mondo scolastico. Essere abi-tanti o lavoratori della terra non è qualcosa di spregevo-le. Siamo tutti «contadini di questa terra» e abbiamo tutti «diritto alla contadinanza». Un vero capolavoro letterario, in questo senso, è sicuramente la pagina che i ragazzi della Scuola di Barbiana dedicano, in Lettera a una professores-sa, alla «cultura contadina».

Sui monti non ci possiamo stare. Nei campi siamo troppi. Tutti gli economisti sono d’accordo su questo punto. E se anche non fossero? Si metta nei panni dei nostri genitori. Lei non permetterebbe che suo fi glio restasse tagliato fuori. Dunque ci dovete accogliere. Ma non come cittadini di se-conda buoni solo per manovale. Ogni popolo ha la sua cul-

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tura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri. Se si sfoglia un sussidiario è tutto piante, animali, stagioni. Sembra che pos-sa scriverlo soltanto un contadino. Invece gli autori escono dalla vostra scuola. Basta guardare le fi gure: contadini man-cini, vanghe tonde, zappe a uncinetto, fabbri con gli arnesi dei Romani, ciliegi con le foglie di susini. La mia maestra di prima elementare mi disse: – Monta su quell’albero e cogli-mi due ciliegie –. Quando lo seppe la mia mamma disse: – O chi le ha dato la patente?–. Avete dato l’abilitazione a lei e la negate a me che d’albero non gliel’ho mai dato a nessuno in vita mia. Li conosco per nome uno a uno. Conosco anche i sormenti. Li ho potati, li ho raccolti, ci ho cotto il pane. Lei su un compito m’ha segnato sormenti come errore. Sostiene che si dice sarmenti perché lo dicevano i latini. Poi di nasco-sto va a cercare sul vocabolario cosa sono.Anche sugli uomini ne sapete meno di noi. L’ascensore è una macchina per ignorare i coinquilini. L’automobile per igno-rare la gente che va in tram. Il telefono per non vedere in fac-cia e non entrare in casa. Forse lei no, ma i suoi ragazzi che sanno Cicerone di quanti vivi conoscono la famiglia da vici-no? Di quanti sono entrati in cucina? A quanti hanno fatto nottata? Di quanti hanno portato in spalla i morti? Su quanti possono far conto in caso di bisogno? Se non ci fosse stata l’alluvione non saprebbero ancora quanti sono nella famiglia al piano terreno. Io con quei compagni sono stato a scuola un anno e della loro casa non so nulla. Eppure non si cheta-no mai. Spesso sovrappongono le voci e seguitano a parlare come se niente fosse. Tanto ognuno ascolta solo sé stesso. A lei le rombano sotto le fi nestre mille motori al giorno. Non sa chi sono né dove vanno. Io so leggere i suoni di questa valle per chilometri intorno. Questo motore lontano è Nevio, che va alla stazione un po’ in ritardo. Vuole che le dica tutto su centinaia di creature, decine di famiglie, parentele, legami? Lei se parla con un operaio sbaglia tutto: le parole, il tono, gli scherzi. Io so cosa pensa un montanaro quando sta zitto e so la cosa che pensa mentre ne dice un’altra.

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Questa è la cultura che avrebbero voluto avere i poeti che lei ama. Nove decimi del mondo l’hanno e nessuno è riuscito a scriverla, dipingerla, fi lmarla. Siate umili almeno. La vostra cultura ha lacune grandi come le nostre. Forse più grandi. Certo più dannose per un maestro elementare» (Lettera a una professoressa, Lef, Firenze).

Fare un orto a scuola vuol dire andare in controtenden-za rispetto a tutto questo. Vuol dire imparare che il cibo è la più importante risorsa dell’umanità e saperla produrre da soli è un gesto di grande valore. E l’orto lo possono fare tutti, non ha bisogno di grandi risorse economiche. L’orto può essere l’aggancio per un sacco di attività didat-tiche, per sviluppare tanti aspetti delle discipline classiche della scuola: la letteratura, la storia, la geografi a, l’arte, la matematica, la scienza, la religione, le lingue straniere e persino la musica. Ed essendo anche uno strumento che avvicina le diverse culture, possiamo a ragione defi nirlo «orto di pace». Quindi per me è scontato parlare sia di «orti di pace» che di «diritto alla contadinanza» o di «con-tadinanza attiva». Mi rendo conto che queste sono ormai considerazioni che do per acquisite in maniera scontata, forse proprio perché in questo mondo ci sono cresciuto e ci vivo da sempre. Su questo argomento, credo, infi ne, che sia giunto il tempo di cominciare a pensare alla «contadi-nanza onoraria». Un titolo da assegnare a chi si impegna in difesa della campagna, della montagna e di tutte le at-tività legate alla terra. Un gesto, una forma di riconosci-mento simbolico per chi si impegna concretamente e vede nella terra la vera fonte della vita.

Perché senza i frutti della terra l’umanità non potrebbe esistere.

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Un itinerario personale: iniziare da piccoli

Non so quale possa essere stata la vita di un bambino, mio coetaneo, di città. Un bambino di città nasce, vive e cresce in un appartamento. Il signifi cato – fra l’altro – di appartamento è proprio quello di «appartarsi», «isolarsi». Credo che in città, fi no a qualche decina di anni fa, abbiano giocato un ruolo predominante la strada, il marciapiede, la piazza, i portici, i giardini. La mia è stata invece la vita di un bambino di campagna. Ho vissuto la maggior par-te della mia vita in campagna. Solo in questi ultimi anni, per lavoro, mi sono trasferito a Belo Horizonte, in Brasile, e vivo al quindicesimo piano di un grattacielo. Con mia moglie Stefania abbiamo lo stesso rinverdito con fi ori, ver-dure, piante offi cinale e da frutto, il grande terrazzo che si affaccia sul centro della città. E comunque posso vera-mente dire che sono nato in campagna: ora si va a nascere all’ospedale. Allora veniva la levatrice e le donne vicine di casa facevano da infermiere. Così è successo quando ho visto nascere, sempre a casa dei miei genitori, anche mio fratello Raffaele. Non sono esperienze da poco. È soprat-tutto un buon inizio. E prima di noi ci sono stati i nostri genitori, e prima dei nostri genitori c’erano i nonni... e così via. Una catena, o meglio, un «ciclo».

Devo ammetterlo: ho trascorso un’infanzia felice. Pas-sata soprattutto attorno alla mia casa. Ho giocato fi n da piccolo con la terra e l’acqua. Non è di tutti i bambini po-tersi sporcare in mezzo ai canaletti d’acqua che portano da bere, in luglio, ai peschi o ai fagiolini rampicanti. O avere un «bancone» con gli attrezzi da falegname con cui potersi costruire i giocattoli di legno. È così che questi attrezzi, questi strumenti dei grandi, si trasformano – per noi bam-bini – in macchine miracolose che trasformano la nostra vita. Ci è stata in sostanza offerta la possibilità di farci da soli i nostri giochi, di gestirci il nostro tempo. Forse è pro-

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prio per questo che ho voluto attrezzare la sezione della scuola materna in cui ho lavorato per sedici anni con un banco da falegname «vero», con seghe, chiodi, martelli, raspe, pialle «veri».

Non so quanti di noi abbiano provato l’esperienza di andare per i campi, sotto enormi meleti, durante una nevi-cata invernale o scorrazzare per la campagna con gli amici dopo un furibondo acquazzone, che trasforma tutti i cam-pi in un’enorme palude. Per noi, bambini di campagna, le strade, le piazze, i giardini, i portici, sono stati i campi coltivati e le aree incolte, i fossi, i fi lari d’uva, il fi ume, il ca-nale. Non passava giorno in cui non si inventasse una nuo-va avventura. Il luogo ideale in cui rifugiarsi era e capanín (il capannino), costruito con legni, bastoni e juta. C’è un rapporto quotidiano, in questo stile di vita, con la terra, l’erba, l’acqua, i sassi, i frutti, gli animali della casa. È un rapporto carico di odori e di sapori. Ogni volta che sento gli odori e i sapori di queste esperienze, la memoria mi ri-porta a quegli anni. Sono gli odori, i sapori e i suoni di cui era carico il momento in cui, in estate, dopo il tramonto, si tornava a casa dai campi e ci si lavava il collo, la faccia e i piedi, con l’acqua scaldata nelle bacinelle messe al sole nell’aia. Allora non c’erano i pannelli solari, ma funziona-va lo stesso. Sono i sapori che emana la pelle frizionata dall’acqua e dal pezzo di sapone da bucato che si usava per questo vero e proprio rito. E poi il canto notturno dei grilli che pian piano sopravanza su quello giornaliero delle ci-cale e delle upupe, mentre le rondini in concerto cacciano gli insetti che nella sera sono attratti dal calore dei muri, accumulato durante il giorno. E il passaggio dal giorno alla notte era determinato dalla scomparsa delle rondini e dall’arrivo dei pipistrelli.

Sono solo frammenti di un mondo che quotidianamen-te, nella sua apparente immobilità (agli occhi del cittadi-no), vive una miriade di esperienze. Ho visto mio padre

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(con l’aiuto di mia madre e dei miei zii) costruirsi da solo intere serre, smontare e rimontare la zappatrice, tirar su un enorme capannone, costruire per impianto di riscaldamen-to una stufa che potesse bruciare segatura, trucioli, semi di pesco e fascine di legna. E insieme ai vicini ho visto i miei genitori ripulire il canale pieno di «malta» per permettere a tutti i contadini della zona di irrigare i campi.

Non è retorica dire che fra la gente di campagna c’era (e forse ancora oggi in parte c’è) solidarietà, mutuo appog-gio. Forse è la stessa struttura della famiglia che predispo-ne a questo, oppure la struttura del podere o della casa. In casa, il camino della cucina non è qualcosa di cui far mostra: è il punto centrale, insieme alla stufa (la cucina economica). Nel camino si possono far la piadina, cuo-cere le castagne o fare grigliate usando sempre le fascine fatte dei residui delle potature degli alberi da frutta. Con la cucina economica si scalda l’ambiente, ma si può anche cuocere sulla piastra e nel forno, si possono tenere al cal-do le scarpe o i calzetti, si riscalda l’acqua ma si possono anche asciugare i panni, si prende il carbone per lo scalda-letto e si usa la cenere come concime. Quando si mangia, niente fi nisce nella spazzatura. Gli avanzi dei piatti (bucce, ossa...) fi niscono nella scodella del cane o dei gatti, oppu-re nel letame insieme ai residui solidi degli animali (polli, conigli, maiali, pecore, mucche...). Gli scoli dei lavandini o dei bagni confl uiscono (insieme ai liquami degli animali) nella fossa biologica. Dal letame e dalla fossa biologica ne uscirà fuori l’humus per l’anno dopo.

Nel momento in cui mi sono posto scientifi camente, e non solo emotivamente, di fronte a queste tematiche, ho scoperto a quali leggi sottostà la vita della campagna, dei contadini e dell’agricoltura. La caratteristica principale che balza immediatamente agli occhi, nella vita e nel lavoro di campagna, è la «ciclicità». Ogni tipo di lavorazione, ogni processo di coltivazione ha un inizio legato a una fi ne, e

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una fi ne che si congiunge con un nuovo inizio. E tutto que-sto con un rendimento energetico massimo e dal minimo spreco. Anzi, direi col recupero, o meglio il «riciclo», di ciò che in apparenza è considerato «scarto». Non esiste infatti in campagna il concetto di «rifi uto», che si parli dei «vec-chi» della famiglia, o che si parli della «merda» dell’uomo e/o degli animali. Ogni cosa, ogni essere ha in sé un valore – al di là del fatto che si possa vendere o meno – per quello che è stato, per quello che è e per quello che sarà.

Dal mondo contadino ai contadini del mondoDalla terra madre alla scuola materna

Un momento importante della mia esperienza con la terra è stata la mia permanenza di cinque mesi sulle Ande del Perù. Avevo ventiquattro anni. L’occasione me l’ha data una famiglia di amici che in quel periodo lavorava in un progetto di volontariato internazionale, con una Ong ita-liana, nei pressi del lago Titicaca, al confi ne con la Bolivia. La scusa: raccogliere i materiali per la mia tesi di laurea in Pianifi cazione territoriale presso la Facoltà di Economia e commercio. L’idea, progettata con il mio professore Carlo Doglio, era quella di confrontare le tecnologie (cioè tut-te quelle soluzioni ai bisogni fondamentali dell’uomo) del mondo contadino romagnolo con quello andino. Incontri quotidiani con chi lavora la terra, vivere di poche risorse, cercare le strategie più effi caci per conservare cibo là dove energia elettrica e quindi frigoriferi non erano ancora arri-vati. È lì che ho capito come esista un fi lo comune che uni-sce tutti i contadini della terra: quello che oggi, a trent’an-ni di distanza, è ben espresso dal lavoro di Carlo Petrini e dall’idea di Terra Madre. I contadini indigeni quechua della Cordigliera andina la chiamano Pacha Mama. E «ter-ra madre» ha qualcosa in comune con «scuola materna»,

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la scuola dove ho lavorato per sedici anni. Sono entrato di ruolo nel settembre del 1980 e già quell’anno cercai di se-minare qualche ortaggio sotto un pergolato d’uva dell’orto abbandonato, di fi anco al cortile della scuola. Ma l’orto vero e proprio, con i bambini, l’ho realizzato per alcuni anni, dal 1988, nella scuola di Sorrivoli, un piccolo pae-se di collina che fa parte del comune di Roncofreddo, in provincia di Forlì-Cesena, dove poi sono anche andato a vivere. Quella esperienza ha permesso una ricucitura fra le mie origini familiari e il lavoro che avevo intrapreso come professione. Essere fi glio di orticoltori, di contadini, prima ancora che maestro, e aver vissuto la quasi totalità della mia vita in campagna mi aveva (senza che io me ne accor-gessi) letteralmente formato, lasciando in me tracce pro-fonde. Posso dire di aver maturato, fi n dalla mia infanzia, un modello di pedagogia contadina, cioè quella di «lavo-rare sul campo». La mia provenienza e le mie origini con-tadine si sono allora sposate con la mia pratica di lavoro quotidiano con bambini dai tre ai sei anni. In quella prima esperienza ho capito quanto valore poteva avere questo tipo di proposta didattica, che, di fatto, era anche parte del mio vissuto e del mio ambiente di vita. I disegni dell’amico Vittorio Belli che usiamo per commentare questo libro nel capitolo Suggerimenti per un piccolo orto biologico a scuola (pag. 83) sono tratti da foto di quell’esperienza.

Eravamo a metà degli anni Ottanta, in un periodo in cui non si usava ancora l’espressione «campi di esperienza» e i Nuovi orientamenti della scuola d’infanzia sembravano una meta lontana. In quegli anni pochi si azzardavano a proporre in maniera forte il tema dell’ecologia e dell’edu-cazione all’ambiente. Negli organi dirigenti della scuola e fra i colleghi c’era un certo scetticismo. Noi eravamo fra quelli che azzardavano in maniera puntigliosa e cercavano di esplorare – pur con grande fatica – sentieri nuovi. C’era in noi la consapevolezza e la prospettiva di tipo ecologico

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per cui la scuola è veramente tale solo se riconosce i propri limiti intrinseci e per questo apre all’esterno, all’ambiente a cui è riferita e di cui è parte. Apertura all’ambiente in un duplice signifi cato:

1. Ambiente naturale negli aspetti «selvaggi» e/o «colti-vati», modifi cati dall’uomo.

2. Ambiente sociale, cioè la gente che qui è vissuta, vive in comunità, e si relaziona reciprocamente accogliendo chi viene da fuori.

