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L'ominazione

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

di Giacomo Giacobini, Phillip V. Tobias, Bernard Wood, Silvana Condemi L'ominazione GLI SVILUPPI DELL'ANTROPOLOGIA E DELL'ANTROPOMETRIA Nel corso della prima metà dell'Ottocento la maggior parte degli ambienti scientifici era caratterizzata da una concezione tradizionale dell'uomo, fissista e creazionista, che non percepiva l'importanza delle idee di Lamarck. L'interesse scientifico per la nostra specie era dominato dall'interesse per la variabilità geografica della forma umana, che già aveva trovato in Buffon un attento osservatore. L'originaria sistematica di Linneo, che identificava quattro varietà umane distribuite in Europa, Asia, Africa e America, distinte per caratteristiche fisiche, psicologiche, etnografiche e sociali, venne gradualmente resa più complessa. Nel corso della seconda metà del Settecento vari altri autori, tra cui I. Kant, avevano proposto classificazioni delle razze umane; fu tuttavia con l'opera di Blumenbach De generis humani varietate nativa, pubblicata a Göttingen nel 1775 (e in una terza edizione, più articolata, nel 1795), che nacque una vera storia naturale dell'uomo. In quest'opera Blumenbach propose una definizione essenziale dell'uomo, erectus et bimanus, integrata da una descrizione basata su un'attenta considerazione dell'aspetto esterno e delle caratteristiche anatomiche, fisiologiche e psicologiche. In base alla valutazione di queste caratteristiche, propose di collocare l'uomo in un ordine suo proprio, quello dei bimani. Propose inoltre una classificazione in cinque razze (caucasica, mongolica, etiopica, americana e malese), ognuna ulteriormente suddivisa in sottogruppi, fornendo di ciascuna una minuziosa descrizione. Si trattava, in pratica, della classificazione in quattro varietà geografiche già proposta da Linneo, alla quale veniva aggiunta la razza malese. Alla fine del Settecento questo interesse per la sistematica delle varietà umane si associò allo sviluppo dell'antropometria, che con Camper e con Blumenbach iniziò a codificare misurazioni angolari e lineari del cranio e degli altri distretti scheletrici, integrando le osservazioni descrittive con dati quantitativi e rendendo quindi più oggettiva l'antropologia fisica. Per distinguere l'uomo dalle scimmie antropomorfe e per suddividerlo in gruppi (razze o addirittura specie) diversi, alcuni autori utilizzarono quindi metodi quantitativi. Secondo Camper, ideatore della misurazione dell'angolo facciale (che esprime il grado di proiezione in avanti della faccia), l'uomo è caratterizzato da valori variabili tra 70° e 80° nelle diverse razze, da quelle "inferiori" al tipo "europeo", con un'ideale irraggiungibile di 100° nel tipo "greco", attestato in campo artistico. Angoli più bassi sono tipici degli (altri) animali: l'orango ha un valore di 58°, mentre le scimmie africane non antropomorfe hanno un angolo di poco più di 40°. Per J.-J. Virey, che divideva l'uomo in due specie (a loro volta suddivise in sei razze), la "prima specie" (comprendente le razze bianca, gialla, ramata e bruno-scura) sarebbe stata caratterizzata da un angolo facciale di 85°-90°, la "seconda specie" (comprendente le razze nera e nerastra) da un angolo di 75°-80°. Per Camper e per Virey l'angolo facciale diveniva così una sorta di "zoometro", che avrebbe consentito di valutare il grado di animalità, e inversamente quello di umanità, di una specie. A seguito dei lavori di P. Camper e J.F. Blumenbach e, successivamente, di J.C. Prichard, L.-J.