Orologi Senza Tempo

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di Barbara Baraldi, Francesco Falconi, Leonardo Patrignani, Cecilia Randall, Emma Romero, Licia Troisi, Emilio Zàgara Brossurato con alette, 128 pagine in b/n Rovine popolate da mostri, risvegliati da un sonno millenario. Macchine di tortura medievali e spietati killer tecnologici. Cavalieri senza macchia, macabri rituali e creature assetate di sangue, c’è un mondo sconosciuto che si nasconde tra le pieghe del reale. È qui, adesso. A volte si inabissa per un po’, ma rimane a un passo da noi. Possono passare giorni, mesi, anni, tanto da arrivare a pensare che non sia mai esistito. Ma prima o poi tornerà alla luce. I personaggi che popolano questa antologia non nascono né muoiono. Semplicemente esistono, vibrano nello spazio come il battito di un originario Big Bang. E le loro storie si incastrano come gli ingranaggi di un orologio senza tempo. Ogni libro nasce con un fine. E il proposito di quest’antologia è contribuire alla ricostruzione di Città della Scienza.

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I ricavi di questo libro saranno donati per la ricostruzione

della Città della Scienza

in collaborazione con ilCavacon Comics & Games

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Orologi senza Tempodi AA.VV.

© degli Autori dei tesi© Tespi srl per questa edizione

© degli ave i dirito per le i agi i uilizzate

Colla a: Narraiva,

Diretore Editoriale: Ni ola Pes eOrdi i e i for azio i: i fo@edizio i pe.it

Ui io Sta pa: ui iosta pa@edizio i pe.it

Sta pato i proprio el ese di di e re

service editoriale

tespiedit@g ail. o

graica in coperinaSe asia o Bar aroli

Nicola Pesce Editore

è u ar hio i uso di Tespi srlvia Appia Nuova, - Ro a

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Barbara Baraldi - Francesco FalconiLeonardo Patrignani - Cecilia Randall

Emma Romero - Licia Troisi - Emilio Zàgara

Orologi senza Tempo

Sette autori. Sette storie.Una grande antologia fantasy.

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Prefazione, di Francesco Nobile

Barbara Baraldi - La scogliera dei segreti

Francesco Falconi - La contessa di sangue

Leonardo Patrignani - Orologi senza Tempo

Cecilia Randall - La pietra non dimentica

Emma Romero - Il killer di sogni

Licia Troisi - Acqua e Fuoco

Emilio Zàgara - Oltre le ciglia chiuse

Postfazione, di Luigi Amodio

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Indice

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Prefazione

Ricostruire una città. Si tratta di questo. Della volontà di mettere ordine tra le macerie e trovare la forza di assemblare, pezzo dopo pezzo, quella porzione di mondo che è appena svanita davanti ai nostri occhi. Soiata via dalla stupidità criminale, dalla violenza di pochi, e da un incendio che ha consumato in pochi minuti il lavoro di oltre vent’anni.

Adesso bisogna ripartire. Dalle idee, dalle parole, dal loro signi-icato. Perché Città della Scienza non è solo il più importante mu-seo scientiico interattivo italiano. Non è solo un frammento della memoria di milioni di ragazzi, che hanno passato lì momenti di studio e svago. Non è solo un incubatore economico, di imprese, un luogo di scambio di buone prassi e innovazione. È un luogo dell’anima. Un luogo in cui potersi ispirare, respirare aria nuova, essere in viaggio. E allo stesso tempo, sentirsi a casa. È così, un po’ laboratorio e un po’ museo, un tempio laico, un miracolo naturale. Come un albero che tanto più svetta in alto, quanto più profonde sono le proprie radici. E in questa doppia veste, da sempre, Città della Scienza guarda al passato e al futuro. Perché ogni museo è archivio, memoria, storia sedimentata. Ma il tempo della scienza è declinato nella sua continua evoluzione. E in un futuro possiamo ancora credere, ma bisogna costruirlo oggi.

