Occhi d’aprile
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OCCHI D’APRILE di Massimiliano Guerriero
“La voce del silenzio non disperderà mai parole al vento ed emozioni alla sabbia”.
LIBRO DIGITALIZZATO DA:
www.ibookpad.it
I CAPITOLO
Un foglio bianco, a righe, per scoprire quegli occhi d’aprile, giada, da togliere il fiato. Una
profondità senza termini di misura. Ricordo, come fosse ieri, il sapore di quell’intensità mai
vissuta. Acerba, lieve, commovente. Tutta mia, da urlare a voce bassa, da proteggere
nella mia anima affannata. Era il mio primo giorno di lavoro in quel centro. A ventott’anni
immaginavo di aver avuto tutto dalla vita. Fisioterapista, votata alla riabilitazione dei
ragazzi diversamente abili, una famiglia che mi aveva sempre sostenuta nelle mie scelte
ed un ragazzo che mi adorava. Ed invece mi sbagliavo. Pochi istanti mi avrebbero
cambiato la vita, ma allora non potevo saperlo. O forse non volevo. Dubbio che non ho
mai sciolto per la famosa teoria dello struzzo: meglio insabbiare la testa che esporla
orgogliosamente al giudizio altrui. Mattia aveva sedici anni. Capelli di grano al sole, alto,
dalle spalle larghe e dalla muscolatura solida. Insomma un bel vedere. All’apparenza
mostrava molti più anni. Forse venti, ventidue. Non so. Quel che è certo era il suo sguardo
fisso, quasi severo, ma docile, tanto da imprimere involontariamente quel volto nella mia
testa, nel mio corpo, in ogni riflesso, anche un semplice gesto.Il gruppo era formato da
otto ragazzi. Tutti, in varie forme, affetti da autismo. Difficoltà di parola, di pensiero e di
movimento. Ma tutti accomunati da una grande voglia di vivere, da quell’espressione
interiore che non ha bisogno di alcuna voce per dialogare e farsi sentire.Era un pomeriggio
di nuvole d’Aprile. Anzi, era il 23 Aprile, impossibile dimenticarlo. Il primo impatto con loro
fu drammatico, non lo nascondo. Sarebbe stupido e soprattutto falso. I libri sono un
universo subdolo, a volte anche mistificatore, la realtà è un’altra cosa. D’accordo, lo si dice
sempre, ma per capirlo bisogna viverlo sulla propria pelle. Mi avevano avvertito che non
sarebbe stato facile. Ma io ero animata da quell’entusiasmo di mettermi alla prova, di
realizzare un progetto di vita. Il mio sogno, e quando arrivò la raccomandata non riuscì a
trattenere la lacrime. Al settimo cielo. Finalmente qualcuno mi stava per dare una
possibilità. Laurea triennale e poi una infinità di tirocini. Era giunto il momento di mettermi
alla prova. Senza alcun tutor, senza alcun custode. L’appuntamento era per le otto. Arrivai
con venti minuti di anticipo. Una giacca nera in lino, una camicia bianca ed un jeans. E le
mie inseparabili scarpette da tennis. Odiavo i tacchi e odiavo le frasi di mia madre che
iniziavano con :«Ti rendi conto che...» Quella mattina fu il turno di «…vesti come un
camionista?». A me non importava. Avevo sempre privilegiato la comodità e poi di certo,
quella mattina, non ero stata invitata ad un matrimonio. «Ciao, tu dovresti essere
Alessandra. Prima un giro per il centro e poi subito al lavoro». Maria era il guru delle
fisioterapiste. La più anziana. Dispensatrice di consigli utili ma di pochissime parole.
Quelle stanze erano dipinte di bianco, ampie, con tavoli e sedie abbinate, color verde. Un
ambiente luminoso, reso amaro, subito dopo. Quei ragazzi tutti in piedi, come ad attendere
chi potesse dar loro una spinta verso il futuro. Avevo già avuto qualche esperienza in
passato. Ma ora avvertivo una responsabilità vera, forte. Non più di bambina che
favoleggia e fantastica sul futuro passando da una nuvola all’altra, ma di donna che
dev’essere all’altezza di un compito difficile.
II CAPITOLO
Il mio gruppo era formato da quattro ragazzi. Silvia, Marco, Giacomo e Mattia. Dai dodici ai
sedici anni. Tutti già “adulti”. Tutti con storie apparentemente normali, genitori normali,
nessun dramma ereditato o vissuto. Avevo setacciato le loro cartelle cliniche. Non volevo
farmi trovare impreparata. Ad accompagnarli, ogni giorno, dalle quattro alle sei del
pomeriggio, i volontari di un’associazione locale. A bordo di un pulmino color canarino,
armati di zainetto e con tute variopinte. Una scena che da lì a breve sarebbe diventata
straordinaria quotidianità condita dall’attesa e dalla speranza di vedere lui. Solo e soltanto
lui. Un “sano” egoismo che comunque non mi avrebbe impedito di svolgere nel migliore
dei modi il mio lavoro. Mai. Ognuno di loro aveva problemi leggermente diversi anche se
con uniche radici. Gravi alterazioni nelle aree della comunicazione verbale e non verbale,
dell’interazione sociale e dell’immaginazione. Silvia e Marco presentavano disagi
comportamentali che spesso si trasformavano in auto-aggressività. Il primo impatto non fu
dei migliori. Giocavano tra loro, non si erano girati un attimo per conoscere la loro nuova
fisioterapista. All’improvviso vidi Silvia prendere qualcosa, non ricordo bene , fu un istante.
Forse una matita, un oggetto contundente che si ficcò nel braccio fino a far uscire del
sangue. Mi lanciai su di lei strappandole quell’oggetto appuntito. Avevo il fiatone e non per
la corsa di due metri ma per la paura. Maria era rimasta lì, ferma. Si girò e prima di
lasciarsi alle spalle la porta dell’aula, disse: «Devi abituarti a gestire ogni situazione. Qui
non siamo mica a scuola e possibilmente cerca di non farti venire un infarto!». Medicai
Silvia. Per fortuna era solo un piccolo taglio. Nessuno si muoveva mentre le disinfettavo e
fasciavo il braccio. Marco spostava le braccia a penzoloni, quasi fosse un orologio a
pendolo, Giacomo girava su se stesso, senza fermarsi un attimo e poi Mattia. Stava lì,
immobile. Appoggiato alla parete bianca con un foglio tra le mani. Fu un istante. Gli scivolò
sul pavimento. Era poco distante da me. Mi piegai e lo raccolsi. Alzai la testa e per la
prima volta incrociai quegli occhi. Non so cosa accadde. Non me lo sono mai saputa
spiegare. Il mio cuore divenne una scheggia pronta a schizzare via, impazzita, senza
alcun controllo. Solo un attimo per dimenticare il disagio, l’angoscia, la paura di non
essere all’altezza. Solo quegli occhi mi servivano. Una sorta di medicina che
paradossalmente lui dava a me. Fu una giornata pesante. Tante piccole emozioni scandite
da un tempo interminabile. Me ne andai distrutta a bordo della mia Citroen Saxò blu,
compagna di mille battaglie. Mia madre mi aspettava attraverso i vetri di una casa di
campagna, anche se a pochi chilometri dal centro, costruita in quattro lustri tra sacrifici,
acciacchi e speranze. Un terzo grado che durò per tutta la cena. «Come è andata?»