Quindi ambiente naturale e ambiente sociale: in una unica accezione, territorio. Tutto questo è avvenuto a Sorrivoli, un piccolo borgo di origine romana sviluppa-tosi in epoca medioevale. Un antico castello malatestiano domina dall’alto il paese e le vallate circostanti. Geografi -camente è posto sulle prime colline romagnole, a ridosso della Via Emilia con un’ampia veduta su tutta la riviera. Il nome, Sorrivoli, fa istintivamente pensare all’espressione «sui rivoli», a conferma del fatto che dai pendii della zona partono tantissimi fossi o rivoli. Questo è dovuto soprat-tutto alla ricca vegetazione che ancora esiste e permette così il trattenimento di masse di acqua che sono restituite lentamente nel corso dell’anno, riversandosi in questi ri-voli. Qualcuno invece pensa a Sorrivoli come «sorridoli», cioè un nome che ricorda l’importanza del ridere. L’atti-vità prevalente della zona è l’agricoltura, la coltivazione dell’uva. Tanti sono i boschi. La «scuola materna statale» era – insieme alla parrocchia – l’unica istituzione sociale (e in questo caso pubblica) presente sul territorio. Le fami-glie sono sparse su un ampio territorio e spesso abitano in località isolate. In questo contesto noi insegnanti abbiamo sempre operato per far sì che la scuola offrisse innume-revoli occasioni di contatto con l’esterno, prima di tutto con le famiglie di contadini da cui provenivano i bambini e le bambine della scuola. Un solo ricordo emblematico di quegli anni. Uno dei bambini che frequentava la scuo-

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la, uno dei più entusiasti – oggi trentenne – ha ereditato dai genitori la terra e ha trasformato il suo podere in una «fattoria didattica», una vera e propria «aula di ecologia all’aperto». La madre mi diceva preoccupata, alcuni anni fa: «È andato alle superiori, ma vuole fare il contadino!». E io, invece di condividere le sue preoccupazioni, le sugge-rii di condividere quella scelta. Oggi quel bimbo, di nome Werther, è una persona felice e appagata.

Le motivazioni pedagogiche e storiche degli orti nelle scuole

Alcuni anni fa mi è capitato, quando dirigevo tre scuo-

le medie, che un ragazzino di terza, nel periodo in cui si sceglie in quale scuola superiore proseguire gli studi, sia venuto nel mio uffi cio e mi abbia chiesto: «Preside, io da grande voglio fare il giardiniere: a quale scuola devo iscrivermi?». Ecco una triste constatazione: non esistono oggi, praticamente, in Italia, quella che era l’orto-giardino d’Europa, «scuole per diventare contadini». Luoghi cioè in cui si insegna l’italiano, la storia e la cultura italiana e nel contempo si impara a coltivare un frutteto, un orto, a condurre un’azienda agricola. Esistono corsi professiona-li, ma non è una vera e propria scuola. Esistono gli istituti tecnici agrari… ma questi preparano tecnici, non coloro che mettono le mani nella terra.

Eppure lo abbiamo constatato in questi anni: per i ra-gazzi è importantissimo fare esperienze pratiche e non solo teoriche: uscire dall’aula e «fare» concretamente, in maniera pratica. Qualsiasi esperienza si faccia a scuola con gli studenti è legata a tutte le altre. Noi possiamo spez-zare anche in 30, 40, 50 tessere il mosaico della scuola, la settimana, il mese, l’anno, però dobbiamo ricordarci che tutto è collegato. È un po’ come la legge che ci dice che in

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natura tutto è collegato! Lo stesso avviene nell’educazione: non c’è nell’educazione qualcosa che non sia collegata a un’altra.

Ma proviamo a contestualizzare la realtà scolastica ita-liana. Oggi la scuola è sempre più scuola di città. C’è sta-to in questi ultimi vent’anni un processo di chiusura delle scuole nelle realtà periferiche, nelle campagne, nelle mon-tagne e colline. Il cosiddetto processo di razionalizzazione ha portato all’urbanizzazione della scuola. È un processo che è stato ancor più eclatante negli anni Cinquanta quan-do dalla campagna, dalla montagna, la gente se n’è anda-ta. In Romagna, ad esempio, abbiamo avuto il boom nella riviera e tutte le nostre colline si sono spopolate: comuni come quello di Sogliano, dove ho lavorato per tanti anni come maestro e dove oggi sono titolare come dirigente sco-lastico, è passato nell’arco di pochi anni da 10.000 a circa 2.500 abitanti. È un processo di impoverimento di realtà che sono state per centinaia di anni la struttura dell’Italia. Pedagogicamente parlando, ora ci sono bambini che pro-vengono da quelle realtà ma non le conoscono. Il contesto in cui il mondo scolastico si trova a operare è un contesto urbano, dove i bambini vivono sempre meno l’esperienza di contatto non solo con l’ambiente naturale ma anche con il mondo della produzione da cui vengono il pane, il cibo e tutto ciò di cui ogni giorno abbiamo bisogno. Nelle no-stre scuole, inoltre, perdiamo quotidianamente occasioni per creare questo legame. Due falsi miti imperano: l’igiene e il risparmio. Nelle scuole sta venendo meno l’esperien-za della mensa e della cucina. E là dove ancora esiste la mensa, la tendenza è quella del cibo già precotto. E poi si centralizzano i luoghi preposti alla cottura dei cibi. Il pasto è così trasportato a scuola e consumato in vaschette di plastica o di alluminio. Un’operazione ecologicamente molto poco corretta, visto che si producono grandi quanti-tà di rifi uti e nello stesso tempo diseduchiamo gli studenti

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all’apprendere la provenienza del cibo quotidiano. Questo spesso accade anche in famiglia: è tanto il cibo che com-priamo e tanto poco quello che prepariamo nella cucina di casa. Il mito è quello di «non perdere tempo». Ecco dove si inserisce la nostra proposta: oggi che tutto è di fretta, col-tivare un orto a scuola signifi ca imparare a «rallentare». È un’esperienza estremamente educativa. Seminare e colti-vare frutta e ortaggi sono attività che mettono a frutto le abilità manuali, le conoscenze scientifi che, lo sviluppo del pensiero logico-interdipendente. Ma signifi ca soprattutto attenzione ai tempi dell’attesa, pazienza, maturazione di capacità previsionali. Lavorare con la terra aiuta i ragazzi a rifl ettere sulle proprie storie locali e familiari. La mag-gior parte degli studenti italiani ha sicuramente un papà, un nonno o un bisnonno che ha o che ha avuto a che fare con la coltivazione della terra. Nell’orto i ragazzi uniscono «teoria e pratica», cioè il pensare, il ragionare con il pro-gettare e il fare. In un orto s’imparano i modi e i momenti adatti per seminare. Prima di far questo si deve preparare e concimare il terreno. È necessario poi seguire con cura i prodotti, attendendo ai bisogni d’acqua e al controllo dei parassiti. Si possono conoscere, infi ne, le combinazioni e le rotazioni giuste fra le varie piante. Lo ripeto: il mestiere dei campi, quello dell’agricoltore, del coltivatore, è uno dei mestieri più diffi cili al mondo, che richiede grandi abilità, esperienze e competenze multiple. Ed è anche per questo un mestiere «maestro», che può insegnare.

Da esperienza singola alla rete di scuole con un orto nel cortile

Nel 2000, come dirigente scolastico, lavorando nelle

scuole delle Marche, ho partecipato, con l’istituto che di-rigevo, al progetto promosso dall’assessorato all’Agricoltu-

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ra della regione: «Un orto biologico a scuola». La regione Marche iniziò da quell’anno a fi nanziare la nascita degli orti nelle scuole: fu un successo. È nata così spontanea-mente una realtà di un centinaio di scuole che dedicava-no parte del loro tempo scolastico ai lavori dei campi. Ho cercato di capire, da quel momento, cosa si faceva nelle altre regioni d’Italia e nel mondo. E poiché dell’esperienza di «orto biologico a scuola» ne avevo parlato nel mio libro La scuola ecologica, ogni tanto venivo contattato da scuole che avevano messo in campo questa esperienza didattica. Senza volerlo e senza saperlo sono diventato in Italia un punto di riferimento. Visto che da un po’ di anni rivesto la funzione di dirigente scolastico, spesso i docenti che vo-gliono fare un orto a scuola mi cercano per avere un soste-gno nei confronti dei genitori, dei colleghi o dei superiori.

Sono stato in questi anni in giro per l’Italia, per l’Euro-pa e ho visto esperienze oltreoceano. Una delle esperienze più belle è sicuramente quella olandese. Ne avevo sentito parlare in un convegno sugli orti scolastici nella regione Marche, all’abbazia di Fiastra. Sono così andato personal-mente a conoscerli. L’origine degli orti scolastici olandesi risale agli anni Venti, dopo la prima guerra mondiale. Rea-lizzare orti in città era, in particolare per la municipalità di Amsterdam, l’occasione per migliorare la qualità del cibo delle famiglie olandesi. All’inizio si trattava di doposcuola. Poi le attività sono entrate a far parte dell’orario e dei pro-grammi scolastici e così dal 1930 l’attività degli orti è parte integrante del programma delle scuole di base. Oggi nella sola capitale olandese ci sono dodici aree in cui vengono coltivati centinaia di orti individuali. Ogni area è di circa 4.000-6.000 metri quadrati. Sono aree collocate all’inter-no della città e spesso si trovano presso parchi cittadini dove è possibile trovare percorsi naturali, sentieri, giardini per le farfalle, alveari, serre o vivai. In ogni area ci sono una o più aule e una residenza uffi ciale per gli educatori.

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Spesso c’è anche una stalla, un laboratorio per gli attrezzi da lavoro e una serra. I docenti, da un minimo di uno a un massimo di tre per area-orti, si interessano delle lezio-ni settimanali dei bambini. In totale ci sono più di ven-ti maestri che si occupano degli orti didattici. Poi c’è un tecnico-guardiano per ogni area, che si prende cura della manutenzione. L’esperienza dell’orto personale (10 metri quadrati per ogni studente), ha inizio in autunno, nell’au-la, al chiuso. Si svolgono alcune lezioni: per imparare a distinguere i differenti tipi di terreni, per capire cos’è la fotosintesi, per distinguere i semi. Poi da marzo-aprile si va all’aperto, fi no a ottobre, quando, per concludere il ciclo annuale, l’attività prevista diviene quella delle composizio-ni con i fi ori essiccati. I bambini vanno nell’area degli orti singolarmente, in bici, o in autobus. Oppure con tutta la classe. Sono attività che si svolgono al pomeriggio. Quella dell’orto è un’esperienza che fanno tutti i bambini di Am-sterdam, per almeno un anno, durante il periodo della loro esperienza didattica del cosiddetto obbligo. Ogni anno sono circa 6.000 a farla. D’estate ci sono, poi, dei momenti di festa, in cui sono coinvolte tutte le famiglie, e si mangia tutti assieme, consumando così anche i prodotti dell’orto. Questo olandese è sicuramente un esempio storico da usa-re come modello.

Un incontro annuale, una rete nazionale di scuole, un portale internet

Il 13 novembre 2004 si è svolto presso l’Ecoistituto a

Cesena il primo convegno nazionale sulle esperienze di orti didattici. Il titolo è emblematico del percorso intrapre-so: «Orti scolastici biologici, giardini della biodiversità». In quell’occasione, come dirigente scolastico, ho lanciato l’idea di un progetto di rete nazionale sugli orti scolastici

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biologici. In sostanza un impegno che ogni scuola poteva prendere aderendo a un accordo di rete ai sensi dell’art. 7 del Dpr n. 275/1999 (il decreto sulla cosiddetta «autono-mia scolastica»). In sintesi le fi nalità di questo «accordo di rete» sono espresse nell’articolo 3, in cui si dice: «Le scuole aderenti alla rete condividono l’idea di fondo di riconosce-re il ruolo fondamentale dell’agricoltura nella società. In particolare si evidenzia la necessità storica di attribuire nuovamente al mondo agricolo il ruolo di promotore di educazione all’ambiente attraverso la conservazione della biodiversità». Da quel primo incontro, nel corso di ogni anno scolastico si svolge un convegno nazionale che i par-tecipanti apprezzano per alcune caratteristiche peculiari. Non esistono relazioni teoriche, ma racconti di esperienze concrete, sulle quali, semmai, si fanno rifl essioni pedago-giche. Un metodo che può decisamente essere defi nito in-duttivo. Gli interventi sono sintetici, 15-20 minuti al mas-simo. Non vengono distribuite fotocopie, ma si consegna, all’inizio del convegno, un piccolo «quadernetto di campa-gna» e i partecipanti vengono invitati a prendere appunti, segnarsi indirizzi, disegnare. Non esistono impianti di am-plifi cazione e dopo le relazioni, nel momento conviviale pomeridiano, ci si scambia idee e – chi vuole – semi o ma-teriali di documentazione prodotti dalle scuole. L’indiriz-zario delle persone che partecipano all’incontro, distribui-to poi agli stessi partecipanti, permette lo scambio e il con-tatto fra le varie scuole, in una logica di «rete dal basso». Un lavoro, tutto questo, che dal 2006 ha visto un punto di forza e di riferimento nel sito internet www.ortidipace.org, voluto e sostenuto quotidianamente dalla scrittrice, gior-nalista, nonché ortolana Pia Pera. L’invito che lei stessa fa è semplice: il sito è a disposizione di chiunque consideri l’orto, e il giardino in senso lato, un luogo ideale per in-trecciare tutta una serie di scambi con la natura, l’ambien-te e la comunità. Il portale è concepito in modo da dare

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ma anche ricevere informazioni, in uno spirito di servizio per chi avverta il desiderio di passare «dalla voglia di fare al fare». Le cose da fare sono tante: orti e giardini didattici nelle scuole, orti terapeutici dove coltivare la pace interio-re, orti per chiunque, pur non possedendo terra, desideri coltivare fi ori e ortaggi in uno spazio pubblico.

Dalla rete di scuole alla Rete di Orti di Pace Il quinto convegno, tenutosi nel marzo del 2009, segna

una svolta. Si passa dall’idea di collegare le esperienze di orti didattici scolastici alla necessità di collegare tutte le esperienze di orti, che abbiamo chiamato in maniera sin-tetica Orti di Pace.

L’idea di una rete incentiva la nascita di orti. La rete conta sull’esperienza di chi lo ha fatto da sempre, i con-tadini, gli agricoltori, gli ortolani. È una realtà in cui i bambini, le bambine e i grandi (molte volte le nonne e i nonni) «insieme» si prendono cura delle piante. E ancora: l’orto è un’esperienza di incontro fra popoli di tradizio-ni e culture diverse. Popoli dell’Est Europa, popoli che si affacciano sul Mediterraneo, popoli del Sud del mondo: mondi ricchi di famiglie che lavorano la terra. Coltiva-re un orto può diventare, oggi, un’eccellente esperienza di educazione alla multiculturalità e alla pace, ma non solo. Da alcuni anni c’è chi ha preso coscienza che l’orto è un eccellente «medico» per chi vive l’esperienza delle diffi coltà di salute fi sica e mentale, per chi deve ricostru-ire armonia nella propria esperienza di vita. Ecco che si scopre che l’attività dell’orto e/o del piccolo allevamento è utilizzata in diverse carceri (signifi cativa in questo senso l’esperienza della Casa di reclusione dell’Isola di Gorgo-na) e che quasi tutte le comunità terapeutiche sono col-locate in ampi spazi agricoli e usano inserire l’orto fra le

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attività quotidiane. L’orto richiede, in questo senso, rigo-re, adesione a leggi naturali, perseveranza. È quello che una persona, all’interno di una comunità terapeutica, ha bisogno per sé. E poi ci sono gli orti dei conventi (spesso destinati alla conservazione della biodiversità) e la gran-de tradizione degli orti sociali, generalmente defi niti «orti degli anziani».

Oggi, infi ne, si parla molto di orti urbani, orti di con-dominio e sono nate le esperienze di orti negli ospedali. Ho proposto questa esperienza in un articolo che pubblicai pochi mesi dopo la degenza in ospedale, conclusasi con la morte di mio padre, avvenuta alcuni anni fa. In quell’oc-casione una infermiera rasserenò mio padre valorizzando con buone parole il suo lavoro di contadino. Proposi allora all’ospedale di Cesena, e ad ogni ospedale, di organizzarsi per realizzare un proprio orto ben curato, con tanti vialetti e tante aiuole di verdure, ortaggi e fi ori. Un orto che abbia una zona dedita al compost, elemento essenziale per cibare il terreno. Un orto ricco di erbe offi cinali, da sempre chia-mate anche medicinali, e con zone dedite alla coltivazione di piante ospiti delle farfalle. Un orto con tanti alberi che producano frutti per tutti i mesi dell’anno. Un orto all’ospe-dale vorrebbe dire per tanti pazienti riconoscersi nella pro-pria terra, cioè nel luogo in cui viviamo, un luogo fatto di storia, di tradizioni, di cultura, di memoria. Un luogo che anche noi, ogni giorno, contribuiamo a rendere più bello e vivibile. E così, quando siamo costretti a passare alcuni giorni della nostra vita in ospedale, possiamo benefi ciarne sia dal semplice vedere questo piccolo «paradiso terrestre», sia dal fare alcuni dei tanti piccoli lavori che ogni giorno si fanno nell’orto. Forse avremmo bisogno di meno medicine e certamente guariremmo prima.