Oggi, tra quei capannoni bruciacchiati, si avverte la necessità

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di ascoltare parole nuove, che abbiano la forza evocativa di una formula magica. Che sappiano agitare gli animi, creando il giusto entusiasmo che s’accompagna ad ogni nuova visione. Perché le pa-role, in dall’alba dei tempi, hanno il potere di creare nuovi mondi. E il mondo dei fumetti, degli anime, e del fantastico nella sua ac-cezione più ampia, riesce ancora a farci sognare. Senza vincoli o limiti di età. Senza tempo.

Con quest’antologia di autori fantasy, il Cavacon prova a fare la sua parte. Ogni copia venduta di questo libro servirà a ricostruire un tassello di Città della Scienza. La renderà, più di prima, una proprietà comune, da salvaguardare.

Un sentito ringraziamento va agli scrittori, che hanno accetta-to questa sida con entusiasmo. A Licia Troisi, Francesco Falco-ni, Barbara Baraldi, Leonardo Patrignani, Cecilia Randall, Emma Romero ed Emilio Zàgara. A Paolo Barbieri, autore della pregevo-le copertina. E ovviamente un plauso va all’editore Nicola Pesce, che ha sposato l’iniziativa.

Francesco Nobile

Direttore Generale

Cavacon Comics & Games

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Barbara Baraldi

La scogliera dei segreti

Aveva piovuto per tutta la notte, e non aveva intenzione di smet-tere. Le gocce si infrangevano sui vetri dei inestrini delle volan-ti, sulle cerate degli agenti, sui tetti delle ambulanze, sul mare. Il mare che sembrava osservare la scena come un muto spettatore, forse l’unico a conoscenza della soluzione al mistero che da più di ventiquattro ore stava tenendo col iato sospeso il piccolo borgo di Posillipo. E non solo.

Perché la donna di cui era stata denunciata la scomparsa non era una qualunque, bensì la contessa Augusta Riccoboni Ranieri, pro-tagonista di primo piano del jet-set italiano. Gli eventi mondani tra Capri e la costiera amalitana non potevano essere deiniti tali se non prevedevano la presenza della contessa.

E sua era la villa arrampicata su una scogliera a strapiombo sul mare. Marmo che si vestiva di rosa quando era colpito dal tramon-to: da qui il nome di Villa Pietrarosa. C’erano oleandri dai colori sgargianti e oasi di verde che facevano della dimora uno scorcio da cartolina. La contessa Riccoboni procurava lavoro a molte fa-miglie della zona tra domestici, giardinieri, il fedele autista Grego-rio. Cinque levrieri e un uomo per occuparsene: Ernesto Castillo. Una parrucchiera e un’estetista sempre a disposizione, per prestar-le servizio a domicilio. Per non parlare dell’esercito di venditori che le fornivano frutta fresca, carni e pesce di qualità per nutrire

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la cucina della villa, operativa ventiquattrore su ventiquattro.La villa della contessa era popolata da personaggi bizzarri. Un

andirivieni variopinto di artisti, leccapiedi, parenti, amici altolo-cati e latin lover speranzosi di diventare i suoi preferiti, almeno per qualche settimana. Augusta Riccoboni era nota per non farsi ve-dere a un party mai più di una volta con lo stesso accompagnatore.

Il suo divorzio, avvenuto appena un anno prima, aveva a lungo occupato le prime pagine dei settimanali per via dei particolari scabrosi che erano emersi, le continue ripicche tra ex coniugi e l’attribuzione di fantomatici amanti a Vittorio Silvestrini, l’ex ma-rito della contessa.

Augusta Riccoboni, avvenente ereditiera di sessantacinque anni portati benissimo, doveva la sua fortuna alla morte prematura del suo primo marito, il conte Edoardo Ranieri, suo mecenate all’e-poca in cui lei era un’attricetta in cerca di fortuna a Cinecittà, che l’aveva trasformata in una temibile e rispettabile signora dell’alta società napoletana.

Con la sua morte improvvisa, Ranieri aveva lasciato un vuoto. Era amatissimo dai suoi concittadini. Pur essendo spesso in viag-gio di afari, non dimenticava mai di parlare della sua terra. E non appena gli impegni lo permettevano era proprio lì che si ritirava, nella villa di Posillipo che aveva fatto costruire sul mare che gli aveva dato i natali e al quale doveva la sua fortuna. Ranieri era infatti un armatore, iglio di armatore.

