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il folklore d’Italia 1 Organo della Federazione Italiana Tradizioni Popolari a l i a i l f o l k l o r e d I t a l i a i l f o l k l o r e d F.I.T.P. Giunta Federale Presidente Benito Ripoli Vicepresidenti Elena Bartolomasi, Lillo Alessandro Componenti Gerardo Bonifati, Fabrizio Cattaneo, Aldo Pierangeli, Fabio Filippi, Antonella Palumbo, Luigi Scalas Presidente Onorario Luciano Dalla Costa Segretario Generale Franco Megna Vice Segretario Generale Nino Capobianco Tesoriere Nino Indaino Vice Tesoriere Gianpiero Cannas Comitato dei saggi Aldo Secomandi, Luciano Dalla Costa Collegio Sindacale Presidente Rinaldo Tobia Vice Presidente Giovanni Soro Componente collegio sindacale Francesco Fedele Supplenti collegio sindacale Ugo Cestra, Ivana Antinori Presidente Probiviri Paolo Savino Vice Presidente Probiviri Francesco De Meo Componenti Probiviri Dionigi Garofoli Consulta Scientifica Nazionale Commissario Annamaria Amitrano Organi Sardi Consiglieri Nazionali Patrizia Mele, Salvatore Ghisu Presidente Regionale Giomaria Garau Vice Presidente Vicario M. Carmela Deidda Vice Presidente Antonio Azaro Presidenti Provinciali Licia Mameli (Prov. Ca) Antonio Tortu (Prov. Ss) Piergiorgio Garau (Prov. Or) Antonio Azaro (Prov. Nu) Il FOLKLORE D’ITALIA Anno 2008 n. 3 “Le Regioni d’Italia” Direttore responsabile Lillo Alessandro Comitato di redazione Benito Ripoli Gerardo Bonifati Franco Megna Luigi Scalas TESTI di Annamaria Amitrano, Mario Atzori, Maria Margherita Satta, Luigi Scalas, M. Carmela Deidda, Susanna Paulis, Antonio Canalis, Chiara Solinas, Gian Nicola Spanu, Maria Marrosu, Bachisio Solinas, Francesca Sanna, Sebastiano Mannia. foto di copertina: Ballerina e suonatore di launeddas. Collezione S. Manca di Mores 1860 foto di retrocopertina: Scialle del costume tradizionale. Foto di G. Dichiara Il Direttore responsabile della rivista non cono- scendo le fonti di alcune foto si riserva di ricono- scere la legale proprietà. © Tutti i diritti riservati La riproduzione anche parziale è vietata Reg. Trib. di Roma n. 93/82 dell'11-31982 Idea Grafica e Stampa: Print Design - Castrovillari (Cs) Tel. 0981.491785

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Organo della Federazione Italiana Tradizioni Popolari

a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d

F.I.T.P.G i u n t a F e d e r a l e

Presidente Benito Ripoli

Vicepresidenti Elena Bartolomasi,Lillo Alessandro

Componenti Gerardo Bonifati,Fabrizio Cattaneo,Aldo Pierangeli,Fabio Filippi,Antonella Palumbo,Luigi Scalas

Presidente Onorario Luciano Dalla Costa

Segretario Generale Franco Megna

Vice Segretario Generale Nino Capobianco

Tesoriere Nino Indaino

Vice Tesoriere Gianpiero Cannas

Comitato dei saggi Aldo Secomandi,Luciano Dalla Costa

C o l l e g i o S i n d a c a l e

Presidente Rinaldo Tobia

Vice Presidente Giovanni Soro

Componente collegio sindacale Francesco Fedele

Supplenti collegio sindacale Ugo Cestra,Ivana Antinori

Presidente Probiviri Paolo Savino

Vice Presidente Probiviri Francesco De Meo

Componenti Probiviri Dionigi Garofoli

C on s u l t a S c i e n t i f i c a N a z i o n a l e

Commissario Annamaria Amitrano

O rg an i S a r d i

Consiglieri Nazionali Patrizia Mele,Salvatore Ghisu

Presidente Regionale Giomaria Garau

Vice Presidente Vicario M. Carmela Deidda

Vice Presidente Antonio Azaro

Presidenti Provinciali

Licia Mameli (Prov. Ca)Antonio Tortu (Prov. Ss)

Piergiorgio Garau (Prov. Or)

Antonio Azaro (Prov. Nu)

Il FOLKLORE D’ITALIA

Anno 2008 n. 3 “Le Regioni d’Italia”

Direttore responsabile

Lillo Alessandro

Comitato di redazione

Benito Ripoli

Gerardo Bonifati

Franco Megna

Luigi Scalas

TESTI di

Annamaria Amitrano, Mario Atzori,

Maria Margherita Satta,

Luigi Scalas, M. Carmela Deidda,

Susanna Paulis, Antonio Canalis,

Chiara Solinas, Gian Nicola Spanu,

Maria Marrosu, Bachisio Solinas,

Francesca Sanna, Sebastiano Mannia.

foto di copertina:Ballerina e suonatore di launeddas.Collezione S. Manca di Mores 1860

foto di retrocopertina:

Scialle del costume tradizionale.Foto di G. Dichiara

Il Direttore responsabile della rivista non cono-scendo le fonti di alcune foto si riserva di ricono-

scere la legale proprietà.

© Tu t t i i d i r i t t i r i s e r v a t i

La riproduzione anche parziale è vietata

Reg. Trib. di Roma n. 93/82 dell'11-31982

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Tel. 0981.491785

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3 Editoriale

di Benito Ripoli

3 Considerazioni

di Annamaria Amitrano, Giommaria Garau, Gerardo Bonifati, Luigi Scalas

5 Sardegna: tante specificità, una cultura “forte”

Annamaria Amitrano

7 Saperi tradizionali: esempi di cultura materiale in Sardegna

Mario Atzori

15 Santuari, religiosità popolare e feste

Maria Margherita Satta

22 L’abbigliamento tradizionale

Luigi Scalas

28 Maschere di Carnevale in Sardegna

Maria Carmela Deidda

37 Memoria collettiva, identità e narrazioni

Susanna Paulis

43 Dalle gare poetiche al “Premio Ozieri”

Antonio Canalis

47 Il canto polivocale

Chiara Solinas

55 Strumenti e musiche con strumenti

Gian Nicola Spanu

66 Il coltello a serramanico nella tradizione sarda

Maria Marrosu

72 Scenari silvestri, briganti e cacciatori nella narrativa popolare sarda.

Bachisio Solinas

79 I musei etnografici in Sardegna

Francesca Sanna

84 Cortes apertas: l’ostentazione della tradizione e dell’identità

Sebastiano Mannia

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sommario

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editoriale a cura di

BenitoRipoli

PresidenteNazionale

F.I.T.P.

Il futuro haun cuore antico

editoriale

cons

ideraz

ioni C

ari amici della FITP, non posso nascondere che riprendere la penna e scrivere sulla Rivista “Folklored’Italia”, da me a suo tempo fondata, unitamente a Lillo Alessandro, mi crea una certa emozione. È unpo’ la sensazione che si prova per un “figlio ritrovato”, che dopo essere andato per un certo tempo

ramengo, vuole riprendere un discorso interrotto.È vano precisare che, nel frattempo, in FITP, come nella mia vita personale di studiosa, sono accadute tante cosee, di certo, non tutte belle. Il tempo che scorre fa riflettere e spesso i consuntivi non sono positivi.Che fare? Il mio nome ai giovani della Federazione dice poco. E pure, il lavoro svolto prima dal Prof. Rigoli e poida me al governo della Consulta Scientifica Nazionale ha esitato il grande privilegio della formazione dellaVostra attuale Classe dirigente. Gli allievi di ieri: Luigi Scalas e Carmela Deidda, che conosco da quando eranofidanzati e ho seguito anche negli studi; poi Benito Ripoli, Gerardo Bonifati, Franco Megna, Elena Bartolomasi,Maddalena Crema, Lidia De Dominicis, Eva Avossa e lo stesso Lillo Alessandro (solo per citarne alcuni), sonopassati tutti sotto lo sguardo attento dei “professori” (così eravamo chiamati), dimostrando volontà di appren-dere, di conoscere, di sacrificare il proprio tempo per la ricerca. Un impegno che alla fine li ha premiati, dandoloro consapevolezza e merito per una riproposta folklorica che, nelle loro esperienze, è divenuta rispetto di unatrasposizione culturale ricercata, talvolta rivista, ma mai inventata.Oggi la Federazione ha bisogno di un po’ di restyling culturale. Le nostre Manifestazioni istituzionali, Il Fanciulloe il Folklore e Italia e Regioni, smettendo un po’ la veste di raduni, devono riprendere quel valore di incontro edi approfondimento che avevano all’atto della loro nascita; vissuti cioè come veri e propri momenti di forma-zione verso quella necessaria conoscenza della più autentica tradizione territoriale.Il mio mandato di Commissario unico ha la durata di un anno, durante il quale spero si possa ricominciare aprogettare quegli eventi che la FITP per competenza e per tradizione merita di attuare, attestando la sua valen-za istituzionale anche sui competenti tavoli ministeriali.Nel ringraziare per la fiducia accordatami, auguro a me, ma anche a Voi tutti, buon lavoro.

considerazioni a cura di

AnnamariaAmitrano

Commissario UnicoConsulta Scientifica

Nazionale F.I.T.P.

i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t

Mi appresto a presentare, in quest’editoriale, la cultura tradizionale della fascinosa e affascinante terra sarda. Terraricca di Storia, di tradizioni, frutto dell’amore, della tenacia, della fatica, della diligenza di tante generazioni di Sardi:siamo oggi quelli di ieri.Una Terra-humus che si fa popolo, voce del cuore, lungo respiro dell’anima: per non dimenticare gli antichi Padri. IlPopolo Sardo è come un grande albero che affonda le sue radici nel passato e, rigenerandosi, vive e respira nel pre-sente. Il lungo respiro del Tempo(distensio animi: passato, presente e futuro).Il cammino di questo popolo che siè fatto Storia, ove eventi, tradizioni, costumanze, personaggi, voci, volti e suoni, hanno lasciato segni e tracce nellaCasa della Memoria, sono stati mirabilmente descritti e trattati dai vari Professori, che non hanno lesinato impegno etempo, per presentarci ciò che questo popolo ha inteso offrirci. Non è stato semplice. Ogni opera, poi, ha una Storiaa sé e si porta dietro grandi fatiche e sacrifici: leggere, ricercare,catalogare, confrontare, vagliare, correggere, trascri-vere. Non più trasmissione orale, veicolo, fino ad ora, principale di pratiche e costumanze che sono diventate tradi-zione e sono entrate, a pieno titolo, nella storia demologica-folklorica dei popoli stessi, ma, come diceva Sant’Agostinoscripta manent. La Federazione Italiana Tradizioni Popolari è certa che un’altra fulgida gemma andrà ad incastonarsinella ricca collana, fortemente voluta, dall’attività della nuova Giunta.La Summa di precetti, credenze,magie, sortilegi, accadimenti del forte e generoso Popolo Sardo, che appare in questonostro splendido scrigno editoriale, non andrà più disperso, ma sarà, ormai, custodito sacralmente nel lago del cuoredi tutti noi e tramandato alle future generazioni:

“…propenda quia sunt prodita…. …dobbiamo tramandarli perché sono stati tramandati”(Plinio il Vecchio,Historia Naturalis, 11,85).

GRAZIE Professori per la vostra disponibilità e per l’impegno che avete profuso nell’allestimento di questa perla,omaggio alla vita di un popolo, in un mondo, quello contemporaneo, affetto, sempre di più, da uno smodato e vacuoschizoidismo culturale.GRAZIE all’amico Gigi Scalas (componente dipartimento cultura FITP) che ha curato i rapporti con i Docenti e GRAZIEal Professor Atzori, coordinatore della presente Rivista scientifica.

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l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i

considerazioni

considerazioni a cura di

considerazioni a cura di

GerardoBonifati

LuigiScalas

ResponsabiliDipartimentoCultura F.I.T.P.

Cari amici della FITP, non posso nascondere che riprendere la penna e scrivere sulla Rivista “Folklore d’Italia”, da me a suo tempo fondata,unitamente a Lillo Alessandro, mi crea una certa emozione. È un po’ la sensazione che si prova per un “figlio ritrovato”, che dopo essereandato per un certo tempo ramengo, vuole riprendere un discorso interrotto.

È vano precisare che, nel frattempo, in FITP, come nella mia vita personale di studiosa, sono accadute tante cose e, di certo, non tutte belle. Iltempo che scorre fa riflettere e spesso i consuntivi non sono positivi.Che fare? Il mio nome ai giovani della Federazione dice poco. E pure, il lavoro svolto prima dal Prof. Rigoli e poi da me al governo della ConsultaScientifica Nazionale ha esitato il grande privilegio della formazione della Vostra attuale Classe dirigente. Gli allievi di ieri: Luigi Scalas e CarmelaDeidda, che conosco da quando erano fidanzati e ho seguito anche negli studi; poi Benito Ripoli, Gerardo Bonifati, Franco Megna, ElenaBartolomasi, Maddalena Crema, Lidia De Dominicis, Eva Avossa e lo stesso Lillo Alessandro (solo per citarne alcuni), sono passati tutti sotto losguardo attento dei “professori” (così eravamo chiamati), dimostrando volontà di apprendere, di conoscere, di sacrificare il proprio tempo perla ricerca. Un impegno che alla fine li ha premiati, dando loro consapevolezza e merito per una riproposta folklorica che, nelle loro esperienze,è divenuta rispetto di una trasposizione culturale ricercata, talvolta rivista, ma mai inventata.Oggi la Federazione ha bisogno di un po’ di restyling culturale. Le nostre Manifestazioni istituzionali, Il Fanciullo e il Folklore e Italia e Regioni,smettendo un po’ la veste di raduni, devono riprendere quel valore di incontro e di approfondimento che avevano all’atto della loro nascita;vissuti cioè come veri e propri momenti di formazione verso quella necessaria conoscenza della più autentica tradizione territoriale.Il mio mandato di Commissario unico ha la durata di un anno, durante il quale spero si possa ricominciare a progettare quegli eventi che laFITP per competenza e per tradizione merita di attuare, attestando la sua valenza istituzionale anche sui competenti tavoli ministeriali.Nel ringraziare per la fiducia accordatami, auguro a me, ma anche a Voi tutti, buon lavoro.

GiomariaGarau

PresidenteRegionale F.I.T.P.

Come responsabili del Dipartimento Cultura della F.I.T.P. desideriamo condividere con tutti lanostra particolare soddisfazione nel presentare questo numero della rivista «Il Folclored’Italia» dedicato alle tradizioni popolari della Sardegna e realizzato con il contribuito di

diversi studiosi in gran parte afferenti alla Sezione Etno-antropologica del Dipartimento di Teorie eRicerche dei Sistemi Culturali dell’Università degli Studi di Sassari. In pratica, si tratta di una particolare collaborazione che costi-tuisce la continuazione di un interessante e costruttivo incontro avviato con la convenzione, stipulata qualche anno fa, tra la Sezionedella Sardegna della F.I.T.P. e la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari, per quanto riguarda le attività di tirocinio chegli studenti, frequentanti gli insegnamenti del settore demoetnoantropologico, devono svolgere presso i gruppi folcloristici con noiaffiliati.Sulla realtà etnografica della Sardegna esiste, come è noto, una vasta letteratura apparsa a partire dagli ultimi decennidell’Ottocento e sviluppatasi fino ai giorni nostri con documentazioni e analisi realizzate secondo le moderne metodologie antro-pologiche. Da questa variegata storiografia, prodotta in più di un secolo di ricerche, come dato costante fra l’altro si ricava che ilpatrimonio etnografico dell’isola presenta una sua specifica peculiarità che si distingue, grazie a diversi caratteri identitari, da quel-la di altre regioni italiane ed europee. Le cause di tale singolarità, così come si verifica nell’elaborazione e costruzione di tutte leidentità etniche sono soprattutto di tipo storico-culturale; esse variano con il variare dei processi dinamici nei quali le peculiaritàidentitarie sono inserite e coinvolte. Nel momento in cui le si vive sembrano statiche e immutabili.I caratteri che determinano la specificità delle tradizioni popolari della Sardegna derivano non tanto da particolari fatti e cause natu-rali, ma soprattutto dai numerosi influssi culturali che le popolazioni dell’isola hanno ricevuto nel corso della storia, a partire da unlontano passato fino ad arrivare alle recenti rifunzionalizzazioni indotte dalla reazione alle repentine trasformazioni della recenteglobalizzazione economica.Nel volume, lungi dal proporre documentazioni e analisi esaustive, si trattano alcuni argomenti riguardanti le tradizioni popolarisarde. Sono stati così proposti esempi dell’artigianato tradizionale con i quali vengono rivisitati i saperi e le capacità manuali degliartigiani di alcuni comparti. Si sono quindi ripresi alcuni esempi sulle conoscenze tecniche consolidatesi nell’arco di millenni di espe-rienza e soltanto da poco sostituite dalle macchine. Nel quadro delle tradizioni tessili sono stati inquadrati gli abiti popolari che,come è noto, esprimono, tramite particolari fogge, colori e ricami, specifici caratteri didentitari delle differenti comunità che datempo li anno adottati come propri simboli distintivi. Identica attenzione è stata rivolta alla poesia popolare, ai canti e ai balli checostituiscono ancora occasioni e momenti significativi di coralità festiva, durante i quali le comunità recuperano la propria dimen-sione e coscienza collettiva, liberandosi dai vicoli individualistici dell’attuale sistema.Particolare attenzione è stata rivolta ad alcune tradizioni di religiosità popolare, ai carnevali più noti e alle maschere che li caratte-rizzano. Nelle analisi condotte su tali fenomeni è stata rivolta particolare attenzione ai processi di riplasmazione e rifunzionalizza-zione nei quali, nella dinamica della storia, gli stessi fenomeni vengono coinvolti; in base a tali processi, infatti, le tradizioni popo-lari devono essere considerate rivalutate come sistemi culturali che conservano più intensamente una loro particolare vitalità. Datali analisi deriva, quindi, che le associazioni affiliate alla Federazione Italiana di Tradizioni Popolari hanno il merito di aver svoltoper tanti anni il ruolo di operatori culturali nell’ambito della salvaguardia dei beni culturali immateriali, in quanto operanti in con-testi ancora vitali. Infatti, contrariamente a quanto nel passato alcuni erroneamente hanno interpretato, le nostre associazioni noncontemplano nostalgicamente le tradizioni di un passato ormai perduto. Dagli anni ’50 del Novecento, da quando hanno comin-ciato a costituirsi e ad operare nelle diverse regioni, i gruppi folcloristici e fra i primi quelli della Sardegna hanno condotto ricercheper studiare storicamente, per tutelare e per valorizzare le tradizioni popolari musicali, canore, coreutiche e dell’abbigliamento dellediverse comunità. Quest’opera attualmente viene riconosciuta e apprezzata dalle stesse comunità, dalle amministrazioni locali e dalmondo accademico interessato alle indagini etnografiche. La pubblicazione dei volumi della rivista dedicati alle regioni italiane costi-tuisce, infatti, un esito tangibile di questa importante funzione culturale e un importante contributo conseguente ad anni di ricercadocumentaria e di lavoro di tutela di un vasto patrimonio culturale.

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Intagliata dal vento, con il cuore montano delle Barbagie.Poi, pianure, colline, montagne boscose, campagne fertili eplaghe desertiche; panorami di pietre, di mari, di stagni e

di sole. La Sardegna offre un paesaggio vario e discontinuo.Un territorio ricco di storia, di archeologia, di tradizione.Un’isola arcana, fortemente connotata nella sua identità, peravere respinto, unica Regione italiana, ogni invasione; por-tatrice di fierezza e di rigore, con quel modello di civiltà ori-ginaria indigena e tribale, che, in un lontano scritto, GuidoPiovene amò definire “primitivismo civile”.

Ora: c’è da interrogarsi sul come fare emergere tanta plu-ralità di elementi; su quale metro costruire un’immagine rap-presentativa della molteplicità dei percorsi culturali chehanno segnato il Territorio. Indubbiamente, nonostante lasua insularità e la dominanza del mare, il vero emblema dellaSardegna è il pastore che – grazie anche alla forza evocativadei Nuraghi, cioè a dire delle oltre settemila torri di sasso,piccole e grandi, a cono mozzo, disseminate nel paesaggio –si tende ad immaginare chiuso in mezzo ai monti. Il pastoreè il Sardo, quasi un’isola nell’isola: portatore di un etnostileche richiama riti, costumi ed usi; norme e regole, un modo divivere talvolta ancora sopravvivente.

Tuttora, ad esempio, è possibile incontrare pastori vestitidella mastruca: l’antico cappotto di pelle di pecora o dicapra, senza maniche che i pastori, a seconda della stagione,portano con il vello di lana all’esterno o all’interno; come èpossibile incontrare, nelle aree più interne, donne sarde conl’abbigliamento tradizionale, in specie quello festivo, adornodi straordinari gioielli di filigrana e perline: dai bottoni, allecollane, alle spille, alle medaglie religiose; un abbellimentoche, il più delle volte, si completa con grossi orecchini (arre-codas) e con moltissimi anelli, sovente più di uno per dito,con pietre colorate.

Poi vi sono le numerose feste sacre e profane che conno-tano il ciclo dell’anno, in cui la dimensione rituale fa daponte tra passato e presente, offrendosi occasione per quel-la ampia visibilità delle testimonianze folkloriche che, diver-samente, si possono ritrovare soltanto nei contesti più con-servativi, grazie alla pazienza certosina dei ricercatori; unaricerca che, di fatto, ridando segnale di valore alla culturatradizionale, impedisce che le sue tracce siano visibili esclusi-vamente nei musei etnografici che pure in Sardegna abbon-dano e sono di buon livello. Si pensi esemplarmente al docu-mentatissimo Museo della vita e delle tradizioni sarde diNuoro.

Sembra che le feste in Sardegna siano più di mille e cheogni mese, nell’Isola, si propongano varie manifestazioni: apartire da gennaio con il Santo Antonio del fuoco, ai grandiCarnevali, di febbraio ai riti della Settimana Santa (marzo-

aprile), alle partecipate ritualità di maggio-giugno: dallaSagra di Sant’Efisio a Cagliari, alla Cavalcata sarda a Sassari,tanto per citarne qualcuna; senza dire di tutte quelle festelunghe che si svolgono intorno ai santuari campestri e pres-so le antiche chiese circondate da porticati e minuscole caset-te dette cumbessias edificate apposta per ospitare i pellegri-ni. Si ricordi, tra queste, quella che si celebra a San Francescodi Lula dal 1 al 9 maggio.

A luglio si svolge l’Ardia di San Costantino a Sédilo, lafesta rimasta fedele alle proprie origini e nella quale è possi-bile vedere più “da vicino” l’ “anima popolare” sarda: ilSanto bizantino riceve l’onore di una celebre cavalcata,impressionante per la veemenza dei cavalieri e per il gran-dissimo concorso di folla. La Cavalcata,del resto, è uno deitratti più comuni con cui i Sardi riveriscono il loro deus loci.Essa ritorna di fatto protagonista nel contesto di altre festeassolutamente partecipate: tra cui la Discesa dei Candelieri aSassari o, anche, la Festa del Redentore a Nuoro o il Torneodella Sartiglia ad Oristano che è un gioco cavalleresco dimatrice spagnola, consistente nell’infilare uno stocco dentroun anello sospeso sul percorso di un cavallo lanciato al galop-po.

Il cavallo è in Sardegna quasi un animale “sacro”: com-pagno del pastore ma, anche, emblema della forza virilemaschile nel dominio di un paesaggio aspro e impervio.

Si è reputato opportuno riprendere sia pure brevementel’excursus sul ciclo dell’anno sardo per sottolineare come iltempo festivo ed il tempo dei riti siano forse l’ancoraggioancora oggi più visibile della diversità/identità dei territori. Sipensi alla “linea” dei cosiddetti prodotti tipici assolutamen-te tradizionali che si legano alle festività sarde. Tanto più chespesso è il cibo a sottolineare i momenti più importanti diaggregazione della vita pastorale.

In Sardegna, vi è un “principe della tavola” che è il pane;e anche se il più noto è il pane carasau, che era l’antico panedei pastori, indurito, in duplice cottura, per farlo durare alungo nei giorni di transumanza, va detto che non vi è cen-tro della Sardegna in cui non si possa trovare uno specialetipo di pane tradizionale. Vanno ricordati i pani rituali chevenivano confezionati in occasione di scadenze della vitafamiliare oppure per le feste sacre. Come bisogna ricordareanche i tanti, tantissimi dolci che rendono ancora più invi-tante il soggiorno in terra di Sardegna.

Altrettanto ricco è il folklore orale, con la particolarità diuna lingua che si contraddistingue nettamente nella suastruttura metrica: i mutos, i muttetos, le battorinas rimanda-no ad un lirismo primitivo ricco di pianto e di lamento, diamore e di odio conforme alla solitudine di una poesia origi-

Sardegna:tante specificità,una cultura “forte”di Annamaria Amitrano

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naria che si esprime quale retaggio della preistoria. Nellamaggioranza dei componimenti poetici, i versi sono concepi-ti e costruiti come tasselli da incastrare l’uno nell’altro secon-do un ideale di equilibrio metrico finale che va raggiuntononostante si parta da una struttura iniziale asimmetrica conrime che non sono tutte chiuse. Anzi il verso a strutturazoppa è costruito in modo che solo variandolo e ripetendolosi possa riportare in equilibrio quanto è stato costruito volu-tamente come “squilibrato”. Il grande gioco di prestigio ènella completezza della proposta formale che si chiude sull’i-terazione dei contenuti.

Forse in età nuragica si sono formate anche le primemelopee espressione di quella musicalità con cui l’uomo abi-tatore delle montagne o il solitario uomo delle greggi ha tra-dotto in note la sua riflessione dinanzi ai fenomeni dellanatura. La Sardegna può vantare un ricco repertorio di musi-ca popolare in cui l’abbondanza dei modi è davvero sor-prendente e corrisponde alla varietà dei balli, dei dialetti, deicostumi. Il ballu tundu rimanda all’antica sacralità del cerchioche diviene il simbolo di una completezza ritrovata nell’ab-braccio alternato dei danzatori maschi e femmine che, a trat-ti, levano la loro voce, all’unisono, quasi a volere sottolinea-re l’unità e la specificità della loro cultura.

Orbene, le tante Sardegne or ora evocate costituiscono lamateria che con tratto analitico propone questo bel numerodella Rivista dedicato all’Isola, prodotto dalla FederazioneItaliana Tradizioni Popolari sotto la sapiente guida di MarioAtzori, che ha voluto radunare intorno a sé una schiera distudiosi delle tradizioni sarde, tra cui lo staff dirigenzialedella FITP isolana che ha trovato in Luigi Scalas e MariaCarmela Deidda e nel loro impegno egregi rappresentanti.L’approccio problematico muove – come è giusto che accadain una società globale – dall’interrogativo circa il valoreodierno riconosciuto alla memoria collettiva, nella ripropo-sta dell’identità sarda quale vero e proprio capitale, vuoi perridefinire il sistema di un riscatto da persistenti stereotipi,vuoi per promuovere un interesse sulla cultura tradizionalerifunzionalizzata al richiamo turistico. In questo senso, esem-plari i saggi di Sebastiano Mannia e Susanna Paolis: il primocon il suo intervento sul fenomeno delle Cortes apertas, chevede appunto diversi centri del nuorese divenire teatro diuna rappresentazione fittizia della identità sarda artatamen-te rivissuta come collage di diverse tipi di identità, in realtàdistanti tra loro e racchiusi nella manifestazione turisticadelle cortes apertas; la seconda, impegnata a ricordare, comein effetti il processo di mitizzazione della cultura sarda, esitodella rifunzionalizzazione turistica, sia in realtà per l’identitàdei sardi un problema antico presente in particolare nellanarrativa ove eroi ed eroine vivono di una sorta di “cittadi-nanza poetica” grazie alla forza del paesaggio e della tradi-zione.

La dimensione letteraria e narrativa sarda viene ripresaanche da Bachisio Solinas, il quale si attarda sulle tradizioniorali che evocano la presenza nelle montagne boscose dellaGallura, come nelle foreste del Sarcidano, di banditi e bri-ganti, i quali vengono ad essere ridefiniti come attanti di unamodalità di vita assolutamente speciosa condizionata dalvivere nelle boscaglie. Tali luoghi sembrano essere suggesti-vi e performativi se è vero come è vero che è proprio in talipaesaggi che gli abitatori/eroi trovano la definizione del pro-prio profilo culturale positivo.

Che il folklore orale possa essere un forte elemento diidentificazione sia per le modalità della lingua come per laproposta metrico-formale, trova esito nel saggio di AntonioCanalis che informa sulla poesia improvvisata quale praticadiffusa dei numerosi cantori a bolu, in grado di comporrerime sugli argomenti più disparati. Canalis ricorda esemplar-mente la diffusione delle gare in tutta la Sardegna e come sutale uso si sia addirittura strutturato il Premio Ozieri, alla suapiù che cinquantennale esperienza.

Del canto polivocale e della tessitura della musica sardanella specificità delle loro attestazioni si sono occupatiChiara Solinas e Gian Nicola Spanu, in studi entrambi volti aconfermare la radicata predisposizione dei Sardi alla produ-zione di eventi multifonici, precisando, però, come le strate-gie elaborative polifoniche sia vocali che strumentali porti-no, in realtà, al livello di segno identitario il raccordo in tut-

t’uno delle linee individuali di canto e di suono.La specificità sarda è, peraltro, richiamata nelle analisi

condotte su quelle che sono gli apparati visivi della propostatradizionale, a partire dall’abbigliamento che – come ricordaLuigi Scalas – portava con sé forti segnali identitari con fun-zioni sociali complesse di genere, di censo, di appartenenzacomunitaria; tanto da proporsi come vero e proprio modellocomunicativo. Mutati i tempi l’Autore ricorda come i costumifestivi tradizionali siano oggi indossati soprattutto in occa-sione di sagre ed esibizioni spettacolari di tipo folklorico; ilche propone il concetto di una “riproposta” come luogo didecontestaulizzazione del folklore in re, senza però dimenti-care che gli elementi folklorici, sottoposti anch’essi allemutazioni dei tempi, devono essere recuperati essenzial-mente nella loro specificità di elementi indicativi di un patri-monio culturale necessariamente da conoscere.

Maria Marrosu porta una significativa testimonianza sulvalore di indicatore culturale offerto dal coltello a serrama-nico, utilizzando non a caso tale strumento come “gancio”per analizzare la condizione storico-sociale dell’anticoGremio dei fabbri. Lo stesso fa Maria Carmela Deidda per lemaschere carnascialesche sarde, studiate nei significati enelle relative espressioni simboliche quali oggetti rituali, cul-tuali e teatrali che necessitano di una costante contestualiz-zazione etnostorica per comprendere significati e valoriapparentemente dispersi.

Smuovere le acque, ripercorrere il senso della propriaalfabetizzazione antropologica permette – a nostro avviso –anche di amplificare il messaggio “conservativo” che provie-ne dai musei etnografici. Francesca Sanna ci ricorda la nume-rosa presenza in Sardegna di musei volti alla conservazionedi etnoreperti tradizionali evidenziando, però nel contempo,il loro limite: in realtà monadi autorappresentative di unacultura trascorsa oppure luoghi del sottosviluppo conservati-vo privi di potenzialità di investimento sia culturale sia eco-nomico. Piccoli, poveri musei di cose povere e polverose, natipiù che altro per offrire occasioni di lavoro clientelare e pre-cario; salvo, poi, a richiedere a gran voce il diritto ad unafutura stabilizzazione.

Ricordo, per ultimi, gli scritti di Mario Atzori e di MariaMargherita Satta, miei illustri colleghi, per ringraziarli nellamia veste di Commissario della Consulta ScientificaNazionale della Federazione Italiana Tradizioni Popolari perl’impegno con cui, curando questo numero di Rivista, hannodimostrato di non tralasciare occasione per accendere i riflet-tori sul valore e i significati che si legano ai saperi tradizio-nali; e così per esaltarne il senso ancora oggi di cultura con-divisa.

Parlare di cultura materiale come fa Mario Atzori, cer-cando di ricordare ai più, come l’artigianato tradizionale siadivenuto sotto la spinta del recupero conservativo un vero eproprio Bene culturale, spendibile come Bene risorsa su unmercato di un’economia ritrovata che tende, comunque, avalorizzare il prodotto di pregio ed etnico; oppure parlare direligiosità popolare e di feste, come fa Maria MargheritaSatta, ricordando ai più, come i percorsi devozionali dellapietas popolare ai Santuari sardi siano, al di là del sistemadella richiesta salvifica, dei veri e proprio spazi in cui lamemoria collettiva richiama i riti individuanti del sentirsisardo, significa voler attestare il valore dell’appartenenzaquale percorso di riconoscimento assolutamente imprescin-dibile, nonostante le inevitabile modernizzazioni e le inter-polazioni di ordine turistico che indubbiamente recitano perprogressivi processi di standardizzazione.

È questa la fede degli antropologi nella “forza” della tra-dizione.

In sintesi, dunque, una pregevolissima summa a disposi-zione per la lettura: vuoi da parte dei componenti della FITP,che vi troveranno adeguati stimoli per essere essi stessi coin-volti, in quanto mediatori territoriali di cultura tradizionale,in quella introspezione che va sempre esperita prima di acce-dere alla riproposta spettacolare; vuoi da parte di lettori toutcourt amanti – come si diceva una volta di “cose patrie” – chevi troveranno indubbiamente approcci ed analisi sulla cuibase comprendere il grande patrimonio della cultura tradi-zionale sarda.

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1- Gli interessi etnografici suimanufatti dell’artigianato tradizio-nale cominciarono a sorgere negliultimi decenni dell’Ottocento, men-tre era in atto la seconda rivoluzioneindustriale e, in Europa, si esauriva lafunzione economica, sociale e politi-ca delle antiche corporazioni medie-vali sostituite da diverse forme diorganizzazione del lavoro. Di frontealla competizione dei prodotti indu-striali crollava l’antico artigianatodomestico e dei mestieri. In talescontro, riuscirono a conservare unaloro vitalità soltanto i comparti cherealizzavano manufatti caratterizza-ti da qualità artistiche e da tipicitàregionali.

Alle tendenze espresse dalla stan-dardizzazione dei prodotti industria-li reagiva, come è noto, il movimen-to dell’Arts and Crafts di John Ruskine di William Morris, attratti dalleistanze conservatrici della confrater-nita dei pittori preraffaelliti, nostal-gici del Medioevo e dei relativi cano-ni estetici tendenti a valorizzare ilrustico e la presunta originalità

(Lucie-Smith, 1984, pp. 217-231). Icontesti socio-culturali ed intellet-tuali erano quelli del lungo respiroromantico, tesi a documentare cantie tradizioni orali e a raccoglierequalsiasi reperto rimandasse ad unalontana antichità oppure conducessealla spontaneità dell’anima e dellapoesia popolare.

Nella prima decade del Nove-cento, si sviluppò anche un certointeresse per la cultura materialeconnesso agli studi di HugoSchuchardt che, col metodo parole ecose (Wörter und Sachen), affinava,in termini oggettivi, le indagini glot-tologiche sul rapporto tra oggetti ecorrispondenti nomi. In tale atmo-sfera, nel 1911, Lamberto Loria, LuigiPigorini, Aldobrandino Mochi,Raffaele Pettazzoni, FrancescoNovati, Angelo De Gubernatis edaltri intellettuali allestivano a Roma,nel quadro dell’Esposizione Interna-zionale promossa per celebrare il cin-quantennale dell’unità d’Italia, la

nota mostra di prodotti e manufattiartigianali provenienti dalle regioniitaliane; nello stesso contesto, comeè noto, nell’ottobre dello stessoanno, fu organizzato il famosoCongresso della Società di EtnologiaItaliana. I prodotti materiali dellacultura iniziarono così a ricevereattenzioni e legittimazioni scientifi-che nella stessa misura in cui,nell’Ottocento, era avvenuto per icanti, le poesie e i racconti popolari.

Intanto, nei primi decenni delNovecento, mentre esplodeva la crisidella prima guerra mondiale, inItalia, si era sollecitati da due fortitendenze: da un lato lo sviluppo delpositivismo, col quale si perseguiva-no particolari istanze di secessione eapprofondimenti sul verismo regio-nalistico, dall’altra parte, con il con-solidarsi delle proposte neoidealisti-che, il “popolare”, il regionale e ilparticolare non trovavano posto neicanoni estetici dell’’arte per l’arte.Ne derivava che questo risultato nonpoteva essere ottenuto nel semplicemanufatto artigianale.

Le nozioni di arte popolare e diartigianato artistico, sebbene l’op-posizione neoidealistica crociana,riuscirono, in ogni modo, a consoli-darsi agevolate grazie agli indirizzidi politica economica e sociale perse-guiti dal Fascismo a partire daglianni ’20 del Novecento. Infatti, persuperare la crisi occupazionale, furo-no promossi sia il recupero delmodello corporativo, per agevolareil formarsi della piccola impresa arti-giana, sia l’artigianato tradizionaledelle regioni meridionali, fra le qualila Sardegna.

Dopo la seconda guerra mondia-le, una nuova industrializzazione

delle regioni settentrionali, avvenu-ta in coincidenza della ricostruzione,cosi come la stessa industrializzazio-ne dei poli di sviluppo delMezzogiorno, promossi con l’inten-to di risolvere “la QuestioneMeridionale” e con l’obiettivodichiarato di trasferire l’eccedenzadella forza lavoro dall’agricolturaall’industria, provocarono un’ulterio-re trasformazione dei sopravvissuticomparti dell’artigianato tradiziona-le.

Gli artigiani che attualmenteoperano nei comparti artigianali, apartire dagli anni ’50 del secolo scor-so, infatti, si sono trasformati da pro-duttori di beni d’uso quotidiano inproduttori di manufatti consideratiormai oggetti di arredo domestico edi prestigio; essi sono valutati conqualità artistiche; inoltre, sono offer-ti nel mercato dei souvenirs, nel qua-dro dell’industria turistica.

Tra gli anni ‘50 e la prima metàdegli anni ‘60 del Novecento, infine,se si escludono le denunce di Ernestode Martino (De Martino, 1947, pp.32-36; 1948, pp. 19-22; 1949, pp. 411-435; 1950, pp. 650-667; 1952, pp.735-737; 1953, p.3; 1955, pp. 1-33;1958; 1959; 1961), sul problemameridionale e sulla relativa arretra-tezza delle masse contadine, consi-derate, forse a torto, refrattarie adacquisire “coscienza di classe”, l’an-tropologia ufficiale, era dominata ingran parte dagli indirizzi teorici pro-posti da Paolo Toschi sull’arte popo-lare. Come è noto, secondo la conce-zione toschiana, l’arte popolaresarebbe derivata da un “tono psico-logico e lirico di semplicità e primiti-vità” (Toschi, 1944; 1960); in sostan-za, era intesa come “patrimonioespressivo del gusto dell’umilegente”; infatti, essa appagherebbe ibisogni spirituali e pratici del popoloe per questa sua funzione vitale sitrasmetterebbe nel tempo, si conser-verebbe o si modificherebbe e si ela-borerebbe secondo una propria tra-dizione stilistica fino a quando ilpopolo la sente e l’adotta come sua.

Saperitradizionali:esempi diculturamateriale inSardegnaMario Atzori

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Una prima forte reazione fumossa dalle riflessioni di AlbertoMario Cirese sulla poesia popolare(Cirese, 1958; 1965, vol. I, pp. 415-461; 1968, pp. 11-20; 1971; 1972;1976; 1977; 1988; 1997) e portataavanti con successivi approfondi-menti da altri studiosi (Buttitta A.,1958, pp. 377-380; 1959, pp. 5-41;1963, pp. 169-171; 1979); in seguito,si giunse all’acquisizione, anche inItalia, della nozione di “stile etnico”di André Leroi-Gourhan, inteso come“il modo proprio di una collettivitàdi assumere e di contrassegnareforme, valori e ritmi”( Leroi-Gourhan, 1977, voll. 2, pp. 323-327).

In quest’ultimo complesso qua-dro di interessi culturali ed economi-ci, l’arte popolare era equiparata edomologata all’artigianato artistico econ questo era inserita nel circuitocommerciale dell’industria turistica edella produzione dei souvenirs; l’ar-tigianato tradizionale, quindi, diven-tava un fatto artistico, un bene cul-turale, e così riusciva a conservareuna certa vitalità rifunzionalizzandoi comparti più vicini alle nuove esi-genze artistiche del mercato.

Gli ultimi decenni hanno visto ilverificarsi di naturali aggiornamentitecnologici nei sistemi produttivi.Allo stesso modo, nel processo dirifunzionalizzazione, le diverse tra-dizioni locali hanno subito rielabora-zioni e reinvenzioni dei modulisemantici. I comparti attualmentevitali si sono adeguati alle trasforma-zioni utilizzando le nuove tecnologienel processo produttivo.

In tale processo di rifunzionaliz-zazione e adeguamento, i compartimaggiormente interessati sono statiquelli delle ceramiche, dei metallipreziosi, del ferro battuto e degliintagli in legno. I tessuti, invece,sono rimasti in un certo senso esclusidal processo di rinnovamento tecno-logico del sistema produttivo.Nonostante ciò, per alcuni decenni,diversi settori hanno conservatobuone richieste nel mercato. I com-parti degli intrecci e dei ricami, fra iquali il filet, dal canto loro, inSardegna, non hanno subito trasfor-mazioni tecnologiche particolari.

In Sardegna la rifunzionalizzazio-ne di alcuni comparti dell’artigiana-to tradizionale è stata avviata con-temporaneamente alla valorizzazio-ne turistica dell’isola, all’inizio deglianni ’60, prima dell’industrializzazio-ne. Un’iniziale valorizzazione dell’ar-tigianato, proprio nel quadro della

programmazione turisticadell’isola, è cominciata nel1957 con l’istituzione diuno speciale ente regiona-le, l’Istituto Sardo Orga-nizzazione Lavoro Artigia-no; questo fu, per diversotempo, di forte stimoloper gli artigiani grazie al-l’opera di alcuni artisti edintellettuali come UbaldoBadas, Eugenio Tavolara,Vico Mossa, GiuseppeContini ed altri; quasi tuttiorbitavano intorno all’Isti-tuto d’Arte di Sassari: cen-tro di coagulo e di elabo-razione di nuove proposteartistiche tese ad aggior-nare la tradizione di nu-merosi manufatti. In parti-colare, segni e simboli ori-ginali furono rielaborati e adeguatiai gusti nuovi.

Il mondo dell’artigianato, secon-do questi artisti, si prestava meglioagli influssi delle nuove istanze dellesecessioni; l’artigiano era considera-to capace di rompere l’egemoniaestetica dominante, quella delle ca-tegorie crociane; così, l’artigianatodomestico e dei mestieri, in Sarde-gna, entrava in rapporto con il mon-do degli artisti ricevendo stimoli dirinnovamento.

2- La realtà economico-socialetradizionale della Sardegna, fino aglianni ‘50 del secolo appena trascorso,era costituita dal complesso equili-brio di tre settori di base: l’agricoltu-ra, la pastorizia e la pesca. Essi sicompenetravano tra loro, tanto chespesso, in uno stesso individuo, era-no presenti più competen-ze professionali; si tratta,come è noto, di un tipo disuddivisione del lavoroche, nel passato, si verifi-cava in realtà sociali edeconomiche preindustria-li, in cui le specializzazioniprofessionali rimanevanosfumate. In questo qua-dro, tuttavia, gli artigianierano quelli che, con i lorospecifici prodotti, riusciva-no meglio a distinguersima, nello stesso tempo, acorrelarsi agli altri com-parti del sistema produtti-vo; essi fornivano compe-tenze e manufatti specia-lizzati ed esclusivi. In tuttele comunità rurali dell’iso-

la, per esempio, agli olivicoltori e aivignaioli, che coltivavano oliveti e vi-gneti per la produzione di oli e vinipregiati, oppure agli agricoltori eagli ortolani, che producevano quali-tà di frumento per pane e pasta ecoltivavano grandi quantità di ver-dure e agrumi, o ai pastori, che pa-scolavano le greggi e le mandrie perla produzione di latte e formaggio,fino ad un recente passato, gli arti-giani hanno fornito validi strumentidi lavoro realizzati nelle rispettivebotteghe. A questo riguardo, si pen-si alle fucine di fabbri e maniscalchiche producevano attrezzi per i lavorinei campi: diversi tipi di zappe, diaratri, di falci e di roncole. Al mo-mento opportuno gli artigiani eranoin grado di ferrare gli animali alloraessenziali nei lavori agricoli. Infatti,buoi, cavalli e asini costituivano,quando non era ancora giunta la

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meccanizzazione, un fondamentaleausilio nelle attività produttive delmondo contadino. Si pensi, inoltre,ai carpentieri che in cantieri ubicatilungo i moli delle darsene di Caglia-ri, Porto Torres, Olbia, Cabras, San-t’Antioco, Bosa, Alghero, Orosei eArbatax realizzavano diversi tipi dibarche per la pesca d’altura, costierae lagunare.

Si trattava di un sistema produtti-vo completo e autosufficiente, nelquale, per diverso tempo, almenoper quanto riguarda le professioniimportanti, generazioni di artigianidel legno, del ferro, delle pelli, deimetalli preziosi e dell’edilizia hannolavorato e prosperato.

Per quanto riguarda l’artigianatofamiliare, in gran parte tradizional-mente riservato alle donne, si devericordare quello tessile, degli intreccie dei ricami. Per esempio, nellecomunità vicine al mare il ricamo siconnetteva facilmente alle cono-scenze tecniche elaborate per la pro-duzione di strumenti di lavoro comereti, nasse e steccati, impiegatisoprattutto nelle attività maschilidella pesca, dell’edilizia e della stes-sa agricoltura.

3- Sino al «miracolo economico»dei primi anni ’60 del Novecento, neicentri più idonei dal punto di vistaambientale, in quanto di solito postiin prossimità di corsi d’acqua o vicinoad aree portuali, dove è più facile loscarico delle acque reflue e dei resi-dui di lavorazione, si era sviluppatal’antica tradizione della lavorazionedelle pelli: un comparto artigianaleabbastanza funzionale per lo sboccodei prodotti secondari dell’impor-tante settore zootecnico.

La catena produttiva dell’artigia-nato delle pelli andava dalla fasedella concia sino alla produzionedelle calzature per opera di rinomaticalzolai e alla realizzazione di fini-menti grazie ad altrettanto bravimaestri sellai. A Bosa, per esempio,lungo l’argine sinistro del Temo,erano presenti una decina di conce-rie. Sino al periodo della crisi, causa-ta dall’industrializzazione del setto-re, avvenuta a partire dall’ultimodopoguerra, le concerie dellaSardegna sono state esempio inte-ressante di piccola industria artigia-na.

Le condizioni ambientali favore-voli per queste attività consistevanonel disporre di una grande quantitàd’acqua corrente, necessaria per

effettuare i diversi lavaggidelle pelli; inoltre, eranecessario poter smaltirefacilmente i reflui di lavo-razione diluendoli verso ilmare o verso fiumi. E’ perquesto che, fin dal passa-to, le aree portuali e flu-viali probabilmente hannoagevolato l’insediamentonell’isola delle conce per-mettendo il formarsi diconoscenze tecniche e disaperi specifici. A questoriguardo, si deve tenerpresente che le pelli eranoimpiegate anche per rea-lizzare capi di vestiario.Per esempio, la mastruca,nel mondo pastorale, èsempre stata un indumen-to importante per riparar-si dalle intemperie.

Le concerie rifornivano la materiaprima a calzolai e sellai; questi costi-tuivano la parte finale della catenaoperativa del settore. In diversi cen-tri, le loro botteghe acquistarononotorietà anche per la produzione difinimenti e selle; ancora oggi vengo-no ricordati i sellai di Ozieri, SantuLussurgiu, Dorgali, Aritzo, Tonara,Oliena, Bitti e Teulada.

Questi stessi artigiani erano rino-mati anche perché i loro manufattiin cuoio e in pelle avevano specialidecorazioni realizzate ad impressio-ne o dipinte a mano. Gli stereotipi ri-prendevano i moduli della langue fi-gurativa che caratterizza da sempregran parte della cultura materialesarda; si tratta di greche, losanghe,uccelli stilizzati, figurine antropo-morfe, simboli floreali, ecc. Questetradizioni si sono trasmes-se di generazione in gene-razione. In questo modofamiglie di sellai hannoprodotto per tanto tempofinimenti e selle per tuttoil mercato isolano; essi,inoltre, erano in grado diprodurre anche le più mo-derne selle inglesi. In Sar-degna, però, quelle più ri-chieste erano i tipi “Fon-ni”, “Ittiri” e “Santu Lus-surgiu”, progettate per ri-spondere a specifiche esi-genze di impiego delmondo agro-pastorale.Otre ai finimenti standard,si realizzavano finimentidella tradizione equestrelocale come s’istriglione,

una sorta di sellino posteriore utileper tenere in groppa le donne; inol-tre, si produceva una particolare sel-la femminile detta sezzidolzu con laquale era possibile una cavalcaturalaterale. Fino a quando si sono man-tenute vitali le antiche tecniche di la-vorazione a mano, con pelli morbidevenivano realizzati anche particolariindumenti, fra i quali era rinomatouna sorta di corpetto senza manichetalvolta ricamato e detto in sardobenzana.

4- L’artigianato delle imbarcazio-ni per la pesca costiera e lagunarecostituisce, come per gli altri com-parti, un’importante settore di sape-ri tradizionali sviluppati soprattuttonei centri di tradizione marinaracome Cagliari, Teulada, Portoscuso,Carloforte, Villasimius, nel meridionedell’isola, Cabras, Santa Giusta, Bosa

Panificazione anni ‘60.

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e Alghero nelle coste occidentali, fino a Portotorres eCastelsardo nella parte settentrionale e, quindi, Olbia, LaMaddalena, Orosei e Arbatax nella costa orientale(Manca Cossu, 1968-71; Mini, 1974; Mondardini, 1982,1985, 1988, 1990, 1995).

Nei cantieri, impegnati nella costruzione di barche epiccoli pescherecci, in gran parte, venivano impiegatilegni speciali, alcuni dei quali provenivano da tagli inboschi di querce e lecci dell’isola. Tuttavia, i legni mag-giormente utilizzati erano il rovere per realizzare la strut-tura portante, l’abete per il fasciame e il pick-pain per lachiglia e le cordonature immerse. A seconda dei diversiusi, le differenti imbarcazioni venivano prodotte seguen-do le tipologie tradizionali della carpenteria mediterra-nea. In tutti i casi, però, la barca più diffusa per la pescalagunare, soprattutto negli stagni di Cagliari e Cabras,era il chiattino. Si tratta di un’imbarcazione a fondo piat-to, lunga dai 5 agli 8 metri, larga circa un metro e 70 cme alta non più di un metro.

Nei centri costieri marinari, da sempre si era formatauna tradizione di saperi sulla pesca e sulla realizzazionedei relativi strumenti come reti, nasse e altri tipi di trap-pole per catturare le diverse specie di pesci. Le nasse veni-vano intrecciate con particolari varietà di giunco e servi-vano da base strutturale per comporre altri tipi di intrec-ci; le stesse reti, in fondo, costituivano una particolarevarietà di intreccio, nel quale la trama e l’ordito eranoformate da un unico filo con il quale realizzare le maglie.

Le nasse solitamente erano di forma troncoconica conbasi circolari o ellissoidali. Sulla base maggiore era predi-sposto un coperchio amovibile per togliere le prede cat-turate; dalla circonferenza inferiore, invece, si dipartivaverso l’interno una reticella a forma di imbuto al fine diconsentire un facile accesso ai pesci che vi si introduceva-no attirati dall’esca predisposta dai pescatori. I supportiportanti delle nasse più voluminose erano realizzati consottili rami d’olivastro intorno ai quali venivano intreccia-te le maglie con il giunco. In questi tipi più ampi, l’aper-tura per estrarre le prede veniva praticata sul dorso, inmodo tale che il pescatore potesse facilmente introdurviil braccio. Le reti, dal canto loro, venivano prodotte daipescatori nei momenti di riposo: di solito nelle ore dellatarda mattina o del pomeriggio, prima della partenza perla pesca serale e notturna.

5- La logica dell’intreccio delle reti da pesca, nei cen-tri costieri, così come avveniva in tutto il Mediterraneo,spesso rimandava a quella delle corrispondenti reti impie-gate per i ricami e, in particolare, per produrre il filet(Atzori, 1977, pp. 20-25; Rapallo, 1983, pp. 142-155;Bellini, 2004). Nella catena operativa di questo tipo diricamo, come prima operazione si realizzava un anellofacendo passare il filo attraverso l’ago e il modano. Si for-mava così la base da cui partiva il lavoro che, per motivipratici, veniva fissato alla spalliera di una sedia. Si realiz-zava in questo modo la prima maglia che costituiva l’uni-tà di misura in base alla quale sviluppare il ricamo. I suc-cessivi intrecci venivano ottenuti con l’impiego di un agodi ferro dello spessore di circa due o tre millimetri.L’operazione procedeva in modo continuo costruendo,sulla base del progetto, le diverse forme e i moduli trattidalla tradizione iconografica artigianale sarda: fiori stiliz-zati, tralci di vite e grappoli d’uva, uccelli e pavoni, garo-fani, greche e losanghe. Anche in questo caso essi pro-vengono da una langue da tempo consolidata e diffusa in

tutta la regione. I ricami dei filet sardi, come è tradizione,si caratterizzano per le iconografie basate soprattutto sumotivi di flora e di fauna.

