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1 Obesità: trattamento multidisciplinare ed educazione alimentare infantile Corsi di formazione professionale per medici, nutrizionisti, psicologi ed insegnanti Diretto e coordinato dal prof. Luca Pecchioli L’obesità: epidemiologia, definizione, fisiopatologia. Antropometria e composizione corporea Prof. Carmine Orlandi Docente di Scienze dell’Alimentazione e Principi di Dietetica Università di Roma , Tor Vergata

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Obesità: trattamento multidisciplinare

ed educazione alimentare infantile

Corsi di formazione professionale per medici, nutrizionisti,

psicologi ed insegnanti Diretto e coordinato dal prof. Luca Pecchioli

L’obesità: epidemiologia, definizione, fisiopatologia.

Antropometria e composizione corporea

Prof. Carmine Orlandi Docente di Scienze dell’Alimentazione

e Principi di Dietetica Università di Roma , Tor Vergata

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DISTRIBUZIONE DEL GRASSO CORPOREO NEGLI ADULTI SANI La maggior parte del grasso corporeo è immagazzinato nel tessuto adiposo, un tessuto classificabile come connettivale, costituito dalle cellule adipose, o adipociti, raccolte in una struttura areolare ed organizzate in lobuli disposti lungo il decorso di piccoli vasi sanguigni. Nell'uomo, come in altre specie animali, sono presenti due tipi di tessuto adiposo: bianco e bruno. Tessuto adiposo bianco Il tessuto adiposo bianco è meno vascolarizzato del bruno, e da questo deriva il suo colore bianco-giallastro. Il contenuto di grasso del feto aumenta rapidamente durante l'ultimo trimestre della gravidanza e a termine contiene circa 500 gr di grasso, del quale una discreta quota è tessuto bruno. L'accumulo di grasso corporeo bianco inizia durante il primo anno di vita, rallenta successivamente e ricomincia ad aumentare in corrispondenza della pubertà, in misura maggione nelle femmine rispetto ai maschi. Il contenuto di grasso dell'organismo, in percentuale, è meno del 20% del peso totale in giovani uomini e meno del 25% in giovani donne. Nell'uomo adulto, oscillazioni di 3 kg del peso totale del tessuto adiposo sono considerate normali. Il numero degli adipociti del tessuto adiposo bianco cresce nella prima infanzia, mentre nei periodi successivi della vita tende a stabilizzarsi ed eventuali nuovi accumuli di grasso avvengono mediante un aumento delle dimensioni degli adipociti esistenti. Gli adipociti bianchi hanno dimensioni molto variabili (da 20-30 nm a 150-200 nm) che, secondo alcune evidenze, sono indicative del potenziale metabolico della cellula: dagli adipociti meno grandi sarebbe più facile mobilizzare le riserve energetiche. Nel citoplasma dell'adipocita bianco c'è un unico vacuolo sferico che contiene trigliceridi. Questo grande vacuolo spinge ad una estremità della cellula il nucleo e gli altri organelli che servono a svolgere le funzioni cataboliche e anaboliche. Il tessuto adiposo bianco è dotato di una buona plasticità, tanto da adattarsi a diversi tipi di localizzazione e da svolgere anche la funzione di involucro protettivo per molti organi interni (p.es.: reni). Le due modalità principali di distribuzione del tessuto adiposo bianco nell'organismo sono:

• quella fasciale, comunemente definita sottocutanea, organizzata in "pannicoli" di spessore vario, disposti fra l'epidermide e la fascia degli organi scheletrici, e...

• quella viscerale che consiste nella localizzazione nell'ambito di cavità sierose (p.es.: endoperitoneale, scrotale, ecc.).

Nelle società con elevato tenore di vita, ma non solo, si osserva una tendenza verso un progressivo aumento del contenuto totale di grasso corporeo in uomini e donne di mezza età. Non ci sono prove che questo sia un aspetto caratteristico dell'invecchiamento, in quanto in popolazioni di paesi in via di sviluppo, nelle quali non si verifica un così evidente squilibrio fra introito e dispendio di calorie, non c'è un aumento del grasso corporeo con l'avanzare degli anni. Nei paesi occidentali la composizione corporea comincia a modificarsi intorno ai 40 anni con una continua progressione in seguito. Parimenti, si osserva una riduzione della massa magra corporea (il peso di tutti i tessuti dell'organismo escluso il tessuto adiposo), correlabile ad una diminuzione delle masse muscolari. In queste società si osserva

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una tendenza generale verso abitudini di vita sempre meno attive, negli anni, con una ridotta attività fisica che favorisce questa perdita di massa muscolare. La stessa diffusione di terapie dietetiche incongrue contribuirebbe, secondo alcuni, alla progressiva perdita di massa magra ed allo sviluppo di un tessuto adiposo bianco meno attivo metabolicamente, in quanto costituito da adipociti relativamente meno numerosi e di dimensioni più grandi. Tessuto adiposo bruno Il tessuto adiposo bruno è situato negli strati sottocutanei della parte superiore della schiena, in quota relativamente maggiore nel neonato. Le cellule adipose brune contengono moltissimi mitocondri ed il tessuto adiposo bruno è riccamente vascolarizzato. Questa caratteristica, insieme alla ricca innervazione da parte di fibre simpatiche, alla distribuzione del grasso in piccole sfere ed al gran numero di mitocondri, concorda nell'indicare una maggiore "vivacità" metabolica di questo tessuto, rispetto al tessuto adiposo bianco. Il tessuto adiposo bruno, è localizzato prevalentemente nell'area soprafasciale in sede interscapolare, ascellare e periinguinale. Esso tende a ridursi gradualmente con l'età. Altre localizzazioni delle cellule adipose Cellule adipose sono presenti anche nell'ambito di altri tessuti: muscolo, fegato, midollo osseo. Nel fegato, la loro presenza in eccesso definisce il quadro della steatosi. Per il midollo, come anche per il timo e per il tessuto mammario, è interessante notare come il tessuto adiposo tenda a sostituire progressivamente il tessuto originale.

DISTRIBUZIONE DEL GRASSO CORPOREO IN RELAZIONE ALL'ETA' E AL SESSO

Le donne hanno una quota maggiore di adipe distribuita negli strati sottocutanei, piuttosto che nelle cavità sierose, e la distribuzione in corrispondenza dei seni e dei fianchi tende ad associarsi con le caratteristiche sessuali secondarie. La localizzazione prevalente alle natiche ed alle cosce è conosciuta come distribuzione del grasso ginoide o gluteofemorale, o anche come obesità "a pera" ed è caratteristica, seppure non esclusiva, del sesso femminile. Il grasso viscerale con l'età si espande molto, particolarmente nell'uomo, conferendo all'addome la caratteristica forma globosa. La localizzazione dell'adipe nell'addome è nota come distribuzione androide, obesità centrale o obesità "a mela". La distribuzione del tessuto adiposo va valutata in ciascun paziente e tenuta nel giusto conto perché è strettamente correlata ai rischi di morbilità e mortalità che si associano all'eccesso di peso.

LE FUNZIONI DEL TESSUTO ADIPOSO La funzione del grasso corporeo Chi si accosti oggi al problema dell'eccesso di peso, non può non considerare il tessuto adiposo che in una luce negativa, visto che all'eccessivo sviluppo di questo tessuto ed alla sua modalità di distribuzione si correlano disturbi, patologie ed

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aumentato rischio di morbilità e mortalità. Questo atteggiamento mentale, però, non tiene conto del ruolo indispensabile per la sopravvivenza che il tessuto adiposo ha giocato nello sviluppo della specie umana, dalle sue origini fino ad alcuni decenni fa e per alcune popolazioni gioca ancora oggi. Inoltre, ignorando l'importanza del tessuto adiposo in queste situazioni estreme come carestie e costante penuria di cibo si rischia di non comprendere quel complesso sistema che preserva, come bene prezioso, le riserve energetiche dell'organismo. Il tessuto adiposo bianco come riserva energetica Il tessuto adiposo bianco ha, fra le altre, la funzione di isolamento termico (con i pannicoli sottocutanei), di protezione di organi interni e di partecipazione al mantenimento dell'omeostasi idroelettrolitica, ma la funzione principale è quella di immagazzinare energia, per fornirla al resto dell'organismo nelle fasi interprandiali e nei periodi di digiuno. Senza pensare a condizioni estreme quali quelle citate in precedenza, basta richiamare il digiuno prolungato che segue un intervento chirurgico o quello che serve da preparazione ad un esame strumentale, per capire che le riserve del tessuto adiposo sono indispensabili. L'energia viene immagazzinata sotto forma di trigliceridi, molecole costituite da tre lunghe catene non ramificate di carbonio, ciascuna con un gruppo carbossilico terminale legato al glicerolo. Fra le molecole utilizzabili come substrati energetici, i carboidrati hanno il vantaggio di essere una fonte di energia di più diretto utilizzo, in quanto metabolizzati facilmente, sia in condizioni di aerobiosi che di anaerobiosi, ma i trigliceridi, per unità di peso, concentrano quasi il doppio di energia rispetto a quella sviluppata dai carboidrati. Le due fasi dell'utilizzo delle riserve energetiche Nel periodo post-prandiale i livelli ematici di glucosio abitualmente sono alti ed il glucosio passa dal sangue ai tessuti, dove fornisce energia per il metabolismo o viene metabolizzato ed immagazzinato. Quando la glicemia scende dopo il pasto, la funzione cellulare necessita di substrati energetici. Lo sfruttamento delle riserve energetiche dell'organismo avviene in due fasi. Una prima fase che utilizza il glicogeno distribuito in vari organi e tessuti, che è un substrato di pronto impiego, ma che si esaurisce rapidamente, ed i grassi, ai quali si attinge nella seconda fase. La maggior parte delle cellule metabolizza di preferenza il glicogeno mentre il muscolo a riposo usa come fonte di energia gli acidi grassi piuttosto che i carboidrati. Se lo sfruttamento energetico entra nella fase due, nell'adipocita la lipasi idrolizza i trigliceridi in glicerolo e acidi grassi non esterificati. Questa lipasi è un enzima intracellulare che viene inibito, ad esempio, dall'insulina. Il glicerolo liberato può essere utilizzato per la sintesi di nuovo glicogeno nel fegato, in modo da reintegrare le riserve di questo substrato. Gli acidi grassi raggiungono tutti i tessuti che necessitano di fonti di energia e, se non metabolizzati, possono servire alla essere re-sintesi di trigliceridi.

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Il corretto funzionamento del sistema delle riserve energetiche è molto importante per evitare, ad esempio, che si creino condizioni limite nelle quali per produrre energia si attinge a molecole come le proteine deputate, invece, a ruoli funzionali e strutturali.

I risvolti pratici Questa esemplificazione del sistema delle riserve energetiche va tenuto presente nel momento in cui, ad esempio, si concordano con il paziente forme di esercizio fisico che contribuiscano a riequilibrare il bilancio energetico. Per individui sedentari è molto importante che la ripresa di un'attività fisica congrua sia progressiva e sfrutti positivamente i meccanismi di utilizzo delle riserve energetiche. Il corretto funzionamento del sistema delle riserve energetiche è molto importante per evitare, ad esempio, che si creino condizioni limite nelle quali per produrre energia si attinge a molecole come le proteine deputate, invece, a ruoli funzionali e strutturali.

I sistemi di regolazione Fungendo da riserva energetica per tutto l'organismo, il tessuto adiposo bianco deve poter dialogare con tutti gli altri organi e tessuti e ciò avviene attraverso numerosi ormoni e mediatori. Per necessità di sintesi elenchiamo di seguito solo alcune delle interazioni finora dimostrate. Leptina: viene prodotta dalle cellule adipose. Riduce l'appetito ed aumenta il dispendio energetico TNF-α: le cellule del tessuto adiposo possono produrlo e ne possono esprimere il recettore. Stimola la lipolisi e inibisce la produzione di enzimi lipogenici. Resistina: ridurrebbe la sensibilità degli adipociti all'insulina, ma si attendono ulteriori dimostrazioni a riguardo. Adiponectina: aumenterebbe la sensibilità degli adipociti all'insulina Angiotensinogeno: può essere prodotto dagli adipociti Catecolamine: sulla membrana delle cellule adipose si trovano recettori adrenergici α2 e beta: ß1, ß2 e ß3. Attraverso i recettori beta le catecolamine stimolano potentemente la lipolisi. Insulina: stimola l'accumulo di trigliceridi negli adipociti ed inibisce la lipolisi. Cortisolo: stimola la sintesi ed inibisce la degradazione degli ormoni lipogenici. Questi effetti sarebbero particolarmente evidenti nel tessuto adiposo viscerale. La somministrazione acuta dell'ormone favorisce l'effetto lipolitico delle catecolamine. Androgeni: riduce l'espressione di enzimi lipogenici. Gli adipociti viscerali sono particolarmente ricchi di recettori per il testosterone. Estrogeni: non è ancora chiara la modalità di interazione con gli adipociti, un'ipotesi potrebbe essere quella di antagonizzare l'effetto che su di esso hanno gli androgeni. In particolare favorirebbero la localizzazione gluteofemorale a discapito di quella viscerale. Progesterone: sembra influenzare la funzione degli adipociti in maniera indiretta, ad esempio inibendo l'effetto del cortisolo. GH: il suo effetto principale è anti-lipogenico e pro-lipolitico. T3, T4 e TSH: hanno un effetto prevalentemente pro-lipolitico.