-M. Daubenton, E. Geoffroy de Saint-Hilaire, G. Cuvier e vari altri autori, la craniometria si sviluppò rapidamente, cosicché intorno alla metà dell'Ottocento gli studi craniologici prevedevano una decina di misurazioni diverse. Un'innovazione di particolare importanza craniometrica e tassonomica fu rappresentata dal calcolo del rapporto tra lunghezza e larghezza massime del cranio (indice cranico orizzontale). L'ideatore di questo indice, lo svedese A. Retzius, distinse così individui brachicefali e dolicocefali, caratterizzati rispettivamente da cranio corto e allungato. Questa innovazione, di rilevante interesse antropometrico, avrebbe avuto importanza notevole anche nel dibattito sull'interpretazione dei primi (reali e supposti) fossili umani scoperti all'inizio della seconda metà del secolo. Aveva infatti acquisito ampio consenso in quegli anni la cosiddetta "ipotesi di Retzius", sviluppata integrando dati linguistici, archeologici, storici e antropologici. Secondo questa ipotesi, l'Europa sarebbe stata popolata, durante l'età della pietra, da genti autoctone brachicefale. In seguito, il territorio europeo sarebbe stato invaso da una massiccia migrazione di genti dolicocefale "ariane", provenienti dall'Asia e apportatrici di un linguaggio di tipo indoeuropeo, che avrebbero introdotto in Europa l'età del Bronzo. Secondo Retzius, questa ipotesi sarebbe stata confermata dal fatto che gli attuali Baschi e Finnici, caratterizzati da un

linguaggio estraneo al gruppo indoeuropeo (e quindi da considerare come relitti della popolazione europea autoctona), presentano un cranio corto. Tale ipotesi, di cui P. Broca dimostrò l'infondatezza nel 1867, avrebbe rappresentato uno dei principali argomenti invocati contro l'accettazione dell'alta antichità di reperti, come quelli di Neandertal ed Engis, caratterizzati da un cranio allungato. L'interesse per un'antropologia obiettiva, basata su rigorose osservazioni quantitative, si diffuse rapidamente, favorendo la creazione di importanti collezioni craniologiche. Nel 1859 la fondazione della Société d'Anthropologie de Paris celebrò il consolidarsi della disciplina, creando un'istituzione di importanza internazionale che, nello stesso anno, ebbe fra i principali argomenti di dibattito la question de l'homme fossile, sollevata dalle scoperte di J. Boucher de Perthes. MONOGENISTI E POLIGENISTI Il dibattito sulla valutazione e sulla sistematica della variabilità umana coinvolse inevitabilmente il problema dell'unità o pluralità dell'origine della nostra specie. Questo dibattito, precedentemente oggetto di un sapere filosofico e religioso, nella prima metà dell'Ottocento coinvolse in modo molto vivace anche gli ambienti scientifici. Secondo i monogenisti, da un'unica coppia umana sarebbe derivata (per evoluzione, piuttosto che per degenerazione) tutta l'umanità successiva, che avrebbe gradualmente sviluppato, migrando nei diversi territori, caratteri fisici adatti ai vari climi. In base al racconto biblico, gli episodi di dispersione del genere umano, in origine unitario, sarebbero stati tre: l'esilio di Caino nel Paese di Nod, a est dell'Eden; la migrazione dei discendenti dei figli di Noè dopo il Diluvio; l'episodio della Torre di Babele. Secondo i poligenisti varie coppie umane già differenziate per caratteristiche fisiche e psicologiche e adattate ai diversi ambienti sarebbero state create fin dall'inizio. Trasferito in ambienti scientifici, il dibattito assunse toni spesso polemici, mettendo in discussione non soltanto l'unità di origine della specie Homo sapiens, ma evidentemente anche la sua stessa unità biologica. Infatti molti poligenisti, rifiutando di riconoscere che l'interfecondità rappresenti un criterio di appartenenza alla stessa specie, ritenevano che le popolazioni umane viventi dovessero essere distribuite in specie distinte, tutte riferite al genere Homo. Nel corso della prima metà dell'Ottocento questi autori usarono, spesso senza un preciso significato tassonomico, i termini "specie", "razza" e "varietà", ma sempre per indicare gruppi separati da un'origine distinta. Alcuni studiosi di grande influenza, come G. Cuvier, B.-G.-É. de Lacépède, J.C. Prichard e W. Lawrence, presero posizione a favore del monogenismo e dell'unità della specie umana. La posizione di Cuvier appare particolarmente tradizionalista e guidata dal suo forte sentimento religioso, in quanto le tre razze (bianca, gialla e nera) in cui egli distinse la specie umana paiono voler corrispondere a quelle considerate dalla tradizione biblica come discendenti dei tre figli di Noè. Il primo autore di ambito scientifico a sostenere il poligenismo fu J.