Perseverando tra una cotoletta ed una mozzarella di bufala «Raccontami dei tuoi pazienti -
lei così li chiamava- E i tuoi colleghi?». Le mie risposte a monosillabi scatenavano ancor di
più la sua voglia di sapere ed io, seppur irritata, cercavo di trattenermi facendomi forza per
non mandarla a quel paese. Per carità le volevo un bene esagerato, ma non ho mai
sopportato l’invadenza delle persone. Per questo adoravo mio padre. Nessuna domanda,
un orso dal cuore tenero. Bastava uno sguardo per abbracciarti o rimproverarti. Bastava
solo quello.Anche se non ne avevo assolutamente voglia avevo promesso a Lorenzo, la
mia metà, che sarei uscita con lui a bere qualcosa per festeggiare il mio primo giorno di
lavoro. Fu una di quelle serate assenti. Non riuscivo a comprendere cosa mi stessa
accadendo. Diedi la colpa alla stanchezza, a quel bicchiere di vino. Ma quegli occhi non
abbandonavano la mia testa confusa.A raccontarlo mi avrebbero preso tutti per matta. Ne
sono sicura. «C’è qualcosa che non va?». Disse all’improvviso Lorenzo, quasi a svegliarmi
da uno stato catatonico in cui ero piombata. «No, nulla. E’ solo stata una giornata un po’
pesante. Mi sento a pezzi». «Dai, non ti preoccupare. Ci farai l’abitudine e poi sei sempre
il mio meraviglioso fiore». Sempre dolce e comprensivo con me. Forse questo era il
problema. Mai una discussione, mai un litigio. Quella pacatezza che spesso contrastava
con la mia voglia di evadere, esplorare nuovi universi, ritagliare uno spazio vero ai miei
pensieri. Anche se potrebbe sembrare assurdo , non avevo più la volontà, forse non
l’avevo mai avuta, di sentirmi assecondata. Avevo conosciuto Lorenzo cinque anni prima
durante una cena tra amici. Carino, garbato ed intelligente. Lavorava come ingegnere
presso un’impresa edile. La sua delicatezza mi aveva conquistato, nascosta fra rose, inviti
a cena e galanterie. Un rapporto solido che però vacillava ogni qualvolta si parlava di
matrimonio. Ogni suo timido tentativo veniva bloccato dalle scuse del momento: l’età, lo
studio ed il lavoro. E così ci aveva quasi rinunciato. Probabilmente aspettava che a riaprire
l’argomento fossi io. Ma non ero pronta. Forse confusa. La classica stagione della vita in
cui non si è né carne né pesce. Forse era stato proprio Mattia, in tutta la sua
inconsapevolezza ed innocenza, a far riemergere in me uno stato d’animo che altrimenti,
avrei sopito per sempre. Quella sera volli tornare presto a casa. Stanca sì ma anche
pensierosa. Troppo per non dover dare spiegazioni a Lorenzo.
III CAPITOLO
«Ragazzi oggi si inizia a lavorare sul serio». Le mie parole cadevano nel vuoto. Granelli di
sabbia al vento. Nelle mie mani quattro palline, molto simili a quelle antistress. Le avrei
conosciute anche non facendo la fisioterapista. Ansiogena. Spesso per non dover ricorrere
a tranquillanti o altri intrugli, ne facevo ricorso. Una ciascuno. Stimolazione motoria. Ero
curiosa di vedere le loro reazioni. Di sperimentare sul campo il primo giorno di lavoro
effettivo. E le risposte furono tutt’altro che positive. Marco la lanciò contro una parete.
Silvia e Giacomo le lasciarono cadere sul pavimento. Mattia mostrò un tiepido interesse.
La strinse con delicatezza, l’accarezzò, quasi fosse un piccolo cagnolino, ma poi,
all’improvviso, tentò con rabbia di infilarla in bocca. Dovetti faticare per strappargliela. Fu
una giornata dura. Qualsiasi operazione mettessi in campo era rimandata al mittente.
Come una lettera di un amante respinto. Senza che nessuno la leggesse. Assenza totale.
Una goccia di sconforto attraversò la mia anima. Pensavo sarebbe stato tutto più facile,
che la voglia, la passione, avrebbero vinto comunque. Ed invece mi sbagliavo.
L’entusiasmo spesso fai i conti con la realtà. Con quella vita che tu hai sempre sognato in
un modo e che invece è diversa. «Lo so ‒ disse Maria ‒ Non è facile. Io prima di non
permettere ai loro occhi di farmi continuamente male ci ho messo diversi anni. Vedi, per
fare questo lavoro, che poi è una missione, te lo assicuro, ci vuole un cuore grande, fuori
dal comune. Non basta imparare il compitino a memoria, saper fare gli esercizi e scrivere
una cartella. E’ un’altra cosa, un altro mondo, un universo di equilibri dove se riesci a stare
in piedi va bene, altrimenti rialzarsi diventa una impresa». Quelle parole lasciarono il
segno come piombo sotto pelle. Quella notte non dormii. Ero assalita da mille dubbi. Per
un attimo pensai anche di abbandonare. Ma fu solo un attimo. A volte lo sconforto
trasforma uno scalino in una scala. L’indomani mi alzai, mi guardai allo specchio e promisi
a me stessa che avrei dato a quei ragazzi tutta la forza che probabilmente non ero riuscita
a donare mai a me stessa.