6- In tutte le realtà culturali, sul piano storico, i saperiper realizzare terrecotte probabilmente sono i più arcaiciinsieme a quelli per realizzare manufatti ad intreccio;sicuramente rimandano alla lontana Preistoria. Inentrambi i generi, tuttavia,come è da tempo noto, iprodotti megliorispondenti adesigenze ope-rative fonda-m e n t a l isono cer-tamente iconteni-tori incerami-ca, neiquali èpossibi-le con-tenereliquidi.Inoltre,rispet-to ada l t r iprodot-ti realiz-zati conmaterialidegradabi-li come lefibre vege-tali, peresempio gliintrecci, ocome quelleanimali, lec e r a m i c h ehanno il van-taggio di con-servarsi alungo e, perquesto motivo,una volta recu-perate, doposecoli, costituisco-no elementi impor-tanti per caratteriz-zare e definire unaparticolare realtà cul-turale. In pratica,soprattutto per le epo-che più antiche, le testi-monianze dei reperti cera-mici consentono di fissare ericostruire le diverse epochedei contesti culturali e dei sitidi ritrovamento.

In Sardegna, come in altreregioni, i reperti ceramici rinve-

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nuti negli scavi archeologici di siti preistorici rimandanoad epoche lontane, quando ancora la lavorazione dell’ar-gilla avveniva con la tecnica a «colombino»: la sovrappo-sizione di una striscia sull’altra. Il tornio che consentì dimanipolare meglio l’argilla fu realizzato soltanto in segui-to.

Nel passato, dal comparto ceramico provenivano unaserie di manufatti utili per le attività quotidiane della

famiglia; si trattava di broc-che e anfore di varie

misure per l’ap-provvigionamen-

to idrico, per iltrasporto e laconservazio-ne di variliquidi trai qualivino eo l i o .C’erano,inoltre,stovigliedi diver-si tipiper cuci-nare eper man-giare; siproduce-

vano interracottat e g o l e ,mattoni epianelle peril settoreedile, tubiper scarichipluviali ef o g n a r i ,ecc.; ing e n e r e ,erano pro-dotti parti-co larmenterichiesti sianei mercatiurbani, sia neipiccoli centri

rurali.In Sardegna,

dall’alba dell’epo-ca moderna fino

agli inizi degli anni’50 del Novecento,

quando nei centriagro-pastorali dell’iso-

la non era stata realiz-zata la rete idrica per la

distribuzione dell’acquanelle abitazioni, gli arti-

giani delle terrecotte per laproduzione di brocche edanfore costituivano un com-

parto abbastanza attivo,

tanto che diversi centri si caratterizzavano per la tradizio-ne dei figuli.

Un ceramista al lavoro che manipola con maestria l’ar-gilla, che la plasma sul piatto del tornio, rendendola qual-cosa di vivo, costituisce ancora oggi uno spettacolo di par-ticolare interesse. Si ammira uno spettacolo nel quale loscenario è costituito dagli spazi di bottega e dagli stru-menti di lavoro e dove si ripete una sorta di «rito» nelquale si ottiene la trasformazione della materia grezza incultura.

I manufatti della tradizione popolare della Sardegnasono molto semplici e riguardano soprattutto anfore ebrocche di diverse dimensioni, piatti, scodelle, pentole ecasseruole, che costituivano il corredo di cucina dellefamiglie sarde. Nel passato, questi oggetti venivano pro-dotti per tutto il mercato isolano in alcuni centri caratte-rizzati dalla presenza, nel loro territorio, di giacimenti diargilla pregiata. Sino all’inizio degli anni ’50 delNovecento, l’arte del vasaio e stovigliaio era una realtàimportante ad Assemini, nel Cagliaritano, a Pabillonis, adOristano, a Dorgali e a Siniscola, nel Nuorese e a Sassari,dove operavano validi ceramisti, alcuni dei quali sono statitra i fondatori dell’Istituto d’Arte.

Gli artigiani che attualmente operano nel settore cera-mico in Sardegna traggono la loro tradizione dagli influs-si che giunsero nell’isola dopo il Mille con l’arrivo dellemaestranze tosco-liguri al seguito degli ordini religiosioccidentali, dopo la fine della presenza del monachesimogreco-bizantino e dopo il passaggio delle diocesi sardealla giurisdizione della Chiesa romana. Insieme ai frati diosservanza benedettina giunsero nell’isola anche mae-stranze specializzate in edilizia e in numerosi altri com-parti. Da queste presenze è probabile che siano sorte e sisiano diffuse le prime corporazioni di mestiere sul model-lo di quelle che si erano formate in altre regioni. Inoltre,la corporazione dei figuli probabilmente ha diffuso imoduli formali di una ceramica vascolare povera, abba-stanza simile a quella prodotta nell’isola fino alla metà delNovecento.

Questa ceramica può essere schematicamente classifi-cata in tre tipi: 1) contenitori per la conservazione di liqui-di, in genere, acqua e olio; 2) recipienti di varie forme perla preparazione e cottura di cibi; 3) piatti, scodelle, ciotto-le, boccali e bicchieri di forme e capacità varie, impiegati,in genere, per consumare i cibi durante i pasti (Atzori,1991, pp. 365-379). Nel primo gruppo rientravano le broc-che (marigas) di diversa capacità (le misure andavano dauno a dieci); le più capienti solitamente non superavano iventi litri. Fra le brocche erano abbastanza caratteristichequelle dette frascus; erano molto basse con una baseampia e la struttura formale simile a quella delle casse-ruole. Su un lato era innestato un collo stretto e basso,allacciato a due manici laterali. Il recipiente veniva impie-gato, fino agli anni ’50 del Novecento, da contadini e dapastori come contenitore d’acqua durante il lavoro. Laporosità dell’impasto consentiva una certa trasudazione,sufficiente per rinfrescare l’acqua alla semplice brezza oall’ombra di una pianta.

Per la conservazione dell’acqua, nel passato, oltre allebrocche venivano impiegate le anfore (brugnas) e le con-che molto capienti (cossius). Queste ultime erano utilizza-te anche per fare il bucato. Infine, le giare (zirus), come siè già visto, servivano soprattutto per conservare olio evino per la mescita immediata. All’interno erano adegua-tamente impermeabilizzate con uno spesso invetriato per

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Brocca invetriata.Realizzazione di Luigi Nioi Assemini(anni ’70)

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l f o l k l o r e d ’ I t a l i a i l f o l k l o r e d ’ I t a l i

evitare la trasudazione.Appartengono al secondo gruppo le diverse pentole e casseruole, anch’esse di varie capacità, impiegate nella pre-

parazione e cottura dei cibi. Fra questi contenitori si devono considerare anche le conche di dimensioni medie che ser-vivano per preparare la pasta per le focacce (modditzosu) e per fare il formaggio; il loro uso aveva lo scopo di evitarel’impiego di contenitori in metallo per riscaldare il latte. Infatti, quelli in rame avevano l’inconveniente di rilasciare ossi-di pericolosi per intossicazioni.

I manufatti del terzo gruppo costituivano, per le famiglie agro-pastorali, il corredo di stoviglie impiegate per con-sumare i cibi; erano piatti di forma concava per minestre e brodi, piani per la pasta, come gnocchetti (malloreddus, inCampidano, cicciones, in area logudorese) o ravioli (culinzonis) e per carni arrosto e lesse. Scodelle e bicchieri, anch’es-si in ceramica, erano molto semplici; le prime venivano realizzate sfruttando la stessa struttura formale impiegata nellebrocche, mentre i bicchieri erano cilindrici, con un manico da un lato. Nella realizzazione dei boccali si sfruttava anco-ra una volta la forma base delle anfore e delle brocche.

Le notizie sulle corporazioni medievali dei vasai che costituirono il punto di partenza della tradizione delle cerami-che d’uso comune sono molto scarse. Il documento più attendibile è stato pubblicato nel 1961 da Francesco LoddoCanepa in un lavoro sugli statuti di alcuni “gremi”. In quest’opera, fra gli altri testi, è riportato lo Statuto del 1692 dellacorporazione dei figuli di Oristano (Loddo Canepa, 1961, p. 176). Dal documento si evince che, in quella zona ricca diargille, da tempo si era andato formando un importante centro di pro-duzione.

Fino all’Ottocento, le notizie sulle zone della Sardegna,dove si erano formate le tradizioni d’artigianato ceramico,sono molto generiche. Ne danno alcune informazioni,nelle loro opere, Alberto La Marmora e Vittorio Angius.Quest’ultimo, come è noto, avendo curato le voci sullaSardegna nel Dizionario geografico storico economicodei regni sabaudi diretto dal Casalis, ebbe modo diverificare, con una certa attendibilità, i dati relativialle attività artigiane presenti nei diversi comuni. Lenotizie dell’Angius riguardano esclusivamente l’ar-tigianato della terracotta e la produzione soprat-tutto di Oristano, Pabillonis, Decimomannu,Assemini e Villaputzu.

Nei primi decenni del Novecento, lo stesso tipodi artigianato si diffuse ulteriormente, migliorandola qualità; è quindi presente a Siniscola, Dorgali, S.Sperate, Teulada, Nurallao e in piccole aziende alivello protoindustriale a Cagliari e Sassari. L’attivitàè documentata da Amerigo Imeroni in un noto lavo-ro del 1928 sulle piccole industrie sarde (Imeroni, 1928)e, nel 1935 dall’architetto Giulio Ugo Arata e dal pitto-re Giuseppe Biasi in una loro famosa opera sull’arte sarda(Arata, Biasi, 1935).

La base di quest’espansione produttiva, così come è avve-nuto anche in altre regioni meridionali, fu l’arrivo in Sardegnadell’economia di mercato che determinò il sorgere di un sistema piùdinamico rispetto a quello tradizionale, fino ad allora fondato soprattut-to sul baratto più che sulla transazione monetaria. Si trattò di un’espansione che interessò parecchi settori dell’arti-gianato tradizionale; questi furono coinvolti nelle prime trasformazioni tecnologiche, quali l’introduzione, nel proces-so produttivo, dell’energia elettrica e delle moderne macchine utensili che accelerarono i tempi e i processi di lavora-zione.

Molti comparti artigianali, in questo quadro economico-sociale, furono interessati anche nella ristrutturazione deirapporti di produzione. Alcuni, però, entrarono in crisi iniziando un lento declino, come si è già accennato. Il compar-to ceramico sardo cominciò a modificare i modelli tradizionali con l’intento di migliorare la qualità dei prodotti inmodo da renderli competitivi con quelli che giungevano da altre regioni. Questa scelta, avvenuta molto lentamente tragli ultimi decenni dell’Ottocento fino agli anni ’30 del Novecento, era stata facilitata anche dall’abolizione nel 1864delle corporazioni artigiane che, a causa del loro sistema chiuso e vincolante, limitavano la libera concorrenza dellaforza lavoro.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, che aveva fatto scoprire ai Sardi il significato e l’importanza sociale e politica dellapropria identità culturale, diversi artigiani, all’inizio degli anni ‘20, raggiunsero un livello professionale di particolarepregio. Cominciava a formarsi la tendenza culturale a valorizzare i segni della «sardità», intesa come qualità identita-ria ed estetica. Quest’impronta giungeva agli artigiani anche da opere di artisti che si collocavano nel quadro dellesecessioni. Fra questi si deve ricordare Francesco Ciusa che, mentre dirigeva nel 1919 a Cagliari una fabbrica di cerami-che artistiche, alla quale aveva assegnato il nome simbolico di Spira, chiamò come collaboratore Ciriaco Piras, un gio-vane pastore barbaricino, nato a Dorgali, abilissimo nell’intaglio e nelle sculture in legno e sughero. Dopo due anni diapprendistato e studio Piras tornò a Dorgali dove aprì una bottega di ceramiche artistiche. I suoi manufatti mutuava-no dalle strutture formali e dai segni della tradizione.

Brocca della sposa. Realizzazione di TeresaDeidda Assemini (anni ’70)

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Durante il ventennio fascista fu istituito l’EnteNazionale dell’Artigianato con l’intento, nel quadro dellaconcezione neocorporativa elaborata dal regime, di risol-vere il problema della disoccupazione con la tutela dellapiccole industrie artigiane. Nella stessa logica fu istituitoil Comitato Nazionale Italiano per le Tradizioni Popolari:un istituto che portava avanti una politica di valorizza-zione del folklore locale secondo i programmi decisidall’Opera Nazionale Dopolavoro e le direttive proposteda Luigi Sorrento e da altri demologi, linguisti ed etnolo-gi (Gino Bottiglioni, Raffaello Corso e Paolo Toschi).

In questo contesto politico-economico-culturale, giàdalla fine degli anni ’20 del Novecento, la SocietàCeramica Industriale di Cagliari, con sede in viale Triestee in Via Pola, sorta per la produzione di mattoni refrat-tari in argilla e caolino estratti delle cave di Nurallao,Laconi, Nurri, Serrenti e Furtei, aprì un laboratorio per larealizzazione di ceramiche artistiche con motivi tradizio-nali. La struttura fu affidata a Federico Melis, che alloraaveva bottega ad Assemini e produceva modelli anch’es-si tradizionali, sebbene dimostrasse di inserirvi elementiinnovativi. Partendo da autodidatta egli era riuscito adavere riconoscimenti positivi grazie alla realizzazione diimportanti opere; fra l’altro fu chiamato ad insegnaretecnica ceramica negli istituti d’arte.

Nonostante le varie difficoltà determinate dalle inge-renze del Fascismo, furono portate avanti diverse iniziati-ve. In pieno periodo autarchico, nel 1940, decollò la pic-cola fabbrica di ceramiche e maioliche di AlessandroMola. Questi, partendo da condizioni modeste, con gliaiuti che ricevette da Enrico Palladino, direttore di unaGalleria d’Arte, e dal Sindacato Fascista delle Belle Arti,riuscì ad ampliare il laboratorio. Sull’impresa Mola,Nando Camellini, usando la retorica del tempo, scrivevanell’Unione Sarda dell’8 marzo 1940: «I materiali sonotutti nostri: pasta, refrattari e colori, collaudati da ripetu-te prove. Autarchia realizzata in pieno che evita gli intral-ci di difficoltose forniture e che dà la sicurezza di un lavo-ro metodico mettendo anche in rilievo la capacità pro-duttiva dell’Isola». Nel 1946, nell’immediato secondodopoguerra, si devono segnalare altre iniziative. Adopera della famiglia Guiso-Gallisai, sorgeva a Nuoro,nella regione Biscollai, una fabbrica di porcellane. AdOristano, nello stabilimento di laterizi della Ditta Alquatie Ferrari, veniva impiantato un reparto artigiano per laproduzione di maioliche.

Intanto, grazie alle conquiste della moderna tecnolo-gia, fu possibile disporre di forni elettrici di piccoledimensioni, più manegevoli di quelli a legna. Ciò consen-tì a diversi artisti sardi, fino ad allora prevalentementeimpegnati nella pittura e nella scultura, di acquisire unacerta dimestichezza con le tecniche ceramiche, propo-nendo interessanti esperimenti. Così come era avvenutoin precedenza in altri settori, questi artisti inserirononelle loro opere molti motivi formali e segnici della tradi-zione popolare.

Nello stesso tempo in cui si verificava questo fenome-no di élite, gli artigiani ripresero a produrre manufattisemplici realizzati in terracotta e invetriati a galena,come quelli tradizionali; erano prodotti che sostituivanoquelli industriali in quel periodo ancora scarsi in conse-guenza della distruzione degli impianti durante la guer-ra.

All’inizio degli anni ‘50 subentrò una breve crisi cau-sata dalla necessità di convertire il tipo di produzione conuna più moderna che potesse essere meglio accettata dalmercato dei souvenirs e da quello turistico, che intantocominciavano ad affermarsi. Ci si rendeva conto che il

mondo agro-pastorale del passato non poteva costituirepiù un committente valido. Intanto si determinarono ipresupposti per l’istituzione di una struttura amministra-tiva che fosse in grado di tutelare ed assistere gli artigia-ni. Alla fine degli anni ‘50, Ubaldo Badas insieme adEugenio Tavolara parteciparono alla stesura del 1° Pianodi Rinascita della Sardegna per la parte che riguardaval’artigianato.

La conseguenza immediata fu l’istituzione, nel 1957,dell’Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano. Conalcune incertezze, ma con un sostanziale impegno, que-sto Ente è stato in grado di tutelare e anche reinventare,secondo moduli stilistici adeguati ai tempi, il vasto patri-monio culturale etnografico e di saperi dell’artigianatotradizionale della Sardegna. Si è trattato di una comples-sa attività di assistenza e incentivazione rivolta ad arti-giani e a cooperative che intanto si erano formante in piùcentri.

In circa cinquant’anni, sebbene talvolta siano sortimalumori tra artigiani ed Ente, l’impegno dell’I.S.O.L.A.comunque ha consentito di conservare vitali numerosicomparti. In questo processo, iniziato in Sardegna allafine degli anni ‘50, non deve essere sottovalutato il par-ticolare impulso fornito dagli Istituti Statali d’Arte; inquello di Sassari, nel 1949, fu istituito un laboratorio diceramica; mentre, nel 1951, ad Oristano, fu istituito unnuovo Istituto d’Arte nel quale veniva privilegiato il set-tore ceramico in quanto l’Oristanese era la zona a mag-giore tradizione ceramica.

Nell’isola, attualmente, operano numerosi laboratoriartigiani nei comparti tradizionali; essi costituiscono unaparte rilevante dell’indotto dell’industria turistica che,nell’arco degli ultimi quarant’anni, rispetto al fallimentodell’industria petrolchimica, è stata la scelta economicavincente; essa è stata, infatti, quella socialmente, cultu-ralmente ed ecologicamente più adeguata alle condizio-ni strutturali della regione, anche se, nei primi tempi, fusottovalutata e, in certi casi, avversata da diversi settoridella classe dirigente sarda e da numerosi intellettuali,illusi nel tentare a sognare, attratti dalle utopie allora dimoda, la proletarizzazione dei ceti agro-pastorali. Essinon si sforzarono a trovare soluzioni facilmente innesta-bili alla realtà ambientale e socio-culturale tradizionaledella Sardegna quando si cominciò ad attuare il Piano diRinascita.

Dopo mezzo secolo e soprattutto dopo il recupero,non solo della storia e delle identità locali e individuali,rispetto all’enfatizzazione delle concezioni sul gruppo esulla società collettiva degli anni precedenti, dall’ultimodecennio del Novecento, insieme al sorgere dei diversitipi di fondamentalismo è sorta anche una reazione aduna nuova forma di massificazione che, in modo subdolo,proviene dal moderno sistema economico della globaliz-zazione nella quale tutto viene uniformato e inglobato.

In questa reazione, estremamente complessa e, percerti aspetti, talvolta anche contraddittoria, si colloca l’in-teresse e il recupero degli antichi saperi, tra i quali quellidi certi comparti dell’artigianato tradizionale costituisco-no ormai una sorta di riappropriazione di una condizioneumana e naturale che si rischia di perdere in quanto stri-tolati dalla tecnologia. La riscoperta degli antichi saperi,facendo ricorso alla nostra lunga memoria di un passatonello stesso tempo lontano e prossimo, consente allegenerazioni del XXI secolo di esorcizzare ancora unavolta gli spettri delle novità e delle trasformazioni, cheineluttabilmente si rifunzionalizzazano e si adeguanocomunque alle esigenze dei tempi indossando, se ènecessario, anche le vesti dei saperi tradizionali.

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Santuari,religiositàpopolaree feste

M a r i a M a r g h e r i t a S a t t a

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1. Le diverse realtà culturali spesso applicano, nella costruzione della propria storia, griglie interpretative per pro-porre periodizzazioni e schematizzazioni utili ad orientare se stesse in riferimento a quadri più generali. Per realizza-re analisi corrette, tuttavia, è necessario adattare griglie sia per interpretare i processi generali, sia per arrivare ad inter-correlare i diversi processi che si collocano in una data fenomenologia storica in cui è vitale un determinato fenomenoculturale. Le situazioni generali, inoltre, subiscono varie forme di adattamento, in modo tale che i fatti non ricevanouna lettura distorta, anche perché gli eventi culturali presentano caratteri cumulativi leggibili solo attraverso la grigliadi dinamiche dialettiche contraddittorie, in quanto sono dati dalla compresenza di innovazione e tradizione, di cam-biamento e conservazione (Buttitta, 1996, 1997)

I santuari della Madonna di Bonaria a Cagliari, della Madonna di Valverde nei pressi di Alghero e di san Costantinoa Sedilo e i loro relativi culti sono certamente frutto di interrelazioni con culture diverse che hanno portato da unaparte, a conservare forme tradizionali e dall’altra, a modifiche, adattamenti e rifunzionalizzazioni. In questo senso, per-tanto, essi costituiscono una serie di momenti esemplari in riferimento al quadro generale della storia religiosa della

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Sardegna.In primo luogo, sono luoghi di memoria, in quanto

ripropongono, tramite una trasmissione culturale, operadi una ben precisa selezione culturale, forme specifiche dimessaggi religiosi. Nella realtà sociale, detti messaggisono frutto da una parte, della mediazione che si stabili-sce tra produttore e consumatore e, dall’altra parte, deri-vano dalla capacità della stessa mediazione di reinterpre-tare tali messaggi, seguendo sia le esigenze di un cattoli-cesimo moderno, sia i vissuti personali dei fedeli o consu-matori di credenze religiose. In questi processi è necessa-rio tener presente l’articolazione del culto da parte dell’i-stituzione, le forme devozionali e, in particolare, l’affer-mazione e la diffusione del potere taumaturgico sull’im-possibile, cioè su quegli eventi che vengono definiti mira-coli.

Questo approccio attuato attraverso le forme di reli-giosità popolare legge la storia del santuario, recuperan-do la diacronia in una prospettiva sincronica. La rilevanzasociale del fenomeno e il fatto che si rappresenti e si rac-conti nello spazio e nel tempo la storia religiosa del san-tuario e del suo contesto territoriale più o meno ampioautorizzano ad assimilare «i fenomeni di inserimento spa-zio-temporali al sistema di simboli di cui il linguaggio è lostrumento principale; essi corrispondono ad una vera epropria presa di possesso del tempo e dello spazio (…), auna addomesticazione nel senso più stretto perché por-tano alla creazione (…) di uno spazio e di un tempo suiquali si può avere un dominio» (Leroi-Gourhan, 1977, p.366).

Questo addomesticamento simbolico, di fatto, «con-duce al passaggio dalla ritmicità naturale delle stagioni,dei giorni, delle distanze percorribili a una ritmicità rego-larmente condizionata nella rete dei simboli del calenda-rio, delle ore, delle misure che fanno del tempo e dellospazio umanizzati la scena su cui l’uomo domina la natu-ra. Il ritmo delle cadenze e degli intervalli regolarizzati sisostituisce alla ritmicità caotica del mondo naturale ediventa l’elemento principale della socializzazioneumana, l’immagine stessa dell’inserimento sociale»(Leroi-Gourhan, 1977, p. 366). In questo modo, conver-tendo il continuum nel discretum, il caos nel cosmos, l’uo-mo si è posto al centro dell’universo e si è attribuito ilpotere di dominare, segnare e celebrare il tempo(Buttitta, 1978a).

Il calendario e gli itinerari dei pellegrini per rinnovarela memoria e la promessa riflettono la storia e le partico-larità geografiche ed economiche di quei luoghi dimemoria (Delumeau, 1992, p. 93) e ricompongono eripropongono un’immagine ideale del santuario e delsanto. Il pellegrinaggio è una realtà familiare e consueta;fa parte del paesaggio e si inserisce, come una compo-nente necessaria, fra gli eventi che scandiscono il corso diogni anno. Oltre a quanto ha in sé di festivo, il pellegri-naggio fornisce il conforto di una presenza collettiva, diuna liturgia ordinata e di una sicurezza, quella del repli-carsi del ciclo delle stagioni (Delumeau, 1989, p. 97). Nelripetere ogni anno gli stessi gesti e comportamenti ritua-li esiste l’intenzione, come ben sintetizza Cirese, di «ri-produrre eventi, gesti o comportamenti già altra volta ealtrove verificatisi, e di riprodurli non solo nel senso in cuiuna immagine riproduce un oggetto o una persona, maanche nel senso più forte di produrre di nuovo, iterare ereiterare, far sì che si verifichi di nuovo» (Cirese 1977, p.67).

Dal punto di vista di luogo di memoria, di ricordo e difama, il santuario ha la capacità di diffondere «la suapotenzialità su di un certo perimetro» (Van der Leeuww1956, p. 297). E’ il sistema santuariale, come affermaPietro Clemente, «a poter documentare come si organiz-

za territorialmente la religiosità popolare, e come essaspecializza e totalizza le richieste di intercessione celeste(…). In tal senso è necessario elaborare anche tassonomierelative al bacino di utenza (locale, areale, regionale,interregionale, nazionale) e al livello di notorietà dei cen-tri che risponda nel modo più proprio all’esigenza diimmaginare una “società vovente” nella sua pienezzasociale, territoriale e nella sua mobilità» (Clemente, 1987,p. 20)

I santuari hanno svolto, ed ancora oggi svolgono inuna certa misura, la funzione di nodi centrali di incontro,scambio e redistribuzione (Cirese, 1997, p. 138). Il percor-so di memoria e di ringraziamento che tutti gli anni ifedeli compiono verso i tre santuari rientra nelle pratichee forme cerimoniali tipiche della religiosità popolare.Recarsi al santuario dedicato alle Madonne e a sanCostantino, protettori con una specializzazione ben pre-cisa, soprattutto nel passato, ma in alcuni casi anche oggi,per la richiesta di intercessione o per definire e sciogliereun voto, oppure semplicemente per il solito viaggio diringraziamento annuale, costituisce occasione di gioia,ma allo stesso tempo comporta spese, fatica ed enormedisagio. Il pellegrinaggio di memoria era ed è, per lamaggior parte delle persone, sentito come un dovereverso il proprio patrono.

2. La Madonna di Bonaria, in Sardegna, è considerata,per eccellenza, patrona dei naviganti; nel santuario che leè dedicato, e nel piccolo museo annesso, si ritrova uncerto numero di modellini di vascelli, offerti come exvoto; per esempio è giunto sino a noi un ex voto costitui-to da una navicella di avorio, che misura circa trenta cen-timetri e che risale ai primi del 1400, donato, secondo latradizione, da una pellegrina diretta in Terrasanta. Lafama di questo ex voto è dovuta alle virtù miracolose adesso attribuite; infatti, si riteneva che la navicella con isuoi movimenti indicasse ai naviganti la direzione deiventi, al di fuori del golfo di Cagliari.

Nella tradizione votiva, quindi, il santuario dedicatoalla Madonna di Bonaria assume un ruolo di assoluta cen-tralità. Questa Madonna possiede una storia fondata suun avvenimento di tipo mitico, costruita su un raccontoche narra di apparizioni e di miracoli. La storia si svolgeattorno al santuario che è sempre stato meta di pellegri-naggi. Di fatto alla base del suo culto, c’è un evento pro-digioso, quale, per esempio, il ritrovamento del simulacroin modo straordinario. In genere, tale storia diventaimmediatamente riconoscibile grazie ad alcuni elementiessenziali che costituiscono i connotati identificativi delsuo potere taumaturgico o del suo speciale patrocinio

Le testimonianze della diffusione del culto dellaMadonna di Bonaria, anche se non mancano attestazioniper i secoli precedenti, diventano particolarmente nume-rose nel XVI secolo. Antioco Brondo, teologo mercedariodel cenobio cagliaritano, nel volume Historia y milagrosde N.S. de Buen Ayre de la ciutat de Caller de la isla deCerdena (1595) riferisce di 199 miracoli. Particolarmentesignificativa della diffusione di tale culto è anche la varie-tà della provenienza dei miracolati: soprattutto marinai,patroni, nobili, religiosi, semplici passeggeri di navi; vicompaiono genericamente sardi, valenziani, catalani,genovesi, napoletani, ragusani o più genericamente sici-liani.

La leggenda di fondazione del santuario riprende, inparte, la storia e la geografia di quei luoghi. Il racconto,così come le sue varianti, ha avuto sicuramente le sueragioni, anche se, a parte alcune notizie certe, desumibi-li da fonti archivistiche, contiene diversi elementi chiara-mente leggendari, provenienti da tradizioni orali e dasuccessive rielaborazioni.

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Per cogliere gli esatti terminidella storia di fondazione, è neces-sario tenere presente che il santua-rio, le pratiche devozionali e il cultodella Madonna sono amministratidal XIV secolo da monaci e damonache della regola mercedaria,giunti nell’isola a seguito della con-quista aragonese, dopo la conces-sione in feudo della Sardegna edella Corsica, in quel temporette da Pisa, a Diacono IId’Aragona da parte diBonifacio VIII. Il santua-rio, infatti, sorge nei pres-si del castello di Cagliari,dove le truppegiunte con l’infan-te Alfonsod’Aragona sistanziarono perintraprendere nel1325 la presa di posses-so della Sardegna; in tale occasione,il luogo fu definito col nome di BonAyre (Putzulu, 1970, pp. 28-30). Inquella roccaforte aragonese furonocostruite non soltanto fortificazionima anche una chiesa dedicata alla SS.Trinità e alla Beata Vergine Maria.Dopo la caduta del castello diCagliari nel 1327 e la definitiva scon-fitta dei Pisani, il borgo aragonese diBonaria perse la sua funzione eimportanza poiché i suoi abitanti sitrasferirono nella vicina città. ABonaria restarono soltanto i merce-dari che furono sempre assistiti daisovrani aragonesi e spagnoli ancheper il ruolo che essi in seguito svolse-ro nel pagamento dei riscatti in favo-re degli schiavi resi tali dai piratimoreschi del nord Africa.

Su questi avvenimenti storici, nelcorso degli anni, si sono innestati al-cuni racconti di fatti di tipo leggen-dario che sarebbero avvenuti nel san-tuario per quanto riguarda il simula-cro della Madonna. Un primo “mira-colo” pare abbia coinciso con lo spo-polamento del borgo e il trasferi-mento dei suoi abitanti nel castello diCagliari. A Bonaria rimasero soltantopoche persone dedite alla pesca. Fraqueste vi era un soldato di origineitaliana, particolarmente abile nelgioco delle carte. Costui sfidò un suopari ad una partita la cui regola prin-cipale imponeva l’obbligo di conti-nuare il gioco fino alla perdita com-pleta dei propri averi. Come si verifi-ca in molte tradizioni, è una costanteche, prima di una prova impegnativa,il protagonista si rivolga alla divinità.Il giocatore di origine italiana, quin-di, prima di iniziare la sfida, si recò alsantuario della Madonna per chiede-re protezione. Nello stesso tempo,minacciò la Madonna, dicendo che,in caso di sconfitta, l’avrebbe ferita

con laspada. La leg-genda racconta che per

il soldato italiano lapartita fu più

diffici-le di

quantonon aves-se previsto;egli persetutto compresala spada. Arriva-to al colmo della di-sperazione, si narrache si sia scagliato con-tro l’avversariostrappandoglila spada appe-na persa e, reca-tosi di corsa inchiesa, abbia ferito alcollo il simulacro del-la Madonna, com-piendo un sacrile-gio. La leggendacontinua col fattoprodigioso: pareche dalla ferita siasgorgato il sanguedeterminando co-sì, da quel mo-mento, il consoli-darsi di una piùintensa venera-zione per quelsimulacro.

Così, come èconsuetudinein questi casi,il fatto mira-coloso si dif-fuse rapida-mente tra le popo-lazioni della zona edi altre regioni,provocando l’ini-zio dei pellegri-naggi al santuariodi Bonaria, pervenerare la statua ferita.Tra i diversi pellegrini, vigiunsero anche alcuninobili veneziani che chiese-ro ai frati di intercederepresso la Madonna perchédonasse al Castello diCagliari, dove essi sostavanodurante i loro traffici, un’a-ria più salubre, meno infet-ta dai miasmi provenienti

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dalle vicine paludi. La tradizionevuole che un frate chiamato CarloCatalà abbia risposto formulandouna profezia che si avverò con l’arri-vo prodigioso di un nuovo simulacroche prese il nome di Madonna diBonaria (Satta, 2000, pp. 224).

Così come si riscontra per altrisantuari con specifiche varianti, nellanuova storia leggendaria si raccontache, nel 1370, una nave provenientedalla Spagna e diretta verso l’Italiasia stata colta improvvisamente dauna violenta tempesta. Poiché lasituazione si faceva sempre piùgrave, l’equipaggio fu costretto agettare in mare una parte del carico,tra cui una robusta cassa di legno.Contrariamente al resto dei materia-li, la cassa non solo rimase a galla,ma appena toccò l’acqua la tempestasi calmò. Nella speranza di recupera-re qualcosa, i marinai cercarono diraggiungere la cassa con una scialup-pa. Fu un tentativo vano: la cassa liprecedeva di un miglio e sembravadirigersi autonomamente verso laSardegna. Anche la nave non rispon-deva ai comandi e sembrava attrattadalla cassa misteriosa. Il 25 marzo1370, cassa e nave approdarono nelporto di Cagliari di fronte al conven-to dei Mercedari.

A questo punto, si pose il proble-ma del recupero, ma nessuno riuscìin tale intento. La questione non sirisolse fino a quando un ragazzofece notare, su un lato, lo stemmadei Mercedari. Fu subito suggerito dichiamare i frati del vicino conventoche facilmente riuscirono a traspor-tare la cassa a terra e, quindi, la apri-rono e trovarono la statua di unaMadonna che teneva sul braccio sini-stro il bambino e, alla destra, unacandela accesa.

La leggenda riferisce che si tentòdi sollevare la statua con l’intento diportarla al duomo; ma tutti i tentati-vi fallirono miseramente e i fratidecisero perciò di lasciarla in unacappella poco distante dall’altaremaggiore, dove già era esposto l’al-tro simulacro della Madonna. A que-sto punto si sarebbe verificato unaltro fatto miracoloso durante lanotte con lo scambio di posto delledue statue. Il simulacro dellaMadonna arrivata dal mare prese ilposto della Madonna patrona deiMercedari. Più volte ripristinati isimulacri nelle posizioni originarie,di notte si ripeteva sistematicamenteil prodigio. Questi fatti furono diseguito costantemente tramandati econtribuirono a diffondere la famadei poteri della Madonna di Bonaria(Satta, 2000, pp. 225-226).

3. Per ricostruire la storia del san-

tuario della Madonna di Valverde adAlghero sono presenti maggiori dif-ficoltà; al riguardo mancano indagi-ni specifiche negli archivi catalanidove probabilmente potrebbero esi-stere indicazioni sulla sua istituzione.

Dal punto di vista statuario ediconografico, il simulacro, in terra-cotta, raffigura la Vergine in tronoche tiene in braccio il Bambino che, asua volta, regge il globo terrestre.Sotto un manto celeste, la Vergineha un abito di colore rosa tenue;entrambi sono nascosti dalla tradi-zionale veste di raso, di forma trian-golare e adorna sul davanti connumerosi gioielli d’oro, dono deifedeli.

In Sardegna, l’origine della devo-zione per questa Madonna risalireb-be, secondo la tradizione, alla finedel 1300 o ai primi anni del secolosuccessivo, quando un eremita bene-dettino pare abbia rinvenuto la sta-tuetta sotto una colonna di granito,nella chiesetta dell’Annunziata chesorge nel territorio di Valverde. Nelpassato, nella zona, a sette chilome-tri da Alghero, erano presenti nume-rosi romitori documentati da alcunechiesette i cui ruderi erano facilmen-te visibili sino al secolo scorso. La leg-genda vuole che un religioso diosservanza greco-bizantina abbianascosto il simulacro della Madonnasotto una colonna, per salvarlo dallaprofanazione dei pirati saraceni chenel Medioevo compivano scorrerieanche nelle coste della Sardegna. Ilsuccessivo rinvenimento fortuitodella statua fu visto come un segnoprodigioso e come il desiderio dellaMadonna di ricevere un culto dallepopolazioni di quella zona.

4. La tradizione dell’origine delsantuario di Sedilo, posto lungo lamedia valle del Tirso e dedicato aCostantino imperatore, dalle popo-lazioni sarde venerato come santo,probabilmente rimanda alla presen-za nell’isola nell’altomedioevo di unclero di osservanza greco-bizantina.Come per il santuario di Bonaria lasua fondazione è avvolta nella leg-genda riportata nella narrativapopolare. Per il santuario di sanCostantino di Sedilo fu documentatada Gino Bottiglioni una leggendaalla fine del secondo decennio delNovecento, poi pubblicata nel 1922nella nota raccolta Leggende e tradi-zioni di Sardegna (testi dialettali ingrafia fonetica). Ecco il racconto del-l’origine del santuario a Sedilo: «Unoscanese un giorno era lavorando ilterreno, quando di colpo è statoafferrato e legato dai Mori l’hannoportato a Costantinopoli. Quivi inCostantinopoli l’hanno fatto servo e

doveva lavorare giorno e nottesenza nessun intervallo, e quandonon ne poteva più, l’obbligavano aforza di bastonate a continuare alavorare. Era una vita d’inferno! Maun giorno quando era sdraiato interra tutto pieno di sangue per icolpi che gli avevano dato, gli com-parve un uomo bello e grande e glidice: «Non ti disperare molto perchéi Mori non ti potranno tenere ancoraper molto tempo; sta sicuro che io tilibererò e ricordati di me». Appenache ha finito di dire queste parole,quell’uomo è scomparso. Dopo que-sto fatto, sono passati molti giorni euna bella notte lo scanese, senzasapere neppure come, si trova sullaspiaggia di Portotorres. Proprio nelmomento che arriva, gli torna a pre-sentare quell’uomo bello e grandeche aveva visto in Costantinopoli; loferma e gli dice: «Come ti avevo pro-messo, ti ho liberato; io sono sanCostantino e ti ho liberato perchévoglio farmi una chiesa. Pigliati que-sto sacco di denari, va a Sedilo e lachiesa fammela sul monte Jesi, e cosìSedilo resterà sempre libero da ognimalattia». Lo scanese gli ha datoretta ed ha fatto la chiesa del Santoche è molto miracoloso e che, a quel-lo che pare, gli piace a restare con isedilesi, quantunque gli scanesi lovogliano per conto loro»(Bottiglioni, 1997, pp. 84-85).

Fin qui la leggenda, che presentatutti i moduli e gli stereotipi delleapparizioni prodigiose di santi e divi-nità. Ma al di là dei contenuti di tipomitico che caratterizzano questi rac-conti, è probabile che qualche riccopossidente della regione abbia real-mente contribuito a costruire o adampliare il santuario di Sedilo. Inquel medesimo contesto culturale, èabbastanza probabile che, nellazona, si siano conservate a lungo letradizioni praticate, in periodo alto-medioevale, dalle guarnigioni bizan-tine che controllavano i guadi delTirso verso la Barbagia. Le leggendedi fondazione, infatti, costituisconodocumenti molto interessanti siaperché in esse spesso si riflette la sto-ria secolare dei territori dove i san-tuari sono collocati, sia perché ripor-tano alla memoria le ragioni e lemotivazioni dell’identità specifica diciascuno di essi.

L’attestazione più antica dellapresenza del culto tributato aCostantino nell’isola è fornita da unapergamena del 1265 che, come rife-risce Antonio Francesco Spada,attento studioso del culto costanti-niano in Sardegna, fu ritrovata aNorbello, mentre si demoliva unantichissimo altare (Spada, 1973, pp.51-52). Nel documento si legge la

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dedica «Sancti Joannis Baptistae, XL Martirum, SanctiConstantini, A.D.MCCLXV. Scripsit Dominus GunariusEpiscopus Sanctae Justae». In sostanza, si tratta del docu-mento di consacrazione di quell’altare dedicato a sanGiovanni Battista, ai 40 martiri di Sebaste e a sanCostantino, avvenuta nell’anno 1265 per opera del vesco-vo Gunario di Santa Giusta. Il riferimento della dedica asan Costantino consentirebbe di ipotizzare, secondo loSpada, che fino a quella data e probabilmente ancheoltre, nonostante la forte presenza nell’isola di clero diosservanza romana, era ancora presente la tradizionereligiosa del clero greco-bizantino che, nei secoli prece-denti, aveva operato nella conversione dei sardi alCristianesimo e praticava il culto di san Costantino, cosìcome è previsto nel menologio ortodosso.

5. I santuari sardi sono luoghi «del ricordo e del ritor-no», come sostiene Giulio Angioni (Angioni, 1988, p.123); inoltre, sono l’espressione del rapporto tra essi e lepersone che vi fanno riferimento. Questo rapporto siesprime in una storia composta da una serie di elementi:la difesa e il rapporto con il mare; la richiesta di prote-zione nei momenti di bisogno e di crisi. In particolare, nelmondo contadino del passato, le feste celebrate nei san-tuari segnavano le pause lavorative che erano momentiimportanti di grande apertura ai rapporti sociali; in talimomenti festivi e di religiosità venivano elaborate edespresse pratiche devozionali di ringraziamento e di pro-piziazione che, in forme riplasmate alle attuali esigenze,persistono ancora.

Nel santuario di san Costantino di Sedilo, si celebraancora oggi una festa e una corsa di audacia e abilitàequestre che riescono a coinvolgere, il 6 e il 7 di luglio diogni anno, non solo i sedilesi, ma una folla di migliaia difedeli, di turisti, di osservatori, giunti da diversi paesisardi e da altre regioni.

In questa festa è possibile verificare un continuo pro-cesso di riplasmazione e di rifunzionalizzazione dei suoisignificati simbolici religiosi; questo fatto determina perriflesso una costante riattualizzazione del culto dedicatoall’imperatore santo. Dall’originaria proposta cultualeelaborata dal clero greco bizantino, con le riplasmazionie rifunzionalizzazioni avvenute nel corso dei secoli, si èarrivati alle forme odierne di devozione per un santo nonriconosciuto come tate dalla Chiesa cattolica. Si tratta diuna costante che persiste non come sopravvivenza macome sistema culturale vissuto concretamente dallecomunità sarde; lo stesso fenomeno di costante riattua-lizzazione, per esempio, si verifica per un’altra tradizioneche deriva dalle pratiche cultuali della tradizione greco-bizantina; è la tradizione di portare il 15 di agosto in pro-cessione il simulacro della Madonna Assunta distesa suuna lettiga come se dormisse o fosse defunta (Satta,1982, p. 216; Atzori, 1988, p. 152). Si tratta della praticacultuale ortodossa della Koìmesis, cioè della Dormitiodella Madonna Assunta, istituita dall’imperatore bizanti-no Maurizio alla fine del VI secolo, come riferisceNiceforo Callisto.

Nella nozione di ardia è sottintesa quella di bardiare,ovvero di proteggere, fare la guardia. E’ probabile chequesto significato dipenda anche dalla funzione di guar-dia o scorta compiuta nel passato da cavalieri, quando sidoveva vigilare sul santuario e controllare la zona. Talecompito, successivamente, sarebbe stato demandato aifedeli e circoscritto al solo recinto della chiesa.

Attualmente l’ardia consiste in una corsa di tipo ritua-le nella quale i cavalieri, come è tradizione, simulano unabattaglia, faene finta de gherrare. Nello scontro simboli-co si intende rappresentare la battaglia che Costantinocondusse contro Massenzio a ponte Milvio a Roma e il

presagio che ebbe della vittoria con l’apparizione del sim-bolo della croce.

Se questi sono i contenuti mitici dell’ardia, tuttavia,sul piano folklorico essa esprime l’esito tramite il qualequei contenuti vengono interpretati e riproposti ritual-mente dal popolo e anche dal clero che ne asseconda leesigenze religiose.

Così come oggi si presenta, l’ardia ha un suo precisorituale con regole abbastanza rigorose. I cavalieri si reca-no in drappello processionale, capeggiato dal parroco diSedilo che monta sul cavallo di san Costantino, dal paesefino alla sommità della discesa prospiciente il santuariodalla quale parte la corsa. Nel corteo seguono, secondoun preciso ordine gerarchico, il sindaco e, un po’ arretra-ti, tre vessilliferi chiamati prima, seconda e terza bandie-ra. Dietro costoro vengono tre scorte armate di lance. Suciascuna di queste, nel punto di innesto con l’asta, ci sonopiccoli stendardi. Le tre scorte hanno il compito di difen-dere i vessilli, impedendo che essi vengano sorpassati dalgruppo dei cavalieri che li segue e chiude il corteo. L’ardiaviene così guidata dal vessillifero che porta lo stendardodetto sa pandela madzore de Santu Antine (Satta, 1982,p. 207).

Nel suo complesso, il rituale dell’ardia si svolge invarie fasi. Inizia nel cortile antistante la casa del parrocoche offre da bere ai cavalieri, li benedice e consegna aivessilliferi e alle scorte le bandiere e le lance. Conclusaquesta cerimonia, lo stesso parroco monta a cavallo einvita i cavalieri del corteo a seguirlo, secondo l’ordinegerarchico al quale prima si è fatto cenno.

Da quel momento sino allo svolgimento della corsa ilcorteo rappresenta «la cavalleria di san Costantino» cheinizia il suo trasferimento verso il santuario procedendoal passo lungo le vie del paese. Giunti in un punto in pros-simità del santuario chiamato su frontigheddu, il parrocosi rivolge ai cavalieri con un breve discorso esortandolialla prudenza e alla lealtà. Subito dopo riprende il cam-mino verso il santuario accompagnato dal sindaco e daaltre persone che tengono il morso dei due cavalli per evi-tare che sfuggano al controllo. Quando questo piccologruppo giunge alla soglia della chiesa ha inizio la corsa(Satta, 1982, p. 208). Durante la corsa, i cavalieri cercanodi superarsi reciprocamente soprattutto in destrezza eabilità di manovra nel condurre il destriero. In modo par-ticolare, le scorte devono sostenere l’urto cercando direspingere con le lance la pressione imposta da tutti glialtri cavalieri che tentano di superare i vessilliferi. Ciòsignificherebbe, infatti, la sconfitta delle insegne delsanto e, quindi, sarebbe simbolo della vittoria delle forzedel male. I cavalieri quando danno inizio alla corsa,secondo un ordine che rispetta precise priorità, si lancia-no al galoppo sfrenato dal punto più alto di una discesae raggiungono il cortile del santuario passando attraver-so l’arco di una porta abbastanza stretta e perciò difficileda imboccare a causa della forte velocità dei cavalli.Arrivati all’interno della corte del santuario, sempre algaloppo, essi giungono alla chiesa posta sulla parte piùalta; vi compiono intorno sette giri, sostando e segnan-dosi con il segno della croce ogni volta che doppiano l’in-gresso principale dell’edificio. Quindi riprendono la corsaverso la zona bassa della corte del santuario nella quale sierge un recinto, chiamato sa muredda, al centro delquale si erge una piccola croce. Da questo punto i cava-lieri ritornano nuovamente al galoppo fino alla chiesaper un nuovo saluto al santo. Qui si conclude la primaardia. I cavalieri subito dopo seguono una breve funzio-ne religiosa, poi accompagnano il parroco a casa e gliconsegnano gli stendardi e le lance. Alla conclusionedella giornata, i tre vessilliferi invitano a casa il parroco egli altri cavalieri. Il giorno successivo, verso le sei del mat-

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tino, ci sarà una nuova ardia con un rituale simile (Satta,1982, p. 209).

La maggioranza dei partecipanti alla festa ancoraoggi giunge al santuario per adempiere all’obbligo diuna particolare promessa fatta al santo. Lo stesso cavalie-re che porta la pandela madzore si fa carico di guidarel’ardia per sciogliere un voto.

Nel caso dell’ardia e della festa di san Costantino, cosìcome avviene anche per altre feste che si svolgono neisantuari famosi dell’isola, la motivazione del voto e dellapromessa ha una sua logica contraddittoria: coesistonosacro e profano nella misura in cui è presente l’esigenzadi trovare nell’atmosfera e nella cerimonia religiosa unagiustificazione alla festa. Tale giustificazione, inoltre,serve ad esorcizzare le diverse crisi che, a causa della pre-carietà dell’esistenza, il singolo e la comunità incontranosenza essere capaci di risolverle con la sola forza della cul-tura. In nome del santo, quindi, viene elaborata la stessaideologia della festa durante la quale, si è soltanto appa-rentemente tutti uguali. Si è nella condizione di ospiti delsanto che porta a una abolizione soltanto simbolica dellebarriere sociali e delle differenze tra ricchi e poveri, traliberi e banditi, tra paese e paese, tra famiglia e famiglia.Si tratta, però, di una sorta di costruzione mitica dellacomunità festiva possibile esclusivamente attraverso l’isti-tuto metaclassista della festa e la giustificazione religiosaconsentita dalla devozione al santo. Ne scaturisce cosìl’immagine di una realtà sociale fortemente livellante,nella quale la sospensione delle regole del vivere quoti-diano, in cui i conflitti sociali sono evidenti, crea soltantol’illusione che, nella festa, si interrompano tutte le con-traddizioni in virtù di una reciprocità generalizzata.

Se, al contrario, si approfondisce l’analisi sui rapportisociali e sul reale aspetto delle feste, ci si accorge che ipartecipanti si portano dietro la propria storia e la pro-pria estrazione sociale. La festa stessa conferma, inoltre,nella realizzazione praticadelle gerarchie e nella frui-zione dell’atmosfera festi-va, distinzioni che si riscon-

trano identi-c h e

nella vita di tutti i giorni.Dallo svolgimento dell’ardia, infatti, emerge una

dimostrazione concreta di come la festa riproponga glistessi rapporti di dipendenza dei giorni feriali. Come si ègià accennato, il corteo processionale e l’ordine ritualedella corsa presentano gerarchie che riprendono simboli-camente le gerarchie sociali. Dopo le autorità e le figureimportanti dell’azione rituale (sas pandelas e sas iscortas)nella sfilata vengono i subalterni, la truppa dei cavalieri;questo fatto impone dei ruoli da rispettare così come sidevono rispettare le norme comunitarie che impongonole sudditanze di chi non è autorizzato ad esercitare ilpotere (Satta, 1982, pp. 210-211).

Mediante la festa e i suoi riti, dunque, le società riba-discono e celebrano se stesse e le proprie rappresentazio-ni della realtà cosmica e sociale. I rituali festivi, infatti,non sono semplicemente un prodotto sociale al pari diogni altro fatto culturale. Sono anche un mezzo attraver-so il quale gli uomini rappresentano in termini mitici ilproprio mondo, dunque la propria concezione del tempoe dello spazio circolari (Buttitta, 1996, p.264; Buttitta,2002, p. 217).

Le feste, quindi, sono una scansione qualificativa deltempo. Sono il dispositivo simbolico con cui le diversesocietà sottolineano le fasi per loro significative nell’eter-no fluire dei cicli stagionali. Le azioni festive, scansionirituali che producono la realtà rappresentandola, assicu-rano che il ritmo naturale si ripresenti con le medesimecaratteristiche. Esse si connotano necessariamente peruna temporalità diversa dal vissuto quotidiano. Sono untempo che si definisce per speciali comportamenti ritual-mente regolati, per una diversa articolazione del corposociale rispetto alla dimensione ordinaria. In questomodo gli uomini dividono e distribuiscono il tempo chediventa fatto sociale e culturale, diventa memoria sele-zionata e trasmessa simbolicamente.

6. Un altro aspetto molto importante è costituito dalfatto che le divinità, cui sono dedicati i santuari, si situa-

no al centro della memoria e della potenza deglistessi santuari. Francesco Faeta in un interessantelavoro sui rapporti che uniscono i simulacri divi-

ni con i riti e lefeste, sipone ilproble-

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Sedilo (OR), l’Ardia.Foto di S. Ligios

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di verificare «come la stratificatacomplessità simbolica del sistema ico-nico offra uno strumento di fonda-zione sacrale alle dinamiche internedi un gruppo umano» (Faeta, 2000,p.147). Infatti, dall’analisi dei proces-si di stratificazione simbolica chesono nelle immagini sacre si possonocomprendere le funzioni sociali loroassegnate in un dato contesto.

Per quanto riguarda i tre santuariai quali si è prima fatto cenno, inquanto luoghi in cui è forte una pra-tica votiva espressa da ex voto pergrazie ricevute, le tre divinità, le dueMadonne e san Costantino, sono rap-presentate, soprattutto nelle tavolet-te dipinte, ancora oggi esposte allepareti, secondo precisi schemi fissi: ilgruppo sacro è raffigurato avvolto daun alone di luce mentre emerge dauna barriera di nubi spesso oscure,dalla quale si diffondono raggi lumi-nosi. Nel santuario di Bonaria, ilgruppo della Madonna con ilBambino è raffigurato secondo lostereotipo fornito dalla tradizione: laVergine regge il Bambino sul bracciosinistro, mentre con la destra tieneuna piccola imbarcazione a vela. Sitratta di un particolare importanteche fa risalire al tipo di specializza-zione della Vergine, considerata pro-tettrice dei naviganti. Alcune volte,essa regge una candela accesa, pro-prio come narra una delle tante ver-sioni della leggenda del suo ritrova-mento (Satta, 1994, p. 219). In altriesempi la Vergine è accompagnatada altri personaggi, alcuni dei qualisembrerebbero avere l’ unica funzio-ne di aumentare il numero delle divi-nità e, quindi, delle probabilità digrazia. Nel caso del santuario diValverde la Madonna si distingue peraltre particolarità; per esempio,indossa un abito di forma triangolareornato da due croci laterali e da unacentrale sormontata da un cerchioche è simbolo della perfezione divi-na. In basso, sotto la croce centrale,all’interno di un cerchio ovale sonoraffigurati i simboli della maternità.L’immagine riproduce il BambinoGesù nudo e seduto, mentre con lamano destra regge una croce, in unaatmosfera che riprende un paesaggioagreste illuminato dal sole, (Satta,1994, pp. 220-221).

Per quanto riguarda le riprodu-zioni di san Costantino la maggiorparte degli ex voto ripropone ilmodello tramandato dalla tradizionerinascimentale e neoclassica della sta-tuaria equestre: il santo monta su uncavallo bianco, è vestito da guerrierocon sul capo la corona mentre reggelo stendardo. In pratica viene ripro-dotto lo stereotipo del ritratto di sanVenceslao di Boemia (Spada, 1989, p.

75), raffigurante un personaggioincoronato che sta a cavallo; si trattadi una rappresentazione che, intornoal secolo XVI, è stata assuntacome immagine dell’imperatoreCostantino e, in Sardegna, fattaoggetto di culto negli ex voto dipinti(Atzori, 1990, pp. 37-38).