Costruiva ed esportava motoscai e yacht e non era raro tro-vare ormeggiati davanti alla villa i potenti mezzi di trasporto di qualche sceicco del vicino Oriente. In quelle occasioni, capitava di imbattersi in frotte di curiosi radunati per ammirare lo scintillio delle feste che venivano date a bordo delle lussuose imbarcazioni. Alcuni erano persino armati di cannocchiale per osservare, alme-no da lontano, modelle, uomini d’afari e un esercito di camerieri

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Francesco Falconi

La contessa di sangue

In una cella del Čachtice Castle - 21 agosto 1614Cammino nel buio. Le dita siorano i mattoni di pietra. Le unghie graiano la roccia,

scavano nella polvere. Si spezzano.Sorrido nel buio. Poggio la testa contro il muro. La sbatto più volte, inché un ri-

volo di sangue mi cola dalla fronte e mi bagna le labbra.Bisbiglio nel buio.La voce è l’ultima amica che mi è rimasta. Ammaliante e ma-

ligna. Unica compagna nell’eternità di silenzio che mi circonda. Incarcerata tra veli di tenebra, sono rimasta sola. Dimenticata da tutti, schiacciata dai ricordi.

Nuoto nel buio.Ho perso la cognizione del tempo. Quel tempo che si è frantu-

mato in un universo di secondi. Quei secondi che hanno distorto l’udito, l’olfatto, la vista. E ogni cellula della mia umanità.

Continuo a camminare vicino al perimetro della cella. I piedi nudi inciampano nella veste lorda, brancolano su un tappeto di fango, s’imbrattano dei miei stessi escrementi.

Mi fermo. Crollo in ginocchio. Ansimo. Inspiro l’aria meitica e mi blocco. Osservo la sottile fessura che si apre sul muro, vicino al

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soitto. È il contrappasso che si ripete ogni giorno. La tortura di godere di un ilo di luce, troppo debole per vincere l’oscurità ma suiciente a incendiare la sete di rivedere il sole.

E allora chino la testa. Piango. Ascolto i miei singhiozzi.Poi una risata. Algida come la follia che ha annientato ogni mio

pensiero. Arranco carponi ino al materasso. Stringo le gambe al petto, dondolo la testa e canto una ninnananna.

Strega! Assassina!Mi volto di scatto. Le tenebre si stanno muovendo. Sbufano, ric-

cioli di buio che si condensano formando delle sagome. Spalanco la bocca, indietreggio spalle al muro. Riconosco quelle persone. Sono le mie serve.

«Via! Andate via!» urlo fuori di me.Decine di ombre avanzano. Scivolano nel nero, pronte ad az-

zannare la mia anima. Perché vogliono farmi del male? Eppure le ho amate tutte. Dalla prima all’ultima. Dovrebbero essere felici, si sono sacriicate per la loro adorata contessa.

Poi le forme si dissolvono. Plasmano altri volti. Sono le mie ami-che Dorkò e Ilona Joo. Allungano le mani verso di me, le dita sono tranciate. È un istante, poi le ombre si fondono e assumono le fat-tezze della lavandaia Kata. Mi avvicino furiosa. Kata è l’unica delle mie servitrici che non è stata bruciata viva, eppure non è venuta neppure una volta a trovarmi in cella.

Non faccio in tempo. La sagoma cambia di nuovo aspetto. Sten-to a capire l’identità del nuovo spettro che è venuto a farmi visi-ta. Quando lo riconosco, sofoco un gemito. Un ragazzo di bassa statura, tra le mani sorregge la sua stessa testa. È il servo Fizcko, decapitato e poi bruciato.