IV CAPITOLO
Passavano i giorni e le cose andavano meglio. Seppur piccoli, lievi, quasi impercettibili, i
progressi si vedevano, si sentivano. Ed io ero felicissima. Silvia, Marco, Giacomo e Mattia
erano più attenti, meno aggressivi, più attivi nei percorsi di apprendimento. Spesso
ascoltavamo musica. Le loro preferite erano le canzoni del programma “Amici”, che
guardavano sempre la domenica o il lunedì sera. Quelle canzoni, di ragazzi di qualche
anno più grandi di loro, li entusiasmavano e li stimolavano a dialogare in modo più
corretto. Quelle parole e quei gesti rituali avevano fatto in modo che prendessero
l’abitudine di ascoltare almeno dieci minuti di musica al giorno. I loro preferiti? Alessandra,
Valerio, Emma, Loredana. Giacomo ripeteva il ritornello, anche se poi lo cambiava a suo
piacimento, mentre Marco faceva da sottofondo, quasi un coro con Mattia e Silvia che
battevano le mani. Anche io mi facevo coinvolgere nel girotondo di entusiasmo. Mano
nella mano con Mattia che spesso mi abbracciava e mi faceva fare le piroette. Ed io mi
sentivo stranamente libera, libera di volare in un sogno troppo lontano dall’esser vero, in
un sogno che potesse farmi immaginare qualsiasi cosa, anche la più impossibile.
Sensazioni diverse, opposte, ma legate ad un’unica verità: mi stavo affezionando a quei
ragazzi e soprattutto a Mattia, anche se respingevo in ogni modo quelle emozioni che
stavano diventando certezze. Ricordo perfettamente quel giorno. Era il 16 maggio. Fuori il
sole dipingeva le pareti e rifletteva perfettamente il mio umore. Ero stranamente allegra.
Puntuale come sempre, entrai nella mia stanza. La numero otto. I ragazzi ancora non
erano arrivati. Iniziai ad ordinare i quaderni, le penne, lo stereo ed i cd. Avevo voglia di
fare, voglia di iniziare subito la lezione. Avvertivo i progressi. Era trascorso un solo mese.
E quei miglioramenti non riguardavano soltanto i ragazzi ma anche me stessa. Avvertivo il
cambiamento di una persona piena di paure ed incertezze che, finalmente, stava iniziando
ad aprirsi alla vita. I “fantastici quattro” arrivarono come un lampo. All’improvviso. Fu una
lezione lunga e stancante. Reagivano alle stimolazioni sia cerebrali che motorie. Ero
ottimista per il futuro. Credevo fortemente in quei ragazzi. Quelle due ore erano volate.
Stavo raccogliendo le ultime cose prima di andare via, quando vidi seminascosto dalla
porta Mattia. Mi avvicinai a lui. Perché era lì fermo? Il pulmino fuori lo stava aspettando. Lo
accarezzai, lo presi per mano per accompagnarlo fuori. Lui si bloccò e girandosi verso di
me con un movimento tanto rapido quanto delicatamente violento mi diede un bacio sulla
guancia e scappò via. Rimasi immobile, senza pensiero, senza parola e soprattutto con
una faccia a melone. Immagino fosse stato quello il colore della mia pelle. Il mio cuore
batteva forte. Un moto perpetuo senza fine, senza respiro, senza alcuna soluzione.
CAPITOLO V
Tornai a casa. Ero sconvolta. Volevo solo starmene da sola. Non avevo voglia di sentire
nessuno. Ma era solo un’illusione durata qualche secondo. «Cara tutto bene. Ti vedo un
po’ pallida, vuoi che ti preparo qualcosa?». Mia madre sempre al momento giusto. Aveva
una capacità rara. Stavo per esplodere, ma probabilmente, anzi, sicuramente, non
sarebbe servito a nulla se non a offenderla e a farle tenere il muso chissà per quante
settimane. Mi sentivo sempre più confusa, estranea al mondo, a tutto quello che fino a
qualche tempo prima sembrava appartenermi incondizionatamente. Era impossibile che io
potessi provare dei sentimenti verso Mattia, verso quel ragazzo che era in grado di
comunicare solo con lo sguardo, con i gesti, così indifeso. Ecco magari era solo un senso
di tenerezza, di protezione estrema. I dubbi erano come pietre lanciate nella mia anima.
Coltellate che lentamente attraversavano il mio corpo. Non ce la facevo più, ne dovevo
parlare con qualcuno, avevo bisogno di sfogarmi, di piangere. La mia famiglia non avrebbe
mai compreso, figuriamoci Lorenzo che era straconvinto che io fossi la donna della sua
vita. Non immagino come avrebbe reagito. Le mie amiche? Mi avrebbero preso per pazza,
consigliandomi, tutto al più, uno psichiatra. Trascorsi la giornata a scervellarmi. Alla fine
decisi di confidarmi con don Francesco. Sacerdote della parrocchia del “Cuore
Immacolato”. Lo conoscevo da quando ero piccola. Avevo frequentato il catechismo e poi
l’Azione Cattolica. Forse lui avrebbe potuto aiutarmi a sciogliere quel nodo. A capire quello
che mi stava accadendo. Sembravo una forsennata. Scesi in fretta e furia. Dopo pochi
minuti ero davanti a quella struttura imponente. Rimasi per qualche attimo in auto. Ero
combattuta. La vergogna stava per prendere il sopravvento. Avevo bisogno di sfogarmi,
non potevo restare in quello stato. Mi feci forza ed entrai in chiesa. Don Francesco era
seduto su di una panca in legno. Assorto. Stava pregando. Mi avvicinai lentamente a lui
guardando un quadro della Madonna con il bambinello che sovrastava l’arco superiore
dell’abside della chiesa. Sin da piccola quella immagine mi aveva affascinato. Trascorrevo
ore ed ore ad ammirarla. Non ne ho avevo mai capito il motivo. «Ciao Alessandra». Il
silenzio fu spezzato dalla voce forte, ferma di don Francesco. «A che devo l’onore della
tua visita?». Aveva ragione. Da tempo non frequentavo la parrocchia, e non mi ero più
fatta vedere in quegli ambienti molto familiari fino a qualche anno prima. «Ecco, padre, le
dovrei parlare. Vorrei confessarmi. Ho bisogno del suo aiuto». «Certo cara. Vieni con me.
Non ho nessun impegno che non possa aspettare». Con un sorriso mi diede una carezza.
Parlammo per più di due ore. Mi liberai. Le lacrime venivano giù. Senza controllo, da sole.
Il mio volto era rigato, frammentato dall’inquietudine. Dall’angoscia delle ultime settimane.
Le certezze erano crollate. Ed io mi sentivo una boa in mezzo ad una tempeste. Con la
riva sempre più lontana. Don Francesco ascoltava. Nessuna domanda. Nessuna
interruzione. Mi osservava. Non riuscivo a capire cosa stesse pensando. Magari, e la cosa
era più che lecita, che ero impazzita. Forse anche lui mi avrebbe consigliato uno buon
specialista. «Alessandra, tu devi seguire solo il tuo cuore. Gli impulsi liberi da ogni
condizionamento, da ogni giudizio. Se adesso senti di stare accanto a quel ragazzo per
capire cosa provi è giusto che sia così. La diversità non appartiene ad uno stato mentale o
anagrafico, ma solo all’egoismo e alla paura di non voler comprendere chi realmente
siamo. In questo momento hai bisogno solo di fare un po’ di ordine e di non cercare
assolutamente una risposta. Quella arriverà da sola. C’era un vecchio saggio che diceva:
ogni certezza non è mai quella che crediamo di aver raggiunto tramite rapporti consolidati.