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FISIOPATOLOGIA E BILANCIO ENERGETICO

Bilancio energetico e peso corporeo Il bilancio energetico, sul quale si basa l'omeostasi del peso corporeo, è un bilancio fra le calorie introdotte con gli alimenti e l'energia spesa dall'organismo per tutte le sue funzioni. A seconda che sia positivo, in pareggio o negativo si determina un accumulo di energia nel tessuto adiposo o una mobilizzazione delle riserve energetiche. Sia l'energia introdotta che quella consumata sono misurate in kiloJoules (kJ; il joule è l'unità di energia e lavoro del Sistema Internazionale, SI). Dell'energia contenuta nel cibo, solo una parte si rende realmente disponibile per l'organismo, quella contenuta nei polisaccaridi non assorbibili della fibra alimentare, ad esempio, viene persa con le feci. L'energia consumata alimenta in gran parte i processi metabolici attivi, vale a dire tutte le attività cellulari che richiedono un dispendio di energia o quelle più specializzate come la contrazione muscolare. Quantità minori di energia vengono disperse in altri processi, quali la produzione di energia termica e la produzione di secrezioni ed escreti. Pur essendo le kiloJoules l'unità di misura più moderna e standardizzata, si usano ancora spesso le kilocalorie (kcal). Una caloria è la quantità di calore richiesta per aumentare di 1 grado centigrado la temperatura di un grammo di acqua ed è una quantità di energia molto piccola. Parlando di bilancio energetico dell'organismo, si preferisce utilizzare la kilocaloria (o grande caloria). Una Kilocaloria (o Caloria con la C maiuscola), corrisponde a 1000 calorie ed è il calore richiesto per aumentare di 1° Centigrado un kg di acqua. 1 kcal = 1000 cal 1 kcal = 4184 joules = 4.184 kiloJoules 1.0 kiloJoule = 0.239 kcal Pur con tutte le riserve del caso, si può affermare che la quantità media di energia introdotta giornalmente con gli alimenti da un adulto è compresa tra 1600 e 2400 kcal. Dispendio energetico Il tessuto adiposo bianco ha, fra le altre, la Il termine metabolismo energetico viene usato per definire la quantità totale di energia impiegata dall'organismo per le sue funzioni, in un dato periodo di tempo. Il metabolismo energetico viene espresso come kiloJoules (o Kilocalorie) di energia termica speso per ora o per giorno. Varie metodiche sono state proposte per valutare il dispendio energetico, alcune troppo complesse e poco "fisiologiche", altre troppo indirette e poco riproducibili. Una tecnica oggi ben standardizzata è la calorimetria indiretta. Questo test si usa per quantificare il metabolismo energetico a riposo e sotto sforzo. Fornisce un quadro abbastanza completo del dispendio energetico e dell'efficienza cardio-respiratoria. Fra i parametri raccolti durante l'esame ci sono: il consumo di ossigeno (VO2), la produzione di anidride carbonica (VCO2), il quoziente respiratorio (VO2/VCO2: QR) la soglia anaerobica (AT) e il polso di ossigeno. A partire da questi dati si calcola il calore prodotto nell'organismo basandosi sull'assunto che esso deriva dai

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processi ossidativi ai quali corrispondono consumo di ossigeno e produzione di anidride carbonica proporzionali all'energia generata. La calorimetria indiretta può essere molto utile, nel paziente obeso, sia per quantificare il metabolismo energetico, ed impostare su questa base la restrizione calorica, sia per verificare sotto sforzo la soglia anaerobica, che permette di adattare un programma di attività fisica alle funzioni cardio-respiratoria e metabolica del singolo individuo. Perchè si mangia Introdurre energia è un impulso ancestrale ed una funzione fondamentale dell'organismo. La fame è lo stimolo che spinge l'individuo ad alimentarsi e la sazietà è la sensazione che lo distoglie dalla ricerca e dall'assunzione del cibo, almeno in teoria. La piena comprensione dei fenomeni che sono alla base di questo meccanismo apparentemente perfetto ed auto-regolato, ma in realtà inefficace nel prevenire l'eccessivo introito calorico, richiede una specie di astrazione dalla realtà attuale e la proiezione nell'ambiente nel quale viveva la specie umana molti millenni fa. Se si confrontano quelle epoche remote con la condizione nella quale si trova chi vive oggi nei paesi più sviluppati, ci si rende conto che il fabbisogno energetico dell'organismo era molto maggiore e che procurasi il cibo era molto più difficile e faticoso di quanto non lo sia adesso. Inoltre, eventi atmosferici e fenomeni naturali potevano provocare carestie gravissime che rendevano ancora più arduo soddisfare i fabbisogni alimentari. La specie umana è sopravvissuta sviluppando complessi meccanismi che permettessero di ovviare a queste difficoltà ambientali. A regolare lo stimolo della fame, la fase di "saziamento" e lo sviluppo e la stabilizzazione della sazietà concorrono meccanismi nervosi e ormonali, che si attivano a livello centrale e periferico e sono strettamente correlati fra di loro. I mediatori coinvolti sono numerosissimi e le conoscenze delle quali disponiamo su molti di loro derivano da studi su modelli animali, non necessariamente riproducibili nella fisiologia umana, ma indispensabili per comprendere alcuni passaggi della fisologia della regolazione dell'assunzione del cibo. I meccanismi centrali Un nucleo di neuroni dell'ipotalamo laterale costituisce il "centro della fame", mentre un'area del nucleo ventromediale dell'ipotalamo rappresenta il "centro della sazietà". Messaggi provenienti da quest'area infatti, riducono l'appetito producendo un senso di sazietà e dopamina, noradrenalina e serotonina sarebbero i mediatori finali di questa regolazione. La serotonina, in particolare, favorisce lo sviluppo del senso di sazietà. Ai neuroni di questi centri arrivano stimoli e messaggi "biologici" e "sensoriali". La leptina, secreta dalle cellule adipose, influenza i centri sopra descritti riducendo l'appetito. Essendo secreta in quantità proporzionale alla quota di tessuto adiposo presente nell'organismo, dovrebbe innescare un circolo virtuoso utile a limitare l'accumulo di adipe, ma sappiamo che ciò non avviene. La ghrelina, identificata più di recente, è prodotta nella mucosa gastrica e stimola la fame, oltre a modulare la

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motilità dello stomaco ed a promuovere la secrezione di GH. L'NPY stimola l'assunzione di cibo e la propio-melanocortina (POMC) la riduce. I mediatori fin qui descritti agiscono con meccanismi "a cascata": la leptina riduce l'assunzione di alimenti inibendo i neuroni ad NPY e stimolando quelli a POMC. Viceversa, la ghrelina stimola i primi ed inibisce i secondi. Infine, è stato dimostrato che la leptina inibisce l'attività dei neuroni attivati dalla ghrelina. La vista, l'odore ed il sapore del cibo generano a loro volta stimoli che modulano l'attività dei neuroni del centro dell'appetito. Ma, oltre a queste sollecitazioni, anche messaggi cognitivi ed emozioni influenzano il comportamento alimentare. L'apparato digerente Quando nel sistema nervoso centrale si "decide" che è necessario reintegrare i substrati energetici e sintetici necessari all'organismo, l'apparato gastrointestinale si predispone a tutte le funzioni correlate all'assunzione del cibo ed alla sua digestione. Le ghiandole salivari e la mucosa gastrica adattano le rispettive secrezioni all'arrivo degli alimenti e lo stesso avviene per la motilità di esofago, stomaco e duodeno e per le funzioni di fegato e pancreas. Tutte queste modificazioni sono sottoposte a controllo nervoso ed ormonale e sono accompagnate da un fitto scambio di messaggi con il sistema nervoso centrale. Con l'arrivo dei primi bocconi di cibo inizia il processo di saziamento che si conclude quando, sulla base degli stimoli che arrivano dall'apparato gastroenterico e dal resto dell'organismo, nel centro dell'appetito si liberano mediatori che segnalano il raggiungimento della condizione di sazietà. Tanto più a lungo si manterrà questa condizione, tanto più si protrarrà la fase interprandiale. La durata della sensazione di sazietà dipende da moltissimi fattori. Dalle modalità di svolgimento della digestione, dai messaggi che l'apparato digerente invia al sistema nervoso centrale e su questi fattori esercitano importanti influenze le caratteristiche del pasto. Fra le componenti degli alimenti, le proteine inducono una sazietà più protratta, gli zuccheri complessi meno e quelli semplici non hanno effetti sensibili sulla sazietà. Gli effetti delle diverse componenti alimentari su sazietà ed appetito vanno tenute in gran conto quando si propone al paziente una riduzione dell'introito calorico, per scegliere cibi meno ricchi di calorie, ma con un elevato potere saziante. Il ruolo degli stimoli cognitivi Il ruolo fondamentale che giocano i meccanismi di fame e sazietà nella stessa sopravvivenza dell'organismo richiede una così grande complessità di regolazione. Sono necessari tanti meccanismi correlati fra loro perché se uno funziona male o si blocca, altri possano ovviare a questo difetto. Per un medico è certamente più facile focalizzare la propria attenzione sui meccanismi biologici e sensoriali che influenzano l'assunzione di cibo, mentre è più difficile quantificare il peso che hanno gli stimoli cognitivi e le emozioni. D'altraparte, nelle società più sviluppate i comportamenti alimentari sono sempre meno dettati dai primi e sempre più modulati dai secondi. In un ambiente nel quale l'accesso al cibo è facilitato da una offerta sempre più pressante e da un benessere economico sempre più diffuso, l'individuo è tentato da alimenti che, oltre ad essere fonte di substrati, sono anche fonte di piacere. L'assunzione di un cibo palatabile

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induce la liberazione, a livello centrale, di mediatori come dopamina ed endorfine che trasmettono una sensazione di piacere ed appagamento. L'individuo che prova questa sensazione assumendo un certo cibo cercherà ancora lo stesso cibo e la stessa sensazione per compensare condizioni di stress e per influenzare il tono dell'umore. A volte gli effetti del cibo sulla psiche non sono neanche correlati direttamente alle caratteristiche dello stesso, ma piuttosto al contesto familiare e sociale nel quale viene assunto. Mangiare una doppia razione di un certo alimento durante il pranzo della domenica in famiglia può non dipendere dal gusto o dalla palatabilità di quell'alimento, ma piuttosto dal fatto che "...si è sempre fatto così..." o dal desiderio di non scontentare chi ha organizzato e preparato quel pranzo. Queste considerazioni sono molto meno astratte di quello che può sembrare. In tanti casi la compliance nei confronti di una restrizione calorica finalizzata al calo ponderale è influenzata più da questi fattori che dai meccanismi biologici dell'organismo. Le diete che ignorano le necessità sociali dell'individuo e lo costringono a modificazioni troppo drastiche e punitive delle abitudini alimentari e di vita, sono gravate da un altissimo rischio di insuccesso. Comportamento alimentare nell'obesità Non è possibile generalizzare il comportamento alimentare dell'obeso. Se il dato costante è l'eccesso relativo di introito calorico, le modalità attraverso le quali esso si determina possono cambiare da un individuo all'altro. Secondo alcuni autori, i soggetti obesi, più dei normopeso, mangiano più per rispondere alle sollecitazioni cognitive ed emozionali che in base alle necessità biologiche dell'organismo. Il ricorso frequente a spuntini e snack, l'abuso di cibi altamente palatabili e ricchi di grassi, l'incapacità di riconoscere i segnali di fame e sazietà, sono espressioni di una tendenza ad usare l'alimentazione per qualcosa di diverso dal suo scopo precipuo: l'introito di substrati energetici e sintetici. Gli individui obesi tendono a consumare alimenti più ricchi di grassi, a parità di apporto calorico totale, perché il sapore e la consistenza dei cibi ad alto contenuto di grassi e ad alta densità calorica li appagano di più. Inoltre, i pasti ricchi di cibi grassi tendono a produrre un senso di sazietà meno intenso di quelle ricche di carboidrati complessi, a parità di contenuto calorico e quindi più precocemente ricomparirà la fame. Il costante allargamento della "zona grigia" fra obesità e disturbi del comportamento alimentare ed il riscontro sempre più frequente di forme di alimentazione compulsiva (Binge Eating Disorder) negli obesi, devono spingere il medico che voglia trattare l'eccesso di peso a valutare approfonditamente non solo cosa il paziente mangia, ma anche come e perché mangia. Metodi di valutazione dei comportamenti alimentari Qualsiasi approccio moderno all'eccesso di peso dovrebbe partire da un'attenta analisi del comportamento alimentare del paziente. Una prima valutazione può essere fatta con l'anamnesi, anche se va tenuto presente che molti autori hanno dimostrato che i pazienti tendono a sottostimare sensibilmente (fino al 50%) le quantità di cibo che assumono. Il cosidetto recall alimentare è una raccolta di informazioni dettagliate

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sull'assunzione di cibo in un dato periodo di tempo, ad esempio le 48 ore precedenti all'incontro con il paziente. Anche questa metodica è gravata da un elevato rischio di sottostima dell'introito calorico e in più il periodo di osservazione può costituire una "finestra" troppo stretta, basti pensare ai soggetti che durante la settimana hanno un'alimentazione pressochè normocalorica e che nel week-end assumono pasti fortemente ipercalorici. E' difficile misurare la quantità di energia introdotta nell'organismo in quanto essa varia da un'ora all'altra o da un giorno all'altro. Quanto più attentamente si valutano i cibi ed i comportamenti alimentari, tanto più gli stessi processi di valutazione possono condizionare i comportamenti abituali. Uno strumento più moderno è il diario alimentare, vale a dire una registrazione protratta nel tempo delle abitudini alimentari. E' uno strumento che, se usato bene, può fornire un quadro molto completo dei comportamenti del paziente, non solo in termini di calorie introdotte, ma anche del come e del perché certe abitudini si sono consolidate. Allargando l'ottica della valutazione si possono registrare le sensazioni di fame e di sazietà associate all'assunzione di vari cibi o la relazione fra tono dell'umore e stress e introito di alimenti. L'utilizzo di questo strumento richiede però abilità e conoscenze specifiche da parte del medico e disponibilità a collaborare da parte del paziente.