Scatto in piedi.«Maledetti! So che siete qui. Nascosti nel buio. Fatevi vedere!» Le ombre mi rispondono. Vibrano, si allungano in tentacoli, in-

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Leonardo Patrignani

Orologi senza tempo

Napoli, Campania, Italia. 4 Marzo 2013.Non erano modellini in scala. Erano vere.Quattro volanti della polizia, due dei carabinieri e un paio di

ambulanze, parcheggiate alla buona in mezzo alla strada, di fronte al negozio con l’insegna dai caratteri maiuscoli: orologi senza tempo. Quando il bambino arrivò, alcuni uomini in divisa stava-no transennando la zona e chiedevano con cortesia ai passanti di fare il giro largo. Le voci dei curiosi, assiepati sul marciapiede già da un pezzo, sibilavano accanto alle sue orecchie come gelidi aliti di vento, messaggeri inattesi a cui il suo giovane cuore non voleva aprire la porta. Non seppe mai per quanto tempo non avesse mos-so un muscolo, impassibile di fronte alla visione che avrebbe po-polato i suoi incubi per il resto della vita. Restò congelato mentre mantelli di fumo nero uscivano dall’ingresso del negozio e si di-sperdevano tutt’attorno. Vide suo nonno Roberto correre verso la vetrina e venire stoppato da due agenti. Lo sentì imprecare mentre si divincolava come in una ripresa al rallenty. Un operatore tele-visivo si inginocchiò, la camera a spalla puntata sull’ingresso del locale. Ogni gesto, ogni grido, tutto pareva il riverbero di un’eco lontana. Forse il ragazzino aveva già capito. Forse le notizie in dia-letto, che i passanti spargevano come tozzi di pane per piccioni

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afamati, gli avevano già fatto sapere tutto ciò che doveva sapere.Mamma e papà non c’erano più.Inghiottiti dalle iamme mentre facevano il loro lavoro, quello

che il nonno chiamava la “nobile fatica”. Carbonizzati insieme agli amati orologi, preziosi compagni di una vita e merce di scambio che garantiva il pane a tutta la famiglia. Amici senza tempo, che ora luttuavano insieme a loro nell’eternità del ricordo, lontano dalle miserie umane.

Il bambino aveva solo otto anni quel giorno, ma non pianse. L’a-vrebbe fatto ogni sera, per un’intera adolescenza e forse più.

Si guardò attorno, mentre l’invisibile cupola dell’incredulità ren-deva tutto ovattato e distante. Lo capì in un attimo: il ragazzino era rimasto solo, fatta eccezione per quel vecchio di ottantadue anni che urlava rabbioso contro la polizia, determinato a penetra-re la cortina di fumo per vedere con i propri occhi cosa restava del negozio che lui stesso aveva tirato su tanto tempo addietro.

San Diego, California, USA. 11 dicembre 2075.Lame di luce entravano dalle ampie vetrate dello studio al dodi-

cesimo piano, si rilettevano sul parquet e davano origine a geome-trie diseguali, mentre i miei occhi si perdevano a rimirare la copia de La persistenza della memoria di Salvador Dalí, e il mio animo veniva cullato da una musica incantevole, proveniente dalle casse dello stereo: Beethoven, Sonata per pianoforte n.14 in do diesis mi-nore, meglio conosciuta come Sonata al chiaro di luna. La cornice ideale per contemplare quegli stanchi e losci orologi, simboli di una memoria indeinita, allegorie di ricordi distorti, di un passato sempre più frammentario e lontano.

Gli occhi ora chiusi, continuai a seguire col capo il dolce mo-vimento delle terzine del compositore tedesco, inché un ronzio mi destò, riportandomi alla realtà. Era la suoneria dell’interfono.

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Cecilia Randall

La pietra non dimentica

Il cafè sotto il portico di piazza Grande era ancora aperto e al-cuni clienti si attardavano seduti ai tavolini all’aperto di fronte al duomo, un gioiello romanico che sembrava dipinto su una tela, tanto era perfetto. Ellen giocava con l’ombrellino di carta del suo cocktail e ammirava l’ediicio bianco. Sarebbe bastato da solo a giustiicare il viaggio dalla Facoltà di Storia di Boston a Modena, anche se lei e la sua squadra di ricercatori specializzati in indagini sul passato non fossero stati chiamati per efettuare una perizia su una delle Bibbie più belle del mondo. La brezza di ine estate sot-tolineava la sensazione di benessere. Nella pace della piazza due sposi novelli stavano facendo le foto di nozze, abbracciati proprio davanti a una loggia del duomo. Dopo molti lash, il fotografo li guidò dietro l’angolo della chiesa.