Le certezze, quelle vere, appartengono solo e soltanto a percorsi interiori che si
concludono all’improvviso e senza alcuna raccomandata». La mia bocca era arida.
Nessuna replica. Nessun’altra domanda. Mi abbracciò: «Quando avrai capito non
dimenticare di avvertire chi ti sta accanto e ti vuole bene». Come se lui sapesse già, come
se avesse una sfera di cristallo con il mio futuro impresso nella mente. Tornai a casa. Ero
più serena. Dovevo affrontare quella situazione. Non sarebbe servito a nulla fuggire. Ora
avevo voglia di capire realmente. Di comprendere fino in fondo il mio malessere e
soprattutto che cos’erano quelle emozioni così intense, forti, che provavo nei confronti di
Mattia. Giurai a me stessa che avrei fatto chiarezza, che sarei riuscita a mettere ordine e
soprattutto a liberarmi da ogni angoscia.
VI CAPITOLO
Avevo più fiducia. Non sapevo cosa sarebbe accaduto, ma sentivo di potercela fare. Il
giorno dopo con i miei “fantastici quattro” lavorammo duramente soprattutto sulla mimica,
sulla gestualità, sulla coordinazione dei movimenti. Non era semplice ma i ragazzi si
impegnavano. Cercavano di seguirmi e a modo loro mi ponevano diecimila domande al
secondo. Silvia era la più insistente con quel viso da porcellana e il fisico minuto, era una
vera e propria guerriera. Non mollava mai l’osso. Se non le rispondevi o c’era qualcosa
che non quadrava ti portava allo sfinimento. E alla fine vinceva sempre lei. Poi c’era
Marco, il duro della situazione. Alto, grosso, ma dal cuore tenero. Spesso piangeva.
Spesso si nascondeva o fuggiva fuori dall’aula. Era una rincorsa continua. Giacomo,
invece, assomigliava ad un prezzemolino buono per ogni minestra. In ogni discorso, in
ogni situazione, c’era il suo zampino. Non era mai immune. E infine Mattia. Il più
silenzioso, il più inquieto, di una bellezza straordinaria. Ma nonostante l’aria da bello e
dannato, anche lui stava facendo passi importanti. Tutti mi seguivano ed io ero felice
perché mi sentivo appagata nel lavoro ma soprattutto perché a quei ragazzi mi stavo
affezionando davvero. All’improvviso qualcuno bussò alla porta. Era Maria. La decana del
centro. «Una comunicazione veloce, poi ti lascio continuare. Domani pomeriggio, verso le
15.30, ci sarà il colloquio con i genitori dei ragazzi. Cerca di arrivare puntuale mi
raccomando». Il cuore iniziò a battermi all’impazzata. Avrei conosciuto i genitori di Mattia.
Sembrava assurdo ma ero emozionata. Come quando un adolescente invita ad uscire per
la prima una coetanea e si presenta ai genitori per rassicurarli. Ormai la mia testa
viaggiava al ritmo di scene tratte dai film più mielosi, strappalacrime. E non mi accorgevo
di essere assente molto più dei miei ragazzi che mi stavano fissando chissà da quanti
minuti, come a dire: «Ma non dovrebbe essere lei ad aiutarci?». Ed avevano ragione, del
resto come dargli torto. Mattia era seduto nel primo banco, alla destra dell’uscita, io lo
osservavo. Stava scrivendo, mancavano cinque minuti e poi il pulmino color canarino lo
avrebbe riaccompagnato a casa assieme ai suoi compagni. Non riuscivo a non pensare a
quegli occhi, a quel sorriso malinconico. Non riuscivo a non pensare che il giorno
successivo avrei conosciuto i suoi genitori. Chissà com’erano? Cosa gli avrei detto del
figlio? Tutte domande alle quali presto, molto presto, sarebbe arrivata una risposta.
VII CAPITOLO
Quella notte faticai a prendere sonno. Poche ore e avrei conosciuto i genitori di Mattia.
Continuavo a chiedermi il motivo di tanta agitazione, di tanta ansia. Eppure di calmanti non
ne avevo mai avuto bisogno. D’altronde c’è una prima volta per tutto. Così, di nascosto,
presi venti gocce di “En”. Da anni le usava mia madre per tentare di combattere l’insonnia.
Alla fine sortirono l’effetto sperato anche se non ho mai capito se fosse stato per lo
sfinimento o perché quella pozione funzionasse per davvero. «Ti vuoi svegliare, sono le
undici e c’è Lorenzo che sta provando a chiamarti da tre ore». Ero ancora a letto, e mio
padre, con modi da rinoceronte, me lo stava ricordando. Ma in fin dei conti aveva ragione.
Sembravo un vegetale. Di solito la sveglia suonava alle otto. Servizi vari, caffè con Mara e
Rita, le amiche pazze di sempre e poi di nuovo sui libri per studiare nuove terapie e
cercare di metterle in pratica. E poi Lorenzo. Ormai da settimane, anzi da quasi due mesi,
cioè da quando lavoravo al centro, le cose non andavano bene. Ci sentivamo poco,
uscivamo ancor di meno e praticamente non facevamo più l’amore. Eppure lui continuava
a non chiedermi nulla. Come se tutto fosse normale. Come se tutto andasse per il verso
giusto. Due giorni prima mi aveva chiesto dove volessi andare in vacanza. Avevo risposto
con l’ennesima bugia: «Decidi tu, per me è uguale». Ma nulla era uguale. Io con lui non
volevo andare da nessuna parte . Avevo bisogno di starmene un po’ da sola. Altra bugia.
Come se fosse servito. Ma alla fine che ne potevo sapere io? Ormai sembravo una
indovina paranoica con il cervello in continua ebollizione. E non sapevo come uscirne. In
tutta questa storia c’era un’unica certezza: dovevo prendere una decisione. Punto e basta.
Mi alzai dal letto controvoglia. Per riprendermi caffè doppio e mega cornetto alla crema.