-J. Virey (1802), al quale seguirono G. Bory de Saint-Vincent, A. Desmoulins, K.A. Rudolphi, S.G. Morton, L. Agassiz e altri, che elaborarono ipotesi poligeniste differenti, basate sull'identificazione di un numero variabile di specie umane. TRADIZIONE BIBLICA E FOSSILI: IL PROBLEMA DELLE ORIGINI UMANE All'inizio della seconda metà dell'Ottocento lo studio dell'uomo dal punto di vista della storia naturale appare quindi ben sviluppato secondo due direzioni principali. Un primo aspetto è di interesse zoologico e riguarda la posizione sistematica della specie umana all'interno del mondo animale e i suoi rapporti con le scimmie. Un secondo punto di discussione è di natura antropologica e anatomica e concerne l'unità e la diversità umane e quindi la possibilità o meno di suddividere la forma umana attuale in unità tassonomiche (razze o addirittura specie) diverse. Appare tuttavia ancora sostanzialmente estraneo all'indagine scientifica e relegato a speculazioni di tipo filosofico e religioso un terzo problema, quello delle origini. La sequenza delle "tre età" (della pietra, del bronzo e del ferro) proposta da C.J. Thomsen nel 1819 era compresa entro un arco di tempo di poche migliaia di anni e dunque compatibile con la narrazione biblica, dal momento che l'età della pietra da lui definita si riferiva solo a quello che sarebbe stato poi denominato Neolitico. La scoperta di reperti dimostrativi di una presenza umana contemporanea a quella di animali oggi estinti veniva quindi accolta con ostilità o con indifferenza da una comunità scientifica che aveva nel complesso rifiutato le idee di Lamarck sull'evoluzione dei viventi e sull'origine dell'uomo. Intorno al 1850 il progredire delle conoscenze geologiche e paleontologiche rese sempre più farraginoso l'inquadramento delle serie fossili animali in un sistema compatibile con la tradizione biblica. In ambienti scientifici e soprattutto religiosi vennero pubblicati in quegli anni numerosi Esameroni o Cosmogonie che tentavano, talvolta in modo molto intricato, di adattare i dati paleontologici al racconto dei sei giorni della Creazione. Le principali teorie interpretative erano tre: quella letterale, secondo cui i giorni genesiaci dovevano effettivamente essere considerati periodi di 24 ore;

quella concordistica, secondo cui i giorni corrispondevano ad altrettante epoche geologiche; quella ideale, secondo cui i sei giorni della Creazione avrebbero corrisposto ad altrettante "idee" nella mente del Creatore. Tutte queste cosmogonie prevedevano comunque che l'uomo fosse comparso con l'ultimo atto creativo ed escludevano quindi, in accordo con le convinzioni scientifiche di Cuvier e della sua scuola, la possibilità di ritrovamento di fossili umani. Escludevano cioè che forme umane primitive fossero vissute contemporaneamente ad animali oggi estinti. Cuvier stesso aveva dimostrato che alcuni reperti umani ritenuti fossili erano in realtà o recenti oppure da attribuire ad altri animali. Il caso più noto era il cosiddetto Homo diluvii testis, descritto dal medico e canonico zurighese J.J. Scheuchtzer nel 1726 e citato anche da Linneo, che in realtà era lo scheletro di una salamandra gigante fossile. Nel corso della prima metà dell'Ottocento, tuttavia, alcune scoperte non riconosciute dalla comunità scientifica avevano già messo in evidenza la contemporaneità dell'uomo con animali oggi estinti. Due sono i casi più noti e significativi, consistenti rispettivamente nella scoperta di un cranio umano fossile e di manufatti paleolitici. Il primo esempio è quello della scoperta, avvenuta ad opera di Ph.Ch. Schmerling e da lui pubblicata nel 1833, di un cranio umano infantile, poi riconosciuto come neandertaliano, nella Caverna di Engis, presso Liegi; il reperto era associato a resti di orso delle caverne e di rinoceronte. Il secondo esempio è quello della scoperta, effettuata da J. Boucher de Perthes fin dal 1838 nei depositi alluvionali della Somme, di una numerosa serie di manufatti litici da lui ritenuti "asce diluviane", in associazione con resti di specie estinte di elefante, rinoceronte e bisonte. Tra il 1850 e il 1860 nell'ambito della comunità scientifica si diffusero sempre più dubbi sulla immutabilità delle specie, associati a una crescente presa di