Le immagini degli ex voto dei tresantuari, in tutti i casi, alimentano ilsistema della memoria rituale e, perquesto tramite, rafforzano la memo-ria comunitaria. Ciò avviene attraver-so una forte interiorizzazione simbo-lica della costruzione mitica creatasulle immagini divine. Ricordare l’im-magine e portarla con sé significaricordare la carica mitico-simbolicache essa produce; significa ricordarele testimonianze di potenza e di gra-zie da essa elargite; significa ricorda-re la festa e il pellegrinaggio compiu-to al santuario; significa, infine, rico-noscersi attorno ad essa in gruppi viavia più allargati, come sostiene aquesto riguardo Francesco Faeta:«L’intera attività di costruzione dell’i-dentità comunitaria ha al suo centrosimulacri e immagini, transitati all’in-terno di una dimensione straordina-ria che ha il compito di animarli edotarli di una carica simbolica coagu-lante» (Faeta, 2000, p. 160).Nell’elaborazione mitico-simbolica, ilsimulacro diviene pienamente poten-te e operante al momento della rive-lazione rituale del mito che rappre-senta e che viene enfatizzato duran-te la festa. (Faeta, 2000, p. 152). Intale quadro, infatti, ogni immagine,nella credenza popolare, costituiscela rivelazione di un particolare inter-vento divino sul quale si fonda lacomplessa invenzione mitica.

Le due Madonne e sanCostantino, i relativi rituali e festeche annualmente ripropongono i rac-conti di fondazione dei santuari e deifatti prodigiosi che ne istituirono letradizioni, sul piano operativo costi-tuiscono dei sistemi funzionali alsuperamento delle incertezze e deirischi che incombono costantementee che, di fatto, rendono la vita incer-ta e precaria.

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1. Fra le regioni italianela Sardegna forse è quellache ancora oggi possiede ilpiù vasto e variegato patri-monio di abbigliamentotradizionale. Numerosecomunità, infatti, conserva-no i costumi festivi tradizio-nali che tuttora vengonoindossati soprattutto inoccasione di sagre ed esibi-zioni spettacolari di tipoforkloristico.

Al di là delle critiche,spesso avanzate dai “puri-

sti” del folklore, sulla validi-tà e genuinità di tali esibi-zioni, in Sardegna è possibi-le verificare, che con legrandi sagre, a partire dellameta del XVII secolo - peresempio, la sagra diSant’Efisio a Cagliari (Satta,1982, pp. 145-170) - hannoinizio, dalla finedell’Ottocento, le esibizionie gli spettacoli folkloristici:per esempio, lo spettacolodi «costumi sardi» organiz-zato a Sassari il 18 aprile1899 in onore del re Ubertoe della regina Margherita(Costa, 1909, v. II, t. II, p.136; Atzori, 1988, p. 57);questi esempi hanno avuto,di fatto, una funzioneimportante sia, in generale,per la tutela delle tradizionipopolari, sia, nello specifi-co, per la conservazionedelle fogge e delle caratte-ristiche degli abiti tradizio-nali dei diversi paesi dell’i-sola. In particolare, perquanto riguarda gli ultimitempi, a partire dalla finedella seconda guerra mon-diale, in concomitanza conil diffondersi dei modellidell’economia di mercato ecol conseguente rischio diperdita delle specificitàlocali, alcuni giovani intel-

lettuali e amministratoriregionali, insieme alle istan-ze del “Piano di Rinascitadella Sardegna”, individua-rono e affrontarono il pro-blema della conservazionedel patrimonio culturaledell’isola e delle sue possibi-lità d’impiego quale ele-mento di attrazione incampo turistico.

Con questa scelta di po-litica culturale, caratterizza-ta da una forte esigenzaidentitaria che affondava le

proprie istanze nelle riven-dicazioni autonomisticheagitate fin dalla conclusio-ne della prima guerra mon-diale con la fondazione delPartito Sardo d’Azione, so-no stati salvaguardati daitravolgimenti del sistemamoderno non solo i prodot-ti di numerosi settori del-l’artigianato domestico edei mestieri, ma anche gliabiti tradizionali, emblemidistintivi delle diverse co-munità paesane, che rien-trano, come è noto, nellecompetenze del compartotessile.

A questo riguardo è op-portuna subito una rapidariflessione a proposito degliabbigliamenti tradizionali.E’ necessario chiarire che es-si sono, in quanto apparatisimbolici identitari, segni dicomunicazione con funzionisociali complesse, che ab-bracciano quelle di genere,di censo e di distinzione co-munitaria, oltre, natural-mente, ad esprimere signifi-cati e valenze di tipo esteti-co connessi a tali funzioni.In pratica, gli abiti in tutti icontesti culturali presenta-no funzioni semiologiche;finalizzate, dunque, alla co-municazione.

L’abbigliamentoLuigi Scalas

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In primo luogo, a coloro che liindossano comunicano il senso diappartenenza rispetto ad un certogruppo e/o comunità; secondaria-mente, comunicano agli osservatorila diversità identitaria di chi li indos-sa (Atzori, 1997, pp. 120-129).Pertanto, il fatto che gli abiti tradi-zionali vengano oggi indossatisoprattutto in occasioni spettacolaridi tipo rituale e festivo non devescandalizzare i cosiddetti “puristi”del folklore, che tendono a conside-rare il patrimonio folklorico come undato che dovrebbe riproporsi unica-

mente nel rispetto delle forme e delcontesto che l’hanno visto nascere.

I fenomeni culturali, come è noto,sono dinamici, e quindi, oggigiornol’abbigliamento tradizionale si collo-ca e si rifunzionalizza in base alleattuali esigenze, conservando, tutta-via, le originarie funzioni segniche.

2. In tutte le culture, nei diversimomenti storici, poiché gli uomininascono nudi, gli abiti servono nonsolo a ripararsi e difendersi da condi-zioni climatiche avverse, ma anche,come si è prima accennato, a caratte-rizzarsi identitariamente, in quantogli stessi abiti costituiscono segnidistintivi di appartenenza di genere,di censo, di status, di ruolo sociale edi gruppo etnico. Non a caso per age-volare la classificazione sociale e ledistinzioni dei rapporti di parentela,nelle società arcaiche del passato, imaschi vestivano in modo diversodalle donne, i monarchi e capi indos-savano abiti e ornamenti distintivirispetto a quelli usati dai sudditi.Nello stesso modo, un popolo sidistingue ancora oggi da un altronon solo perché parla una particolarelingua, ma anche perché adotta segnicome stemmi, bandiere, divise eornamenti diversi. Da sempre, quindi,è «l’abito che fa il monaco» e non ilcontrario; cioè, quando si è monaci sideve indossare quel particolare abitoche ne caratterizza la funzione, nestabilisce lo status e il ruolo sociale.

Infatti, è da questa realtà oggettivache partono le diverse tradizioni diabbigliamenti popolari, tra le quali sicollocano anche quelle dei paesidella Sardegna che, allo stato attua-le, costituiscono l’esito di un lungoprocesso che è sempre in costantetrasformazione.

Fino all’ultima guerra mondiale,tuttavia, tali trasformazioni sonoavvenute molto lentamente rispettoall’attuale accelerazione indottadalla rapidità dei cambiamenti dell’o-dierno sistema economico. Questofatto ha determinato che, nel passa-

to fino agli anni ’40 del Novecento, iceti popolari rurali e dei sobborghiurbani, durante la loro esistenza, rea-lizzassero due fondamentali tipolo-gie di abiti, una per i giorni feriali el’altra per le feste, fra le quali ilmatrimonio era una delle più impor-tanti. Nel corredo degli abiti femmi-nili, inoltre, era consuetudine e dove-roso disporre dell’abito del lutto,considerato anche come abito vedo-vile. Nella storia delle tradizioni sun-tuarie europee, infine, si deve tenerein giusto conto il fatto che ilRinascimento ha segnato una svoltaimportante per quanto riguarda laricchezza dei tessuti e delle fogge,rispetto alla rigidità e alla semplicitàdel periodo medievale, durante ilquale, come si può verificare neidipinti dell’epoca, gli abiti sia deinobili, sia dei popolani erano costi-tuiti, in gran parte, da semplici tuni-che, casacche, grembiuli e mantellicon cappucci. Inoltre, sarà il gustobarocco del Seicento ad aggiungerecolori sgargianti, fregi e fronzoli. Inquello stesso contesto culturale esociale, fra l’altro, gli eserciti dellegradi potenze, fra le quali Francia,Spagna e Inghilterra adottavano ledivise, in conseguenza del diffonder-si dell’uso delle armi da fuoco con lequali gli scontri bellici avvenivano adistanza ed era necessario distinguele truppe amiche da quelle avversa-rie: fatto, questo, possibile grazie alladiversa colorazione delle divise che

permetteva di sparare soltanto ai sol-dati che vestivano con i colori deinemici. Le divise degli eserciti, inquanto unificavano tutti con ununico colore, al fine di stabilire legerarchie di comando richiesero l’im-piego di speciali fregi e decorazioniper segnare i gradi. E’ probabile chetali fregi abbiano costituito unmodello per decorazioni dell’abbi-gliamento civile sia maschile che fem-minile.

Questa situazione storico-cultura-le suntuaria generale ha sicuramentecostituito lo sfondo intorno al quale,

nel Seicento, hannocominciato a prende-re forma i costumidella tradizionepopolare che ancoraoggi caratterizzal ’ a b b i g l i a m e n t omaschile e femminiledi numerosi paesidella Sardegna. Imodelli dai qualiprendere spunti per

inventare il proprio costume eranogli abiti della nobiltà spagnola e ledivise dei soldati che, in quel tempo,presidiavano le diverse postazionimilitari dell’isola. Nel processo direinvenzione venivano plagiate sol-tanto certe fogge e certi colori, men-tre venivano enfatizzati le decorazio-ni e fregi con ricami in filigrana, inquanto, soprattutto negli abiti fem-minili, quest’ultima era segno di ric-chezza, espressa in una realtà socialeall’interno della quale, ai ceti popola-ri, per divieto sancito da speciali leggisuntuarie emanate dal re di Spagna,era proibito, sino alla fine del XVIIsecolo, portare in pubblico gioielli.

3. In Sardegna, il diffondersi, nellediverse comunità, di abiti particolariindossati soprattutto in occasionifestive, si afferma a partire dalSettecento, quando con il decaderedella nobiltà spagnola assenteistaemergono nuovi ceti sociali cheormai possiedono ingenti ricchezzee, in particolare, hanno disponibilitàmonetarie per acquistare, fuori dell’i-sola, stoffe preziose, come damaschi,tessuti in lana pettinata, velluti divari colori, filigrane e decori fine-mente ricamati da impiegare nellarealizzazione soprattutto degli abitifestivi femminili. In pratica, tra la finedel Seicento e la prima metà delSettecento, con il diffondersi di unmaggior benessere in conseguenza diun maggior sviluppo agricolo, in

tradizionale

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seguito all’affermarsi nei mercati nazionali, con l’econo-mia fisiocratica del periodo, dei cereali prodotti nell’isola,le popolazioni dei paesi della Sardegna furono in condi-zione di migliorare il proprio abbigliamento, realizzandonuove fogge con l’impiego per le decorazioni di stoffe tes-sute fuori.

Il tessuto base dell’abbigliamento tradizionale deisardi, come è noto, è l’orbace realizzato con la lana di

pecora sarda, che ha un vello abbastanza duro e, quindi,produce stoffe molto ruvide, anche quando i punti diintreccio sono fitti. La struttura di base sulla quale sonorealizzati i costumi maschili e femminili delle comunitàsarde, in genere, è proprio l’orbace. Con questo tessuto eil lino, nel passato prodotto artigianalmente nella mag-gior parte delle famiglie sarde, si realizzavano i capi delvestiario maschile e femminile, sia per i giorni feriali, sia

per quelli festivi. I costumi che attualmente vengonoancora indossati, nelle occasioni a cui si è prima fattocenno, sono gli abiti festivi. Essi vengono genericamentedefiniti come «costumi popolari» secondo una definizionedi tipo romantico, derivata dall’Ottocento quando sidistingueva il «popolare» dal «borghese» e soprattuttodall’«aristocratico», essendo entrambi questi ultimi consi-derati come artificiosi e non spontanei così come, invece,

si riteneva fosse il «popolare». A questo riguardo è oppor-tuno ricordare che, nelle interpretazioni romantiche, siriteneva che l’«anima popolare» fosse sorgente di sponta-neità e di originalità, così come si credeva che il senti-mento fosse la fonte della vera poesia e delle espressioniartistiche più originali.

Attualmente nelle comunità sarde si hanno costumimaschili e femminili da tempo considerati e definiti come

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abbigliamento popolare tradizionale che con le particola-ri fogge, colori e decori caratterizzano, definiscono edistinguono i singoli diversi paesi anche se, in alcuni casi,nelle aree limitrofe si possano riscontrare colori e alcunicapi abbastanza simili. Si deve precisare subito che uncerto numero di questi costumi, in possesso attualmentesoprattutto di famiglie di origine agro-pastorale, in parti-colare quelli del corredo femminile, sono stati realizzati

nell’Ottocento. Diversi capi dell’abito femminile da festa,nel passato usato per il matrimonio, venivano trasmessi ineredità da madre in figlia. Questo fatto ne ha determina-to una certa conservazione degli elementi estetici piùsignificativi, anche se con il sopraggiungere di nuovemode e soprattutto della disponibilità di nuove stoffe ècapitato che si siano sovrapposti nuovi decori e ornamen-ti.

4. Gli abiti popolari delle comunità sarde, così comeavviene nelle altre regioni, sono ovviamente distinti pergenere oltre che, come si è già accennato, per funzionid’uso, cioè, abbigliamenti dei giorni feriali e quelli deigiorni di festa. Questi ultimi sono quelli che attualmentesono riconosciuti come costumi tradizionali e che, come siè già precisato, sono ancora vitali, sebbene il loro utilizzosia riservato a specifiche occasioni.

Per quanto riguarda il costume maschile la documen-tazione etnografica attuale, al di là delle descrizioni ap-prossimative e delle documentazioni pittoriche dei viag-giatori che visitarono la Sardegna durante l’Ottocento, idiversi capi sono abbastanza costanti e simili fra le diver-se comunità dell’isola, anche se in certi casi cambiano i co-lori e le decorazioni di alcuni indumenti.

In quasi tutti i paesi, per esempio, eccetto a Teuladadove si usa un cappello a falde larghe di colore grigio, aSanta Teresa di Gallura dove si calza un basco alla france-se con al centro un pomo rosso e nei costumi dei cavalieri“miliziani” viene usato una sorta di fetz alto di colorerosso, il copricapo più diffuso è quello a sacco con gliangoli arrotondati detto berretta.

Si tratta di un copricapo, in panno oppure in orbacenero o rosso a seconda della comunità, abbastanza diffu-so nell’area mediterranea. Sempre in base alle diversescelte suntuarie dei diversi paesi veniva calzato ripiegatoin avanti, all’indietro o raccolto al vertice su tre cerchi con-centrici.

La camicia ancora oggi è realizzata in lino. È moltoampia, ha alcune increspature alla connessione con il col-letto alla coreana, cioè, formato da una sola striscia distoffa alta circa cinque centimetri con sul davanti aperta econ due occhielli per passarvi i bottoni. Dal colletto prose-gue poi fino all’altezza dello sterno un’apertura spessodecorata con bordi e ricami. Questo genere di camicia,inoltre, non è mai troppo lunga; di solito arriva appena unpo’ più in basso della vita e ha maniche ampie e increspa-te a sbuffi sugli attacchi delle spalle.

Sulla camicia viene indossato un corpetto (cosso) che,in alcune fogge, è molto aderente e non va oltre la vita;inoltre, è privo di maniche. Sul davanti, di solito, è chiusocon il sistema a doppio petto a lembi sovrapposti. E’ spes-so realizzato con stoffe di lana, di velluto e di broccatonella parte anteriore; invece, in quella posteriore, vengo-no impiegate stoffe di minore pregio. I colori costantisono il nero, il granato, il blu marino e il rosso vermiglio;i damaschi hanno motivi floreali con dominanti dorate.

A proposito delle particolarità dei colori e delle deco-razioni presenti negli abiti delle diverse comunità, find’ora si deve precisare che ogni paese ha un suo costumecon caratteristiche peculiari e singolari, tanto che è diffici-le individuare e descrivere caratteristiche decorative uni-che o simili per tutte le località. Si possono soltanto indi-care elementi generali e d’insieme. Pertanto, in questasede, si è costretti tralasciare le specificità dei costumi deisingoli paesi. Fra l’altro, si deve prendere atto della circo-stanza che è complesso stabilire gli elementi decorativicostanti soprattutto per gli abiti femminili. Per essi si pos-sono indicare soltanto i capi, le fogge e le tipologie cro-matiche delle diverse zone dell’isola; le decorazioni deidiversi costumi sono soggette, tra un paese e l’altro, adinnumerevoli variabili individuabili soprattutto per diver-sità e differenze.

Nel costume maschile sopra il corpetto, in alcune zone,

Costumi delsecolo XIX.

collezione Pilloni

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si indossa un giubbetto (corittu) conmaniche, solitamente realizzato inpanno pregiato. Le maniche, in certicasi, sono aderenti, in altri, invece,sono ampie e aperte sul retro all’al-tezza dei gomiti e degli avambracci. Icolori dominanti sono il nero e ilrosso. Le parti anteriori possono esse-re ricamate e variamente guarnite,inoltre possono riunirsi con lobi ebaveri a doppio petto.

Anche per questo indumento sideve ribadire che sono presentiparecchie varietà che contraddistin-guono i diversi paesi.

Sui fianchi viene sorretto un cortogonnellino (ragas, arroda) di orbacenero che si allarga a ventaglio; èmolto corto e supera la zona inferio-re delle natiche. In alcuni casi, l’orlobasso può essere guarnito con vellutorosso. La parte anteriore e quellaposteriore sono unite fra loro da unastriscia larga circa dieci centimetri(latranga, spacca troddiu) che costi-tuisce una sorta di cinta di sottogam-ba.

Dopo il gonnellino (ragas, arroda)vengono indossati i pantaloni realiz-zati in lino oppure, nei paesi montani,in orbace bianco. Essi hanno una fog-gia molto larga e la lunghezza nonsupera il polpaccio; in alcuni costumivengono lasciati cadere liberi, in altri,invece, le estremità inferiori sono fer-mati da speciali gambali in orbace(uose) che fasciano le gambe e pog-giano sulle scarpe.

Per quanto riguarda il gonnellino(ragas, arroda) con il relativo sotto-gamba (latranga, spacca troddiu) sipuò sottolineare che l’indumento èpresente anche in altri costumi dell’a-rea mediterranea, in particolare nelnord Africa e in alcuni paesi balcanici.I motivi di questa diffusione, cosìcome, probabilmente, di quella deicopricapo a sacco e a fetz, andrebbe-ro ricercati nei reciproci influssi cultu-rali che storicamente si sono verificatitra le culture del Mediterraneo,anche se si deve tenere presente cheun’indagine di questo genere avreb-be una valenza esclusivamente evolu-zionistica e diffusionistica e nonaggiungerebbe niente ad un’indagi-ne antropologica volta a coglieresoprattutto dati ed elementi socio-strutturali e funzionali di fatti cultu-rali come sono i costumi tradizionali.

Al costume di base si devonoaggiungere quattro diversi tipi disoprabito: il cappotto (gabbanu) inorbace nero con sul colletto un cap-puccio e le falde fino alle caviglie, con

nel retro un ampio spacco per con-sentire di montare facilmente a caval-lo. Si ha poi una sorta di giaccone(gabbanella) anch’esso in orbace nerocon sul colletto un cappuccio. Questoindumento, in alcuni casi, ha la fode-ra rossa realizzata con velluto o altrestoffe.

Il terzo capo d’abbigliamento èuna sorta di mantellina in pelle dettacollettu, impiegato soprattutto daicavalieri nell’area oristanese e caglia-ritano. Infine, chiude la serie lamastruca, stapeddi: un lungo soprabi-to di solito senza maniche, realizzatocon pelli di pecora, il cui vello è all’e-sterno affinché risulti impermeabile eripari dalle intemperie più avverse erigide. E’ il cappotto usato soprattut-to dai pastori nei periodi invernali edè piuttosto un abbigliamento da lavo-ro; soltanto recentemente vieneindossato in alcune manifestazioninelle quali si intende rappresentare larealtà pastorale.

5. Si è prima accennato che ladescrizione dei costumi femminili èmolto più complessa a causa delleeccessive varianti di indumenti pre-senti nei modelli delle diverse comu-nità. In tutti i casi, tuttavia, si può ten-tare di proporre uno stereotipo moltogenerale e comune a tutti i paesi.

Nell’abbigliamento femminile icopricapo più diffusi, talvolta fermatie posti in modo particolare, sonoampi fazzoletti, scialli e veli finemen-te ricamati o realizzati con il sistema afilet. Essi possono essere bianchi o disvariati colori, in stoffe pregiate comeseta e velluto, sulle quali risaltanoricami floreali realizzati a pieno e agiorno.

In quanto è varia la postura e latipologia del copricapo femminile,che, come si è già detto si differenziaa seconda del paese, è altrettantovaria la relativa nomenclatura; ilnome più diffuso, tuttavia, è quellodel fazzoletto, muccadore/muncadori.

Così come si è visto per il costumemaschile, anche per quel che riguardal’abito femminile la camicia è il capodi vestiario che viene consideratoprima di altri indumenti. Anche inquesto caso è confezionata in lino,che nel passato veniva coltivato e tes-suto in famiglia. Per quanto riguardala confezione varia parecchio da zonaa zona; tuttavia, come foggia di basesi tratta di una camicia molto ampia elunga; ha fitte increspature al collo,agli attacchi delle maniche e dei polsi.Come nella camicia maschile, quando

è presente, il colletto è solitamentealla coreana, formato anche, in que-sto caso, da una striscia di stoffa fine-mente ricamata. Spesso, nei bordi delcolletto, si aggiunge un ornamento inpizzo di varia larghezza. In numerosipaesi, nelle comunità meridionali, alposto del colletto è presente un’am-pia scollatura, anche in questo casospesso guarnita di pizzo. Poiché incerti costumi la scollatura è moltoampia, al fine di evitare un’esposizio-ne eccessiva della parte superiore delseno, sul davanti viene fatto pendere,fissandolo con spille, un fazzoletto(parapettu oppure, muncadori mac-caloru ‘e coddos) che, in certi casi,può essere anche ripiegato a triango-lo.

Sulla camicia viene indossato ilcorsetto che, per esempio, in arealogudorese è una sorta di busto astruttura rigida che serve a temereben sagomata e stretta la parteposteriore del busto, rispetto a quellaanteriore, sulla quale si strige un lac-cio passante attraverso un certonumero si occhielli. Sul retro le dueparti sono unite da un nastro di seta,incrociato a spina di pesce, di variocolore. In genere, l’indumento è con-fezionato in broccato chiaro, condecorazioni floreali policrome e tal-volta dorate. Nella storia suntuariaeuropea questo genere di indumentotrova riscontro con una certa fre-quenza nell’abbigliamento femminilerinascimentale; è probabile, però, cheabbia origine in area mediorientale,ove è dato trovare indumenti similicon le medesime funzioni.

Si deve precisare che il busto vieneusato soprattutto nei paesi dellaSardegna settentrionale; in un certonumero di comunità meridionali del-l’isola viene impiegato un corpettomorbido senza maniche e abbastanzacorto, tanto che non giunge neppurealla vita e sul davanti presenta un’am-pia scollatura con i lembi uniti da ungancio o da un apposito bottone,oppure da nastri.

In area nuorese il busto e il corset-to possono essere sostituiti da unafascia sorretta da spalline; questafascia avvolge la schiena e sul davantisi chiude sotto il seno tramite un siste-ma a gancio.

Per completare la parte superioredel costume femminile si indossa ungiubbetto (corittu -logudorese-, zip-pone –nuorese-, gippone – campida-nese-); si tratta di una giacca moltocorta e aperta sul davanti con la fun-zione di evidenziare la parte ricamata

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della camicia. Ha maniche lunghe e aderenti; in alcunimodelli il giubbetto ha lunghe aperture sul braccio e l’a-vambraccio affinché possano fuoriuscire gli sbuffi dellemaniche della camicia.

Le stoffe impiegate per la realizzazione dell’indumen-to sono diverse e si differenziano a seconda del paese;tuttavia nella maggioranza dei casi si usa il velluto e altritipi di panno pregiato, sui quali vengono realizzati ricamie applicati fregi in filigrana e altre decorazioni con dama-schi e altre stoffe di valore.

Nell’abbigliamento femminile la gonna costituiscesicuramente uno dei capi del vestiario tradizionale nelquale le diverse comunità esprimono diversi segni deco-rativi significanti i propri caratteri identitari; in alcunicasi, infatti, le gonne possono rappresentare quasi deivessilli distintivi del paese di appartenenza. Questa varie-gata differenziazione delle decorazioni e dei ricami che siapplicano alle gonne, pertanto, consente di tentare, inquesta sede, solo alcune classificazioni molto generali.Infatti, soltanto singole schede descrittive sul costume diogni comunità potrebbero offrire, in apposite pubblica-zioni, informazioni complete e precise sui dettagli checaratterizzano gli abiti femminili tradizionali sardi.

Nei paesi delle regioni settentrionali dell’isola lagonna è composta da una parte anteriore leggermenteincrespata, mentre quella posteriore è più ampia e fitta-mente pieghettata. In altre zone, invece, ha meno pieghee risulta più lineare, anche se è sempre ampia e poggiasui fianchi allargandoli rispetto alla vita. In tutti i model-li, però, è sempre molto lunga e giunge all’altezza delmalleolo, lasciando scoperta la scarpa. In vita e sui fian-chi, quando il tessuto è molto pesante, viene realizzatauna fascia di rinforzo.

Le balze sia superiori che inferiori sono delle constan-ti nelle gonne; nei diversi costumi costituiscono degliornamenti specifici. Possono essere di dimensioni diverse,da pochi centimetri fino a ricoprire quasi la metà dell’in-dumento. Il tessuto impiegato, in genere, è broccato eseta di colori diversi, altre volte viene impiegato anche ilvelluto; in tutti i casi, però, sono frequenti ricami e deco-razioni in filigrana che riprendono motivi a greche e astrisce simili a quelli dei galloni delle divise militari. Inalcuni casi, come ad Orgosolo, quando il tessuto dellagonna è a sfondo monocromatico il grembiule presentamotivi floreali stilizzati particolarmente interessanti sulpiano estetico. In alcuni centri della Barbagia il tessutoimpiegato per la gonna è l’orbace molto fitto; i coloridominanti sono il rosso, il marrone, il blu, il nero e il gial-lo; in alcuni viene impiegato anche il verde oliva e l’az-zurro turchese.

Nelle aree in prossimità delle coste viene usato ilpanno di lana nero e rosso che è di importazione; nellecomunità del Sulcis, tuttavia, sono impiegate stoffe leg-gere come il raso e la seta. Questo differente utilizzo distoffe più o meno pesanti per la realizzazione dellagonna è determinato non solo da motivi climatici, masoprattutto dal fatto che, nei paesi rivieraschi e comun-que con temperature più miti, nel passato quando sonostati elaborati gli attuali costumi, è stato possibileapprovvigionarsi più facilmente di stoffe leggere prove-nienti da mercati esterni.

Le balze non sono le uniche guarnizioni che ornano legonne; in diversi casi vengono applicate trine che arric-chiscono di variazioni cromatiche i colori di fondo del tes-suto con il quale è realizzato l’indumento.

Nella parte anteriore, allacciato in vita da appositinastri il grembiule (farditta – panneddu – fallita – ginta –cameddu – panniaranti – franda) è un capo abbastanzaimportante del costume femminile poiché lo completa inbase al colore, ai ricami e alla tipo di stoffa con la qualeviene realizzato: in genere, nei paesi posti lungo la costasi usano le sete e i damaschi, in quelli interni vengonoimpiegati panni pesanti, tra i quali l’orbace. Sempre sullabase delle diverse fogge adottate nei diversi paesi sihanno modelli con forme differenti; quella arrotondataverso la parte bassa del grembiule è la più diffusa, anchese, in alcune comunità, vengono usati quelli di formatriangolare e trapezoidale. Anche le dimensioni variano:per esempio, un modello può avere la stessa lunghezzadella gonna, oppure può essere molto corto e stretto.Anche nel grembiule, così come capita per gli altri capi divestiario, si verifica una sorta di specificazione identitaria,in base alla quale ogni comunità costruisce con il costumeil distintivo della propria identità paesana e, quindi,anche la propria specificità culturale, tramite la qualeintende distinguersi da quella delle altre comunità vicinee/o distanti dal proprio orizzonte geografico e culturale.

6. In conclusione, il dato fondamentale che si rilevanella constatazione della molteplicità dei modelli, deidecori e delle fogge dell’abbigliamento tradizionale è ilfatto che tale varietà costituisce un aspetto positivo, pro-prio in virtù delle diversità che essa produce, unitamentealla ricchezza di esiti che ne derivano.

Ogni costume esprime un’identità particolare e, inquanto tale, rimanda ad uno specifico contesto sociocul-turale. Ciò significa che le identità culturali sono storica-mente “costruite” (Paulis, 2006) e rappresentano entitàdinamiche. Analogamente l’abbigliamento tradizionale,tra i più efficaci marcatori identitari, dovrà essere consi-derato quale realtà in fieri. Se così non fosse, i costumitradizionali sardi non costituirebbero più un dato ancoraantropologicamente vissuto e vitale, ma un mero repertoarcheologico da museo.

Riferimenti Bibliografici

Atzori M. (1988), Cavalli e feste. Tradizioni equestri dellaSardegna, L’Asfodelo Editore, Sassari.Atzori M. (1997), Tradizioni popolari della Sardegna.Identità e beni culturali, Edes, Sassari.Costa E. (1909), Sassari. Cronistoria dalle origini al 1884,Vol. II, Tom. IV, Sassari.Paulis S. (2006), La costruzione dell’identità. Per un’anali-si antropologica della narrativa in Sardegna fra ‘800 e‘900, Edes, SassariSatta M.M. (1982), Riso e pianto nella cultura popolare.

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Maschere

Mamuthones(Mamoiada )Foto M. Lastretti

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1. I significati e le relative espressioni simbolichedelle maschere sono numerose; sull’argomento esi-ste una vasta letteratura. Diversi sono anche gli uti-lizzi della maschera, sia nel campo religioso che inquello profano. Come è noto, nell’antichità, lemaschere venivano utilizzate nei rituali celebrati inonore delle divinità. A seconda dei culti esse aveva-no sembianze antropomorfe oppure zoomorfe;nella realtà culturale del mondo classico, per esem-pio, sono significative le diverse raffigurazioni diDioniso in Grecia e Bacco a Roma, dove le mascheredi Marzio e Lupeco esprimono significati simboliciconnessi alle antiche tradizioni religiose.

Dall’ambito religioso rivolto verso le divinità ura-niche o celesti, le maschere vengono trasferiteanche alle divinità ctonie o sotterrane e da tale con-testo impiegate nei riti funebri, allo scopo di esor-cizzare le paure del cosiddetto «regno dei morti» eil rischio che questi ritornino in forme aggressiveverso i vivi (De Martino, 1958, pp. 103-109). Dallatrasfigurazione simbolica specifica del campo reli-gioso, derivante dall’orizzonte del sacro, in tutti icontesti culturali, le maschere sono diventate ancheelementi essenziali delle trasfigurazioni nelle rap-presentazioni teatrali, nella misura in cui questesono derivate dalle ritualità liturgiche proprie deiriti religiosi connessi ai diversi culti rivolti alle divini-tà sulle quali gli uomini, nelle differenti culture,hanno fondato le proprie credenze. Da qui si è arri-vati alle diverse forme di teatralità popolare chesolitamente trovano espressione, in tutti i contesticulturali, in momenti festivi che coincidono, di fatto,con specifiche antiche tradizioni: si pensi, per esem-pio, al carnevale nella cultura di derivazione greco-latina in area mediterranea, oppure alle mascheratedei capodanni lunari delle tradizioni asiatiche ela-borate in ambito indù, buddista e scintoista. Forme

strutturalmente simili si riscontrano anche in ambi-to africano, sebbene nella maggioranza dei casi lemaschere rientrino nel quadro dei culti e cerimonieper le divinità. A questo proposito sono esempi lemaschere dei Dogon, documentate da MarcelGriaule nel 1938 a seguito della famosa missioneetnografica Dakar Gibuti (Griaule, 1938). Si tratta diraffigurazioni che riproducono determinate divinitàdel Pantheon di quella popolazione.

Da quanto fin qui si è sintetizzato, si può ricava-re che le funzioni sociali e simboliche delle masche-re rientrano nel complesso processo di trasfigura-zione, camuffamento e misconoscimento che gliuomini adottano, soprattutto nel campo religioso,per esprimere e definire realtà e situazioni che noncolgono in pieno sul piano razionale o che ritengo-no sostanzialmente sconosciute e, quindi, rappre-sentabili tramite un’elaborazione fantastica: le ico-nografie statuarie e pittoriche delle divinità necostituiscono i presupposti. Da qui il trasferimentoalle maschere adottato dal corpo sacerdotale, cosìcome quello impiegato dagli attori nel teatro fino agiungere alle trasfigurazioni praticate, tramite lemaschere dalle popolazioni in occasioni di festecalendariali importanti, come sono i capodanni ditipo carnevalesco, nelle quali è necessario capovol-gere simbolicamente, con il camuffamento dellemaschere, le sorti e i ruoli sociali (Lanternari, 1959).In sostanza, la maschera mistifica la reale identità dichi la indossa; di fatto, serve ad ingannare e a rap-presentare simbolicamente qualcuno che, in quelmomento, gioca un ruolo sociale determinante nel-l’azione liturgica, teatrale o festiva durante la qualeessa viene indossata; in pratica, ha la funzione dirappresentare ed è, quindi, un’espressione simboli-ca.

Tali funzioni simboliche e sociali delle maschere,

di carnevaleSardegnaMaria Carmela Deidda

in

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tuttavia, devono essere storicizzate,in quanto, sia nelle diverse epoche,sia nei diversi contesti culturali, essehanno svolto funzioni differenziateed adeguate alle differenti particola-ri situazioni. Da ciò deriva che, nelquadro culturale euro-mediterraneo,le maschere siano caratterizzate daloro specifiche storie che si diversifi-cano nel corso delle differenti epo-che, sebbene esse conservino, graziealle comuni funzioni, caratteri simbo-lici costanti. Questo comporta che,nell’ambito festivo, nelle realtà cultu-rali occidentali, dove si è storicamen-te passati dalle concezioni religiosedel mondo classico al Cristianesimo,le maschere hanno assunto la parti-colare facies del carnevale che, in talerealtà, si contrappone, come è noto,alla quaresima e al tempo della quo-tidianità più in generale.

Come ha acutamente propostoPaolo Toschi, nella metà degli anni’50 del secolo appena trascorso, nelnoto lavoro sulle origini del teatropopolare, a partire dalla fine delMedioevo con l’Umanesimo e il recu-pero della cultura classica, dopo glislanci ascetici e fideistici del periodoprecedente, sono state recuperateanche tutte le altre forme di teatrali-tà e spettacolarità come le commediee le feste di tradizione precristiana,nelle quali le maschere sono elemen-ti caratterizzanti (Toschi, 1955).Vengono recuperati così la carnalitàe, come sostiene il noto studiosorusso Michail Bacthin, viene assunto asimbolo carnevalesco «il basso ventrecorporale», ovvero la sessualità nellaforma più enfatica ed esasperata(Bacthin, 1979, pp. 107-135); da quil’elaborazione di maschere con nasienormi fallicamente prominenti postial centro di un volto che spesso ripro-duce la parte pubica del corpomaschile (Burke, 1980, pp. 178-199).

Nella tradizione festiva europea,il carnevale diventa un periodo chesubentra alla grande festa del capo-danno e che anticipa, come contrap-posizione, la quaresima; infatti, se ilcarnevale e il capodanno, nel sistemaproduttivo della tradizione agro-pastorale euromediterranea, costitui-scono un periodo di stasi dei lavoriagricoli, come conseguenza della sta-gione invernale e della connessainterruzione del ciclo vegetativo, equindi la possibilità e la necessità diusufruire di abbondanze alimentari,per converso, la quaresima segna laripresa della vegetazione e l’iniziodella rinascita nei confronti della

quale è necessario compiere oppor-tuni rituali purificatori con digiuni eastinenze di ogni genere.

In tale quadro si collocano tutte letradizioni carnevalesche europee eitaliane, compresa quella dellaSardegna dove, così come si verificain altre regioni, sono state elaboratespecifiche maschere che, in diversicasi, presentano elementi strutturalie formali che si riscontrano anche inaltri contesti. Questo significa che lalangue carnevalesca, nel contestoculturale occidentale, nel quale si col-locano le maschere della tradizionesarda, trova riferimenti costanti esimili negli aspetti formali della rela-tiva parole alla quale si correla ilcomplesso insieme del carnevale.

2. Le maschere dei carnevali dellaSardegna possono essere distinte indue generi, quelle a sembianzeantropomorfe e quelle a fisionomiazoomorfa; su queste due tipologie,così come si verifica altrove, vengonorealizzate le diverse caratterizzazio-ni. Inoltre, è opportuno precisaresubito che le maschere zoomorfe, ingenere, si inquadrano nelle realtàsocio-culturali pastorali, nelle qualil’allevamento costituisce l’attivitàproduttiva dominante che è, quindi,presupposto alle diverse espressioniculturali, delle quali il carnevale èuna delle forme che, di fatto, segnal’inizio del ciclo della nuova annatametereologica.

Le maschere zoomorfe, come si èprima accennato, caratterizzano inparticolare la tradizione carnevalescadi alcune comunità della Barbagiache è la regione ambientale e cultu-rale centro-orientale dell’Isola, pre-valente montuosa e ad economiasoprattutto pastorale; essa è statacosì definita, fin dall’antichità roma-na, in conseguenza del fatto che lesue popolazioni, sino ad un recentepassato, hanno sempre mal tolleratoqualsiasi forma di controllo o domi-nio esterno, essendo tradizionalmen-te organizzate sul piano socialesecondo una struttura di tipo seg-mentario patrilocale, così come spes-so si verifica in altre società di alleva-tori.

La maschera barabaricina piùnota è certamente quella dei mamu-thones di Mamoiada. Per quantoriguarda i lineamenti del volto, tutta-via, questa non ha una fisionomiastrettamente zoomorfa, sebbene, inparticolare il vestiario e gli addobbidei campanacci, e il comportamento

richiamino il gregge e le pecore. Lamastruca dal vello nero rimanda allepecore segnate da questo colore chele evidenzia rispetto alle altre inmaggioranza bianche. A questo pro-posito, è opportuno sottolineare bre-vemente che, nell’immaginario col-lettivo mediterraneo, la “pecoranera” simboleggia una certa anoma-lia, ovvero, la devianza rispetto allanorma espressa dal vello bianco dellealtre pecore del resto del gregge.

La maschera dei mamuthones èrealizzata in legno con lineamentimolto forti che riproducono, comestereotipo, un viso con una smorfiasofferente quasi bestiale. Questodato visivo immediato dà l’impressio-ne che si intende rappresentare labestialità sebbene il sistema festivosia orientato all’allegria e al diverti-mento.

Sull’interpretazione della simbo-logia della maschera dei mamutho-nes, a partire dagli anni ’50, sono sta-te avanzate diverse proposte, tra lequali due sono le più interessanti:quella di Raffaello Marchi che consi-dera il corteo dei dodici mamutho-nes, che incedono schierati in fila perdue, ciascuno scuotendo un grossograppolo di campanacci che portanosulle spalle mentre vengono control-lati con i lacci dagli isocadores, cosìcome se essi fossero degli schiavi mo-ri catturati dalle popolazioni locali inoccasione delle scorrerie pirateschecompiute dai moriscos lungo le costesarde (Marchi, 1951). L’altra è l’inter-pretazione di Maria Margherita Sattache, adottando una metodologia ma-terialistica, vede nell’insieme dellemaschere mamuthones e isocadoresiun esito sovrastrutturale della formadi produzione pastorale che caratte-rizza l’economia barbaricina; quest’e-sito, infatti, costituirebbe una parti-colare espressione simbolica, espressadalla maschera, tramite la quale i pa-stori ironizzerebbero di se stessi ri-prendendo le loro condizioni di vita,quando, nella solitudine dei pascoli,si presentano le occasioni per diven-tare come gli animali che custodisco-no e così imbestialirsi (Satta, 1982,pp. 77-85).

Le maschere zoomorfe del carne-vale di Ottana e di Orotelli, anchequeste comunità dell’area barbarici-na ad economia pastorale, potrebbe-ro essere interpretate secondo lastessa chiave di analisi (Della Maria,1959, pp. 7-8; Satta, 1982, pp. 85-88).Nel primo caso, infatti, si hanno duemaschere che più esplicitamente di

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quelle dei mamuthones riproduconofisionomie e caratteri del mondo del-l’allevamento. La più importante èquella dei boes che riproduce unaprotome taurina fortemente stilizza-ta, con corna lunghe e dritte, tantoda sembrare corna di gazzelle. In pra-tica, nelle pantomime carnevalescheche i boes compiono sembra che rap-presentino le mandrie di bovini chepascolano nell’ampia valle del corsomedio del Tirso. Essi sono seguiti daimerdules, le maschere dei bovari che,essendo costantemente a stretto con-tatto con vacche e tori, vengonodenominati come se essi stessi fosse-ro escrementi di animali. La loro fisio-nomia è antropomorfa con voltideformi, vistosi nasi adunchi, mentistorti e bocche con smorfie e ghigniironici. Le due maschere dei boes edei merdules spesso sono accompa-gnate da un’altra detta Filonzana cheriproduce una vecchia sdentata dalvolto deforme che fila simboleggian-do, in questo modo, l’andamento delcorso della vita che può interromper-si improvvisamente, così come ècaratterizzato nello stereotipo sim-bolico delle Parche nel mondo antico.

Maschere a caratteri abbastanzasimili a quelle di Ottana, alle quali finqui si è fatto cenno, sono i Thurpos diOrotelli che, anche in questo caso,rappresentano bovari e bovini chevengono aggiogati per trainare l’ara-tro o il carro; la loro fisionomia èidentica, sia che simboleggi i buoi, siache rimandi alle persone che li guida-no. In entrambi i casi, l’aspetto diqueste maschere è molto semplice:viene realizzato dipingendo il voltocon fuliggine e indossando il pesantecapotto dei pastori in orbace e cap-puccio. Dopo un certo abbandonodella tradizione carnevalesca deiThurpos nell’ultimo dopoguerra, allafine degli anni ’70 del secolo appenatrascorso, è avvenuto il loro recuperoin seguito ad una ricerca sul campocondotta da Raffaello Marchi(Marchi, 1979; Satta, 1982, pp. 89-93)che ha sempre dimostrato particolariinteressi per la realtà etnograficadella Barbagia. A questo riguardo sideve rilevare che, sulla scia dei recu-peri delle tradizioni locali, sorti nelquadro di un certo interesse per lespecificità identitarie come reazionealla globalizzazione, spesso condotti,tuttavia, secondo parametri scientifi-ci scarsamente attendibili, sono stateproposte alcune maschere zoomorfe,in genere, riproducenti protomicaprine e di muflone.

3. In Sardegna, come prima si èaccennato, le altre maschere, consembianze e simbologie completa-mente antropomorfe, sono diffuse innumerose località, alcune delle qualisono in Barbagia, come per esempioad Ovodda dove, il mercoledì delleceneri, mentre altrove è già iniziatala quaresima, c’è il corteo, il processoe il rogo della maschera fantoccio diDon Conte che riprende le sembianzedi un nobile con cilindro e mantello.In tale occasione, inoltre, la comunitàdi Ovodda fa una grande festa ritro-vandosi insieme in una grande orgiaalimentare a base di fave, lesso dicarne e cotenne (Piquereddu, 1989).

I cortei mascherati con carri alle-gorici sono presenti in diverse locali-tà; fra questi sono particolarmenteinteressanti, per caratteristiche e tra-dizione, quello della maschera diCanciofali a Cagliari e il corteo diTempio Pausania; in entrambi, oltread allestire il carro dei «re di carne-vale» (Camciofali a Cagliari), vengo-no modellati in cartapesta da artigia-ni specializzati pupazzi che riprodu-cono spesso, in caricatura, personag-gi politici ed altre figure locali, comeil sindaco, il prete ed altre personali-tà in vista nella realtà socio-politicanazionale e dell’isola. Una ricognizio-ne esaustiva delle diverse tipologiedei carnevali sardi è stata compiutada Luisa Orrù, della quale ricerca èstata pubblicata postuma, nel 1999,una gran parte dei materiali raccoltidalla studiosa (Orrù, 1999).

I cortei riprendono modelli alle-gorici diffusi anche in altre regioniche, come è noto, derivano dalla tra-dizione dei carnevali barocchi seicen-teschi spesso voluti e organizzatidalla classe dirigente del tempo, cioè,dalla nobiltà e dal clero; lo scopo eradi controllare le possibili devianzedelle popolazioni a causa delle festedel carnevale diventale lussuriose.Infatti nel Rinascimento, le plebirurali e suburbane, con il recuperodel momento festivo del carnevale,come conseguenza della fine delmoralismo voluto dai principi eticidel Cristianesimo altomedievale,epoca durante la quale la preghiera ela penitenza erano alla base del com-portamento, rischiavano di sfuggireal controllo istituzionale della Chiesae dello Stato. Da qui deriva, pertan-to, come sostiene Peter Burke in unnoto lavoro sulla cultura popolare(Burke, 1980), la presa in carico daparte delle classi al potere dell’orga-nizzazione delle feste, in generale, e

del carnevale, in particolare. Essecostituiscono un importante occasio-ne di elaborazione del consenso e,quindi, di conservazione dell’autoritàdel potere costituito e della relativaamministrazione.

Nei cortei carnevaleschi dellaSardegna, oltre allo stereotipo del regiullare che simbolicamente muorearso in un rogo conclusivo, in alcunicasi, come a Bosa, cittadina dellacosta centro-settentrionale dell’isola,permangono maschere della tradi-zione rielaborate da moduli che siriscontrano anche il altre realtà meri-dionali.

Il martedì di carnevale, a Bosa,insieme alle sfilate di carri allegorici,sui quali vengono realizzati gigante-sche e variegate simbologie falliche,al mattino, come ha in più lavoridocumentato e analizzato MariaMargherita Satta (Satta, 1982, pp.114-125; id, 189, pp. 157-199), com-paiono le maschere delle lamentatri-ci funebri (attittadororas), ovverodelle prefiche che, come stereotipo,sono vestite di nero e cantano lamen-ti funebri per l’imminente morte delcarnevale. La notte, invece, escono lemaschere di Giolzi che rappresenta lafigura di Giorgio. Queste simboleg-giano il carnevale ormai morto ediventato un fantasma. Infatti, sonorealizzate dipingendo con fuliggine ilvolto e, quindi, indossando comemantello un lenzuolo e una federa dicuscino rovesciata per cappuccio.Ciascuna di queste maschere, nellospettacolo carnevalesco, ha un suocanovaccio che deve rispettare, perrientrare nella tradizione bosana; lelamentatrici, come si è già accennato,cantano strofe di lamenti funebri fin-gendo di piangere e compiendo gestidi disperazione simili a quelli com-piuti dalle prefiche nelle occasioniluttuose. Il lamento (attittidu) vienerivolto su una pupattola di stracci osu un bamboccio che rappresenta ilcarnevale neonato ma che sta permorire di fame, in quanto la madre loha abbandonato senza allattarlo perandare a divertirsi nei balli e nellefeste dei precedenti giorni. Per que-sto motivo, le maschere delle lamen-tatrici, il cui ruolo è sempre svolto daragazzi, rincorrono le fanciulle cheincontrano per afferrarle e chiedereloro un «po’ di latte», con la scusa diallattare e così rinvigorire il carneva-le, ovvero, il bambolotto che portanoin braccio, che sta per morire di fame.Nelle richieste essi dicono: «Ahi! Ohi!Poveretto! Ohi! Dategli un goccetto,

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un goccetto di latte! Ahi! Tutta la notte il bambino senzalatte! Poveretto e nato nudo!» (Ahi! Ohi, S’iscuru! Ohi!Daitele unu ticchirigheddu, unu ticchirigheddu de latte!Ahi! Tottu notte senze latte su pizzinnu! S’iscuru è naschi-du nudu!).

La richiesta viene continuamente ripetuta dallemaschere ad una grande quantità di fanciulle con l’evi-dente intento di palparne il seno, nel momento in cuiviene avvicinato ad esse il bambolotto perché vengaallattato.

Ogni tanto avviene una pausa; le lamentatrici si riuni-scono e a turno improvvisano versi di lamenti funebri i cuicontenuti sono chiaramente a sfondo erotico: «Ahi! Ungoccetto per il piccino! Gurdate come l’hanno ridotto!Ohi! Poverino, ohi guardate cosa succede nel mondo! Hapreso tutti i mali! Ahi! Come si può sopportare questodolore! Ahi! Ha preso tutti i mali: l’italiano, il francese elo spagnolo! Ahi! Me lo hanno ridotto persino lesbi-co! Ohi» (Ahi! Unu ticchirigheddu po su pizzinnu!Castiade como l’han ridottu! Ohi! Iscuru, ohimirai, itte cosa faghen in su mundu! D’haleadu tuttu su male! Ahi! Cumente si podesopportare custu dolore! Ahi! Tottu su maled’ha leadu: s’italianu, su franzesu e su spa-gnolu! Ahi!, Fina lesbica m l’han fattu! Ohi!).

Le lamentazioni alludono al recuperodella vita da parte del carnevale e, quindi, informa allegorica al recupero della virilità, inquanto il carnevale è maschio, é quindinecessario il rinvigorimento del fallo e cosìconcludere la festa del carnevale in modointenso.

Alla maschera notturna dei Giolzi, ovverodel carnevale ormai diventato spettro, vestiticon lenzuolo e cappuccio bianchi partecipa-no ragazzi e ragazze in grande quantità; cia-scuno ha in mano o un lampioncino allaveneziana che rimanderebbe alla tradizionedella zucca della festa di Halloween. In ognicaso, secondo la tradizione bosana, vieneimpiegato un cestino con sul fondo del qualec’è una candela accesa. Questi lampioni servonoad illuminare il percorso dei Giolzi e, nello stessotempo, le zone dei genitali delle persone cheincontrano, alle quali si rivolgono con frasi di questotipo: «Oh! Giorgio moro! Bello Giorgio moro mio!L’ho preso! Ahi Giorgio dammi Giorgio! Ohi Giorgiomio!» (Oh! Giozi moru! Bellu Golzi moru miu! Ciappaul’appu! Ahi Giolzi damilu a Giaolzi! Ohi! Giolzi miu!).

Anche in questo caso le simbologie sessuali sono evi-denti; in pratica, nel buio della notte quando tutto risul-ta indistinto e incerto, sebbene Giolzi sia ormai un fanta-sma, tramite le flebili luci dei lampioncini, è necessarioritrovare la certezza che il sesso c’è ancora e che cisia la possibilità di altri rapporti sino a quando durala festa di carnevale; infatti, nella tradizione carnevale-sca euromediterranea Giolzi, Pulcinella e Pierrot, sebbe-ne maschere spettri del carnevale segnano simbolica-mente la fine malinconica della festa. Ciascuno con lapropria simbologia allegorica spettrale rappresentacomunque la continuazione dell’eros e, quindi, dellacontinuità della vita.

4. Alcune manifestazioni di carnevale, in Sardegna,si inquadrano negli spettacoli di abilità equestre

in quanto hanno come protagonisti i cavalli oltre chealcuni tipi di maschere che servono camuffare simbolica-mente i ruoli ad esse riservati.

Le manifestazioni equestri carnevalesche più significa-tive sono la corsa a pariglie di Santulussurgiu dette Sa car-rela ‘e nanti e la Sartiglia di Oristano; in entrambi i casi,in forme diverse i cavalieri sono mascherati con funzionie ruoli differenti tra i due tipi di corsa e gara come in di-versi saggi ha da tempo analizzato Mario Atzori (Atzori,1988, pp. 59-108; 1989, pp. 93-156). In tutti i casi, però, adesse vengono date funzioni

e simbolo-gie propi-ziatoriein baseall’esito

Mamuthones(Mamoiada )Foto M. Lastretti

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positivo delle prove.Alla festa equestre di Santulussurgiu partecipano sia

giovani in costume tradizionale, sia mascherati in altromodo; è importante, in ogni caso, che i cavalieri risultinosconosciuti alla folla degli spettatori che assiste alle gareche si svolgono nei pomeriggi degli ultimi tre giorni dicarnevale, lungo una strada sterrata, in discesa e, in alcu-ni tratti, abbastanza stretta.

I giovani di Santulussurgiu aspettano con ansia il car-nevale e i giorni della gara; per partecipare preparano icavalli con particolare cura: li strigliano per bene, li orna-no con particolari addobbi posti sui finimenti realizzatida artigiani sellai del paese. Come è consuetudine, intor-no alle 15 del pomeriggio

della domenica, del lunedì e del martedì di carnevale, icavalieri si ritrovano al punto di partenza della strada checostituisce il percorso di gara; quindi, incontrano i com-pagni di pariglia e poi vengono iniziate le discese corren-do al galoppo ed effettuando, appaiati a due o a trecavalli, numerose figure acrobatiche, stando in piedi sulleselle e sulle spalle dei compagni, governando le brigliecon una sola mano, mentre l’altra serve a reggersi aglialtri cavalieri.