Fortuna che mia madre le buone abitudini non le abbia mai perse e neanche il forno a
microonde che funzionava come il primo giorno. Ripassai alcuni esercizi che avrei voluto
mettere in pratica nel pomeriggio. Più dialogo e meno ginnastica. Volevo sperimentare
nuove teorie sulla stimolazione cerebrale. Alle tre e venti la mia Saxò era parcheggiata
davanti al centro. Dieci minuti d’anticipo per prepararmi psicologicamente. Vidi a qualche
metro da me, nei pressi dell’ingresso, due signori distinti. Una donna in tailleur beige con
foulard abbinato e tacco dieci ed un uomo alto, biondo e con gli occhi azzurri. Giacca e
cravatta. Non avevo dubbi. Erano i genitori di Mattia. Le mie gambe iniziarono a tremare,
non rispondevano ai comandi, viaggiavano su altre strade. Un lungo respiro e senza
pensarci due volte mi presentai: «Salve, io sono Alessandra, la fisioterapista»
«Ah, lei è la famosa Alessandra. E’ un piacere conoscerla». Rispose la donna. «Mattia
parla di lei in continuazione, dalla mattina alla sera. Ormai non ci dà più tregua. E’
entusiasta». Rimasi in silenzio. Per qualche imbarazzante attimo. Non sapevo cosa
rispondere ma allo stesso tempo non potevo fare la figura della stupida. «Ah…Mi fa
piacere». Non seppi dire altro. Che idiota. «Comunque non ci siamo neanche presentati.
Io sono Alice e lui è Stefano, mio marito». «Piacere dottoressa ‒ aggiunse lui ‒ sono
contento di poter finalmente dare un volto al suo nome». Non potevo continuare a fare la
bella statuina. «Mattia sta facendo grandi passi in avanti. Si sta impegnando e
sacrificando. Sono molto soddisfatta del lavoro che stiamo portando avanti e credo che ci
siano ampi margini di miglioramento». Vidi un sorriso illuminare i loro volti. «E’ vero ‒ disse
Alice ‒ nelle ultime settimane lo vediamo molto più attento e socievole. E’ più luminoso e
soprattutto molto meno aggressivo. E per questo la volevamo ringraziare. Gran parte del
merito va a lei. Anzi, ora che l’abbiamo conosciuta, le volevamo chiedere se qualche sera
ci vorrebbe onorare della sua presenza a cena. Sicuramente anche Mattia ne sarebbe
felicissimo». Ero stordita, non sapevo che dire. «Il merito è tutto di Mattia. L’impegno è
tutto suo. Sta seguendo ogni indicazione. Il mio contributo è minimo». «Non faccia la
modesta ‒ ribatté Stefano ‒ Le assicuro che non è così. E per la cena noi ci
contiamo…intesi? L’aspettiamo». Fu un pomeriggio lungo. Parlai brevemente con i genitori
di Silvia, Marco e Giacomo. Erano soddisfatti, stupiti dei progressi di quei mesi. Storie
diverse, persone diverse, ma tutte accomunate dallo stesso dramma e della voglia di poter
trovare una soluzione. Di poter vedere almeno una luce in quel tunnel. Tornando a casa,
dopo la lezione, ripensai a tante cose. Ero commossa dagli apprezzamenti, convinta che si
potesse fare ancora molto per aiutare quei ragazzi. Ero disposta a tutto pur di poterli
vedere sorridere, parlare, emozionarsi. Tanti sacrifici stavano dando i loro frutti e non avrei
potuto immaginare migliore ricompensa. E poi quell’invito a cena. Sarei stata curiosa di
conoscere meglio il mondo di Mattia, la sua famiglia, la sua abitazione. Ma nello stesso
tempo mi dissi che era stata solo una cortesia da parte dei suoi genitori. Che
probabilmente da lì a qualche giorno non se ne sarebbe più riparlato e io non avrei fatto
nulla per riprendere l’argomento.
VIII CAPITOLO
Mi addormentai stranamente serena. Con l’Ipod a “palla” e con il mio cantante preferito,
Biagio Antonacci. «Se fosse per sempre mi stupirei e se fosse per sempre ne gioirei».
Quelle parole negli ultimi tempi, spesso, piombavano nel mio cervello. Non ne davo un
senso preciso, ma mi regalavano gioia e tanto bastava per non pormi altre domande.
Quella mattina mi svegliai propositiva. E chiesi a mia madre di accompagnarmi a fare
shopping. Da una vita non mi coccolavo un po’, non pensavo a me stessa. «A che
dobbiamo il buon umore? Da tempo non ti vedevo così sorridente». E aveva ragione mia
madre. Come darle torto. «Il lavoro sta iniziando ad andare bene. I ragazzi reagiscono ed
anche i loro genitori lo hanno confermato». «Sono contenta per te tesoro. E con Lorenzo,
come va? E’ da un po’ che non si fa vedere a casa». Lo sapevo, doveva esserci per forza
il trabocchetto. Mi sembrava strano che in tutti quei mesi non avesse mai aperto il
discorso. Rimasi in silenzio. Non ne avevo voglia di parlare. Era una questione mia, che io
avrei dovuto risolvere e nessun’altro. «Ok, ho capito, non ne vuoi parlare. Ma sappi che io
e tuo padre ti siamo vicini». Quelle parole alleviarono le mie paure anche se non avevo
alcuna intenzione di farmi rovinare lo shopping. E così fu. Quella mattina girammo per
tutta la città ed entrammo in quasi tutti i negozi. Spesi tutto lo stipendio tra magliette, jeans
e un meraviglioso completo, giacca, gonna e camicia che ormai da tempo avevo puntato.
Ero fiera di me stessa. Ed ero felice di aver trascorso finalmente qualche ora con la mia
mamma. Le offrì anche il pranzo. Almeno per una volta abbandonammo mio padre, che
poi, tanto dispiaciuto alla notizia non si era mostrato. Anche lui aveva bisogno di
ossigenare ogni tanto. Tornai in tempo per cambiarmi ed andare al lavoro. Fu un
pomeriggio tranquillo. Le due ore di terapia volarono via senza grossi intoppi. I ragazzi
recepivano, anche se ogni volta era una fatica sovraumana. Ma non mi pesava. Anzi.
Ormai era un appuntamento irrinunciabile, che andava oltre il lavoro, un appuntamento
con me stessa. E a volte sembravo essere io la paziente e loro i terapisti. Quella sera
sarei uscita con Lorenzo. Basta, avevo rotto gli indugi, dovevo parlargli. Non si poteva
andare avanti in quel modo. Era ingiusto per me ma soprattutto per lui. Dovevo farmi
coraggio e spezzare quel cordone. Stavo guidando, la mente affollata dai pensieri, quando
squillò il telefono. Sbandai, come se qualcuno mi fosse saltato addosso all’improvviso.
Numero sconosciuto, al quale, di solito, non rispondevo mai dato il mio cattivo rapporto
con la banca. Rate arretrate e conto in rosso. Ogni volta era una guerra con l’operatore.
Quella volta, però, il mio pollice schiacciò il testo verde senza alcuna resistenza. «Pronto».