coscienza della incompatibilità del racconto biblico con i dati paleontologici. Questa maturazione di pensiero, associata a nuove scoperte, portò alla fine del decennio al riconoscimento ufficiale, da parte di alcuni ambienti scientifici, dell'esistenza dell'uomo fossile. DARWINISMO E FOSSILI UMANI Il 24 novembre 1859 Ch. Darwin pubblicò a Londra On the Origin of Species by Means of Natural Selection, fornendo così gli strumenti concettuali necessari per interpretare l'evoluzione dei viventi. L'unico cenno al problema dell'uomo nell'opera, volutamente trascurato da Darwin per la sua pericolosità, consiste nella frase "molta luce sarà fatta sull'origine dell'uomo e sulla sua storia", posta nel capitolo conclusivo. Nello stesso anno 1859 alcune personalità del mondo scientifico inglese, tra cui in particolare H. Falconer, Ch. Lyell e J. Prestwich, che avevano visitato i siti di raccolta di J. Boucher de Perthes, si pronunciarono a favore delle sue idee sull'antichità dell'uomo preistorico. Nel contempo, si andava diffondendo la notizia del ritrovamento, avvenuto tre anni prima nella valle di Neander, presso Düsseldorf, di uno scheletro umano il cui cranio colpiva per la presenza di caratteristiche "scimmiesche". Iniziò così un'epoca in cui il fervore per la ricerca di testimonianze culturali e scheletriche dell'esistenza di popolazioni umane molto antiche portò all'identificazione di sequenze culturali paleolitiche associate in modo sempre più preciso a forme umane fossili, la cui morfologia si andava gradatamente definendo. Nel 1868 la scoperta di cinque scheletri avvenuta nel Riparo di Cro-Magnon, nel villaggio di Les Eyzies-de-Tayac in Dordogna, permise di conoscere il tipo umano classico del Paleolitico superiore europeo, mentre la scoperta di due scheletri neandertaliani quasi completi avvenuta nel 1886 nella Grotta di Spy, presso Namur, consentì di definire meglio l'anatomia scheletrica dell'uomo di Neandertal, associandolo inoltre a quell'industria del Paleolitico medio descritta nel 1869 da G. de Mortillet e denominata Musteriano. Nel 1891 la scoperta da parte del medico olandese E. Dubois del Pitecantropo di Giava, oggi compreso nella specie Homo erectus, iniziò, pur sulla base di resti frammentari, a fornire un'idea dell'aspetto fisico di popolazioni ancora più antiche dell'uomo di Neandertal. Il concetto di uomo, in questa prima fase di indagine sull'anatomia e sulla cultura materiale dell'umanità paleolitica, è caratterizzato da una tendenza ad accentuare il divario tra l'uomo attuale e quello primitivo. Si tratta di una tendenza che sarà molto diffusa nelle trattazioni scientifiche, e ancor più nella letteratura divulgativa, fino all'inizio del Novecento con varie giustificazioni. Innanzitutto l'entusiasmo per il darwinismo, teoria che acquistava crescente consenso, e la fiducia in una scienza libera da imposizioni facevano sperare di poter ricostruire rapidamente una storia paleontologica dell'evoluzione umana, inducendo talvolta a dare eccessiva importanza ai caratteri di primitività individuati sui fossili umani via via scoperti. La polemica antidarwiniana, sviluppatasi in alcuni ambienti filosofici, religiosi e anche scientifici, indusse molti ricercatori a reagire, enfatizzando in modo anche provocatorio i rapporti di parentela con le scimmie, sottolineando le caratteristiche "pitecoidi" presenti sui fossili umani e "bestializzando" così le forme umane più antiche. Inoltre, gli studiosi di paleontologia umana e di archeologia preistorica degli ultimi decenni dell'Ottocento,