Si tratta di uno spettacolo che attira tanti spettatori ecoinvolge gli appassionati di equitazione per la capacitàcon la quale i fantini riescono a tenere l’equilibrio duran-te le corse. Nel suo complesso la manifestazione appare

come uno spettacolo di abilità nel quale sembrache non figuri alcuna competizione. Nelle

regole non scritte della corsa è sicu-ramente così, anche se ogni

gruppo di cavalieri si preparaper mesi per realizzare le mi-

gliori pariglie per esseregiudicato dai compae-

sani più bravo deglialtri. In quanto levalutazioni e i giu-dizi espressi daquesto tipo digiurie sponta-nee, formatedalla stessa po-polazione delpaese, che discu-

te per mesi dell’an-damento delle ul-time corse, risulta-no essere più seve-ri se formulati dagiurie istituziona-li. Le pariglie ven-gono considera-te dai cavalieri diSantgulussurgiuuna vera com-petizione, nella

quale la vittoria èattribuita algruppo giudica-

to più bravo.Per evitare lepossibili valu-tazioni negati-ve i cavalieri

cercano di ma-scherare la propria

identità, travestendosi e indossando ma-schere, anche se tutti conoscono l’identi-tà dei partecipanti. Con il mascheramen-

to dei diversi cavalieri, tuttavia, si fa finta dinon conoscerli e così la gente è più libera di espri-

mere i propri giudizi sulle prove. In questo caso, quin-di, le maschere hanno una funzione socialmente pro-tettiva e di tutela della libertà individuale, rispetto al

condizionamento del gruppo che potrebbe risultare op-primente.

L’altra manifestazione equestre organizzata a carne-vale è la Sartiglia di Oristano, una gara con prove com-

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piute da cavalieri mascherati che al galoppo devono infilzare, prima con la sciabola, poi con lo stocco, una stella appe-sa ad una fune posta di traverso al percorso di gara. Si tratta di una competizione, in primo luogo condotta con se stes-si, in gran parte basata sulla fortuna e sulle capacità acquisite con l’allenamento; un’altra prova, nello stesso tempo, ècompiuta con gli altri cavalieri che vi partecipano. Infatti, vince la gara chi ha realizzato il maggior numero di provepositive infilzando la stella. A questo riguardo si deve tenere in considerazione che, nella gara, è presente una certaquantità di variabili, delle quali numerose risultano incontrollabili in quanto soggette alla casualità.

Nella Sartiglia le gare per infilzare la stella costituiscono certamente una fase importante della manifestazione, inquanto, nello svolgimento del rito, esse esprimono simbolicamente il modo impiegato dal capocorsa e/o dall’operato-re rituale, detto componidori, di ricercare la fortuna, ovvero la buona stella, per la comunità che spera in un buon rac-colto nella annata successiva. Nella prima fase della manifestazione, pertanto, si svolge il rituale della vestizione emascheramento del componidori affinché, con la maschera, assuma in sé la responsabilità di tentare la sorte in favoredella comunità. La Sartiglia da questo punto di vista costituisce, infatti, un evidente rito agrario di tipo propiziatorio,nel quale l’officiante non può essere un semplice individuo della comunità; egli deve possedere i caratteri particolariche soltanto il camuffamento simbolico della maschera può conferirgli.

Nel passato la cerimonia della vestizione del componidori avveniva nella sua abitazione; attualmente si svolge nellesedi dei gremi o corporazioni che sono rappresentanti dei contadini e degli artigiani. Le gare si svolgono rispettiva-mente la domenica e il martedì di carnevale insieme ad altre manifestazioni. A questo riguardo si deve precisare checiascun gremio, il giorno della Candelora, il due di febbraio di ogni anno, sceglie, tra numerosi cavalieri richiedenti, ilcomponidori che a carnevale dovrà correre la Sartiglia; a sua volta, il componidori sceglie tra gli amici altri due cava-lieri (secundu e terzu componidori) che gli fanno da scorta e insieme costituiscono la terna che apre le corse rituali,compiendo a turno ciascuno tre prove con la sciabola e tre con lo stocco.

La vestizione e il mascheramento del viso del componidori, tramite una maschera dai lineamenti androgini, sonocompiuti ad opera di alcune donne definite «massaie» (massaieddas), tra le quali conduce le diverse operazioni di vesti-zione la moglie del presidente del gremio, cioè, la massaia manna. Perché tutti possano assistere al rituale il componi-dori sta seduto su una sedia posta sopra un tavolo che fa da palcoscenico. Egli indossa soltanto una maglietta e i pan-taloni alla cavallerizza, con ai piedi gli stivali, sui cui sono incastrati gli speroni.

Nel rituale della vestizione, il primo indumento che il componidori indossa è una camicia in lino di foggia seicente-sca che, in pratica, è parte dell’abbigliamento tradizionale delle comunità sarde. Sul davanti è ricamata e ornata di pizzie, in quanto priva di bottoni e occhielli, viene sostanzialmente cucita addosso al componidori, con gesti ostentatamenterituali, da parte delle massaieddas. Per ottenere gli sbuffi, le maniche vengono legate all’altezza dell’omero con nastriverdi e rossi, rispettivamente per il gremio dei contadini e per quello degli artigiani. Sulla camicia viene indossata unasorta di mantellina in pelle, detto collettu; l’indumento è chiuso da lacci nella parte del collo; in basso è sorretto daaltri lacci in pelle e all’altezza dei fianchi si aggancia ad un largo cinturone che consente di conformarsi alla strutturacorporea del cavaliere.

La fase più importante di questa vestizione è quando viene fasciata la testa del componidore con tre fazzoletti bian-chi; questi vengono cuciti addosso perché si formi una sorta di cuffia. Viene lasciato libero solo il viso dal mento allafronte. Quindi la maschera viene appoggiata al viso e per essere meglio fissata alla testa componidori, appositi legac-ci servono per lo scopo; ma per una migliore stabilità i legacci vengono cuciti alla cuffia di fazzoletti.

La maschera è scolpita in legno di pero ed è di colore giallo con tonalità verde olivo, tanto che può apparire quasispettrale. Come si è già accennato, i lineamenti sono molto regolari e fortemente androgini; in sostanza rappresentail volto di un individuo indefinito che riassume in sé tutti e nessuno; ed è per questo motivo che si può ipotizzare cheessa intenda nascondere la vera identità di chi, nel rito propiziatorio della Sartiglia, si assume il compito di componi-dori e, quindi, di tentare con la gara la buna sorte della comunità. Le prove della Sartiglia possono non riuscire e cosìil componidori, sebbene si sia addestrato, fallisce e quindi non è stato in grado di propiziare la futura e la buona anna-ta. In questo caso, la maschera agevola l’anonimato della persona che ha svolto il ruolo di componidori, evitando cosìche su di essa si scarichino le responsabilità della mancata fortuna.

5. A questo punto, per concludere, si può proporre qualche esempio delle maschere che annualmente vengonoinventate e che, in tutti i casi, attualmente animano il carnevale della Sardegna, così come quello di altre regioni; a taleriguardo, però, è opportuna una breve riflessione teorico-metodologica tramite la quale non solo si giunga a consta-tare il processo di continuità dell’istituto del carnevale come fatto culturale festivo di tipo costante, ma anche si arrivia verificare che, in tale costanza di fenomeni, è presente ancora una certa continua vitalità dello stesso carnevale. Suun piano più generale, in tale processo di continuità e di costanza, si può cogliere come rientrino, tramite una com-plessa fenomenologia di rifunzionalizzazione, numerosi eventi culturali definibili folklorici. Si coglie, inoltre, come que-sti siano soggetti, così come lo sono tutti i fatti socio-culturali a continui processi di adeguamento alle nuove esigenzesociali che si modificano costantemente al mutare delle condizioni oggettive ed economiche della società, nella qualegli stessi fatti si verificano.

I nuovi mascheramenti, pertanto, con i quali a carnevale, attualmente come nel passato, si deridono i personaggidel potere politico e dello spettacolo o comunque in vista, costituiscono una costante funzionale del fenomeno carne-vale, cioè, di una festa che, di fatto, istituzionalmente tende a capovolgere le parti e, quindi, a dare la possibilità alpopolo di schernire e prendere in giro i potenti e i governanti. Non a caso la tradizione di processare il re per mandarloal rogo costituisce un esempio di riequilibrio sociale, tramite il quale i sudditi e i subalterni, a carnevale e solo a carne-vale, nel passato, si vendicavano simbolicamente delle angherie inflitte loro dal sovrano.

Le maschere, quindi, in quanto tali, pur partendo da lontano come trasfigurazioni necessarie per compiere riti reli-giosi, nel momento in cui sono passate dagli altari dei templi ai palcoscenici dei teatri e poi si sono trasferite per le stra-

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de nelle feste di carnevale, hanno acquisito la funzioneche proviene loro soprattutto dalla commedia; cioè, sonodiventate elementi simbolici di autoironia e di satirasociale e, nello stesso tempo, anche espressioni identita-rie, così come si verifica, per esempio, nei mascheramentidella domenica dei tifosi delle squadre di calcio, quandoessi si recano allo stadio ad assistere alle partite dellasquadra del cuore; il mascheramento, in questi casi, è rea-lizzato, per esempio, dipingendo il volto con i colori dellasquadra, indossando mantelli, maschere esorcistiche ecopricapo sempre realizzati con varie disposizioni deimedesimi colori.

La globalizzazione dell’economia e dei mercati, negliultimi decenni, ha facilmente determinato anche la glo-balizzazione delle informazioni e, quindi, ha anche age-volato la diffusione delle tradizioni culturali elaborate inaltri contesti diversi da quelli euro-mediterranei; insostanza la cosiddetta globalizzazione, impone, nellescelte comportamentali, un certo relativismo determinan-do così di evitare gli schemi rigidi di certi etnocentrismiculturali. Per esempio, questo si è verificato,negli ultimi tempi, con i mascheramenti ditipo tematico, con teschi e scheletri, con il dif-fondersi della festa di Halloween che, come èorami noto, si festeggia nella notte della vigi-lia del primo di novembre, giorno dei santi; sitratta di una tradizione popolare con l’impie-go di maschere che si è affermata a partiredai primi decenni del Novecento negli StatiUniti, ma che, secondo alcuni interpreti,avrebbe origini celtiche (Caforio, 2000) esecondo altri, invece, avrebbe origini paleo-cristiane (Fédensieu, 1997-98). In ogni caso,questo genere di mascheramento pare siastato elaborato in area europea; da qui si èadeguato alle varie circostanze storico-cultu-rari delle popolazioni che lo hanno praticatonel passato; quindi, giunto in America con gliemigrati europei si è rifunzionalizzato unifor-mandosi alle particolari esigenze di quellarealtà multiculturale. Infine, a partire dagliultimi decenni del Novecento, Halloween èriapprodato in Europa riadeguandosi e tra-sformandosi sulla scorta delle nuove situazio-ni socio-culturali che intanto si sono formate,come sostiene Laura Bonato in una recenteopera sulle feste (Bonato, 2006, pp. 111-114).

Da queste considerazioni, infine, emergeuna conclusione che può essere valida nonsolo per le maschere, intese come epifenome-ni di fatti religiosi e festivi, nei quali la trasfi-gurazione dell’identità, tramite il mascheramento, servea rimettere in gioco, sul piano rituale e simbolico, legerarchie e i ruoli socialmente acquisiti e istituzionalizza-ti nella società; in sostanza, così come la maschera, nelrito religioso, ripropone le sembianze della divinità enella finzione del teatro ripropone i tipi e i ruoli sociali,nel carnevale e nelle feste in genere ripropone, ironiz-zandole, le figure dei personaggi che, in quel tempo,caratterizzano la vita sociale della comunità in cui vieneproposto il mascheramento.

Thurpos(Orotelli)

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Nel mondo contemporaneo le società complesseappaiono caratterizzate da due tendenze a prima vistainconciliabili: da una parte vanno affermandosi semprepiù marcatamente processi volti a costruire il mondocome unità globale, con la conseguente diffusione dimodelli culturali di tipo omologante che dissolvono la

diversità dei contesti sociali tradizionali (Beck, 1999); dal-l’altra, sulla base del riconoscimento della pari dignità diogni cultura, si va accentuando la rivendicazione del dirit-to alla diversità, con il rafforzamento di spinte di tipoparticolaristico (Featherstone, 1996; Robertson, 1999;Rivera, 2002; Crespi, 2004).

Queste due dinamiche, in apparenza contrarie, risul-tano in realtà interrelate, ed è solo tenendo conto delloro intimo intreccio che si può comprendere il caratterespecifico dei rapporti intercorrenti fra globale e locale,multiculturalismo e particolarismo.

Infatti, se è vero che la globalizzazione contribuiscepositivamente alla creazione di nuove forme di “macro-identità” a livello mondiale, offrendo anche innegabilivantaggi, non sembra tuttavia dubitabile che essa com-porti pure alcuni effetti negativi, tra cui un diffuso sensodi disorientamento e impotenza di fronte alla difficoltà dicomprendere e padroneggiare la crescente complessitàvenutasi a creare. Tale sensazione di spaesamento, unita-mente al bisogno umanamente innato di radicamento edi appartenenza, comporta paradossalmente il ritornoalla dimensione locale. Ciò accade perché tanto la “delo-calizzazione”, insita nel processo di mondializzazione(Giddens, 1994), quanto l’annebbiamento della memoriacollettiva, per suo stesso statuto “localistica” (Cavicchia

Scalamonti, Pecchinenda, 1996), provocano una sorta dirammarico per il passato perduto. Donde l’impegno rivol-to al recupero del tempo fisiologicamente rallentatodelle identità collettive, la tendenza alla rivisitazione delpassato, il prodigarsi per il ripristino di tradizioni ormaidesuete e per la tutela di quelle, meno numerose, ancoravitali (Montesperelli, 2003). Questi complessi meccanismidi produzione di senso e appartenenza sfociano, talora,in accentuate reazioni localistiche (Tullio Altan, 1997), inveri e propri culti della memoria (Todorov, 1996) o in pro-cessi di costruzione dell’identità e del ricordo.

È quanto è dato riscontrare pure in Sardegna, ove ilritorno al peculiare e al caratteristico impronta la mag-gior parte delle attuali politiche turistiche e culturali,anche con casi di «invenzione della tradizione»(Hobsbawm, Ranger, 2002). L’esempio più significativo diquesto fenomeno è offerto indubbiamente dalla promo-zione del 28 aprile a die de sa Sardigna, giornata in cui, apartire dal 1994, con decisione formale del ConsiglioRegionale, si festeggia l’anniversario della cacciata deipiemontesi nel lontano 1794 (Caltagirone, 2005). Benchésu scala minore rispetto a Sa die, si segnala, tra le variemanifestazioni di questo tipo, anche l’iniziativa che ormaida dodici anni si tiene a Iglesias il 13 agosto, con la rap-presentazione di un corteo storico in costume medioeva-le. L’evento è organizzato dall’Associazione CulturaleSocietà quartieri Medioevali Villa Ecclesiae, in collabora-zione con l’Amministrazione Comunale d’Iglesias e con laRegione Sardegna.

Una tale riscoperta della memoria collettiva nella no-stra isola, però, non nasce oggi per la prima volta, qualeportato del terremoto antropologico legato alla “surmo-dernità” nella quale ci troviamo immersi. Sia pur con pre-supposti ideologici differenti, infatti, già dalla prima me-tà dell’Ottocento la più illuminata intellettualità isolanasi era impegnata in ambito storiografico a ridefinire intermini positivi l’identità sarda e a costituire il complessodi memorie atte a fondarla e a tenerla viva. In quegli an-ni videro la luce la Storia di Sardegna di Giuseppe Manno(1825-27), il Dizionario biografico degli uomini illustri di

Memoriacollettiva,identità

enarrazioni

S u s a n n aP a u l i s

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Sardegna di Pasquale Tola (1837-38)e le “voci” sarde del Dizionario geo-grafico-storico-statistico-commercia-le degli Stati di S.M. il Re di Sardegnascritte da Vittorio Angius e pubblica-te a partire dal 1838.

Gli artefici di tale “rinascita cultu-rale” si affidarono alla memoria sto-rica per creare un’immagine dellapropria terra da contrapporre conevidente intento rivendicativo ai«disonesti giudizi degli stranieri», iquali, a partire dall’antichità classica,tacciarono i sardi d’inerzia e rozzez-za. La riprovazione per la presuntasauvagerie punteggiava i discorsid’intellettuali, viaggiatori, funziona-ri statali del XVIII secolo, e spesso siaccompagnava alla condanna dell’a-nacronistico immobilismo dei sardi:«ogni professione fa oggi quello cheha fatto ieri, come la rondine costrui-sce il suo nido ed il castoro la suacasa» (Accardo, 2003, pp. 156-57).

Tra il XVIII e il XIX secolo, poi, sicominciò a parlare a chiare lettere diinferiorità della razza sarda, reputa-ta incapace di percorrere la propriavia verso la civilizzazione, sino agiungere alle posizioni estremesostenute dalla Scuola Positiva diDiritto Penale. Così, ad esempio,Joseph De Maistre, diplomatico,scrittore e pensatore politico, unodei più implacabili detrattori dellaSardegna, arrivò a giudicare il sardocome «più selvaggio del selvaggio,perché il selvaggio non conosce laluce, e il sardo la odia. È sprovvistodel più bell’attributo dell’uomo, laperfettibilità» (Mattone, 1982, p. 1).

Di fronte a siffatte ingiurie, giàsul finire del XVIII secolo, si fece stra-da l’esigenza da parte dei sardi diconfutare i giudizi di quanti li accu-savano di essere barbari e rozzi.«Qual miglior mezzo», si pensò allo-ra, «a smentire le false calunnie con-tro i Sardi, che incoraggiarsi recipro-camente ad illustrare la patria collastampa di opere degne, e col proteg-gere le lettere e i letterati?»(Accardo, 2003, p. 156). La nuovaimmagine dell’isola che ne sarebbederivata avrebbe esorcizzato, quan-tomeno sul piano simbolico, le effet-tive condizioni di precarietà econo-mica e sociale, che, aggravatesi ulte-riormente dopo la Fusione Perfetta el’Unità nazionale, affliggevano laSardegna, collocandola in posizionedi netto svantaggio rispetto allagran parte della penisola italiana(Sotgiu, 1986; Di Felice, 1998;Mattone, 1998; Ortu, 1998).

In questo medesimo quadro difermenti culturali si colloca anche unevidente caso d’“invenzione dellatradizione”: la produzione dei Falsiarborensi, una serie di pergamene,palinsesti e fogli cartacei, riguardan-ti l’arco temporale dal VII al XV seco-lo, che fornivano preziose notizie inrelazione ai periodi più oscuri dellastoria della Sardegna, e che davano“miracolosamente” risposta agliinterrogativi della Storia dellaSardegna del Manno, colmando levaste lacune dovute alla mancanzadi fonti. I documenti — alla cuiautenticità, com’è noto, prestaronofede i maggiori rappresentanti dellacultura sarda, a eccezione del Mannoe del Tola — offrivano un quadroquanto mai affascinante delMedioevo sardo, una civiltà nellaquale, addirittura prima del XII seco-lo, sarebbero fioriti i primi scrittori inlingua italiana.

In una prospettiva apertamenteromantica e risorgimentale, i testiarborensi raccontavano la nascita deiGiudicati come una vera e proprialotta di liberazione, in cui spiccava lafigura del re Gialeto, personaggionato dall’acuta mente dei falsari, ilquale finì con l’assurgere a simbolodell’indipendenza e dell’indomitoorgoglio dei sardi.

Le Carte fornivano il materialeper la costruzione di un apparato“mito-simbolico”, nel quale lamemoria storica si trasformava inepos. Renzo Laconi, nel saggio daltitolo Le false Carte d’Arborea o delcarattere rivendicativo della storio-grafia sarda, definisce «esigenzarivendicativa» quella che FrancescoLoddo Canepa, nella voce “Carted’Arborea” da lui compilata per ilDizionario Archivistico per laSardegna, invece aveva chiamato«sentimento regionale vivissimo»(Laconi, 1982). Da parte sua, NereideRudas analizza «l’impostura» spie-gandone le ragioni, dal punto divista psicanalitico, con la necessità discoprire illustri origini, anche a costodi ricorrere all’invenzione. In que-st’ottica le Carte si configurerebberocome un sogno o «un romanzo fami-liare collettivo» (Rudas, 1997), voltoa soddisfare il bisogno di scoprire leproprie radici, ritrovando, sia pureinventandola, una paternità esaltan-te e compensatrice di tutte le fru-strazioni di un popolo di vinti.

Fu propriamente il sentimentopatriottico ad ispirare le Carted’Arborea, così come avvenne per

altri casi di falsificazione, quali ilCanto de Altabiscar (AltabiscarracoCantua) per il mondo basco o, anco-ra, i più noti poemi gaelici di JamesMacpherson.

In accordo con il modello dellevarie identità nazionali europee chenello stesso torno di tempo ricerca-vano nel Medioevo le proprie scatu-rigini (Thiesse, 2001), le Carted’Arborea presentavano il periodogiudicale con caratteri tali da farloritenere la culla della “nazionesarda” e di tutti i suoi valori fondan-ti.

Conformemente a una tale ideo-logia, il primo romanzo storico scrit-to da un autore sardo, VittorioAngius, fu dedicato proprio all’esal-tazione della giudicessa Eleonora edella corte arborense (Angius, 1847).Non a caso, perché tra i Falsi arbo-rensi e i romanzi storici sardi delsecondo Ottocento esiste un nesso.Se da una parte, infatti, le Carted’Arborea somigliano — com’è statoaffermato (Brigaglia, 1997) — a unromanzo storico, una sorta diBildungsroman, il cui protagonista èla “nazione sarda”, dall’altra iromanzi storici che videro la luce inSardegna rappresentano spesso ilmondo delle Carte e ne mettono inscena i principali personaggi, dal reGialeto, «il liberatore della Sardegnadalla feroce oppressione dell’Imperobizantino», a Bruno de Thoro eThorbeno Falliti, «ingegni nativi diSardegna, che poetarono nel sermo-ne di Dante alla reggia dei signorid’Arborea».

Al di là delle dinamiche di costru-zione identitaria a cui si è prima fat-to cenno, tuttavia, la ragione fonda-mentale per la quale la maggior par-te dei romanzi storici sardi è ambien-tata in epoca giudicale (IX-XV secolo)va ricercata nel fatto che proprio intale periodo storico si realizzò «ciòche di più simile all’indipendenzapolitica la Sardegna, almeno daitempi dell’invasione cartaginese,avesse mai avuto» (Marrocu, Briga-glia, 1995, p. 17). Rappresentanti delpotere giudicale e della resistenzacontro le armi straniere, quali la giu-dicessa Eleonora d’Arborea e il mar-chese Leonardo Alagon, furono esal-tati tramite lo strumento letterarionella speranza che i sardi del XIX se-colo, grazie alla consapevolezza del-le proprie illustri origini, fosserospinti ad altrettanto magnanime ge-sta.

Sia pure in misura minore, anche

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i fatti della storia più recente, comela resistenza del febbraio 1793 con-tro la minaccia di un’invasione fran-cese, e la cacciata dei piemontesi del28 aprile 1794 — avvenimenti chefanno da sfondo ad Angelica (1862),romanzo di Antonio Baccaredda —,divennero oggetto di narrazione, inquanto episodi rappresentativi delsentimento d’indipendenza dei sardi(Marci, 1992).

Il genere letterario del romanzostorico — come hanno evidenziatoalcuni studi (Pilia, 1926; Brigaglia,1982; Marci, 1992; Pirodda, 1998;Paulis, 2006) — mise in atto unasorta di “politica della memoria”,rispondente ad uno scopo di tiponon solo rivendicativo, ma anchecompensativo nei confronti di unacondizione storica percepita comenon appagante. Con le seguentiparole si esprimeva, ad esempio,Pietro Carboni nel preludio ai duevolumi del suo Leonardo Alagon:«Mi volsi quindi all’antichità e, presacognizione profonda della storiadella mia terra natale, vidi come fattimagnanimi fossero in essa e come ilpassato potesse oltre misura com-pensarmi delle miserie del presente»(Carboni, 1872, vol. I, pp. XI-XII).

I dati della Sardegna ottocente-sca finora considerati contribuisconoa confermare come il ritorno memo-riale agli eventi di una storia colletti-va passata risulti inscindibilmentelegato ad una particolare condizionepresente e offrono un’ulterioreriprova del legame profondo inter-corrente fra identità collettiva ememoria sociale.

La memoria, infatti, si rivela nonsolo funzionale, ma addirittura indi-spensabile per l’identità, giacchéconsente al gruppo di riconoscersinel tempo uguale a sé stesso. Dalcanto suo l’identità mostra d’essere«il selettore che fa privilegiare alsoggetto certi ricordi piuttosto chealtri» (Jedlowski, 1997, p. 78), inter-pretando le configurazioni culturalidel passato alla luce delle esigenzedel tempo presente (Assmann, 1997;Fabietti, Matera, 1998; Fabietti,2001; Esposito, 2001).

Al pari di qualsivoglia aspettoestrapolato dalla materia amorfa delreale, tanto la memoria quanto l’i-dentità necessitano di essere “messein forma” all’interno di strutturenarrative dotate di coerenza e uni-formità. Secondo la lezione dello psi-cologo cognitivista Jerome Bruner,infatti, non esisterebbe «una realtà

originaria», ma il mondo così come ciappare sarebbe un prodotto dellafacoltà organizzativa della mente,l’esito di una «costruzione narrativadella realtà» (Bruner, 1991). In que-st’ottica, anche la memoria e l’identi-tà orbiterebbero attorno ad un “cen-tro di gravità narrativa”, “nutrendo-si” spesso di scrittura.

Il mondo dell’identità esternata,corrispondente al livello del «come cirappresentiamo» (Buttitta, 2006), èfatto di tagli e giustapposizioni(Fabietti, Matera, 1998), volti a crea-re una sorta di collage, che, nellascelta e nella disposizione dei suoielementi costitutivi, si presenta com-patto e confacente alle esigenze dichi lo crea. Questo insieme di opera-zioni di “patchwork” applicate allacostruzione di un’«identità positiva»(Epstein, 1983, pp. 183-85), spessorealizzata proprio in ambito lettera-rio, non coinvolge solo la memoriastorica, di cui si è trattato in prece-denza, ma anche tutti gli aspettidella “memoria culturale”.

Nella letteratura sarda ottocente-sca, come in un costrutto identitariodalla natura bifronte, fatto dimemoria storica e di memoria cultu-rale, la descrizione idealizzante delletradizioni popolari sarde trovò spa-zio già all’interno del romanzo stori-co, ma soprattutto nel cosiddetto“romanzo di costume” (Marci, 1990).

L’input a tale processo di valoriz-zazione dei costumi tradizionalivenne dall’interesse per il carattereconservativo della cultura sardadimostrato dai viaggiatori che nel’700 e nell’’800 visitarono l’isola(Fuos, Valery, La Marmora, Bresciani,Domenech, ecc.).

È opportuno ricordare, inoltre,come già alla fine del ’700, mosso daun intento rivendicativo affine aquello già menzionato in relazionealla memoria storica, l’abate oziere-se Matteo Madao si prefisse di resti-tuire dignità alla lingua e alla cultu-ra sarde, mediante numerose com-parazioni con il mondo biblico e clas-sico (Madao, 1782, 1792; Cirese,1976).

Inquadrato in una prospettivache coniugava elementi di matriceantiquaria (in particolare la ricercadell’origine di usi e costumi) con ungenerale impianto evoluzionista(secondo cui tutte le società apparte-nenti al genere umano sarebberostate destinate a compiere, pur intempi e luoghi differenti, un medesi-mo iter evolutivo), il popolo sardo

veniva equiparato a una sorta dimuseo o fossile vivente. Ad esempio,Emanuel Domenech, nell’operaBergers et bandits, souvenirs d’unvoyage en Sardaigne (1867), scrivevache «[n]elle loro superstizioni, comenella loro storia, nei loro usi comenei loro costumi, si ritrova a ciascunpasso, presso i Sardi, qualcuno diquei monumenti tradizionali deipopoli antichi, che danno tanto valo-re storico a quei bassorilievi conser-vati nei nostri musei, a quei dipintisfuggiti alla corrosione del tempo, ea quei libri che, una volta compiutigli studi, non si leggono più».

In ambito letterario questo stessoprocesso di trasfigurazione mitizzan-te della cultura sarda fu portato acompimento da Grazia Deledda, che,in sinergia con l’attività artisticaespletata sul piano iconografico dapittori e scultori suoi conterranei,conferì “cittadinanza poetica” allaSardegna.

I simboli della memoria collettivaprivilegiati dalla scrittrice sono ilpaesaggio e le tradizioni, per lo piùcollocati sullo sfondo della narrazio-ne. Li caratterizza una cifra tempora-le di estrema arcaicità.

Così, rocce e montagne, elementidi una terra geologicamente anti-chissima, boschi di lecci secolari, opiù frequentemente millenari, vigila-no silenziosamente sul dipanarsidelle vicende dei personaggi, assie-me ai monumenti megalitici dellapreistoria sarda, vestigia de sos man-nos (‘degli antenati’) e ricettacolo dileggende. Finalizzati a mettere inevidenza la natura vergine e incon-taminata dei luoghi, nelle descrizionipaesaggistiche dominano gli agget-tivi “selvaggio” e “primitivo”.

È da notare, inoltre, come nellarappresentazione stilizzata dellaSardegna offertaci da GraziaDeledda si realizzi un’osmosi totalefra natura e cultura, compenetrazio-ne individuabile innanzitutto nellaspecularità fra “tono” del paesaggioe forme espressive della cultura loca-le: la poesia popolare sarda (mutos,battorinas, ecc.) e i canti a tenores,oltre che “selvaggi” e “primitivi”,sono “melanconici”, proprio comegli spazi più caratteristici del paesag-gio isolano (le tancas, le brughiere,ecc.).

In questa stessa ottica, anche ilcostume tradizionale è descrittoquale naturale riverbero delle tonali-tà cromatiche del paesaggio. Adesempio, nel bozzetto giovanile La

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donna in Sardegna (1893) la scrittrice afferma che le stof-fe dei costumi indossati per le grandi occasioni dalledonne di Tonara sarebbero in grado di evocare «la dol-cezza delle foglie dei castagni, ai primi d’autunno, nellaluminosità dei tramonti silenziosi». Anche il pittoreGiuseppe Biasi, che con Grazia Deledda intrattenne unalunga e proficua collaborazione fino al 1929, illustrando-ne numerose opere, definiva l’abbigliamento tradiziona-le «sempre in armonia» con le forme e i colori dello sce-nario naturale.

Rivisitata alla luce del filtro estetico primitivista, all’e-poca in auge soprattutto in ambito iconografico, laSardegna deleddiana si configurava come un angolo eso-tico dell’Europa civilizzata, ineguagliabile e perfino “biz-zarro” (altro aggettivo ricorrente) nella sua inimitabilepeculiarità.

Inizialmente osteggiata dai suoi conterranei, soprat-tutto dai progressisti avversi all’immagine di unaSardegna immobile fra le onde della storia, oggi, trascor-si ottant’anni dal conferimento del Nobel e sessanta dallamorte, la scrittrice nuorese sembra aver finalmente tro-vato nella sua isola quell’apprezzamento che inizialmen-te i sardi le negarono. Forse perché costoro si sono accor-ti che l’identità è fatta anche di storie non necessaria-mente reali, ma trasfigurate da una “memoria poetica”che sappia edulcorare le asperità del reale. Senza trala-sciare, poi, che, di quando in quando, perfino nelle piùclassiche opere deleddiane fa capolino una Sardegna tut-t’altro che mitizzante, bensì soggetta a tutte le crisi e lecontraddizioni originate dal fluire della storia e dall’in-calzare della modernità (Paulis, 2006). Anche in relazioneal paesaggio talora emergono le tracce della realtà stori-ca, scalzando l’impianto mitizzante. Ad esempio, nei rife-rimenti a una natura sarda violata e martoriata dallapiaga degli incendi e del disboscamento, tema affrontatonei romanzi Il nostro padrone, Sino al confine, Le colpealtrui e nella novella Colpi di scure.

Tuttavia, il luogo letterario di maggior impatto creatodalla scrittura deleddiana — una Sardegna senza tempoe culla di memorie ancestrali, individuata essenzialmentenella Barbagia conservativa e “resistenziale” (Lilliu, 2002)— risulta di tanta e tale efficacia, che più di un narratoresardo contemporaneo dichiara il proprio debito nei con-fronti della Deledda: da Marcello Fois, anch’egli nuorese,all’oranese Salvatore Niffoi. Quest’ultimo, con un’opera-zione simbolica di natura selettiva simile a quella dellasua illustre precorritrice, impiega di preferenza laBarbagia arcaica quale simbolo dell’intera isola, facendo-ne la metafora di un male di vivere comune a tutto ilgenere umano, a prescindere dalla contingenza dei tempie dei luoghi. Sono proprio le suggestioni evocate da unpaesaggio di scuola deleddiana, gravido di storia e moltoconcreto nella sua fisicità («ti sembra di annusare la gine-stra, come di sfiorare la sagoma ruvida delle rocce»:Niffoi, 2006), come pure la peculiarità dell’impasto lin-guistico, in cui il sardo, altro “deposito” della memoriacollettiva, svolge un ruolo importante, ad aver determi-nato il successo di pubblico che ha conosciuto e conoscelo scrittore di Orani.

Ma, se la fedeltà alle memorie della propria terranatia, l’adesione alla cultura d’appartenenza, il radica-mento, spesso perfino marcatamente ostentati, costitui-scono un efficace antidoto contro il panorama “a-tipi-co”,“a-topico”, “in-odore” e “in-sapore” della surmoder-nità, qual è la realtà delle cose dal punto di vista antro-

pologico?La realtà è che l’identità è proteiforme, in continua

evoluzione all’interno di uno scorrere eracliteo dell’esse-re, nonostante il fascino esercitato da qualsiasi ben con-gegnata utopia di stabilità e permanenza. Anche le tra-dizioni più conservative si rinnovano, anche la “Sardegnaomerica” cambia. E se la surmodernità ci destabilizza,ben vengano gli “esorcismi poetici”, ma a patto che sitenga presente che di esorcismi si tratta.

La memoria di ciò che è stato va custodita, perchésenza la storia, conservata soprattutto nella lingua, nonc’è identità. Ma la memoria spacciata per realtà autenti-ca e perdurante ad oltranza è un’illusione, ed è beneaverne coscienza, se s’intende guardare le cose secondouna prospettiva antropologica.

Tutto questo è espresso sotto forma di metafora let-teraria da un antropologo come Giulio Angioni, autore,oltre che di numerosi e importanti saggi scientifici, diun’ormai corposa produzione narrativa. L’antropologosardo, che considera la narrativa «un mezzo molto, moltopiù potente di comunicazione di quanto lo sia la scritturasaggistica», affronta, attraverso entrambe le formeespressive, soprattutto il motivo del «mutamento vertigi-noso» verificatosi, non solo in Sardegna, negli ultimi cin-quant’anni (Angioni, 2006, p. 176).

Già nelle pagine del suo primo romanzo, L’oro diFraus (1988), il tema del cambiamento culturale si pre-senta come il leitmotiv. Il protagonista della vicenda,Puntiglio, sindaco filosofo del paese di Fraus, scopre cheSa domu ’e s’orku, un ipogeo preistorico, luogo dellamemoria per antonomasia, è stato usurpato da unamisteriosa associazione che vi compie attività illecite,forse coltivando funghi sperimentali, o forse raffinandodroga.

Alla fine del romanzo il lettore non scoprirà la veritàsull’effettivo utilizzo del monumento, ma, seguendo leindagini di Puntiglio, vedrà Sa domu ’e s’orku, quasigrembo materno della comunità di Fraus, trasformarsi inspazio estraneo e mortifero. Forse la vera ricchezza,l’“oro di Fraus”, era proprio questo luogo della memoriacollettiva, con tutto il suo patrimonio di leggende e tra-dizioni? Un tempo sede del meraviglioso e dell’immagi-nario popolare («Mia madre […] mi parlava di giardini dicristallo, lacrime fatte fiori, e di telai di fate, che nellenotti silenziose si sentono tessere nei loro telai d’oro»:Angioni, 1988, p. 113), Sa domu ’e s’orku viene profana-ta, contaminata dalle brutture del mondo moderno. Il“sacrilegio” compiuto fa paventare drammi ancor piùgrandi della già grave disgrazia con cui si apre il roman-zo (la morte di un ragazzo), quasi in una sorta di “rivinci-ta” dell’antica musca macedda, essere mostruoso dellanarrativa tradizionale sarda, che, posto a guardia di teso-ri quale deterrente per gli avidi cercatori di ricchezze, erain grado di scatenare immani catastrofi.

Nessuna velleità idealizzante, dunque, sottesa a que-sto romanzo, bensì un’amara considerazione su una real-tà contemporanea nella quale spesso il dominio dellamemoria collettiva appare usurpato dagli aspetti negati-vi del progresso.

Minaccia silenziosa ma incombente già nell’Oro diFraus, la droga, male moderno e antagonista dellamemoria, si ripresenta in una recente opera di Angioni,Alba dei giorni bui (2005). Per il nostro discorso risultaparticolarmente significativo, all’interno del romanzo,l’episodio relativo alla vendita di un’antica cassapanca

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sarda, vera e propria ara della memoria familiare(Angioni, 2005, pp. 29, 175), per l’acquisto di una delleultime dosi che condurranno il fratello della protagonistaalla morte e quanto resta della loro famiglia al disfaci-mento.

Angioni invita il lettore alla riflessione sui rischi deri-vanti dalla perdita della memoria collettiva, senza che,naturalmente, ciò implichi una romantica quanto sterileapologia dei tempi passati. Atteggiamento che equivar-rebbe a “rinculare”, procedendo sempre in retromarciacome fa Luigi Melas in uno dei racconti appartenenti allaraccolta Il mare intorno (Angioni, 2003, pp. 121-27), colrischio di procurarsi alla fine una sorta di “torcicollo cul-turale”.

Qualora, poi, si voglia guardare all’indietro — ossia,fuor di metafora, rivisitare il passato —, il processo non sirivelerà così semplice e immediato. Occorre, infatti, avereuna coscienza etica per rapportarsi alla tradizione e,ancor di più, per volerla perpetuare.

Questa problematica di sapore squisitamente antro-pologico si trova al centro di Assandira (2004), altro sti-molante romanzo di Giulio Angioni. Nell’agriturismoAssandira l’antico mondo pastorale sardo, compresi igesti e i saperi di un mestiere difficile che costringe l’uo-mo a misurarsi costantemente con una natura tutt’altroche provvida (Pigliaru, 2000, pp. 216-17), viene letteral-mente inscenato dall’alba a notte tarda, dinanzi all’oc-chio compiaciuto dei turisti, desiderosi d’immergersinell’“autenticità” della tradizione. La farsa portata all’e-stremo, fino alla “profanazione” dei valori più intimi diun orizzonte antropologico ormai tramontato (Angioni,2004, pp. 216-18), induce il vecchio Costantino Saru, chequel mondo lo aveva vissuto realmente e con fatica, adare alle fiamme il palcoscenico di Assandira. L’incendio,che riduce in cenere fumante la grande macchina per farsoldi, dove il folklore andava in scena ogni giorno comela musica suonata da un juke-box dopo l’immissione dellamonetina, si configura quasi come la nemesi del mondotradizionale contro i colpevoli di oltraggio alla suamemoria.

Dunque, se la letteratura costituisce uno di quegli«atti di traslazione che rendono possibile il ricordareinsieme» (Connerton, 1999, p. 47), Angioni si serve di essanon solo per ribadire l’importanza della memoria, maanche per mettere in luce i rischi che un impiego sbaglia-to di essa comporta. E anche a proposito d’identità sardail messaggio veicolato dalle sue opere invita alla ricerca di“un giusto mezzo” fra locale e globale, evitando tantol’«etnicismo ristretto», quanto «il cosmopolitismo dimaniera, cioè sradicato e quindi forse inservibile comesupporto al comprendere e all’agire» (Angioni, 2007, p.12).

Gli esempi offerti dalle opere di Giulio Angioni dimo-strano come, attraverso narrazioni che mischiano realtà efantasia, conformemente alla chimica della letteratura,l’antropologo possa trovare nella scrittura letteraria unmezzo estremamente efficace per coinvolgere i lettori,facendoli nel contempo riflettere su contraddizioni eincoerenze della realtà in cui viviamo. Specialmenteoggi… nell’epoca della surmodernità.

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Il 15 settembre del 1896, comericorda in una famosa ottava il poetaozierese Antonio Cubeddu (iniziato-re di quella che divenne poi una veratradizione per l’intera Sardegna), inPiazza Cantareddu (piccola sorgente)ad Ozieri, la poesia improvvisata sifece occasione di pubblico confrontotra i cultori di quella che fu un’arteantichissima fino ad allora relegata acuiles, magasinos e domos in festapro affidos e battijamos (ovili, canti-ne e case in festa per sposalizi e bat-tesimi).

La poesia improvvisata, infatti,affonda le sue radici nel passato clas-sico e non è solo una caratteristicadella Sardegna, ma di tutto il mondo.Qui da noi, però, la pratica della poe-sia orale ha raggiunto - in certi perio-di - livelli di grande attesa e diffusio-ne popolare. Tant’è che molta gentericorda ancora a memoria, e cita leottave de sos mazores, cioè dei poetiche si sono distinti per la loro abilitànel comporre e cantare a bolu (avolo) le loro rime sugli argomenti piùdisparati, a tema libero o a temaimposto. Tra questi, appunto, oltre algià citato Cubeddu, Ozieri ha dato inatali a Giuseppe Pirastru, aGiuseppe e Francesco Morittu, maanche ad altri bravi cultori dellamateria.

La poesia estemporanea, che lacritica ufficiale ha spesso sottovaluta-to, si è caratterizzata come una bran-ca importante dell’arte poetica esiamo oggi di fronte ad una decisa erinnovata presa di coscienza dell’in-teresse, non solo letterario, che essaha rivestito nella cultura popolare.

Nella gara poetica, infatti, ogniconcorrente è allo stesso tempopoeta, cantante e attore. Lo sviluppodegli argomenti passa dai sentimentipiù alti e profondi al vivere quotidia-no, ai grandi temi universali che sonogli interrogativi di ogni essereumano. Talvolta, anzi per lo più, iprotagonisti non risparmiano, inlinea con la tradizione di questo spet-tacolo di autentico teatro popolare,le schermaglie verbali e le reciprochepunzecchiature.

Dalle allusioni ironiche iniziali,alle garbate provocazioni poi ed aiclassici colpi di punta, piatto e fen-dente, talvolta conditi di sana catti-veria, ma più spesso signorilmentemirati, il passo è breve.

Il tutto, naturalmente, nell’assolu-to rispetto della rima, della metrica,dei modelli poetici più seguiti, delcanto e del buon gusto.

La diffusione delle gare in tutta laSardegna divenne ben presto unodegli spettacoli più richiesti nel con-

torno dei festeggiamenti delle tradi-zionali sagre paesane. La gente si tra-sferiva in massa in piazza, sotto i pal-chi dei poeti ormai beniamini dellefolle, portandosi le seggiole da casa.Gli argomenti e le ottave venivanotrascritti con la tecnica dei due scriva-ni e del verso alternato, per esserecomunque registrati nella memoriapopolare, in assenza del magnetofo-no. Molte persone, peraltro, erano ingrado di mandare a memoria decinee decine di ottave e di ripeterle con ilritmo cantilenante de sos traggios(dei modi cantilenanti e del tono) diognuno dei protagonisti.

Da notare che il “cantare in poe-sia” veniva scandito e ritmato dall’ac-compagnamento di tre “tenores”(coro a tre voci, appunto), che inter-venivano durante l’improvvisazionecon alcune note del loro canto, nor-malmente ogni due versi dell’ottavae in chiusura della stessa.

Tanto successo di pubblico, però,finì alla lunga per dover fare i conticon una quasi certamente immeritataopposizione dei vescovi sardi per pre-sunto o preteso vilipendio delle cosesacre, e dell’autorità costituita pernon meglio precisate ragioni di ordi-ne pubblico, tant’è che dal 1932 al1937 le gare poetiche furono addirit-tura vietate, per riprendere nuova-

“Premio Ozieri”

dallegarepoetiche

al

Antonio Canalis

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mente, con più vigore, subito dopo la guerra mondiale escemare infine, piano piano, fino ai giorni nostri.

Nel frattempo però, altri contesti e altre esperienze siaffacciavano all’orizzonte della poesia sarda.

Si era nel ‘cinquantasei. La gente lo ricorda più per lanevicata eccezionale (Ozieri trascorse un mese tra fiocchie ghiaccioli), che per la nascita - sia pure occasionale - delPremio di Poesia Sarda Città di Ozieri. Eppure, in queiprimi anni del dopoguerra, vissuti tra privazioni, sacrificie speranze, si affacciò l’idea che un Premio Letterario inlimba (lingua) sarda potesse contribuire non poco allarinascita culturale della Sardegna.

Erano tempi in cui parlare e soprattutto scrivere insardo non erano considerate attività qualificanti, e nonsolo a livello di società organizzata: anche gli intellettua-li dell’epoca erano compiutamente contrari a dare digni-tà letteraria ad una lingua da trattare, al di più, alla stre-gua di un dialetto. E poi, ancora, muri e contrade risuo-navano dell’eco dell’imperativo “Parla italiano!” del dis-cusso ventennio fascista.

Il Premio nacque appunto come riempitivo nel cartel-lone dei festeggiamenti dell’antica Sagra per la BeataVergine del Rimedio, copatrona della città.

La risposta massiccia all’appello del fondatore ToninoLedda da parte dei poeti di tutta l’Isola, e anche dai luo-ghi dell’emigrazione, gli fece intuire quanto fosse grandel’interesse a far sentire la propria voce intima da parte di

un popolo legato alla poesia da sempre.Contadini, pastori, operai, artigiani...Qualche raro “acculturato”. Per la

maggior parte, però, fautori e osti-nati difensori di una tradizione

poetica legata all’oralità e aimodelli del passato,

ormai superati e inattuali. Così fu per la prima edizione,esaminata da una giuria tutta paesana, ma anche peralcune delle successive. I fasti dei poeti improvvisatoriozieresi Pirastru, Cubeddu e Morittu, che avevano avuto– come si è visto - grande notorietà in tutta la Sardegnaa partire dal 1896 (prima gara poetica su palco, anch’essaad Ozieri, ed anch’essa nell’ambito della festa delRimedio) esercitavano ancora un irresistibile richiamo peri rimatori ad oltranza, che, però, iniziavano a dare mag-gior peso e credito anche al componimento a taulinu (atavolino), fino ad allora tenuto in scarsa o nulla conside-razione e relegato ad attività poetica secondaria e di qua-lità inferiore da parte dell’opinione comune.

Tonino Ledda era persona conosciuta, nel campo let-terario e culturale in genere. La sua attività di poeta,guarda caso in lingua italiana, lo poneva in contatto conpersonalità dell’ambiente letterario e con il mondo dellacritica. Anno dopo anno, si delineò così quello che finì peressere un autentico progetto culturale e che determinò losvecchiamento dei modelli poetici da parte degli autorisardi. Non solo, ma anche l’approccio ai grandi temi dellapoesia italiana ed universale, fino ad allora completa-mente fuori dell’interesse dei poeti di Sardegna. E la par-tecipazione di giovani e giovanissimi e di uomini di cultu-ra all’agone che, anno dopo anno, era diventato il PremioCittà di Ozieri. E l’apertura a tutte le parlate dialettaliparzialmente o del tutto estranee al sardo, come il sassa-rese, il gallurese, il tabarchino di Carloforte, dall’isola diTabarka, in Tunisia, che ospitò una colonia di geno-vesi di Pegli, poi trasferiti appunto nell’isolasarda di San Pietro, dove ancora si parla undialetto ligure. E l’inserimento di nuovesezioni, come prosa, teatro, saggistica,poesia edita, emigrati.

Gara poetica.Foto S. Porcu . 1916

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Determinante, ai fini della cresci-ta della manifestazione, fu l’ingressograduale in giuria e l’alternarsi dispiccate personalità del mondo lette-rario sardo, tra cui Cicitu (Francesco)Masala, Manlio Brigaglia, AntonioSanna, Carlino Sole, Mario MossaPirisino, Gavino Pau, Antonio SimonMossa, Giuseppe Pisano, AlfredoDeffenu, Enzo Espa, Nicola Tanda,Giovanni Campus, Fernando Pilia,Lorenzo Del Piano, Leonardo Sole,Paolo Pillonca, Salvatore Tola, FrancoFresi, Giovanni Maria Cherchi.

C’è anche da dire che, almenofino alla ventesima edizione, gliorgani d’informazione collaboraronocon ampi servizi e speciali sul Premio,diventato nel frattempo PremioOzieri di Letteratura Sarda, e che era- fino ad allora - anche l’unico esi-stente in Sardegna. Interesse e spazioche andò via via scemando, manmano che presero ad affacciarsi all’o-rizzonte altri premi letterari in sardonati sul modello dell’Ozieri e che sidiffusero rapidamente in tutta l’Isolaa partire dal 1977-78. Inflazione, dicequalcuno. Segno preciso, invece, chel’Ozieri aveva centrato in pieno l’o-biettivo di richiamare l’attenzionedei Sardi sulla poesia e sulla lingua!

Nel 1996 si celebrò il quarantesi-mo della fondazione del PremioOzieri, che coincise incidentalmentecon il centennale della “gara poeticasu palco”. Oltre cinquant’anni di atti-vità hanno registrato ad oggi il pas-saggio nella “palestra letteraria”dell’Ozieri di oltre duemila autori. Unautentico esercito. Tutt’ora l’indiriz-zario del Premio contiene 1200 nomi-nativi. Certo, non si pretende chetutti i lavori presentati abbiano altadignità letteraria, ma tutti indistinta-mente racchiudono al loro internopreziosi elementi se non altro in ter-mini linguistici ed etnodemologici ecostituiscono certamente un “giaci-mento” letterario importante chedeve essere conservato, studiato ereso disponibile a vantaggio di stu-diosi, cultori e semplici appassionati.Da qui è nata l’idea della creazione diun Centro di Documentazione eManoscritti della LetteraturaRegionale, che è ormai in fase diavanzato avvio ad Ozieri, su iniziativaproprio del Premio e per la buona

volontà e l’intuito della ComunitàMontana del “Monte Acuto”, che harealizzato ed attrezzato la strutturamediante il recupero e la valorizza-zione di un antico palazzo del centrostorico.

La Comunità Montana ha ricono-sciuto così, affidandogliene anche lagestione, che il fenomeno creato dalPremio Ozieri ha importanza almenodi livello regionale.

Il Centro è destinato ai documen-ti che il Premio già possiede, maanche quelli che autori e familiarivorranno rendere disponibili, acominciare da quelli di Pedru Mura eForico Sechi, solo per citare due deigrossi calibri che l’Ozieri ha scopertoe valorizzato. Così pure, si spera, perla immensa produzione poetico-let-teraria raccolta in questi ultimidecenni dagli altri Premi Sardi.

Cinquant’uno lunghi anni sonotrascorsi, da allora, ma l’interesse perl’argomento è ancora ben vivo. Solooggi si iniziano a vedere i frutti del-l’immane lavoro di tutti questi inna-morati del sardo idioma, sfociato inuna sia pur tardiva legge regionale diriconoscimento della necessità ditutela e valorizzazione della lingua edella cultura sarda. Il primo, conse-guente tentativo di unificazione delsardo scritto, che ha ricalcato unaanticipazione di svariati decenni orsono, a suo tempo tentatadall’Ozieri, ha registrato da subitonon poche polemiche, ma la stradasembra ormai tracciata, tant’è che laRegione Sardegna ha adottato per isuoi atti bilingui uno standard di rife-rimento.

Sempre che non sia tardi. Riportoa proposito, a puro titolo di riflessio-ne, quanto fu scritto, nel luglio del1982, dal poeta ploaghese AntonioSatta, vincitore del “Premio Ozieri”nel 1973, nel bel libro dimenticato Ilbambino di Ozieri:

«Il dogma poetico del mio interlo-cutore era più categorico ed insidio-so, perché aveva il supporto della piùconservatrice opinione pubblicaploaghese: non c’è poesia se non c’èla rima; rima dell’ottava, soprattutto.In occasione dei premi ozieresi, insie-me con altri spesso (anzi, quasi sem-pre) più capaci di me, avevo costrettola lingua sarda al codice della poesia

ermetica o comunque moderna, neltentativo d’apertura verso canonipoetici peninsulari ed europei; neltentativo di forzare almeno in quelsettore i fili spinati della riserva india-na entro cui politica, economia e cul-tura romane ci respingevano, soprat-tutto mediante l’italianizzazionecapillare attuata con i mass-media,oltre che con la scuola.