«Secondo te sono sposi veri?» Wayne spense la sigaretta nel posacenere.

«Certo. Cos’altro, se no?» rispose Ellen.Il suo compagno si strinse nelle spalle. «Sono quasi le due del

mattino».«Be’, la scenograia merita».«Vero». Wayne fermò il cameriere. «Vorremmo pagare».«Sì. Subito». L’uomo controllò la cifra sullo scontrino, ma gettò

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cecilia randall

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anche un’occhiata alle mani di Ellen.Lei nascose un sorriso. Era abituata a essere osservata perché le

ragazze di solito non indossavano guanti di raso insieme a jeans, scarpe da ginnastica e maglietta. Se li aggiustò, assicurandosi che coprissero la pelle ino ai polsi. «Guardiamo il duomo da vicino?» propose dopo che Wayne ebbe pagato il conto.

«Andiamo a letto. Gli altri stanno dormendo da un pezzo.» Lui provò a supplicarla, ma Ellen si era già incamminata. «Solo un’oc-chiata veloce, promesso. Fallo perché mi ami».

Wayne sospirò e la seguì. Arrivarono ai piedi del duomo, piegan-do indietro la testa per ammirare la maestosità delle decorazioni.

«Magniico» disse Ellen. «E dire che è stato fatto a mano, quasi mille anni fa».

«Stupendo davvero. Peccato che sia storto».«Ma che incontentabile! Siamo davanti a uno degli esempi più

belli di chiesa romanica e tu protesti perché il terreno ha ceduto».Wayne rise. Proseguirono lungo il ianco del duomo, studiando-

ne bassorilievi, porte e capitelli, ino alla loggia dove poco prima erano fermi i due sposi a scambiarsi baci e farsi fotografare.

«Posso approittarne anch’io?» Wayne tirò Ellen a sé. Lei ricam-biò il bacio, ma poi si voltò a guardare la chiesa.

«Che c’è?» domandò Wayne, sentendola irrigidirsi.«Non lo so». Ellen studiò la loggia e i due leoni stilofori che la

custodivano. Si issavano a vicenda in una posa quasi ostile, ritti sulle zampe, dentro una recinzione di ferro. Sembravano ingab-biati perché non potessero avventarsi sulla gente ma solo uno con-tro l’altro: in particolare il leone sulla destra appariva più aggressi-vo rispetto a quello, timoroso, a sinistra. Entrambi erano rovinati dal tempo.

«Peccato, questo non ha più il muso» disse Wayne. Il leone a sinistra era inquietante, con la testa irriconoscibile e il corpo rin-

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Emma Romero

Il killer di sogni

Aveva una voce calda e suadente, con un forte accento russo. A sentirlo parlare così forte, ino al centro dei suoi padiglioni au-ricolari, se lo immaginava alto e robusto, come un giocatore di pallacanestro, ma vestito bene, elegante come i presentatori della tv. Ma no, non doveva più pensare in questo modo, al mondo di prima. La pallacanestro era scomparsa. I presentatori della tv erano scomparsi. Bisognava dimenticare loro e quelli come loro. Qui c’erano soltanto i reduci, e il mondo dei reduci si componeva di manifesti appesi ai muri, sgargianti, che invitavano ad andare a distrarsi in uno dei vicoli del Quartiere Rosso, quello dove è possi-bile dimenticare, come dicevano le enormi scritte colorate.