Tutto questo movimento culturale e colturale è ben sin-tetizzato nel documento presentato durante il quinto con-vegno della rete che ha avuto per titolo: «Orti negli ospe-

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dali, nei conventi, nelle carceri, nelle città, nelle scuole». È da quel momento che è nata la «Rete Orti di Pace», aperta al contributo di chiunque voglia rendere più bello questo grande orto-giardino chiamato mondo.

MANIFESTO PER UNA RETE DI ORTI DI PACE

Chiunque, nel rispetto dell’ambiente, coltivi la terra la-vora anche per la pace. Anche quando i confl itti mettono a repentaglio la sopravvivenza, e li chiamano per questo orti di guerra, sono sempre e comunque orti di pace.

In questo momento storico, in cui i fondamenti stessi dell’economia vengono rimessi in discussione, e il concetto di cosa abbia valore cambia al punto che i terreni agricoli cominciano a venire considerati un bene rifugio, è arrivato il momento di annodare una rete tra tutti noi che crediamo che lavorare la terra in modo organico sia cosa bella e buona.

Occorre imparare di nuovo l’abbiccì del rapporto con la Natura. Per questo siamo partiti dagli orti scolastici: aule all’aperto dove apprendere un modo di stare al mondo per cui, anziché semplici consumatori, diventiamo creatori di vita, e nella pratica di una possibile autosuffi cienza appren-diamo il respiro della libertà interiore. Un giardino, un bo-sco, un orto trasformano la scuola in qualcosa di vivo di cui prendersi cura.

Partiti dalla scuola, abbiamo poi esteso la nostra atten-zione agli orti terapeutici, carcerari, sociali: spazi dove ci si prende cura di fi ori e ortaggi scoprendo al contempo nell’or-to un luogo ideale dove intrecciare tutta una serie di scambi con la natura, l’ambiente e la comunità, coltivando intanto la pace interiore.

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L’orto resta tuttavia il modello privilegiato da noi pro-posto: perché permette di optare per un modello economi-co meno instabile, meno fondato sulla rapina di risorse non rinnovabili e quindi limitate. Coltivare un orto è una piccola azione di pace.

Proponiamo la costituzione di una Rete di Orti di Pace nell’intento di tenerci in contatto, scambiare informazioni sulle varie iniziative. E anche, non ultimo, renderci conto di quanto poco siamo isolati nel gesto di coltivare il nostro comune giardino dall’umile nome di terra.

Cesena, il 14 marzo 2009

LA RETE ORTI DI PACE

L’idea di promuovere la realizzazione di orti a scuola, i cosiddetti orti didattici, è nata dalla mia esperienza di mae-stro prima (negli anni Ottanta) e dirigente scolastico poi (da metà degli anni Novanta).

Questa idea è stata subito sostenuta dall’Ecoistituto di Cesena che nel 2001 è entrato a far parte, come socio, dell’Associazione Civiltà Contadina. Daniele Zavalloni, che nel frattempo ne era divenuto vicepresidente, suggerì l’idea che Risea, la Rete italiana scuole di ecologia all’aperto (nata alcuni anni prima) entrasse a far parte dell’associazione. Si è così dato vita al progetto «Orti di Pace, sentieri della bio-diversità, contadini custodi». La collaborazione con il presi-dente di Civiltà Contadina (ma non con suoi singoli membri) è venuta meno nel 2006. Nello stesso anno, l’Ecoistituto ha fi rmato una convenzione con Slow Food, offrendo la propria esperienza allo sviluppo del progetto «Orto in Condotta».

Risea ha avuto per alcuni anni una sua organizzazione di tipo formale, ai sensi del decreto legge sulla cosiddetta autonomia scolastica). Riuniva tra loro un insieme di scuole

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accomunate dal fatto di coltivare un orto a scuola. La scuola che dirigevo ne era capofi la. Allo scadere formale della con-venzione (31 agosto 2008) Risea non è stata re-istituita, pre-ferendo una forma di collaborazione più libera attraverso la condivisione del sito internet www.ortidipace.org

Durante il quinto convegno degli Orti di Pace, tenutosi il 14 marzo 2009, è stato presentato un manifesto che è di-ventato il riferimento ideale di tutti coloro che nella pratica dell’orto si sentono in sintonia tra loro. Non si tratta quindi più soltanto di orti didattici, ma anche di orti comunitari, orti sociali, orti terapeutici, orti carcerari, e così via. La rete quindi è libera, a maglie larghe. Possono aderire tutti coloro che si riconoscono nel manifesto.

Pertanto i punti cardine sono:

1. Il manifesto «Per una Rete di Orti di Pace». È il rife-rimento ideale-culturale di tutte le realtà che, riconoscendo l’importanza di trasmettere i saperi legati alla cura dell’orto, intendono collaborare tra loro.

2. Il convegno. È l’appuntamento annuale in cui si affron-ta un tema di fondo e si condividono esperienze concrete. Lo stile di base è quello di trarre dall’esperienza, in modo induttivo, idee e pratiche comuni.

3. I siti internet. Un portale (www.ortidipace.org), ideato e curato da Pia Pera, come punto di riferimento della rete. Vera e propria rivista online, pubblica testi inviati da tutti coloro che condividono lo spirito del manifesto. Esiste inol-tre un gruppo Facebook di Orti di Pace, come ponte tra gli utenti di Facebook e ortidipace.org.

Nelle pagine web www.fl ickr.com/photos/ortidipace è in-vece possibile trovare immagini di orti, disegni e altro.

Dal sito www.tecnologieappropriate.it è poi possibile ac-cedere alle schede dei libri sugli orti, presenti nella bibliote-ca dell’Ecoistituto di Cesena.

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4. Le pubblicazioni. Il manifesto Per una Rete di Orti di Pace è condiviso dai seguenti libri, e in essi pubblicato in appendice: L’insalata era nell’orto di Nadia Nicoletti (Salani), Giardino & Orto Terapia di Pia Pera (Salani) e La pedagogia della lumaca e Ortidipace (Emi) a cura di Gianfranco Zaval-loni.

È disponibile un poster dal titolo Orti di Pace, stampato a cura dell’Ecoistituto, disponibile a colori oppure in bianco e nero.

Sono inoltre in cantiere le seguenti iniziative: – Un censimento delle realtà che, nella coltivazione di un

orto, vedono anche un gesto di condivisione del manifesto Per una Rete di Orti di Pace.

– Un indirizzario di persone competenti e disponibili a promuovere, insegnare, consigliare, aiutare in ogni genere di lavoro legato all’orto: da quelli prettamente agricoli fi no alla realizzazione di un recinto, di un bancale di legno, di una capanna di salici, di un forno in terra crudo, l’intreccio di un canestro, la realizzazione di utensili e via discorrendo.

Segreteria tecnica della Rete Orti di Pace:

Ecoistituto di Cesenavia Germazzo 189 47521 Cesena (FC)www.tecnologieappropriate.itecoistituto@tecnologieappropriate.ittelefono e fax: 0547-323407

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L’ORTO SCOLASTICO COME GIARDINO DEL NOSTRO TEMPO

di Pia Pera

Lev Nikolaevic Tolstoj, per molti versi considerato un profeta della sensibilità del nostro tempo, non amava particolarmente i panorami perché preferiva sentirsi im-merso nella natura.

Sono rimasto del tutto freddo alla vista del gelido panorama del monte Jaman; non mi è passato neanche per la testa di fermarmi un solo momento ad ammirarlo. Io amo la natura quando mi circonda da tutte le parti e poi si svolge in lonta-nanza fi no all’infi nito, e mi ci sento dentro. Mi piace quando da tutte le parti mi circonda l’aria calda, e la stessa aria si perde avvolgendosi nell’infi nita lontananza; quando questi fi li d’erba succosi, che ho schiacciato sedendomici sopra, richiamano il verde di infi niti campi; quando queste stesse foglie che, mosse dal vento, spostano l’ombra sul mio viso, compongono la linea del bosco lontano; quando l’aria stes-sa che respiriamo richiama la profondità dell’azzurro cielo infi nito; quando non sei solo a esaltarti e a gioire della natu-ra; quando vicino a te ronzano e sciamano miriadi d’insetti, strisciano le coccinelle, e gli uccelli riempiono l’aria col loro canto. E qui, invece (nel panorama distante): una superfi cie fredda, nuda, umida e deserta, e da qualche parte qualcosa di bello, che s’intravede velato dalla lontananza. Ma questo qualcosa è così lontano che io non provo il piacere per me più grande che possa venirmi dalla natura, non mi sento parte di quest’infi nito e bellissimo intero. E non m’importa niente di questa lontananza. Il paesaggio dello Jaman è per gli inglesi (maggio 1857, durante la gita col ragazzino Sasha).

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Ho riportato questa lunga citazione perché trovo espri-ma al meglio quello che per la sensibilità contemporanea è diventato il senso del fare giardino: entrare a sentirsi parte di qualcosa di mutevole – la natura – avere la sensazione di ristabilire un contatto con la rete della vita, e non più di ammirare dall’esterno come in un panorama.

Ristabilire un rapporto con la natura, sentirsene parte, tornare a comprendere il nostro rapporto di interdipen-denza con le altre specie animali e vegetali ma anche con la comunità umana: ecco l’urgenza, ecco l’interrogativo del fare giardino oggi.

Che diventa anche fare paesaggio, vedere paesaggio, intervenire sul paesaggio, agreste o urbano o silvestre.

In questa sensibilità di Tolstoj, quanto vale per il pae-saggio vale anche per il giardino. Che non sarà un par-terre elegante da contemplare dalla loggia di casa o dalle fi nestre del piano nobile, statico e meramente formale, ma uno spazio, una dimensione che ci ingloba. Un giardino in cui entreremo anche con le nostre mani, gli attrezzi, i semi che vi introdurremo, le buche che scaveremo. Robert Pogue Harrison ha scritto un libro bellissimo sul giardino come luogo in cui prendersi cura, realizzare la vocazione umana alla Sorge. Acutamente, scrive che la cacciata dal giardino dell’Eden ha coinciso, per l’inquieto uomo occi-dentale, con un ritorno nella sua autentica patria, quella del prendersi cura, la heideggeriana Sorge. Dalla leggiadra giardinesca malia, di regola, i nostri eroi fuggono a gambe levate: da Circe come da Alcina o da Logistilla. Karl Ca-pek, in L’anno del giardiniere, ha raccontato la stessa cosa in modo arguto e divertente: il giardiniere è colui che è soddisfatto quando ha le mani occupate (et l’esprit libre, aggiungerebbe Gilles Clément). Noi che facciamo i giardi-nieri lo sappiamo: nulla ci rallegra di più di avere appena messo a dimora una piantina, avere appena tagliato un ramo secco, avere accatastato la legna… Insomma, avere

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partecipato alla vita intorno a noi. La felicità del giardino è nella relazione, fattiva, non solo contemplativa. Pensiamo allora a quel tipo particolare di giardino del nostro tempo che è l’orto scolastico, un genere molto particolare di orto sociale. Che, se vogliamo, è un giardino che entrerà dentro di noi attraverso ciò che ne mangeremo. Un giardino con cui entrare più che mai in simbiosi?

Credo, del resto, che questa sensazione di simbiosi con la natura costituisca per i giardinieri appassionati il senso più profondo del loro fare.

Cosa possiamo chiedere a un giardino? Di riconnetter-ci alla vita, quindi anche al nostro nutrimento, non solo all’esperienza estetico-fi losofi ca. Il giardino del nostro tempo, cioè il giardino di cui il nostro tempo ha bisogno, deve prima di tutto sanare una ferita: riconnettere l’uomo alla natura nel senso primario del termine, di corpo a cor-po in cui l’uomo coltiva le piante da cui trae nutrimento, in tutti i sensi.

Aggiungo: il giardino non avrà futuro a meno di far sì che fi n da piccoli i bambini conoscano questa esperienza formativa fondamentale. Pertanto il giardino capace di ri-spondere a questo bisogno urgente del tempo in cui vivia-mo sarà un giardino semipubblico, il giardino nel cortile della scuola, tenuto non solo dai bambini e dai maestri ma anche dai nonni, dai bidelli, dai genitori specie quando le scuole sono chiuse. Un orto che sia anche un giardino, che abbia alberi fi ori e cespugli ed erbe spontanee, in modo da essere un luogo dove si impara a conoscere la natura, dove soprattutto si fa esperienza di quella tranquilla feli-cità che solo la natura può trasmettere. Perché l’interesse per i giardini si trasformi in qualcosa di profondo, qualco-sa che formi veri giardinieri, ma non solo: persone con un interesse non superfi ciale per la natura, per l’ambiente.

Alleviamo allora piccoli giardinieri, persone che sappia-no dove andare a cercare quella felicità tanto speciale: una

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felicità a portata di mano! Una felicità che non abbiamo bisogno di andare a chiedere ad altri o ad altro. Nell’orto, nel giardino, o anche nel pezzetto di natura lasciato indi-sturbato nel cortile di scuola – è di moda chiamarlo wild zone – un bambino imparerà ad attingere alle energie della terra, a vivere l’esperienza, cruciale per lo sviluppo della creatività non importa in quale ambito, del libero scorrere delle energie. Sperimentare quella concentrazione che na-sce dal lavoro manuale a contatto con la natura, e con le energie naturali quando riusciamo ad avvertirle in armo-nia con le nostre. La conoscenza di questa gioia, di que-sta felicità, fonda la possibilità stessa della libertà, della non dipendenza coatta dalle gratifi cazioni esterne. Privi di questa conoscenza, si rischia di diventare null’altro che consumatori passivi di merci, di sensazioni, di relazioni sociali.

Ai bambini, dunque, bisogna lasciar comprendere che la natura può essere una risorsa inesauribile di forza e fe-licità. Nell’orto non si va solo per ricavare del cibo, ma per prendere coscienza della bellezza del cielo, delle nuvole, dell’emozione dei mutamenti climatici. Ad ascoltare gli uc-celli, osservare gli insetti, conoscere la pienezza della vita. Solo se l’avremo assaporata, ci sarà possibile cercarla. I bambini, e i ragazzi, non sono ancora così cinici da con-siderare ingenua questa domanda: che senso ha la vita? Perché non suggerire che siamo qui per celebrare la gioia di essere uomini e godere del nostro essere nella natura? Deus sive Natura, e viceversa: Natura sive Deus.

Anni fa ebbi la fortuna di partecipare al seminario tenuto da Masanobu Fukuoka in India, nella fattoria di Vandana Shiva, dal titolo «Nature as teacher», la natura come maestra. Nel corso di due indimenticabili settimane, l’anziano agronomo giapponese, autore della Rivoluzione del fi lo di paglia, cercò di insegnarci a coltivare un senso di unione con la natura, mantenendo un atteggiamento di

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attenzione amorevole e mai di sfruttamento. Una mattina srotolò un foglio su cui aveva disegnato l’origine della no-stra civiltà, ovvero l’Albero della conoscenza del Bene e del Male, col serpente attorcigliato intorno al tronco. «Sapete cosa ha insegnato il serpente ad Adamo?». Silenzio. «Sono anni che ci penso, l’ho capito questa mattina. Com’è il cor-po del serpente? Ricoperto di scaglie, per questo si muove in una sola direzione. Può insegnare ad andare avanti, ma non a tornare indietro». Gli uomini non sono mai progre-diti oltre la sapienza del serpente: sanno dividere ma non riunire, trasformare il petrolio in plastica ma non la pla-stica in petrolio, consumare risorse ma non crearle. È la direzione a senso unico, irreversibile, dello sviluppo o pro-gresso che dir si voglia.

E se invece fosse possibile aggiustare la rotta di questo percorso tutto monodirezionale? Imparare ad agire tenen-do conto dell’andamento ciclico, mai lineare, della natura? Imparare anche a ridurre la nostra impronta ecologica sul mondo?

Il giardino del nostro tempo non può essere qualco-sa di statico. Può fondarsi solo sulla consapevolezza e la valorizzazione di un processo. Merita inventare giardini a patto che non siano cose, luoghi e basta, ma entrino a fare parte della nostra esperienza, della nostra evoluzione, inneschino un percorso, una rete di relazioni col mondo e la natura.