che erano fortemente influenzati dal pensiero positivista, manifestavano la tendenza a distribuire le diverse forme umane del passato secondo una regolare curva ascendente, divenuta sempre più rapida nei tempi protostorici e storici grazie allo sviluppo della tecnologia e della conoscenza. Secondo il modello di sviluppo sociale pubblicato da L. Morgan nel 1877, questa evoluzione dallo stadio "selvaggio" allo stadio "barbarico" e, quindi, a quello "civile" sarebbe avvenuta in modo ineluttabile e indipendente dalle condizioni ambientali. Questo complesso di pregiudizi appare con evidenza leggendo alcune descrizioni dell'epoca relative all'aspetto fisico e al modo di vita del Pitecantropo, dell'uomo di Neandertal e perfino dei più moderni uomini di Cro-Magnon. Si tratta di descrizioni in cui ricorrono i termini "scimmiesco", "pitecoide", "bestiale", "rudimentale", "sgraziato". Molti ricercatori erano reticenti ad ammettere la piena umanità di questi antenati, sia dal punto di vista delle caratteristiche fisiche, sia da quello del comportamento. La descrizione classica dell'uomo di Neandertal proposta da P.-M. Boule risente di questi pregiudizi, insistendo sui suoi caratteri primitivi e presentandolo erroneamente come un essere dotato di una stazione eretta non perfetta e di un'andatura goffa. Ma anche nelle ricostruzioni del comportamento i preconcetti intervenivano decisamente. Lo stesso Boule, ancora a proposito dell'uomo di Neandertal, sottolineava come i suoi caratteri fisici fossero "in armonia con quanto l'archeologia ci dimostra per quanto riguarda le sue attitudini corporali, il suo psichismo e i suoi costumi. Non esiste quasi industria più rudimentale e più miserabile (...) di quella del nostro Uomo musteriano". È una descrizione che incontrò l'approvazione di molti colleghi, come il londinese G.E. Smith, che la definì "un quadro ben definito del rozzo e repellente uomo di Neandertal". Anche il riconoscimento di pratiche di sepoltura nel corso del Paleolitico, dimostrate per quanto riguarda il Paleolitico superiore già nel 1868 dalla scoperta degli scheletri del Riparo di Cro-Magnon, soffriva di questi pregiudizi. L'interpretazione di una delle prime sepolture paleolitiche dotate di corredo funerario venute alla luce, quella del cosiddetto "uomo di Mentone" scoperto da E. Rivière nella Grotta del Caviglione ai Balzi Rossi (Ventimiglia) nel 1872, risente di questo modo di pensare: lo scheletro venne descritto come quello di un individuo morto nel sonno e rapidamente ricoperto dal sedimento. Nel 1874, sei anni dopo la scoperta degli scheletri di Cro-Magnon, G. de Mortillet metteva ancora in dubbio la loro antichità, non potendo accettare l'idea che uomini paleolitici avessero sepolto cadaveri di propri simili. In alcuni ricercatori, preconcetti di questo tipo trovavano motivazioni anticlericali connesse con il rifiuto di riconoscere comportamenti che potessero essere interpretati come un nascente senso religioso presso le popolazioni paleolitiche. Ancora nel 1921, lo scheletro neandertaliano di La Chapelle-aux-Saints, scoperto nel 1908 in Corrèze, venne lugamente e accuratamente descritto da Boule nel suo famoso trattato Les hommes fossiles: dopo aver insistito sulle ottime condizioni di conservazione dello scheletro e aver notato che esso giaceva all'interno di una fossa scavata nel fondo della grotta, lo studioso aggiunse semplicemente che, secondo gli scopritori, "l'uomo di cui essi hanno ritrovato lo scheletro è stato sepolto intenzionalmente", senza commentare oltre questo aspetto della scoperta, di cui solo più tardi sarebbe stato riconosciuto l'eccezionale interesse paleoantropologico. I pregiudizi che facevano insistere sulla primitività degli uomini paleolitici emersero fortissimi, per altri aspetti, nel 1880, in occasione della pubblicazione del volume sulle pitture preistoriche scoperte due anni prima ad Altamira, quando l'autore, M. de Sautuola, venne accusato di aver falsificato le opere d'arte da lui descritte nella grotta. Solo scoperte successive, di inequivocabile interpretazione, obbligarono il mondo dell'archeologia preistorica ad accettare nel 1901 l'evidenza dei fatti. LE RADICI DEL DIBATTITO PALEOANTROPOLOGICO ATTUALE Le ricostruzioni realizzate da artisti, che spesso fedelmente traducono le idee o le mode scientifiche del momento, ci mostrano all'inizio del Novecento raffigurazioni di uomini del Paleolitico superiore con aspetto fisico moderno ed "europeo" e con abbigliamento, armi e utensili ispirati a quelli delle genti "primitive" attuali e subattuali. Il riconoscimento della loro capacità di produrre opere d'arte di impressionante modernità e bellezza e la scoperta di un crescente numero di sepolture con corredo avevano ormai definitivamente trasformato queste genti in nostri antenati diretti. Negli anni 1908-1911 una serie fortunata di scoperte avvenute tra la Dordogna e la Corrèze portò al ritrovamento di cinque scheletri quasi completi di Nean-dertaliani. Sulla base dello scheletro di La Chapelle-aux-Saints, P.