DALL’EPIDEMIOLOGIA ALLA PRATICA CLINICA

• 1 miliardo e 200 milioni di persone in tutto il mondo hanno problemi di peso • Viene definita una ’epidemia globale’ perché interessa oltre il 50% della

popolazione adulta delle civiltà industrializzate • In America:

55% della popolazione è in sovrappeso 23% della popolazione è obesa 23 miliardi di dollari è la spesa sanitaria annua per i soggetti con BMI > 29 6 miliardi per i normopeso

• In Italia: 33,1% della popolazione è in sovrappeso ( 41% degli uomini e 25,7% delle donne ) 9,7% della popolazione è obesa ( 9,5% degli uomini e 9,9% delle donne)

• il 24% degli uomini e il 37% delle donne tentano di dimagrire • Il 57% degli uomini in sovrappeso si vedono normali. • Nel 3% addirittura magri • Il 10% delle donne con peso normale si vede grassa • Solo il 5% degli obesi si rivolge ad un medico • Il 95% degli obesi si affida ai consigli dietetici dei media e della pubblicità • l’obesità è una malattia riconducibile per il 50% a fattori genetici e per il 50% a

fattori ambientali. • 40 sono i geni coinvolti nell’ obesità

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• Più del 50% degli ipertesi è in sovrappeso • L’85% dei diabetici di tipo 2 è obeso • L’80% dei soggetti con malattie cardiovascolari è in sovrappeso oppure obeso • 5-10% del peso iniziale è la perdita sufficiente per ridurre i fattori di rischio e

una riduzione del 20% della mortalità totale • Da 1,5 a 2 è l’aumento del rischio cardiovascolare per ogni fattore di rischio

rispetto al soggetto con assenza di questi (es. fumo, dislipidemia, intolleranza glucidica, iperinsulinemia, diabete, ipertensione) 2x2x2 è il rischio di patologia cardiovascolare di un soggetto con 3 fattori di rischio

• L’Obesità riduce l’aspettativa di vita di 17 anni ed è la seconda causa di morte dopo il fumo.

• In 9 anni l’obesità infantile è passata dal 6,1% al 13,6% nell’Italia nord-occidentale

• A 11 anni i bambini con problemi di peso sono più del doppio di quelli di 6 anni

• Il 30-60% dei bambini obesi sarà un adulto obeso 1000 kcal è la riduzione del consumo energetico giornaliero imposta dallo stile di vita della società moderna

• Solo il 35% della popolazione si dedica a un’attività fisico-sportiva • Perdere 7 kg per un obeso significa risparmiare 750.000 lire per anno in

farmaci antipertensivi e antidiabetici • L’Obesità costa quasi un milione e mezzo l’anno per persona • Inoltre in Italia:

500.000 persone soffrono di disturbi del comportamento alimentare 65.000 persone soffrono di Bulimia e Anoressia 8.500 sono i nuovi casi di Anoressia e Bulimia ogni anno

• L’Italia è il paese Europeo con la percentuale più bassa di persone obese e sovrappeso.

L’obesità è una delle patologie più diffuse, al punto da essere considerata quasi un’epidemia tra i paesi industrializzati e in quelli in fase di evoluzione tecnologica. I tassi di incidenza sono infatti in rapida crescita e raggiungono anche il 70% della popolazione adulta. È riconosciuta come una malattia ad andamento cronico ed uno dei maggiori fattori determinanti in molte malattie non trasmissibili come il Diabete mellito non insulino-dipendente e Malattie coronariche, ma anche incrementa il rischio di Disturbi biliari, di alcuni tipi di Cancro, di Disordini muscolo scheletrici e Respiratori. ECCO PERCHE’ SOPRA UN CERTO LIVELLO DI PESO, L’ECCESSO PONDERALE DEVE ESSERE CONSIDERATO UNA MALATTIA CRONICA! L’eziopatogenesi è multifattoriale e la causa principale nell’uomo è identificabile solo occasionalmente. Il vecchio adagio “l’obesità è un male di famiglia” riflette comunque molto bene il responso di molti lavori, i quali identificano proprio nella familiarità una delle concause principali: fino al 40% se uno dei due genitori è obeso,

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e fino al 70% se lo sono entrambi. Considerati gli stretti rapporti tra obesità e patologie, e considerata la tendenza all’aumento dei tassi di prevalenza di soprappeso ed obesità, uno degli obiettivi di salute pubblica programmati nel PSN 1998-2000 si propone di promuovere azioni di prevenzione sugli stili di vita , quali primi tra tutti, Alimentazione ed Attività fisica, al fine di ridurre la prevalenza degli individui obesi. In Italia comunque i consumi alimentari sono diminuiti nell’ultimo decennio (D’Amicis 2001) di circa il 10-15% arrivando perciò ad un apporto medio di 2200 kcal giornaliere. Anche il fabbisogno energetico medio si è modificato passando dalle 2550 kcal/die alle 2300 a causa della maggior presenza di anziani (i quali presentano una fisiologica diminuzione del fabbisogno) e alla ridotta attività fisica per il lavoro ed il tempo libero. La copertura del fabbisogno dei macronutrienti ha visto modeste variazioni in positivo, ma non ancora soddisfacenti: si è passati dal 170% al 156% per le proteine, dal 160% al 120% per i grassi, e dall’83% all’84% per i carboidrati. Gli unici nutrienti che non hanno la copertura adeguata sono il Calcio (94%) e la Vitamina D (51%). In termini di alimenti quelli che hanno subito il maggior calo sono: vino, grassi da condimento, formaggi grassi, carni, latte intero. Gli alimenti che invece hanno subito un aumento sono: pesce, ortaggi, pizza, latte parzialmente scremato. LA SITUAZIONE ATTUALE IN ITALIA Le fonti attualmente disponibili a livello nazionale su peso e statura degli Italiani sono quelle derivanti da indagini campionarie tramite intervista (indagini HIS – Health Interview Survey) condotte dall’ISTAT nel 2001. Tali dati sono forniti attraverso autodichiarazioni degli intervistati con conseguente probabile sovrastima dell’altezza e sottostima del peso. Circa 4 milioni sono le persone adulte obese in Italia, con un incremento stimato del 25% rispetto al 1994. I soggetti in soprappeso invece non registrano aumenti dal ’94 e sono oltre i 15 milioni. In termini di prevalenza l’Italia presenta livelli di obesità in linea con gli incrementi registrati negli altri paesi Europei, mentre si mantiene a valori molto più bassi per quanto riguarda il sovrappeso. • La maggioranza degli adulti, pari al 53,8%, è in una condizione di normopeso (BMI tra 18,5 e 24,99) • 1 adulto su 3 è in condizione di sovrappeso (33,4% con BMI tra 25 e 29,99), con andamento crescente all’aumentare dell’età: 13% fino ai 24 anni, 45% per le fasce di età comprese tra i 65 e i 75 anni. • il 9,1% è obeso (BMI superiore a 30): 2% fino ai 24 anni, 13% intorno ai 50 anni, 15% per i 60 anni ed infine al 12,4% per gli anziani superiori ai 65 anni. • il restante 3,6% è in condizione di sottopeso Mentre l’obesità coinvolge in eguale misura uomini e donne, il sovrappeso rivela invece sensibili differenze: • 42% dei maschi sovrappeso • 25,7% delle donne sovrappeso Il fenomeno si distribuisce diversamente sul territorio, probabilmente a causa della

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correlazione tra obesità e condizioni economiche meno favorevoli ed eccesso di peso e bassi livelli di istruzione conseguiti: • 12% di tasso di obesità nel Meridione • 7,7% nel Nord-Ovest • 4,5% obesi con diploma o laurea • 15% obesi con licenza elementare (soprattutto nelle donne) • 10% giovani sottopeso con livello culturale medio-alto (18% nelle donne) Nell’adozione di comportamenti salutari quali ad esempio il controllo del peso corporeo, sono le donne a mostrare maggior attenzione: • 61,9% delle donne controlla il peso almeno 1 volta al mese (soprattutto fino ai 40 anni e in sovrappeso) • 46,4% degli uomini controlla il peso almeno 1 volta al mese • 18% degli obesi seguono un regime dietetico particolare (65% dieta ipocalorica) • 13% dei sovrappeso seguono un regime dietetico particolare (56% dieta ipocalorica) • 10% dei normopeso seguono un regime dietetico particolare Nella valutazione soggettiva del proprio stato di salute i soggetti in eccesso ponderale tendono a fornire giudizi più negativi. In alcuni casi infatti l’eccesso di peso può determinare seri problemi dei livelli di accettazione della propria condizione e incidere sui livelli generali di autostima: • 15,7% degli obesi dichiara di stare male o molto male • 9,1% dei sovrappeso dichiara di stare male o molto male • 6,7% dei normopeso dichiara di stare male o molto male • 12,3% dei sottopeso dichiara di stare male o molto male Per trasferire tutte queste informazioni nella pratica clinica quotidiana è importante conoscere due aspetti particolari della relazione fra eccesso di peso e patologie ad esso correlate. Innanzitutto bisogna tenere conto del fatto che alcuni disturbi possono impiegare anni, anche decenni, per passare dalla fase subclinica ed asintomatica a quella clinicamente manifesta, ma che in questo periodo di tempo si innescano meccanismi patogenetici e circoli viziosi che, se evidenziati precocemente, possono essere controllati e questo cambia la "storia clinica" del soggetto. Inoltre, l'eccesso di peso può rappresentare, per alcune patologie, non l'unico fattore, ma uno dei co-fattori che ne alimentano la patogenesi. Può essere importante approfondire la valutazione del singolo paziente per chiarire il ruolo dell'eccesso di peso, perché a volte il solo calo ponderale è in grado di curare disturbi, come l'ipertensione, che richiedono, altrimenti, terapie farmacologiche croniche. E' per questo che oggi la diagnosi dell'eccesso di peso non deve essere disgiunta dalla valutazione della presenza di patologie associate e del rischio di svilupparne. La terapia dell'eccesso di peso I moderni principi della terapia dell'eccesso di peso

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Sul finire degli anni '90 i dati epidemiologici sull'eccesso di peso hanno configurato una dimensione da vera e propria epidemia. Se negli Stati Uniti l'allarme era già alto, con un 64% della popolazione sovrappeso o obesa, si è preso atto che anche in Europa, con valori di prevalenza dell'obesità del 10-20% negli uomini e del 10-25% nelle donne si erano verificati marcati aumenti della sua diffusione. Anche il luogo comune dell'eccesso di peso appannaggio solo degli abitanti dei paesi a maggior indice di sviluppo è stato sfatato, visto che in alcune nazioni in via di sviluppo la situazione era anche peggiore di quella europea: in America Latina la prevalenza dell'obesità variava da un minimo del 9.9% in Brasile ad un 29,9% in Paraguay. In Italia la situazione non era tranquillizzante, visto che la prevalenza dell'obesità era vicina al 10%, e aumentata del 25% in 6 anni (1994-2000), ed il sovrappeso aveva una frequenza del 33,4%. Gli aspetti più allarmanti della realtà italiana, che bilanciano i valori assoluti ancora relativamente contenuti della frequenza dell'obesità, sono che oltre il 40% degli uomini adulti è sovrappeso e che nei ragazzi (6-17 anni) la prevalenza dell'eccesso di peso è di oltre il 24%. Infatti, il sovrappeso degli adulti, oltre ad essere spesso l'anticamera dell'obesità, aumenta comunque il rischio di comparsa di patologie come diabete ed ipertensione (vedi Moduli 7 e 8) e l'andamento cronico dell'eccesso di peso fa prevedere che molti di quelli che sono adolescenti obesi, saranno adulti obesi. Le Linee Guida I dati epidemiologici che dimostravano la diffusione epidemica dell'eccesso di peso e quelli altrettanto allarmanti che lo correlavano a disabilità, morbilità, mortalità e costi sanitari in continua ascesa, hanno spinto le più prestigiose Istituzioni Sanitarie nazionali ed internazionali e tutte le Società Scientifiche interessate all'argomento a rivedere profondamente tutto quanto era stato fatto fino ad allora per diagnosticare e curare l'obesità. Questa rivisitazione delle esperienze pregresse ha portato alla proposta di nuovi, chiari e, per certi versi, rivoluzionari, principi sui quali basare l'approccio all'eccesso di peso. La prima enunciazione di questi principi era contenuta nel rapporto pubblicato nel 1997 dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Da allora l'OMS ha proposto altri documenti sull'argomento, fra i quali uno l'anno scorso ed un altro, su nutrizione e patologie croniche, nella primavera di quest'anno, sottolineando sempre come la terapia dell'eccesso di peso, ed in senso lato la diffusione dell'educazione alimentare, rappresentino necessità prioritarie per molti paesi. Nel 1998 il National Institute of Health degli Stati Uniti ha pubblicato delle Linee Guida molto esaustive che, partendo da un'ampia revisione della letteratura, indicavano i più corretti approcci diagnostici e terapeutici, secondo la metodologia della "Evidence Based Medicine". L'anno successivo anche la Società Italiana per lo Studio dell'Obesità ha proposto delle Linee Guida pienamente in accordo con le altre, ma adattate alla realtà italiana. L'approccio integrato Se in passato molti medici avevano affrontato l'eccesso di peso affidandosi in gran parte ad un unico strumento, la dieta o il farmaco o l'esercizio fisico, il nuovo