«Ciao, Alessandra, sono la madre di Mattia». Inchiodai le ruote dell’auto. Cuore in gola e,
a pensarsi bene, come al mio solito non avevo gli auricolari e considerati i miei trascorsi
con la Polstrada tra multe e decurtazione di punti, la soluzione migliore era fermarsi.
«Salve Alice, è accaduto qualcosa?». «No no. Tutto tranquillo, anzi scusa se ho chiesto al
centro il tuo numero di cellulare ma volevo invitarti per questa sera a cena. Forse è troppo
tardi, ma oggi è il compleanno di Mattia e con mio marito ho deciso di organizzare una
piccola festicciola. Ci terremmo molto alla tua presenza». Mi colse impreparata. Non
sapevo cosa rispondere. Ma era il compleanno del mio Mattia e non potevo proprio dire di
no. «Va bene Alice. Non ti preoccupare, non mancherò». «Perfetto. Il mio ometto sarà
felicissimo. Ti ringrazio non potevi farci regalo migliore» Attaccai dopo aver ricevuto
informazioni dettagliate su dove fosse situata la loro abitazione. In quello stesso istante,
però, mi venne in mente Lorenzo. Cavolo, mi avrebbe ammazzata. Dovevamo rimandare.
Non sapevo come dirglielo, ci sarebbe rimasto sicuramente male e io stavo dando un
ulteriore colpo, forse definitivo, ad un rapporto già compromesso. Qualche minuto di
training autogeno e poi lo chiamai. Non feci neppure in tempo a formulare mezza frase
che: «Tesoro, allora stasera a che ora ti vengo a prendere». Mi sentivo uno schifo. Da lì a
qualche istante avrei frantumato il suo entusiasmo, come un vaso di cristallo in volo da un
grattacielo. «Lori veramente c’è un piccolo problema». Dall’altro lato sentì il gelo. Al Polo
Nord, in quel momento, avrebbe fatto di sicuro più caldo. «Il centro ha organizzato una
cena con tutti i ragazzi ed i loro genitori. Devo andare per forza. Mi dispiace. Magari
possiamo rimandare a domani sera». «Va bene. Non c’è problema. Il lavoro prima di me,
quei ragazzi prima di me, la tua famiglia prima di me, le tue amiche prima di me. Se vuoi
continuo. Ma che cosa sono diventato io per te? Me lo dici? Basta sono stanco e tu sei
un’egoista. Ecco quello che sei. Pensi solo a quello che è bene o peggio per te, non a chi
ti sta vicino. Che stupido che sono stato». «Non fare così, ti prego». Tentai una timida
reazione. «Non ne voglio parlare ora, almeno per telefono. Buona serata». Linea interrotta
e la mia coscienza a pezzi con tanti sensi di colpa a galleggiare in quel mare magnum di
sentimenti opposti. Non avevo più voglia di fare nulla. Sarei stata buttata sul divano di
casa a mangiare schifezze e vedere qualche film strappalacrime. Ma ormai avevo dato la
mia parola e poi volevo vedere il mondo di Mattia, le persone che lo circondavano. Una
curiosità irrefrenabile, quasi ossessiva tanto da cambiare umore da un istante all’altro.
Tornando a casa mi fermai in una libreria. Volevo acquistare un regalino per Mattia. Presi
una piccola agenda nera, magari lo avrebbe stimolato anche nella scrittura e poi mi
soffermai sul reparto dei vecchi libri. Notai subito “Il gabbiano Jonathan Livingston” di
Richard Bach. Storia di tenacia, libertà e forza interiore. Lo feci impacchettare. «Ale sono
le otto e mezza se non vuoi fare tardi dovresti darti una mossa». Mi madre aveva sempre
ragione. Da un’ora ero davanti allo specchio a fare prove. Il mio letto si era trasformato in
guardaroba. Poi alla fine optai per una camicia bianca con longette nera, cinta lucida in
vita e delle ballerine abbinate. Semplice e naturale. Così avrei voluto essere .
Quell’abitazione, detta così potrebbe sembrare molto riduttiva, non l’avrei mai più
dimenticata. Mattia viveva con la sua famiglia in campagna, a pochi chilometri dal centro.
Le indicazioni si erano rivelate perfette. Non ebbi alcuna difficoltà ad arrivare. Anzi fui
puntuale come un orologio svizzero. Dinanzi a me una cancellata in ferro battuto. Alla mia
sinistra, su di un letto di mattoni in tufo, una scritta: “Villa rosa”. Scesi dall’auto, ma in
quello stesso istante, senza che io avessi bussato, si aprì il cancello. Il viale era immenso.
Ai suoi lati tante piccole candele e poi aiuole di un verde luccicante inframmezzate da rose
bianche. Giganteschi pini quasi a proteggere la casa me dei guardiani, mi
accompagnarono per tutto il breve tragitto. Ad accogliermi Alice. Quella costruzione era
gigantesca. Mai visto nulla di simile. Una scalinata a giro e poi l’ingresso in legno battuto.
«Cara, sei stata puntualissima e soprattutto grazie per aver accettato l’invito. Non sai
quanto significhi per noi». «Sono io che devo ringraziare voi per aver pensato a me. E poi
sono contenta di essere qui». Dentro in un salone che forse era grande come tutto il mio
appartamento tanti bambini, quasi tutti cugini di Mattia, e poi lui, il festeggiato. Indossava
una cravatta nera con una giacca coordinate ed un jeans sgualcito. Mattia stava scartando
alcuni regali. Appena mi vide si buttò tra le mia braccia. «Ale, Ale, Ale. Sei venuto. Grazie,
grazie, grazie». Ero pietrificata. Emozioni leggere, quasi una danza, un’armonia mai
provata prima. Gli diedi una carezza sulla guancia e poi un bacio sulla testa. Dovetti
trattenere le lacrime. Nessuno avrebbe potuto comprenderle se non io, e sono sicura, il
mio ragazzo preferito. Presi i due pacchettini: “Tieni Mattia, questi sono per te”. Li scartò in
un attimo. All’interno un biglietto: “Ai miei occhi d’aprile”. Lo lesse e pianse, a dirotto. Lo
abbracciai nuovamente e gli sussurrai: “Non te l’ho mai detto, ma ti voglio bene, davvero”.
Poi tornò dai suoi amici. Fu una serata meravigliosa. Alice e Stefano mi presentarono tutti i
loro parenti. Nonni, zii e cugini. Era una famiglia vera. Nessuna facciata. Si sentiva il bene.
Si avvertiva l’amore in quella casa e soprattutto la serenità che tutti tentavano di regalare a
Mattia. Ero sovrappensiero con un il mio bicchiere di vino bianco. Alice mi chiese di farla
compagnia in giardino. Voleva farmi vedere i suoi fiori. E non solo quelli. «Alessandra
volevo ringraziarti per tutto quello che hai fatto in questi mesi. Mattia è cambiato tantissimo
e io e mio marito ci sentiamo più sereni, riusciamo ad affrontare meglio il suo handicap.