- M. Boule pubblicò così una descrizione accurata della morfologia scheletrica di questa forma umana, associata alla prima ricostruzione del volto effettuata con metodo scientifico, utilizzando le tecniche della medicina legale. Ne risultava una concezione dell'uomo di Neandertal di forte primitività, che lo distaccava nettamente dai nostri antenati del Paleolitico superiore. Iniziò così a porsi in modo preciso la domanda, ancora attuale, su quali fossero stati gli antenati delle genti del Paleolitico superiore europeo, ritenendo che i Neandertaliani rappresentassero un

ramo collaterale estinto. E, ancor più, ci si domandò se quei pochi fossili umani più antichi dei Neandertaliani che allora erano noti, dal Pitecantropo di Giava alla mandibola di Mauer, fossero direttamente ancestrali rispetto all'umanità moderna, o se piuttosto anch'essi rappresentassero rami collaterali. Nel 1912 la scoperta dei resti di Piltdown parve rispondere a queste domande, confermando illusoriamente un'ipotesi già proposta da sir Arthur Keith nel 1910 in base a un riesame dello scheletro di Galley Hill, in realtà recente ma da lui riferito al Pleistocene inferiore. L'ipotesi prevedeva che gli antenati diretti dell'uomo moderno avessero già avuto in tempi molto remoti un grande cervello, come in effetti risultò evidente nell'uomo di Piltdown, Eoanthropus dawsoni. La concezione di un uomo delle origini caratterizzato da un grande cervello avrebbe avuto un'influenza importantissima sull'interpretazione dei fossili umani più antichi e sulla ricostruzione della linea evolutiva ominide fino al 1950, anno in cui K. Oakley pubblicò i suoi dosaggi di fluoro svelando il falso di Piltdown. Il rifiuto di Australopithecus africanus da parte della comunità scientifica, durato dal 1925, anno della pubblicazione della prima scoperta da parte di R.A. Dart, fino all'inizio degli anni Cinquanta, è la conseguenza più importante dell'ipotesi elaborata da Keith e dell'interpretazione del reperto di Piltdown. Ma anche il lungo dibattito avvenuto negli anni Settanta sulla iniziale datazione a 2,6 milioni di anni del cranio KNM-ER 1470, e quindi sulla presunta esistenza di una forma ancestrale di Homo a volume cranico elevato, contemporanea ad australopiteci molto antichi, è in fondo una conseguenza delle convinzioni di Richard Leakey (come già del padre Louis) sul ruolo collaterale degli australopiteci nel processo evolutivo umano. L'episodio dell'uomo di Piltdown è esemplificativo di un altro tipo di pregiudizi scientifici, legati a una concezione eurocentrica dell'evoluzione umana. Nel corso dell'Ottocento e all'inizio del Novecento, la serie di scoperte effettuate in Europa indusse a stabilire sequenze evolutive dei tipi umani e delle industrie paleolitiche basate su serie europee e applicate, talvolta in modo acritico, agli altri territori. Al volgere del secolo alcuni studi suggerirono addirittura di riconoscere in scheletri del Paleolitico superiore europeo non solo forme ancestrali di popolazioni locali successive, ma anche reperti con affinità esquimesi (uomo di Chancelade) e africane ("negroidi" di Grimaldi). Ma il caso di Piltdown è anche esemplificativo del desiderio di identificare in Europa radici molto antiche dell'umanità moderna, caratterizzate dal tratto più nobile dell'anatomia dell'uomo attuale: le grandi dimensioni e la complicazione dell'architettura del cervello. Nella prima metà del Novecento, in cui l'uomo di Piltdown influenzava le ricostruzioni di sequenze filogenetiche, le interpretazioni di anatomia evolutiva e anche l'attribuzione di uno status ominide a fossili africani molto antichi, la concezione dell'umanità paleolitica si presentava comunque eterogenea all'interno della comunità scientifica. Si svilupparono correnti di pensiero che vedevano nell'uomo di Neandertal un antenato diretto dell'uomo moderno, caratterizzato da manifestazioni culturali relativamente ricche. L'antropologo A. Hrdlička, critico nei confronti dell'uomo di Piltdown, fin dal 1927 sostenne l'ipotesi secondo cui in Europa, Asia e Africa l'umanità sarebbe passata attraverso una "fase neandertaliana", dalla quale sarebbe derivato, nei diversi continenti, l'uomo moderno. Questa ipotesi si contrapponeva alla visione di P.