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approccio ha affermato l'importanza della integrazione di tutti gli strumenti terapeutici in un unico protocollo. L'eccesso di peso si determina per uno squilibrio fra calorie introdotte ed energie spese (vedi moduli 2 e 3), quindi la sua terapia deve intervenire in modo equilibrato su ambedue le variabili, riducendo l'introito energetico ed aumentando il dispendio calorico. Puntare troppo sulla restrizione calorica espone al rischio di perdita di massa magra e, quindi, alla riduzione del metabolismo energetico basale. Cercare di ottenere la riduzione ed il controllo del peso con il solo esercizio fisico può esporre l'organismo a sollecitazioni rischiose per l'apparato cardiovascolare e gravose per quello muscolo-scheletrico. La giusta integrazione fra modificazione delle abitudini alimentari e riduzione della sedentarietà ha prospettive di successo molto maggiori. Quello che potrebbe essere definito il "collante" della terapia integrata è l'approccio cognitivo comportamentale. Anche questa metodologia verrà approfondita in un modulo successivo, ma in questa sede anticipiamo che alcuni strumenti mutuati dalla psicologia cognitivo-comportamentale possono essere utilizzati anche dagli internisti che si interessano di trattamento dell'obesità per supportare il paziente nella modificazione di tutte le abitudini a rischio. Il farmaco è stato inserito a pieno titolo, da tutte le maggiori Linee Guida, fra gli strumenti da integrare per trattare i pazienti con eccesso di peso. La terapia farmacologia è stata rivalutata anche grazie all'introduzione di farmaci che hanno segnato un deciso passo in avanti quanto a meccanismo d'azione e che sono caratterizzati da un rapporto efficacia/tollerabilità più vantaggioso di quello delle molecole del passato. Della terapia farmacologica si parlerà diffusamente in un modulo successivo, ma va detto subito che l'aggiunta del farmaco può rappresentare la "chiave di volta" nei pazienti che non rispondono a trattamenti integrati che inizialmente non abbiano inserito questo strumento al fianco della riduzione dell'introito calorico e dell'incremento dell'attività fisica. LE PATOLOGIE ASSOCIATE ALL'ECCESSO DI PESO Eccesso di peso e diabete: un legame molto stretto Non entreremo nel dettaglio della classificazione del diabete e nella descrizione di tutte le possibili complicanze del diabete di tipo II e I, in quanto riteniamo siano ben note. Ci preme piuttosto riportare dati che confermino lo stretto legame che esiste fra l'eccesso di peso e le alterazioni metaboliche che portano alla comparsa del diabete, perché risulti evidente come l'inversione dell'andamento epidemiologico mostrato negli ultimi decenni per quest'ultimo sia possibile solo attraverso una maggiore efficacia degli interventi per il calo ed il controllo del peso nella popolazione generale. Lo stretto legame che esiste fra eccesso di peso e diabete poggia su dati epidemiologici e su verifiche sperimentali che non lasciano spazio a dubbi. Negli Stati Uniti, confrontando diffusione "a macchia d'olio" dell'obesità e del sovrappeso, nei diversi stati, negli anni '90, con la distribuzione dei valori di prevalenza del diabete di tipo II, si coglie un chiaro parallelismo che non può certo essere casuale,

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ma piuttosto causale, dimostrando che l'incidenza del diabete di tipo II aumenta, all'aumentare dell'IMC medio della popolazione. Studi ancora più focalizzati sulla storia naturale hanno confermato che, in casistiche nelle quali si verificano importanti modificazioni delle abitudini di vita in tempi relativamente contenuti, eccesso di peso e diabete compaiono e si sviluppano in maniera proporzionale. Gli indiani Pima, ad esempio, negli anni '40 non avevano una prevalenza di diabete superiore a quella degli anglo-americani, mentre all'aumento della sedentarietà ed alle modificazioni dell'alimentazione intercorsi nei successivi sessant'anni si è associato un incremento progressivo della prevalenza del diabete fino a valori che, nei soggetti con più di 35 anni, è del 50% circa. Il Nurse's Health Study ha seguito in maniera prospettica per 14 anni oltre 114.000 infermiere. Nel 1976, all'inclusione, avevano età comprese fra 30 e 55 anni e nessuna era affetta da diabete mellito. Durante il monitoraggio sono stati diagnosticati 2204 nuovi casi di diabete mellito e, dopo gli aggiustamenti per età, l'IMC si è dimostrato il dato predittivo più sensibile della sua comparsa. Il rischio è aumentato all'aumentare dell'IMC non solo nelle donne che partivano da un IMC più elevato, ma anche quelle che all'arruolamento avevano un IMC di 24 kg/m2 hanno mostrato un rischio elevato, all'aumentare del peso. Un'altra ricerca eseguita negli Stati Uniti negli anni '60 e '70 ha valutato l'influenza dell'IMC e delle abitudini di vita sull'incidenza del diabete di tipo II in circa 6.000 soggetti di sesso maschile che avevano studiato presso l'Università della Pennsylvania. In oltre 10 anni di monitoraggio, in 202 soggetti si è sviluppato il diabete di tipo 2 e l'incidenza era correlata all'IMC. Considerando il rischio relativo di sviluppare diabete di tipo II uguale a 1 in quelli con IMC <24 kg/m2, il rischio relativo associato all'IMC di 24-25.99 kg/m2 era di 1.90 e per IMC ≥ 26 kg/m2 era 3.33. Non disponiamo di dati italiani di storia naturale che correlino obesità e diabete, ma si può affermare che anche in Italia le prevalenze dei due disturbi, prese singolarmente sono in continuo aumento: secondo dati ISTAT, il diabete riguarderebbe il 3,7% della popolazione e sovrappeso ed obesità, rispettivamente, il 9,9 ed il 41%. Il diabete nel nostro paese grava sensibilmente sui costi sanitari: fra il '93 e il '99 la spesa relativa agli ipoglicemizzanti orali è cresciuta del 6,9% e la spesa sanitaria totale associata a questa malattia è stata, nel '99, di oltre 5 milioni di euro. Non si può quindi ignorare l'appello dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che, parlando di "diabesità", invita a considerare eccesso di peso ed obesità un unico problema, da affrontare con l'attenzione che merita una vera epidemia. L'insulino-resistenza Il meccanismo patogenetico fondamentale che lega l'eccesso di peso alle alterazioni del metabolismo glucidico è l'insulino-resistenza. In anni recenti molta si è concentrata su questo meccanismo e importanti sono state le verifiche sperimentali ottenute, ma tutt'ora restano aperti non pochi quesiti. Nei moduli 1 e 2 di questo Corso, parlando dell'organo adiposo, della sua distribuzione nell'organismo e dei mediatori che a vario titolo lo riguardano, si è introdotto il concetto di insulino-resitenza. L'insulino-resistenza si può definire come la compromissione dell'effetto che l'insulina esercita sul metabolismo del glucosio nei

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diversi tessuti. La regolazione del metabolismo del glucosio è molto complessa, deriva dall'interazione fra più organi ed apparati e non verrà approfondita in questa sede, mentre entreremo un po' più nel dettaglio dei meccanismi che favoriscono la comparsa dell'insulino-resistenza. Esiste un'ipotesi di patogenesi emodinamica, che si basa sulla dimostrazione di un effetto vasodilatatorio periferico dell'ormone che potrebbe amplificare in maniera anomala l'afflusso di substrati e della stessa insulina verso tessuti metabolicamente attivi. Secondo alcuni autori questo meccanismo darebbe ragione di circa la metà dell'insulino-resistenza a carico dei tessuti periferici, ma altri studi hanno ridimensionato il ruolo della vasodilatazione da insulina a favore di alterazioni della permeabilità capillare, che modificherebbero il passaggio dell'ormone dal lume di questi vasi verso i liquidi interstiziali. E' stata dimostrata una relazione fra le caratteristiche di certi tessuti e la loro sensibilità all'insulina che configurerebbe una patogenesi tissutale dell'insulino-resistenza. Nel muscolo scheletrico, ad esempio, la progressiva sostituzione delle fibre di tipo I con quelle di tipo II B, che si osserva in particolare nell'obeso, si associa ad una riduzione della sensibilità all'insulina. Ma i meccanismi patogenetici più importanti sembrano essere quelli che si osservano a livello cellulare. Nell'obesità è ridotto il legame fra insulina e recettore specifico e questo potrebbe dipendere, nell'obeso non ancora diabetico, dalla stessa iperinsulinemia che diminuirebbe l'espressione del recettore dell'ormone e alimenterebbe un circolo vizioso che avrebbe come esito lo sviluppo del diabete di tipo II. Nel fegato e nel tessuto adiposo questo sarebbe il fenomeno centrale, mentre nel tessuto muscolare ad esso si sommerebbero: i cambiamenti nella struttura sopra descritti, verosimili alterazioni del legame insulina/recettore e anche modificazioni del sistema di trasmissione intracellulare del messaggio attivato dall'ormone. Ma perché nell'organismo si attiva un meccanismo così pericoloso e perché questo non avviene in tutti gli individui? Si è molto indagato su di un possibile gene responsabile dell'attivazione di tale meccanismo e non è stato trovato anzi, per meglio dire, non è stato individuato un unico gene responsabile, ma si è formulata un'ipotesi di eziologia poligenetica. Se si accetta l'ipotesi che esista una predisposizione a sviluppare l'insulino-resistenza si potrebbe però obiettare che la gravità delle patologie che derivano da questa predisposizione avrebbe dovuto provocare una di quelle selezioni naturali che determinano l'arresto spontaneo della diffusione, in qualsiasi specie animale, di caratteristiche dannose per gli organismi di quella specie. Perché ciò non è avvenuto? Teorie ai confini fra medicina ed antropologia forniscono due possibili risposte a questo quesito: la predisposizione genetica a sviluppare l'insulino-resistenza sarebbe diventata a rischio in tempi recenti, da quando la disponibilità di cibo e la sedentarietà hanno modificato le abitudini di vita ed i meccanismi metabolici dell'organismo umano, mentre in passato, con condizioni ambientali ed abitudini di vita opposte, essa avrebbe fornito addirittura vantaggi, in termini di sopravvivenza dell'individuo, probabilmente attraverso fenomeni di risparmio energetico. Inoltre oggi, anche se essere predisposti all'insulino-resitenza vuol dire avere un rischio elevato di sviluppare il diabete e le sue complicanze, i tempi di evoluzione di questi disturbi e le misure terapeutiche messe in atto, limitano l'effetto di selezione naturale dei soggetti predisposti.

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Il ruolo dell'adiposità viscerale Non solo alterazioni del metabolismo glucidico, ma anche di quello lipidico sarebbero alla base dell'insulino-resistenza e, in particolare, spiegherebbero la stretta correlazione fra localizzazione viscerale del grasso e sviluppo di questo fenomeno. L'infarcimento del distretto viscerale con un tessuto adiposo che è in grado di rilasciare in tempi brevi grandi quantità di lipidi, creerebbe la premessa per fasi di iperafflusso di acidi grassi liberi (FFA) al fegato. Questo meccanismo altera l'attività metabolica dell'organo che, oltre a poter subire danni che hanno come esito la steatosi, non riesce più a gestire correttamente i flussi di substrati verso la periferia. Il risultato più importante di queste alterazioni è l'elevata concentrazione di acidi grassi in circolo che, com'è noto, favorisce la comparsa di insulino-resistenza nel tessuto muscolare scheletrico. In questo tessuto, come anche in altri distretti dell'organismo, l'esagerata disponibilità di grassi in circolo non favorisce lo sviluppo di insulino-resistenza ed diabete solo attraverso fenomeni di competizione con i glucidi nello sfruttamento dei substrati energetici. L'iper-afflusso di FFA e l'effetto di alcuni mediatori attivi sul metabolismo, primo fra tutti la leptina, indurrebbe fenomeni di lipotossicità che provocherebbero danni a carico del muscolo scheletrico, del fegato, del muscolo cardiaco e delle cellule beta delle isole pancreatiche. Le alterazioni a carico di queste ultime, in particolare, favorirebbero l'evoluzione del diabete di tipo II in diabete insulino-dipendente. Alcuni dei fenomeni sopra descritti sono stati verificati in modelli animali, ma non mancano le conferme sperimentali nell'uomo. Molti lavori hanno dimostrato che la localizzazione viscerale del grasso è strettamente correlata con lo sviluppo di diabete di tipo II ed è interessante notare che nei soggetti sovrappeso, ancor più che negli obesi, il rischio di diabete aumenti in relazione alla localizzazione viscerale del grasso corporeo. La Sindrome Plurimetabolica (o Sindrome Metabolica o Sindrome X) La scuola medica italiana ha avuto un ruolo importante nella definizione di questa entità nosologica che sintetizza in un'unica Sindrome una serie di alterazioni funzionali ed organiche, metaboliche ed emodinamiche che hanno come base patogenetica l'insulino-resistenza. La diffusione di questa Sindrome nella popolazione generale non è stata definita con precisione, anche perché esistono tutt'ora divergenze circa i criteri per diagnosticarla, ma alcuni autori riportano prevalenze fino al 40% in popolazioni di diabetici. Quali sono gli elementi che costituiscono questa entità nosologica? Anche su questo non c'è un accordo assoluto, ma le indicazioni più recenti sarebbero le seguenti: per fare diagnosi di sindrome plurimetabolica devono essere presenti tre o più delle seguenti alterazioni:

• Circonferenza vita >102 cm nell'uomo e >88cm nella donna. • Trigliceridi ≥ 150 mg/dl

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• Colesterolo<40 mg/dl nell'uomo e <50 mg/dl nella donna • Pressione arteriosa ≥ 130/85 mmHg • Glicemia a digiuno ≥ 110 mg/dl.