Si muovono in questo senso i paesaggisti più innovativi, ma anche i guerrilla gardeners o i propugnatori delle wild zones, come Karen Payne, David Hawkins, da noi Paolo Tasini. L’idea è di azioni relazionali e signifi cative, di inter-venti anche soltanto temporanei sul paesaggio campestre ma soprattutto urbano. Il giardino del nostro tempo non è un luogo circoscritto – ormai, lo ha detto Gilles Clément, il giardino è planetario, non ha confi ni. Ma allora cos’è il giardino? Forse qualcosa che ci portiamo dentro come

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atteggiamento, visione, attenzione, capacità di rispondere agli stimoli alle proposte e anche alle richieste di aiuto del-la cosiddetta Natura. Un modo di non perdere il contatto con la vita. È un fare giardino che diventa anche cura della nostra anima all’interno del mondo e con il mondo.

Con il mondo: quindi anche con il paesaggio. È consa-pevolezza del giardino all’interno del paesaggio. E anche della necessità di conservare all’interno del giardino, oltre alla relazione col paesaggio, qualcosa della selvatichezza. Cito queste parole a me care di Oliva di Collobiano: «Il giardino vero è l’unione tra la persona e la natura ricreata: mondo accurato fatto di grazia. Il buon giardino è l’equili-brio tra la quiete della domesticità e la vibrazione del mon-do selvatico.»

Aggiungo: è gentile non dimenticare che la nostra pre-senza è imposta a un paesaggio preesistente. Bellezza e armonia nascono spesso dall’occultamento di una simile violenza. Il «mondo fl uttuante» del vero giardino non ha nulla a che spartire con certi scenari che lasciavano freddo Tolstoj.

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L’ORTO TRA LA FORESTA E LA VIGNA:RI/COLTIVARE IL SELVAGGIO PER LA VITA

di Daniele Zavalloni

La foresta

Etimologicamente, la parola foresta deriva dal termine latino forestis, probabilmente un neologismo del VII secolo d.C., che potrebbe avere origini dal latino foris, «all’ester-no».

La parola orto deriva dal latino hòrtum che signifi ca «recinto, luogo chiuso».

Il 7 ottobre 2009 si sono celebrati i cinquant’anni dall’istituzione della Riserva integrale naturale di Sasso Fratino.

Per chi non è del mestiere, Sasso Fratino è la prima riserva integrale naturale italiana: fu istituita nel 1959 dall’allora Azienda di stato per le Foreste Demaniali; in quegli anni era l’unica Azienda di stato con un bilancio attivo grazie al taglio dei boschi.

La Riserva di Sasso Fratino è anche la prima riser-va integrale istituita in Italia secondo la classifi cazione dell’Uicn (Unione internazionale per la conservazione del-la natura), che concepisce la protezione della natura nella sua totalità: specie vegetali e animali, rocce, suolo, acque, atmosfera locale.

L’istituzione della riserva fu una grande novità nel campo della protezione ambientale. Fabio Clauser, che a quel tempo era l’amministratore delle Foreste casentinesi, per conto dell’Azienda di stato per le Foreste Demaniali, decise di escludere dal taglio degli alberi una superfi cie di appena cento ettari: le Foreste casentinesi occupano

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una porzione di 10.000 ettari del territorio dell’Appennino tosco-romagnolo all’interno della quale si trova la riser-va. Questa scelta di non tagliare fu defi nito un «intervento abusivo» (come cambiano i modi di pensare e di agire).

Attualmente la Riserva integrale di Sasso Fratino occu-pa una superfi cie di 764 ettari.

Istituire una riserva integrale signifi ca delimitare una porzione di territorio all’interno della quale non sono svol-te le attività proprie dell’uomo, ad eccezione della ricerca scientifi ca. Non vi sono quindi interventi di alcun genere, non vi sono attività volte all’utilizzo delle risorse, non vi sono neppure interventi di sistemazione o di tutela dei ver-santi e delle pendici.

È luogo comune pensare che le foreste siano l’emblema della naturalità: purtroppo, per molte foreste del mondo, non è più così da diverse centinaia di anni.

Ma come ha fatto l’uomo a passare dalla foresta all’or-to? L’uomo ha potuto modifi care i propri comportamenti di vita grazie al comportamento di alcune piante che sono alla base della sua alimentazione.

La vita

Sappiamo che l’ape, durante il suo vagare da un fi ore all’altro per raccogliere il nettare, svolge anche l’importan-te, e insostituibile, compito di impollinare i fi ori. Molto probabilmente è stato il fi ore che nel suo percorso evoluti-vo ha inventato questo espediente per farsi impollinare.

Possiamo dire che le piante sono una sintesi di raffi na-tezza e di complessità, in grado di inventare strategie di sopravvivenza: la ricerca di queste modalità di permanen-za della specie è chiamata evoluzione.

Troppo spesso ci dimentichiamo che le piante sono gli unici esseri viventi in grado di trasformare, con la parteci-

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pazione della luce solare, i sali minerali disciolti nell’acqua in zuccheri e amido. Questo processo chimico si chiama fotosintesi.

I composti chimici sintetizzati dalle piante hanno la capacità di nutrire, di curare, di eccitare e di infl uenzare le nostre menti, ma in molti casi ancora oggi non conoscia-mo questi composti chimici o non siamo capaci di utiliz-zarli.

È chiaro che le piante svolgono queste attività chimi-che per ragioni precise e cioè per difendersi (lo fanno sin-tetizzando tossine, veleni, sapori disgustosi) ma anche per l’effetto contrario, per attrarre.

Attrarre chi?

Ciò che caratterizza maggiormente le piante è l’immo-bilità, ma a pensarci bene questa affermazione non è pro-prio vera… Anche se certamente sono in balia dei predato-ri, le piante possono spostarsi. Vediamo come!

Di fatto per spostarsi hanno escogitato diverse strate-gie: ci sono semi che hanno un uncino per agganciarsi alle pellicce degli animali e iniziare così il loro autotrasporto. In seguito, questi uncini sono stati imitati dall’uomo che ha inventato il velcro.

Ci sono semi che hanno un rivestimento duro come le ghiande delle querce e vengono trasportati dai ghiri, dagli scoiattoli, dalle ghiandaie, dalle nocciolaie velocemente e anche per lunghe distanze da un territorio ad un altro.

Poi, in tempi più recenti (in riferimento alla storia del-la Terra), un gruppo di piante della famiglia delle Grami-nacee pensò di utilizzare l’uomo come veicolo di traspor-to: si tratta dei semi commestibili come il mais, il grano, il riso.

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Appena l’uomo ha fatto questa scoperta non si è rispar-miato nelle sue azioni, ha iniziato ad abbattere le foreste per fare spazio a queste piante.

Da 10.000 anni le Graminacee occupano la foresta.E siamo giunti ai giorni nostri: è sempre più diffi cile

distinguere un giardino o un orto dalla natura incontami-nata, è diffi cile perché l’uomo ha invertito i ruoli; origina-riamente l’adattamento e l’evoluzione di una specie erano originati da una concatenazione di casualità, ora stiamo assistendo al fenomeno contrario: è l’uomo che forza e condiziona l’evoluzione delle specie.

Ciò che caratterizza attualmente la storia della natura è la pratica della selezione artifi ciale, la manipolazione ge-netica che viene condotta a tutti i costi e che tra l’altro ha dei costi anche molto alti, in termini energetici e quindi economici. Non abbiamo più uno spazio incontaminato e vediamo la conseguenza delle nostre azioni in questi ulti-mi anni e in modo evidente ogni giorno che passa. Sono il manifestarsi di cicloni, sono l’aumento della temperatura, sono l’espandersi del buco dell’ozono.

L’orto, luogo di «selvaggità»

A questo punto si inserisce l’orto che è stato in tempi lontani luogo di sperimentazione e di selezione, ma oggi può essere luogo di «selvaggità»: è un’occasione (l’ultima?) perché l’uomo trovi il coraggio di ritornare nella rete della vita della Terra.

Siamo convinti più che mai che la Natura non si tro-va solo «fuori = la foresta» ma è anche «dentro = l’orto». Nell’orto, ma anche nel giardino; dobbiamo essere capaci di percepire la Natura come la vediamo, come la percepia-mo negli spazi più selvaggi per antonomasia e cioè nella foresta.

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Solo allora potremo dire di aver compreso qual é il no-stro posto sulla Terra.

L’orto è anche luogo di apprendimento in quanto è occasione di colloquio con l’ambiente esterno, in quanto coltivare signifi ca anche sapere quanta acqua abbiamo di-sponibile, a che altitudine ci troviamo, qual’è la pedologia, in quale esposizione ci troviamo.

Realizzare un orto signifi ca imparare a integrarsi con i processi che regolano la vita dell’ambiente naturale, saper leggere questi vincoli signifi ca comprendere l’importanza dell’origine delle molte specie vegetali che ci nutrono e poi degli animali selvatici che ci stanno attorno.

Quasi sicuramente furono i Celti e, successivamente, i Romani a inserire le coltivazioni di ortaggi e di piante da frutto in mezzo all’immensa superfi cie coperta dalla fore-sta che fi no a diversi secoli fa copriva l’intera Italia.

Carlo Magno e il fi glio Pio dettarono le regole per col-tivare l’orto.

Poi i monaci, nel medioevo, fecero dell’orto il punto centrale della vita del chiostro: era previsto che una por-zione di terra fosse destinata alla coltivazione di ortaggi da usare in cucina, alla coltivazione di piante offi cinali, di erbe aromatiche e di fi ori per l’altare.

Sempre in questo periodo gli orti si trasferiscono den-tro le mura delle città o in prossimità di esse per poter nu-trire gli abitanti nei periodi di assedio. Gli Arabi, durante i loro assedi, diffusero ortaggi esotici come gli spinaci e le melanzane.

Successivamente, nel rinascimento, furono seleziona-te varietà orticole come il fi nocchio, il sedano, il carciofo (con il ricettacolo carnoso e privo di spine del capolino).

Ma la grande rivoluzione nell’orto arriva con il ritorno degli esploratori dalle Americhe, che portarono pomodori (originariamente dal colore oro), peperoni, zucche e pa-tate. All’inizio queste piante erano coltivate solo negli orti

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botanici, successivamente (dalla fi ne del XVII secolo circa fi no all’inizio del XIX per il pomodoro) entrano negli orti per l’alimentazione della popolazione.

E ancora diverse piante coltivate arrivarono nei nostri orti grazie ai pellegrini che andavano in terre lontane e alcune piante migrarono in terre lontane portate dai pel-legrini.

Le piante che possiamo trovare nell’orto hanno dei progenitori selvatici, che costituiscono una ricchezza ine-stimabile perché conservano nel loro patrimonio genetico una potenzialità che non sarà più recuperabile, una volta persa.

Conservare e tutelare queste piante selvatiche signifi ca avere la possibilità di selezionare varietà orticole con ca-pacità di resistenza alle avversità climatiche, parassitolo-giche, pedologiche.

Mettiamoci allora alla ricerca della pianta selvatica.L’orto è un luogo di biodiversità (esattamente l’oppo-

sto della monocoltura): ben venga l’orto come luogo in cui si seminano e quindi si conservano i geni delle spe-cie di piante selvatiche che non sono soggette a brevetti. Adottare questo approccio signifi ca assicurarci un futuro migliore. L’orto può essere una Sasso Fratino; recintata, purtroppo!

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UNA LUNGA STORIADI SCUOLA, DI BAMBINI E DI ORTI

di Nadia Nicoletti

Maestra alla scuola primaria

Insegno da molti anni, più di trenta, e ho insegnato sempre in Trentino, dove abito. Per alcuni anni ho inse-gnato in paesi della provincia, ma da circa vent’anni inse-gno in città, a Trento.

La mia esperienza con gli orti didattici è partita pro-prio nelle scuole della città.

La prima scuola era una scuola del centro, la «Raffael-lo Sanzio», poi la scuola del quartiere di Madonna Bianca e ora la scuola di Villazzano.

La grande fortuna che ho avuto è stata quella di trovare, in tutte e tre le scuole, uno spazio predisposto per l’orto. È una cosa piuttosto rara che una scuola abbia uno spazio per questa attività e le scuole dove sono stata lo hanno tutte. Poi ho sempre trovato colleghi che hanno condiviso con me questa esperienza, e non è poco.

In particolare la scuola dove insegno ora, quella di Vil-lazzano, ha uno spazio piuttosto grande adibito a questo scopo, dove ci sono tutte le attrezzature che servono per l’attività: rubinetto dell’acqua, cumulo di compostaggio, piccolo deposito per gli attrezzi dei bambini ecc.

Dunque il mio approccio con l’attività di orto didattico è stato, sempre, con i bambini di città. Nel corso degli anni non ho notato differenze molto sostanziali fra i bambini, nel senso di più o meno ricettività. Ho notato sempre un grande entusiasmo verso questo tipo di esperienza, anche se è vero che ci sono bambini che si appassionano più di

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altri e poi vogliono continuare con questa attività anche a casa, coinvolgendo le famiglie e in particolare i nonni.

Nel corso degli anni ho avuto un’utenza piuttosto va-ria, ma direi che non ho notato differenze signifi cative.

Spesso mi chiedono perché faccio l’orto a scuola. Esi-ste una forte motivazione di tipo pedagogico, ma devo dire subito che lo faccio soprattutto perché mi piace.

Io sono convinta che sia un’attività che porta con sé moltissimi spunti, che dia modo di ampliare altre cono-scenze. Facendo un orto si possono avere moltissime rica-dute, un po’ in tutti gli ambiti disciplinari.

Per fare un esempio, quando faccio un orto posso mi-surarlo, per dividerne gli spazi e questa è geometria che farò con i bambini più grandi. Ma posso osservare il ciclo di una pianta dalla semina al raccolto dei frutti e questo è un contenuto scientifi co. Poi, se voglio posso scrivere e raccontare le varie esperienze, tenere un giornalino e que-sto rientra nella linguistica. Ma posso fare molto altro. Diciamo che è una bellissima attività di tipo trasversale. Questo non è poco, se pensiamo che spesso, per far amare le attività ai bambini, noi insegnanti dobbiamo lavorare molto con la fantasia.

Personalmente sono convinta che nella scuola elemen-tare i bambini abbiano bisogno anche di imparare a «sa-per fare», proprio come competenza.

Troppo spesso nella scuola si propongono attività sle-gate dall’esperienza diretta, che i bambini diffi cilmente rie-scono ad amare.

L’orto è una delle attività che in genere piacciono, forse perché è legata alla terra e conseguentemente al cibo che mangiamo. I miei bambini hanno sempre avuto una gran-de simpatia per queste attività.

Io sono nata in un paese del Trentino, a Vigolo Vattaro, nel 1957. In quegli anni le famiglie contadine, qui in paese, erano ancora molte. Non come adesso.

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I miei genitori non erano contadini, ma ho sempre vi-sto coltivare la terra e sono vissuta in un ambiente di tipo rurale. Ho imparato molto da questo tipo di ambiente.

Molte cose che riguardano l’orto e il giardino mi sono state insegnate da mia mamma e da mia nonna.

In particolare mia nonna era molto appassionata di fi ori, che coltivava con grande amore. Ancora adesso la gente del paese ricorda il suo terrazzo ricolmo di gerani e di ortensie che lei curava tantissimo.

Da sempre in casa si è coltivato l’orto e sempre nel-la mia casa c’è stato un giardino. Era un giardino molto semplice: le rose, qualche margherita, le dalie, le peonie, i delphinum. A primavera i narcisi.

Uno dei ricordi più belli è legato alla scuola materna perché a primavera tutti noi bambini andavamo nell’or-to della scuola a coltivare un pezzettino di terra. Ricordo ancora quei momenti… con il cappellino bianco e il grem-biulino. Era una festa!

Diciamo dunque che negli orti e tra i fi ori del giardino ho imparato a stare da quando ero piccola. Mi lasciava-no pasticciare e credo di aver combinato più di un guaio nell’orto di casa.

La passione vera e propria però è venuta, per me, negli anni successivi.

È nata dall’incontro con mio marito che è laureato in agraria ed è un appassionato di botanica e di piante. Poi è cresciuta e si è sviluppata da quando ho preso in gestione, insieme a lui, quello che era l’orto della mia famiglia e il giardino intorno alla mia casa.

È stata una passione che con il tempo è cresciuta e si è consolidata.

Ora, da qualche anno, ho incominciato a interessarmi, oltre che di orti e giardini, anche di rose, sia dal punto di vista botanico che come coltivazione. Ne è nata una gran-de passione.