-M. Boule, che escludeva i Neandertaliani dalla nostra diretta ascendenza, prefigurando le discussioni sul destino dell'uomo di Neandertal e sull'origine dell'uomo moderno, le quali costituiscono uno degli aspetti principali dell'attuale dibattito paleoantropologico. All'ipotesi di Hrdlička si affiancava, sul piano culturale, l'attribuzione ai Neandertaliani di espressioni complesse di vita spirituale consistenti non solo nelle sepolture, ma anche in forme di culto di crani umani e di animali come l'orso delle caverne. Con gli anni Cinquanta la ricerca paleoantropologica entrò in una nuova fase, grazie allo smascheramento del falso di Piltdown e all'accettazione del ruolo ancestrale degli australopiteci. Lo sviluppo di ricerche in Sudafrica, e poi in Africa orientale, portò alla scoperta di una serie sempre più ricca e dimostrativa di australopiteci. A questo complesso di dati si sommò nel 1964 l'identificazione della nuova specie Homo habilis, che segnava l'inizio della linea evolutiva del genere Homo in una sequenza, oggi considerata semplicistica, che riconosceva tre cronospecie successive, habilis, erectus e sapiens. La scoperta di Homo habilis segna una tappa fondamentale nella ricerca paleoantropologica, non solo per l'importanza filogenetica del taxon, ma anche per la sua rilevanza ai fini del dibattito sulla definizione del genere Homo e sulla comparsa di caratteristiche "umane" in corso di filogenesi. La definizione della specie, fondata su caratteristiche anatomiche quali il forte volume cerebrale e le ridotte dimensioni dei denti, teneva anche conto di caratteristiche comportamentali dimostrate dall'associazione con strumenti litici. Il nome specifico habilis venne appunto scelto per sottolineare questa iniziale capacità tecnologica; si trattava di una concezione di uomo che teneva conto, come elemento fondamentale, della capacità di produrre strumenti e ribadiva quanto sostenuto da B. Franklin, da F. Engels e da molti antropologi del XX secolo. Ma come già per gli anatomisti di fine Settecento,

che cercavano di identificare una precisa differenza qualitativa tra l'uomo e le scimmie antropomorfe, anche questo limite doveva rivelarsi sfumato. Le ricerche di J. Goodall sugli scimpanzé in Tanzania negli anni Sessanta e quelle successive di vari altri primatologi avrebbero infatti dimostrato che anche le scimmie antropomorfe sono in grado di costruire strumenti rudimentali. La stessa difficoltà di stabilire un confine preciso sarebbe stata dimostrata da ricerche sulla possibilità di impiego di un linguaggio concettuale da parte di scimpanzé e gorilla sin dalla fine degli anni Sessanta. D'altra parte, i confronti biomolecolari effettuati sull'uomo e sulle scimmie antropomorfe avrebbero evidenziato un'affinità maggiore del previsto tra i generi Homo, Pan e Gorilla. Questi risultati hanno portato nell'ultimo decennio a varie proposte tassonomiche innovative, alcune delle quali hanno incluso lo scimpanzé e il gorilla, insieme al genere Homo, nella famiglia Hominidae. In occasione del IV Congresso Internazionale di Paleontologia Umana, svoltosi nella Repubblica Sudafricana nel 1998, è stato addirittura proposto di formalizzare queste forti affinità, e quindi questa stretta parentela, attribuendo anche lo scimpanzé e il gorilla al genere Homo: Homo troglodytes e Homo gorilla. È una proposta per certi aspetti provocatoria, che curiosamente, a quasi 250 anni di distanza, si ricollega alla "scandalosa" classificazione di Linneo, che non solo includeva uomo e scimmie nello stesso ordine dei Primati, ma addirittura aveva identificato in una scimmia antropomorfa una seconda specie del genere Homo, denominandola appunto Homo troglodytes. Come scriveva Linneo a quel proposito, "genus Trogloditae ab Homine distinctum, adhibita quamvis omnis attentione, obtinere non potui".