Sai, per noi è stato difficile affrontare tutto questo. E’ il nostro unico figlio. Purtroppo non
abbiamo potuto averne altri. E in lui avevamo riposto speranze, sogni. Insomma come
fanno tutti i genitori che vogliono il meglio per i loro figli. Mattia aveva cinque anni ‒ Alice
era un fiume in piena ‒ quando iniziò ad avere i primi problemi. Inizialmente pensavamo
fosse solo introverso, ma poi con il trascorrere delle settimane capimmo che c’era
qualcosa che non andava. Non reagiva. E quando lo faceva era aggressivo, violento. Non
nascondo che iniziammo ad avere paura. Avevamo sperato fino all’ultimo ma poi
l’ennesima visita specialistica confermò tutte le paure che in quei lunghi mesi avevamo
tentato di cacciar via. Mattia ‒ la voce fu rotta dalla commozione ‒ era un bimbo autistico.
Quegli occhi, quei capelli, quel sorriso, erano destinati ad esser compresi da pochi e tu sei
tra quei pochi. Grazie Alessandra». Non avevo parole. Avrei voluto urlare ma non sarebbe
servito a nulla. Una storia struggente vissuta con dignità e amore. Notai altre rose bianche
e poi altre ancora. Saranno state centinaia. Come se mi avesse letto nel pensiero Alice si
girò nuovamente verso di me: «Le rose bianche sono i fiori preferiti di Mattia. Quando
nacque la mia stanza ne era piena e voglio credere che lui già allora potesse vedere
senza parlare».
IV CAPITOLO
Sensazioni intense, forti. Che davano ulteriore forza alle scelte che da lì a breve avrei
dovuto fare. Quel sabato faceva caldissimo. Da giorni gli esperti davano consigli utili: bere
molti liquidi, alimentazione sana, uscire solo se necessario. Ma non erano certamente le
temperature a farmi stare male. Il pensiero di Lorenzo mi stava distruggendo, soffocando.
Non poteva andare avanti così. Dovevo vederlo e parlargli. Ma avevo paura della sua
reazione. La delusione della sera precedente era stata solo l’ultima goccia. Il vaso non era
traboccato, si era già frantumato. Ero sdraiata sul mio letto, di traverso e con il cuscino
schiacciato sulla faccia ed il cellulare a vista. La porta socchiusa. “Ale cosa c’è che non
va? Lo sai che con me puoi parlare sempre”. Una carezza leggere sfiorò i miei capelli.
Scoppiai a piangere e mi buttai tra le braccia di mia madre. Rimanemmo in silenzio. Iniziò
a cullarmi. Mi sembrava di esser tornata bambina. A quelle ninna nanna che mi facevano
addormentare serena, senza problemi. E tutto sembrava così distante. «Allora tesoro cosa
c’è che non va?». Singhiozzando e con gli rossi come due arance. «Con Lorenzo è finita
ma non riesco a parlargli. Ormai lo sto trattando male da mesi e lui non se lo merita.
Mamma sono un mostro, solo un’egoista. Ma che cosa ci posso fare, io non lo amo più e
di questo sono sicura». Le mi guardò, come se stesse scrutando dentro me, quasi fosse
una macchina della verità al naturale. «Io non giudico. Se tu sei convinta di quello che fai
per me va bene. Ma questo non ti autorizza a trattare male le persone, soprattutto coloro
che ti vogliono bene. Devi smetterla di avere paura e trovare il coraggio dentro di te». Mi
accarezzò nuovamente e se ne andò. Ero basita. Quelle parole, quella voce. Aveva
ragione. Presi il telefono e senza pensarci un attimo chiamai Lorenzo. Ci incontrammo la
sera, vero le nove. Al solito ristorantino. Quello che ci aveva accompagnato in tanti
momenti della nostra storia. Tanti ricordi che però non avrebbero potuto condizionarmi. Lui
aveva già capito. Troppo sensibile e intelligente per continuare a far finta di nulla. E il
silenzio, lungo e imbarazzante fu spezzato proprio da Lorenzo: «Hai un altro?». Rimasi
pietrificata. Non era mai stato così diretto. «No, te lo giuro. E che io mi sento diversa,
l’esperienza del centro mi ha fatto cambiare, riflettere su tante cose e anche sul nostro
rapporto. Su quello che provo». Lui mi interruppe: «Ah, ho capito. Un modo carino per
dirmi che non sei più innamorata di me, che magari un giorno potremmo diventare amici,
che tutti questi anni non hanno significato nulla per te…che non hai fatto che prendermi in
giro e ora ti sei stancata del giocattolo». «Ma che dici, come ti permetti ‒ iniziai ad alzare
la voce, poteva dirmi tutto ma quello no ‒ Io non ti ho preso mai in giro. Ti ho amato
davvero e rifarei tutto quello che ho fatto. Ti chiedo scusa, in questi ultimi mesi sono stata
assente. Ma non puoi dirmi che per me sei stato solo un giocattolo. Purtroppo le cose
sono cambiate, e non posso continuare a nasconderlo a me stessa e soprattutto a te.
Lorenzo ‒ i toni si erano leggermente pacati ‒ tu sei una persona fantastica e non
immaginare che sia il classico luogo comune o un modo gentile per scaricarti. Hai fatto
tantissimo per me, ma evidentemente meriti una persona diversa. Io, in questo momento,
ho bisogno di stare da sola». Si alzò di scattò. Diede un pugno sul tavolo. «Va bene. Se è
questo quello che vuoi, ti accontento. Ma non cercarmi più. Non voglio più vederti. Hai
capito?!». Andò via. Rimasi lì, ferma, immobile. Seduta al tavolo. Dinanzi al me il vuoto.
Sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta. Che non lo avrei più rivisto. Ma in cuor mio
ero serena. Avevo evitato altro dolore. Forse per la prima volta in vita mia avevo scelto.
X CAPITOLO
Non avevo chiuso occhio. Ero stanchissima. Ma allo stesso tempo consapevole di tutto
quello che era accaduto negli ultimi tempi. La mia vita stava cambiando. Non sapevo cosa
mi potessi aspettare, ma avevo voglia di novità, di stravolgimenti. Mi sentivo forte, pronta
ad affrontare il mondo. E del giudizio degli altri non mi interessava più nulla. Spensi il
cellulare. Non volevo sentire nessuno. «Perché hai lasciato Lorenzo?» «Ma sei impazzita»
«Sicuramente c’è qualcun altro». Tutte chiacchiere che al solo pensiero mi provocavano
una forte emicrania. Dissi a mia madre di non passarmi nessuno e ripiombai sui libri. Le
terapie stavano andando bene, ma dovevo escogitare qualcosa di nuovo per stimolare
ulteriormente i ragazzi. Ormai quella era la mia missione e l’avrei assolta nel migliore dei
modi. E poi basta domande, basta elucubrazioni, meglio esser fatalisti e viversi
pienamente ogni attimo. Fu una domenica serena trascorsa con i miei e nessun altro.