Gli avevano detto che il sospettato, in realtà, era alto sì e no un metro e settanta, con le spalle larghe e il resto del corpo piccolo, e indossava ogni giorno una maglietta diversa, con stampato il nome di un gruppo musicale, uno di quelli svaniti come circa tre quarti del mondo-come-lo-avevano-vissuto, e aveva un viso qua-drato e i capelli neri, con la chierica. Uno che però aveva il fascino di mille Don Giovanni. Questo il direttore l’aveva detto precisan-do che lo spiegavano molte donne nei verbali e l’aveva sottolineato più e più volte, molte donne nei verbali. Al sergente delle donne nei verbali non importava nulla. Voleva solo fare il suo lavoro. E

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magari anche farlo bene. Per questo se ne stava da ore con il culo attaccato a uno sgabello scomodo e le orecchie incollate alle cuie: poco a poco lo avrebbero ripulito, il Quartiere Rosso, lui ne era sicuro, e aspettava il momento in cui avrebbero avuto la prova, quella deinitiva, che da giorni stavano cercando.

In casa, però, il tipo, che all’anagrafe e nel registro dei guaritori autorizzati rispondeva al nome di Paolo Pellegrino, insomma, il tipo non stava facendo nulla. Forse leggeva. Ogni tanto si sentiva il suono frusciante di pagine girate in fretta. Sì, decise il sergente, il tipo leggeva il giornale. Molti giornali, forse, visto che li leggeva da più di due ore. Ma dove li aveva presi? O forse erano libri? E in tal caso, anche i libri, come era riuscito ad averli? Le poche copie rimaste giacevano tutte in un bunker sotto il municipio, neppure il sindaco le toccava.

Se quando gli avevano assegnato questo incarico aveva storto il naso, ora sapeva di sbagliarsi. Forse era davvero questo, l’uomo di cui tutti parlavano, l’uomo che tutti stavano cercando, l’uomo che si stava arricchendo alle spalle dei reduci più disperati.

Nella scheda di autorizzazione all’attività di guaritore, c’era il dettaglio del programma di cura; un programma un po’ partico-lare: insegnava alla gente a liberarsi dei sogni. Non solo i sogni che si fanno di notte, mentre si sta dormendo, ma tutti i sogni in generale, anche quelli a occhi aperti: una notte di divertimento con tre ragazze della Zona Proibita, una vita diversa con i soldi vinti alla grande lotteria del Nuovo Millennio, la testa di un ne-mico fracassata sotto un vaso che pesa un quintale. Tutti i sogni, dal primo all’ultimo, Paolo Pellegrino diceva di poterli annullare, come si annulla un ordine con il diritto di recesso. L’unica causa di molte delle soferenze degli esseri umani erano i sogni, lo erano sempre stati anche prima della grande epidemia; c’era una causa psicologica chiara e semplice, per la quale lui aveva la cura. Tele-

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Licia Troisi

Acqua e Fuoco

Marta se ne stava immobile davanti ai cancelli della Città della Scienza, un senso di devastante impotenza nel cuore. Come molti degli abitanti di Bagnoli, si era svegliata poche ore prima al suono delle sirene, l’aria impestata dall’odore acre del fumo. Erano stati attimi di terrore, era scesa in strada assieme ai suoi, di corsa, il ia-to mozzo e il cuore che galoppava nel petto. Aveva visto le iamme, là lungo il mare, altissime, rosse; per un istante si era chiesta se il Mostro fosse tornato in attività, come lo raccontava suo zio, che all’Ilva ci aveva lavorato per anni. Poi, come tutti, aveva capito, e le era sfuggito un gemito di dolore. La Città della Scienza. Era quella che bruciava nella notte.

L’incendio era durato ore, tra lo sgomento della gente e nono-stante gli sforzi dei pompieri; ora tutto quel che restava era l’odore di bruciato che prendeva alla gola e le macerie.

Marta teneva le dita strette alle sbarre del cancello, e non riusci-va a crederci. C’era stata in visita con la scuola, e le era piaciuto tanto, a lei che la scienza neppure l’amava particolarmente. Ma il planetario l’aveva incantata, e la isica aveva iniziato a trovarla meno antipatica, quando le toccava studiarla. E ora non c’era più. Era bastata una notte di fuoco.

Girò la testa, perché aveva sentito qualcuno dietro di lei. Era un

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ragazzo con un paio di jeans e una maglietta chiara che Marta capì subito non essere di Bagnoli. Percepiva in lui qualcosa di estraneo: da qualsiasi parte del mondo venisse, era certo lontana. Altrove.