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Nel mio giardino ho una piccola collezione di rose, mi piace studiarne le caratteristiche e sono in contatto con altri appassionati.

Come insegnante noto spessissimo una certa paura di sbagliare nei colleghi. A volte l’idea di coltivare un pezzo di terra con i bambini spaventa.

Io penso sia importante che questa attività venga sen-tita dall’insegnante, ma è altrettanto importante che ci sia uno spazio adatto. Se in una scuola non c’è lo spazio per un orto, ma c’è lo spazio solo per un albero, io proporrei di piantare almeno un albero da frutto.

I bambini hanno bisogno di attività che li aiutino a ca-pire da dove viene il cibo.

Se, ad esempio, a Milano riescono a far crescere un ciliegio e mangiare le ciliegie, quei bambini se lo ricorde-ranno per sempre.

Basterebbe una cassetta con la terra… In autunno si semina il grano, poi lo si vede crescere, si raccoglie, si macina, si fa il pane. Sicuramente, per quei bambini quel pane sarà magico.

La stessa cosa si può fare con il mais, oppure basterebbe coltivare delle aromatiche nei vasi, per affrontare poi un per-corso con il mondo degli odori. Ci sono tantissime attività che si potrebbero affrontare. Certo, avere un orto è il massi-mo, ma si può anche pensare a qualcosa di alternativo.

Credo sia importante, nella nostra scuola, oggi, trovare il modo di inserire queste attività perché arricchiscono il patrimonio di conoscenze dei bambini.

Perché coltivare un orto a scuola?

Sul sito www.ortidipace.org racconto le mie esperienze didattiche, in particolare l’esperienza di orto biologico, in una rubrica che si chiama «L’ortogiornale di Nadia».

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La mia scuola è frequentata dai bambini del sobborgo di Villazzano, che, pur essendo vicinissimo alla città (2 km dal centro) si trova in collina e ha la fortuna di conservare le caratteristiche del piccolo centro.

L’orto, nella scuola primaria, può diventare una bellis-sima attività di tipo trasversale.

I miei bambini hanno sempre avuto una grande simpa-tia per queste attività.

L’attività di orto è un’attività che apre altre porte. Susci-ta il piacere della scoperta, ma incoraggia la ricerca.

La mia attività di orto si svolge sia al mattino che al pomeriggio e ha la durata di due ore a settimana.

Viene svolta (tempo permettendo!) sia in autunno (fi no al mese di ottobre circa), sia a primavera.

A primavera si incomincia con le semine dei vari ortag-gi e poi con i trapianti.

Coltiviamo verdure di tutti i tipi. Le piantiamo seguen-do le consociazioni dell’orticoltura biologica e i bambini hanno imparato che queste verdure (ad esempio carote e cipolle) sono in «associazione» perché si vogliono bene, sono piante amiche e si difendono insieme dai parassiti e dalle malattie.

Ho sempre seguito l’orto anche durante l’estate, con l’aiuto dei bidelli e di qualche genitore.

Per il periodo invernale non ho previsto attività all’aper-to, tuttavia abbiamo costruito alcune mangiatoie da met-tere sugli alberi del giardino e alcuni nidi artifi ciali per gli uccellini.

Un altro aspetto importante degli orti didattici che mi preme sottolineare è la cultura del cibo.

Lavorando in un orto un bambino impara da dove vie-ne il cibo che mangia. Non è poco. Ci sono bambini che quando hanno raccolto le patate sono andati a casa feli-cissimi di aver scoperto che questi tuberi crescevano sotto terra!

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È molto importante per un bambino cogliere l’idea di ciclo. Ecco, un orto offre questa occasione! I bambini se-minano, vedono crescere una pianta, la mangiano e una parte la lasciano perché faccia i semi per l’anno dopo e così via.

Ma non solo! L’orto insegna che ci sono dei tempi. Se semino devo aspettare fi nché il seme è germogliato. È esat-tamente il contrario del «tutto e subito». È importante per il bambino vivere il tempo dell’attesa, perché ha pochissime opportunità per viverlo. L’attesa è importante perché con-tiene la meraviglia e lo stupore!

Allo stesso tempo è importante sapere da dove viene il cibo che mangiamo. Un orto offre questa opportunità, come nessun’altra esperienza. O meglio, l’esperienza da af-fi ancare sarebbe quella di avere un piccolo animale da ac-cudire all’interno della scuola. Alcune scuole hanno fatto l’esperienza delle caprette e delle galline. Io non ci ho mai provato. Credo sia un’esperienza validissima.

Io credo che i bambini di oggi abbiano bisogno di atti-vità legate alla terra.

Molto spesso nelle scuole non c’è lo spazio per un orto vero e proprio.

Noi, come insegnanti che si occupano di orti, stiamo pensando di attivarci per favorire la presa in consegna de-gli spazi pertinenti alle scuole, come ad esempio i cortili.

Piantare un albero da frutto, anche piccolo, nel cortile di una scuola può essere un’esperienza molto formativa per un bambino. Pensare a un percorso che vada dal fi ore al frutto, ad esempio, potrebbe sembrare banale, ma non lo è affatto…

Oppure predisporre orti in cassetta, semplici da accudi-re, ma molto affascinanti per i bambini.

Dotare le scuole di nidi artifi ciali e mangiatoie per gli uccellini, in modo da poter svolgere osservazioni sistema-tiche e non casuali.

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L’orto è anche una bellissima occasione per insegnare e mettere in pratica alcune «buone abitudini» come il riciclo dei rifi uti e l’educazione cooperativa.

In un orto è possibile mettere in atto alcuni obiettivi di educazione cooperativa:

• imparare a confrontarsi con gli altri• realizzare un prodotto comune attraverso attività di

cooperazione• recuperare il rapporto con la terra• riscoprire le fi liere di alcuni prodotti alimentari• scoprire le fasi della produzione agricola di alcuni

prodotti• acquisire conoscenze relative al ciclo vitale dei vege-

tali

Sono sicura che un bambino che ha avuto modo di spe-rimentare con gioia un orto o un giardino da piccolo, sarà una persona sensibile a queste attività anche da grande, perché questa sensibilità sarà depositata nella sua sfera affettiva.

Per cominciare… alcuni consigli per gli insegnanti che hanno voglia di fare un orto a scuola.

Per quanto riguarda gli attrezzi, in particolare con le classi dei piccoli, è meglio usare zappette, rastrelli e palet-te corte, cioè quelle con il manico da 25-30 cm.

Invece quando si lavora con le quarte e le quinte si pos-sono usare gli attrezzi più grandi. Sono comunque più pic-coli di quelli normali e hanno la parte metallica colorata di rosso o di blu.

Pensando a gruppi di 22-25 alunni, di età variabile, cer-cherei di procurare una quindicina di attrezzi corti e una decina di attrezzi più grandi.

Per i ragazzi delle medie consiglierei invece attrezzi normali: lo trovo più educativo, e a loro piace di più.

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Come attrezzi piccoli vanno bene zappette, palette, ra-strellini e anche i rastrelli a tre denti.

Per gli attrezzi più grandi: zappe, rastrelli e vanghe.Io tengo anche le forbici da giardinaggio; ai piccoli le

faccio usare in mia presenza. Tenete presente che gli attrezzi grandi ai bambini piac-

ciono come idea, ma poi fanno fatica a usarli e bisogna stare attenti, quando sono in tanti, a che non si urtino fra di loro e non si diano le zappe contro, perché magari si trovano un po’ troppo vicini mentre lavorano e, inavver-titamente, potrebbero urtarsi. Attenzione, poi, al classico rastrello lasciato per terra: calpestato, può trasformarsi in qualcosa di pericoloso!

Ai bambini bisogna mostrare gli attrezzi e spiegare bene come si usano, il modo giusto e quello sbagliato di usarli e anche la loro potenziale pericolosità.

I piccoli con il loro attrezzo piccolo e il loro pezzetto di terra da coltivare stanno tranquilli e di solito preferiscono mettersi accovacciati perché sono più comodi.

I grandi invece, di solito, preferiscono attrezzi più si-mili a quelli usati dagli adulti.

Sono molto utili anche i vasi di plastica (riciclando quelli delle piantine in vaso da 20-30 cm): serviranno ai bambini per metterci un po’ di tutto.

Ai bambini piace avere la propria zappetta (o paletta o rastrellino) e un vasetto dove mettere eventuali erbe, pro-dotti dell’orto o piantine da trapiantare.

I vasetti svolgono un po’ la funzione del cestino, e sono più facili da gestire se ci sono tanti bambini, anche per pulirli dopo le lezioni.

Ai bambini bisogna insegnare che gli attrezzi si usano bene e poi si mettono a posto puliti.

A San Martino (11 novembre) si mettono via defi ni-tivamente tutti gli attrezzi, pulendoli con un panno e, se necessario, ungendoli un po’. Di solito in questa giornata

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si festeggia la fi ne della stagione, con una festicciola, il ri-ordino di tutti gli attrezzi e lo scambio dei semi.

Gli annaffi atoi saranno di plastica, da 3-4 litri al massi-mo, perché altrimenti diventano troppo pesanti per i bam-bini.

Sono molto utili anche i grembiuli, quelli con un tasco-ne davanti per infi lare le cose: ci si mette un po’ di tutto…

Nella bella stagione sarà utile un cappellino per il sole e guanti da giardinaggio.

Ai bambini piace moltissimo vestirsi da ortolani: con il grembiule, i guanti e il berrettino.

L’esperienza dell’orto per i bambini è un’esperienza importante. È un’esperienza unica di sperimentazione di-retta, sul campo. Facciamo in modo che la vivano con se-renità e che sia un’esperienza prima di tutto affettiva. Se sbagliano o se arrivano troppo carichi di stress, date un po’ di tempo in modo che le tensioni si decantino. L’orto dovrebbe essere innanzitutto un’esperienza serena e pia-cevole!

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IL GIARDINO COME SPAZIO DI APPRENDIMENTO ALL’APERTO

di Alberto Rabitti

Dal progetto alle esperienze

Ciò che noi tutti, professionisti impegnati nel campo pedagogico, ci sentiamo in dovere di fare, è prima di tutto «prenderci cura» dei bambini. Così, il più delle volte, chi studia e realizza uno spazio dove giocheranno bambini di un nido si interroga prima di tutto su quante cose debba evitare, limitare o prevenire affi nché non succeda nulla di spiacevole ai bambini.

Altrettanta cura e premura dimostrerà giornalmente ogni educatore che sarà presente in quegli spazi prima e durante il gioco dei bambini. Ma tutto ciò è indispensabile quanto limitante. Prenderci cura del percorso di crescita di un bambino signifi ca anche saper strutturare spazi e attività capaci di sostenerne lo sviluppo attraverso attività continue.

La progettazione

Le linee guida delle attività che verranno proposte nel giardino devono essere alla base della sua stessa progetta-zione. Queste linee guida devono spaziare dal gioco libe-ro a molteplici attività laboratoriali in cui il giardino sia spazio di sperimentazione e di apprendimento all’aperto. Il pensiero di un giardino quale luogo di indagine, di espe-rienzalità e di ricerca per tutta la scuola deve dunque esse-re la bussola dell’arredo del medesimo.

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Materiali naturali, condizioni atmosferiche, strutture vegetali, spazi odorosi, piante colorate, pavimentazioni differenti, luoghi da coltivare, altri riservati e protetti, mo-vimenti del terreno… sono tutti presupposti di possibili attività capaci di stimolare sensorialità, fantasia, emozioni ed empatia verso il vivere vicino a queste realtà, attorno a cui può e deve maturare il percorso di crescita di ogni essere umano.

Metodo di lavoro

Se il percorso di conoscenza si forma attraverso una fi tta rete di relazioni con tutte le realtà che ci stanno at-torno – soprattutto nei primi anni di vita – non è possibile sostenere queste relazioni secondo livelli differenti, privi-legiando quelle verso le persone e le cose degli ambienti confi nati e puliti di una sezione scolastica o di una casa, a scapito di quelle in continuo divenire e imprevedibili di spazi naturali aperti e liberi.

Per fare questo non solo il gioco libero ma anche atti-vità in cui le insegnanti siano attente osservatrici di gesti, intuizioni ed emozioni dei bambini sono fondamentali in sezione quanto in giardino. L’osservazione mira a dedurre rilanci possibili non solo con gli stessi oggetti e lo stesso ambiente ma magari anche in classe.

Questo compito diventa possibile e profi cuo solo abi-tuandosi ad attività in giardino per piccoli gruppi.

Quindi un giardino non solo come spazio limitato all’uscire all’aria aperta, per stare un po’ al sole o sfogarsi perché si è stati troppo al chiuso, ma luogo di conoscenza.

Solitamente si considera il giardino quale spazio da utilizzare solo nelle giornate belle. Questo, oltre ad essere limitante per i bambini, è anche un’idea di giardino molto distante dal suo signifi cato di spazio di apprendimento.

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Per fare esperienze attorno alle quali attivare altre spe-rimentazioni possono bastare pochi minuti. Meglio allo-ra se il giardino è ricco di stimoli, di differenze capaci di dialogare con le possibili attenzioni dei bambini. Per fare questo è sempre più adeguato un giardino con attività in continuo divenire, ovvero fatto di piccoli spazi adattati ogni anno alle proprie ricerche. Un giardino fi sso e defi -nito più diffi cilmente si farà sentir proprio da insegnanti e bambini. Le educatrici, e fi n dove possibile i genitori, dovrebbero viverlo e prendersene cura. Allora ancor più i bambini si sentiranno coinvolti. Ecco a seguire alcuni di questi laboratori che il giardino ci può dare.

Terra e acqua

La terra, materiale primigenio, che tutti i giorni abbia-mo sotto i piedi andando a scuola, è una presenza costante e un gioco per ogni bambino che possa scovare una zolla da frantumare o della polvere di argilla da soffi are tra i ce-spugli di erba. La terra è l’insieme di più materiali – argil-le, sabbie e acqua – e l’inizio di lunghi percorsi di ricerca con i bambini. La fantasia può creare esperienze capaci di andare anche lontanissimo da come siamo abituati a con-siderare un mucchietto di terra. La terra del giardino di ogni scuola può essere usata, ancora secca, per giocare con i suoi granelli o per far volare il suo fumo, per colorarne le zolle, per schiacciarle come un foglio se ancora bagnate di brina mattutina. Possiamo comporre le sfumature delle terre raccolte nei cortili dei bambini o immergerci in va-sche piene di terre ruvide, morbide, fredde, «cattive», simi-li al borotalco oppure «alle carezze della mamma». Da al-cuni anni seguo progetti di atelier attorno all’introduzione dei materiali naturali più comuni nelle attività delle scuole dagli zero ai sei anni e mi rendo conto di quanta ricchezza

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possa uscire da apparenti banalità, fi no ad averne davvero troppe per riuscire ad affrontare tutte le scoperte dei bam-bini nel tempo che la vita a scuola ci concede. Quindi, inse-gnanti, abbiate fi ducia: già nella terra quando camminate o nei rametti di un albero quando vi fermate all’ombra vi sono abbastanza esperienze per potervi divertire e stupire anche voi. Pensate quante per sostenere attività di labora-torio con i bambini!

Prima di tutto, però, sarebbe già tanto accompagnarli nello stare con piacere e con curiosità vicino a queste real-tà naturali che sempre abbiamo vicino nella nostra vita.

Una volta bagnata la terra, il fango può regalare impa-sti diversi per colori, consistenza, umidità.. e permetterci di stendere, schiacciare, plasmare, rivestire, arrivando a creare quadri colorati, piccoli mattoni da scolpire, animali fantastici, casette per i giochi, castelli di terra e molto altro ancora…

Ma l’acqua non permette solo alla terra di diventare im-pasto, a volte rimane sulla sua superfi cie. Le pozze d’acqua non sono solo luoghi dove sporcarsi, ma luoghi da guarda-re, rifl essi di luce, movimenti di ombre. Accorgerci di loro e giocarci liberamente può essere l’inizio di tante attività attorno all’acqua, ai liquidi e per contrasto alle cose dure e immodifi cabili…

Strutture viventi, un mondo naturale in divenire

Qualunque giardino presenta alberi ed elementi ve-getali. L’accostamento tra la vita e l’albero è presente in tante favole e nella fantasia di molti bambini. Una pianta signifi ca anche giochi di ombra, appigli a cui appendere oggetti luminosi e colorati, rami morbidi o secchi da rom-pere, bucce di ramoscelli da manipolare, foglie da tritare e confondere con altre polveri, insomma un grande numero

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di spunti per momenti di piacevole attività con i bambini e materiali grazie ai quali sostenere i loro processi di co-noscenza.