Avevo voglia di rilassarmi, di immaginare che tutto sarebbe andato per il meglio.
L’indomani arrivai di buon’ora al centro. «Ciao Alessandra. Come mai così sorridente?».
Con il tempo anche con Maria avevo stretto un bel legame, c’era grande stima e rispetto
reciproco con quel delizioso mastino. «Sarà il sole che mi mette allegria. Mi sento super
positiva». «Brava, brava. Continua così - stavo per entrare in aula quando si girò - Ah,
non te l’ho mai detto, ma con i ragazzi stai facendo un ottimo lavoro. Però, adesso, non
montarti la testa e continua a impegnarti». Non mi aveva mai detto nulla. Eppure mi era
sempre stata vicina in quel percorso. Era una brava donna ed un’ottima professionista. I
“fantastici quattro” arrivarono dopo pochi minuti. Mattia indossava una maglietta blu, un
jeans e le scarpe da ginnastica. Quel giorno era particolarmente sorridente. Spesso i
nostri sguardi si incrociavano ed ogni volta era un tuffo nei meandri più sperduti della mia
anima. Mai nessuno avrebbe potuto capire. Io e lui. E questo mi bastava ed ora ero
consapevole di non essere pazza. Anzi non mi ero mai sentita meglio. Stavo seguendo da
vicino degli esercizi con Silvia quando, all’improvviso sentii un rumore. Il pavimento vibrò.
Di scattò mi girai. Mattia era a terra. Non si muoveva. Corsi verso di lui. Respirava a
malapena. Inizia ad urlare. A chiedere aiuto. Ad accarezzarlo, a tentare una prima
manovra di soccorso. Ricordo le sirene dell’ambulanza. Le sue mani fredde. I suoi occhi
chiusi, di marmo. Quella corsa disperata in ospedale e poi l’attesa. Un lungo inverno.
Tenevo stretta a me Alice. Stefano fissava le parenti bianco latte. Nessuno parlava. Avrei
solo voluto svegliarmi da quell’incubo. Ma era tutto vero. Crudelmente vero. Quella
maledetta porta si aprì e vidi un camice bianco avvicinarsi. In quello stesso istante avevo
capito. Il mio Mattia se n’era andato. Il cuore di quell’angelo non aveva retto. Quegli occhi
che mi avevano fatto rinascere, con la stessa dolcezza, mi stavano uccidendo. Lo vidi solo
per pochi istanti in quel letto. Sfiorai delicatamente i capelli color oro e poi scappai via. Dei
giorni che seguirono ricordo solo quella bara bianca, quelle rose che ricoprivano l’altare e
le lacrime di Alice e Stefano. Poi nulla. Mi rinchiusi in me stessa. Presi un periodo di
aspettativa dal centro. Non avevo né più la forza né più la voglia di far nulla. Un vegetale
aggrappato ai ricordi che non era stato neanche capace di stare vicino alla famiglia di
Mattia. Fino ad un pomeriggio di settembre quando sentì bussare alla porta della mia
abitazione. «Mamma sto in pigiama, vai tu?». Nessuna risposta. Non mi ero neanche
accorta che ero sola in casa. Mi alzai a fatica. Lì, dietro la porta color noce mescolata a
sfumature più chiara, Alice. Non sapevo che fare. Non sapevo che dire. «Posso entrare
Alessandra?». «Certo, certo. Ti offro un caffè». Sedute al tavolo della cucina: «Io ti devo
chiedere scusa per essere scomparsa, ma non ha avuto il coraggio di starvi vicino. E per
questo che mi sento terribilmente male. Mattia mi manca da impazzire ‒ riprendendo fiato
- gli volevo veramente bene». «Lo so, lo so. La sua scomparsa ci ha distrutto. Ma non per
questo la vita si deve fermare, sono sicura che lui avrebbe voluto così”. Cacciò dalla borsa
l’agenda che aveva regalato a Mattia per il suo compleanno e me la porse. La presi tra le
mani. Non capivo. «Aprila e leggila». Poi si alzò: «Io devo andare, grazie per il caffè.
Spero di vederti presto”. Quei fogli bianchi erano stati riempiti da disegni. Ero io in classe,
con i suoi compagni. Io con vestiti diversi. Io al suo compleanno. Ero sempre e solo io. E
poi una frase: “Alessandra bellissima, voglio tanto tanto bene. Per sempre”. Quell’agenda
mi accompagnò per tutta la vita.
XI CAPITOLO
Una settimana dopo la mia valigia era pronta. Dovevo andar via, non potevo restare lì.
Non ce l’avrei fatta a superare tutto. Mi ero licenziata dal centro e da lì a pochi giorni avrei
sostenuto un nuovo colloquio presso una struttura cinquecento chilometri da casa. «Sei
sicura di quello che fai?». Mia madre era preoccupata e almeno per una volta toccava a
me rassicurarla. «Non ti preoccupare mamma. Fidati di me, andrà tutto bene». Ci
abbracciammo lungamente, così come con mio padre. Trascorsero tre anni da allora.
“Che questo sia un luogo dove trasmettere gioia, amore e vita”. Poche parole quelle di
padre Francesco ma dense di significato. Poi un lungo applauso. C’erano proprio tutti: i
miei genitori, Alice, Stefano ed anche Maria. Ero riuscita a far rivivere Mattia. Quel centro
per bambini autistici avrebbe portato il suo nome. Dopo tanti sacrifici ce l’avevo fatta a
costruire qualcosa di mio. Anzi qualcosa di nostro seppur lontano da dove quel sogno era
iniziato. “Questo è un giorno speciale ‒ dissi nel discorso di inaugurazione ‒ Non
immaginavo che un giorno ce l’avrei fatta. Eppure, ora, è tutto realtà grazie a quegli occhi
d’aprile. Grazie ad un angelo che non mi ha mai abbandonato. So che lui in questo
momento mi sta ascoltando, ci sta vedendo. Come so che è contento; sicuramente starà
sorridendo. Anch’io ti ho voluto bene, tanto, ma tanto bene. È solo e soltanto merito tuo se
oggi è nato qualcosa di grande. Non ti dimenticherò, nessuno di noi dimenticherà quel
piccolo uomo dal cuore troppo fragile che ha saputo insegnare a vivere nel silenzio”.