Era biondo, coi capelli lunghi e lisci stretti in una coda, aveva la pelle chiarissima e gli occhi grigi. Era magro e alto, non dimostra-va più di sedici anni. Era piuttosto carino, non fosse stato per uno strano neo, chiarissimo, tra gli occhi, che congiungeva le sopracci-glia. Guardava verso le rovine, con espressione assorta.

«Che schifo, eh?» disse piano Marta, desiderosa di condividere la tristezza.

«È un furto» disse lui. Aveva una bella voce, calma e rassicuran-te, «e dei peggiori.»

«Ne eravamo molto orgogliosi, io sono di qua» continuò Marta. «Tu c’eri stato?»

Il ragazzo fece un sorriso indecifrabile. «Oh, sì, molte volte...» disse.

Marta tornò a guardare le rovine fumanti. Le mettevano addos-so rabbia e angoscia nella stessa misura.

«Non la ricostruiranno... non ci stanno i soldi...» disse mesta crollando le spalle.

«Tu dici?»Si girò verso lo sconosciuto con aria interrogativa. «Era già un

miracolo che l’avessero fatta una volta, igurati se una cosa così si ripete...»

Il ragazzo sorrise. «Sai, questo luogo è morto e risorto molte vol-te, in passato. Hai ragione, è un posto di miracoli, questa baia».

Marta pensò per un attimo che la stesse prendendo in giro. Ma c’era qualcosa in lui che le diceva il contrario.

«Ti va di sentire una storia?» le chiese. Marta esitò un istante appena, poi annuì e, in barba a tutte le

raccomandazioni materne, lo seguì. Quel tipo l’afascinava.

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Emilio Zàgara

Oltre le ciglia chiuse

Esplosione. Di luce, di orizzonti, di odori. homas Arden usciva dal carcere. Erano passati anni, e il sole gli premeva sugli occhi.

D’improvviso sentiva che la gioia profonda che aveva provato negli ultimi giorni, la frustrante attesa, andavano perdendo ogni signiicato. Heirich Burden. Quel nome tornava ossessivo nella memoria. Heirich – Burden. Il poliziotto grazie al quale era stato arrestato.

Purtuttavia il carcere lo aveva cambiato: non sentiva più l’im-pellente necessità di uccidere, quel dolore stridente che andava spento. Quelle triturazioni della carne, quegli spasmi, l’ordine im-perioso, erano scomparsi per lui. Se voleva uccidere H. B. era solo per vendetta, per giustizia. Per quanto si sforzasse di essere calmo e razionale, non gli riusciva di separare dentro sé il fardello delle soferenze patite, le umiliazioni ancora ardenti, la terribile quiete delle ore notturne e, soprattutto, la mancanza dell’afetto di sua moglie, l’indicibile lacerazione di vuotezza, nel non averla sempre accanto, non riusciva a separare i nodi serrati mille volte nella gola da quel nome: Heirich Burden. Sicché era diventato nella sua mente quasi un’entità, un qualcosa di non umano – e a volte gli faceva paura, a volte sognava di quando l’avrebbe abbattuta, ma

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emilio zàgara

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sempre, sempre, in fondo a tutto, la rabbia.Adesso gli sembrava, per quanto sia banale, di essere sotto un

sole diverso da quello respirato nel cortile del penitenziario – e come una donna al mattino, tra lenzuola di seta, mentre luce iltra obliqua da una inestra – egli si sentiva infondere per ogni ibra del corpo un’energia nuova, un dolce tepore, quasi un torpore, e tornava vivo nella memoria un altro nome: Agnes.

I nomi – solo un accostarsi di lettere per le altre persone – erano stati per lui come gli autori antichi potrebbero essere per un poeta malato, piccolo e solitario: erano stati un qualcosa di più, di più d’un suono – quasi degli amici. Li aveva assaporati come se conte-nessero signiicati misteriosi, come se ci si potesse parlare, con un nome, e se quando nominava Heirich Burden si sentiva il sangue incandescente, quando invece baciava sillaba per sillaba il nome di sua moglie sentiva una stanchezza, un odore, e non poteva più muoversi, e oltre le ciglia chiuse vedeva lei.