Come si vede i parametri necessari sono di facile valutazione e questo dovrebbe stimolare tutti i medici a ricercare questa Sindrome in tutti i soggetti a rischio perché portatori di un'obesità viscerale o perché con anamnesi positiva per un'intolleranza al carico di glucosio. La diagnosi precoce della Sindrome Plurimetabolica e un altrettanto precoce trattamento possono ridurre l'incidenza di complicanze, quali quelle cardiovascolari, che sono le stesse di quelle che colpiscono i diabetici, ma si sviluppano con una velocità ed una frequenza molto più elevate. Eccesso di peso e mortalità Una serie di studi a lungo termine ha valutato l'incidenza della morbilità legata all'obesità; uno dei più noti è lo studio Framingham che è anche uno dei primi e più importanti studi prospettici sulla patologia cardiovascolare. E' iniziato nel 1948 a Framingham, Massachusetts, Stati Uniti, dove circa 5.000 pazienti sono stati arruolati e seguiti mediante visite biennali per più di 30 anni. E' stato monitorato lo sviluppo di patologie cardiovascolari in rapporto a vari fattori, fra i quali età, peso ed abitudine al fumo. Si è osservata una stretta relazione fra elevati valori di peso all'inclusione e mortalità. Al momento dell'avvio dello studio di parlava ancora di "peso desiderabile", non si era ancora affermato l'IMC come parametro di valutazione, e si è rilevato che, tanto più il peso all'inclusione eccedeva rispetto al peso desiderabile, tanto più elevato era il rischio di decesso. Uomini sovrappeso (più del 110% del peso corporeo desiderabile), non fumatori, hanno avuto un'incidenza di mortalità su 30 anni fino a 3.9 volte più alta degli uomini con peso compreso nell'intervallo di valori desiderabile. La Società Americana per il Cancro ha osservato andamenti simili nelle analisi che hanno rapportato il peso corporeo all'incidenza di mortalità in ambedue i sessi. Un IMC aumentato è associato a più alti valori di mortalità, a prescindere dalla presenza di co-fattori quali il fumo. Eccesso di peso e patologie cardiovascolari Il Nurse's Health Study, già citato nei moduli precedenti, fin dalle prime analisi aveva già rilevato che l'obesità era un fattore determinante nello sviluppo della malattia coronarica nelle donne. Dopo una correzione dei risultati rispetto al fumo di sigaretta, anche il sovrappeso lieve o moderato aumentavano il rischio di malattia cardiaca nelle donne di mezza età. In una più recente verifica su questa popolazione, si è dimostrato che già con un IMC superiore a 22 kg/m2 aumenta il rischio di morte per malattia cardiovascolare, rispetto ad un gruppo di controllo con IMC inferiore a 19 kg/m2. A commento ed integrazione di questa osservazione, gli autori segnalano che la causa di decesso correlata più strettamente alle variazioni di IMC è la malattia coronaria, rispetto ad altre malattie, cardiovascolari e non, ed escludendo il fumo come possibile co-fattore. Uno studio britannico ha concluso che una più ampia circonferenza vita identifica

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soggetti con un aumentato rischio cardiovascolare. La circonferenza vita, già citata come parametro di riferimento per valutare il rischio di diabete (vedi Modulo 6), può essere indicativa anche di rischio cardiovascolare. Valori di circonferenza vita compresi fra 94 e 101 cm negli uomini e fra 80 e 87 cm nelle donne si associano ad elevata probabilità di sviluppare malattie a carico del cuore e dei vasi, per valori ancora superiori il rischio è tale da rendere prioritario un intervento terapeutico per il calo ponderale. La correzione dell'eccesso di peso andrebbe fatta prima che si sviluppino alterazioni a carico dell'apparato cardiovascolare, in quanto, una volte comparse, queste alterazioni aumentano ulteriormente il rischio costituito dall'eccesso di peso di per sé. In una coorte dello Studio di Framingham sono stati valutati di recente, nei soggetti sovrappeso ed obesi, il rischio relativo di infarto del miocardio e di mortalità coronarica nel corso di un follow-up di sedici anni e l'aggregazione di vari fattori di rischio per malattia coronarica: ipertensione, dislipidemia, alterazioni della frequenza cardiaca, ipertrofia ventricolare sx, fumo e diabete di tipo 2. Il rischio relativo di malattia coronarica, aggiustato per età, è stato di 2,07 nei maschi e a 10,9 nelle femmine, confrontando gli obesi privi di fattori di rischio, con gli obesi con più di 2 fattori di rischio. Non solo lo sviluppo della malattia coronarica, ma anche la comparsa d'insufficienza cardiaca sembrano correlarsi con l'eccesso di peso. Sempre sulla coorte di Framingham è stata valutata la relazione tra IMC ed insufficienza cardiaca in 5881 soggetti con età media di 55 anni seguiti per 14 anni. Correggendo il dato per altri co-fattori di rischio, è risultato un aumento del rischio di sviluppare un'insufficienza cardiaca pari al 5% negli uomini e al 7% nelle donne, per aumenti dell'IMC di una unità. Confrontando gli obesi ai normopeso, il rischio d'insufficienza cardiaca risultava raddoppiato. Lo stroke oggi è causa di elevata morbilità e mortalità e provoca marcate riduzioni della qualità di vita di chi ne è colpito ed un notevole carico per il Sistema Sanitario Nazionale. Uno studio eseguito su di un'ampia coorte (21.414 soggetti) di medici americani ha dimostrato che il rischio di stroke è correlato all'IMC. Esso aumenta del 6% per ogni unità di IMC. Correggendo il dato rispetto alla presenza di ipertensione, diabete mellito ed ipercolesterolemia, diminuisce un po' il rischio di stroke in generale e quello di stroke ischemico, ma non quello di stroke emorragico. Eccesso di peso e patologie a carico di altri organi e apparati Tutti gli organi ed apparati risentono negativamente dell'eccesso di peso ed a carico di molti di essi si possono sviluppare patologie non meno gravi ed invalidanti di quelle descritte nel Modulo 6 e nei paragrafi precedenti di questo Modulo. Riporteremo di seguito una sintesi delle evidenze raccolte su alcune di queste patologie. Eccesso di peso e patologie pneumologiche L'eccesso di peso, ed in particolare l'obesità, possono essere all'origine di alterazioni della funzione respiratoria che, da forme lievi e dallo scarso significato clinico,

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possono arrivare fino a condizioni gravi le quali, oltre a limitare sensibilmente la funzione respiratoria stessa, si possono ripercuotere negativamente su altri organi ed apparati, primo fra tutti quello cardiovascolare. Alterazioni del respiro notturno, che colpiscono il 4-6% dei soggetti sovrappeso, includono vari disturbi quali il russamento, la sindrome da resistenza delle vie aeree superiori e la sindrome dell'apnea ostruttiva notturna (obstructive sleep apnea syndrome = OSAS). Sintomi suggestivi di alterazioni della funzione respiratoria andrebbero sempre ricercati nei soggetti con eccesso di peso e dovrebbero indirizzare per una quantificazione strumentale della funzione respiratoria. Eccesso di peso e patologie gastroenterologiche L'eccesso di peso può favorire lo sviluppo di patologie a carico del canale alimentare, del fegato e delle vie biliari. In soggetti sovrappeso ed obesi è di frequente riscontro una sintomatologia suggestiva di esofagite o di malattia da reflusso gastro-esofageo. A volte, in individui che vanno incontro a fasi di oscillazioni del peso, si osserva un peggioramento del quadro sintomatologico in corrispondenza dei periodi di aumento ponderale. In particolare, la localizzazione addominale del grasso acuisce il problema e può favorire la comparsa di ernie iatali che riducono ulteriormente il controllo sul reflusso gastro-esofageo. La relazione eccesso di peso/patologia esofagea potrebbe essere all'origine anche dell'aumentato rischio di cancro dell'esofago negli obesi (vedi di seguito). Una patologia che si può definire "emergente" è la NASH (Non Alcoholic Steato-Hepatitis) che consiste in un danno a carico del fegato che simula quello provocato dall'alcol, ma si verifica in soggetti che consumano quantità significative di bevande alcoliche. L'allarme suscitato dai dati sulla storia naturale di questa patologia ha portato a rivalutare anche il ruolo della statosi, a lungo considerata alterazione collaterale e dallo scarso significato clinico. Steatosi e NASH vengono oggi considerate forme diverse di un'unica entità nosologica che gli autori anglosassoni definiscono: Non Alcoholic Fatty Liver Disease (malattia da fegato grasso non alcolica; NAFLD). I dati epidemiologici disponibili, che risentono del limite rappresentato dalla difficoltà di diagnosticare i diversi stadi della NAFLD, indicano una prevalenza della steatosi fra il 10 ed il 21% nella popolazione generale, in studi eseguiti in USA, Europa ed in Giappone, che sale all'70-80% negli obesi. La prevalenza della steatoepatite è del 3% circa nei non obesi e del 15-20% negli obesi. Negli Stati Uniti, lo studio NAHNES III ha dimostrato che la NAFLD è la causa di gran lunga più frequente di ipertransaminasemia. L'infiammazione che caratterizza la steatoepatite sembra essere reversibile, ma se i circoli viziosi alimentati dalle alterazioni metaboliche non vengono interrotti, la cronicizzazione dell'infiammazione epatica sembra possa far progredire il danno verso la cirrosi. Forse la patologia gastroenterologica per la quale sono stati più approfonditi i rapporti con l'obesità è la litiasi della colecisti. Ampi studi epidemiologici,eseguiti anche in Italia, hanno dimostrato che l'eccesso di peso, ma anche l'oscillazione ponderale, si associano ad un elevato rischio di litiasi.

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Eccesso di peso e patologie osteoarticolari La relazione fra eccesso di peso e osteoartrite è sostenuta da numerosi studi epidemiologici. Sembra riguardare più le donne che gli uomini e, fra le articolazioni, sono più colpite quelle maggiormente sollecitate dal carico ponderale: ginocchio ed articolazione coxo-femorale. Studi in gemelli di mezza età di sesso femminile hanno rilevato che, per ogni chilo di peso corporeo in più, il rischio che si sviluppi un'artrite aumenta del 9-13% e che le gemelle con artrite del ginocchio pesano in media 3-5 kg in più. In uno studio eseguito in Finlandia, su una popolazione rurale, si è osservato che il rischio di sviluppare osteoartrosi monolaterale del ginocchio nelle donne è 5 volte maggiore che nei maschi e che l'incidenza di osteoartrosi invalidante del ginocchio aumenta proporzionalmente all'IMC. L'osteoartrite dell'anca ha una prevalenza elevata nei soggetti di età superiore a 65 anni ed è all'origine di un numero sempre più elevato di interventi di artroplastica. Fra le forme secondarie di artrite dell'anca si annoverano i casi attribuibili all'eccesso di peso. Il rischio aumenta in maniera significativa, di 1.7 volte (p < 0.001), per IMC ≥ 28 kg/m2 vs IMC < 24 kg/m2. Eccesso di peso e neoplasie Ampie review pubblicate su importanti riviste internazionali hanno evidenziato la stretta relazione fra eccesso di peso e rischio di cancro, per anni soltanto ipotizzata. Combinando fra di loro i risultati di numerosi studi epidemiologici è stato possibile individuare il rischio relativo di sviluppare neoplasie di vario tipo, attribuibile a vari intervalli di valori di BMI. Ad esempio, per valori di BMI inferiori a 22 e superiori a 28.5 kg/m2 aumenta il rischio di sviluppare un cancro del colon e della mammella. Il valore di soglia massimo, oltre il quale aumenta il rischio relativo, varia da 30 kg/m2 per il cancro dell'endometrio a 25 kg/m2 per quello dell'esofago, sottolineando come per quest'ultima neoplasia esista un incremento del rischio a partire dalla condizione di semplice sovrappeso. Alcune neoplasie in passato mai associate all'obesità, come quelle di fegato, reni e prostata, sembra che siano anch'esse più frequenti in presenza di eccesso ponderale. I rapporti fra obesità e cancro non fondano solo su valutazioni statistiche, ma da sempre meglio definiti nessi patogenetici. Alterazioni ormonali correlano eccesso di peso e tumori endocrini come quelli di mammella, ovaio ed endometrio, disturbi metabolici promuovono la crescita delle neoplasie del colon e possono favorire l'evoluzione dei danni infiammatori epatici in tessuto neoplastico. Eccesso di peso e altre patologie o disturbi Per necessità di sintesi non ci dilungheremo nella descrizione dei rapporti dell'eccesso di peso con altre patologie e disturbi, ci limitiamo a segnalare le seguenti evidenze. Fra le alterazioni metaboliche molti autori hanno segnalato l'iperuricemia ed è stata dimostrata la relazione fra eccesso di peso e modificazioni della coagulazione e della fibrinolisi. Fra le patologie endocrine la Sindrome dell'Oviaio Policistico sembra

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essere in stretto rapporto con l'eccesso di peso ed in campo psichiatrico la depressione ha complesse interrelazioni con l'eccesso di peso, nelle quali non sempre è possibile distinguere quale delle due condizioni abbia un ruolo prioritario rispetto all'altra.