Personalmente, avevo iniziato nel1966, come ho già detto; altri si bat-tevano da alcuni anni prima, spessofra polemiche roventi. Alfieri dell’o-perazione erano un linguista di pro-fessione ed altri studiosi più o menodilettanti, che, nonostante la sacrali-tà della causa comune, non perdeva-no occasione per beccarsi peggio deipollastri del Renzo manzoniano. Conla scuola poetica ozierese, che ormaiotteneva qualche consenso ancheall’estero (alcuni componimentierano entrati in antologie francesi,con traduzione a fronte), s’intende-vano raggiungere due obiettivi: inse-gnamento della lingua sarda nellescuole statali; riconoscimento dellalingua sarda come lingua ufficialedella minoranza etnica dell’isola,accanto all’italiano. La storia di que-sti decenni ha dimostrato chiaramen-te che si trattava di velleitarismo,perché la lotta è iniziata troppotardi, in una fase ormai irreversibiledell’italianizzazione; perché non sipoteva e non si può ridurre la causad’una nazione autonoma sarda ad unmero fatto fonetico, d’una linguach’esprimeva appieno la culturasarda (agro-pastorale) fino all’imme-diato secondo dopoguerra, ma è ina-deguata (e lo sarà sempre più) adesprimere la cultura successiva delpetrolio, del metadone e della prosti-tuzione internazionale costiera edinterna; perché, infine, anche la sem-plice unificazione ortografica dellalingua sarda è sempre apparsa quan-to mai problematica per la moltepli-cità dei dialetti, che presentanovarianti persino tra paesi distantiappena un tiro di fucile. In queglianni ruggenti, la stampa locale avevadefinito Ozieri la “Atene dellaSardegna”, con disappunto e reazio-ne dei nuoresi, che rivendicavanoquel titolo alla loro città, per via delpoeta Sebastiano Satta e della scrit-

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trice Grazia Deledda, premio Nobel; dal canto suo, un lin-guista bonorvese s’era affrettato a definire la natiaBonorva “Siena della Sardegna” per una millantata supe-riore purità dialettale; la mania cessò, sfortunatamente,proprio quando un buontempone, in una “lettera aper-ta” a tutti i giornali sardi e mai pubblicata, si accingeva alanciare un concorso a premi intitolato: Gli struzzi dellaSardegna. I lettori - mi spiegava - avrebbero espresso suun apposito tagliando la loro preferenza per questo oquello dei più chiassosi Don Chisciotte della cultura, che,a suo dire, nascondevano la testa di fronte alla realtà,come gli struzzi; si sarebbe poi redatta una graduatoriaed i primi dieci avrebbero ricevuto premi differenziatisecondo la scala simbolica della carte da gioco: Re deglistruzzi, Regina degli struzzi, Cavaliere degli struzzi,Settimo struzzo e così via. Titoli tutti da trascrivere edocumentare con tanto di pergamene…»

Parole profetiche, o facile profezia? Questo tipo diargomentazioni tiene banco ancor oggi, e tanto ancora sidibatte. Ma i buoi, fortunatamente, non sono tutti uscitidalla stalla, e si deve – come minimo – tentare doverosa-mente di salvare il salvabile. Il Premio Ozieri, a costo diperpetuare la contiguità di sempre, cui peraltro è avvez-zo, con nozze e fichi secchi, dirà ancora la sua. Finchépotrà.

Un altro esempio di particolare rilievo è la poesia (insardo logudorese) di Giovanni Soro (Chiaramonti) intito-lata “Orgosolo” che ha ricevuto la menzione d’onore allaX edizione tenutasi nel 1965.

Il periodo è quello difficile che prelude, in Sardegna,alle famigerate imprese del banditismo sardo legate allafigura di Graziano Mesina, un momento della storiasociale sarda profondamente segnato dalla piaga deisequestri di persona. Fin da subito la gente sarda si ribel-lò contro questa feroce e delittuosa pratica. Ci sono volu-ti altri quarant’anni ed oggi il triste fenomeno sembrapressoché debellato. Giovanni Soro fu tra gli intellettualiin prima linea a prendere posizione con la sua voce dipoeta:

Cun antiga ‘oghe de piantu/ Orgosolo, pregas:/ “Si-gnore de s’àghera frisca/ dannos sa pache,/ s’amore bra-mau”./ Da-e s’Ortobene/ falat sa pache /de su Redentore/ ‘estida comente bois: /de bellutinu. /“Bentu ‘e amo-

re...”,/ rispondet su Corrasi./ In sas umbras de Locoe/ s’in-trizzan ‘ides noellas:/ noellas promissas?(Con antica vocedi pianto/ Orgosolo preghi:/ “Signore dell’aria fresca,/ do-naci la pace/ e l’amore bramato”./ Dall’Ortobene/ scendela pace/ del Redentore,/ vestita come voi,/ di vellutino./“Vento d’amore”,/ risponde il Corrasi./ Nelle ombre di Lo-coe/ s’intrecciano/ idee novelle;/ novelle promesse?).

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1. Condottepolivocali

Il celebre bronzet-to nuragico, databile alVI sec. A.C., che mostraun suonatore di strumentotricalamo, va certamentecollegato, come recentementeha ribadito Andrea Deplano(Deplano 2007, pp.11-13), alla pra-tica, diffusa nell’Isola, del canto apiù voci. Tale relazione, però, non vastabilita per provare l’antecedenzadella polifonia vocale rispetto a quellastrumentale o viceversa (come di volta involta hanno ipotizzato i partigiani dell’uno odell’altro genere), quanto piuttosto per confer-mare la radicata predisposizione dei sardi allaproduzione e all’ascolto di eventi multifonici. Inbuona sostanza, si vuole affermare che launeddas ecanto a tenore, due generi molto diversi nell’assettotimbrico e nelle strategie di elaborazione dei materialisonori, hanno con tutta probabilità una matrice comune:ci rimandano alla pratica, estremamente diffusa nelMediterraneo antico (come provato da diverse fonti let-terarie e soprattutto iconografiche) e della quale, riman-gono evidenti tracce nelle culture musicali che attual-mente insistono nella medesima area.

Bisogna infatti pensare alla polifonia non come una“complicazione” del sistema musicale (ottenuta con l’ag-giunta, a una data melodia, di una seconda o una terzavoce) ma piuttosto come una forma di espressione musi-cale in sé compiuta, certamente preesistente, comesostiene Curt Sachs, al canto monodico. Per lo studioso,uno dei fondatori della moderna etnomusicologia, «lamonofonia dei tempi moderni si ritrova – infatti – qua elà nel mondo primitivo e orientale come stadio finale diquella che il tempo era polifonia» (Sachs 1972: p. 192).Non sempre il più corrisponde al dopo e il meno al prima:nei processi culturali, come nel linguaggio musicale, sonofrequenti i processi di semplificazione, di riduzione dalmolteplice al singolo.

Il bronzetto di Ittiri, come le altre, numerose attesta-zioni di strumenti policalami nella Sardegna punica eromana, pur utili a stabilire una continuità d’uso di que-sto tipo strumenti, non vanno visti come un’eccezione ouna singolarità locale, quanto piuttosto come la prova diuna “normalita”; analogamente, ipotizzare già nelmondo antico e protostorico l’esistenza del canto a piùvoci, appare del tutto legittimo, storicamente e antropo-logicamente fondato. Va da sé che tale congetturariguarda unicamente le condotte e, per mutuare un ter-mine della linguistica, il “sostrato” polifonico della musi-ca mediterranea e sarda, non le forme e i repertori. Ilcanto a più voci dei popoli nuragici o degli insediamenti

puni-ci nonp o t e v aessere, dicerto, atenore, nel-l’accezione concui oggi lo cono-sciamo; parimentinon è ipotizzabile,nemmeno lontanamen-te che l’auleta itifallicoittirese suonasse qualcosadi simile a una picchiada perfiorassiu o puntu ’e organu.

Per attualizzare l’analisi,bisogna aggiungere che la polifo-nia sarda, vocale o strumentale chesia, non interessa unicamente gli stu-diosi e gli “archeologi” della musica, mamantiene nell’Isola una eccezionale rile-vanza sociale e vitalità, per certi versi mag-giore della monodia. Un fenomeno in contro-tendenza rispetto al resto dell’Italia, dove,come afferma Tullia Magrini, alla polivocalità èriservato un ruolo marginale e secondario rispettoal canto e alla musica monodica (Magrini s.a.: pp104). I Sardi, cioè, attribuiscono al tenore e al cuncor-

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du, dei quali si parlerà più avanti, come pure al suonodelle tre canne che compongono le launeddas, una gran-dissimo valore emblematico e identitario, maggiore, sipuò pensare, di quello attribuito al canto a chitarra, tipi-co esempio isolano di monodia accompagnata.

Prima di procedere nella descrizione dei vari generi eforme di canto polivocale sardo, si ritiene necessaria unaprecisazione riguardante proprio il termine polivocalità,preferito dall’etnomusicologia italiana a quello, pur cor-retto, polifonia. Quest’ultima nozione appare, infatti,eccessivamente compromessa con la musica colta, doveviene comunemente utilizzata per definire l’interazione ela simultaneità di più linee melodiche indipendenti erelativamente autonome; d’altra parte riteniamo che laparola polivocalità individui meglio un canto di gruppo,come quello sardo, fondato, come si dirà in seguito, sullacompresenza di più voci che, in tempo reale, trovanol’“accordo” nel timbro e nella frequenza; un procedi-mento tipicamente vocale, difficilmente realizzabile congli strumenti, che giustifica, pertanto, l’impiego del ter-mine in questione.

2. Il canto a tenore e la taja gallureseSi è già accennato, nelle righe precedenti, ai principa-

li generi di canto polivocale sardo: quello a tenore e quel-lo a cuncordu, ai quali bisogna aggiungere la taja dell’a-rea gallurese. Molti sono i punti di contatto tra questigeneri di canto, ma altrettante le differenze. Differenzeche riguardano il canto del testo da parte di ogni singolocantore, il timbro e l’emissione della voce, nonché l’am-bito d’uso, sacro o profano. Non sempre tali differenze,però, sono sufficienti a definire, in maniera assoluta, ungenere piuttosto che un altro, visto che in alcune zonedella Sardegna, per fare un esempio, il canto a tenoreprofano assume alcuni tratti tipici di quello sacro (è il casodell’area che insiste sul Montiferru), mentre quando nellaBarbagia il tenore canta in chiesa, le voci “di accompa-gnamento” intonano porzioni di testo in luogo dei con-sueti non-sens. Considerazioni analoghe verranno fatte aproposito della taja e del cuncordu di Castelsardo: insom-ma, come spesso capita in questo genere di approccio, leclassificazioni e le tassonomie vanno prese come tenden-ze generali, non come dati assoluti e definiti.

Il canto polivocale sardo, tipicamente profano, è notocome a tenore, dove la locuzione va intesa originaria-mente come canto (quello della voce principale, saboche) “accompagnato dal tenore” (vedi la locuzioneomologa di canto a ghiterra, da intendersi ellitticamentecome “voce con accompagnamento di chitarra”). Pertenore riteniamo, dunque, l’insieme delle tre voci, due aldi sotto de sa boche (bassu e contra) e l’altra al di sopra(mesu boche), che intervengono per “punteggiare” ocontrappuntare il canto principale, affidato proprio a saboche. Il termine a tenore (e anche a boche de tenore),tra l’altro, serve a distinguere il tipo di canto in questio-ne, da quello, relativamente diffuso in Sardegna, special-mente nei repertori di ballo, noto come canto a bochesola, ossia senza l’accompagnamento di strumenti né deltenore, inteso, come già s’è detto, come l’insieme dibassu-contra-mesu boche. Anche se può apparire super-fluo, è opportuno ricordare che si tratta sempre di vocisoliste, mai raddoppiabili in coro e rigorosamente a cap-pella, ossia senza alcun accompagnamento strumentale.

In Sardegna si registrano, comunque, altre variantiper indicare quello che chiamiamo canto a tenore: da cus-

sertu (genericamente assimilabile all’italiano ‘concerto’,nel significato di ‘insieme coeso’; dal latino cum-serere‘tenere insieme, intrecciare’), a cantu a proa, lellere, bim-birimbò, con chiaro riferimento all’accompagnamentonon sens delle tre voci (Deplano 1994, p. 38).Particolarmente significativa anche la denominazione dicuntrattu, forse da intendersi, metaforicamente, come‘pieno accordo’ tra le voci; denominazione, in tale acce-zione, omologa a cuncordu, rilevata in località sparse, mache nel Montiferru conferma l’affinità (evidente già neltimbro e nel comportamento delle tre voci) tra il tenoredi questa zona e il canto religioso confraternale, dettoappunto a cuncordu.

L’area di diffusione del tenore è piuttosto vasta e com-prende, grosso modo, la fascia di territorio che attraversail centro dell’Isola da mare a mare; anche se bisogna farpresente la difficoltà di circoscrivere in modo preciso unfenomeno così vitale, riscoperto e “ricostruito” sulla basedi testimonianze degli anziani in molti centri più o menolimitrofi all’area indicata. Infatti, come osserva ancoraAndrea Deplano, la zona di questo singolare esempio dicanto polivocale si è estesa sensibilmente in questi ultimidieci anni e continua ad espandersi.

Egli propone una suddivisione di quest’area in cinquedistinte regioni, individuate in base al modo di cantare atenore, quali il timbro più o meno aperto del basso, tim-bri più o meno laringali o faringalizzati di bassu e contra,tipo delle sillabe non-sens, disposizione dei corfos (ossiadei ‘colpi’ con cui bassu, contra e mesu oche intervengo-no sulla voce principale), forme poetiche, repertori pre-dominanti ecc.

Può essere utile, a questo proposito, riportare qui diseguito l’elenco dei paesi compresi in ciascuna di questeregioni (Deplano 1997, pp. 65-77; Deplano 2007, pp. 19-25), ribadendo che si tratta di una rilevazione in progress,passibile, ovviamente, di ulteriori aggiornamenti e inte-grazioni:

• BARONIA: Dorgali, Galtellì, Irgoli, Loculi, Onifai,Orosei, Posada, Siniscola, Torpé.

• ORUNE E ZONE INTERNE: Alà dei Sardi, Anela, Benetutti,Bessude, Bitti, Bono, Bottida, Buddusò, Bultei, Burgos,Lodé, Lollove, Lula, Monti, Nule, Olbia, Onanì, Orotelli,Orune, Osidda, Pattada.

• ORGOSOLO E PAESI DEL SUPRAMONTE: Fonni, Gavoi, Lodine,Mamoiada, Nuoro, Oliena, Ollolai, Olzai, Oniferi, Orani,Orgosolo, Ottana, Ovodda, Sarule, Teti, Tiana.

• MARGHINE E PLANARGIA: Abbasanta, Bolotana,Bortigali, Lei, Macomer, Norbello, Scano Montiferro,Silanus, Sindia.

• CUNCORDU: Bosa, Cuglieri, Santulussurgiu, Seneghe.La concordia delle voci nel canto a tenore, come pure

in quello religioso, non riguarda unicamente la conso-nanza delle frequenze (ossia dell’altezza delle voci edegli intervalli armonici che entrano nell’accordo) maanche, e soprattutto, la perfetta integrazione e fusionedelle differenti timbrature vocali. È richiesto a ciascunavoce, infatti, un colore caratteristico e riconoscibile nel-l’ensemble. Contrariamente alla polifonia post-rinasci-mentale della tradizione colta, in cui si ricerca l’omoge-neità timbrica e quasi l’interscambiabilità delle voci, nellapolivocalità tradizionale sarda (ma non solo: anche inCorsica, Campania o Sicilia), ogni cantore deve necessa-riamente differenziarsi, per emissione e colore vocale, daisuoi compagni; ma allo stesso tempo, e qui sta l’estremadifficoltà di questo genere musicale, deve modulare e

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adeguare in tempo reale il timbro della voce per ottene-re, nell’insieme una precisa sonorità. Da quattro diversitàdeve scaturire quella particolare e ricercata grana o tex-ture che rende inconfondibile il canto a tenore. Questoperfetto accordo di timbri, come afferma Gian NicolaSpanu, appare dunque come il risultato di una addizionedi sonorità individuali (e individuabili), laddove nella poli-fonia colta, un’analoga sovrapposizione di note apparepiuttosto come il frutto di una moltiplicazione di vocisimili.

Secondo lo studioso, l’accordo intervallare e timbrico,è l’unità fondante del tenore barbaricino come pure delcuncordu confraternale; una polivocalità fatta non diparti sovrapposte, tipica del repertorio classico, ma piut-tosto grappoli di suoni, costruiti nota sopra nota, in cui sirecupera il concetto medievale di contrappunto, ossia dipunctum (cioè ‘nota’) contra punctum (SPANU 2007, pp.762-763). La prova di ciò sta nel fatto che, mentre i can-tori di musica colta imparano la propria parte separata-mente e la possono eseguire anche da soli, nella polivo-calità tradizionale un cantore difficilmente canterà dasolo la sua parte, proprio perché ha bisogno continua-mente di riferirsi alle altre voci, cercandole, se possibile,anche con lo sguardo e il contatto fisico. Per lo stessomotivo le voci, come si è accennato, non possono essereraddoppiate in coro (fatta eccezione per rari esempi delrepertorio paraliturgici di Castelsardo): sarebbe infattiimpossibile, da parte di una sezione, modulare in temporeale il proprio timbro di voce per raggiungere la sonori-tà ricercata, quello che tutti considerano il buon risultatodell’esecuzione.

La voce più grave del tenore è dunque il bassu (o grus-su), caratterizzata da un timbro laringale, quasi “raschia-to”, ottenuto dal cantore facendo co-vibrare (cosa nonfacile) la laringe insieme alle corde vocali. Il bassu simuove, generalmente, su poche note, realizzando unasorta di pedale non continuo (caratterizzato cioè da unaestrema varietà ritmica, specialmente nei repertori diballo).

Analoga funzione di pedale è svolta dalla contra, an-ch’essa dal timbro metallico e gutturale, disposta ad unintervallo di quinta rispetto al basso. Bassu e contra ven-gono chiamati in alcuni paesi sa croba, ossia la ‘coppia’ sucui si fonda il tenore. Su questa base troviamo, con la to-nica (ossia la nota iniziale e conclusiva delle frasi melodi-che) ad un’ottava di distanza da quella grave, la boche,voce principale che, a differenza delle altre canta il testopoetico (escludendo lo specifico repertorio del Montifer-ru). È la voce del solista, quella più libera di muoversi e diinterpretare il canto; non è richiesto neppure un timbrospecifico, anche se, come tutte le voci della musica sarda,tende alla nasalizzazione. Al di sopra di essa, ma in stret-to collegamento con sa croba, la coppia bassu-contra (conla quale, lo ricordiamo, forma il tenore propriamentedetto), troviamo sa mesu-boche. La sua funzione è, infat-ti, quella di completare e contrappuntare all’acuto le duevoci gravi (rispetto a queste mostra infatti una maggiore,seppur relativa, mobilità e indipendenza) e insieme aqueste accompagnare sa boche, come più volte si è ripe-tuto, con sillabe non sens come bim-ba, bim- bam- ba-ra,ellele etc.

Difficile descrivere le modalità esecutive di questocanto; basti dire che, generalmente parte da un’intona-zione (sa pesada) da parte della boche, più o meno lungaa seconda del tipo di repertorio, seguita, quando previsto

dal brano o tacitamente “richiesto” dal solista, dall’inter-vento dell’insieme d’accompagnamento bassu-contra-mesu oghe, sos corfos (‘i colpi’, le ‘percussioni’) delle zira-das che possono essere brevi o lunghe.

Per quanto riguarda i repertori, si può stabilire unadistinzione tra quelli finalizzati alla proposta di un testopoetico da parte della voce (boghes longas, boche ’enotte ecc.), in cui gli interventi del tenore sono più radi,punteggiando la conclusione di una porzione del testosenza pregiudicarne la comprensione, e quelli finalizzatiall’accompagnamento del ballo, caratterizzati da unamaggiore interazione voce-tenore, a discapito della com-prensione delle parole che, inevitabilmente si perdonointrecciandosi con i non sens di quest’ultimo. Capita spes-so che si inizi a sa seria, con il canto della voce solistaampio e articolato, per continuare a sa lestra o a ballu,intensificando il ritmo e gli interventi del tenore.

Un discorso a parte, per concludere la trattazionedella polivocalità profana, va fatto per la taja diffusanella Gallura, nel nord est della Sardegna. Come un’isolanell’Isola, questa regione rivela nella cultura e nella lin-gua notevoli diversità con il restante territorio sardo,mostrando, nel contempo forti affinità con la vicinaCorsica, evidenti anche negli usi musicali e soprattuttonella polivocalità sacra e profana. Il termine taja (otasgia), la cui etimologia va ricercata, come sostieneGiulio Paulis, nel «mondo bizantino ed in particolarenegli usi e nelle tradizioni della Chiesa greca» (Paulis1983, p. 173), indica attualmente un canto a quattro ocinque voci su testi profani, conviviali e soprattutto amo-rosi; tuttavia, come risulta anche da numerose registra-zioni conservate a Roma nella Discoteca di Stato (effet-tuate negli anni 1948-62 da Gavino Gabriel, gallurese einstancabile divulgatore, a livello internazionale, di que-sto genere), pare che il termine potesse designare ancheil canto liturgico e paraliturgico a più voci. Un’ambiguitàterminologica giustificata da sostanziali affinità musicalitra la taja e il canto confraternale, come quello cheaccompagna a Castelsardo i riti della Settimana Santa.

Di conseguenza sono notevoli le differenze con ilcanto a tenore: nella polivocalità gallurese, infatti il tim-bro delle due voci gravi disposte anche qui a distanza diquinta, il bassu (o grossu) e la contra (detta anche con-trabbasso) non è affatto laringale; e benché anche inquesto caso esista un voce che intona e guida il canto (laboci, o bogi, o tinori), le restanti non si limitano a canta-re versi onomatopeici e non-sens ma partecipano all’e-nunciazione della poesia. Al di sopra della boci possiamotrovare il tippi (probabilmente dallo spagnolo tiple, nelsenso di ‘voce acuta’, definito anche trippi o contravoce)e infine, nella tessitura più acuta, quando l’ensemble pre-vede una quinta voce, si trova il falsittu o quintu.

Poiché mancano le voci laringali, l’assetto timbricoappare un po’ più omogeneo, anche se si continua a per-cepire una certa differenza di colore tra le quattro o cin-que parti della taja. Nella conduzione del canto va rimar-cata inoltre un andamento più melismatico, con frequen-ti microintervalli e glissandi di tutte le voci, simili, percerti versi, alle calate a alle dolci del canto confraternalecastellanese.

3. La gara poeticaBenché ne costituisca solo un aspetto secondario e

marginale, un coro a tre voci (o, in certi casi a due), ana-logo al tenore appena descritto, è di fondamentale

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importanza anche nelle gare di poesia estemporanea, ogare poetiche, per rimarcare le cadenze intermedie e/ofinali dei versi improvvisati dai concorrenti. Il coro è quiun intervento accessorio e l’attenzione dei presenti non èconcentrata sulle qualità musicali della voce del poeta odei cantori che lo accompagnano.

Nonostante le apparenze, la componente musicale,tuttavia, è di estrema importanza nella competizione per-ché aiuta i concorrenti a dare una forma poetica a pen-sieri che vengono improvvisati e si dispiegano, nell’imme-diata verbalizzazione, seguendo la metrica e l’articola-zione melodica di semplici formule recitative. Anche gliinterventi del coro, con i suoi non sens fatti di boo o dibaa, servono, da parte loro, a chiarire meglio la strutturapoetico-musicale delle improvvisazioni e, fatto nonsecondario, concede ai poeti un istante in più per elabo-rare la risposta.

La gara è concepita dai partecipanti come un eventonon specificamente musicale, ma essenzialmente poetico-narrativo e, visti i temi trattati, anche di tipo filosofico,morale ecc.; tuttavia proprio in considerazione del rilievoche nell’evento, come si è appena osservato, ha l’elemen-to musicale, è utile tracciarne in breve storia e funziona-mento.

Questo genere di spettacolo ha un luogo e una preci-sa data di nascita: Ozieri, 15 settembre 1896. In quest’oc-casione, Antonio Cubeddu ebbe l’idea di trasformare incompetizione una pratica comune in Sardegna attestatagià nel ’700; con altri sei improvvisatori di chiara famadiede vita alla prima gara poetica, della quale, per inciso,lo stesso Cubeddu risultò vincitore. L’invenzione ebbe unimmediato successo e, nei decenni successivi, si diffuse ingran parte dell’Isola, acquisendo la struttura che ancoraoggi conosciamo. Si registra, però, un certo declinodurante il Fascismo quando Chiesa e Regime, non poten-do controllare preventivamente uno spettacolo chenasceva dall’estemporaneità, limitarono e censurarono losvolgimento delle Gare che comunque, dopo il ’45 delsecolo scorso, ripresero il loro regolare svolgimento (v.Pillonca 1982: pp.150-153).

La competizione prevede, da parte dei due o tre con-correnti, l’utilizzo di varie forme poetiche con le qualidevono dimostrare le proprie capacità d’invenzione,espressione e argomentazione. Tali forme si susseguononella gara con un ordine rigoroso e immutabile, a partiredall’esordio, nel quale i partecipanti a turno improvvisa-no ottave di circostanza, ringraziando la piazza e il paeseche li ha invitati, lodando o ironizzando sugli altri con-correnti ecc. Dopo questa prima esibizione, si estraggonoi temi, ossia gli argomenti, ovviamente antitetici, di cui ipoeti dovranno assumere una difesa per così dire “d’uffi-cio”. A titolo d’esempio: “meglio sposarsi o rimanere celi-bi (o, se c’è un terzo concorrente, rimanere vedovo)”; “incaso di naufragio salveresti tua moglie o tua madre”;sono rimasti celebri anche temi di pressante attualitàcome “industria o pastorizia”, “Comunismo oDemocrazia Cristiana”, “Roma o Mosca”, “indissolubilitàdel matrimonio o divorzio” ecc. I poeti, a turno, dovran-no argomentare in ottave di endecasillabi i pro dell’argo-mento loro assegnato e, nel contempo, confutare le tesiavversarie. Terminata questa manche, forse la più attesadella gara, si può procedere ad una nuova estrazione ditemi, altrimenti si passa a quella delle duinas, nella qualei concorrenti devono improvvisare, a turno, un distico diendecasillabi, fino a formare un’ottava di senso compiu-

to con la giusta successione delle rime. Costruito un buonnumero di ottave, si passa all’improvvisazione delle bat-torinas, brevi componimenti di quattro versi a rima incro-ciata che iniziano con il verso A la cantamos una battori-na, oppure, battoretta, paesana, furistera, bruschistigliaecc. forme poetiche ampiamente documentate e analiz-zate da Aldo Maria Cirese nel volume (Cirese, 1988). Lagara si conclude invece con un sonetto, anch’esso improv-visato, dedicato al santo della festa o al paese ospitante.Attualmente, invece, come rileva Paolo Pillonca «Fino aqualche anno fa […] cantavano una strofe di intricatissi-ma elaborazione formale, con i versi intrecciati e capo-volti in una sorta di ebbrezza funambolica di grandeimpegno» (Pillonca 1982: p.154).

4. La polivocalità nella liturgia e nella paraliturgiaParallelamente alla polivocalità profana del tenore e

della taja si è sviluppata e diffusa nell’Isola una polivoca-lità tradizionale di tipo religioso, coincidente solo inparte con quella profana. In Sardegna, nell’area del teno-re, si cantano a più voci i gotzos (o gosos), canti devozio-nali, omologhi ai goigs/gozos iberici, in onore dei santi edella Madonna o per accompagnare i riti della SettimanaSanta, brani di solito eseguiti a una voce nel restodell’Isola. Nella versione polivocale, però, le voci del teno-re perdono l’asprezza consueta e l’insieme tende piutto-sto all’assetto del cuncordu, come quello del Montiferru,senza il basso laringale e senza versi non sens.

Bisogna precisare, tuttavia, che il versante liturgico eparaliturgico del canto a tenore appare marginale e, pergli stessi cantori, meno significativo rispetto a quello pro-fano.

Invece ci sono centri che rientrano nell’area di diffu-sione del canto a tenore (come Santulussurgiu o Orosei) one sono estranei (Castelsardo), in cui al contrario la poli-vocalità religiosa, tramandata da apposite confraternite,ha una rilevanza eccezionale nella vita e nelle tradizionilocali.

Questo genere di canto che, per uniformità termino-logica, si può definire a cuncordu, benché condivida conquello a tenore alcuni elementi di fondo, come si è accen-nato, si differenzia da quest’ultimo non solo da un puntodi vista poetico e musicale, ma anche per le funzioni, leoccasioni e le modalità con cui viene tramandato.

Il canto a cuncordu viene usato in quelle località prin-cipalmente durante la Quaresima e durante i riti dellaSettimana Santa. Spetta ai sodalizi confraternali farsi cari-co di conservare e tramandare un repertorio di difficileesecuzione per utilizzarlo in un periodo estremamenteridotto dell’anno, quello in cui la comunità ricorda, concontrizione e forte partecipazione, la Passione e la Mortedi Cristo.

Questa coincidenza calendariale nell’uso di similirepertori, come pure la loro custodia da parte di confra-ternite nate per garantire la celebrazione dei riti popola-ri, conferisce al canto a cuncordu una funzione rituale econsente di stabilire interessanti confronti locali ed ester-ni, per ricostruire anche sulla scorta di studi condotti indiversi centri dell’Italia e della Corsica, una storia comunenella quale gli elementi colti e popolari si compenetrano.

Una funzione rituale che, come ha attentamentedimostrato Gian Nicola Spanu, (Spanu 2007: pp. 754-765)risiederebbe nella “riesumazione” simbolica di un’anticaforma di canto a più voci, presumibilmente in uso inun’ampia area del Mediterraneo prima della normalizza-

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zione, in senso monodico, imposta dallaChiesa Romana con il canto gregoriano.Una riesumazione temporanea effettua-ta per realizzare, in Quaresima e nellaSettimana Santa, un’opposizione simbo-lica tra nuovo e vecchio, tra il dopo e ilprima della venuta di Cristo. Un simboli-smo rituale che, come suggerito già dailiturgisti medievali, il canto a cuncorducondividerebbe con il silenzio delle cam-pane nel Triduo pasquale e l’impiego, inloro vece, di strumenti lignei come lematraccas e le taulittas (oggetti analoghialle traccole e alle bàttole della tradizio-ne italiana) che, però, non appena lecampane riprendono a suonare, nel corsodella Veglia pasquale, vengono deposteper essere riprese l’anno seguente; allostesso modo, il canto a cuncordu vivedurante la Settimana Santa e, in coinci-denza alla fine di essa, viene messo daparte fino all’anno successivo.

Nei processi di circolazione culturale,va altresì tenuta in considerazione, a pro-posito della forma e delle armonie tipi-che del canto a cuncordu, l’azione nor-malizzatrice avviata da tutto il clerodopo la Controriforma nel tentativo diaddolcire e di temperare le aspre e disso-nanti voci del popolo. Lo stile cosiddettodel falsobordone e, in generale, la poli-fonia colta vanno visti, di conseguenza,non come un modello ispiratore dellapolivocalità religiosa di tradizione orale edel canto a cuncordu, quanto piuttostocome un esempio cui adeguare una pra-tica di gran lunga preesistente negli usiliturgici e paraliturgici locali.

Come si è detto, spetta alle confrater-nite il compito di coltivare e selezionareaccuratamente i pochi cantori che preste-ranno le proprie voci al rito. Il canto acuncordu dunque, benché necessiti sem-pre di quattro esecutori, è espressione diuna collettività, la confraternita, a suavolta diretta rappresentante di unacomunità locale. La “concordia” dellevoci, così come ha dimostrato l’etnomusi-cologo francese Bernard Lortat-Jacob inuna puntuale indagine sugli usi e i cantidi Castelsardo, è rappresentazione sim-bolica della concordia del gruppo e dellacomunità intera (Lortat-Jacob 1996).

L’uso o il semplice ricordo del cantopolivocale e confraternale è attestato intutta la Sardegna centro-settentrionale,mancando del tutto nella metà inferioredell’Isola, tranne a Cagliari. Ma lì, come sivedrà, assume una fisionomia del tuttoparticolare, fermo restando, tuttavia

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alcuni caratteristiche in comune con quello a cuncordu.Poiché finora sono scarsi gli studi sul canto polivocale

nell’area centro-settentrionale dell’Isola, data la rilevan-za dei repertori, in tutti i casi, può essere opportunoaccennare agli usi e ai canti di Castelsardo, una delle loca-lità, insieme a Santulussurgiu e Orosei, studiata e nota algrande pubblico.

I canti della Confraternita di Santa Croce, custodedella tradizione, degli oggetti, dei riti della SettimanaSanta castellanese prevedono quattro voci e, nella quasitotalità dei repertori, quattro cantori (unico canto ese-guito dall’insieme dei confratelli è il Miserere fugghi fug-ghiendi, del Venerdì Santo).

Si avrà quindi, partendo dal grave, il bassu (dal timbrosolenne senza eccessivo vibrato), una quinta sopra di que-sto il contra (che distingue per una certa ruvidezza), quin-di, mediamente un’ottava sopra il basso, la bogi (la piùagile e libera nell’ornamentazione) e infine il falzittu, (lavoce più acuta, dal timbro chiaro e squillante).

I cantori si dispongono in cerchio: la bogi di fronte albassu, il contra di fronte al falzittu; cercano l’intesa negliocchi dell’altro. La bogi è la voce principale, la più espres-siva. Ha una funzione strutturale importantissima: èintorno ad essa che si costruisce la polifonia ma, soprat-tutto, è quella che canta il testo completo e gestisce nelcanto le alternanze di battute e giri: le prime sono lineemelodiche ben scandite con un unità ritmica piuttostoserrata; i giri, invece, sono ricche circonvoluzioni chenascondono la linea melodica e che vanno dosati consapienza; inoltre, troppi giri fanno perdere di vista lastruttura del canto senza aggiungere nulla a livelloespressivo; dei giri ben costruiti, invece, arricchiscono erendono più efficace un canto (v. Lortat-Jacob 1996: pp.211-214). I canti sono intonati da un solista ( il bassu o labogi a seconda dei casi) prima che entrino, poi, le altreparti. I quattro cantori vanno, allora, alla ricerca dellaquintina, quella voce che, per un singolare effetto acusti-co, sembra formarsi quando le voci sono perfettamenteintegrate e fuse nell’insieme; è come un “quinto elemen-to” che tutti i cori ambiscono trovare, e che suggella,quando raggiunto, una buona esecuzione (Lortat-Jacob1996: pp.137-140).

Centrale nel repertorio quaresimale castellanese,come in tutte le altre forme di canto polivocale sardo, manon solo, è il Salmo 50 della Vulgata che inizia con laparola Miserere. A Castelsardo se ne cantano quattro ver-sioni: il Miserere del Lunissanti, quello Fugghi fugghien-di, al quale si è fatto cenno perché viene intonato ilVenerdì Santo in coro e antifonicamente da tutti i con-fratelli mentre, dopo la deposizione, percorrono in tuttafretta (da cui il nome) il breve tragitto dalla Cattedrale alloro oratorio. C’è poi il Miserere dietro l’altare (sottin-tendendo quello della Cattedrale), chiamato ancheMiserere quaresimale perché eseguito, nei venerdì diQuaresima (attualmente è però spostato al sabato); carat-teristica di questo canto, considerato dai confratelli il piùdifficile ma anche il più bello, è l’intonazione affidata albasso e la presenza di diverse sezioni solistiche.

Infine, il Miserere dei morti, cantato nei funerali da unsolista che si alterna ai restanti confratelli, risulta alquan-to semplice rispetto agli altri.

Il Lunissanti (Lunedì Santo) è il momento più impor-tante della Settimana Santa di Castelsardo, giorno in cuisi celebra l’articolato rituale dei Misteri: alcuni confratel-li, incappucciati e silenziosi, portano per le vie della città

i simboli della tortura e della crocifissione, detti appuntoMisteri (perché il rituale prende il nome dagli analoghicinque misteri dolorosi recitati nel Rosario). La lunga ediradata processione di simboli è aperta, inframezzata echiusa, per quanto riguarda il tema in oggetto, da tre coria cuncordu, ciascuno dei quali canta, alternando i verset-ti a lunghi silenzi, un canto specifico: il primo coro, checon il teschio (lu cabbu di lu moltu) apre la processione,canta il Miserere del Lunissanti; il secondo, a metà corteo,affiancato dal busto dell’Ecce Homo (la Pieddai), canta loStabba, ossia la celebre seqenza di Jacopone da TodiStabat Mater; infine il terzo, in coda al corteo e sotto unpiccolo Crocifisso, intona lo Jesu.

La polivocalità cagliaritana, dal canto suo, costituisceun hapax nel panorama isolano; mostra infatti, caratteridel tutto differenti dal canto a più voci fin qui descritto.Uno stile di canto e condotte rituali poco studiate e pococonosciute cui, in questa sede, si accennerà sinteticamen-te.

A Cagliari, nel quartiere di Villanova, sono attivi duesodalizi che tramandano, separatamente ma in modosostanzialmente simile, le paraliturgie e i canti dellaSettimana Santa: l’Arciconfraternita del SS. Crocifisso,attiva dal 1616, con sede nell’oratorio del S. Cristo in P.zzaSan Giacomo e l’Arciconfraternita della Solitudine, fon-data nel 1603 (o forse nel 1608) e che oggi ha sede nellachiesa di San Giovanni.

Nel panorama sardo la specificità del canto polivocaledi Cagliari è data sia dallo stile esecutivo, il canto polivo-cale di grandi masse corali, sia dal repertorio, di origineperlopiù settecentesca, e sia dalla lingua dei testi, non ilsardo o il latino, come nel resto dell’Isola, ma l’italiano.

Il corpus dei canti in uso nel quartiere di Villanovacomprende circa 30 brani, di cui la parte più consistente èrappresentata da melodie di tradizione orale su testipseudo-metastasiani (l’erronea attribuzione risale all’e-poca in cui il poeta cesareo era in vita) e componimentidevozionali di illustri francescani quali S. Leonardo daPorto Maurizio e S. Alfonso Maria de’ Liguori. Sono testidiffusi e tutt’ora in uso in molte località del Meridioned’Italia e soprattutto in Puglia, nel Molise e nellaCampania. Si tratta di una coincidenza che porta a rivalu-tare quei legami (spesso trascurati) che intercorrono trala Sardegna e il sud della Penisola (Solinas 2005-2006,334-337).

Si deve tenere presente che questi testi, nati nel XVIIIsecolo per favorire una partecipazione contemplativa,tutta interiore, dei fedeli che prendevano parte ai ritiquaresimali, hanno assunto nel contesto cagliaritano unaparticolare connotazione. Come ancor oggi si può osser-vare, sono stati infatti ri-funzionalizzati, perdendo l’ori-ginario spirito contemplativo e integrandosi perfetta-mente nel sistema-rito della Settimana Santa sarda, basa-ta piuttosto, come nel resto dell’Isola, su strategie di tipodrammatico-rappresentativo. Queste semplici preghiere,smembrate ed estrapolate alla rinfusa dal contesto per ilquale vennero composte, la Via Crucis, accompagnano aCagliari le processioni dei Misteri e quelle mute sacre rap-presentazioni, come la crocifissione, la deposizione e laprocessione del Cristo morto, che animano tutte leSettimane Sante della Sardegna (Solinas 2005-2006, 230-247).

Anche le musiche, tutte tramandate oralmente, ben-ché manifestino evidenti punti di contatto con quelle inuso nel Continente, sia nella condotta delle voci in stile di

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falsobordone, sia nelle esplicite contaminazioni colte eanche operistiche, possiamo considerarle, allo statoattuale degli studi, frutto della creatività dei Cagliaritani.

Possiamo definire questo canto, utilizzando una defi-nizione locale, come canto di massa perché, a differenzadegli altri repertori sardi, dove a ogni voce corrispondeun unico cantore, prevede l’affidamento delle varie partidella composizione a gruppi omogenei di cantori, ossiaalle diverse sezioni del coro detto, appunto, la massa. Vaspecificato, comunque, che la massa dei cantori, non cor-risponde alle confraternite (benché molti confratelli ne

facciano parte), ma si tratta di un gruppo specializzatonel tramandare ed eseguire il repertorio quaresimale chesi ricostituisce ogni anno in prossimità della SettimanaSanta.

Nella massa cagliaritana si distinguono, dunque, cin-que sezioni (Solinas 2005-2006: pp. 209-224) partendodalle voci più gravi, i bassi, i tenori secondi e primi, i con-tralti (detti anche secondi soprani) e i soprani. Un insiemedi cantori che raggiunge anche le 100 unità, necessita,evidentemente, di un direttore (figura inutile nel cuncor-du).

Il direttore, o capo massa è il personaggio di maggior

prestigio nel gruppo che deve associare alle doti stretta-mente musicali, un riconosciuto carisma, pazienza e, allostesso tempo, severità e imparzialità, oltre alla indispen-sabile chiarezza del gesto direttoriale. Non esiste unapartitura musicale e, pertanto, il capo massa deve ricor-dare a memoria tutte le parti, tutti gli attacchi e soprat-tutto l’insieme delle varianti d’uso che si sono accumula-te nel tempo.

Altra figura fondamentale per il canto di massa èquella dell’intonatore cui spetta il compito di iniziare icanti, cantando il primo verso del brano.

Determinante è anche la funzione del capo sezione,cui spetta il controllo e la co-direzione, insieme al capo-massa, del proprio gruppo di appartenenza (particolar-mente utile quando nelle strette vie del quartiere diVillanova il direttore principale scompare dalla vista deisuoi coristi). Troviamo quattro capisezione, uno per cia-scuna sezione dei cantori adulti, mentre il gruppo deisoprani, formato dai bambini, ha come caposezione lostesso capomassa.

Come si è accennato, ogni voce ha le proprie peculia-rità timbriche e di emissione; e ciò assume particolareimportanza nella struttura verticale/armonica dei canto,

Canto a tenoreFoto anni ‘60

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cioè nel modo in cui le voci si sovrappongono, sia nellasua dimensione orizzontale/melodica (Solinas 2005-2006,pp 225-229). Molti brani richiedono un’esecuzione inte-ramente a cinque voci, altri prevedono corpose parti soli-stiche. Nella maggior parte dei casi queste sezioni vengo-no affidate alle sezioni dei bassi, dei tenori e dei soprani;le incursioni solistiche delle voci nell’architettura delbrano creano dei forti contrasti.

Quando si ascoltano le potenti voci del coro una carat-teristica spicca su tutte, la grande massa di volume spri-gionata, in perfetta contraddizione con le modalità delcanto polivocale del resto dell’isola che non si basa sulvolume ma sulla perfetta consonanza delle voci. Le moti-vazioni di questa scelta esecutiva/estetica sono diverse;possono derivare dalla necessità di saturare acusticamen-te lo spazio aperto del rituale, possono derivare dall’esi-genza di interpretare simbolicamente l’intensità emotivadel rituale stabilendo l’equazione “più volume = piùdolore”, ma anche “più volume = più prestigio dell’istitu-zione che promuove il rituale (specie in rapporto alla con-fraternita “antagonista” nel quartiere e nel rituale).

Riferimenti Bibliografici

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GianNicolaSpanu

1. Lo strumentariosardoLo strumento, oggettofisico che dura neltempo, che può esseredisegnato, scolpito,plasmato o descrittonei libri, costituisceun’indispensabilefonte d’informazioneper lo studio di reper-tori e usi musicali affi-dati all’oralità, consen-tendo di ricostruire,talvolta con buonaapprossimazione, cul-ture musicali del passa-to che sfuggono, altri-menti, al ricordo e allatradizione orale.Punto di convergenzatra un sapere effimero,affidato a suoni nonscritti e a parole, e unacultura materiale e tec-nologica, gli strumentici aiutano a compren-dere le dinamiche dicircolazione culturale,ma nondimeno i reper-tori musicali che daessi scaturiscono.Questi oggetti, apposi-tamente realizzati per

Strumentie musiche

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Strumentie musiche

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Suonatore launeddas.Foto Alinari 1915

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suonare determinate musiche o modificati per eseguirnedi nuove, importati, talvolta, da paesi lontani per into-nare melodie di quei luoghi o per interpretare meglioquelle della propria tradizione, rivelano un legameindissolubile e reciproco con i suoni, i canti le identitàlocali.L’etno-organologia, disciplina che studia le forme, imateriali e le tecniche di costruzione degli strumentidella musica popolare, ma anche i modi di esecuzione edi apprendimento, non va affatto considerata una disci-plina accessoria e complementare all’etnomusicologiadella Sardegna. Impossibile, infatti, scindere, come già siè accennato, i repertori musicali dalle condotte umane esociali, comprese quelle relative alla realizzazione eall’uso degli strumenti stessi. Per tale motivo gli studiosidi musica sarda, e primo tra tutti Giulio Fara (1880-1949), si sono occupati di classificare e descrivere glistrumenti dell’Isola. In realtà, negli antecedenti resocon-ti di viaggiatori, storici e letterati si trova qualche spora-dico riferimento; descrizioni però alquanto sommarie eincomplete riguardanti essenzialmente, è il caso diNicolò Oneto (1800-1872), lo strumento più caratteristi-co dell’Isola: le launeddas. Maggiormente utili le atte-stazioni iconografico-musicali, ossia le rappresentazionidi strumenti nell’arte (a partire dal noto bronzetto itifal-lico proveniente da Ittiri, ora nel Museo ArcheologicoNazionale di Cagliari) e rari documenti d’archivio.Grazie al Fara, comunque, l’intero strumentario sardo sioffrì all’attenzione degli studiosi di tutto il mondo: neisuoi articoli, pubblicati, a partire dal 1909, nell’organoufficiale della musicologia italiana si era occupato, infat-ti, sia degli strumenti autoctoni, sia di quelli allogenisenza tralasciare gli strumenti impropri ne quelli giocat-tolo. Altri linguisti e scienziati si occupavano, in queglianni, delle launeddas, come Silvestro Baglioni (1876-1957) che sottopose lo strumento ad una serie di accura-te misurazioni acustiche, dando notizia delle sue scoper-te in prestigiose riviste etnografiche. Esperimenti velata-mente criticati da Giulio Fara che rimproverava all’illu-stre fisiologo romano di decontestualizzare l’oggetto,perdendo il rapporto uomo-strumento e inficiando irisultati delle sue indagini.Un notevole contributo alla conoscenza degli strumentipopolari sardi lo diede anche Gavino Gabriel (1881-1980), sia nei suoi numerosi saggi sulla musica sarda(compresa la voce pubblicata nella prima edizione dellaEnciclopedia Italiana, nel 1936), sia in alcuni documenta-ri didattici degli anni ’50, dove, tra le altre cose, forniscele immagini dell’ultimo suonatore di sulittu etumbarinu. La sua rimane però l’opera, certamentemeritevole, di un puntuale e intelligente divulgatore,mentre da un punto di vista strettamente scientificonulla di sostanziale ha aggiunto alla straordinaria moledi dati offerti, sul tema in questione, da Giulio Faranegli anni 1909-1926.Per avere consistenti e aggiornate informazioni suglistrumenti sardi, e soprattutto sullo strumento principedell’organografia isolana bisognerà attendere il 1969,anno di pubblicazione a Copenhagen di The launeddas.A Sardianian folk music instrument di Andres FridolinWeis Bentzon (1936-1971), frutto delle sue ricerche sulcampo condotte negli anni 1953-62. L’opera, tradotta initaliano solo pochi anni fa, fornisce dati di estremo inte-resse sullo strumento, sul suo repertorio, accuratamentetrascritto e analizzato nonché, secondo quanto propo-

neva il nuovo metodo d’indagine antropologico-musica-le avviato da Merriam e Mc Allister, sul contesto d’uso.Risale invece al 1976 la prima monografia sullo strumen-tario isolano, realizzata da Giovanni Dore, appassionatocollezionista di strumenti musicali e cultore di tradizionipopolari. A cura dello scrivente, invece, Sonos. Strumentidella musica popolare sarda, edito nel 1994 con una cor-posa introduzione di Pietro Sassu; volume concepito informa ipertestuale con fotografie di pregio, disegni,quadri sinottici, esempi sonori e finestre di approfondi-mento. Si citano, in conclusione di questa compendiariae parziale rassegna degli studi, alcune monografie susingoli strumenti e repertori strumentali, a partire daL’organetto. Uno strumento musicale contadino nell’eraindustriale, di Francesco Giannattasio (1979) che riservaun’ampio spazio all’organologia e all’uso dello strumen-to in Sardegna, all’opera collettiva, curata da GiampaoloLallai e dell’associazione concordia a launeddas, datoalle stampe nel 1997 con il titolo Launeddas, al saggiodel 1999 Il canto Sardo a chitarra di Andrea Carpi.

Nel panorama musicale della Sardegna salta subitoall’occhio la presenza di strumenti autoctoni, come lelauneddas, attestate unicamente nell’Isola, e altri di pro-venienza esterna, comuni dunque ad altre culture musi-cali: è il caso della chitarra (attestata già nel XVI secolo),dell’organetto (diffusosi già pochi decenni dopo la suainvenzione a metà ’800), o del desueto piffero e tambu-ro, di foggia simile a quello maiorchino. Nondimeno sinotano, però, alcune significative assenze, come quella,totale, delle cornamuse, diffuse in Spagna e in tutto nelresto dell’Italia: strumento pastorale per eccellenza puòstupire, invero, di non trovarlo in una regione in cuicerto non mancavano la materia prima per la lorocostruzione (pelli ovine e canne) né i contatti con luoghie culture che impiegavano largamente tali aerofoni. Èspettato invece al canto a tenore il compito di rappre-sentare musicalmente il pastoralismo sardo. Assentialtresì gli aerofoni ad ancia doppia (oboi), come le cata-lane chirimías o le italiche ciaramelle, mentre il tambu-rello basco, suonato, anch’esso, in varie regioni iberichee dell’Italia, ha avuto nella musica sarda un utilizzo mar-ginale e, a quanto pare, limitato all’ambito femminile.Ma tant’è: le vie della musica sono infinite e seguonopercorsi talvolta bizzarri e difficilmente comprensibili.Occupandoci invece, nel limitato spazio di queste pagi-ne, di quanto nell’Isola è attestato e rimane in uso(impresa considerevole vista la vastità e la vitalità delpatrimonio organologico sardo), si è scelto di procederenon, come di consueto, per classi e famiglie di strumen-ti, ma secondo il loro contesto d’uso e la loro funzione.Si partirà dunque da quelli impiegati nella normale atti-vità musicale per accompagnare, essenzialmente, i cantie i balli, passando, quindi, agli strumenti per così dire“rituali” e a quelli giocattolo.Non possiamo che iniziare dalle launeddas, strumentoprincipe della musica sarda, benché il suo utilizzo, inforte ripresa negli ultimi decenni, sia limitato, perlopiù,al Campidano e al sud-est dell’Isola (Sarrabus).Il nome, secondo Giulio Paulis, deriverebbe dal tardolatino LIGULELLA, ossia ‘linguetta’, ‘ancia’, la parte che,come spesso avviene per gli strumenti musicali, avrebbedato la denominazione al tutto. Il plurale launeddas rin-via invece alla molteplicità degli elementi che compon-gono il singolo strumento: le tre canne, di cui due lega-

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te fra loro e una sciolta, dette rispettivamente tumbu,mancosa e mancosedda alla cui imboccatura sono inseri-ti tre sottili porzioni di canna (cabitzinus) nei quali sitrovano le ancie (classificate come “semplici” dagli orga-nologi per distinguerle da quelle doppie degli oboi, eidioglottidi, in quanto escisse nel corpo stesso dello stru-mento e non ad esso applicate, come nei clarinetti del-l’orchestra).Il tumbu (o basciu), che può avere una considerevolelunghezza ed è divisibile, mediante appositi innesti, indue o anche tre sezioni per facilitarne la conservazionee il trasporto, produce un’unica e continua nota di bor-done, considerato che si soffia nello strumento con latecnica della respirazione circolare o continua. La man-cosa, ossia la ‘canna di mano manca’, presenta invecequattro fori digitabili di forma quadrangolare nellaparte anteriore, più uno più in basso, oblungo, chiama-to arrefinu che, parzialmente ricoperto di cera, serve peraccordare la canna (arrefinai, ‘affinare l’intonazione’, dacui il nome) sulla nota del tumbu. La mancosa è unita aquest’ultimo, in posizione lievemente divergente,mediante un supporto trasversale di canna e generosespire di spago impeciato; l’insieme delle due canne, chefacilita l’impugnatura dello strumento (si ha, però, l’at-testazione certa anche di tumbu e mancosa sciolte)viene chiamata loba o croba.La terza canna, la mancosedda (‘piccola mancosa’) odestrina, è del tutto simile alla mancosa ma, nella mag-gior parte degli strumenti, di minori dimensioni; vasegnalata inoltre la particolarità di alcune mancoseddasche presentano, sempre nella parte anteriore, cinquefori digitabili, di cui uno sempre occluso con della cera:il primo in basso, per guadagnare una nota verso l’acu-to, oppure l’ultimo, in alto, per ottenere una nota piùgrave.Ci sono tante tipologie di launeddas quanti sono i cosid-detti cunzertus, combinazioni standardizzate di canne,differenti tra loro per le note che producono in riferi-mento ad un medesimo tumbu (la cui intonazione stabi-lisce il “taglio” dello strumento); differenze anche mini-me, talvolta di una sola nota, che hanno determinatoperò l’elaborazione di distinti repertori, uno per ciascuncunzertu. Il suonatore, proprio per questo, conservanello straccasciu, la capiente custodia di cuoio che tienea tracolla, diversi cunzertus di launeddas che, a secondadei casi, estrae per suonare questo o quel brano.Può essere utile però, a questo punto, chiarire meglio ilconcetto di cunzertu; ma per farlo sarà necessario svela-re qualche altro particolare organologico e tecnico-ese-cutivo.Le launeddas sono uno strumento realmente polifonico,nell’accezione che il termine ha acquisito nella musicacolta: è capace, infatti, di realizzare con le due cannedigitabili (mancosa e mancosedda), melodie indipenden-ti tra loro sia melodicamente, sia ritmicamente. È capa-ce, per esempio, di eseguire un motivo con la mancosed-da e far tacere la mancosa, oppure può inframmezzarela linea melodica di una voce con pause più o meno lun-ghe o con effetti di staccato. Ma, ci si chiederà, come sipossono realizzare simili effetti, visto che tutte e tre lecanne sono imboccate simultaneamente dal suonatore einsufflate con la tecnica del fiato continuo? Come sipuò, in buona sostanza, far tacere una di esse e conti-nuare a suonare con l’altra? Mediante una sorta di “illu-sione acustica” è la risposta.