Se le tristezze possono essere causa di tumori, l’immagine di lei – e il suo nome – erano state le uniche cose che lo avevano sal-vato. Vi si era aggrappato in ogni occasione. La notte era felice, dormendo, nella culla calda dei suoi sogni; e quando al mattino la campana lo strappava troppo velocemente al sonno, la igura di lei, la sua pelle, il suono della sua voce erano ancora appiccicati alla sua mente, non separabili dallo stato di veglia. Si ritrovava allora intontito, la testa pesante, nel cuore la tristezza come una mano nera – in quanto era stato solo un sogno – e la felicità come una cascata di luce, come l’Inno alla gioia. Ma lo aspettavano mat-tine più dolci. Andava da lei.

Non l’aveva avvertita, avrebbe voluto farle una sorpresa. Era tut-to tremante, non sapeva cosa avrebbe trovato. Non l’aveva vista molto spesso in quegli anni, non era stato consentito. Quelle volte

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Postfazione

L’idea di Città della Scienza è nata, più di 25 anni orsono, ela-borando il concetto di immaginario scientiico e cioè quel “quid” – assai indeinibile – che mette assieme visione e progettualità, fantasia e critica del reale, e provando a farne qualcosa di concre-to. Il viaggio tra scienza e fantascienza che si tenne per la prima volta nel 1987 alla Mostra d’Oltremare di Napoli si trasformò pian piano in ediici, contenuti, laboratori, persone e idee, soprattutto persone e idee, che a quel viaggio dettero una casa nell’area un tempo industriale di Bagnoli.

Insomma, Città della Scienza deve molto non solo a quei vi-sionari che si chiamano scienziati che ogni giorno, in laboratori spesso oscuri, sempre più spesso precari e mal pagati, danno vita alla società della conoscenza e al progresso collettivo; ma anche a un altro tipo di visionari – artisti, scrittori, disegnatori, semplici appassionati e collezionisti, makers e fab-labers – che nel corso di questi lustri hanno voluto onorarci della loro vista lunga, trasmet-tendoci idee preziose e capacità di leggere i processi in atto senza pregiudizi.

José Mariano Gago, isico, ministro portoghese della ricerca e amico da tempo di Città della Scienza, in un conciso e bellissimo articolo che ha dedicato all’incendio doloso del 4 marzo scorso, ha non casualmente richiamato alla memoria Fahrenheit 451, capola-

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voro di Ray Bradbury (di cui, e chiedo perdono per l’annotazione personale, conservo non casualmente, gelosamente e afettuosa-mente un autografo, debitamente incorniciato…) e tra i principali atti d’accusa nella storia della letteratura contro ogni censura delle idee e del loro libero esprimersi, circolare e fertilizzare altre idee.

Noi vogliamo che quel romanzo e quel fuoco rimangano solo un monito e lavoriamo perché nulla di simile possa accadere nel-la realtà. Noi vogliamo che i fumetti, il cinema e la letteratura di genere, i cartoni animati e i videogame abbiano il positivo efetto di aprirci gli occhi e le menti; così come chiediamo alla scienza e ai suoi ricercatori di farci guardare oltre: l’ininitamente grande, l’ininitamente piccolo oppure – ultima frontiera – i processi che agiscono nel nostro cervello. Noi crediamo insomma che la scien-za e la tecnologia possano e debbano migliorare il nostro futuro, ma governandone lo sviluppo, con le dovute precauzioni e met-tendo sempre al centro la qualità della vita per un mondo meno disuguale di quello attuale e di quello che abbiamo alle spalle (e che per molti versi non rimpiangiamo).

Per questo ringraziamo i tanti giovani, giovanissimi e meno gio-vani visionari che anche a Cavacon aggiungeranno il proprio pez-zo di immaginario – e il loro afettuoso sostegno – al lavoro che si fa a Città della Scienza e che si continua a fare anche dopo il 4 marzo. Sapendo di condividere, con loro, la voglia e il coraggio di non fermarsi e di continuare quel viaggio.

Luigi Amodio Direttore di Città della Scienza

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2013

edizioninpe.it

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