La Composizione Corporea La valutazione della composizione corporea rappresenta un’importante settore di ricerca grazie alle informazioni che può fornire per la stima del fabbisogno energetico e dello stato nutrizionale del paziente e per le conseguenti applicazioni in campo medico sanitario. Le principali conoscenze sulla composizione corporea nascono dallo studio eseguito sui cadaveri: analisi delle biopsie tissutali sono state a lungo la base di partenza nella fondamentale conoscenza della fisiologia e del metabolismo del corpo umano. A gettare le basi per la conoscenza della fisiologia dei distretti corporei fu, sul finire del secolo scorso, Adolph Magnus-Levy con la distinzione, nell’animale, dei “tessuti grassi” da quelli “non grassi”. Questo modello bicompartimentale riferito all’uomo fu subito seguito da quello tetracompartimentale di Keys e Brozek: Mod. bicompartimentale Mod. tetracompartimentale

Massa grassa (FAT)

Grasso totale corporeo

Massa magra (FFM)

Acqua corporea (TBW)

Massa proteica Glicogeno e Minerali

La composizione corporea viene schematizzata mediante modelli corporei a vari livelli di complessità

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e il miglioramento delle conoscenze attuali viene reso possibile dal notevole progresso tecnologico.

Rimane tuttavia di particolare difficoltà, riferito ed una misura “total body”, l’accurata misura di un tessuto estrapolato da un organo completo: la stessa estrapolazione può essere sorgente di un errore sostanziale. Nonostante questa limitazione, la maggior parte delle attuali informazioni sulla composizione del corpo umano sono derivate da queste metodiche di studio ed hanno portato, nel corso degli anni, al concetto di “Reference Man”. Dall’analisi del cadavere, sul quale è stato condotto lo studio primordiale riguardo la composizione corporea – l’analisi dell’azoto totale -, sono pervenuti dei dati relativamente poveri che riguardavano l’aspetto prevalentemente chimico. Le innovazioni tecnologiche hanno invece permesso di intraprendere i concetti di ricerca ancora attuali sullo studio della composizione corporea “in vivo”.

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Il modello bicompartimentale, pur superato dalle ricerche recenti, rimane di grande spessore ed il suo ruolo viene evidenziato dai recenti incessanti messaggi incentrati sulla necessità di controllare l’espansione della massa grassa, come vedremo in seguito. Con il termine Massa Grassa o Massa Lipidica Totale ( FM degli anglosassoni, cioè Fat Mass) si indica il tessuto adiposo totale corporeo che viene sempre misurato in Kg ed ha una densità pari a 0,9 g/ml. Solo una piccola parte costituisce la MASSA GRASSA ESSENZIALE e cioè quella quota di massa grassa fondamentale per l’organismo (ad es. i lipidi delle membrane cellulari, del SNC e del SNP) pari al 3-5% della massa corporea totale per il maschio ed al 10-12 % per la femmina poiché va a formare quel tessuto legato ai caratteri sessuali secondari, il resto va a costituire il vero e proprio grasso (trigliceridi) di deposito dell’organismo (tessuto adiposo). Questa massa una volta veniva definita “metabolicamente inerte”, cioè si pensava che non costasse nulla all’organismo in termini di calorie spese per il suo mantenimento. Oggi invece si sa che non è esattamente così, infatti, seppur in minima parte, contribuisce anch’essa al dispendio energetico totale, oltre ad avere una fondamentale attività endocrina. La Massa Magra (Fat-Free Mass, o massa libera dal grasso) in un adulto sano ha una densità pari a 1,099-1100 g/ml per definizione costante; contiene acqua in quantità costante (70-73%) con una densità pari a 0,993 g/ml; per il resto è costituita da

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proteine, con densità pari a 1,34 g/ml; sali minerali (in particolari quelli relativi all’apparato scheletrico con densità di 3 g/ml) e glicogeno. Un fondamentale componente della FFM e la “massa cellulare corporea” (BCM o Body Cell Mass), legata alla distribuzione di potassio nel corpo umano. La FFM è ricca di potassio (69 mEq/Kg nel maschio, il 10% in meno nella femmina) mentre la FM ne risulta priva. Pertanto la BCM può essere definito come quel distretto funzionale comprendente tutti i tessuti ricchi di K che consumano O2 ed ossidano glucosio, da considerare, quindi, come la componente metabolicamente attiva della FFM. La “Massa magra corporea” o LBM (Lean Body Mass) è composta da tutti i tessuti compresi nella FFM con l’aggiunta del “grasso essenziale”. Aumentare la massa magra significa aumentare generalmente la massa muscolare a scapito di quella adiposa e, di conseguenza, aumentare il fabbisogno di calorie dell’organismo, soprattutto quello in condizioni di assoluto riposo o Metabolismo Basale. Le tabelle che riportano solo il rapporto tra peso corporeo ed altezza (BMI o Indice di Massa Corporea, IMC) e precisamente: peso corporeo in Kg/(altezza in metri)2 , sono troppo riduttive per una corretta valutazione del soggetto in esame. Sono stati definiti i criteri di valutazione degli individui sulla scorta della quantità di massa grassa presente. In particolare, a livello generale di popolazione, i range di riferimento, comprendendo il “grasso essenziale”, della composizione corporea sono illustrati nello schema sottostante: La valutazione della composizione corporea è fondamentale per osservare modificazioni dei vari segmenti corporei in studi longitudinali: le variazioni quantitative dei diversi compartimenti sono dipendenti dalla stato pato-fisiologico del soggetto preso in esame.

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Nessun altro componente del corpo può variare in maniera così importante nel corso della vita come la massa grassa (FM), e la sua anormale espansione determina quella condizione patologica definita “obesità” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “OMS”. Il quantitativo di FM varia nel corso dell’età e dipende dal sesso, i neonati ne posseggono il 10-15% e questo, nei primi anni di vita, incrementa fino al 25% circa per poi diminuire fino al 15% ad un’età di circa 10 anni: a questo punto iniziano le differenze tra i 2 sessi. Nella fase adulta la FM aumenta lentamente con l’età in entrambi i sessi ma non si sa bene se questo fenomeno sia fisiologico o dipenda, essenzialmente, dall’incremento della sedentarietà con il progredire dell’età; un ruolo fondamentale viene ricoperto dal decremento della massa magra relativo alle proteine muscolari (sarcopenia): questo fenomeno dannoso è oggetto di recenti studi che ne stanno definendo i drammatici contorni. L’acqua totale corporea (TBW o Total Body Water) viene sostanzialmente suddivisa in “liquidi extracellulari” o ECF (ExtraCellular Fluid) e “liquidi intracellulari” o ICF (IntraCellular Fluid).

Gli ECF (o ECW) comprendono il fluido plasmatico, il fluido interstiziale, il fluido transcellulare e la linfa; gli ICF (o ICW) comprendono tutti i fluidi contenuti all’interno delle membrane cellulari.

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In un adulto sano la TBW costituisce, in media, il 55-60 % del peso corporeo; nella donna adulta invece questo valore scende al 50-55 % a causa della maggiore presenza di FM. Un numero sempre maggiore di metodiche in vivo continuano a sviluppare la ricerca sullo studio della composizione corporea; molte di queste tecniche offrono misurazioni accurate e precise, non solo nell’età adulta ma anche in quella pediatrica. Risulta ormai evidente che molte manifestazioni patologiche dell’età adulta traggono le origini da quella pediatrica. Al crescere dell’età media, diventano preponderanti le patologie geriatriche ma ormai sono note molte delle problematiche dell’anziano; sappiamo che con l’aumentare dell’età si ha un cambiamento della composizione corporea (aumento della FM e diminuzione della FFM con fenomeni di sarcopenia) che potrebbe incidere sulla qualità della vita. La composizione corporea, quindi, è significativamente differente tra i 2 sessi, viene modificata inoltre con l’età, è influenzata dal genoma, dalla dieta, dall’attività fisica e cambia in modo importante durante i periodi di malattia e convalescenza.

Tecniche di misura della composizione corporea Tecniche di rilevamento della massa lipidica corporea Lo studio della composizione corporea è importante per valutare l’eccesso di massa lipidica ed i comparti corporei di grasso che, più del peso, risultano correlati allo sviluppo di malattie metaboliche e cardiovascolari. Infatti, l’eccesso di peso corporeo può non coincidere con un eccesso di massa lipidica (come si verifica per esempio negli atleti a causa dell’ipertrofia delle masse muscolari). D’altro canto in soggetti di peso normale si può riscontrare un eccesso di massa corporea lipidica totale o distrettuale a scapito della massa magra. La maggior parte dei modelli di studio sulla composizione corporea si basano sulla valutazione della massa lipidica piuttosto che del tessuto adiposo, e includono la

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componente non lipidica del tessuto adiposo nel comparto della massa alipidica (FFM). La tecnica più frequentemente utilizzata per caratterizzare la distribuzione del tessuto adiposo sottocutaneo e per un’indicazione dello stato nutrizionale energetico è la plicometria. Questa consente la misurazione dello spessore del tessuto adiposo sottocutaneo in determinati “punti di repere” del corpo per mezzo del plicometro di Harpenden o di Holtain: su tale strumento, una scala in millimetri consente di valutare lo spessore della plica cutanea. La plicometria è la tecnica non invasiva di valutazione, della massa lipidica distrettuale e totale, più diffusa in clinica. Le misurazioni vengono effettuate in genere a livello bicipitale, tricipitale, sottoscapolare e sovrailiaco calcolando la media aritmetica di tre misurazioni e sommando le medie. Un’altra metodica di valutazione del tessuto adiposo è rappresentata dalla ultrasonografia, che consente la misurazione dello spessore del tessuto adiposo sottocutaneo. L’ultrasonografia “B mode” produce immagini bidimensionali in tempo reale che consentono di visualizzare e misurare l’interfaccia massa lipidica-muscolo. Studi sulle misure dello spessore della massa lipidica sottocutanea e viscerale addominale mediante metodica ultrasonografica, confrontate con quelle ottenute per mezzo di scansioni tomografiche (TC), hanno validato la metodica ultrasonografica per la determinazione della massa lipidica. Più specificamente lo spessore della massa lipidica intraddominale misurata con ultrasonografia ha mostrato una buona correlazione con l’area lipidica intraddominale misurata con metodica TC (r = 0,669, p< 0,001), a supporto di una possibile utilizzazione della tecnica ultrasonografica nella valutazione diretta e non invasiva dei depositi lipidici intraddominali. Nell’ambito della definizione della massa lipidica addominale le misure ottenute utilizzando tale metodica consentono una migliore informazione rispetto alla plicometria e alla misura delle circonferenze corporee. Metodiche più recenti utilizzano l’interazione dei raggi infrarossi (Near-Infrared Interactance, NIR) per sviluppare equazioni di predizione nel calcolo della massa lipidica. Un “probe” a fibre ottiche è connesso ad un analizzatore digitale che misura indirettamente la composizione tessutale (lipidi e acqua) in vari punti del corpo. La metodica si basa sul principio che la densità ottica è correlata in modo lineare alla massa lipidica sottocutanea e alla massa lipidica totale. Il punto bicipitale è quello più spesso utilizzato come singolo punto per la misura della massa lipidica con la suddetta metodica. Il raggio vicino allo spettro dell’infrarosso penetra i tessuti molli (lipidi e muscolo) e viene riflesso dall’osso verso il rilevatore. Successivamente i dati ottenuti vengono inseriti in una equazione di predizione in associazione ad altri parametri (statura, peso corporeo, livello di attività) per ottenere la stima della massa lipidica corporea. L’errore di misura riportato per la massa lipidica in base ai pochi studi effettuati risulta pari al 3,2%. La metodica è semplice, può essere eseguita velocemente, non è invasiva e la strumentazione è relativamente poco costosa. Tuttavia i dati riguardanti l’errore nella misura (si assume che l’idratazione della massa priva di lipidi sia costante intorno al 73% del peso corporeo) ed il rapporto vantaggi/svantaggi risultano ancora incompleti. Sono quindi necessari ulteriori studi per verificare la validità, l’accuratezza e l’applicabilità della metodica.