Come si è accennato, mancosa e mancosedda sono,infatti, intonate alla perfezione, mediante l’arrefinu ocon dell’aggiunta di cera sull’ancia, sui primi armonici(ottava, quinta o terza maggiore) del suono che fuorie-sce dal tumbu; così quando tutte le dita chiuderanno iquattro fori aperti su ognuna di esse, la loro nota piùgrave si confonderà con la ronzante sonorità del tumbu.Ogni qual volta il suonatore assumerà tale posizione, ilsuono della mancosa o della mancosedda si mimetizze-rà, perdendosi nella potente nota di bordone; fenome-no che l’ascoltatore percepirà come un silenzio, unapausa più o meno lunga. La polifonia tra le duevoci/canne può raggiungere, per questo motivo, com-plessità paragonabili a quella di un contrappuntobachiano.Solo che Bach disponeva, sul suo clavicembalo, di unconsiderevole numero di tasti; il suonatore di launeddaspuò contare, per le sue evoluzioni, su appena ottosuoni, quattro sulla mancosa e quattro sulla mancosed-da (in realtà ciascuna di queste canne può realizzare cin-que suoni, ma uno, il più grave, come si è detto corri-sponde al “silenzio” e quindi, di fatto, inutilizzabile neldiscorso musicale). Per evitare la monotonia, una stradapercorribile era quella di aprire i quattro fori sulle cannein corrispondenza di note sempre diverse e poi di usaretali canne in combinazioni variabili, i cunzertus, appun-to. Per esempio il conzertu chiamato fiorassiu può rea-lizzare con la mancosa le note sol-la-si-do e con la man-cosedda, a partire da quest’ultima nota, la successionedo-re-mi-fa; parimenti il puntu ’e organu, altro nome dicunzertu, ancora intonato in do, suona con la mancosale note la-si-do-re e con la mancosedda re-mi-fa-sol.Come si vede la disponibilità di note e le loro relazioniinterne sono affatto diverse in questi due cunzertuscome in tutti gli altri che prendono il nome di mediana,mediana a pipia, fiuda, fiudedda (o fiuda bagadia), ispi-nellu, ispinellu a pipia, oltre al puntu ’e organu e al fio-rassiu, per ricordare solo i più usati.Appare così dimostrato come la differente disponibilitàdi note tra un cunzertu e l’altro, determini inevitabil-mente una diversità di repertori. Una volta imboccatauna mediana a pipia, per fare ancora un esempio, il suo-natore potrà eseguire solo brani per questo cunzertu dilauneddas; i repertori per altri cunzertus prevedono,infatti, suoni che la mediana a pipia non possiede. Seintende suonare uno di questi altri brani, dovrà necessa-riamente cambiare cunzertu.Ogni cunzertu può essere intonato su differenti altezze,corrispondenti attualmente a quelli della scala tempera-ta con il la a 440 Hz. Un fiorassiu può essere accordato,per esempio, in mi bemolle, in re, in do diesis ecc. e cosìdicasi per tutti gli altri cunzertus. Bisogna però precisareche il taglio, ossia l’altezza assoluta del cunzertu, nonpreclude, in linea di massima, la possibilità di eseguiretutto il repertorio proprio di quel cunzertu. Così, a titolodi esempio, tutti i fiorassiu, siano essi intonati in mibe-molle, in fa, in re ecc, possono suonare il medesimorepertorio.Il realtà, possiamo concludere, l’unità organologica èrappresentata, dal singolo cunzertu e le launeddasappaiono piuttosto un’entità astratta, un paradigma,una sommatoria di tutti i suoni che i singoli cunzertus,in varie combinazioni di canne possono realizzare.Viceversa ogni cunzertu rappresenta una selezione dinote (4+4, come si è detto) in combinazioni standardiz-

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zate, riferibili a quell’entità ideale e paradigmatica chechiamiamo launeddas.L’esiguo numero di suoni realizzabili dallo strumento (siricorda, tra l’altro, che in molti cunzertus alcune notedella mano destra coincidono con quelle della sinistra)ha determinato altresì sorprendenti strategie di elabora-zione del materiale musicale: una breve unità tematicatripartita, chiamata noda, viene variata infinite volte dalsuonatore, in modo sempre diverso e con un grado dicomplessità sempre maggiore; microvariazioni che nonsi devono quasi percepire nel continuum del discorsomusicale. È il concetto del sonai a iscala, ‘suonare ascala’, nel senso di suonare in un crescendo di complessi-tà (cfr. il greco klimax, ‘scala’, appunto), sintetizzatomagistralmente dal grande Aurelio Porcu, recentementescomparso, che paragonava la musica delle sue launed-das a un fiume che nasce come un piccolo rigagnolo eman mano si ingrossa fino alla foce senza mai bagnaredue volte la stessa riva. Il bravo suonatore deve dunqueimparare e memorizzare tutte le possibilità di microva-riazione della stessa noda, e magari inventare nuovepossibilità; quindi, nel corso dell’esecuzione, disporlecon gusto, maestria tecnica, sensibilità musicale e fanta-sia, come le tessere di un domino, possibilmente senzamai utilizzare due volte la stessa tessera.Suonare le launeddas significa quindi saper costruire eritoccare continuamente lo strumento, saperlo suonaree soprattutto ricordare uno sterminato repertorio dinodas. Mancando solo una di queste abilità e saperi, sipuò soffiare dentro le tre canne, ma non si è sonadoris.La bena, attualmente attestata in una ristretta areadella Sardegna centrale (media valle del Tirso), condivi-de alcuni dettagli organologici delle launeddas, comel’ancia semplice idioglottide e la possibilità di emetteresuoni simultanei; tuttavia è differente da queste, sia perdiffusione e soprattutto per la tecnica costruttiva ed ese-cutiva. La bena (dal latino AVENA, nel senso di ‘tubocavo’ e quindi, genericamente ‘strumento a fiato’) ècostituita da una porzione di canna comune nella cuiestremità superiore, chiusa dal nodo, viene escissaun’ancia con la linguetta rivolta verso il basso. Più spes-so, in modo da poter essere sostituita in caso di danneg-giamento o usura, l’ancia viene escissa in un cannellosottile, analogo al cabitzinu delle launeddas, innestato asua volta sullo strumento. Va però detto che l’anciadelle benas, a differenza di quelle della più illustreparente, è assottigliata nella parte esterna fino a trova-re l’intonazione voluta.Nella parte anteriore, presenta tre fori circolari (nellelauneddas, lo ricordiamo, sono quadrangolari) e uno,appena più in alto, nella parte posteriore; quattro foriin tutto che danno la possibilità di realizzare sei suoni,caratteristica comune al sulittu (o pipaiolu), di cui si trat-terà fra poco e del quale la bena, nella zona in cui èattestata, condivide gran parte del repertorio, esclusiva-mente di accompagnamento alla danza. Analogie che sirivelano anche nell’insufflazione normale e non conti-nua (o circolare) come quella usata nelle launeddas:Alla bena per così dire “semplice” può essere aggiuntauna seconda canna con la rispettiva ancia ma priva difori per le dita e quindi capace di produrre un unicosuono di bordone. Lo strumento prende, in questo caso,il nome “collettivo” di benas (benas doppie per gliorganologi), e mantiene, nell’uso, il carattere monodicodella versione semplice, arricchito, però, dalla persisten-

te sonorità di un bordone, così amata dai sardi.Ulteriori varianti sono date dall’aggiunta di una secondacanna di bordone o dall’applicazione di un padiglioneall’estremità inferiore della bena singola, realizzato conun corno bovino o con una zucca aperta, per amplificareil suono e modificarne il timbro (chiamate, rispettiva-mente, bena cun corru ’e boe e bena cun zucca)Altro strumento tipicamente sardo, benché diffuso con

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forme e materiali analoghi nel meridione d’Italia, è ilflauto diritto di canna (arundo donax) a imboccaturazeppata chiamato sulittu o pipaiolu. Lo strumento eraimpiegato unicamente per accompagnare la danza: ilsuo suono acuto sovrasta agevolmente le voci e i rumoridella piazza, segnando con precisione i passi del ballotradizionale. Un uso, dunque, più percussivo che melodi-co, come già osservava nel 1916 Giulio Fara: «bisogna,

come mi disse un suonatore indigeno, picchiare sopra ibuchi con sveltezza». L’accordatura è, infatti, menoaccurata di quella delle launeddas e l’estensione abba-stanza limitata (le prime cinque note di una scala mag-giore, più il semitono inferiore, ossia la sensibile; seinote in tutto), tuttavia è sorprendente anche qui ilgrado di virtuosismo di cui sono capaci alcuni suonatori.Si registrano nell’isola almeno due tipologie di strumen-to, il sulittu classificato come “del Logudoro” (benchésia diffuso in un’area geografica ben più vasta, e soprat-tutto nelle regioni del sud) e il pipaiolu della Barbagia,più una variante del primo tipo, identificata dallo scri-vente come sulittu della Marmilla.Il sulittu del Logudoro è caratterizzato dalla presenzadi un nodo approssimativamente a metà del segmentodi canna utilizzato per costruire lo strumento; nodo par-zialmente o totalmente forato all’interno per modificar-ne l’intonazione. Al di sotto di questo, anteriormente,troviamo tre fori circolari, mentre un quarto viene aper-to nella parte posteriore al di sopra del nodo stesso. Lazeppa dell’imboccatura è di legno morbido o, più rara-mente, di sughero. Il profilo del becco, ottenuto con untaglio netto della canna, determina un angolo di 40-45°,mentre è generalmente di forma allungata la finestraquadrangolare nella parte anteriore, posta immediata-mente sopra l’imboccatura, nella quale si forma la tur-bolenza che mette in vibrazione la colonna d’aria inter-na allo strumento.Il sulittu della Marmilla, come si è accennato, rappre-senta una variante di quello del Logudoro. Simile intutti gli altri dettagli, si differenzia da quest’ultimo perla presenza di un foro supplementare. Troviamo qui,infatti, quattro fori anteriori, di cui uno al di sopra delnodo, e uno posteriore, al di sotto, in corrispondenzadel terzo foro anteriore partendo dal basso. Proprio talecorrispondenza ci dice che il quinto foro non aggiungenote in più allo strumento ma, essenzialmente, vienerealizzato per agevolarne la diteggiatura.Ben differente il pipaiolu della Barbagia, non inter-rotto da alcun nodo e con quattro fori aperti nella parteanteriore; la sua “finestra” si estende in larghezza e ilbecco, zeppato con sughero, mostra un’angolatura pocopronunciata.Le dimensioni dei sulittus del Logudoro e della Marmillasono variabili, oscillando dai 10 ai 35 cm (più lo stru-mento è corto, lo ricordiamo, più la sua tessitura saràacuta). Sono altresì variabili le dimensioni del pipiolubarbaricino, ma, poiché deve essere realizzato nel seg-mento compreso tra un nodo e l’altro della canna (nonha, infatti, nodi intermedi), le dimensioni sono general-mente inferiori dei suoi omologhi. Una tessitura acuta ècomunque preferibile in quanto, oltre a rendere più udi-bile la sua voce, gli consente di emergere tra gli altristrumenti (tamburo, organetto, triangolo ecc.) insiemeai quali viene di sovente impiegato.A differenza degli strumenti fin qui descritti, nati e “cre-sciuti” in Sardegna, l’organetto, è stato importato intempi relativamente recenti, acquisendo una rilevanza,nel panorama musicale isolano, ben superiore a quelladegli strumenti autoctoni. Una preminenza che riguardasoprattutto l’estensione dell’area d’uso: in pratica l’inte-ra Regione.Lo strumento fa il suo ingresso nell’Isola nella secondametà dell’Ottocento, non sappiamo precisamente quan-do, ma abbiamo un termine post quem, il 1863, anno in

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Suonatori launeddas .Disegno – Collezione TioleFine secolo.XIX

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cui dal laboratorio di Paolo Soprani, a Castelfidardo(AN), cominciarono ad uscire i primi esemplari di fisar-monica diatonica a doppia intonazione, altrimenti notacome organetto. Da questa data, lo strumento si diffusea macchia d’olio in tutto il centro-sud della Penisola,sostituendo, per la sua facilità d’uso, la sua praticità erelativa economicità, strumenti quali zampogne, ciara-melle ecc.Non sappiamo come, ma probabilmente grazie alla pre-senza di carbonai e operai di vario genere provenientidal continente, anche l’organetto, attraversato il mare,iniziò una fulminea espansione nell’Isola, tanto che giànegli anni ’90, a trent’anni circa dalla sua invenzione,appare pienamente incorporato nella vita musicalesarda. Ne è testimone Grazia Deledda, che più volte locita nelle sue opere, mentre il Fara scrive nel 1909:«Questo strumento, comune a molte regioni d’Italia,viene spesso adoperato per accompagnare le canzoni, equalche volta vi si eseguisce anche il ballo sardo, e vaman mano sostituendo le launeddas.»I primi organetti che i nostri antenati hanno visto e sen-tito, certamente suonavano musiche continentali: rima-ne dunque aperto l’interrogativo se con lo strumentosiano penetrati in Sardegna, tra Otto e Novecento,anche motivi musicali e ritmi di ballo tipici del Centro edel Meridione italiano.L’impiego dell’organetto segna, comunque, una certaflessione nella Sardegna degli anni ’50-’60, delNovecento, cedendo il passo alla fisarmonica che, oltre arendere meglio la polifonia delle launeddas, consentival’esecuzione di balli cosiddetti civili, nel senso etimologi-co di ‘cittadini’, non-tradizionali, come il valzer, lamazurca ecc., ma anche dei successi di Sanremo.Paradossalmente la contaminazione della fisarmonicacon la musica leggera e con il liscio ha determinato,però, negli ultimi decenni una forte rimonta dell’orga-netto, considerato, specialmente dai gruppi di ballo, piùrappresentativo della tradizione sarda, più folk.L’organetto diatonico è un aerofono composto di treparti: una cassa che contiene i tasti della melodia che,azionati dalla mano destra, mandano l’aria alle anciecollocate sul soniere; un mantice di cartone telato che“inspira” ed “espira” l’aria; una cassa che comprendetasti, soniere e ancie per l’accompagnamento. In questaseconda cassa possiamo trovare due, quattro, otto, dodi-ci tasti o, come si dice “bassi” (lo strumento più utilizza-to in Sardegna risulta essere quello a 8 bassi, ma sonopresenti anche le altre tipologie, nonché quello cosid-detto “semidiatonico”).La caratteristica principale dell’organetto, risiede nelfatto che ciascun tasto della mano sinistra o della destraproduce due suoni differenti a seconda che si apra o sichiuda il mantice; se, per esempio, premiamo il secondotasto melodico di un organetto in do, mentre chiudiamoil mantice sentiremo la nota do, viceversa, aprendolo, lasuccessiva nota re, e così via. Ne consegue che per realiz-zare anche semplici melodie bisogna aprire e chiuderedi continuo il mantice, azione che rende impossibile larealizzazione di fraseggi ampi e legati (cosa di cui èinvece capace la fisarmonica, sua parente stretta, dovead ogni tasto, si apra o si chiuda il mantice, corrispondeun’unica nota). C’è da dire, però, che al “respiro corto”dell’organetto corrisponde una notevole verve ritmica,un carattere percussivo che lo rende particolarmenteadatto ad accompagnare il ballo, anche se non mancano

gli esempi di utilizzo a sostegno del canto solista.Analogamente si comporta l’armonica a bocca, dettasonette (o sonettu), la versione portatile, si può dire,dello strumento precedente. Qui non troviamo peròmantici o tasti, ma solo delle ancie disposte all’internodi una scatola piatta e rivestita di metallo che vieneimboccata direttamente dal suonatore e spostata late-ralmente per produrre le note desiderate. Alcune ancievengono azionate solo per pressione, altre solo per aspi-razione dell’aria: anche qui, come nell’organetto, sof-fiando si produce una certa nota, inspirando si produrràuna nota differente. È altresì possibile suonare note sin-gole dirigendo il fiato inspirato/espirato sulle singoleancie, altrimenti, imboccando una porzione più ampiadello strumento, si produrranno accordi.Più volte abbiamo fatto riferimento alla fisarmonica,l’altro importante aerofono ad ancia libera dellaSardegna, e già si è accennato ai vantaggi che offrerispetto all’organetto dal quale, evidentemente, deriva:una tastiera simile a quella del piano (più raramente abottoni) può qui realizzare tutti i suoni compresi in circatre ottave, mentre gli ottanta e più bottoni della manosinistra possono suonare anch’essi tutte le note dellascala cromatica e un’infinità di accordi; producendo lostesso suono in aspirazione in espirazione è possibile poirealizzare ampie melodie in “legato” e, volendo, in cre-scendo o in diminuendo; inoltre, si possono ottenere,azionando le apposite placchette sopra la tastiera, mol-teplici colorazioni di suono.Uno strumento versatile, quindi, capace di riprodurre,con sorprendente verosimiglianza, la polifonia più ilbordone delle tre canne delle launeddas, ma anche ditramandare i repertori, ben più semplici, dell’organetto;capace, nondimeno, di alternare al ballo sardo, qualchevalzer o qualche twist. A partire, grosso modo, daglianni ’30- ’40 del secolo scorso, inizia pertanto ad affian-carsi alle launeddas o a sostituirsi ad esse nelle piazze enelle processioni, sostituisce sempre più spesso anchel’organetto nell’accompagnamento dei canti e dei balli.Poi, in maniera stabile dagli anni ’50, la troviamo sulpalco, per sostenere, insieme alla chitarra, la voce deiconcorrenti nelle gare di canto a ghiterra.En passant ricordiamo anche l’harmonium che, insostanza, funziona come la fisarmonica (solo che qui imantici sono azionati da pedali e la tastiera è unica perle due mani dell’esecutore). Strumento diffuso in tuttele chiese dell’isola in sostituzione degli antichi organi acanne, ma disponibile anche in modelli portatili, daimpiegare nelle parrocchie, nei santuari campestri oaddirittura in processione per accompagnare i gosos ogoccius (canti devozionali in onore dei santi o dellaMadonna), messe e pregadorias in genere.

In alcuni centri della Sardegna come Gavoi o Aidomaggiorevari tipi di tamburo sono impiegati, nel ballo dei rispet-tivi paesi, insieme all’organetto e al triangolo.A Gavoi (NU), dove lo strumento appare quanto maivitale (specie nei giorni di Carnevale, quando orde chias-sose di tamburinai si riversano nelle strade), sono atte-state almeno tre tipologie di tumbarinos. La più sem-plice è costituita da un cilindro di sughero di primotaglio (gardone) ai cui estremi sono fissate due membra-ne di pelle animale messe in tensione da tiranti, dispago o cuoio, che ne attraversano i bordi. Una versionepiù evoluta prevede invece l’utilizzo di un vecchio setac-

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cio di legno e le solite pelli attraversate dai tiranti; lemembrane, però, vengono cucite, in questo caso, intor-no ad un cerchio realizzato con un fuscello che consenteuna più uniforme tensione delle stesse. Il modello piùusato resta comunque quello cun criccos, controcerchi dilegno flessibile cui sono fissati, mediante appositiocchielli di pelle, i tiranti. Così si migliora ancor più latensione delle due membrane e soprattutto si evita diforarle, aumentandone la durata nel tempo.Tutti gli strumenti gavoesi sono dotati di bordoniera,alcune cordicelle che, aderendo diametralmente allapelle inferiore producono il caratteristico effetto rullan-te.Il tumbarinu di Aidomaggiore, esclusivo di questopaese della media valle del Tirso (prov. di OR), presentainvece una cassa di metallo di circa 30 cm con le duepelli cucite al cerchio; non ci sono controcerchi, per cui itiranti di cuoio premono direttamente su quest’ultimo(forando la pelle) e sono tesi a “Y” mediante anelli,anch’essi di cuoio. Di particolare interesse i due mazzuo-li con cui si suona questo strumento: uno per perquote-re, l’altro per smorzare la vibrazione della pelle.A Sassari il tamburu coordina invece il movimento deiportatori che fanno “danzare” i mastodontici candelierinella processione votiva di mezzo agosto. Si tratta di untamburo a bandoliera, tipologia attestata molti centriitaliani quasi sempre in occasione di processioni e corteicerimoniali. Lo strumento sassarese è costituito da uncilindro in lamina di ottone o di ferro zincato del diame-tro di circa 40 cm; i bordi delle due membrane sonoincollati a cerchi di faggio, lo stesso legno dei controcer-chi che premono su di essi per mettere in tensione lepelli. Tale azione è assicurata dai tiranti che, attraversan-do i controcerchi, vengono tesi con fascette di cuoiodanno loro la caratteristica forma di “Y” rovesciata. Gliestremi eccedenti della corda vengono poi intrecciatiper formare la tracolla che regge lo strumento sullaspalla del tamburino (bandoliera). Anche qui è presentela bordoniera (o cordiera), di cui si è parlato a propositodel tamburo di Gavoi, con relativa chiave di accordatura.Un tempo, la maggior parte dei gremi, corporazioni dimestieri protagonisti della Discesa dei candelieri, utiliz-zava, utilizzava il tamburo in coppia con il piffaru, usotramandato, al giorno d’oggi, unicamente dal gremiodei Viandanti. Giulio Fara ci fa sapere nel 1917 che «daoltre un secolo i pochi suonatori popolareschi tuttoraesistenti si contentano di servirsi di antichi ottavini cheadattano alla capacità propria, turandone i buchi elegandone le chiavi». È la descrizine esatta di lu piffaruche si poteva ancora vedere fino a qualche anno fa: unottavino d’orchestra in ebano al quale venivano asporta-te le sei chiavi e otturati i fori inutili alla realizzazionedelle melodie tradizionali. Oggi il Gremio usa invece unpiffaru costruito appositamente sul modello di quellopreesistente, anche se di taglio leggermente più acuto.Tra i membranofoni sardi troviamo anche il tamburi-neddu, micro-tamburo realizzato in un segmento dicanna comune alla cui estremità viene fissato, e tesomediante alcune spire di spago, un sottile pezzetto dipelle. Lo strumentino veniva utilizzato per ritmare ipassi della danza.Monopelle, ma “a cornice” era anche il tamburellu, ilclassico tamburello basco, la cui sonorità poteva esserearricchita o meno da sonagliere. Come si è detto il suouso appare alquanto limitato in Sardegna: nel meridio-

ne era utilizzato, sembra, principalmente dalle donne,mentre quello sassarese, il trimpanu, accompagnava ilcanto della gobbula.Soprattutto nel centro dell’Isola, passando agli idiofoni,troviamo invece il triangulu, costruito da fabbri localicon una forma del tutto simile a quello in uso nell’or-chestra, se non fosse per l’arricciatura del ferro checaratterizza l’angolo aperto. È percosso con una bac-chetta di ferro e viene sempre impiegato insieme adaltri strumenti melodici (sulittos e pipaiolos, organettiecc.) e ritmici (tumbarinos e tumbarineddus).Veniva generalmente costruita nell’Isola anche latrunfa, nota in Italia come scacciapensieri ma strumentodiffuso, praticamente, in tutto il pianeta. Tenendola tra identi si fa vibrare con la mano la linguetta che fuoriescedall’estremità dello strumento; modificando, nel con-tempo, forma e volume della cavità orale, che funge dacassa di risonanza, si possono realizzare pochi suoni masufficienti ad accompagnare il ballo.Nel 1598, un decreto viceregio vietava di suonare la chi-tarra e altri strumenti a pizzico per le strade di Cagliarioltre il rintocco vespertino. Un documento importanteper la storia della chitarra sarda perché attesta l’impegodello strumento nell’Isola ab antiquo e, come si evincedal testo, a livello popolare, di “strada”, per l’appunto.Il fatto non deve stupirci, visto che proprio gli Spagnoli,dominatori della Sardegna molti secoli, furono i princi-pali esportatori in Europa di strumenti come vihuelas demano e guitarras. Di costruzione relativamente sempli-ce, e facilmente trasportabile la chitarra accompagnavala danza (ce lo attesta un’altra carta d’archivio di primoSeicento) e il canto. Le chitarre sarde del Seicento nonerano diverse da quelle usate in Sardegna fino allaseconda guerra mondiale, come si può vedere in unaffresco della chiesa della Madonna d’Itria di Orani(NU): l’ignoto pittore dell’angelo chitarrista sulla voltadel presbiterio, di formazione certamente popolare, havoluto rappresentare qui un oggetto che conoscevabene, offrendoci utili dettagli anche sulla tecnica esecu-tiva.Intorno alla metà del secolo scorso, come si è accennato,fecero il loro ingresso nell’Isola nuove chitarre, costruiteperlopiù da liutai siciliani, di dimensioni superiori rispet-to a quelle usate fino ad allora, e per questo chiamate“chitarre giganti”. La maggiore dimensione della cassa,e il diapason più lungo (per diapason si intende lun-ghezza delle corde, dal capotasto al ponticello) garanti-vano un maggior volume di suono a strumenti che dove-vano essere sentiti fino in fondo alla piazza e che, sulpalco, dovevano reggere il confronto con voci semprepiù “grandi”, in tutti i sensi.Il suo impiego è infatti fondamentale per le gare a chi-tarra, termine con cui ellitticamente si intende ‘gara dicanto, con l’accompagnamento della chitarra’, unaforma di spettacolo, come si vedrà, molto seguita intutta l’Isola, in cui, con o senza la fisarmonica, sostienele voci di due o più concorrenti sul palco. Ma può ancheaccompagnare il ballo, e certamente un tempo, prima ladiffusione dell’organetto, assolveva a questo compitocon maggior frequenza e in un’area più estesa di quellaodierna.La letteratura organologica sarda riporta anche unaserie di strumenti impropri, oggetti comuni che in parti-colari occasioni possono anche produrre effetti sonori.Esempio tipico e il fuettu, una lunga frusta per incitare

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i buoi che i carrettieri del Campidano facevano schiocca-re in aria per mostrare la propria maestria nell’utilizzodi questo fondamentale mezzo di lavoro. Altro strumen-to improprio è l’affuente, antico vassoio di ottone lavo-rato a sbalzo, usato dentro la chiesa per vari scopi (por-tare gli oli santi o i chiodi della deposizione, raccoglierele offerte ecc.), ma fuori, sul sagrato, mediante la per-cussione/sfregamento di una grossa chiave, poteva util-mente accompagnare i balli.Nelle corrainas, serenate burlesche organizzate per lenozze dei vedovi, analoghe ai ben noti charivari, oltrealla percussione di coperchi e mestoli si producevanoorribili suoni soffiando all’interno di un corno bovino(corru ’e boe) e di grosse conchiglie (del tipo charonianodifera) cui veniva asportata la parte apicale; questeultime, secondo qualche sparsa testimonianza, venivanousate anche per comunicare a distanza, mediante unapposito codice, tra gli stazzi della Gallura. Strumentotipicamente carnevalesco è invece sa serraggia, unicocordofono autoctono, realizzato con una treccia di crineo un filo di ottone teso su una canna e poggiante suuna “cassa di risonanza” realizzata con una vescica dimaiale essiccata e poi gonfiata come un palloncino. Siusa nel carnevale anche in trimpanu, tamburo mono-pelle a frizione, utilizzato un tempo dai malviventi, adetta di Giovanni Dore, per disarcionare i carabinieri acavallo.Un discorso a parte meritano i sonazzos, i tipici campa-nacci per gli ovini, realizzati non per fusione ma condella latta ritagliata e battuta su apposite forme; model-lati in forma globulare o tubolare, vengono poi placcati,mediante un rudimentale procedimento, con l’ottone.Il loro impiego, al collo di capre e pecore, non è propria-mente musicale, e pertanto tali oggetti non dovrebberocomparire in questa trattazione sugli strumenti dellamusica sarda. Invece, siccome la musica non può essereseparata dalla cultura, almeno tre motivazioni ci spingo-no ad inserirle: 1) fanno parte, indissolubilmente, delpaesaggio sonoro dell’Isola (impossibile pensare allenostre campagne senza il sottofondo dei campanacci:suoni squillanti d’estate, più sordi, per via del vello rin-foltito, l’inverno); 2) la cura con cui vengono realizzati esoprattutto accordati è degna di uno strumento musica-le (uno stock di campanacci deve essere intonato tuttosulla stessa nota per rendere il gregge riconoscibile alpastore, anche al buio e in lontananza, e per orientaregli stessi animali che, in questo modo, possono seguirsi avicenda); 3) nel Carnevale sono una componente essen-ziale di molte maschere, come i mamuthones, i boes, imerdules, i thurpos ecc.Anche le campane possono considerarsi in Sardegna deiveri e propri strumenti musicali. Erano utilizzate prima-riamente per avvertire i fedeli dello svolgimento di fun-zioni religiose, quindi per scandire, con appositi rintoc-chi, il tempo del lavoro e quello del riposo, per avvisaredi agonie e decessi, del pericolo di un incendio ecc.;veniva loro attribuito anche un forte potere apotropaico(per questo si suonavano durante i temporali e il 1/ 2novembre nel giorno e nella notte dei morti). Ma eradurante le feste, con s’arrepicu, un rintocco gaio e rit-mato, che campane e campanari esprimevano al megliole loro qualità musicali. Questi rintocchi, che si sta cer-cando di ripristinare, dopo la quasi totale automazionedelle campane, assumevano allora le movenze del ballo(e in molti paesi si usava ballare in piazza al loro ritmo):

una polifonia estremamente vivace, resa possibile dall’a-zione dei campanari direttamente sui battagli, grazie acorte funi, anche due per mano, all’occorrenza, o legatialla coscia.Nei giorni in cui la liturgia impone il silenzio delle cam-pane, dal Giovedì Santo alla veglia del sabato seguente,si utilizzano anche in Sardegna strumenti di legno per-cosso chiamati, con un termine di origine spagnola,matraccas, ma anche matraccas a roda, taulittas. Illoro impiego, come attestano già i liturgisti del IX seco-lo, serviva a stabilire una chiara opposizione, a livello dirito, tra vecchio e nuovo: il prima di Cristo (quindimorte, peccato, dolore ecc.) simboleggiato dagli stru-menti di legno che si usavano una volta, prima dell’av-vento delle campane; i rintocchi festosi di queste ultime,per annunciare invece la sua risurrezione e la vittoriasulla morte.Più nel ricordo degli anziani che nell’uso attuale, invece,tanti strumenti-giocattolo (anche se recenti esposizioni ericerche hanno contribuito, meritoriamente, a metterliin luce), oggetti fatti con materiali poveri e di recupero,in cui spesso il rumore e il suono costituiva un fattoresecondario del meccanismo ludico. Strumenti che perbrevità, e in conclusione, ci limiteremo ad elencare,quali il furrianughe, le arranas di canna e di legno, ilfrusciu, il muscone l’ischeliu, il mumusu, il flautu ’ecanna.

2. Il canto a chitarraCome si è accennato nel paragrafo precedente, la gara achitarra è un intrattenimento musicale tra i più amatidai Sardi, perfettamente integrato nel “sistema” dellafesta tradizionale. Non si tratta però, come la locuzionelascerebbe intendere, di una competizione tra strumen-tisti ma bensì di una ‘gara di canto accompagnato dallachitarra’, un vero e proprio concorso canoro, nato eregolamentato nel ’900, forse sulla falsariga delle preesi-stenti gare di poesia improvvisata.Un concorso aperto unicamente a professionisti e semi-professionisti che, però, deriva il suo nucleo costitutivoda repertori e stili vocali in uso nella Sardegna centro-settentrionale, da quelle boghes a ghiterra che si forma-vano, su modelli estremamente semplici, nelle bettole,nelle serenate notturne, nelle feste familiari o duranteparticolari attività lavorative. La componente musicaleera di certo rilevante ma ancora più importanti erano leparole dei poeti, più o meno noti, che la voce, accompa-gnata dallo strumento, veicolava e tramandava neltempo.La gara a chitarra nasce dunque dall’esigenza di spetta-colarizzare un canto “di tradizione” nei modi e nelleforme in cui veniva abitualmente eseguito dai cantado-res più capaci; ma progressivamente ha accolto e incor-porato al suo interno fortunate creazioni “individuali”:nuovi modelli melodici e armonici, elaborati e “lanciati”da grandi voci e grandi chitarristi. Questi nuovi reperto-ri, esibiti nelle piazze e, in seguito, affidati anche almercato discografico (dischi a 78 e 45 giri e, negli ultimidecenni del secolo, soprattutto musicassette) sonodiventati a loro volta d’uso comune nei bar, nelle botte-ghe artigiane, nelle cene tra amici, realizzando unmodello, per così dire, “monoplanare” di circolazioneculturale che non comprende i ben noti fenomeni diascesa/discesa dal popolare al colto e viceversa, ma rima-ne confinato in un unico piano o livello di cultura.

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Un fenomeno che, per esempio, non ha interessato irepertori di canto con accompagnamento di launeddas,chitarra o organetto, tipici della Sardegna meridionale,come la canzoni a curba, i muttettus ecc., che, esclusi dalcircuito della gara, raramente sono usciti dai bacinid’uso originari; al contrario, il Campidano ha sempreaccolto con favore canti e cantadores provenienti dalnord dell’Isola.Il canto a chitarra, grazie al meccanismo della gara, hainfatti anticipato di molti decenni quella che potremmodefinire una “globalizzazione” del folklore tipica dellaSardegna d’oggi. Nella Sardegna di un passato non cosìlontano, aree geograficamente contigue apparivanospesso distanti tra loro per cultura, tradizioni artigianali,lingua, repertori musicali ecc. Oggi, venuti meno i pre-supposti di questa insularità nell’insularità, si produceovunque il pane carasau, artigiani sulcitani fabbricanoottime pattadesi e un orafo di Nuoro mi diceva qualcheanno fa: «Mio padre riconosceva le varie forme e stilidell’oreficeria sarda, quello bosano, quello selarginoecc.; io non più: per me è artigianato sardo e basta».Analogamente, con sempre maggiore frequenza i grup-pi folk mettono in repertorio passi e musiche estraneialla tradizione del proprio paese, e ciò per rendere piùvaria la loro esibizione e, a richiesta del mercato turisti-co-culturale (interno e esterno), più rappresentativa del-l’intera Regione.La gara a chitarra, come si è detto, ha anticipato tuttociò: nata appositamente come spettacolo da portarenelle piazze di tutta l’Isola, nel corso della sua storia haincorporato il meglio dei repertori e delle forme vocalidi un’area vasta e “multiculturale” (riuscendo ad unifi-care anche due ambiti così differenti per lingua, usanze,economia, come la Gallura e il Logudoro), imponendo aiconcorrenti l’apprendimento di canzoni e stili estraneialla propria zona di appartenenza. Tutti loro devono,infatti, misurarsi con una dozzina di brani, quelli ritenutipiù rappresentativi dell’Isola, alcuni dei quali, come latempiesina, la piaghesa (di Plaghe) o la nuorese, già nelnome rivelano una presunta o reale denominazione d’o-rigine. Più che una gara, la nostra, sembra un concorsoper esami: vince quello che, facendo la media di tutte leprove, dimostra di possedere e interpretare meglio l’in-tero corpus del canto sardo a chitarra.Anche se le città, luoghi da sempre deputati agli scambie alle relazioni interculturali, hanno avuto un ruolo fon-damentale nella gestazione e nell’irradiazione dei brani“da competizione”, la gara è uno spettacolo tipicamen-te paesano, organizzato dal comitato della festa patro-nale e religiosa con i fondi raccolti nella questua cheprecedeva queste periodiche ricorrenze. Si svolgeva e sisvolge dunque nella “piazza della festa” su un palco,prima molto piccolo, ora, da quando deve accogliereanche i gruppi di ballo, sempre più esteso.Sul palco troviamo da due a quattro cantadores (ma ilnumero ideale è tre), accompagnati da un unico chitarri-sta; i concorrenti siederanno su altrettante sedie, alli-neate dietro il chitarrista, e si alzeranno a turno nelcorso della gara per esibire le proprie voci; quest’ultimo,invece, userà la sua per poggiarvi la gamba destra esostenere lo strumento. Da quando si è aggiunto il fisar-monicista, dai primi anni ’60, anch’esso in piedi e con lagamba destra poggiata su una sedia si dispone in lineacon il chitarrista, ma leggermente voltato per vedere lesue mani e prevederne i passaggi; il cantante di turno

starà, in questo caso, tra i due strumenti. Sul palco, seabbastanza capiente, siederà anche la giuria, compostada intenditori e da alcuni rappresentanti del comitato.La competizione, come si è accennato, prevede l’esecu-zione obbligatoria, da parte dei concorrenti, di 12 formedi canto: in alcuni casi si alterneranno per intonare versidifferenti di un medesimo brano, in altri potranno ese-guirne integralmente uno (o più) per ciascuno. Questeforme di canto o boghes si susseguono con un ordineinvariabile e sono idealmente suddivise in sette gruppiomogenei che costituiscono la vera ossatura della gara:si può aggiungere o ripetere qualche boghe nel corsodello spettacolo, ma non è possibile invertire né elimina-re nessuno di tali gruppi.Si inizia, dunque, con il canto in re, un posto d’onoreche gli compete in virtù dell’“antichità”e della sua estre-ma diffusione. Mentre, infatti, per l’origine delle altreboghes si può ipotizzare un dove e un quando, quella inre è attestata da tempo immemorabile in tutta laSardegna centro-settentrionale, tanto da poter essereconsiderata l’archetipo delle restanti forme di canto achitarra. Il canto in re, a sua volta e secondo Lortat-Jacob, avrebbe nel canto femminile il suo modello-madre; il che spiegherebbe, tra l’altro, il forte radica-mento e l’ampia diffusione della prima boghe, non soloin ordine di tempo, della gara.Va comunque precisato che per canto in re non si inten-de nell’Isola una canzone in cui testo e melodia sonoassociati una volta per tutte, ma piuttosto uno schemamelodico-armonico con il quale è possibile intonarequalsiasi distico di versi ottonari. Nella gara i cantadoreseseguono pertanto “nel tono” del canto in re, una o piùottave (strofe di otto versi) di una poesia nota a tutti,cantandone ciascuno due versi per volta. Lo stesso dis-corso va fatto la boghe a sa nuoresa, la seconda dellagara, con la quale, invece, è possibile cantare sempreottave, ma di endecasillabi. La Nuoresa, che contraria-mente a quanto la denominazione farebbe pensare pro-viene dal Logudoro, colpisce per la diversità con il cantoin re perché, come osserva Paolo Angeli in una recentemonografia sulla gara a chitarra: «Laddove questaforma ha le sue radici nelle cadenze e nei ritmi apparte-nenti alla cultura musicale autoctona (evidentissimonegli arpeggi della chitarra e nel percorso melodicodella voce) la Nuoresa, con il suo ritmo ternario e unamelodia più orecchiabile per gradi congiunti, rimandaalle forme popolaresche dei ‘balli civili’, in primis il val-zer e la mazurca».Seguono, nell’invariabile scaletta della gara, i Mutos,forma tipica della poesia sarda, composta, nel nostrocaso, da una terzina di settenari chiamata isterrida cuiseguono tre quartine, dette cambas, che formano la tor-rada. La prima camba comincia con il primo verso dell’i-sterrida, cui fanno seguito tre nuovi versi nei quali, soli-tamente, si manifesta il senso “amoroso” del componi-mento (l’isterrida, al contrario, propone contenuti neutrise non banali). La seconda camba inizia con il secondoverso de s’isterrida, per riprendere, quindi, i tre versi giàsentiti nella camba precedente cambiati, però, d’ordine.Analogamente si procede con la terza camba che iniziacon il terzo verso dell’isterrida. L’intreccio della versifica-zione corrisponde dunque ad un modello del tipo ABC(isterrida) + Abca Bcab Cabc (torrada), mentre da unpunto di vista musicale una medesima formula melodicasi usa per cantare l’isterrida e le prime due cambas della

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torrada e una seconda, di chiusura, per intonare la terzae ultima camba.La quarta manche, termine usato da Andrea Carpi(autore dell’altro fondamentale studio sull’argomento)per indicare ciascuno dei sette gruppi omogenei diboghes che si susseguono nella gara, è quella dei cantidi origine gallurese, come la Gallurese (o Tempiesina) ela Filugnana. A questi si aggiunge, a completamentodella manche, una ripresa del canto in re o un’Isolana (oPiaghesa antiga).La successiva comprende invece la Corsicana e ilTrallalleru. Il primo, l’unico di tutta la gara in modominore, sembra essere di origine bonifacina, portato sulpalco per la prima volta a Sorso nel 1946, secondo quan-to riporta Paolo Angeli che sulla forma generale delcanto aggiunge: «È evidentissima l’influenza esercitatadal Tango: se si analizza l’introduzione strumentale, essaè pressoché identica ad una parte della Cumparsita».Anche il Trallalleru è un canto di recente introduzione,una formula melodica piuttosto semplice originariadella Sardegna meridionale, intervallata da un versonon sense, Trallalleru appunto, che onomatopeicamen-te ricorda il suono della chitarra.Il sesto gruppo è invece quello dei canti classici: il Mi eLa (o canto alla Bosana), il Fa diesis, il si bemolle, tuttibrani che traggono la denominazione dalle note o dagliaccordi predominanti nella prima parte, o bessida (‘usci-ta’), mentre la calada, la seconda parte, come in tutta lamusica sarda con chitarra, ritorna nella consueta tonali-tà di re maggiore. «I classici – osserva ancra l’Angeli –sono il vero banco di prova della Gara e, anticamente, ilmomento più atteso e apprezzato dagli intenditori. […]Difficilmente tra il pubblico degli ascoltarori si potevatrovare un cantore capace di cimentarsi con questeforme».L’ultimo brano, che conclude la gara, forse il più difficilee virtuosistico di tutti, è la Disisperada (in gallureseDisispirata), un canto d’amore in ottave di endecasilabidenso di melismi e ornamentazioni, la cui etimologia varicercata nello spagnolo despertar, ‘svegliare’ e quindicanto da serenata.

3. I repertori strumentali di danzaCome la maggior parte degli strumenti tradizionali,anche quelli sardi trovano nel ballo il più consistente evitale ambito d’uso, esprimendo nell’Isola un considere-vole e multiforme repertorio solistico, per voce accom-pagnata o per piccoli ensembles strumentali. Bisognatuttavia premettere che tale repertorio, benché destina-to primariamente alla danza, non serve unicamente acoordinare i passi dei ballerini ma si configura, conte-stualmente, come musica “da ascoltare” e d’intratteni-mento. Ciò spiega l’estrema complessità strutturale eperformativa dei balli per launeddas, ma anche di quellieseguiti con l’organetto o con la fisarmonica; ma soprat-tutto contraddice l’opinione di quanti ancora considera-no la musica popolare un prodotto “funzionale”, finaliz-zato, cioè, ad un impiego concreto e circoscritto; al con-trario di quella colta che aspira al bello ideale, kantiana-mente senza scopo.Il ballo si presenta, quindi, come un sistema complessodi comportamenti e di rappresentazioni in uno spaziooccupato da danzatori e suonatori, ma anche da spetta-tori/ascoltatori che esercitavano ed esercitano il propriodiritto di critica sulla base di estetiche e parametri di

giudizio, certamente diversi, ma non meno articolati epuntuali rispetto a quelli utilizzati da un ascoltatore“esperto” di musica classica. Parimenti, la sempre piùdiffusa fruizione “decontestualizzata” dei repertori permezzo delle audiocassette o dei CD va considerata comel’estensione di una condotta d’ascolto connaturale all’e-vento coreutico. Una condotta che la musica di tradizio-ne orale condivide, ancora una volta, con quella colta ocon la popular music e che porta all’esecuzione dei val-zer della famiglia Strauss in una sala da concerto o alladiffusione radiofonica di disco music.Da questa premessa emerge comunque la complessitàdell’evento coreutico/musicale che si presta ad essereosservato e analizzato da diverse prospettive: sociali,semiotiche, simboliche e rituali, con riferimento allaprossemica e alla postura e soprattutto ai passi e allecoreografie. Noi ci limiteremo a metterne in evidenzatratti specificamente musicali, come dire “la punta dell’i-ceberg”.Non si può tuttavia fare a meno di ribadire la centralitàe l’importanza del ballo nella società tradizionale, nonsolo come interruzione festiva delle attività lavorative,ma anche come momento d’incontro tra ragazzi eragazze, sotto l’occhio vigile della comunità, finalizzatoalla costituzione di nuclei familiari. Quale occasionemigliore del ballo, infatti per valutare la prestanza fisicadel marito-lavoratore o la sana e robusta costituzionedella moglie/generatrice e allevatrice di prole? Qualeoccasione migliore, altresì, per cogliere fugacemente ilgarbo, l’intelligenza o la morigeratezza di un probabilepartner? La danza aveva insomma una funzione impor-tantissima nelle dinamiche matrimoniali e non a caso inmolti centri dell’Isola erano le associazioni di celibi aretribuire i suonatori del ballo domenicale. I tempi sonocambiati e le dinamiche socio-culturali pure, tuttavia imoderni gruppi folkloristici che nei paesi perpetuano ilballo tradizionale, offrono ancora importanti occasionid’incontro e di relazione, anche affettiva, tra i giovani.Nel cambiamento delle dinamiche sociali e culturali, laspettacolarizzazione del ballo rappresenta uno dei feno-meni di maggiore evidenza: anzitutto l’erezione di unpalco (più o meno dalla seconda metà del secolo scorso)ha diviso in due lo spazio coreutico, uno per ballare el’altro per osservare, uno per gli attori-ballerini e l’altroper gli attori-spettatori (e, ovviamente, ascoltatori) del-l’evento. Questa spettacolarizzazione ha prodotto altresìimportanti mutamenti nelle coreografie, rispondendo aesigenze, sempre più pressanti, di originalità e innova-zione, ma anche nei tempi di esecuzione: mentre primaun ballo accompagnato dalle launeddas o dall’organet-to durava anche tre quarti d’ora, oggi tutto si deve con-cludere, con tempi assolutamente “televisivi”, nell’arcodi cinque-sei minuti. Ovviamente anche le musiche sisono dovute adattare a questa contrazione dei tempi,perdendo quella lineare e pacata discorsività che carat-terizzava le antiche picchiadas. Molti centri dell’Isolamantengono, comunque, anche la pratica del ballocomunitario in piazza, benché limitata alle feste patro-nali o al carnevale. Anche qui, analogamente a quantoosservato per il canto a chitarra, si evidenziano fenome-ni di imitazione, da parte della piazza, di coreografieviste sul palco, attivando processi di “circolazione” inter-na che varrebbe la pena indagare.Interessanti osservazioni sulle recenti dinamiche delballo nel sistema-festa le offre un saggio relativamente

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recente di Franciscu Sedda che interpreta il fenomeno inchiave semiotica, mentre per quanto riguarda le fontiantiche del ballo sardo va ricordata l’esaustiva e utilecompilazione dei Gerolama Carta Mantiglia e AntonioTavera pubblicata negli atti del convegno di etnocoreu-tica svoltosi a Sorgono nel 1997 (in precedenza Attiliodella Maria aveva fornito una rassegna delle fontiOttocentesche). Una completa “mappatura” dei contestitradizionali d’uso del ballo, delle denominazioni e degliusi locali legati alla danza, il tutto aggiornato agli anniSessanta-Settanta con particolare riferimento al tempodi carnevale ma non solo, si trova un una corposa mono-grafia di Luisa Orrù che contiene anche un’appendicesul ballo nella media valle del Tirso curata MarcelloMarras, autore di diversi altri saggi sul ballo e sulle suedinamiche. Breve ma, come sempre, particolarmenteincisivo, un saggio di Bernard Lortat-Jacob sulle dinami-che (anche spaziali) del ballo e della festa, tradotto inItaliano in Musiche in Festa. Per quanto riguarda l’aspet-to più strettamente cinesico, posturale e coreograficodel ballo sardo, un tentativo di classificazione dellediverse danze sarde è stato compiuto da GiuseppeMichele Gala in Forme e contesti del Ballo Sardo, secon-do volume del già citato convegno di Sorgono.Tuttavia la classificazione più convincente delle musicheda ballo dell’Isola rimane quella proposta da BernardLortat-Jacob e da Francesco Giannattasio nel bookletallegato ad un disco sull’organetto in Sardegna.Come rilevato dai due etnomusicologi, quasi tutti i ballisardi si basano su un modulo metrico di sei pulsazioni,corrispondenti ad altrettanti passi oppure a movimentisussultori; si individuano così due grandi famiglie di balli(e quindi di repertori) che da un punto di vista stretta-mente musicale si distinguono per le modalità di suddi-visione di queste pulsazioni.Alla prima famiglia apparterrebbero i balli denominatiballu, ballu tundu, ballu sartiu, ballittu, dillu; alla secon-da famiglia quelli come sa danza o su passu torrau. Iballi della prima famiglia sono dunque caratterizzatidalla suddivisione binaria o ternaria delle sei pulsazioniche compongono il modulo coreutico-musicale di base:ciascuna di queste pulsazioni, in buona sostanza, puòessere divisa ulteriormente in gruppi di due oppure ditre note (terzine). Tra i balli di questa famiglia su ballit-tu rivela una forte analogia strutturale con il ballu, ma ècaratterizzato da una esecuzione più veloce, mentre sudillu, che si sviluppa sua quattro pulsazioni, deriva dallacaduta delle prime due pulsazioni del modulo origina-rio.La suddivisione in terzine non è invece consentita, dinorma, nei balli della seconda famiglia che presentanosempre una suddivisione binaria (o quaternaria) di cia-scuna delle sei pulsazioni-base. Coreograficamente, que-sto dato musicale si traduce nella tendenza a segnarecon il passo o con i movimenti del corpo tutte le suddivi-sioni del modulo senario (12 in tutto).C’è da dire però che nell’isola non sempre il terminepassu torrau fa riferimento a balli della seconda fami-glia, e viceversa balli del secondo tipo vengono generi-camente denominati ballu. Una incertezza terminologi-ca che, in ogni caso, non compromette la validità dellatassonomia proposta. Talvolta, anche se in casi limitati, sipuò altresì osservare l’adozione di un modulo-base disette pulsazioni in luogo dell’ordinario in sei tempi maanche lo sviluppo di balli “composti” che presentano in

successione sezioni del tipo ballu (prima famiglia) esezioni del tipo passu torrau (seconda famiglia).Salvatorangelo Pisanu, prendendo spunto dalle analisidei balli a launeddas proposte dal Weiss Bentzon nellagià citata monografia sullo strumento, ipotizza infine lacostituzione di una terza famiglia, quella del ballo cam-pidanese, caratterizzato dalla suddivisione sempre ter-naria del modulo-base di sei pulsazioni (i balli dellaprima famiglia, lo ricordiamo, alternano in varia succes-sione suddivisioni binarie e ternarie).

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I l c o l t e l l o as e r r a m a n i c on e l l a t r a d i z i o n e

s a r d a

Maria Marrosu

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1. Gli uomini da millenni utilizzano strumenti realizzaticon il lavoro per assicurare le migliori condizioni alla pro-pria esistenza. Progettazione e realizzazione di oggetti,com’è noto, sono capacità e attività che distinguono qua-litativamente l’uomo dagli animali. Infatti, anche seuomini e animali vivono nella natura e ne costituisconouna parte importante, è esclusivo dell’uomo e del suomodo di svilupparsi elaborare e trasformare la natura e imateriali che questa offre. In tal modo, la stessa naturadiventa uno degli aspetti della vita sociale degli uomini,un elemento della cultura (Angioni , 1986, pp. 26-30).Nella grande varietà di strumenti impiegati nel lavoro,quelli usati per tagliare hanno funzioni differenziate especifiche in base alla destinazione d’uso. Tra questi, ilcoltello è un utensile che ha efficacia in casi notevolmen-te diversificati tra loro.

2. Il coltello, com’è noto, compare già in età litica: si attri-buisce questo nome ad alcune lame di selce scheg-giate in modo da creare un bordo taglianteda uno o da entrambi i lati. La formaallungata delle selci si presta-va ad essere usatacome coltelloper

rasch iare ,scarnificare, spez-

zettare. Ciò si rese neces-sario quando l’uomo iniziò a

trattare le pelli degli animali e a servir-sene per proteggersi dal freddo e dall’umidità

(Lucie - Smith , 1981, pp. 32-33).Nell’età del bronzo il coltello assume la forma caratteri-stica che lo distingue da spade e pugnali per la lama cortae tagliente su uno solo dei lati. Questo lato, inoltre, nonè rettilineo, ma presenta una curvatura più o menoaccentuata. Già in questo periodo, il manico non eraquasi mai della stessa materia della lama, in modo da farecorpo unico con essa, ma era fatto d’osso o, presumibil-mente, anche di legno (Lo Schiavo, 1981, p. 271).Presso greci e romani il coltello comune era di bronzo odi ferro, con manico di metallo o d’osso, spesso ornato didecorazioni in materiali preziosi. In alcuni modelli la lamapiccola e leggermente ricurva del coltello poteva essereripiegata entro il manico. Dai testi e dalle rappresenta-zioni figurate si evince l’esistenza di coltelli destinati adusi particolari: per la tavola, per il taglio delle unghie oper il sacrificio agli dei. In questo caso, la lama era piattae molto più larga.Nei secoli successivi, sino all’età moderna, la forma delcoltello è stata adattata ad esigenze estetiche e a funzio-ni pratiche diverse. Insieme ai coltelli da tavola con lalama variamente foggiata (per il taglio del pane, dellacarne, ecc.) compaiono coltelli da caccia con la puntaricurva e altri più piccoli, finemente intarsiati, da portareracchiusi in custodie di cuoio alla cintura. Specialmente

nel lungo periodo dal XV al XVII secolo, l’attenzione sem-bra rivolta oltre che alla variazione della forma, alla deco-razione del manico arricchito d’intagli, trafori, smalti,oppure adornato con stemmi e insegne gentilizie(Creswell , 1978, pp. 814-828).