Creare strutture vegetali – gallerie, capanne, porte, pic-coli rifugi – utilizzando rami lunghi di salice o nocciolo da piantare, intrecciare e legare in terra affi nché ritornino a germogliare ogni primavera può essere il presupposto di angoli fantasiosi del giardino, luoghi dove il vento muove le case, intrecci di luci, lunghi spazi di ombra che invita-no a correre. Inoltre, strutture naturali che giocano con i bambini e che rivivono ogni anno aiutano i bambini a sen-tire presente il divenire continuo di ciò che ci sta attorno.

Luoghi che richiedono cura e che ogni anno possono cambiare forma piegando i nuovi rami richiedono alla scuola un impegno forte ma allo stesso tempo possono di-ventare forte motivo di coinvolgimento delle famiglie e dei bambini stessi, aiutandoli a intuire gli ampi spazi di un giardino meno impersonali.

Angoli dei sensi e delle emotività

Attività che mirino a indagare i processi di apprendi-mento logico dei bambini richiedono spazi deputati e at-trezzati ad hoc da chi costruisce la scuola o, in autonomia, da chi la vivrà. Ecco che fi n dal progetto il giardino do-vrebbe tendere ad arricchirsi di luoghi diversifi cati con i quali il bambino entri in dialogo tramite sensi e linguaggi diversi. Ecco il signifi cato di spazi odorosi, di angoli con cespugli colorati, di luoghi nascosti o di altri come un pic-colo canneto o un salice piangente o un glicine a pergolato, dove la natura quasi si fa casa, o ostacolo, o rifugio amico e dove il giardino e i suoi bambini si immergono.

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Gli imprevisti prevedibili

Per fortuna ci sono imprevisti che nessun progettista potrà mai disegnare, o nessun ingegnere calcolare; espe-rienze che solo l’uscire in giardino può regalarci. Le gocce d’acqua sullo scivolo, le crepe nella terra calda d’estate, il fruscio dei cespugli, l’erba umida come una spugna, le poz-ze d’acqua sul cortile fortunatamente costruito non perfet-tamente orizzontale. Sono sorprese da osservare, presenze furtive da toccare. Non si può aspettare domani per uscire. Potrebbero non esserci più oppure essere diverse. Allora dovremmo uscire anche domani e magari dopodomani, se cambiassero ancora.

Queste piccole realtà fanno un mondo sterminato e det-tano il modo in cui usare il giardino, come un laboratorio continuo che vive col mutare costante della natura e con la curiosità nativa dei bambini.

Se poi le nostre capacità di educatori ci permettessero di rilanciarne le emozioni e le scoperte in altri contesti e con altre attività, il tempo che potremmo sottrarre alle altre abitudini giornaliere di un nido non sarebbe mai suf-fi ciente. Ma ancora una volta anche pochi minuti, pure in giornate poco belle, sarebbero una ricchezza di cui pren-dersi cura.

E se il tempo davvero non fosse suffi ciente, meglio an-cora, perché avremmo un motivo per coinvolgere ulterior-mente le famiglie attorno ai signifi cati del nostro vivere con le curiosità dei bambini e le realtà di un cortile qua-lunque.

Timori e prime soluzioni

Progettare queste realtà imprevedibili non è possibi-le, mentre è indispensabile studiare fi n da subito alcuni

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accorgimenti che aiutino le educatrici in queste attività. Queste proposte potrebbero diventare ben presto diffi cili se non fossero progettati fi n da subito accorgimenti e ri-medi anche banali ai soliti problemi che nascono quando si deve affrontare delle uscite su erba e terra o delle gior-nate nebbiose o un po’ fredde.

Lo sporco, il tempo per cambiare e pulire scarpe e ve-stiti, le diffi coltà di controllare tanti bambini che si lamen-tano o corrono dove vogliono, sono solo alcuni dei più co-muni problemi che frenano l’utilizzo del giardino.

Predisporre atri di transito tra le sezioni e il giardino, attrezzati con divanetti, contenitori con spazzole e spugne ed eventuale lavandino, inoltre avere piccoli stivaletti in mobiletti posti in luoghi comodi assieme ad abiti di ricam-bio, «da battaglia», sono accortezze essenziali.

L’organizzazione interna tra il personale scolastico deve essere pensata anche in funzione di queste attività e dei mo-menti in cui un’insegnante con qualche bambino sia fuori dalla sezione, lasciando il resto del gruppo alla collega.

Inoltre l’organizzazione delle attività per piccoli gruppi semplifi ca le attività. Non costringe le educatrici ad essere assillate dal controllo di ciò che succede, ma anzi concede loro i tempi per partecipare con i bambini quale sostegno alle attività proposte. Inoltre tale organizzazione ridurreb-be drasticamente i tempi di preparazione e di pulizia al rientro.

È essenziale fi n dall’inizio far comprendere alle fami-glie l’importanza dello sporcarsi in natura e quindi la ne-cessità di non mandare a scuola i propri fi gli con vestiti «da non sporcare» nelle giornate in cui sono previste atti-vità o possibili uscite.

Oltre che dello studio del progettista del giardino, que-ste considerazioni dovrebbero essere cardini anche della progettazione della dirigenza scolastica, in termini di atti-vità e di disponibilità del personale scolastico.

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OBBEDIRE ALLA PAURA?

di Andrea Magnolini

Dal primo orto alla manualità

Il primo orto in una scuola materna l’abbiamo realiz-zato a Chievo in provincia di Verona nove anni fa. Fu un successo, un’insegnante mi raccontava: «I bambini vanno a rubare i pomodori nell’orto, se li scambiano, mangiano l’insalata… Bimbi che non volevano mai mangiare verdu-ra prima».

Da allora «ci ho preso la mano» e abbiamo approfon-dito il tema della manualità, dell’imparare facendo, dei materiali naturali nel giardino della scuola, dei materiali destrutturati che possono essere interpretati e vissuti in tanti modi creativi da parte dei bambini.

Tronchi, pietre, tunnel e capanne viventi di salici, forni in terra cruda che sostituivano o affi ancavano i giochi di plastica già strutturati (e certifi cati).

Le paure degli adulti sono uno degli ostacoli più rile-vanti che incontro durante lo svolgimento di molti progetti che porto avanti nelle scuole come educatore ambientale. Di paure, nel mondo della scuola, dell’educazione o della famiglia, ne esistono moltissime e molto variegate: paura dell’imprevisto, paura della responsabilità, delle minacce o dei ricatti legali dei genitori, paura del pericolo in tutte le sue forme, paura di incontrare persone deviate, paura del disagio, dell’errore, del fallimento, della tristezza o della delusione.

L’infanzia è già teatro di grandi paure, paure ancestrali come quella del buio, degli animali sconosciuti, di essere

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abbandonati ecc. Il compito evolutivo delle giovani gene-razioni è quello di superare questi piccoli e grandi timori e conoscere il «mondo». Durante il viaggio, con la fi ducia infusa dagli adulti e dalle esperienze positive, il bagaglio delle paure verrà bilanciato da una curiosità onnipresente, dalla voglia di scoprire e misurarsi, propensioni tanto vive da apparire innate.

Il minor numero di fi gli ha prodotto un’iperprotezione diffusa sui minori come se fossero diventati «un investi-mento non solo economico ma anche emotivo».

Durante una conferenza sui diritti naturali dei bambi-ni e delle bambine, dopo aver visto bambini della scuola materna in gita nei boschi, per campi o che si costruivano giocattoli, un signore ha confessato: «Sì, questi giochi li ho fatti anche io ai miei tempi, anche di più pericolosi, forse ora avendo un numero ridotto di fi gli siamo anche meno disposti a rischiare».

Il risultato, visto da un trentenne che ha passato l’in-fanzia in campagna a girare in bicicletta da solo o in bran-co, ad arrampicarsi sugli alberi e costruirsi giochi e rifugi, è impressionante: oggi i bambini dell’Occidente ricco sono in una situazione di limitatezza estrema. Sempre accom-pagnati e vigilati da un adulto, custoditi in luoghi chiusi a 22 gradi (dalla casa, macchina, alla scuola, alla palestra), maniacalmente puliti e igienizzati, questi bambini hanno meno diritti dei loro coetanei del terzo mondo che posso-no girare da soli nei dintorni di casa, incontrarsi, sporcarsi e risolvere i loro confl itti da soli.

Quando si prende uno spavento, la reazione istintiva del corpo è quella di bloccarsi, sospendere il respiro. Mi pare di osservare nella scuola in generale un effetto simi-le… La paralisi didattica colpisce le scuole dove è la paura a dettar le regole. Generalmente si trovano poche attività, poco varie, fatte in spazi chiusi o molto controllati… Mi vengono in mente i bambini del tempo prolungato di una

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scuola alla periferia di Bologna, che stanno in una stanza per otto ore al giorno in 25, 26, o in 28 per classe a fare attività prevalentemente cognitive.

Un’insegnante di scuola materna mi diceva: «Sì, la no-stra coordinatrice ci tiene che i bambini siano bravi, ascol-tino, facciano le schede, che non escano in giardino, che non si sporchino… Così fa contenti i genitori». Io risposi: «Forse non accontenta veramente i genitori, ma le loro paure».

Molte scuole, a mio parere, stanno mancando il loro compito originario che potremmo chiamare «maieutica socratica», la capacità di tirar fuori da ogni allievo ciò che lo rende unico e peculiare, per farlo sbocciare, fi orire…

In questa situazione, le insegnanti sono sobbarcate della stragrande maggioranza delle responsabilità, e spes-so chi vorrebbe fare delle attività differenti è costretto/a a impegnare molte energie per la parte più noiosa del suo compito: aggirare la burocrazia o limitarsi a «contenere/preservare» bambini o ragazzi durante tutte le ore in cui sono in «custodia».

Questo compito di puro mantenimento in contenitori è palesato a volte nei nomi che prendono alcuni «servizi» proposti all’infanzia, con obiettivi per niente celati: «baby parking»… Michael Ende, nello splendido romanzo Momo aveva profetizzato questo genere di strutture chiamandole «Depo-bimbi».

In questo ambiente istituzionale ipocondriaco e aller-gico dalle responsabilità, sono sempre rimasto affascina-to dalle persone che con pochi sillogismi hanno saputo smontare le paure più comuni e apparentemente insupe-rabili mettendone in luce gli aspetti più irrazionali. C’è chi parla di bimbi scomparsi dalle nostre città, confi nati in aree gioco, che passano da un contenitore a un altro,

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continuamente autotrasportati perché la strada viene vista come mortalmente pericolosa… «Ci sono le macchine… Eppure ci sono bambini che sono tutto il giorno in mezzo al traffi co, i bambini rom per esempio sono agli incroci più frequentati dalla mattina alla sera. Quanti articoli ave-te letto di bambini rom investiti per strada?».

Anche il dirigente scolastico Gianfranco Zavalloni in-coraggiava a fare gite a piedi e in bicicletta, far usare mar-telli e chiodi ai bambini.

Vogliamo tenerli lontani dai pericoli, eppure il 99% dei ra-gazzini alle medie ha un telefonino o usa i videogiochi per diverse ore al giorno quando sappiamo che sono strumenti pericolosi anche per gli adulti…Dobbiamo renderci conto che quando cresceranno, a 16 o 18 anni, per diritto naturale si allontaneranno da noi. A questo punto, se non hanno avuto la possibilità di fare una serie di esperienze che li hanno portati a familiarizzare col pericolo, saranno più o meno indifesi? Correranno meno rischi se li abbiamo tenuti sotto una cam-pana di vetro? (…) A cosa dovrebbe servire la scuola se non a diventare curiosi, a imparare a imparare e a vincere le pro-prie paure?

Esplorare, fare attività libere non programmate da-gli adulti, giocare, sporcarsi, imparare con il corpo, con le mani (anche con qualche cerotto), coltivare un orto o un giardino, cucinarsi del cibo e mangiarlo insieme, sta-re all’aria aperta con il «giusto equipaggiamento» anche quando c’è nuvolo, pioviggina o c’è la nebbia…

A mio parere l’abilità di un educatore è proprio quella di saper osservare i bambini in queste esperienze, intuire l’indole d’ogni persona e proporre al momento giusto le attività che possano aiutarla ad approfondire, a migliora-re, a scoprire e scoprirsi, aiutarla a «seguire la sua stella, il suo destino».

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Un sentimento che parla

La paura è un sentimento naturale, fa parte della no-stra intelligenza emotiva, è utile e funzionale all’evoluzio-ne della specie. È la reazione di fronte a qualcosa che non si conosce; più grande è la nostra paura, maggiore è la nostra ignoranza di fronte alla situazione. Quando ci met-tiamo ad ascoltare le nostre paure scopriamo che hanno molto da dirci sul mondo ma soprattutto su come noi ve-diamo il mondo, sulle nostre esperienze passate, su come percepiamo noi stessi, sulle nostre convinzioni e i nostri schemi, su come prepararci, agire e apprendere di fronte a nuove sfi de per acquisire fi ducia.

In questo «percorso» si impara ad affi nare l’intuito, a distinguere le voci che sentiamo dentro di noi quando dob-biamo prendere una decisione, a riconoscere, piano piano, da dove provengono.

Secondo me bisognerebbe ammettere i nostri timo-ri prima di tutto con noi stessi, parlarne con gli altri per iniziare a dialogare con le nostre paure, non obbedire ad esse… E poi, naturalmente, attraverso il nostro esempio, permettere ai bambini di fare altrettanto.

La nostra società non sembra valorizzare queste «abili-tà sottili», anzi provate ad ascoltare un telegiornale: quante notizie mettono paura? Gli psicologici sanno che il nostro cervello, quando percepisce un pericolo o una situazione d’emergenza, attiva una delle sue parti più primitive. Esso tende a diventare «binario», a scegliere fra due alternative semplici: sì/no, buono/cattivo, mi piace/non mi piace (ri-conducibili all’attacco o alla fuga). Con più calma, l’uomo potrebbe invece utilizzare tutto il suo potenziale razionale che risiede nella corteccia. Questa parte dell’encefalo per-mette di analizzare, notare le sfumature, confrontare, ve-dere quello che non c’è e prendere decisioni tenendo conto di una complessità di fattori.

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Spesso i mass media abituano gli individui a percepire situazioni di emergenza (criminalità, terrorismo, guerra, malattie, clima). Abituare una popolazione a questo tipo di minacce incombenti facilita l’accettazione delle poche proposte offerte ad hoc giusto nel momento di massima urgenza. Queste «vie d’uscita» vengono spesso percepite come le uniche alternative anche se spesso sono propo-ste arbitrarie, che nascondono interessi economici o sono funzionali ad alcuni poteri. In defi nitiva molti concordano che la paura aiuta ad aumentare i consumi e ad avere un popolo più gestibile.

«Non vi è nulla di più incontrollabile di una persona felice che vive nell’entusiasmo. Non vi è nulla di più facile da controllare di una persona infelice che vive nella pau-ra» (Fabio Marchesi).

Obbedire alla paura?

A livello psicologico e individuale, cosa succede se in-vece assecondiamo le nostre paure? Quando iniziamo a «obbedire» alle nostre paure? Proviamo a vedere quando queste degenerano in una sorta di malattia, perché, come diceva Freud, «è osservando il patologico che si può capire come “funziona” il normale».

C’era un uomo sui 45 che andò dal medico per farsi prescrive-re dei ricostituenti (…) il medico iniziò a parlare e scoprì che il paziente dormiva poco (…) non perché soffriva d’insonnia ma perché si alzava prestissimo la mattina (…) L’uomo dopo un po’ confessò di aver avuto un attacco di panico in una piazza dove c’erano anche dei piccioni. Questa esperienza è stata per lui emotivamente molto forte, racconta di aver avuto l’impressione di essere in balia di un pericolo estremo e la sensazione di poter morire da un momento all’altro. Da

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quel giorno, pur non essendo stati la causa scatenante, quan-do vedeva piccioni il cuore cominciava a battergli più forte e la sudorazione aumentava. Da allora aveva preso a evitare i posti dove si trovavano i volatili (…) Dopo un po’, l’uomo evitava anche posti dove, anche se non erano presenti, ne aveva visto qualcuno anche per una sola volta. Purtroppo questi luoghi erano sulla strada che abitualmente percorre-va per andare al lavoro, allora, per evitarli, doveva fare dei giri lunghissimi e tortuosi e alzarsi prestissimo al mattino. E così dormiva poco la notte…

Alla fi ne, Chiara Colla raccontava come «queste per-sone cominciano ad aver paura della paura e si ritrovano proprio a vivere una vita “grama” con molte limitazioni che aumentano sempre di più».