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La massa lipidica corporea può essere valutata con precisione mediante la misurazione della densità corporea. La più nota ed affidabile metodica per la sua determinazione è rappresentata dalla Pesata Idrostatica, che richiede l’immersione totale o quasi totale (metodica dell’individuo con il capo non immerso) in acqua. Il calcolo della densità totale corporea viene effettuato partendo dalla conoscenza del volume di acqua spostato e/o del peso corporeo del soggetto immerso, in combinazione con il peso del soggetto misurato su bilancia. L’errore di questa metodica nella misura della massa lipidica è stato valutato complessivamente pari a circa il 3% del peso corporeo ed è principalmente dovuto all’assunto che la massa priva di lipidi abbia una densità costante (1.100 kg/L) in ogni singolo soggetto. La tecnica della pesata idrostatica è stata di recente sostituita dalla pletismografia a spostamento d’aria (ADP, Air-Displacement Plethysmography), che richiede la permanenza del soggetto in un ambiente chiuso, contenente aria. La tecnica comporta la presenza di due ambienti, uno ospitante il soggetto e l’altro delimitante uno spazio che costituisce il volume di riferimento; i due ambienti o camere, all’interno di una cabina, sono separati da un diaframma sensibile alle variazioni di pressione della camera in cui si trova il soggetto e che vengono rilevate nell’altra come variazioni di volume. Il vantaggio di tale metodica rispetto alla pesata idrostatica consiste nell’evitare l’immersione del soggetto in acqua. Studi effettuati su soggetti adulti hanno evidenziato una buona corrispondenza fra le due metodiche. Recentemente, uno studio di comparazione della misura della massa lipidica corporea fra la metodica ADP (applicazione della formula di Siri) e la Densitometria a due livelli energetici (DXA), in una popolazione di età pediatrica, ha evidenziato una lieve sovrastima della percentuale del grasso: del 3% per le bambine e dello 0,6% per i bambini. Tali risultati, che evidenziano una maggiore accuratezza della ADP rispetto ad altre metodiche nella misura del grasso corporeo, incoraggiano l’utilizzazione di questa metodica per lo studio dell’adiposità nel bambino. La massa lipidica corporea può essere anche determinata mediante la misurazione dell’acqua totale corporea o dei suoi componenti per sottrazione dal peso corporeo totale della massa priva di lipidi, la cui misura si basa sulla quantificazione dell’acqua corporea. In un adulto sano l’acqua totale corporea (TBW) costituisce circa il 72,4% (69,4-73,2%) della sua massa alipidica e circa il 60% del peso corporeo. Tale frazione non è tuttavia costante nel corso dell’accrescimento e dell’invecchiamento del corpo, così come in molte condizioni di malattia. Mentre nell’infanzia, a livello precoce, l’acqua costituisce circa l’80-83% della massa alipidica, con l’avanzare dell’età questa frazione diminuisce notevolmente. La metodica diretta più precisa per determinare in vivo i comparti idrici è quella della diluizione isotopica. Tale metodica, invasiva, si basa sul principio del bilanciamento delle masse, espresso dalla seguente equazione:

Ci · Vi

=

Cf · Vf

in cui la concentrazione iniziale (Ci) per il volume iniziale (Vi) è uguale alla concentrazione finale (Cf) per il volume finale (Vf). Tale equazione si applica dopo

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la somministrazione di una quantità nota di un tracciante per via orale o endovenosa al soggetto. Si attende un periodo di tempo sufficiente perché il tracciante possa distribuirsi nel comparto che si vuole esaminare. Dopo la correzione per eventuali perdite (urine, saliva, sudore), si calcola il volume di distribuzione del tracciante; esso corrisponde al Vf (volume finale), cioè al volume del comparto idrico che si vuole determinare (acqua totale, acqua intra o extracellulare). Si sceglie un tracciante (inerte) che si distribuisca uniformemente solo nel distretto che si intende valutare e che non interagisca con molecole diverse (fig. 1.1). L’acqua totale corporea (TBW) può essere misurata utilizzando un tracciante dell’acqua marcata (es. il trizio, il deuterio, o l’ossigeno 18), prelevando due campioni di fluidi corporei (sangue, urine o saliva): uno prima di iniettare il tracciante, l’altro dopo il tempo necessario al raggiungimento dell’equilibrio di distribuzione (2-3 ore). La metodica di analisi dipende dalla scelta del tracciante: il beta counting per il trizio, lo spettrometro di massa per l’18O ed il rilevatore di raggi infrarossi, il gas cromatografo o lo spettrometro di massa per il deuterio. Per ognuno di questi traccianti la stima dell’errore è inferiore ad 1 kg per l’acqua totale corporea (TBW): questa metodica è considerata di riferimento; l’errore raggiunge il 10% per la determinazione della massa lipidica corporea.

Fig. 1.1. Schema della metodica della diluizione isotopica La capacità del corpo umano di condurre corrente elettrica ha permesso l’utilizzazione della metodica BIA (impedenza bioelettrica) per la valutazione dei distretti corporei, che sfruttano le caratteristiche elettriche dei tessuti al passaggio di corrente alternata (la corrente non può essere erogata in modo continuo per i fenomeni di elettrolisi). Si considerano i tessuti biologici come costituiti da due distretti fluidi: extracellulari (ECW) ed intracellulari (ICW). Il comportamento elettrico dei tessuti corporei è equiparabile a quello di un circuito elettrico costituito da una resistenza ed un condensatore in parallelo, in cui il comparto intracellulare

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(ICW) funge da condensatore e quello extracellulare (ECW) simula la resistenza. La corrente (I) attraverserà il tratto capacitivo ICW (IICF) e, preferenzialmente, il tratto resistivo ECW (IECF). Il tratto resistivo esplicherà il suo effetto oppositivo in modo continuo e costante nel tempo e proporzionalmente alla quantità di elettroliti presenti nel comparto ECW. Il tratto ICW, ossia il condensatore, permetterà un buon passaggio di corrente da una certa frequenza di corrente in poi (>5 khertz), determinando uno sfasamento del flusso di corrente in uscita. Tale effetto si chiama reattanza capacitiva (Xc). L’impedenza (Z), rappresentata in forma vettoriale, esprime l’impedimento totale al passaggio di corrente in quanto corrisponde alla somma degli effetti della resistenza (R) e capacitanza (Xc). Il corpo umano viene assimilato ad un cilindro conduttore in cui R=ρL/S (dove R: resistenza, L: lunghezza del conduttore, S: sezione del conduttore). Da qui: V=ρH2/R (equazione che relaziona il volume del cilindro con il valore della resistenza). Tale equazione risulta alla base delle formule per la determinazione della TBW o della FFM. In particolare TBW = a(H2/R)+b (equazione di tipo lineare, dove i coefficienti a e b sono calcolati su popolazioni specifiche) pone in relazione il volume di acqua totale corporea (TBW) e l’indice BIA (H2/R). Quindi dopo la misura dell’impedenza corporea (Z) con l’apposito strumento (Impedenziometro), essa viene inserita in apposite formule per la determinazione della TBW o della FFM. Attualmente vengono utilizzati anche impedenziometri che lavorano a più frequenze, detti multifrequenziali. Si è infatti visto che mentre a bassa frequenza il contributo resistivo è massimalmente dovuto al comparto extra-cellulare, ad alta frequenza anche il tratto capacitivo fa sentire la sua influenza man mano che i vari condensatori si “attivano”, sfasando più o meno la corrente di uscita. In tal modo da una serie di misure di resistenza (R), reattanza (Xc), angolo di fase (f) e impedenza (Z), ottenute a varie frequenze di corrente erogata, è possibile determinare la cosiddetta frequenza caratteristica (Fc). Tale valore, introdotto in formule più complesse di quella fondamentale, permette la determinazione di valori più accurati di TBW, ICW, ECW, e quindi FFM. Il metodo spettroscopico (Bioimpedenza spettroscopica, BIS), consente di analizzare nell’ambito di un intervallo di frequenze erogate (1kHz-1MHz), uno spettro di valori di resistenza (R) e reattanza (Xc) utile per la determinazione della frequenza caratteristica (Fc), della resistenza del comparto ECW (RECW) e della resistenza del comparto ICW (RICW). Ad un modello tissutale evoluto corrisponde un modello elettrico (Cole-Cole) che tiene conto della diversificazione cellulare. Nella misurazione delle impedenze è possibile determinare una circonferenza (equazione di Hanai) con la quale risulta possibile stimare per interpolazione la Resistenza del comparto ECW a frequenza 0 (Rfo), la Frequenza caratteristica (Fc) alla più alta reattanza, e la resistenza del comparto ICW (RICW). La metodica finora si serve di elettrodi applicati in particolari punti di repere sulla mano e sul piede (fig. 1.2).

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Fig. 1.2 Tecnica dell’impedenza bioelettrica L’analisi dell’impedenza corporea consente misure più accurate dell’adiposità rispetto alle metodiche antropometriche (plicometria e circonferenze corporee), sebbene queste ultime possano fornire utili informazioni relative alla distribuzione della massa lipidica corporea. In aggiunta, l’impedenziometria può essere più facilmente standardizzata e trova applicazione nei programmi di trattamento (per produrre un bilanciato calo ponderale) degli obesi a lungo termine. Recentemente in un ampio campione di popolazione di razza caucasica, sottoposto a misure impedenziometriche e suddiviso in percentili di massa lipidica, è stato osservato un aumento progressivo della quota di massa lipidica con l’avanzare dell’età: tali dati costituiscono inoltre valori di riferimento per la misura della massa lipidica totale mediante metodica BIA. L’errore di misura della metodica impedenziometrica sulla percentuale di massa lipidica corporea è risultato pari a circa il 10% del peso corporeo. In aggiunta, in studi in cui la metodica densimetrica (tecnica della pesata idrostatica) rappresentava la metodica di riferimento, l’analisi dell’impedenza bioelettrica presentava un più basso errore predittivo nella misura dell’adiposità corporea rispetto alle metodiche antropometriche (2,7 vs 3,9%). La misura della conduttività elettrica totale corporea (TOBEC, Total Body Electrical Conductivity) si basa sulle differenti proprietà elettriche della massa lipidica (FM) e della massa alipidica (FFM). Il soggetto viene introdotto in un solenoide, in cui si misurano le variazioni che si producono nel campo elettromagnetico del soggetto in funzione dell’applicazione di una corrente elettrica alternata al solenoide. Questa metodica, come quella dell’impedenza bioelettrica, consente la formulazione di equazioni per il calcolo della FFM; per cui la misura della massa lipidica (FM) viene derivata in maniera indiretta dalla differenza fra il peso corporeo totale e la FFM stimata. Le limitazioni della metodica (rappresentate dall’elevato costo e dalle dimensioni dell’apparecchiatura, che richiede quindi molto spazio) la collocano ad una prevalente utilizzazione nel campo della ricerca. La Dual energy X-ray Absorptiometry (DXA) è una tecnica relativamente nuova, inizialmente utilizzata per la determinazione della densità minerale ossea e successivamente impiegata anche nell’analisi dei tessuti molli, massa lipidica (FM) e massa alipidica (FFM). L’attenuazione che un tessuto biologico oppone ad un fascio incidente di radiazioni è funzione dello spessore, della densità e della composizione chimica del tessuto stesso.

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La metodica DXA per lo studio della massa lipidica ed in generale dei tessuti molli si basa sul principio che tali tessuti determinano una attenuazione costante alla emissione di due definite radiazioni energetiche di 40 kV e 70 kV (raggi X). Il fenomeno dell’attenuazione si basa sull’effetto fotoelettrico e sull’effetto Compton. Nella realtà il fenomeno della attenuazione non è lineare, tuttavia assumendo che sia costante si ha per un tessuto costituito da sola massa lipidica Rf=1,21, e per un tessuto costituito dal sola massa alipidica Rl=1,399; l’attenuazione per il tessuto osseo risulterebbe molto più alta. Poichè nell’organismo umano ogni tessuto è costituito da più componenti in proporzioni diverse, l’attenuazione energetica risultante corrisponde ad un valore medio. È stata elaborata la seguente espressione:

dove: Rfl: attenuazione misurata e Rf e Rl rispettivamente le costanti riferite al solo tessuto lipidico ed al solo tessuto alipidico. Nella misura della massa lipidica corporea, si ritiene che il 40-45% dei pixel (punti luminosi di cui è costituita l’immagine radiologica sul monitor, il cui tono nella scala dei grigi è in relazione alla densità del volume del tessuto analizzato) contiene massa minerale ossea e che il restante (circa la metà del volume corporeo) è rappresentato dai tessuti molli. Il sistema DXA consta di un piano di rilevazione in cui sono inseriti i sensori per il rilevamento dell’attenuazione. A tale piano viene applicato un carrello mobile che scorre longitudinalmente e che trasporta l’emettitore di energia che a sua volta può scorrere su binari in modo trasversale mediante un motore di precisione. Per mezzo di un computer idoneo si determina il moto longitudinale e trasversale dell’emettitore, l’acquisizione dei dati di attenuazione rilevati e la successiva elaborazione dei dati per la stampa o la lettura dei risultati della composizione corporea. E’ in preparazione una strumentazione che prevede l’uso di un triplice raggio energetico come estensione della metodica DXA (fig. 1.3).