3. E’ probabile che in Sardegna il contatto con altre cul-ture abbia influenzato, di volta in volta, il gusto per col-telli particolarmente preziosi, ma che, se esistiti, si puòritenere fossero riservati ad élites sociali.Per quanto riguarda il coltello comune da tasca, a serra-manico, diffuso nell’Isola, la sua funzionalità primarianon sembra aver mai ceduto decisamente il campo ad esi-genze artistiche. Questo utensile si distingue da altri simi-li, costruiti in regioni diverse, soprattutto per la forma

della lama, definita “a foglia”, e per ilmateriale utilizzato per il manico, rica-vato da corna di capra, di montone eormai più raramente di muflone.Pressoché in tutte le aree linguisti-che della Sardegna, i coltelli a ser-ramanico sono chiamati leppa oresordza, oppure con nomi riferi-ti al luogo di produzione, comead esempio pattadesa, lussur-gesa, guspinesa, arburesa,realizzati, rispettivamente, aPattada, Santu Lussurgiu,

Guspini e Arbus.La forma particolare del coltello sardo

e soprattutto la struttura, caratterizzata daun anello solitamente decorato che ricopre e fissa il

punto d’innesto della lama al manico, si spiegano sia conil molteplice uso a cui è destinato il coltello sia con sceltespecifiche alle quali è difficile attribuire un valore funzio-nale. Del resto, le forme di uno stesso utensile varianonon solo da una regione all’altra ma anche nell’ambitodella stessa regione, con differenze talvolta sottili basatesu criteri diversi da quelli tecnici, ma che traducono sia igusti individuali di ciascun artigiano, sia quelli della col-lettività.Sino a non molti anni fa, nelle botteghe dei fabbri oltreagli attrezzi da taglio impiegati nel lavoro dei campi, siproduceva una coltelleria spesso grossolana, ma ugual-mente destinata a soddisfare specifiche richiese di merca-to delle comunità sarde, a prevalente economia agro-pastorale. Si trattava in ogni modo di una produzionespecializzata in quanto richiedeva al fabbro un comples-so di nozioni, di abilità, di competenze tecniche, nonchédi tempo-lavoro diversi rispetto a quelli necessari per lacostruzione di altri arnesi. Perciò, il fabbro che costruivaaratri, vomeri e scuri difficilmente riusciva ad applicarsinella lavorazione di un coltello a serramanico.Il formarsi di una certa specializzazione nell’arte dellalavorazione del ferro si delineò, anche in Sardegna, già apartire dal Medioevo. La costruzione di fornaci più gran-di e soprattutto l’introduzione della forza meccanica,sotto forma di ruote ad acqua, comportò un aumentoconsiderevole nella produzione del ferro, che generò, intutta l’Europa, la specializzazione del mestiere del fabbroe la formazione di importanti associazioni o corporazionidi fabbri (Coghalan, 1965, pp. 231-233).Gli Statuti delle corporazioni - gremi - dei fabbri, redattinelle principali città dell’Isola dal 1381 al 1760, costitui-scono un chiaro indizio di una fervida attività artigianale

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e di un’organizzazione del lavoro abbastanza complessa.Allo stato attuale degli studi, appare abbastanza com-plesso stabilire la data di istituzione delle corporazionidei fabbri, che, verosimilmente, costituiscono il punto dipartenza della tradizione della lavorazione del ferro ingenerale e dell’arte del coltellinaio (Pallone, 1932, pp. 20-22).Il riferimento più antico è rappresentato dagliHordinamentos et capitulos di Ugone IV di Arborea del1381, che attestano l’appartenenza dei fabbri ad una cor-porazione (Tola, 1850, pp. 232-235). Allo stesso tempo,attraverso la lettura degli statuti, redatti nelle principalicittà sarde dal 1381 al 1760, si può ipotizzare l’esistenzadi una produzione variamente articolata. In generale, glistatuti stabilivano norme severe riguardo al controllo deiprezzi e alla qualità dei manufatti, che dovevano esserecontrassegnati con una punzonatura (senyal). In talmodo, veniva fissato un principio esclusivista nell’eserci-zio della professione, che ha senz’altro contribuito a tra-mandare, invariati nel tempo, moduli stilistici e processilavorativi.Già dal Seicento, i fabbri erano tenuti a sostenere unapposito esame di abilitazione all’esercizio della profes-sione, come si desume dallo statuto del gremio dei fabbridi Cagliari del 1643 (Di Tucci, 1926, pp.82-141). Questostatuto è più completo e preciso rispetto agli altri coevi esuccessivi delle città di Sassari, Oristano, Iglesias edAlghero. La serie dei capitoli, infatti, è preceduta da unampio prologo in cui si afferma che si tratta di un ordi-namento riformato, voluto dagli stessi fabbri, per regola-mentare e favorire tutta l’attività della Maestransa de losferrers y demes officiers a ella agregats. Nei capitoli dal IIal XIII si contano ben dodici esami diversi per altrettantiartigiani specializzati nella lavorazione del ferro o deimetalli in genere. In altri capitoli (XLIV - LXVI) sono stabi-lite disposizioni specifiche per il maestro de ferrar carruse per i maestri espaser, guarnisioner, pavonador. Questiesami consistevano nella realizzazione pratica di manu-fatti e interessavano sia i maniscalchi e gli artigiani cheproducevano grandi attrezzi (menescalc, ferrer de obragrossa, ferradors, magnà, ecc.), sia i fabbri con una pre-parazione specifica in lavori complessi e raffinati come irelogers e i ganiveters, vale a dire orologiai e coltellinai.Per poter aprire bottega in proprio, dopo un lungo perio-do di apprendistato presso un maestro, il coltellinaio delXVII secolo doveva dimostrare, davanti ad un’appositacommissione presieduta dai membri del direttivo del gre-mio (i maggiorali), di saper costruire coltelli e strumentida taglio. Il capitolo XI dello statuto di Cagliari, infatti,disponeva queste prove: <<Lo ganiveter a de fer las pes-sas seguents: primerament una pessa romana de llargariade un pam y de amplaria de tre dits, unas tisoras de escri-vania, una manora de sabater, unas tisoras de sastre, unarasoja ab sa maniga ab una anella que gira en rodò, unaagulla de taconar>> (Di Tucci, 1926, p. 87).Il coltello (rasoja) con il manico e un anello che lo circon-da potrebbe essere un utensile utilizzato da altri artigia-ni e l’anello, forse, serviva per maneggiarlo o per tenerloappeso alla parete. Nello stesso tempo, la descrizione, perquanto essenziale, sembra rinviare ad un rasoio da barba,che è uno dei primi strumenti da taglio ad avere struttu-ra pieghevole, e dunque all’archetipo del coltello a serra-manico munito di ghiera che avvolge il manico - que giraen rodò - per fissarlo alla lama, secondo una tecnica inuso ancora oggi.

L’ipotesi non appare del tutto azzardata se si tiene contodel fatto che la storia degli utensili si configura non solocome processo evolutivo, ma anche come tipologia fon-data su fattori pratici e funzionali, caratterizzata dallacontinua ricerca dell’efficienza degli stessi utensili in fun-zione dell’uso cui sono preposti. L’esigenza di avere unostrumento polivalente e facilmente trasportabile in unasocietà dedita quasi esclusivamente all’agricoltura e allapastorizia, come la Sardegna del Seicento, e l’elevatogrado di perizia tecnica che sembrerebbe raggiunto daifabbri del tempo, potrebbero aver contribuito a determi-nare la forma e la struttura del coltello a serramanico. Perquanto attiene, poi, le diverse tipologie di coltello pre-senti in Sardegna, Giancarlo Baronti, in un lavoro sui col-telli italiani, afferma che <<non vi sono soverchi dubbi suquali dovessero essere i coltelli a serramanico più usual-mente fabbricati ed utilizzati nell’isola per larga parte delsecolo scorso: erano certamente quelli che ancora oggi inSardegna vengono definiti “a foggia antica” per distin-guerli dalla più recente “pattadese” …e tutti i coltelli di“foggia antica” presentano un anello metallico e non unribattino per sorreggere la lama>> (Baronti, 1986, p. 205)Sembra molto probabile che accanto o al posto del col-tello a serramanico fosse largamente utilizzato un coltel-lo a lama fissa, denominato in idioma logudorese sa cor-rina, che significa “il corno”. In questo caso, “il corno”, dimontone o di capra, fungeva da manico per una lama lacui forma era abbastanza simile a quella della resordza.La punta della lama era semplicemente protetta con unpezzo di sughero (Amadu, 1984, pp. 10-12).Appare abbastanza assodato, tuttavia, che in Sardegnaesisteva una produzione alquanto raffinata di coltelli.Benché la deteriorabilità delle materie usate per lacostruzione ne abbia impedito la conservazione neltempo, alcuni esemplari custoditi nella PinacotecaNazionale di Cagliari e nel Museo Sanna di Sassari, risa-lenti alla metà del XIX secolo, denotano perizia e abilitàunite a ricercatezza delle forme.

4. Per la costruzione del coltello a serramanico, come si èaccennato, occorre un procedimento tecnico ben deter-minato che prevede, essenzialmente, tre fasi: la forgiatu-ra della lama, ottenuta da barre o lastre d’acciaio; la pre-parazione del manico, che funge da guaina o custodiaper la lama; infine, l’applicazione del manico. La lama èforgiata a caldo con colpi veloci e molto precisi tra l’incu-dine e il martello, per ottenere la forma. Si dà poi l’avvioal trattamento termico, con temperature tra gli 800 e 900gradi, che costituisce una delle fasi più importanti e deli-cate da cui dipende la buona riuscita della lama.Successivamente, questa viene rifinita, ancora temprata,mentre l’affilatura, cioè la rettifica del filo tagliente, èeseguita quando il coltello è ultimato.Per modellare il manico, il coltellinaio deve prestare note-vole attenzione al fuoco in modo da ammorbidire le por-zioni ritagliate dal corno e poterle quindi raddrizzare conla morsa. In Sardegna si usava anche far bollire il cornoper renderlo duttile senza rischiare di bruciarlo. L’uso dicorno di montone o di muflone richiede minori precau-zioni nell’esposizione al calore in quanto contenendo unamaggiore quantità di grasso, si ammorbidisce a tempera-ture più basse.I manici dei coltelli a serramanico, con o senza molla,sono fondamentalmente di due tipi: formati da un unicopezzo di corno modellato e inciso al centro per contene-

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re la lama e la molla; oppure, composti di due placche. Imanici monoblocco rappresentano la forma più economi-ca, sul piano del tempo del lavoro e del costo del mate-riale, ma anche la forma più tradizionale. Risultano, inol-tre, quelli per i quali si riesce meglio ad evidenziare lacompetenza dei coltellinai nelle diverse fasi di lavorazio-ne, poiché sono difficilmente riproducibili senza l’inter-vento manuale dell’artigiano.La costruzione del manico con un unico pezzo di corno èun metodo largamente adottato per i coltelli del tipoarburese, con lama panciuta e adatto per scuoiare, eguspinese, conosciuto come il coltello del minatore ecaratterizzato dalla tradizionale punta mozzata.Nella fase finale, il tutto è poi bloccato dall’anello in otto-ne, talvolta decorato con incisioni, e da un chiodo ribat-tuto che permette al coltello di richiudersi su se stesso.Diversamente, il manico in due pezzi di corno, o altromateriale, è sovrapposto a due piastre metalliche, cheincludono alloro internouna molla.Per la costru-zione del col-tello tipo “pat-tada”, che halama affusola-ta, “a foglia dimirto”, senzaunghiatura neldorso, è stataperfezionata,invece, unapeculiare ei n n o v a t i v asoluzione tec-nica costituitadall’ introdu-zione di unabarra metalli-ca, detta“arco”, nellastruttura delm a n i c o .Questo è divi-so in due pezzida uniremediante giu-stapposizione.L’arco in ferro,a differenza diuna molla, èfissato con unaserie di ribatti-ni passanti(ribadinos) almanico, ren-dendolo, così,particolarmen-te forte e inde-f o r m a b i l esenza peròaumentarne ilpeso, comeavviene con lep i a s t r e .

L’estremità superiore dell’arco prosegue sotto l’anellod’ottone offrendo un appoggio per la lama, in posizionedi apertura, più stabile rispetto ad altri sistemi.Attraverso l’arco, inoltre, si mantiene costante l’assettodel solco interno dove, a coltello chiuso, alloggia la lama.Per evitare che questa entri in contatto col ferro, pregiu-dicandone l’affilatura, il tallone del manico è sagomatoin modo da sporgere un po’ in avanti (Carboni, Pizzadili,1984).Questi elementi fanno della pattadesa un modello pres-soché unico nel panorama nazionale, perché unisce lamaggiore resistenza possibile con la massima funzionali-tà. Tra l’altro, è considerato <<uno dei coltelli italiani piùbelli in assoluto, la “resolza pattadese”, veramente splen-dida per la crudele naturalità e l’esemplare purezza dellesue semplici linee, per l’accurata armonia delle materieche la compongono e per quel sapore di arcaico nelladecorazione delle guarnizioni e nel risalto dei ribattini

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I coltelli di Pattada

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sulla levigata superficie del corno, rimembranti le antichedecorazioni ad occhi di dado, che ne ingentilisce ma con-temporaneamente ne accresce la barbara, inquietante eschiettamente esplicita funzionalità>> (Baronti, 1986,p.207).

5. L’origine remota che la tradizione sarda attribuisce alcoltello a serramanico, sembra giustificarsi con l’originestessa del coltello tout court. La pattadesa o la guspinesa,per citare soltanto alcuni dei coltelli più noti costruiti inSardegna, così come li conosciamo oggi, verosimilmentecompaiono nella seconda metà dell’Ottocento ad operadi fabbri che hanno saputo concretizzare inventiva, com-petenza, esperienza. Quest’ultima è, nello stesso tempo,collettiva e individuale, tramandata e codificata, ma non-dimeno amplia le possibilità dei singoli di introdurresistemi e criteri nuovi nella creazione degli utensili.La comparsa di questo strumento nella realtà isolana inun periodo in cui si intensificarono gli scambi commercia-li con i paesi europei (in particolare la Spagna e la Francia,mercati privilegiati per l’esportazione del bestiame), sem-bra confermata dalla mancanza di notizie relative allalavorazione del coltello nei resoconti dei numerosi viag-giatori, che già dalla prima metà dell’Ottocento visitaro-no la Sardegna. E’ pur vero che alcuni tra loro, motivatida interessi antiquari, alla ricerca di un’umanità ancoraincontaminata e selvaggia, non prestarono attenzionealle espressioni del vivere quotidiano e alle evidenzedella cultura materiale. Altri, lontani da una mitizzazionedell’esotico, offrono importanti spunti per la documenta-zione etnografica. Tuttavia, l’attività dei coltellinai, seb-bene diffusa, e la presenza di coltelli che potessero distin-guersi per funzionalità o perfezione di forme, è del tuttoignorata.Soltanto nel dizionario del Casalis, curato per le voci sullaSardegna da Vittorio Angius, compare una descrizioneattenta del lavoro dei fabbri ferrai a Sassari. Egli precisache i fabbri erano numerosi e distinti in artigiani di “artegrossa” e “arte fina”. I primi si dedicavano maggiormen-te a lavori di mascalcia e alla costruzione di grossi ferra-menti, mentre gli altri, <<fanno opere gentili. Dalle loroofficine escono lavori di molta difficoltà che meritan lodeper la eleganza e precisione>>. Inoltre, sempre l’Angius,commenta che l’attività dei fabbri, principalmente nellalavorazione del ferro battuto, si avvaleva del contributodi numerosi artigiani stranieri stabilitisi da tempo nellacittà (Angius, 1833-1856, pp. 138-139).Per quanto riguarda, invece, il centro di Pattada, doveattualmente la tradizione è più fiorente, l’Angius accen-na appena alla presenza di fabbri e pone in particolarerilievo la scarsa professionalità degli artigiani in genere.Un’ulteriore conferma alla supposizione che specialmen-te l’attuale pattadesa non sia stata realizzata prima dellaseconda metà dell’Ottocento, sembra provenire dalmutamento di significato, in un lungo arco di tempo, deitermini leppa e resordza, che in sardo designano, appun-to, questo strumento. Nel Vocabolario sardo-italiano eitaliano-sardo, curato dal canonico Giovanni Spano nel1851, il lemma resordza è tradotto genericamente con“rasojo” e non è indicata alcuna definizione che possa farpensare a un coltello con la lama ripiegabile. Nel fornireil significato della voce leppa, lo Spano è più preciso escrive che si tratta di <<un rasoio o coltello che non chiu-de e che serve per scorticare>> (Spano, 1851).E’ possibile che nel periodo in cui lo Spano compilò il suo

Vocabolario i due termini non fossero pressoché sinonimie che indicassero, effettivamente, due strumenti distinti.In entrambi i casi, tuttavia, le definizioni sembrano esclu-dere la presenza del coltello a serramanico inteso comestrumento dalla forma specifica, comune e largamenteutilizzato. Con quest’ultima accezione, invece, i due ter-mini leppa e resordza compaiono nel DizionarioEtimologico Sardo, pubblicato da Max Leopold Wagnerun secolo dopo, quando già, com’è noto, il coltello a ser-ramanico era uno degli utensili più diffusi (Wagner,1960)Il lungo periodo che separa le due pubblicazioni aggiun-ge più interrogativi che soluzioni al problema della data-zione del coltello sardo. La lingua, talvolta, si adegua consorprendente lentezza alle innovazioni e, ancora piùspesso, il significato di un termine ha due o più signifi-canti in differenti contesti semantici. La ricostruzione del-l’origine di questo manufatto, o delle possibili variazionidella forma, a lungo termine non ha quasi mai valore dicertezza assoluta.

6. Qualunque sia il momento o il luogo d’origine del col-tello, è innegabile il valore pratico e simbolico che essoha, da molto tempo, nel contesto culturale sardo. Comeogni altro strumento costruito dall’uomo, anche il coltel-lo a serramanico, in realtà, non può essere considerato unoggetto a sé stante, estraneo o separato dai gesti del-l’uomo che lo produce o che lo fa funzionare. Utilizzatoin campagna dal pastore nei diversi momenti lavorativi,costituisce il più comune attrezzo da taglio; è maneggia-to con destrezza nella marchiatura delle pecore, eseguitaoltre che a fuoco, con un taglio del bordo dell’orecchio;nella macellazione e nella scuoiatura degli animali e, per-sino, in piccoli interventi di chirurgia veterinaria quandoè necessario praticare incisioni per salassare le pecore oper castrare i maiali destinati alla macellazione. Semprein campagna, il contadino se ne serve nelle colture spe-cializzate sia al momento del raccolto e sia in altre attivi-tà specifiche quali l’innesto, la potatura e la lavorazionedel sughero. Per entrambi, pastori e contadini, ha rap-presentato a lungo uno strumento insostituibile per inta-gliare il legno, incidendo con leggerezza o scavando inprofondità graffiti o figure zoomorfe.Appare importante, inoltre, rilevare il valore simbolicodel coltello a serramanico, che diventa evidente in rap-porto al suo possibile impiego quale arma impropria omeglio quale strumento atto ad offendere, così comeviene classificato nella legislazione vigente in materia diarmi (Legge n. 110/1975, art. 4). Per esempio, la memo-rialistica sulla Brigata “Sassari”, la formazione militarereclutata su base regionale, che ha combattuto durante iquattro anni della prima guerra mondiale, è ricca dianeddoti sull’abitudine da parte dei soldati sardi di ser-virsi della guspinese, in combattimento e all’insaputa deicomandanti, come di un’arma bianca migliore della baio-netta (Fois, 1981, p. 83). Tuttavia, Emilio Lussu, in un epi-sodio del suo Un anno sull’Altipiano, pur rilevando chetutti i soldati del battaglione, circa duecento, avevanocon sé un coltello a serramanico, ne mette in evidenzal’uso quotidiano: per tagliare il pane, la carne, il formag-gio, le arance. Del resto, secondo Lussu, sarebbe statoben difficile combattere con un coltello, corpo a corpocon gli austriaci, nonostante l’esplicita richiesta in talsenso avanzata dal generale (Lussu, 2000, pp. 145-146 ).In altre situazioni, invece, il coltello a serramanico, pro-prio perché tradizionalmente tenuto in tasca, può essere

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impiegato come arma molto efficiente negli scontri tragli uomini, che si risolvono in risse cruente e sfociano inefferati omicidi. Del pari, nell’attività venatoria, durantela caccia grossa al cinghiale, ha una funzione ben precisa,del tutto assimilabile a quella di un’arma bianca, e rara-mente un cacciatore sardo si separa dal suo coltello custo-dito con la stessa cura riservata al fucile.Del coltello costruito in Sardegna si loda, innanzi tutto, lacapacità a compiere esattamente lo scopo ed il fine per ilquale è costruito, tenendo presente la sua utilità e la suaadeguata struttura. Soltanto in una seconda fase il giudi-zio investe anche il valore estetico del manufatto, la cuiforma strutturale quanto più efficacemente tende al suofine funzionale, tanto più si traduce in valori espressivi. Indefinitiva, un buon artigiano, un fabbro esperto unisco-no negli oggetti creati l’utile e il bello, ciò che è pratico eciò che può essere gratificante sul piano psicologico.L’abilità e la perizia dei fabbri ferrai sono evidenziate daAmerigo Imeroni in uno studio del 1928 sulle piccoleindustrie operanti all’epoca in Sardegna. Nel fornireun’interessante descrizione delle diverse fogge del coltel-lo, egli mette però l’accento sulla fase di relativa deca-denza dell’attività artigianale in questo settore. Osserva,infatti, che <<fino a quando le cianfrusaglie da bazar noninvasero l’isola, questa non adoperava che coltellerielocali, rustiche ma solide e sicure, dando luogo a insupe-rabile abilità nel foggiare i caratteristici coltellacci a spa-tola col manico di corno, ciliegio, ginepro ed i riporti inottone o rame decorato e festonato, lama sottile e tem-prata a foglia larga, la classica leppa, leppuzzu, lepped-du, piatta, piegovole, comoda e pratica>> (Imeroni, 1928,pp. 47-48).Più oltre, precisa che in anni precedenti la gamma di col-telli prodotta da artigiani locali aveva raggiunto una taleimportanza da essere l’unica presente nei banchi deicommercianti ambulanti, nelle fiere e nelle sagre campe-stri.La coltelleria che nei primi anni venti del Novecentoaveva soppiantato quella locale, molto probabilmenteproveniva da Scarperia, un centro toscano che in queglianni stava egemonizzando la produzione di coltelli perl’Italia centrale e meridionale. Qui, già dalla secondametà dell’Ottocento, alcune ditte avevano nei loro cata-loghi “coltelli alla sarda”, mentre in altri cataloghi suc-cessivi compaiono coltelli “tipo Pattada”. Lo stesso mar-chio “Pattada” veniva impresso sulla lama. Ciò ha sicura-mente contribuito alla notorietà della pattadesa; nellostesso tempo, il contrassegno rendeva immediatamentedistinguibile, insieme con altri particolari tecnici, la pro-duzione toscana, poco meno che industriale, da quellasarda (Salvatici, 1992).Il fenomeno di una progressiva modificazione della tipo-logia produttiva, già rilevante nei primi decenni del seco-lo, si è sempre più accentuato nel corso degli anni dalsecondo dopoguerra in poi. In molti settori del compartoartigianale si è verificato un sostanziale cambiamento delciclo di produzione oltre che una riduzione delle figureprofessionali tradizionali; per esempio, gli stagnai, i sellai,i maniscalchi sono sempre più rari. Questi fattori sonoparticolarmente evidenti nel lavoro dei fabbri che pro-gressivamente hanno ridotto le fasi di lavorazione deimanufatti: nelle officine, infatti, sono presenti attrezza-ture complesse e le grandi industrie forniscono moltioggetti semilavorati senza troppi costi aggiuntivi.Difficilmente, perciò, il fabbro e il coltellinaio specializza-

to lavorano la materia prima, ancora grezza, per arrivareal prodotto finito (Clemente, Orrù, 1982).In generale, si è passati da un livello più propriamenteartigianale ad uno con caratteri industriali in grado disoddisfare le mutate richieste di mercato anche attraver-so attività di riparazione e di servizio. Del resto, per moltianni gli interventi regionali sono stati indirizzati mag-giormente verso il potenziamento di un artigianato ditipo artistico, difficilmente realizzabile con il ferro, se siescludono alcuni felici esempi tra gli artigiani del ferrobattuto ancora operanti in Sardegna.Il coltellinaio sardo, però, ha tenuto costantemente pre-senti i dettami della tradizione e continua a costruire ilcoltello a mano e a fuoco, con tempi lunghi, che non con-cedono nulla a tecniche industriali o all’uso di materialidiversi da quelli codificati dall’uso evitando, contestual-mente, che la tradizione si concretizzi in un’arida cristal-lizzazione di moduli formali arcaici.La coltelleria grossolana e i coltellacci a spatola, cui si èprima accennato, hanno tuttavia lasciato il campo a pre-gevoli manufatti ambiti da estimatori e collezionisti, chevi ricercano e ritrovano i segni dell’originalità e dell’e-sclusività rispetto alla vasta produzione, anche artigiana-le, di oggetti consimili di altre regioni.Questi fattori, ma soprattutto la forma, le materie usatee il significato che il coltello ha nell’orizzonte culturale eproduttivo sardo, situano con immediatezza questo stru-mento all’interno della società che lo ha espresso e in uncerto senso lo rendono partecipe della sua storia.

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1. Tra i vari apparati culturali che caratterizzano leattività degli uomini occupano una postazione di rilievole tradizioni orali. Esse, come è noto, prendono slancio evigore a partire dalla seconda metà dell’800 quando,principalmente per merito dei fratelli Grimm e sotto l’im-pulso di interessi romantici e di tipo glottologico, diven-tano oggetto privilegiato di documentazione e studio. Inquesto quadro la Sardegna, al pari di altre regioni italia-ne, costituisce, nella sua connotazione specifica di “isolalinguistica”, un punto di riferimento centrale per scritto-ri e studiosi interessati alle problematiche linguistiche edi etnoletteratura.

Le raccolte, avviate nell’isola da Pier Enea Guarnerio eFrancesco Mango, successivamente riprese da Gino Botti-glioni ed altri, quindi, dopo il lungo letargo del periodofascista, dai due atenei sardi, concorrono tutte a definiree riaffermare i valori della narrativa popolare sul pianostorico, sociale e letterario. Infatti, come è noto, le narra-zioni presentano sempre aspetti significativi di condizio-ni sociali ed economiche e ripropongono concezioni di vi-ta e modelli comportamentali, rilevandone processi e tra-sformazioni.

In tale contesto, limitando l’analisi dei contenutiesclusivamente ai rapporti degli uomini con l’ambiente, equindi con la natura, è possibile individuare le modalitàattraverso cui si connota l’idea di bosco, sia nelle sue va-lenze simboliche, sia nella fruizione e gestione dei suoiprodotti. Le vaste distese forestali diventano, nell’imma-ginario popolare, scenari privilegiati di vicende di eroi ederoine, ma anche rifugio e sostegno economico. Il pro-cesso di antropizzazione dello spazio geografico genera,sia pure con gradualità, modificazioni culturali capaci diincidere spesso su profonde e radicate motivazioni, usan-ze e credenze. Tali cambiamenti sono rilevabili, in dimen-sione diacronica, fino alla fase attuale, propria delle rac-colte più recenti, caratterizzata da una forte rarefazionedell’uso di fiabe. Così, al bosco inesplorato ed inaccessibi-le, dimora di demoni e spiriti pericolosi, ma anche di ma-ghi e streghe, si può associare l’idea di uno spazio, il giar-dino, strappato alla selvatichezza perché sottoposto avincoli di proprietà e coltura. Di questo progressivo con-trollo del territorio, accompagnato a vari fattori di mo-dernità, fiabe e leggende offrono testimonianze signifi-cative anche attraverso la sostituzione di spazi forestaliindistinti con forme iterative verbali o con termini qualitanca, cubile, palatu ecc., oppure con la denominazionegenerica di campagna. Esse consentono, allo stesso tem-po, di individuare differenti tipologie di bosco in rappor-to all’uso dello stesso ed a vicende, funzioni e ruoli dipersonaggi e protagonisti. Fra le opzioni possibili rientraquella che considera il bosco rifugio e dimora di banditi ebriganti, così come quella che lo vede come ambienteideale di caccia e svago.

2. Banditi e briganti.Il fenomeno del banditismo ha costituito – come è da

tempo noto – uno degli aspetti più devastanti e funestiche abbiano colpito la vita e le attività della Sardegna nelcorso degli ultimi tre secoli. Associato ad altri tristi fatto-ri quali lo spopolamento di vaste zone che l’assenza dicoltivazioni trasformava in distese boschive o in landepaludose, fino all’Ottocento esso ha trovato la causa prin-cipale della propria esistenza nella perpetuazione delsistema feudale. «Nell’interno – osserva, ad esempio,Francesco Floris riferendo sullo stato demografico dell’i-

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Scenarisilvestri,

briganti ecacciatori

nellanarrativapopolare

sarda.

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sola nel Settecento – queste vaste plaghe erano percorseda bande di briganti, che somigliavano spesso a piccolieserciti ed erano più o meno appoggiate dai maggioren-ti locali o dai feudatari. Queste bande imponevano con ilterrore la loro volontà, scorrazzavano per le campagnedevastando e tenendo in soggezione le popolazioni chetaglieggiavano e depredavano sistematicamente» (Floris,1999, p. 434). Tutto ciò poteva accadere nonostante l’at-tivazione nell’isola di forme di repressione di fatti delit-tuosi caratterizzate da ferocia e violenza e di cui si puòtrovare conferma nell’imprecazione, ancora viva in qual-che centro del Goceano: “Ancu ti che seghet sa conca subuzinu!” (Possa tagliarti la testa il bogino!). L’espressione,che nella comune opinione sembra rimandare al viceréconte Bogino equiparato ad una sorta di spirito diabolico,su buzinu, potrebbe costituire – seguendo i rilievi diManlio Brigaglia – un esempio di “discesa” popolare diun fatto culturale, essendo il termine bugginu «voce diorigine colta, ed esprime semmai la sua impopolarità (delBogino) presso la nobiltà isolana, della quale combatté iprivilegi e gli abusi più offensivi» (Brigaglia, 1972, p. 63).

Le severe misure punitive, però, non potevano modifi-care radicalmente una situazione problematica e com-plessa di natura sociale che la tradizione orale riproponecostantemente, anche nei suoi aspetti truculenti. In talequadro si inserisce, ad esempio, una vicenda narrata daGino Bottiglioni (Bottiglioni, 1922, p. 102) che, in sintoniacon le situazioni descritte dagli storici, ha come scenarioideale lo spazio oscuro e immenso della foresta. Infatti, laprotagonista, «una povera donna che non portava dena-ro», viene sorpresa dai banditi mentre, di notte, attraver-sa un bosco. Inconsapevolmente e senza motivo, diventail bersaglio dei malvagi che infieriscono sul cadavere coninaudita violenza e brutalità. Ma l’intervento provviden-ziale di Dio trasforma la vittima in una pietra da cui si puòrilevare «ancora il segno delle ferite». Al di là della fun-zione giustificativa dei tratti d’un paesaggio fisico altri-menti incomprensibili, non sembra difficile riscontrare,nella narrazione, un riflesso delle precarie condizioni esi-stenziali del tempo. Infatti, l’assenza di riferimenti, rinve-nibile anche in altri testi, ad esemplari punizioni magico-religiose e all’azione della ”giustizia”, sa justìssia, che undiffuso comune sentire considera astratta quanto lonta-na, potrebbe rimandare ad un’epoca caratterizzata daforme di impunità comunque garantite.

«I banditi – asserisce Floris al riguardo - erano spalleg-giati e protetti a livello locale da una rete di connivenze,spesso vi erano coinvolti gli stessi feudatari, certamente leélites locali e la Chiesa, per cui quasi sempre essi riusciva-no a farla franca nei confronti della giustizia reale»(Floris, 1999, p. 429).

Gli spazi boschivi contengono sempre notevoli livellidi pericolosità, anche in pieno giorno. Perciò occorre evi-tare di attraversarli così come insegna la vicenda di Mariadel Bosco (Enna, 1984, p. 135) che, per giungere in fretta“alla festa”, si immette in un grande bosco situato neipressi di una locanda, incappando subito nelle mani deibanditi assoldati, per ucciderla, dalla sua invidiosa zia.Mossi a pietà, essi la conducono nel rifugio dove la gio-vane, ben voluta e trattata come una sorella, accudiscealle faccende domestiche. Ma, subito dopo l’uccisione dei“dodici banditi” in uno scontro a fuoco con i carabinieri,si deve rassegnare a restare sola, trasformando la casanella sua abituale dimora ed il bosco in territorio di cac-cia «per procurarsi da vivere», fino ad un incontro occa-

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sionale con un principe cacciatore col quale, successiva-mente, convolerà a nozze.

Le vaste estensioni forestali concorrono, quindi, neltenere elevata l’intensità dei reati che non subisconovariazioni neppure a notevole distanza di tempo. Infatti– come ribadisce lo storico appena citato – anche a fineOttocento «le campagne desolate ed abbandonate furo-no nuovamente percorse da bande di malfattori organiz-zati che gettavano nel terrore le popolazioni» (Floris,1999, p. 547).

La tradizione orale, così come normalmente si verifica,registra lo stato di diffuso malessere e paura sin quasi aporsi come una sorta di documentazione storica nonpriva di una certa attendibilità. Le difficili condizioni divita connesse a rapine e sequestri d’un brigantaggio vio-lento ed altezzoso, non più sopportabile “perché laSardegna stava andando troppo male con questi bandi-ti”, emergono, spesso, da una letteratura popolare in cuielementi fantastici si associano a concreti riferimenti allaquotidianità. Infatti, al di là di interventi protettivi chebanditi alla macchia, protagonisti di fiabe di vario tipo,riservano all’eroina in modo veramente inconsueto, varibrani ripropongono fatti e concezioni improntati a reali-smo. Rientrano in tale categoria i richiami di alcuni rac-conti del Fondo Comparetti (Delitala, 1999, p. 109) quali,ad esempio, gli episodi relativi a fuorusciti che rifiutanodi ricongiungersi alla “sorellina” nel palazzo reale perchésu di loro grava ancora una taglia o perché consapevoli diessere destinati all’impiccagione, specie dopo essersiscontrati poco prima con «gli uomini del re», in un con-flitto a fuoco. A questo riguardo si può rilevare comeanche la perifrasi con cui si indicano i carabinieri, rappre-senti un riscontro certo di atteggiamenti mentali propridel narratore e dell’uditorio di questo periodo.

Le boscose montagne della Gallura fanno da sfondoalla leggenda calangianese La grotta del diavolo(Bottiglioni, 1922, p. 55) che, oltre ad influssi di matricereligiosa, contiene, alla stessa stregua, riferimenti a gras-sazioni ed omicidi riscontrabili in quella realtà. La vicen-da è incentrata sull’immagine di un bandito che, dall’altodi una montagna inaccessibile ad estranei, terrorizza tuttied accumula ricchezze enormi, uccidendo e depredando ipastori degli stazzi. Il temuto malvivente, però, vieneassassinato dai servi che, in tal modo, s’impadronisconodel suo ingente bottino. Il corpo senza testa giace ancoraall’interno di una grotta senza mai subire, in quanto dia-volo, un processo di decomposizione.

Nella sua raccapricciante funzione, il cadavere decol-lato sembra rimandare al complesso delle pene capitaliintrodotto, nel Settecento, dal vicerè marchese diRivarolo secondo cui «la testa del condannato – comeafferma ancora Floris - veniva mandata al paese d’origineper esservi appesa» (Floris, 1999, p. 430). A questo siste-ma punitivo si collegano vari toponimi tra cui S’impiccuche, a Bono, delimita un sito di forma triangolare, oraalberato ed inserito nel contesto urbano, da cui si dira-mava la vecchia mulattiera per Burgos. L’assimilazione diun assassinato, unu annau (o mortu) male, ad un esserediabolico rientra in un apparato concettuale e di creden-ze popolari che hanno resistito, in modi più o meno omo-genei, ben oltre la prima guerra mondiale. Infatti, a livel-lo etnografico, si registrano azioni di mitizzazione delbandito defunto con manifestazioni rituali mirate adimpossessarsi di brandelli d’abito da usare come amuletie talismani. Bisogni protettivi e terapeutici potevano,

inoltre, essere appagati col saltare il feretro, lu jumpaian,nel preservare ciocche di capelli da utilizzare come effica-ce rimedio contro le malattie, sos pilos pro meighina, enel combattere fastidiose emicranie posando sulla testala mano dell’ucciso. Questi ed altri riti coi quali si effet-tuava la trasformazione delle anime, sas ànimas, di per-sone sottoposte a morte violenta in geni benefici, conimplicite relazioni col culto dei decollati, avevano unavasta diffusione areale (Alziator, 1971-72, p. 16).

A loro volta, anche le foreste del Sarcidano costitui-scono la dimora abituale di banditi che vivono sempre al-la macchia per sfuggire «agli occhi della giustizia». Comesi rileva dal racconto La grotta dei cattivi (Bottiglioni,1922, p. 113), alcuni malviventi uccidono un pastore men-tre porta al pascolo «un gregge destinato a San Sebastia-no» per poi riunirsi a gozzovigliare al riparo di una grot-ta che i diavoli fanno rovinare loro addosso, schiaccian-doli quasi tutti. Si salverà soltanto colui che rifiuterà di ci-barsi dell’arrosto di quel «bestiame santo». La leggenda,oltre ad evidenziare l’estrema pericolosità di boschi con-trollati da bande di malviventi, contiene anche elementiche possono apparire come indicativi di forme di supre-mazia economica e culturale allora esercitate dalla Chie-sa. Infatti, a fronte degli intenti moralistici espressi nel ri-ferimento al bandito scampato alla morte, la “destina-zione” del gregge sembra richiamare aspetti e modalitàdi donazioni testamentarie gestite direttamente dai pre-ti. Di esse è possibile trovare valida testimonianza nel “re-gistro dei morti”, unus ex quinque libris, in dotazione al-le parrocchie. Storicamente, come è noto, il potere eccle-siastico si fondava su una giurisdizione che includeva, trai vari privilegi, la prerogativa del diritto di asilo con ga-ranzia di incolumità. Perciò, conventi e chiese, speciequelli disseminati nei campi deserti, potevano svolgereuna funzione di sicuro ricovero anche per i banditi. Costi-tuisce quasi un luogo comune, specie fra le persone an-ziane del Settentrione isolano, l’opinione secondo cui, inoccasione della festa di San Paolo di Monti, il santuario ei locali riservati ai pellegrini, le cumbessias, venivano con-siderati zona franca per i fuorusciti. Di tale usanza puòtrovarsi conferma nella annotazione relativa al raccontoLa chiesa di San Francesco di Lula (Bottiglioni, 1922, p. 78)con la quale il Bottiglioni sottolinea la «speciale devozio-ne» dei latitanti che si recano in pellegrinaggio al san-tuario distante dal paese «due giorni di strada a piedi». Ilprotagonista dell’episodio è un bandito che affida al San-to la richiesta di nasconderlo a «quelli della giustizia»promettendogli, in cambio della grazia, la costruzione diuna chiesa. Il nascondiglio è ubicato in una campagna sucui vige ormai un vincolo di proprietà, sa tanca, che si pre-sume ricco di vegetazione. Ma è soprattutto la sua devo-zione ad evitargli di essere scorto dai carabinieri che gli«sono passati vicinissimo». Infatti, poiché egli «era moltodevoto – come narra la leggenda – si è rivolto a San Fran-cesco che altre volte aveva salvato banditi».

Questa pratica votiva che, come nel caso citato, portai briganti ad erigere edifici sacri, è in sintonia con una dif-fusa mentalità che affida la protezione individuale ad unrapporto di reciprocità tra fedele e divinità (Satta, 2000;Atzori-Satta, 1980). A questo si somma la credenza sul-l’efficacia di talismani che preservano dalle pallottole deicarabinieri, sos bréveres contra sas ballas, il cui confezio-namento è privilegio quasi esclusivo di preti. E’ un dato difatto che la religione pervada aspetti e momenti dellavita delle comunità al punto da incidere anche su situa-

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zioni non sempre rilevanti. Tale potrebbe essere, adesempio, il rito del giuramento dove formule e strumen-ti religiosi sembrano assicurare maggiore validità ed effi-cacia rispetto ad espressioni di tipo ordalico ed a modali-tà d’intermediazione da tempo conosciute. Si colloca inquesta dimensione la leggenda I tredici banditi, propostadal Mango (Mango, 1980, p. 136) in versione campidane-se, con cui si narra l’avventura di Granadina, la vittimadella gelosia materna che, smarritasi in campagna doveera stata condotta per ordine della madre, dopo tantovagare approda alla casa dei banditi. Quando questi nescoprono la presenza restano tutti affascinati dalla suabellezza e s’impegnano a trattarla come una sorella giu-rando, a conferma e vincolo irrevocabili, sopra «uncrocifisso che tenevano appeso dove(erano) i letti», dopo averlo ada-giato sul tavolo. L’esitofelice della vicendaassocia al matri-monio dellabella eroinacon unprincipe

ilritor-no deibanditi an o r m a l icondizioni divita, accolti nelpalazzo reale.Questo aspetto, comunealle due analoghe versionicoeve di area sassarese - pubblicatedalla Delitala (Delitala, 1999, pp. 109, 395)sotto i titoli rispettivi di Fiaba e I tredici banditi – se da unlato potrebbe rimandare a occasioni di privilegio e pro-tezione verso i malavitosi, dall’altro consente di ipotizza-re la presenza di modificazioni storiche e sociali che siavviano a diventare ormai antitetiche o quantomeno adentrare in collisione con eventi che sanzionano unamorte violenta dei banditi.

Gli episodi richiamati sembrano sottendere situazionidi verosimiglianza tali da proporsi quasi come un feno-meno storico. Spesso boschi immensi e talvolta impene-

trabili nascondono templi cristiani di cui s’era persa lamemoria perché situati in territori assai distanti ed isola-ti rispetto ai centri abitati e che solo in seguito ad eventiparticolari - quale quello riferito, ad esempio, con La chie-sa di San Serafino (Bottiglioni, 1922, p. 88) - diventanooggetto di rivendicazione tra opposti gruppi paesani. Lospazio vegetale, pur con tutte le paure che infonde neivari protagonisti, resta comunque l’ambiente privilegiatodi imprese di malviventi anche quando vengono propostein chiave umoristica. Tale circostanza si rinviene nellanovella Un matto e un savio (Delitala, 1999, p. 665) dovel’albero della foresta su cui si rifugia il folle eroe diventail punto d’incontro di «un gruppo di briganti per divider-

si ciò che avevano rubato…e per passare anche loro lanotte al riparo».

Il bosco rappresenta, moltospesso, lo sfondo naturale

di vari racconti meravi-gliosi definendo,

così, un ambitogeografico al

cui internosi ergono

c a s eo palazzi,

fantastici perstruttura o per-

ché sede di fatti edavvenimenti ecceziona-

li. Si inserisce in questo con-testo, tanto per fare un altro

esempio, la fola gallurese I due fratelli(Delitala, 1999, p. 53), il cui protagonista principale attra-versa una vasta ed oscura valle, e quindi una estesa pia-nura ricca di armenti, prima di poter scorgere una stranaabitazione. Protetto dalla fitta vegetazione, egli scopriràche trattasi d’una dimora magica che briganti dediti arapinare ed uccidere utilizzano per depositarvi il ricavatodelle loro scorrerie. Sulla stessa lunghezza d’onda, lafiaba sassarese Apriti Tigarello (Delitala, 1999, p. 299)propone la vicenda analoga di un padre povero che rag-giunge una montagna dove anch’egli scopre, nascosto suun albero, un ripostiglio fantastico di beni, accumulati da

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I briganti.Collezione Botta 1841

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tanti banditi, da cui preleverà molti denari per poterfinalmente sfamare i figli, per sempre. Il messaggio mora-le implicito ad entrambe le fiabe tende a rimarcare, insie-me alla condivisione di comportamenti mirati a garantireil diritto alla sopravvivenza, il valore della solidarietà e glieffetti dannosi dell’avarizia.

La boscaglia come fonte di insidie e pericoli perchésede abituale di individui violenti che possono avere, aseconda delle circostanze, un rapporto mutevole di favo-re o di inimicizia con l’eroe-eroina, è rilevabile oltre chein numerosi racconti popolari, anche in rielaborazioni“colte” dove, però, assume una funzione talvolta secon-daria rispetto alla trama delle vicende.

3. Attività venatoria e svaghi.A parere di Jacques Le Goff, il termine “foresta”, che

è in stretta relazione con l’idea di solitudine, «derivasenza dubbio dall’espressione silva forensis, una selva chedipende dal tribunale, forum, del re». Pertanto esso«designa all’origine una riserva di caccia» che è andatacosì assumendo un «significato giuridico» e di cui i «guer-rieri, i bellatores, gli uomini della forza fisica, hanno ten-tato di appropriarsi…durante il medioevo» (Le Goff,1983, p. 85). In Sardegna, come è possibile rilevare da “LaCarta de Logu”, i «territori di caccia» costituiti da “salti”e “silve” appartengono, in genere, al patrimonio delGiudicato che li controlla e gestisce organizzando “caccecollettive” e scoraggiando il bracconaggio con severenorme. Le trasformazioni politiche e culturali dei periodisuccessivi determinano situazioni tali da consentire unaattività venatoria «largamente praticata da tutti» stantela presenza di «un notevole patrimonio di selvaggina ditutti i generi». Alla caccia con le balestre del XVI secolosubentra – come afferma Francesco Floris (Floris, 1999, p.351) – quella con gli archibugi alla cui produzione si dedi-cano artigiani locali. Nel secolo successivo, l’introduzionedelle armi favorisce la diffusione di un’attività in cui isardi diventano maestri, ma che nel contempo imponel’adozione di provvedimenti tesi a disciplinarne l’esercizioed a proteggere la selvaggina.

Aldilà degli avvenimenti storici, i racconti magico-me-ravigliosi preservano le caratteristiche di “salti” e boschicome terreno di caccia, riproponendo fatti leggendari,ma anche episodi e scene di vita quotidiana.

Appare difficile, ad ogni modo, rinvenire nella lette-ratura orale elementi tali da poter qualificare il patrimo-nio forestale come luogo di svago nel senso attuale edesteso del termine, mentre dal confronto di diversi braniè possibile rilevare l’emergere di modificazioni culturali.Relativamente al primo aspetto può essere sufficientesottolineare la portata moderna dell’idea di ferie o ditempo libero e, quindi, limitare solo a ricorrenze festivemomenti popolari di divertimento e di evasione dallepreoccupazioni quotidiane. A ciò concorrono, inoltre,motivazioni intrinseche al contesto della tradizione nar-rativa dove non esistono, ad esempio, riferimenti a bam-bini intenti o desiderosi di giocare nei boschi, né tantomeno a costruirvi dimore familiari. Di norma, la fiaba pre-senta la foresta come luogo di punizione o di abbandonodei piccoli, mentre la casa, di solito proprietà di perso-naggi mitici e leggendari, è posta all’interno o al limitaredella stessa. Quando, in qualche raro caso, l’abitazionecoincide con una dimora di pastori, si è di fronte - conmolta probabilità - ad una trasposizione di senso connes-sa a mutate condizioni storico-sociali e modi di pensare.A titolo esemplificativo, l’impatto con una struttura abi-tativa viene proposto dalla novella Senza titolo - facenteparte della raccolta nazionale voluta dal Comparetti -quando una giovane eroina, scampata quasi per miraco-

lo alla decapitazione voluta dai genitori per aver datocredito alle accuse infamanti d’uno zio, «…entrò in unbosco e, cammina cammina, trovò un ovile e lì fece nottee chiese se potevano venderle un tessuto che facevanoloro… e si vestì da pellegrina» (Delitala, 1999, p. 563).

Nella produzione narrativa sembrano essere numero-si, al contrario, gli episodi di caccia che vedono impegna-ti, in prevalenza, personaggi di alto rango, quasi a voler-ne ribadire le peculiarità collegate a privilegi signorili ri-conducibili ad estese proprietà fondiarie. Ad alte sfere so-ciali appartengono, ovviamente, oltre a re e principi, an-che maghi ed orchi, che risultano padroni di boschi e giar-dini teatro di attività venatoria, e gli eroi fiabeschi che visono coinvolti, in tale ultimo caso prescindendo dallaclasse sociale. La “fola sarda” Racconto di quattro figli,anch’essa del fondo comparettiano, ad esempio, annove-ra tra i protagonisti un re il quale «un giorno…va a cac-cia in quel bosco e, vedendo quel gran palazzo, ci va perriposare» (Delitala, 1999, p. 475). Il maestoso personaggioresta affascinato dalla sontuosità dell’abitazione ed offrein sposa al presunto padrone la propria figlia, riservan-dosi di fargliela conoscere in occasione di una prossimascampagnata della famiglia reale. Questa fiaba, come al-tre analoghe elaborazioni orali, in genere rivela una fi-gura di re il quale, più che esercitare funzioni e preroga-tive proprie di un «rappresentante del potere (in tutti isuoi aspetti, dall’equità alla perversione)» (Caprettini,2000, p. 330), sembra svolgere compiti utili a dare co-erenza discorsiva ad episodi bisognevoli di raccordi. Ca-ratteristico appare, in questa prospettiva, il tipo di re cheemerge dalla novella calangianese del Guarnerio, MussiùLonfrò (Delitala, 1985, p. 20), al quale si presenta Giovan-ni, un ragazzo che veniva maltrattato in famiglia perchéritenuto spurio. Egli, «quando… arrivò alla città del re» evenne a sapere che «questo aveva bisogno di un pastoredi pecore» (Delitala, 1985, p. 20), definì personalmentecol sovrano un contratto di lavoro assai vantaggioso, macol divieto esplicito di mai sconfinare nelle tanche del ma-go, contigue alle proprietà regie. Questo atteggiamentodi familiarità nei rapporti umani e di cura personale deipropri affari denota, di per sé, un’immagine di re total-mente priva dell’alone di sacra maestà. Essa si rafforzaquando si consideri l’atteggiamento rispettoso - frammi-sto, come potrebbe sembrare, a sensi di paura – che il mo-narca manifesta verso un essere magico o verso il mitico“serpente dalle sette teste” cui è tenuto a pagare un one-roso tributo col sacrificargli «facendosi un gran pianto» –e per ciò stesso in modo poco dignitoso per un sovrano -«la figlia maggiore». Tale aspetto, comunque, non rap-presenta una caratteristica esclusiva del mondo letterariopopolare della Sardegna se è vero che esso costituisce an-che una specificità - a detta di Calvino – della novellisticatoscana (Calvino, 1968, p. 56).

Il richiamo alla “scampagnata reale” consente di riba-dire come tale modalità di evasione dal quotidiano possarappresentare, nelle menti del narratore così come del-l’uditorio, una prerogativa delle classi abbienti. Una con-ferma di ciò la offre - rimarcando il carattere diversivodella caccia - Pier Enea Guarnerio (Guarnerio, 1977, p.195) con La parilthoria de su puzzone ‘hilde (La fiaba del-l’uccello verde). Il racconto fantastico riporta le vicissitu-dini di un principe che, deluso dalle vicende coniugali sfo-ciate nel ripudio della moglie per aver dato credito allecalunnie di una matrigna invidiosa, «un giorno per caso,per divertirsi va a caccia e trova quei due giovincelli» cherisulteranno essere suoi figli e attraverso i quali ritroveràanche la consorte. Affinità ed analogie con questa no-vella, di cui è peraltro coeva, sono rinvenibili nel branodel Fondo Comparetti Le tre sorelle (Delitala, 1999, p.

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443) che, oltre al tipo, condivide la comune matrice lin-guistica del sardo logudorese. A parte talune variazionitematiche e differenze relative ad alcuni particolari qualiil numero di neonati, la ricerca di oggetti meravigliosi,aiutanti e fattucchiere ecc., la versione comparettianapresenta un uso della caccia come fonte e mezzo di ali-mentazione, non di svago. L’aspetto venatorio appare, alcontrario, nella sua valenza moderna in una leggenda,appartenente ad una raccolta degli ultimi anni Settanta,che pur essendo dello stesso tipo delle precedenti, corri-sponde a queste, sia pure non totalmente, solo nella faseconclusiva. Infatti, lo sviluppo della prima parte di Ma-riedda, ripresa dalla Delitala (Delitala, 1985, p. 47), ri-chiama il tema del povero legnaiolo la cui figlia, cedutaper denaro al diavolo, subirà l’amputazione delle braccia.Questi non smetterà di perseguitarla; ma, ciononostante,con l’aiuto della Madonna la bella giovane raggiungeràun palazzo reale, sposerà il principe e partorirà due bam-bini con stella d’oro e d’argento in fronte con i quali, al-la fine, si ricongiungerà al marito.

Da par suo, spinto esclusivamente dal desiderio di vo-lersi divertire, anche il protagonista di una leggenda lo-cale proposta da Gino Bottiglioni (Bottiglioni, 1922, p.197), La chiesa di San Serafino, si muove armato di fucileed in compagnia di un cane. Infatti, libero - come sembradi poter desumere dal testo - da preoccupazioni di sorta,sebbene si sia smarrito sulle montagne di Ghilarza, egliattende tranquillo, coricato sotto una pianta, l’alba delnuovo giorno per riprendere la ricerca di selvaggina chesi concluderà con la cattura di una cerva «in un boscospesso che non lo lasciava passare».

Analogamente, rafforzano la concezione di una atti-vità venatoria riservata, anche a livello simbolico, alleclassi sociali elevate vari racconti meravigliosi fra i quali sicolloca la novella popolare, Sa parilthoria ‘e Daglia ferru(La fiaba di Tagliaferro) (Guarnerio, 1977, p. 188). Il branopresenta - come soggetti favolosi di scene di caccia - tremeravigliosi cani ottenuti da un giovane pastore in cam-bio di una pecora, altamente lattifera, data a taluni“giganti” che passavano per caso nel podere. Con essi, ilnuovo padrone fa incetta quotidiana di selvaggina, man-dandoli nei boschi da soli, privi della sua guida. Il giornoin cui decide di uscire a caccia, incontra una giovane figliad’un re d’una lontana città, vittima designata da offrirein pasto ad “una bestia dalle sette teste” che esigevacome tributo la figlia maggiore di ogni famiglia. L’eroe,con l’aiuto dei portentosi cani, riesce a salvare dal terribi-le mostro la bella principessa con la quale convolerà anozze, dopo essersi misurato con l’orco e col tradimentodella sorella.