Questo caso ci fa entrare un po’ di più nel modo di s-ra-gionare della paura, quando prende il controllo della men-te e delle azioni. Qualsiasi espediente si metta in atto, l’ego non si sentirà mai abbastanza «al sicuro», anzi chiederà nuove attenzioni e stratagemmi per sentirsi al riparo.

Molti psicologi concordano che tutte le fobie e le paure hanno una radice comune, ovvero la «paura di morire». Se noi adulti vogliamo avere una relazione educativa sana e non aggravata dalle fobie, è con questo «gigante» che dob-biamo confrontarci e risolverci.

Non sono un esperto, ma penso che la «paura di mo-rire» e la paura di «non poter far nulla» siano fortemente collegate «alla paura di vivere» e a quella di «poter far la cosa giusta al momento giusto».

Un amico frate mi raccontava di una ragazza che da quando è nata aveva in testa i delfi ni. Li disegnava, li guar-dava nei documentari… A 20 anni aveva un lavoro sicuro e ben retribuito in una banca, diversi hobby e una normale vita sociale e ovviamente l’interesse per i delfi ni. Un gior-no arriva un’offerta dalla Florida per seguire, in un parco

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acquatico, alcuni di questi animali… La ragazza, contra-riamente al parere di tanti, tra cui parenti, genitori, con-trariamente ai calcoli di ciò che conviene, prese e partì per l’America dove non conosceva nessuno… semplicemente per seguire la sua stella. Anche se l’esperienza fosse andata male, penso che rifarebbe la scelta.

Cosa sarebbe successo a quella ragazza se non avesse colto l’occasione o la «sfi da» di seguire la sua passione? Anche lei, al momento della decisione, avrà certamente avuto dubbi, perplessità ecc. Se avesse deciso di restare, probabilmente avrebbe cominciato a maturare rimorsi, forse angosce, magari proprio quella di una vita che passa senza che questo tipo di occasioni si possano ripetere...

Buttarsi in una relazione affettiva profonda, aprire un’attività economica, sociale, culturale sono «viaggi» di cui non si conosce la meta, la possibilità di successo, l’en-tità delle diffi coltà e delle proprie risorse. Ma chi coglie questo invito a «camminare» ha l’occasione di trovare sé stesso, la sua vera natura, compiendo un viaggio innanzi-tutto fra le sue paure, confrontandosi con esse… I tesori di questo viaggio potranno essere rappresentati dalla pru-denza, dalla temperanza, dall’obiettività derivata dall’aver distinto fra timori motivati e invenzioni della mente, dalla fi ducia in sé stessi, nella provvidenza e nel poter incontra-re persone positive.

Alla domanda: «Lei ha mai avuto paura?», il giudice Borsellino rispose: «Certo, ne ho sempre, ma continuo a fare quello che faccio, la paura non è il contrario del co-raggio. Chi non ha mai paura non è un coraggioso, è un incosciente… La viltà è il contrario del coraggio».

Penso che, come l’ottimismo e l’allegria, anche la paura e l’ansia siano contagiose. Molto spesso un bambino impa-ra ad avere una reazione emotivamente allarmata quando vede un genitore che si spaventa… Pensiamo a quando un

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bambino si taglia e si trova di fronte un adulto che si agita in maniera sproporzionata, oppure a quando i grandi gri-dano davanti a insetti innocui o topolini…

Forse lo scoglio che devono affrontare la nostra società, la scuola e i genitori è proprio quello di prendere coscien-za e superare le proprie paure per permettere ai bambini di fare altrettanto.

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L’ORTO IN CONDOTTA: L’ESPERIENZA DI SLOW FOOD

di Annalisa D’Onorio

Stagionalità e convivialità

Stagionalità e convivialità, economia locale e memoria sono tra i principali temi su cui si fonda l’educazione ali-mentare e del gusto di Slow Food.

Per trasmettere alle nuove generazioni questi concetti ormai da alcuni anni l’associazione fondata da Carlo Petri-ni utilizza il progetto degli school gardens (orti scolastici), che in Italia prende il nome di «Orto in Condotta».

Gli school gardens nati in collaborazione con Slow Food in tutto il mondo assumono nomi e connotazioni diversi a seconda delle peculiarità locali, ma ruotano attorno ai medesimi capisaldi: coinvolgere attivamente i ragazzi a ri-prendere un rapporto con la terra e a costruirsi un corretto stile alimentare.

Il progetto di Slow Food Italia ha saputo creare dal 2006 una rete di 301 orti scolastici in ogni angolo della penisola, da Tolmezzo a Lentini, passando per Roma e Milano (vedi scheda Gli Orti in Condotta in Italia). Con queste esperienze i bambini, a scuola, hanno cominciato a prendersi cura di orti che pian piano sono cresciuti in dimensioni e biodiversità. In molti casi scuole di ordine e grado diversi collaborano tra di loro a questa nuova espe-rienza. Studenti dai 3 ai 13 anni (in alcuni casi anche fi no ai 18) imparano che cosa sono la pacciamatura, le conso-ciazioni, il sovescio e come si coltiva un orto biologico, iniziando a toccare con mano il signifi cato di stagionalità e di attesa.

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Jean Piaget, padre della psicologia evolutiva, ci ricor-da che «un ambiente di apprendimento fertile e multisen-soriale è fondamentale per il pieno sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino». In questo senso l’orto scolastico funziona splendidamente.

Per un’associazione che lavora da sempre sul piacere del cibo, sull’educazione dei sensi e sulla multidisciplina-rietà della gastronomia, l’orto diventa l’esperienza per ec-cellenza.

Con l’attività nell’orto e poi con i laboratori del gusto in classe si impara a riconoscere un frutto o un ortaggio toccandolo, annusandolo e naturalmente assaggiandolo. L’uso dei sensi diventa poi fondamentale quando i pro-dotti dell’orto vengono portati in cucina e preparati per la mensa: i bambini apprezzano moltissimo il fatto che il loro lavoro, la loro fatica, anche i loro insuccessi (con cui anche gli adulti sono sempre meno abituati a relazionar-si), arrivino sulle tavole imbandite all’ora di pranzo. L’orto a scuola è solamente un punto di partenza: per conoscere meglio il cibo e provare a cambiare qualche abitudine ali-mentare non proprio virtuosa.

Gli Orti in Condotta nascono con la collaborazione dell’organo che, sul territorio, rappresenta l’associazione ed è chiamato, appunto, Condotta. I suoi componenti, tut-ti volontari, si occupano dei molti progetti che Slow Food promuove in Italia e nel mondo, tra cui quelli educativi.

L’elemento signifi cativo, riscontrato negli anni, su cui Slow Food ha voluto soffermarsi, è che partendo dall’orto può nascere una vera e propria comunità dell’apprendi-mento in cui ogni componente, che sia bambino, genitore, insegnante, ortolano, o semplicemente abitante del paese o del quartiere, mette a disposizione degli altri i suoi sape-ri e impara qualcosa. Attorno all’orto nasce una comunità educante in cui vi è un vero e proprio scambio di sapienze, conoscenze, competenze, dove vige un apprendimento co-

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operativo e dove vengono condivisi anche doveri e piaceri. Una comunità di persone, questa, che diviene un collettivo a difesa della cultura agricola, alimentare e gastronomica del territorio.

Per stimolare la nascita e lo sviluppo della comunità dell’apprendimento è nata la fi gura dell’animatore dell’or-to, a cui è stato dedicato un primo corso di formazione nel giugno del 2010. Sono gli animatori dell’orto che, nelle Condotte, hanno il ruolo di mantenere in rete gli orti ita-liani, tra di loro e con quelli internazionali, e di contribu-ire, con idee e progetti locali, alla vivacità della comunità dell’apprendimento.

Un’occasione per aprire l’esperienza degli orti alla co-munità locale è quella che ogni anno, a partire dal 2008, viene offerta con la festa nazionale degli Orti in Condotta. La festa si celebra l’11 novembre, il giorno dell’Estate di San Martino, ovvero quando fi niscono l’anno agricolo e i contratti agrari, e quindi anche gli orti scolastici possono iniziare il meritato riposo invernale, almeno in campo.

Le attività in classe durano invece tutto l’anno. Slow Food organizza nelle scuole coinvolte la formazione (vedi scheda La formazione a pag. 79) di insegnanti, genitori e nonni ortolani per dare loro gli spunti non solo per colti-vare l’orto in modo ecologico ma anche per affrontare da più punti di vista l’alimentazione. Ognuno dei tre anni di formazione previsti dal progetto ruota attorno a un tema centrale: l’orto e la sensorialità, l’educazione alimentare e ambientale, la cultura del cibo e la conoscenza del territo-rio. In classe si lavora perché questi temi siano affrontati durante le ore di scienze come di lingua, perché il cibo e l’alimentazione sono materie interdisciplinari. Si lavora anche perché sia riconosciuto al cibo il giusto valore nutri-zionale come culturale.

Se si parla per esempio di biodiversità, riscoprendo i frutti antichi o le vecchie varietà della propria zona, ma-

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gari ricominciando a coltivarli proprio a scuola, se ne può contribuire alla tutela, che rappresenta un passaggio es-senziale per lasciare alle generazioni future un pianeta non troppo compromesso.

Ecco allora che la scuola, intesa come luogo che educa gli studenti ma anche i genitori, può svolgere un ruolo dav-vero importante per il cambiamento degli stili alimentari in famiglia, nell’alimentazione quotidiana, obiettivo ulti-mo di ogni progetto educativo che vuole mettere al centro il cibo dalla terra alla tavola. L’orto diventa «strumento» di conoscenza e soprattutto restituisce alla scuola il ruolo centrale che dovrebbe riacquisire nella società.

GLI ORTI IN CONDOTTA IN ITALIA

Come ogni essere vivente che si rispetti, ogni Orto in Condotta ha la propria storia. La maggior parte nasce dalla volontà di insegnanti e genitori di uscire dai binari degli abi-tuali programmi scolastici per adottare una didattica parte-cipata e incentrata su argomenti che hanno a che fare con la vita quotidiana. La validità dell’orto scolastico risiede anche nella sua adattabilità: non è necessario avere un grande ap-pezzamento da coltivare per far lavorare i bambini nell’orto. La collaborazione e il rispetto nell’orto si «imparano facen-do» e c’è spazio per tutti quando si tratta di osservare e di prendersi cura del suolo, dei semi, delle piante e degli insetti. Per questo motivo sono nati orti nelle grandi città come Mi-lano, Roma e Torino, dove una parte del cortile della scuola è stato strappato al cemento per essere coltivato, così come nei paesi più piccoli, dove c’è più terra a disposizione ma non necessariamente altrettanta attenzione alla sua cura. Al-

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cuni orti nascono in progetti che coinvolgono più Comuni sullo stesso territorio è il caso di «Un Appennino di Orti» nato in provincia di Forlì-Cesena. Nelle 12 scuole coinvolte, 500 bambini si danno da fare per riscoprire i prodotti e le tradizioni agricole del territorio, mantenendole in vita con la pratica quotidiana nell’orto. Altri ancora sono addirittura progetti regionali, che cercano di far sviluppare in territori e scuole molto diversi lo stesso senso di riscoperta del rap-porto diretto con il cibo. Ne sono esempio i 12 orti nati in Calabria nell’anno scolastico 2009-2010.

LA FORMAZIONE

L’elemento comune a tutti gli Orti in Condotta italiani è il programma di formazione che Slow Food organizza per gli insegnanti e i genitori. Si tratta di un percorso che accompa-gna le due fi gure di riferimento per gli studenti in età scolare alla conoscenza dell’alimentazione, a partire dall’orto e a fi -nire con le ricette del territorio. L’aggiornamento degli inse-gnanti è curato dai formatori Slow Food che hanno seguito il corso di formazione specifi camente dedicato al progetto Orto in Condotta in collaborazione con la Condotta locale. L’attivi-tà di formazione si articola su tre anni, ognuno dei quali conta tre lezioni: nella prima annualità, in preparazione alle attività nell’orto, gli insegnanti seguono delle lezioni teoriche e prati-che sull’orticoltura e sulla scoperta degli alimenti attraverso i sensi; nella seconda si preparano a organizzare attività di educazione ambientale e ad insegnare ai bambini un approc-cio corretto all’alimentazione e al momento della spesa; infi ne al terzo anno si scopre, attraverso la conoscenza dei prodotti e della gastronomia del proprio territorio, la storia dell’alimen-tazione che parallelamente a quella delle guerre e dei trattati politici ha portato alla defi nizione della nostra cultura.

Nella terza lezione di ogni annualità i formatori propon-gono agli insegnanti lo studio e la realizzazione di giochi e

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attività da riproporre in classe con i ragazzi sulle tematiche dei primi due incontri.

Nell’anno scolastico 2009-2010 sono stati 1.200 gli inse-gnanti che hanno partecipato ai corsi di formazione del pro-getto Orto in Condotta e che hanno poi riportato nelle loro classi i contenuti condivisi in aula.

Alla lezione sull’orticoltura ecologica, che si tiene al mo-mento dell’avvio dell’orto, partecipano anche i nonni ortola-ni. Con l’esperienza maturata negli anni essi possono inter-venire raccontando le loro tecniche di coltivazione e i loro piccoli segreti, ma sono anche invitati a mettere in dubbio alcuni saperi, come quelli frutto del ricorso massiccio, nei decenni passati, alla chimica confezionata in pratiche tani-che di pesticidi e diserbanti.

Gli incontri con i genitori hanno lo scopo di condividere alcuni temi del percorso di aggiornamento degli insegnanti e a integrare ancora di più la famiglia nella comunità dell’ap-prendimento.

Oltre al piacere della reciproca conoscenza, gli incontri con gli insegnanti, i nonni, i genitori e la Condotta permet-tono ai membri della comunità di conoscersi e di crescere insieme.

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L’OMAGGIO DI TONINO GUERRA:IL MANIFESTO DELL’ORTO

di Gigi Mattei Gentili

L’Orto dei frutti dimenticati è stato realizzato a Pen-nabilli, in Valmarecchia, nel 1990 da varie associazioni locali in collaborazione con l’Amministrazione comunale. È un’idea di Tonino Guerra, che ha voluto un «museo dei sapori utile a farci toccare il passato». Si trova in una ma-gnifi ca posizione, nel centro storico del paese, in un ter-reno abbandonato da decenni, già orto del convento dei frati missionari. Consiste in una «raccolta» di alberi da frutto appartenenti alla fl ora spontanea delle campagne appenniniche, presenti nei vecchi orti delle case contadi-ne ma che oggi, non essendo più coltivati, vanno scompa-rendo: svariate specie di mele, pere selvatiche, bacche e frutti di bosco che la moderna agricoltura ha allontanato quasi anche dalla memoria. Tra i più insoliti: l’azzeruolo (piccole bacche rosse o gialle con grossi semi e poca pol-pa dal sapore di mela), la pera cotogna, la corniola (una sorta di ciliegia allungata), il giuggiolo (che produce delle «olive» dolciastre), l’uva spina, la ciliegia cuccarina, il bi-ricoccolo (susina blu con la buccia vellutata come quella dell’albicocca). Da alcuni anni, anche grazie all’esperienza dell’orto nella scuola media, è nata a Pennabilli una fi era dei «frutti ritrovati».

Ora Tonino Guerra, amante degli orti, ci ha voluto re-galare un vero e proprio Manifesto dell’orto. È una dolce poesia dedicata a tutti coloro che mettono le mani in que-sti piccoli rettangoli di terra detti «orti».

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Il manifesto dell’orto

L’orto per me è uno spettacolocome può essere una nevicatao una pioggia sulle foglie

Ogni volta che mi capita di vedere questi piccoli rettangolicurati in ogni granello di terra da persone anzianemi siedo su fragili panche e guardo le fi le dell’insalatale canne che reggono i pomodorie le scure melanzane e i cespugli di rosmarino

Mi sento di essere contadinocome tutti quelli che stavano attorno al mio paese

Bisogna tornare ad amare la terraavere il godimento che ci procura la fi oriturae la comparsa dei frutti e di tutte le produzioni di alimenti

Conta di più mostrare ai bambinidelle aiuole di un ortoche le pagine di un libroriempire di stupore la fantasia dei ragazzicon lo spuntare di una fogliae il lento apparire di un colore sul pomodoro

Tonino Guerra

Pennabilli, 2010

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SUGGERIMENTI PER UN PICCOLO ORTO BIOLOGICO A SCUOLA

Realizzare un orto a scuola rientra pienamente in un ciclo che possiamo defi nire naturale:

> mensa > residui della mensa e della cucina per fare compost > orto biologico per produrre ortaggi, cereali, frutti > i prodotti dell’orto per essere consumati in mensa.