Fig. 1.3 Apparecchiatura DXA

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I valori misurati con metodica DXA per la massa ossea, massa alipidica e massa lipidica sono stati comparati con misure effettuate con altre tecniche. In particolare, il confronto con misure derivate dall’analisi dell’attivazione neutronica (NAA) ha dato una buona correlazione per il calcio totale corporeo (2-3% di variabilità). L’errore di tale metodica è stato valutato intorno al 3–4% per la massa lipidica corporea e dipende prevalentemente da stati di alterata idratazione e dallo spessore antero-posteriore corporeo (quest’ultimo se maggiore di 20 cm comporta un errore superiore a quello definito). La riproducibilità della misura dipende invece dalla risoluzione adottata (numero di punti scansionati per cm2 di area corporea); tale riproducibilità risulterebbe ottimale per misurazioni che consentono l’analisi di 5-10 punti per cm2. La tecnica DXA risulta un metodo preciso ed accurato per la misura della massa lipidica corporea totale e distrettuale. La misura della massa lipidica distrettuale risulta più accurata e precisa in soggetti adulti con peso corporeo inferiore a 100 kg. La misura della massa lipidica corporea a livello intraddominale è stata studiata con la metodica tomografica (TC, metodica di riferimento) e confrontata con le determinazioni ottenute mediante antropometria (plicometria) e DXA; le misure della massa lipidica addominale ottenute con metodica DXA risultavano valide (r= 0,9, s.e.e.= 7%) ed il valore predittivo veniva migliorato dalla combinazione con le misure antropometriche. Quindi la bassa invasività (circa 0,06 mrem) rispetto alle metodiche di immagine (es: Tomografia Computerizzata) e la possibilità di ottenere misure segmentali corporee (tessuto adiposo intraddominale), consigliano l’utilizzo di tale tecnica a scopo prognostico e diagnostico per il paziente obeso. La tecnica tomografica computerizzata (TC) utilizza radiazioni X per produrre complesse immagini dei distretti corporei e consente la misura distrettuale e totale della massa lipidica. Le radiazioni X vengono attenuate dal passaggio attraverso i tessuti a seconda della densità del tessuto stesso; i rilevatori registrano l’attenuazione del fascio energetico. Viene utilizzata la scala di Hounsfield che assegna all’acqua un valore di attenuazione pari a zero, ed all’osso ed all’aria rispettivamente valori minimi e massimi della scala. La metodica risulta unica nella differenziazione delle masse lipidiche sottocutanee e viscerali. Una singola scansione assiale a livello ombelicale (L2-L3) è predittiva del grado di massa lipidica totale viscerale. Le immagini anatomiche fornite sono simili a quelle ottenute con la metodica di Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) con l’aggiunta delle informazioni riguardanti la densità dei tessuti per ogni pixel. La ricostruzione della massa totale corporea e la separazione degli organi è associata ad una elevata accuratezza (<1% di errore) e precisione (<1% di errore). Le immagini prodotte fanno sì che la metodica, insieme a quella della RMN, sia inclusa nel quarto livello del modello multicompartimentale della composizione corporea. Le immagini ottenute con scansioni TC sono più accurate nella determinazione della massa lipidica viscerale rispetto a quelle RMN e richiedono un minor tempo di esecuzione. La limitazione è rappresentata dall’invasività dovuta alla utilizzazione di radiazioni X per un tempo comunque

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elevato. Sono in studio apparecchiature TC che consentirebbero l’uso di radiazioni paragonabili a quelle della metodica DXA. La massa lipidica (FM) misurata con metodica TC rappresenta l’insieme dei trigliceridi di deposito e degli adipociti, cioè di lipidi e di costituenti cellulari; al contrario, altre metodiche di misura della composizione corporea inseriscono gli elementi cellulari nella misura della massa alipidica (FFM). Infine i risultati dell’esame TC si riferiscono a volumi compartimentali, che possono essere convertiti in masse assumendo una densità media tissutale in vivo. La tecnica della Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) si basa sulla capacità dei protoni delle molecole di idrogeno di un organismo umano di orientarsi in una stessa direzione se sottoposti ad un campo magnetico. L’inserimento e la cessazione di un secondo campo magnetico provocano un nuovo orientamento spaziale od il ritorno allo stato precedente. Durante quest’ultimo, i protoni degli atomi di idrogeno corporei generano un proprio piccolo campo magnetico che può essere rilevato. La diversa densità delle molecole di idrogeno nei diversi tessuti (in particolare differiscono fra massa lipidica e massa alipidica) consente la distinzione degli organi e delle strutture corporee. La misura della massa lipidica totale e distrettuale (viscerale e sottocutaneo) ottenuta con tale metodica è stata confrontata con quella ottenuta da studi anatomici su cadaveri. E’ stato stabilito che l’errore per la misura della massa lipidica si aggira intorno al 6%. La tecnica risulta utile nella definizione di alcune patologie che riguardano la massa adiposa, come è stato dimostrato recentemente in casi di sindrome simil-lipodistrofica in soggetti affetti da AIDS (la tecnica ha confermato la significativa riduzione di massa lipidica degli arti e sottocutanea, con il contemporaneo incremento dei depositi lipidici viscerali). Sono state sviluppate numerose equazioni per il calcolo della massa lipidica totale e distrettuale a partire da dati RMN. Alcune strumentazioni RMN consentono l’identificazione di componenti chimici tissutali utilizzando la spettroscopia (RMN Spettroscopica); studi sull’uomo sono ancora in corso. La capacità di fornire immagini simili a quelle della metodica TC (separazione dei tessuti adiposi da quelli non adiposi) in assenza di assorbimento di radiazioni ionizzanti, consente di utilizzare la tecnica di RMN in soggetti in età pediatrica, donne in gravidanza e giovani adulti. Gli svantaggi di tale metodica sono l’elevato costo, i lunghi tempi di scansione (minimo 45 minuti), la minore precisione nella misurazione della massa lipidica viscerale, soprattutto addominale per la presenza inevitabile di movimenti che alterano le immagini e la scarsa accessibilità alla strumentazione per i grandi obesi. Nella pratica clinica, tuttavia, le tecniche di immagine (TC e RMN) vengono usualmente impiegate per lo studio di determinate regioni del corpo; raramente vengono impiegate ad esempio per la misura della massa lipidica totale, o a causa di elevati costi e tempi di scansione (le misure totali corporee richiederebbero numerosissime scansioni) o a causa dell’invasività. Riportiamo qui in basso una tabella che riassume la precisione e l’accuratezza della misura delle varie tecniche:

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Precision, accuracy, and detectable changes for an individual using various body composition measurement techniques

Measurement

Body Composition Compartment (Method)

Precision,* %

Accuracy, %

Minimum Detectable Change for an Individual

TBK (40K counting) 1-3 5 150 meq (4%) TBW (D2O dilution) 1-2 2 2 liters (5%) ECW (Br dilution) 2-3 2-4 2 liters (10%) TBN (Prompt- ) 2-4 3 130 g (7%) TBCa (Delayed- ) 1-2 5 55 g (5%) FFM (UWW/ADP) 1-2 2-3 4 kg (6%) FFM (BIA/BIS) 1-2 2-4 kg (7%) DXA BMC (g) 1-2 2-10§ 160 g (4%) LTM (kg) 2-3 5 4 kg (7%) Fat (kg) 3-4 5-10 1 kg (10%) VAT (MRI/CT) 5-10

TBK, total body potassium; TBW, total body water; ECW, extracellular water volume; TBN, total body nitrogen; TBCa, total body calcium; FFM, fat-free mass; DXA, dual-energy X-ray absorptiometry; VAT, visceral adipose tissue; BMC, bone mineral content; LTM, lean tissue mass; MRI, magnetic resonance imaging; CT, computed tomography. Estimates of minimum detectable change for an individual were based on ICRP-23 Reference Man model. *Reproducibility for repeat measurements. Accuracy error for absolute mass or volume estimate. Dependent on choice of model used. §Error tends to increase if specific bone site is measured. Campi di applicazione della misura della composizione corporea

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Secondo un consolidato distinguo didattico, le applicazioni della misura della composizione corporea possono essere distinte in fisiologiche e cliniche. Le applicazioni fisiologiche riguardano lo studio della composizione corporea di individui sani e possono, a loro volta, essere suddivise in statiche e dinamiche. Le applicazioni statiche riguardano la stima della composizione di un distretto corporeo in presenza di una sua fisiologica omeostasi. Per applicazioni dinamiche si intende invece la stima della composizione di un distretto corporeo in corso di alterazione della sua omeostasi. Le applicazioni cliniche comprendono lo studio della composizione corporea di individui malati; anche in questo caso è possibile una suddivisione in applicazioni statiche e dinamiche con la distinzione che l’omeostasi verrà considerata patologica e non fisiologica. Le applicazioni fisiologiche, che attualmente sono in una fase consolidata di studio, riguardano le modificazioni della composizione corporea in seguito a variazioni della POSTURA, nel caso di INFUSIONI E PRELIEVO DI FLUIDI CORPOREI. Di fondamentale importanza lo studio basale della composizione corporea con conseguente valutazione delle modificazioni dei distretti corporei nel follow-up in caso di CALO PONDERALE a breve e a lungo termine. Per “obesità” si intende una condizione caratterizzata da una presenza eccessiva di tessuto adiposo nell’organismo umano in misura tale da indurre un aumento significativo di rischio per lo stato di salute. In passato il termine obesità era utilizzato per indicare una condizione caratterizzata da aumento di peso corporeo notevolmente al di sopra di valori considerati fisiologici. In tempi più recenti, studi epidemiologici e clinici hanno spostato l’interesse verso gli aspetti qualitativi e quantitativi delle masse che contribuiscono alla definizione della composizione corporea: l’utilizzazione di metodiche adatte e affidabili per definire acqua corporea, massa magra e massa grassa hanno permesso di riferire lo stato di obesità all’entità della massa grassa, fattore primario nell’origine e nella valutazione prognostica di tale stato patologico. Alla fine degli anni cinquanta gli unici valori di riferimento erano quelli del peso corporeo desiderabile, fissato dalle compagnie americane di assicurazione (Metropolitan Life Insurance Company), sulla base dei livelli di mortalità verificatisi tra gli assicurati negli Stati Uniti. Questi dati erano stati raccolti ed utilizzati per calcolare il premio dell’assicurazione sulla vita, per individui che avevano valori di peso corporeo associati ad una maggiore mortalità per ogni categoria di peso/altezza/taglia. Verso la fine degli anni settanta, le tabelle di riferimento del peso sono state abbandonate per l’adozione dell'indice di Quetelet o di massa corporea (BMI: Body Mass Index) da parte delle maggiori organizzazioni sanitarie: queste hanno riconosciuto il BMI come il migliore indicatore dello stato di obesità, per le conoscenze al tempo disponibili. Il BMI esprime il rapporto tra peso corporeo espresso in chilogrammi ed il quadrato dell'altezza espressa in metri [kg/(m)2]. Sulla base di tale indice si individuano quattro categorie (sottopeso, normopeso, sovrappeso, obesi) descrittive della massa

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corporea totale in riferimento ad una tipologia presunta fisiologica; tuttavia, in definitiva, tale giudizio scaturisce comunque da un semplice rapporto peso/statura e non prende in considerazione altri aspetti essenziali (sviluppo della massa muscolare, costituzione, ecc… ) nella definizione della conformazione morfologica e dei caratteri antropometrici ad essa associati. L'Organizzazione mondiale della Sanità (WHO: World Health Organization) ha definito come limite tra peso corporeo normale ed obesità il valore di BMI pari a 30. Al fine di cercare di ottimizzare il giudizio prognostico espresso dal BMI, relativamente al rischio per obesità e patologie associate, a tale indice si sono correlati dati antropometrici ottenuti con semplici rilevamenti di alcune circonferenze corporee. Da tali misurazioni è stato possibile ottenere informazioni sulla quantità e sulla distribuzione della massa muscolare e della massa lipidica, sia regionalmente, sia in riferimento all’intero organismo (tabella 3.1). Tab. 3.1 Classificazione dell’obesità e definizione del rischio relativo in base al BMI ed alla circonferenza della vita (OMS, 1997).

BMI (Body Mass Index)

Rischio relativo/ Circonferenza vita

≤102cm (U) ≤88cm (D)

>102cm (U) >88cm (D)

Sottopeso <18,5 Normopeso 18,5-24,9 Sovrappeso 25-29,9 Aumentato Elevato

Obesità 30-34,9 Grado I Elevato Molto elevato

35-39,9 Grado II Molto elevato Molto elevato

>40 Grado III Elevatissimo Elevatissimo

*rischio relativo di diabete tipo 2, ipertensione, malattia coronarica; U=uomini, D=donne Sebbene la correlazione con la Circonferenza della vita migliori l’indice predittivo del BMI, tuttavia le informazioni relative alla valutazione della massa grassa e alla sua distribuzione non risultano sicuramente affidabili e pertanto non li giudichiamo sicuri indici predittivi per stato di obesità e patologie associate. L’utilizzazione del BMI rimane confinata a studi epidemiologici condotti su popolazioni di ampia estensione mentre risulta assai poco utile al giudizio prognostico del singolo soggetto

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L'obesità é una condizione patologica particolarmente diffusa nel mondo occidentale ed in continuo aumento; non viene ovviamente risparmiata l’Italia che presenta dati di prevalenza decisamente allarmanti (figg. 3.1-3.2-3.3). Fig. 3.1

Fig. 3.2

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Fig. 3.3

L'obesità é comunemente ritenuta la conseguenza della combinazione di iperalimentazione e vita sedentaria, ed entrambe le abitudini sono molto diffuse nelle società sviluppate del nostro tempo. Numerosi studi hanno dimostrato che la quantità di massa lipidica corporea è determinata da una complessa interazione tra fattori genetici ed ambientali, e deriva

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essenzialmente dall’alterazione del bilancio energetico, con prevalenza dell’apporto energetico rispetto al dispendio.