In un contesto magico si inserisce anche la vicenda diun bambino di nobili origini riportata dalla fiaba Le tresorelle (Delitala, 1999, p. 443), pubblicata a cura di EnricaDelitala. Vi si narra che il piccolo, grazie ai doni avuti dauna speciale figura di maga il cui nome corrisponde aquello di “Nostra Signora”, oltre ad uscire incolume darischiose prove sostenute nel giardino di un orco ed inboschi fatati, dimostrerà di essere un abile tiratore abbat-tendo molti selvatici con un “archibugio di canna”. Il rac-conto appare singolare, aldilà di motivi e significatiriguardanti un processo di metamorfosi-rinascita connes-so ad un infanticidio, perché ripropone anche una tipolo-gia di caccia organizzata che coinvolge contemporanea-mente diverse persone. Infatti, il richiamo ad un episodioin cui «…viene il principe con un gruppo di cacciatori evede che tutti sparavano...(mentre) il ragazzo col fucile dicanna faceva una grande caccia» (Delitala, 1999, p. 445)rimanda – senza forzature interpretative - al sistema dellabattuta ai selvatici.

La tradizione orale, quando non si rapporta all’attivi-tà venatoria con riferimenti generici, sembra riesumaremomenti di vita comunitaria sulla falsariga di quanto an-cora oggi si verifica attraverso le cosiddette compagnie di“caccia grossa” limitata, ormai, solo al cinghiale. Questoanimale appare, almeno agli occhi di vari e numerosigruppi di cacciatori ovunque presenti in Sardegna, comeuna sorta di “signore della caccia”, sulla cui cattura si èsoliti richiamare l’attenzione delle comunità, con manife-stazioni di giubilo e brindisi associate a forme di orgoglioe di emulazione fra i protagonisti.

Infatti, esso costituisce il “selvatico” per eccellenza delquale assume in sé – secondo le riflessioni di Vincenzo Pa-diglione (Padiglione, 1989) - la complessità dei tratti pe-culiari. Oggetto comune di discorsi rievocativi di fatti con-cernenti la sua cattura, intorno al cinghiale si coagula,inoltre, un patrimonio culturale che attinge, in misuranotevole, da una tradizione orale dove vicende ed espe-rienze si fondono, attraverso un processo di riplasmazio-ne popolare, con credenze ed azioni rituali di tipo esorci-stico.

Emilio Lussu, con il racconto Il cinghiale del diavoloche Clara Gallini definisce «documento etnografico distraordinario interesse…costruito con un materiale narra-tivo indubbiamente attinto dalla tradizione» (Gallini,1983, p. 128), offre un quadro esauriente dei simboli diun immaginario popolare reso inquieto dai rischi dellasimbiosi uomo-bestia di cui detto selvatico costituiscevalida testimonianza potendo incarnare sia lo «Spirito delMale» oppure «un’anima che fa penitenza» (Gallini,1983, p. 130). Il “complesso mitico” inerente – secondo lastudiosa (Gallini, 1983, 134-135) – alla figura del cinghia-le come «la forma più tradizionale e più diffusa, inSardegna e fuori» sotto cui si presenta il demonio, porte-rebbe a considerare quest’ultimo «un personaggio miti-camente più corposo o comunque strettamente imparen-tato con una schiera di altri esseri» ritenuti, sia dalle mito-logie primitive che dal folklore europeo, «come signoridel bosco e della selvaggina»(Gallini, 1983, 134-135).

Fiabe e leggende varie ripropongono, in modo espli-cito e quasi a conferma di un uso dalle antiche origini, iltema della partecipazione collettiva alla cattura dei cin-ghiali. Una novella del Guarnerio, Crimintinu (Guarnerio,1977, p. 481), definisce con esattezza, pur tacendo dell’a-zione imprescindibile dei battitori, la sistemazione deicacciatori “alla posta”, cioè in punti ritenuti strategici peril passaggio del selvatico inseguito da cani latranti.Secondo la narrazione, infatti, la posta nel giardino realeviene occupata rispettivamente dal re, dal cognatoCrimintinu e dal Tignoso il quale, sparando per primo,attira l’attenzione del monarca che gli si avvicina creden-do che avesse ucciso qualche cinghiale, (cridendi ca aisimoltu calchi ‘avru) (Guarnerio, 1977, p. 494). In effetti,l’infido Tignoso ha ammazzato il giovane eroe che, perfortuna, dopo tre giorni potrà tornare in vita grazie adun magico unguento donato dal “Lupo”.

A sua volta, in tempi più recenti, un narratore diPozzomaggiore (Enna, 1984, p. 135), piccolo centro dellaprovincia di Sassari, rievocando l’avventura di una belladonna, riferisce, come a ribadirne una diffusa usanza, unepisodio relativo a tal genere di caccia. Protagonista del-l’avvenimento è una giovane che, adottata come sorelladai banditi coi quali la zia gelosa ne aveva pattuito l’eli-minazione, fa del bosco la sua naturale dimora. Qui restasola, padrona di una grande casa, a seguito dell’uccisionedei fratelli in un conflitto a fuoco coi carabinieri. Un gior-no, allertata da grida e spari, si nasconde dietro un cespu-glio e «vede tanti uomini che andavano a caccia di cin-ghiali» (Enna, 1984, p. 139). Da quel punto Maria del

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Bosco, l’eroina, visti inutili i tentativi altrui, con un solocolpo va a bersaglio sparando sul cinghiale contempora-neamente ad un giovane che, però, era già al terzo tiro.Due fori di pallottola in testa alla bestia spingono il prin-cipe-cacciatore ad effettuare le necessarie ricerche ed ascoprire nella donna la concorrente che porterà, quindi,alla corte reale per unirsi a lei in matrimonio.

Attraverso una ulteriore novella del Fondo Comparet-ti, I sette banditi (Delitala, 1999, p. 395), è ancora possi-bile rilevare, insieme ai temi dell’invidia femminile e del-la “sorellina” dei banditi, l’immagine di un erede al tro-no che «…era uscito a caccia con la corte e, stanchi co-m’erano, va a riposarsi in quella chiesa diroccata…» (De-litala, 1999, p 397). Nel sito, all’interno di una nicchia,trova una giovane bella come una statua che sveglia daun lungo profondo sonno causato da influssi magiciasportandole un anello dal dito. Quindi la sposa, non pri-ma di averle assicurato di riportarla dai fratelli. I riferi-menti ad un breve conflitto a fuoco tra i fuorilegge e «gliuomini del re» ed alla loro possibile impiccagione sem-brano richiamare condizioni di vita di poco anteriori, senon proprio coeve, a quelle del narratore. I banditi ven-gono, infatti, graziati alla stregua di quanto accade nellavariante sorsense Fiaba (Delitala, 1999, p. 109), inseritanel Fondo Comparetti e che, rispetto alla precedente,non registra sostanziali differenze al di là di un maggiornumero di banditi e di un più accentuato influsso religio-so. Una versione, analoga per tipo e temi, che la Delitala(Delitala, 1985, p. 48) riprende da una trascrizione fattaverso fine anni Settanta a Magomadas, piccolo centro neipressi di Bosa “città regia”, offre un ampio quadro diadattamento di motivi a nuove condizioni culturali. Tra lemodificazioni sopraggiunte rientrano, ad esempio, insie-me al prevalere di fattori di religiosità cristiana tra cui ilrito dei banditi inginocchiati che «giurano su questo Cri-sto di essere tutti fratelli», l’affidamento a venditori am-bulanti, e non a fuorusciti o servi, della vittima designatada una madre invidiosa della bellezza della figlia, leespressioni di dolore e lutto per la “sorella” morta, ma so-prattutto la gita in mare del ”figlio del re” con barca avapore e la paura dei banditi di essere arrestati, così rele-gando sul piano storico le condanne a morte per impic-cagione.

Appartiene a famiglia ricca, quasi a voler conferirecoerenza narrativa alle concezioni popolari sulla caccia, ilpadre di due bambini che la nonna paterna – secondo laversione fornita da Francesco Mango con Il pescatore e ildiavolo (Mango, 1980, p. 85) - voleva eliminare insiemealla madre, peraltro priva delle braccia. Portate in cam-pagna per essere uccise, le tre persone riusciranno asopravvivere con l’aiuto del servo e saranno ritrovate dalgenitore che percorre casualmente i boschi a caccia dianimali selvatici. Temi, motivi ed esiti analoghi sono resiattuali, sia pure con una più marcata funzione miracoli-stica della religione, anche in relazione alla concezionedell’attività venatoria, dalla già richiamata novella dellaDelitala, Mariedda.

Al contrario, la “novellina di Sorso” Il serpente dallesette teste (Delitala, 1999, p. 655) vede impegnato, in taleattività, un pastorello che, dopo aver vagato nel bosco,arriva con la sorella ad un palazzo, momentaneamentedisabitato, da cui l’indomani «parte per la caccia con unfucile che ha trovato in capo al letto e accompagnato daidue cani» datigli da una maga. Il giovane tutti i giorniprocura selvaggina per sé e per l’infedele sorella che,cedendo alle lusinghe del diabolico padrone di casa,tenta di avvelenarlo. Ma l’eroe riesce ad evitare, grazie aidoni della maga, prove assai rischiose, uccide la propriacongiunta e quindi «lascia tutto, afferra solo il fucile e i

cani, e da solo e si mette in viaggio» (Delitala, 1999, p.659), dormendo sugli alberi del bosco. Giunge infine inriva al mare dove, con quell’arma e con l’aiuto dei cani,uccide un mostruoso serpente, salvando così da mortecerta la sua futura sposa. Dal contesto fiabesco apparelecito dedurre come l’esercizio della caccia sia funzionalenon tanto ad attività di svago quanto ad assicurare aiprotagonisti mezzi di sostentamento e nutrizione.

Sulla falsariga della precitata novella del Mango,potrebbe appartenere al ceto benestante anche il perso-naggio principale della leggenda n. XIII di GinoBottiglioni. Si tratta di un uomo che le circostanze rendo-no cacciatore, a fronte della necessità di viaggiare arma-to, probabilmente per esigenze di sicurezza personalecontro i rischi del banditismo. Egli, infatti, attraversa lecampagne a cavallo e col fucile in spalla in «una notte disettembre» quando, successivamente alla festa di SanPaolo di Monti, le stesse «erano silenziose che non si sen-tiva un segno di vita» (Bottiglioni, 1922, p. 47).All’improvviso, da un macchione schizza fuori un cinghia-le «che si dà a correre intorno alla chiesa». Sparando conprontezza, l’uomo lo abbatte al primo colpo e, richiama-to da voci festose provenienti dall’edificio sacro, ve lo tra-scina dentro per banchettare con l’allegra compagnia.

La leggenda, al di là della funzione didascalica sullapresenza e le paure degli spiriti, offre, come dati certi perpoter collocare il protagonista in un livello sociale di“non povertà”, il possesso di un cavallo e di un fucile. Talielementi, riferiti al periodo della narrazione ed escluden-do potersi trattare d’un bandito per assenza di elementiprobatori, appaiono sufficienti a riconoscergli condizionieconomiche quantomeno dignitose. Ma oltre a ciò, occor-re notare che l’assenza, nel personaggio, di attributi spe-cifici quali re, principe, ricco ecc., può essere di per sé indi-cativo di un mutato clima storico connesso alla gestionedel territorio ed ai rapporti sociali di cui si esalta il valorenella riaffermazione del principio della solidarietà attra-verso la messa a disposizione della preda a favore delgruppo.

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F r a n c e s c aS a n n a

Nell’ambito della ricostruzione della storia delle istitu-zioni impegnate nella tutela e nella divulgazione dei beniculturali demo-etno-antropologici il congresso e l’esposi-zione di etnografia italiana del 1911 hanno segnato unmomento fondamentale. In tale occasione il vivace dibat-tito sulla museografia nazionale si rivolse ad alcuni deitemi fondamentali sui quali i musei etnografici si con-frontano tuttora, come il rapporto tra tipologie e docu-mentazione regionale o l’importanza di salvaguardare edocumentare la ricchezza delle culture locali come carat-teristica peculiare della storia di una data realtà culturale(Clemente, 1996, p. 238).

Le travagliate vicende storiche che coinvolsero l’Italianel primo cinquantennio del secolo provocarono una bru-sca quanto inevitabile interruzione del dibattito musealee delle esperienze progettuali. Una pausa forzata duratacosì a lungo da costringere, all’inizio degli anni ’60, glistudiosi non tanto a riprendere il dibattito quanto a com-piere una vera e propria opera di rifondazione dellamateria; infatti sebbene il regime fascista avesse dimo-strato un certo interesse per le culture locali, aveva lega-to tale riscoperta alla più generale volontà di autarchiadell’epoca.

A tale proposito è interessante notare che, la storia

del patrimonio culturale locale e delle classi popolari inItalia non è mai stata pienamente legittimata da nessunodei gruppi politici dominanti, né tanto meno dai partiti diminoranza; ciò perché, i primi, vedevano in tali tradizioniun possibile pericolo per un’unità nazionale che, a distan-za di oltre un secolo appare tutt’altro che pacifica, men-

tre, i secondi, hanno sempre privilegiato altri temi perportare avanti le rivendicazioni sociali (Clemente,

1996, p. 239).Nonostante tutti gli ostacoli che storia e poli-

tica hanno frapposto ad una reale presa dicoscienza dell’immenso valore culturale delletradizioni locali e delle classi popolari l’Italiapuò ancora vantare un patrimonio etno-grafico di valore superiore alla maggiorparte dei paesi europei. Tale ricchezza,prima ancora che da una legislazionespesso inadeguata e lacunosa, è statariconosciuta e valorizzata grazie allaconsapevolezza delle popolazioni locali,all’aumento del turismo e alla pubblicitàportata dai mezzi di comunicazione.

In ambito regionale una serie di rico-gnizioni sul numero, sulla funzionalità esulla tipologia dei musei in Sardegnasono state effettuate recentementedall’Assessorato Regionale alla Pubblica

Istruzione, dal CRENOS e dalla Corte deiConti. Da tali indagini è risultata l’esistenza

di oltre 170 istituzioni museali, equamentedivise tra musei di enti locali e di interesse loca-

le, anche se non tutti attualmente funzionanti.Tra questi istituti la tipologia prevalente è quella

del museo etnografico che conta circa una cinquan-tina di musei distribuiti in maniera estremamente ete-

rogenea in tutto il territorio (Sistema Regionale deiMusei. Piano di Razionalizzazione e Sviluppo, p. 7).

La nascita del primo allestimento museale etnograficoin Sardegna risale al 1950, quando il Museo Nazionale diSassari espose una consistente collezione donata dall’ap-passionato di tradizioni popolari Gavino Clemente, allaquale venne affiancato un catalogo curato dallo storicodell’arte Raffaello Delogu. L’esposizione, basata suimanufatti raccolti dal Clemente, rimase sostanzialmenteinalterata fino agli anni ’80 quando l’intera sezione etno-grafica del Museo Nazionale, che nel frattempo si eraarricchito grazie ad acquisizioni e donazioni, venne sman-tellata per permettere la ristrutturazione di alcune areedel museo (Atzori, 1997, p.412).

Durante gli oltre trent’anni di attività della sezioneetnografica tale allestimento rimase sempre legato a cri-teri espositivi decisamente superati, ed a parte un tenta-tivo volto a rendere maggiormente ordinata l’esposizionedividendo i materiali esposti per argomento, mostravauna serie di carenze tipiche delle esposizioni museali piùdatate; l’assenza di indicazioni in grado di fornire ai visi-tatori informazioni chiare sulla provenienza e sulle fun-zionalità degli oggetti esposti, così come la mancanza dipannelli esplicativi e la povertà di nozioni offerte dalledidascalie sono una serie di costanti che spesso si riscon-trano in gran parte degli allestimenti museali etnograficiin Sardegna.

Nell’allestimento del Museo della Vita e delleTradizioni Popolari Sarde a Nuoro, portato a termine diecianni dopo la nascita della sezione etnografica presso ilMuseo nazionale di Sassari, è possibile notare una quasiidentica sistematica; il museo nuorese, nel momento dellasua istituzione nel 1957, seguiva quelle che erano le con-cezioni dominanti dell’epoca nell’ambito dell’etnoantro-pologia (Lilliu, 1980).

Lo spazio espositivo del Museo di Nuoro venne apertoal pubblico nel 1961 e nella definitiva realizzazione delprogetto si rifletteva chiaramente la logica del paese-museo, con la riproposizione degli spazi tradizionali delle

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etnograficiin

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abitazioni e delle comunità paesane (Atzori, 1997, p.413).Il Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde, a

differenza della sezione etnografica del Museo Nazionaledi Sassari, ebbe nei suoi primi anni di attività una serie didifficoltà che ne limitarono la fruizione, principalmente acausa della mancanza di personale specializzato checostrinse il museo a frequenti chiusure. Tale situazionevenne risolta solo nel 1972, quando la Regione Sardegnaistituì a Nuoro l’Istituto Superiore Regionale Etnograficoal quale venne affidata la gestione della struttura esposi-tiva. Anche il Museo di Nuoro, come già accennato, evi-denziava le stesse carenze espositive dovute ad unapproccio espositivo estremamente datato. I reperti sonoraggruppati per argomento senza che sia ravvisabile unreale intento alla presentazione ed alla esplicazione deglioggetti esposti (Lilliu, 1980).

Nel panorama delle esposizioni etnografiche inSardegna un ruolo importante hanno rivestito i collezio-nisti privati che a partire dagli anni ’50 hanno costituitodelle raccolte, spinti principalmente dall’interesse di con-servare, almeno in parte, una serie di oggetti destinatialtrimenti a sparire con la progressiva meccanizzazionedel mondo agricolo e pastorale. In alcuni casi tali raccol-te hanno raggiunto una grandezza tale da renderenecessaria la loro collocazione in spazi adeguati ed ingrado di garantire una migliore fruizione dei reperti. Tragli esempi di questa tipologia di allestimento museale èpossibile citare il museo degli strumenti musicali sardi,ospitato nella casa parrocchiale di Tadasuni, che purrisentendo di una sistemazione estremamente semplice,dovuta all’inadeguatezza dei locali ed alla mancanza difondi, poteva contare su una raccolta di oggetti dal note-vole valore scientifico e didattico. Ugualmente ricco dispunti interessanti, seppur frustrati dall’eccessiva sempli-cità espositiva era il museo Sa domu ‘e farra di Quartu S.Elena, nel quale sono stati conservati arredi e strumentidella tradizione rurale. A vanificare in parte i lodevolisforzi del fondatore del museo contribuiva la scarsa cono-scenza delle tecniche espositive che portò a collocare unnumero eccessivo di oggetti in ogni ambiente dell’esposi-zione, peraltro privi delle necessarie informazioni fornitecomunemente attraverso i pannelli e le didascalie espli-cative (Atzori, 1997, p.415).

A questi musei etnografici che, pur presentandocarenze vistose sotto il profilo espositivo, sono frutto deilodevoli sforzi di collezionisti appassionati, a partire daglianni ’70 si è aggiunta una nuova tipologia di allestimen-ti, legata alla sempre maggiore diffusione delle campa-gne archeologiche ed al conseguente affollarsi di repertinei magazzini, peraltro già colmi, dei musei nazionali edelle soprintendenze. Per evitare che l’elevato numero direperti avesse una collocazione improduttiva si diede vitaa musei civici locali con sezioni archeologiche ed etno-grafiche. Una delle caratteristiche principali che accomu-na questi musei è quella di sorgere spesso in piccoliComuni che possono contare su un territorio ricco direperti (Atzori, 1997, p.415).

Dall’analisi della situazione attuale dei musei etno-grafici in Sardegna si evincono chiaramente le problema-tiche irrisolte e i limiti dell’offerta museale regionale. Ilproblema principale è quello di un’eccessiva frammenta-zione delle iniziative espositive, le cui motivazioni sonospesso riconducibili ad una semplificazione delle politicheculturali da parte di amministrazioni locali che individua-no nei musei un ammortizzatore sociale e una fonte oc-cupazionale. Da questo malinteso deriva anche la scelta,spesso utilizzata nei piccoli centri, di recuperare immobi-li storici dismessi ristrutturandoli in tutta fretta e trasfor-mandoli in contenitori inadeguati a causa della mancan-za di un progetto espositivo preventivamente stabilito(Sistema Regionale dei Musei. Piano di Razionalizzazionee Sviluppo, p. 8).

Diretta conseguenza dell’eccessiva frammentazione èla marcata ripetitività dell’offerta museale, che si manife-

sta, con maggior insistenza proprio in ambito etnografi-co, nella presenza contemporanea di più musei dallecaratteristiche pressoché identiche e ubicati a brevedistanza l’uno dall’altro (Sistema Regionale dei Musei.Piano di Razionalizzazione e Sviluppo, p. 8).

Tale squilibrio nella distribuzione territoriale deimusei da un lato deve essere indubbiamente valutatapositivamente, poiché dimostra un forte senso di appar-tenenza alla comunità, ma sotto il profilo pratico nonpuò che apparire come una scelta difficilmente destinataal successo; un esempio è quello della presenza in areerelativamente piccole di un numero elevato di case-museo nelle quali vengono esposti, ma più spesso stipati,una serie di oggetti appartenenti alla cultura contadina.Tale situazione provoca inevitabilmente una progressivadiminuzione del bacino di utenti necessari a sostentaretali esposizioni, contribuendo a decretarne spesso la chiu-sura a causa degli eccessivi costi di mantenimento noncoperti da un adeguato numero di visitatori.

A tale proposito risulta chiarificatrice della criticità delsistema museale regionale l’indagine condotta dal CRE-NOS, che studiando un campione di 93 istituzioni, tra cuialcuni dei musei nazionali e vari spazi espositivi privi dicollezioni permanenti, ha rilevato come un numero ridot-to di tali strutture (10) richiamino oltre il 70% dell’interovolume di visitatori, a sua volta stimato in circa 30.000persone all’anno. Ciò evidenzia come la gran parte di talistrutture espositive deve confrontarsi con un esiguonumero di visitatori (Sistema Regionale dei Musei. Pianodi Razionalizzazione e Sviluppo, p. 9).

Un’altra mancanza significativa nel panorama musea-le sardo è rappresentato dall’irrilevante numero di figureprofessionali in grado di garantire una gestione ottimaledelle strutture; è sufficiente, a questo riguardo, ricordarecome, attualmente, solo una decina di musei in tutta laSardegna abbiano un direttore e come ancora più esiguosia il numero di enti museali che si rivolgono a esperti dididattica e comunicazione. Una tale carenza di professio-nalità si riflette inevitabilmente sulla programmazionedei musei e sulla loro offerta didattica che appaiono spes-so incomplete quando non del tutto assenti. Un altroeffetto legato alla scarsità di figure professionali è datodalla staticità prevalente anche nelle esposizioni perma-nenti, che raramente sono soggette ai periodici riallesti-menti necessari a garantire ai visitatori nuovi spunti inter-pretativi attraverso la rielaborazione dei materiali espo-sti. Peraltro rinunciare a figure qualificate significa neces-sariamente condannare l’allestimento museale all’inade-guatezza sotto il profilo comunicativo ed a rendere estre-mamente difficoltosa l’attività di ricerca (SistemaRegionale dei Musei. Piano di Razionalizzazione e svilup-po, p. 7).

E’ dunque evidente come la visione del museo siaancora legata, in ambito regionale, ad un’idea di deposi-to di oggetti rari o di pregio piuttosto che un centro incui il visitatore deve contribuire alla visita in modo attivoalla fruizione delle opere esposte.

Una simile visione viene criticata da Alberto MarioCirese, che afferma come «i musei demologici dunque,almeno nella mia ottica, non agiscono solo come centri diraccolta e di conservazione ma soprattutto come opera-tori di investigazione e studio. Ed agiscono anche comeagenti di propagazione della conoscenza e di familiariz-zazione del pubblico con i procedimenti del conoscere»(Clemente, 1996, p.254).

Per far sì che il visitatore di un museo possa realmen-te vedere ciò che un allestimento offre al suo sguardo ènecessario che le opere d’arte vengano rese realmentefruibili. Ciò può avvenire solo se le opere sono in grado distimolare la curiosità dell’osservatore, acuendone la per-cezione, allargandone le prospettive attraverso la capaci-tà di esporre con chiarezza nuovi collegamenti e contra-sti e di mostrare sotto una nuova luce anche tipologie dioggetti solitamente trascurati.

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Naturalmente il grado di partecipazione del visitatoreall’esposizione museale è sempre parzialmente limitatadalle scelte effettuate dal curatore. Pertanto appare fon-damentale tenere presente come il principale scopo di unallestimento museale è quello di partecipare all’organiz-zazione ed alla riorganizzazione dell’esperienza, allacostruzione e ricostruzione dei mondi del visitatore. E’inoltre necessario abbandonare le idee sull’occhio inno-cente, sull’emozione senza pensiero, che appaiono ormaiobsolete. Sensazioni, percezioni, ragione e sensibilitàsono solo parti dell’insieme della cognizione e nelmomento stesso in cui influenzano l’opera ne sono a lorovolta influenzate.

Per riportare sul piano originario dell’analisi sui museietnografici sardi il discorso sul funzionamento dell’alle-stimento, è bene precisare che esso si verifica solo quan-do è capace di informare l’osservatore, non soltanto for-nendo le informazioni ma formando o riformando o tra-sformando la visione, che non deve naturalmente essereconfinata alla percezione oculare ma intesa come com-prensione generale dell’esposizione. Ciò non significasvuotare quadri, sculture o reperti della civiltà rurale tra-sformandoli in un mero sussidio visivo nel tentativo dimostrare quello che si cela dietro di esse. Le informazioniche un’opera può fornire sono importanti tanto quantolo è il rapporto più intimo tra il visitatore e l’opera, quel-lo che permette una reale comunione tra l’arte, la storiae l’essere umano. Solo attraverso questo tipo di relazionei riverberi delle opere esposte possono propagarsi nellavita di coloro che le osservano, venendo in contatto inmaniera sempre mutevole con altre forme d’arte, con séstesse e con tutto il mondo circostante.

Proprio in questa interazione costante e a diversi livel-li è possibile individuare la reale funzione dei musei,ovvero far sì che le opere interagiscano con tutte lenostre esperienze e tutti i nostri processiconoscitivi nell’evoluzione continuadella nostra comprensione.

Secondo il filosofo americanoNelson Goodman il museo deveessere considerato come unasorta di male necessario, cherecide in maniera definitiva ilegami dell’oggetto con la suarealtà naturale e non riesce arestituirne il senso, ma in cambiooffre ai reperti una protezionenecessaria alla loro sopravvivenzanei secoli (Goodman, 1984). Proprioquesto forzare l’oggetto a esisterenell’ambito di un confine arbitraria-mente delimitato dal curatore del museo,questa nuova illegittima collocazioneimpedisce al visitatore di percepire la rela-zione dell’oggetto con l’ambiente per ilquale è stato creato.

Per rendere evidente questo ostacoloalla comprensione delle opere esposteGoodman analizza parallelamente lebiblioteche ed i musei; nelle prime glioggetti esposti, cioè i libri, sono indiffe-renti all’ambiente fisico che li circonda,essendo autonomamente dotati di unsenso che il fruitore, ovvero il lettore,può facilmente individuare senzanecessità di nessun supporto. Glioggetti ospitati nel museo hannoinvece subito uno spostamento siatemporale che fisico, che li ha privatidel loro contesto naturale (Chiodo, 2004,p.3). Questa condizione innaturale dell’o-pera si somma alla presenza di numerosialtri oggetti analoghi, che in molti casi hannoin comune tra loro solo le finalità di conservazio-

ne ed esposizione (Goodman, 1984).La base di ogni codice espressivo museale, così come

evidenziato da Pietro Clemente, è, infatti, data da ogget-ti decontestualizzati, manufatti tolti dal loro spazio origi-nario e ricollocati in un ambiente espositivo nel qualeassumono una nuova valenza, divenendo documenti di sestessi; la nuova funzione degli oggetti esposti non siattua semplicemente attraverso la collocazione dell’og-getto nello spazio espositivo, ma richiede un’opera diricostruzione delle loro vita reale e delle loro funzionali-tà. Tale ricostruzione viene posta in essere attraverso lacreazione di un collegamento tra la morfologia stessadegli oggetti, i supporti didattici e l’intero contesto espo-sitivo (Clemente, 1996).

Simili condizioni contribuiscono a frapporre ostacoli avolte insormontabili tra la visione e la comprensione del-l’allestimento museale. Mentre un libro contiene solita-mente al suo interno un meccanismo di decodifica che lorende capace di rivelarsi al lettore senza alcuna interme-diazione, un allestimento museale, composto da un este-so numero di opere innaturalmente collocate nel medesi-mo spazio sintetico ed artificiale, incontra barriere a volteinsormontabili proprio a causa dell’assenza del contestooriginario (Goodman, 1984).

La caratteristica naturale del museo deve dunque es-sere individuata proprio nella sua innaturalità, una con-dizione necessaria per preservare gli oggetti nel migliormodo possibile. Accettare tale aspetto fondamentale im-plica naturalmente il dovere di trovare una soluzione ca-pace di facilitare la comprensione dell’allestimento. E’possibile individuare due rimedi di segno contrario, unoconsistente nell’accentuare la mediazione tra il visitatoree l’oggetto, l’altro, di segno opposto, tendente a rendereimmediata la relazione. Mentre nel pri-mo caso al visitatore vengonoofferti numerosi supporti me-diatici, per agevolarne lacomprensione attraverso

elementi scritti, audiovi-sivi o digitali, nel secon-do caso tali sup-porti vengonovolutamenteevitati

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Ceramicaartistica

GallinellaOpera di

Ignazia TintiFoto M.C. . Deidda

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o comunque ridotti a poche e scarne informazioni. In en-trambi i casi lo scopo di queste due possibili soluzioni èsolo quello di mettere l’oggetto esposto in condizione diagire, seppure, come sottolinea Goodman «under theworst imaginable conditions, that is, in a museum»(Goodman, 1984, p.184).

Per ridurre la portata di questo limite, avvicinando perquanto possibile il visitatore alla comprensione di unoggetto privato della sua naturale collocazione, è neces-sario, come suggerisce Goodman, fare in modo che sianole opere stesse a funzionare, esplicandosi attraverso unallestimento in grado di evidenziarne determinate perti-nenze che possano permettere un’elaborazione creativadell’esposizione da parte del fruitore.

L’oggetto dovrebbe agire stimolando uno sguardoindagativo, acuendo la percezione, enfatizzando l’intelli-genza visiva, aprendo prospettive, portando ad emerge-re nuove connessioni e nuovi contrasti e delimitandosignificativi aspetti trascurati, partecipando all’organizza-zione e alla riorganizzazione dell’esperienza, e quindialla costruzione e ricostruzione dei nostri mondi.L’oggetto deve dunque assumere un ruolo attivo, senzalimitarsi ad informare l’osservatore dei propri contenuticonoscitivi, ma trasformando, acuendo e rinnovando con-tinuamente le capacità osservative del visitatore.

Infatti, come evidenziato da una riflessione proposta

da M. Baxandall «chi osserva un manufatto provenienteda un’altra cultura, sia essa distante geograficamente ocronologicamente, si trova in una posizione complessa(…) Per chi osservi un manufatto in una mostra antropo-logica le cose si complicano ulteriormente, e le sugge-stioni aumentano. Tre sono gli elementi culturali coinvol-ti. Innanzitutto le idee, i valori e, ovviamente, gli obbiet-tivi dei curatori della mostra che, è lecito supporre, si ispi-rano a una teoria e comunque partecipano di una nozio-ne di cultura che non sempre l’osservatore possiede ocondivide. Infine, vi è l’osservatore stesso, con il suo baga-glio culturale di idee non sistematiche, di valori e, anchenel suo caso, di precisi obiettivi» (Karp, Lavine, 1995,p.16).

Di fronte a tale analisi si evidenzia il dato che ognioggetto, quando viene esposto in un museo, perde i suoiconnotati contestuali per trasformarsi in un’astrazione,acquisendo uno spessore simbolico che è determinatodalla nuova collocazione, e si deve anche ammettere che,pur nella realtà della sua esposizione pubblica e del suosradicamento, ogni oggetto museale, quale che sia ilmuseo in cui è presentato, conserva una distanza, vale adire un’alterità.

Un museo può dunque definirsi funzionante quando

riesce ad esporre il passato in modo costruttivo, agevo-landone la conoscenza e l’utilizzo, ideale o materiale, peri visitatori del presente. La raccolta fine a se stessa, attua-ta al solo scopo di conservare e salvaguardare operedotate di un presunto valore storico, etnografico o arti-stico, è in realtà una pratica sterile. Solo se questa raccol-ta viene proiettata verso il futuro, diventando un puntodi partenza per nuove riflessioni ed idee, può considerar-si realmente indirizzata a rendere funzionante un allesti-mento. In questa prospettiva si pone l’idea che gli ogget-ti contenuti in un museo non debbano necessariamenteessere pezzi unici ed essenziali. In un museo che funzionadevono trovare posto anche oggetti sprovvisti dell’auradi unicità e di eccezionalità, se da questi possono nascerespunti di riflessione utili a comprenderne e decodificarnela storia, fornendo di conseguenza nuovi spunti per pro-gettare il futuro.

Una volta che l’oggetto é stato asportato dal suoambiente naturale viene posto in essere un atto di com-binazione, un atto di messa in scena che coinvolge unaserie di oggetti eterogenei. In questa fase dell’allesti-mento museale assumono naturalmente la massimaimportanza oggetti, come i pannelli esplicativi e le dida-scalie, utili a evidenziare le differenze tra il mondo“reale” e quello dell’esposizione e a fornire allo spetta-tore una nuova definizione dell’oggetto esposto. Queste

parti funzionano come componenti di un codice di rico-noscimento che, oltre a consentire al visitatore l’entratanel mondo dell’esposizione, corrispondono ad un’esem-plificazione del legame che unisce i diversi oggetti espo-sti.

Naturalmente gli oggetti che esplicano l’allestimentomuseale indicano che il curatore del museo ha aggiunto,creato una gerarchia, ordinato, scelto, diviso in categorie;mostrano anche il metodo utilizzato dall’allestitore neltentativo di raggiungere gli obiettivi fissati, e i criteri concui le immagini, gli oggetti ed i testi sono stati combina-ti. Si tratta di un codice esplicativo che ha lo scopo di indi-care come interpretare l’insieme delle opere esposte,costituendo un sistema di ricezione che, attraverso un lin-guaggio comune, aiuta a comprendere ed ad elaboraredei significati, nonchè ad orientare verso il messaggiodell’allestimento. Un’esposizione museale diventa dun-que uno “spazio sintetico” (Davallon, 1999, p.170), sia nelsenso di spazio che riunisce diversi elementi in un insie-me, sia nel senso di spazio artificiale.

L’esposizione, dunque, non è in grado di riprodurrel’immagine fedele della realtà, e deve essere accettata,analizzata e rielaborata secondo la sua vera natura, cioèla finzione. Il visitatore di un museo viene introdotto in

Esposizioni Museali - Museo dell’arte ethnica ( Assemini) - Foto di G. Dichiara

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un mondo trasfigurato, quello dove gli oggetti sono statiseparati e messi in scena. Un mondo caratterizzato da dif-ferenze profonde con il mondo comune, reale e quoti-diano, ma che al contempo mantiene numerose caratte-ristiche della realtà. Da questa articolata esistenza derivail paradosso dell’oggetto esposto, che è contemporanea-mente non solo oggetto reale, dotato di una valenza pra-tica alla quale rimanda con la sua stessa esistenza, maanche oggetto d’esposizione, dunque segnato in ragionedella sua stessa collocazione all’interno dell’esposizione.Sarebbe dunque fondamentale spostare la prospettivadei musei etnografici sardi per renderli capaci di rivolger-si sia ai residenti sia ai numerosi turisti. E’ necessario,infatti, ricordare che il flusso delle visite è attualmentelegato all’andamento del turismo estivo, sintomo di unprogressivo allontanamento dei residenti da tali strutture(Sistema Regionale dei Musei. Piano di Razionalizzazionee Sviluppo, p. 9).

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S e b a s t i a n o

Ma n n i a

C o r t e s

a p e r t a s :

l’ostentazione

della tradizione

e dell’identità

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Tra le tortuose viuzze del centro storico, nel 1996Oliena apre le case e i cortili mettendo in vetrina antichimestieri, prodotti enogastronomici ed artigianali conte-stualizzati in un ambiente naturale incontaminato e riccodi fascino. La manifestazione, riproposta negli anni suc-cessivi, ha dato vita al circuito di cortes apertas. Nel 2003,i paesi coinvolti nell’iniziativa sono nove; nel 2004 aderi-scono al programma Autunno in Barbagia quindici comu-nità; l’anno successivo saranno venticinque e nelle edizio-ni 2006 e 2007 ventotto. Un percorso, ormai più chedecennale, che ha visto partecipare in maniera progressi-va quasi tutti i centri del nuorese. Inoltre, alla manifesta-zione autunnale dei paesi barbaricini è stata affiancataPrimavera in Baronia, nel Marghine e in Ogliastra.L’ultima edizione, quella del 2007, ha avuto il concorso diquattro paesi baroniesi, nove comunità del Marghine equattro centri ogliastrini.

L’adesione dei paesi sardi all’iniziativa ha contribuitoa creare un percorso via via crescente che coinvolge, oltrele comunità, la Camera di Commercio tramite l’AziendaSpeciale Promozione Economica Nuorese, la RegioneSardegna e le amministrazioni provinciali. In alcune edi-zioni, inoltre, hanno partecipato le comunità montane e

i Gal (gruppi di azione locale). Gli obiettivi comuniprincipali sono lo sviluppo delle zone interne, la valo-

rizzazione dei vari comparti economici e dei pro-dotti autoctoni e l’attrazione di flussi turistici con-

sistenti per il decollo delle economie locali.La manifestazione è diventata per gli orga-

nizzatori uno degli appuntamenti maggior-mente attesi all’interno dell’industria turi-

stica. I richiami alla tradizione, alla tipicità,all’identità, alla genuinità, all’autenticità

ecc, indici di sardità, diversi e non con-taminati, secondo un processo annua-

le dal carattere ripetitivo, hannocontribuito alla creazione di unappuntamento divenuto per molti

imperdibile. In questo senso è possibileconstatare che si è fatto «ricorso a materia-

li antichi per costruire tradizioni inventate ditipo nuovo, destinate a fini altrettanto nuovi. Nel

passato di ogni società si accumula una vasta riserva diquesti materiali, ed è sempre facile ripescare il complessolinguaggio di una pratica e di una comunicazione simbo-liche» (Hobsbawm in Hobsbawm, Ranger, 2002, p. 8). ConAutunno in Barbagia, dunque, si è pervenuti adun’«invenzione della tradizione» che è «essenzialmenteun processo di ritualizzazione e formalizzazione caratte-rizzato dal riferimento al passato, se non altro perchéimpone la ripetitività» (ivi, p. 6). In questo modo si ricrea-no nuovi strumenti, linguaggi e simbolismi.

L’utilizzo di tratti culturali tradizionali, inevitabilmen-te mutati e sottoposti a dinamiche di rifunzionalizzazio-ne, vengono utilizzati all’interno di cortes apertas in unprocesso continuo di ostentazione identitaria. Si tratta diun fenomeno amplificato, nonché strumentalizzato eostentato, dalla pubblicità per mezzo di depliants e bro-chures, giornali e reti locali che, tramite l’utilizzo di ste-reotipi e tipizzazioni, esaltano le varie identità sarde,contribuendo a creare nell’immaginario degli eventualivisitatori una visione esotica e autentica, nonché fuorvia-ta, della realtà storica e socio-culturale sarda. I quotidia-ni locali, per esempio, ogni anno ripropongono paginepubblicitarie, programmi e articoli redazionali sulla mani-

festazione.L’ostentazione delle varie identità all’interno del cir-

cuito di cortes apertas porta ad una sorta di reificazioneche, in maniera inevitabile, conduce alla costruzione dinuove identità, secondo il principio per cui «l’identità è diper sé una faccenda da “intelletto tabellesco”, una que-stione di ordinamento delle cose: di “tagli” e “separazio-ni” per un verso e di “assimilazione”, “accostamenti” epersino “fusioni” per un altro» (Remotti, 2003, p. 8). Talefenomenologia è giocata sulla dicotomia identità-alteri-tà, che, in periodi di marcata globalizzazione, esalta lenecessità di appartenenze. Infatti, è proprio l’avanzaredella globalizzazione che causa ogni qualvolta una pauraantropologica che si riversa nella tendenza a salvaguar-dare le varie forme di identità individuali e collettive.Autunno in Barbagia s’inserisce in questo processo ditutela e conservazione di prodotti identitari, etnici,genuini, autentici, ecc, proposti ad un pubblico esterno,in particolare non locale, che ricerca nei microcosmi sug-gestivi di cortes apertas modelli culturali tradizionali. Inquesto senso, la ricerca e l’utilizzo di tratti arcaici in chia-ve nostalgica, la decantazione di «altrove esemplari»,viene proposta per creare una visione tradizionalista difatti culturali in grado di attirare l’attenzione, in partico-lare dei turisti. Per tale motivo, «si può non a torto soste-nere che la narrazione dell’identità sarda fatta ad uso delturista sia in gran parte il frutto di una narrazione mitiz-zata, ove sfilano come in passerella, i tipi rappresentatividell’identità isolana: il pastore, la donna in costume desu-lese, i ballerini de su ballu tundu, o i tenores» (Paulis,2006, p. 31). Come si è già accennato, con cortes apertassi addiviene ad un nuovo universo di valori che passa perla riplasmazione e rifunzionalizzazione di specifici tratticulturali. Si perviene, dunque, non solo alla trasformazio-ne e, quindi, alla riscrittura della tradizione, ma si arriva,anche, alla creazione di una nuova identità secondo ilprincipio per cui l’identità stessa «viene sempre, in qual-che modo, “costruita” o “inventata”» (Remotti, 2003, p.5). Si tratta di un processo mutevole in cui concorre, spes-so, l’industria turistica, secondo i modelli di sviluppo turi-stico, soprattutto se si considera che «nel caso particolaredella Sardegna il turismo etnico, riprendendo l’anticotopos della Barbagia pastorale come area resistenziale,chiusa alle incursioni e refrattaria al cambiamento, predi-lige decisamente le zone dell’interno. Quasi in una sortadi sineddoche, così, la Barbagia viene identificata con lavera Sardegna, e il pastore è fatto coincidere con il deten-tore dei tratti costitutivi dell’identità locale» (Paulis,2006, p. 29).

Sulla base di quest’assunto, per esempio, il pastorali-smo viene elevato dagli organizzatori di cortes apertas aduno dei tratti fondamentali delle identità locali. Nei pro-grammi dell’edizione 2007 della manifestazione rientra-va la mostra esposta a Bitti dal titolo lamas, i vecchi con-tenitori per il latte, atta a rimarcare l’identità pastoraledei bittesi. Così a Fonni uno dei motivi principali d’attra-zione è stato il museo sul pastoralismo; nel calendario diOliena rientrava una mostra su “Pastori, saperi e tradi-zioni”, mentre ad Ovodda ed Osidda si è prevista un’e-sposizione per rappresentare la filiera del latte. La pagi-na pubblicitaria del quotidiano «La Nuova Sardegna» percortes apertas a Gavoi e Ollolai tra le altre cose ha scritto:«Se vuoi conoscere la Barbagia trascorri il fine settimanaa Gavoi e Ollolai. Le manifestazioni Ospitalità nel cuoredella Barbagia e Pastores e Tenores ti faranno vivere tre

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giorni immerso nella natura incontaminata, ascoltando lemelodie dei canti a tenore, gustando i sapori dei piattidel Pastoralismo e conoscendo la cultura millenariapastorale della Sardegna centrale» (La Nuova Sardegna, 3ottobre 2007).

La natura incontaminata, le ricchezze della monta-gna, i centri storici architettonicamente intatti, ecc, costi-tuiscono lo sfondo naturale, esistente e ostentato, in cuisi svolge la manifestazione. Infatti, un ruolo di primopiano nell’ostentazione identitaria di cortes apertas èsvolto dal luogo in cui ha sede la rassegna. A tale riguar-do viene richiamato lo spazio comunitario quale raccogli-tore di un insieme di tratti culturali specifici, differente,

per esempio, da quello delle comunità vicine. In questosenso, l’opposizione identità-alterità è esplicitamenterimarcata, soprattutto se si tiene conto che «l’identità [...]si costruisce a scapito dell’alterità» (Remotti, 2003, p. 61).Allo spazio del paese si associa lo spazio delle cortes chesi presentano quali segni di architettura popolare cheseparano il privato della casa dal pubblico della strada edel vicinato. Come sostiene Maria Margherita Satta, cheriprende l’antropologo Marc Augé, «è quasi superfluoaffermare che una rilevazione sull’identità si lega stretta-

mente a quella di luogo. Il luogo, secondo Marc Augé, èuna costruzione concreta e simbolica dello spazio, costi-tuisce il principio di senso per coloro che l’abitano e ilprincipio di intelligibilità per colui che l’osserva. In un’e-poca di perdita del centro e del proliferare di non luoghiche tentano di invadere anche lo spazio dei luoghi tradi-zionali, l’identità può essere un modo per riaffermare ase stessi e agli altri, la natura autentica del proprio spa-zio, cercando materialmente di recuperare terreno con-tro una modernità forse rifiutata nei suoi aspetti sperso-nalizzanti» (Augé 2001) ( Satta in AA.VV., 2007, p. 47).

Le cortes, un tempo luogo-contenitore di strumentidella cultura agro-pastrorale, nonché ricovero per gli ani-

mali e spazio in cui svolgere le attivitàdomestiche, assumono, attualmente, lafunzione di raccoglitore di oggetti della

cultura materiale degli artigiani locali, prodotti agroali-mentari, ecc, destinati ai visitatori. Le cortes non sono piùspazi intimi familiari, ma luoghi pubblici, quasi dei nego-zi, che esibiscono determinati prodotti destinati alla ven-dita. I cortili, inoltre, assurgono a scenario rifunzionaliz-zato in cui vengono rappresentati i mestieri tradizionali,ormai scomparsi, quali la lavorazione della lana, la treb-biatura, la pulizia e la raccolta del grano, ecc. Ad Orotelli,per esempio, al centro della rassegna è stata sa domo desu massaiu (la casa del contadino) dove si è messo in scena

Assemini Cortes Apertas (2004) - Foto M.C. Deidda

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il ciclo del grano, dall’aratura al rac-colto. Non a caso la manifestazionetitola Cortes de terra ’e oro (cortili diterra d’oro).

È possibile constatare che ciò cheviene esibito all’interno dei program-mi di cortes apertas è la spettacola-rizzazione di attività economico-pro-duttive passate, momenti festivi qualiil ballo comunitario, ecc, che, inquanto performance prevalentemen-te richieste dal gusto dell’industriaturistica, vengono rielaborate in chia-ve mitopoietica per la rappresenta-zione ad un pubblico. Ne costituisceappunto esempio il ballo sardo cheha un ruolo centrale nella costruzio-ne dell’identità collettiva; infatti, lacultura isolana lo eleva a uno deitratti portanti dell’identità. La mimi-ca del ballo, espressa in performancedai gruppi folkloristici in occasione dicortes apertas, rappresenta il ballopopolare locale, decontestualizzatodal momento straordinario festivodella comunità, innovato, spettacco-larizzato e ostentato come trattoidentitario-tradizionale per l’intrat-tenimento di un pubblico in preva-lenza turistico.

Tra le varie pratiche rituali rap-presentate in chiave passata e tradi-zionale rientra il matrimonio (Gavoi,Oliena, Fonni, Tonara, ecc), i doni e icerimoniali del battesimo (Fonni,Austis, ecc), e, più in generale, tutti i«riti di passaggio» del ciclo della vita.

Spazi particolari e distintivi sonoriservati alle donne. L’universo dome-stico sardo è caratterizzato dall’onni-presenza della donna, la sovranadella casa, che, con le mansioni pro-prie dell’ambito domestico, costrui-sce un mondo quasi a sé stante, riccodi cultura, con tratti e caratterizza-zioni specifici. All’interno di cortesapertas la donna riveste un ruolofondamentale. Quale detentrice disaperi e realizzatrice di pratichecostruisce un universo simbolicorifunzionalizzato in chiave identita-ria per l’ostentazione di tratti cultu-rali in parte tramandati. Così, adOrgosolo rientra nel programmadella manifestazione la lavorazionedella seta in tutti i suoi processi, tra-mas de seda (trame di seta); aMamoiada si presenterà il lavaggiodel corredo, sa vohada, secondo iprocedimenti tradizionali eseguiticon la cenere; a Nuoro verrà realizza-to su filindeu; a Desulo verrà mostra-ta la lavorazione della cera e la rea-lizzazione di candele. Più in generale,le donne, generalmente vestite con

gli abiti tradizionali, mostreranno larealizzazione di dolci, la preparazio-ne e la cottura del pane, la tessituradi tappeti e altri manufatti, ecc.Suscitano un’attenzione particolarele donne che creano e ricamano partidell’abbigliamento tradizionale. Aquesto proposito è opportuno ricor-dare che l’abito rappresenta un altropotente demarcatore d’identità la cuifunzione è stata completamenteriscritta. In passato contrassegnavadistinzioni di ceto, di appartenenzacomunitaria, di condizione civile,nonché avere finalità pratico-esteti-che. Attualmente assurge, tramitereimpostazione simbolico-identitaria,a modello tradizionale-culturale daesibire in occasione di manifestazionifolkloristiche.

Tra le altre qualità che caratteriz-zano e connotano le configurazioniidentitarie dei paesi del nuorese rien-tra l’ospitalità. L’essere ospitali è untratto spesso richiamato in slogans,depliants, articoli di giornale, ecc, perattirare l’attenzione dei visitatori;viene palesato con frasi ad effettoquali: “un’ospitalità senza confini”,oppure definito: «segno del marcatosenso dell’ospitalità che contraddi-stingue il popolo sardo, del centro inparticolare» (La Nuova Sardegna, 17novembre 2007). E ancora, «ciò checolpisce è l’abbraccio che ogni comu-nità regala ai visitatori, nel dedalo diofferte da vivere con la curiosità diospiti accolti nell’autenticità»(Lacanas, n°16, 2005, p. 24).

All’interno della manifestazioneAutunno in Barbagia, l’enogastrono-mia riveste una componente fonda-mentale nella costruzione ed osten-tazione della varie forme d’identità,in quanto racchiude valenze econo-miche, sociali, culturali e, sempre più,politiche. L’importanza dei prodottialimentari risiede nella valenza iden-titaria espressa dai gruppi sociali cheli produce: individuali e/o collettivi.Tale funzione è ancor più evidente sesi considera che il cibo esprime lacaratterizzazione alimentare di undeterminato gruppo o comunità, for-mandone quindi l’identità e, allostesso tempo, separandola dall’alteri-tà. In questo senso, a cortes apertas, iprodotti enogastronomici svolgonoun ruolo fondamentale nella distin-zione dell’identità comunitaria, evi-denziandone le appartenenze. I pro-dotti alimentari, nel circuito diAutunno in Barbagia, azionano neivisitatori la ricerca del genuino, deltipico, che si riscontra negli alimenti

sponsorizzati come autentici, indicedi una sardità diversa e non contami-nata e realizzati secondo i dettamidella tradizione. L’enogastronomia,così come tutte le altre produzioni, ciriporta alla nozione di luogo e diidentità di luoghi, in quanto undeterminato prodotto, carico dellasua valenza identitaria, è espressionedel territorio che lo produce. È rap-presentativo in questa direzione ilsettore vinicolo. In particolar modo,ad Oliena ed Atzara il vino rappre-senta un prodotto storico dell’econo-mia e della cultura di questi centri.

Il pastoralismo, gli antichi mestie-ri, i saperi e le pratiche delle donne e,più in generale, tutti gli indicatoriidentitari sovraesposti costituisconosoltanto alcuni elementi della vastafenomenologia che sottende cortesapertas.

La manifestazione Autunno inBarbagia mette in discussione alcunipunti, tra i più incisivi, affrontati daldibattito antropologico contempora-neo. Identità, alterità e tradizione necostituiscono qualche esempio. Laprima, sottoposta a continua nego-ziazione, porta ogni qualvolta allacostruzione di nuove identità. In que-sto senso, l’identità preesistente èsempre messa in gioco. Le identitàsono dei «costrutti culturali», o degli«artefatti», utili per la legittimazionedi fenomeni non solo socio-culturali,ma anche politici ed economici. Al-l’interno di questa fenomenologia levarie identità vengono richiamatequando bisogna affermare una mani-festazione, come Autunno in Barba-gia, eventi folkloristici, ecc. Il richia-mo e i riferimenti all’identità sono as-sunti, da chi opera tale appello, acompletamento della propria realtàculturale, mostrando come la stessaidentità sia un qualcosa di «irrinun-ciabile». In questo processo sono ob-bligatori i richiami al passato che«serve talvolta a ricreare tutto ununiverso che presenta, agli occhi deicontemporanei, sufficienti garanziedi “autenticità” per trarne una tradi-zione e stabilirlo come referente»(Lenclud in Clemente, Mugnaini,2002, p. 132).

Proporre e ostentare le identità acortes apertas significa rifarsi ad unatradizione giunta dal passato, spessoritenuta pura, ma per contro innova-ta, contaminata, sincretica, ecc, peressere innalzata a identità. Tale mec-canismo evidenzia una contraddizio-ne, rilevata da Pietro Clemente,secondo cui, «l’aspetto più parados-

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sale delle rivendicazioni di identità è che vengono pro-dotte dai cambiamenti ma si producono come rappresen-tazioni che negano il cambiamento» (Clemente inAA.VV., 2007, p. 217).

I prodotti artigianali, quelli enogastronomici e, più ingenerale, i prodotti esposti nell’ambito di cortes apertassono manipolati e strumentalizzati al fine di attrarre ituristi, ed è propriamente il processo di turisticizzazione,creando globalizzazione, a rinegoziare i modelli identita-ri. In pratica, tutto ciò che viene esposto in occasione diAutunno in Barbagia può essere interiorizzato da coloroche partecipano alla manifestazione. Questo processoglobalizzante, tramite importazioni ed esportazioni cul-turali, apporta delle diversità che sono inevitabilmente incambiamento. Si tratta di un processo che conduce ogni-qualvolta alla ridefinizione, riscrittura e affermazione dinuovi codici culturali e quindi a nuove tradizioni e identità.

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