Questo schema ciclico ben si inserisce nei progetti di educazione all’ambiente.

Se dalla terra «noi prendiamo» è perché «diamo» il no-stro lavoro e i residui biologici.

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In un primo momento progettuale è bene fare una «mappa concettuale» per capire come l’orto si colloca all’interno delle relazioni fra scuola e territorio.

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Una serra, realizzata insieme ai genitori, con materiali di recupero è anche un modo per delimitare un’area che possiamo utilizzare soprattutto nel periodo invernale per fare un semenzale o un piccolo vivaio.

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Se il terreno è in pendenza, prepara il terreno, predi-sponendo anche piccole terrazze.

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La terra viene rivoltata leggermente e liberata dalle erbe, per poter seminare.

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L’operazione dello zappettare è estremamente coinvol-gente e mette in gioco competenze varie oltre a stimolare abilità.

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Gli avanzi della mensa, della cucina, insieme a foglie, trucioli e altri residui biologici servono per il cumulo del compost.

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Il processo di decomposizione avviene grazie all’in-stancabile lavoro di microrganismi. Alzando una zolla di materiale è possibile vedere una grande vitalità.

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La concimazione dell’area dove verranno poi seminati nuovi ortaggi.

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Generalmente, al ritorno, dopo l’estate, l’humus che abbiamo nel cumulo del compost viene utilizzato per con-cimare l’orto.

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Possiamo anche predisporre un piccolo vivaio per ave-re poi piantine da trapiantare ai bordi dell’area dell’orto. Possiamo trovare questi semi anche vicino a scuola. Come piccolo vivaio possiamo usare una cassetta di legno, facen-do poi un impasto di sabbia e humus (terriccio o torba).

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Questo piccolo vivaio va tenuto all’aperto e, a prima-vera…

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… quando i semi saranno germinati e si vedranno piccole piantine, si potrà effettuare il trapianto.

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Nella serra possono essere coltivate piante anche nel periodo freddo. Se metteremo a dimora erbe profumate, avremo una vera e propria «casa dei profumi».

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Annaffi are è una operazione piacevole, che vede coin-volti i bambini, giorno dopo giorno.

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La semina dei piselli può avvenire anche in autunno.

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I semi vengono ricoperti con un piccolo strato di terra. Generalmente si coprono con uno spessore equivalente a uno o due volte il diametro del seme.

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Di alcune piante, ad esempio le fragole, non si fa la se-mina, ma il trapianto delle pianticelle nate per talea.

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Il momento bello e fi nale: si può raccogliere.

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ORTI IN RETESiti internet dedicati a orti, giardini e dintorni

a cura di Chiara Spadaro

Storie di orti e giardini

www.ortidipace.org Racconti dagli spazi verdi di tutto il globo, piccoli consigli per aspiranti ortolani e suggerimenti per letture a tema: il sito «Orti di Pace» è il luogo dove si intrecciano legami tra la natura, l’ambiente e le comunità.

www.compagniadelgiardinaggio.it Esperienze di giardinaggio e non solo: una vera e propria compagnia verde dalla quale c’è sempre qualcosa da sco-prire.

amicidellorto.splinder.comIl blog dedicato agli orti biologici e alle antiche varietà or-ticole.

www.galbuserabianca.comNell’oasi di biodiversità Galbusera Bianca, a Rovagna-te (Lc), si possono fare quattro passi nella natura, par-tecipare a seminari a tema, raccogliere i doni dell’orto e cucinarli per mangiare in compagnia nell’«osteria bio».

www.cuccagna.orgCultura, verde e aggregazione in un nuovo spazio pubbli-co: un bell’esempio di recupero della settecentesca Casci-na Cuccagna, nel cuore di Milano.

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www.horti.unimore.itUna vera mappa degli orti e dei giardini botanici in Italia: ciascun orto è descritto con una scheda che ne racconta la storia, la struttura e le collezioni.

www.criticalgarden.comGiardinaggio critico d’assalto: un blog dove si trovano consigli su come diventare critical gardeners e utili sugge-rimenti di giardinaggio urbano.

www.guerrillagardening.itIl sito dei «guerriglieri verdi» che si oppongo al degrado urbano prendendosi cura delle aiuole e le zone verdi di-menticate delle città.

www.ortourbano.itSe vivete in città, ma non potete rinunciare a zappare la terra, questo blog è quel che fa per voi: coltivatori urbani di tutta Italia si raccontano in questo spazio virtuale.

www.cascinabollate.orgIl sito della cooperativa sociale che riunisce giardinieri li-beri e detenuti sotto lo stesso vivaio all’interno della Casa di reclusione di Milano-Bollate.

www.prospecierara.ch Fondazione svizzera per la diversità socioculturale e ge-netica dei vegetali e degli animali con sede in Canton Ti-cino.

spiazziverdi.blogspot.comOrtolani di laguna: l’ala «verde» dell’associazione cultura-le Spiazzi, a Venezia.

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coltivarcondividendo.blogspot.comQuesto gruppo – nato da un comitato che si oppone a una fonderia a Fonzaso (Bl) – è diventato in breve tempo un interessante spazio di informazioni su sementi antiche, agricoltura bio e naturale.

www.arcoiris.itPiccola ditta sementiera specializzata nella produzione di sementi biologiche e biodinamiche, con oltre 200 diverse varietà.

www.vivaibelfi ore.itDa oltre 25 anni i vivai Belfi ore raccolgono, conservano e riproducono varietà antiche (e non solo). A Lastra Signa (Fi).

www.lizchristygarden.orgIl primo community garden di New York, fondato nel 1973 (sito in inglese).

www.terrevivante.orgL’ecologie pratique, da 30 anni a Mens, in Francia (sito in francese).

www.seedsavers.netConserva la base genetica del cibo di domani. Seed savers Australia (sito in inglese).

Didattica nell’orto e educazione ambientale

www.scuolacreativa.itCreatività didattica, ecologia, arte e burattini.

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www.tecnologieappropriate.itTecnologie «a misura d’uomo» presso l’Ecoistituto di Ce-sena.

www.passileggerisullaterra.itMestieri etnici, materiali naturali, educazione ambientale.

www.slowfood.itBuono, pulito e giusto: il sito dell’associazione internazio-nale non-profi t nata in Italia nel 1986.

www.ortogiardinoterapia.orgIl sito del progetto «Ortos», l’Osservatorio in rete telema-tica dell’ortoterapia nel sociale, sullo scambio di informa-zioni ed esperienze nell’ambito dell’orto-giardino-terapia.

www.eugea.itEcologia urbana, giardini e ambiente. Un gruppo di ricer-catori del Dipartimento di scienze e tecnologie agroam-bientali dell’Università di Bologna lavora per riportare la natura e la sua bellezza in città.

www.permacultura.itAccademia italiana di permacultura, per un utilizzo soste-nibile della terra.

www.agricolturasinergica.itIl sito della libera scuola di agricoltura sinergica che pren-de nome da Emilia Hazelip, agricoltrice spagnola che ela-borò per prima il metodo sinergico.

www.croceviaterra.itIl Centro internazionale Crocevia si occupa di comunica-zione sociale ed educazione ambientale e ogni anno orga-nizza il Festival audiovisivo della biodiversità [www.me-diatecadelleterre.it].

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www.biodiversito.itIl sito della «Rete delle scuole per la biodiversità», gestito dall’associazione culturale Quarta Coordinata, coinvolge dieci scuole d’infanzia, primarie e secondarie del Lodigia-no e dell’area sud di Milano in un progetto di educazione ambientale.

www.stuard.itIl sito dell’azienda agraria sperimentale Stuard, a San Pancrazio (Pr), che organizza la «Scuola della biodiversità parmense» e si occupa di varietà antiche.

Associazioni bio e reti rurali

www.semirurali.net Nata nel 2007, la «Rete semi rurali» raggruppa 11 realtà impegnate nella difesa dell’agricoltura contadina e della biodiversità agricola.

www.assorurale.it L’Associazione rurale italiana lavora in favore di un’agri-coltura contadina sostenibile, attenta all’ambiente e al la-voro dei produttori, nel rispetto della natura.

via.campesina.org La Via Campesina. International Peasant Movement (sito in inglese).

www.campiaperti.orgAssociazione di produttori e consumatori del territorio bo-lognese per il sostegno dell’agricoltura contadina.

www.quarantina.itIl Consorzio della Quarantina – associazione per la terra e la cultura rurale – si dedica al recupero delle antiche cul-

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ture (come la patata Quarantina Bianca) e degli antichi saperi rurali del Genovesato.

www.kokopelli.itIl sito italiano dell’associazione francese che recupera va-rietà dimenticate di frutti e ortive.

www.arcopa.it Associazione ricerca e conservazione piante alimentari. Ha sede a Lucca, e – su richiesta – dispensa semi di varietà antiche e non.

www.retegas.orgRete nazionale dei Gruppi di acquisto solidale (Gas), per rifl ettere collettivamente sui propri consumi e agire attiva-mente in direzione di un’altra economia.

www.civiltacontadina.itIl sito dell’associazione Civiltà Contadina è una strepitosa fonte di informazioni sulla biodiversità rurale: semi di va-rietà antiche, ricette biodiverse, appuntamenti nell’orto e in piazza. Troverete tutto questo e molto di più.

www.archeologiaarborea.orgL’Associazione Archeologia Arborea ricerca e salva specie e varietà locali, si occupa di educazione ambientale e pro-pone di «adottare una pianta». Ha sede a San Lorenzo di Lerchi - Città di Castello (Pg).

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GLI AUTORI

Annalisa D’Onorio si è laureata, nel 2005, in Scienze poli-tiche internazionali e diplomatiche presso la facoltà di Scienze politiche di Torino con una tesi sulla legislazione alimentare europea. Nel 2006 ha conseguito il Master in Scienze gastro-nomiche e produzioni di qualità presso l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo, sede distaccata di Colorno, con la tesi Un sito internet per gli orti scolastici. Dal 2006 lavora nell’Uf-fi cio educazione di Slow Food Italia e segue il progetto «Orto in condotta».

Andrea Magnolini è nato a Brescia e oggi vive in campagna nel bolognese. Laureato in Scienze dell’educazione ha sempre affi ancato l’attività di studio con lavori pratici e manuali. È ap-passionato di mestieri tradizionali e dell’apprendimento in ge-nerale e non cessa di stupirsi di tutto quello che la natura offre. Tra le sue attività troviamo: orti scolastici, giochi di una volta, cesteria, autocostruzione con materiali naturali, forni di terra e formazione agli insegnanti e adulti. Quando gli domandano: «Ma tu, che lavoro fai?», non sa mai cosa rispondere. Allora ha aperto il sito internet www.passileggerisullaterra.it.

Gigi Mattei Gentili è nato a Pennabilli (Rimini) nel 1943, durante la seconda guerra mondiale. Si è diplomato in Scienze motorie a Bologna e ha insegnato educazione fi sica presso l’Isti-tuto comprensivo di Pennabilli. Sposato con tre fi glie, dal 2004 è pensionato e si occupa, come volontario, dell’Associazione To-nino Guerra, aiutando a organizzare gli eventi. In particolare cura la manifestazione «Gli antichi frutti d’Italia si incontrano a Pennabilli», che si svolge il sabato e la domenica della prima settimana di ottobre. Ricerca e spesso scova fra i contadini della sua valle, esperienze di vera biodiversità.

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Nadia Nicoletti, maestra elementare dal 1975, vive a Vigolo Vattaro, suo paese natale, in Trentino. Fin da piccola ha svilup-pato la passione per le piante stando accanto alla nonna.

Le piace insegnare ai bambini a coltivare l’orto e prendersi cura delle piante, dell’ambiente e dei piccoli animali. Sul sito www.ortidipace.org cura una rubrica in cui racconta le avven-ture dei bambini, tra cavoli e zucchine. Ha pubblicato L’insalata era nell’orto con Salani Editore (2009). L’altra sua grande passio-ne sono le rose: nell’orto-giardino di casa ha una collezione di rose rare e particolari che cura personalmente. E, a proposito di rose, è tra i giurati di vari concorsi: Ginevra, Roma e Monza.

Pia Pera ha scritto di natura, paesaggio e giardino in L’orto di un perdigiorno (Ponte alle Grazie 2003, TEA 2007, Premio Grin-zane Villa Hanbury), Il giardino che vorrei (Electa 2006), Contro il giardino (Ponte alle Grazie 2007), Giardino&Ortoterapia. Col-tivando la terra si coltiva anche la felicità (Salani Editore 2010). Nel 2006 ha ideato il portale www.ortidipace.org, polifonia or-ticola intesa come servizio a chi ha intenzione di passare dalla voglia di fare al fare. Ha tradotto Il giardino segreto di Frances H. Burnett realizzandone un adattamento teatrale con Loren-za Zambon. Collabora con Gardenia, Internazionale e Il Sole 24 Ore. Sono uscite, a sua cura, traduzioni di Puškin, Avvakum, Lermontov e Tre racconti di –echov (Voland 2011) incentrati sul tema del rapporto tra uomo e natura.

Alberto Rabitti, dopo gli studi di ingegneria, ormai alle spalle, ha concentrato le sue attività nella realizzazione di spazi verdi per il gioco dei bambini e laboratori con materiali natura-li. La passione è tale che queste attività sono diventate il centro della sua professione e della sua ricerca. Vive tra Tabiano, sulle prime colline di Reggio Emilia, e l’Ecoistituto di Cesena dove sperimenta le idee di cui sono fatti i progetti che porta avanti.

È un grande ricercatore di tutte quelle esperienze che sono in sintonia con le sue idee e le sue proposte e, col suo fi uto, scova libri, siti internet, associazioni. Poi, con grande umiltà e saggezza, li diffonde, li fa conoscere e li valorizza.

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Chiara Spadaro, vive a Vicenza, dove è nata. Giornalista, collabora con diverse riviste – tra cui Carta e Altreconomia –, occupandosi in particolare di ambiente e buone economie. Per Altreconomia è autrice del libro Il frutto ritrovato (2010), una mappa della biodiversità in Italia e un vademecum per salvare e scoprire semi e frutti dimenticati. Una pratica che mette in atto anche nel piccolo orto dietro casa. Quando non zappa la terra, studia per diventare antropologa: è laureanda all’Università Ca’ Foscari di Venezia, con una tesi sulla narrazione del paesaggio portoghese.

Daniele Zavalloni si è interessato degli aspetti naturalistici della sua terra – la Romagna – e della loro conservazione fi n dai primi anni delle scuole superiori. Il lavoro stesso gli ha permes-so, e tuttora gli permette, di occuparsi di questi argomenti. Ha lavorato per 17 anni presso l’Azienda regionale delle foreste del-la Regione Emilia-Romagna. Durante questo periodo ha avuto la fortuna di incontrare, seguire e studiare il lupo (che abita il nostro Appennino) e altri animali. Attualmente lavora presso il Servizio tecnico di bacino Romagna, nella sede di Cesena, e si occupa di acqua e di fi umi. Ha vissuto una lunga esperienza nello scoutismo ed è fra gli animatori dell’Ecoistituto di Cesena di cui cura il sito www.tecnologieappropriate.it. Va a lavorare in bicicletta con qualsiasi condizione meteo.

Gianfranco Zavalloni, nato a Cesena, nella cosiddetta biore-gione Romagna, per 16 anni è stato maestro di scuola materna. Ora è dirigente scolastico e diffonde la cosiddetta «Pedagogia della lumaca». Ama vivere nella sua terra, ma anche viaggiare per il mondo. Gli piace una scuola creativa, attenta all’ecologia pratica, alle abilità manuali, alle lingue locali, alla multicultura-lità. È tra i fondatori dell’Ecoistituto di Cesena, un centro nato per diffondere le «tecnologie a misura d’uomo». Ha scritto il Manifesto sui diritti naturali di bimbi e bimbe. Cura il sito inter-net www.scuolacreativa.it dove si possono trovare anche i suoi disegni.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2010dalla GESP - Città di Castello (PG)

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