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FORMAZIONE LITURGICA Culmine e Fonte 4-2003 1 O Sacrum convivium in quo Christus sumitur. recolitur memoria passionis eius; mens impletur gratia et futurae gloriae nobis pignus datur. O sacro convito nel quale ci nutriamo di Cristo, si fa memoria della sua passione; l’anima è ricolmata di grazia e ci è donato il pegno della gloria futura. I n questa antica preghiera la Chiesa esprime il suo grande stu- pore dinanzi alla mirabile realtà dell’Eucaristia. Nel Sacramento siamo invitati a un convito sublime in cui saziare il nostro desiderio di Dio e della sua bontà: è Lui l’unica cosa che sazia e disseta veramente (Is 55,1-2). È questo il banchetto in cui ci invita la divina Sapienza quando desidera offrirci il convito della sua casa: “Venite mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato” (Pro 9,5). A questo convito di gioia ci esortano le parole del Signore quan- do nella parabola del banchetto nu- ziale mette in bocca al Re queste pa- role: “Ecco ho preparato il mio pran- zo; i miei buoi e i miei animali in- grassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze.” (Mt 22,4). Sono le stesse nozze a cui ci invita l’angelo dell’Apocalisse: “Beati gli invitati al banchetto delle nozze del- l’Agnello” (Ap 19,9). Nella messa la Chiesa riprende questo invito e ci dice, chiamandoci alla comunione con Cristo: Beati qui ad cenam Agni vocati sunt. L’Eucaristia è il Sacro Convito, lo stesso che Dio imbandì sul Sinai nel- l’Antica Alleanza (Es 24) e che ora si rinnova nella Nuova (Mt 26,27), un convito d’amore e di comunione, un’alleanza sublime in cui l’uomo è chiamato a una misteriosa intimità con il suo Creatore e Redentore. L’antifona O sacrum convivium ci ricorda il legame profondo che uni- sce questo convito alla passione, il sacrificio e il banchetto, proprio per- ché l’Eucaristia è orientata alla co- munione. “La Messa è ad un tempo e inse- parabilmente il memoriale del sacri- ficio nel quale si perpetua il sacrificio della croce, e il sacro banchetto della Comunione al Corpo e al Sangue del Signore. Ma la celebrazione del sacri- ficio eucaristico è totalmente orien- tata all’unione intima dei fedeli con Cristo attraverso la Comunione” (CCC 1382). La grazia che ricolma l’anima è proprio tutta in questa intimità rag- giunta e goduta tra le creature e il suo Signore. Il banchetto suggerisce questa immagine di intimità e di amore: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi O Sacrum Convivium di mons. Marco Frisina

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FORMAZIONE LITURGICA

Culmine e Fonte 4-2003 1

O Sacrum convivium in quo Christus sumitur.recolitur memoria passionis eius;mens impletur gratia et futurae gloriaenobis pignus datur.

O sacro convito nel quale ci nutriamo di Cristo,si fa memoria della sua passione;l’anima è ricolmata di grazia e ci è donato il pegno della gloria futura.

I n questa antica preghiera laChiesa esprime il suo grande stu-pore dinanzi alla mirabile realtà

dell’Eucaristia. Nel Sacramento siamoinvitati a un convito sublime in cuisaziare il nostro desiderio di Dio edella sua bontà: è Lui l’unica cosache sazia e disseta veramente (Is55,1-2). È questo il banchetto in cuici invita la divina Sapienza quandodesidera offrirci il convito della suacasa: “Venite mangiate il mio pane,bevete il vino che io ho preparato”(Pro 9,5). A questo convito di gioia ciesortano le parole del Signore quan-do nella parabola del banchetto nu-ziale mette in bocca al Re queste pa-role: “Ecco ho preparato il mio pran-zo; i miei buoi e i miei animali in-grassati sono già macellati e tutto èpronto; venite alle nozze.” (Mt 22,4).Sono le stesse nozze a cui ci invital’angelo dell’Apocalisse: “Beati gliinvitati al banchetto delle nozze del-l’Agnello” (Ap 19,9).

Nella messa la Chiesa riprendequesto invito e ci dice, chiamandocialla comunione con Cristo: Beati quiad cenam Agni vocati sunt.

L’Eucaristia è il Sacro Convito, lostesso che Dio imbandì sul Sinai nel-l’Antica Alleanza (Es 24) e che ora sirinnova nella Nuova (Mt 26,27), unconvito d’amore e di comunione,un’alleanza sublime in cui l’uomo èchiamato a una misteriosa intimitàcon il suo Creatore e Redentore.

L’antifona O sacrum convivium ciricorda il legame profondo che uni-sce questo convito alla passione, ilsacrificio e il banchetto, proprio per-ché l’Eucaristia è orientata alla co-munione.

“La Messa è ad un tempo e inse-parabilmente il memoriale del sacri-ficio nel quale si perpetua il sacrificiodella croce, e il sacro banchetto dellaComunione al Corpo e al Sangue delSignore. Ma la celebrazione del sacri-ficio eucaristico è totalmente orien-tata all’unione intima dei fedeli conCristo attraverso la Comunione”(CCC 1382).

La grazia che ricolma l’anima èproprio tutta in questa intimità rag-giunta e goduta tra le creature e ilsuo Signore. Il banchetto suggeriscequesta immagine di intimità e diamore: “Ecco, sto alla porta e busso.Se qualcuno ascolta la mia voce e mi

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apre la porta, io verrò da lui, ceneròcon lui ed egli con me” (Ap 3,20).Una comunione mirabile e impensa-bile se Gesù stesso non ci rivelasse ildesiderio fortissimo che riempie ilsuo cuore: “Ho desiderato ardente-mente di mangiare questa Pasquacon voi” (Lc 22,15).

L’altra caratteristica del convitoeucaristico che questa preghiera cisuggerisce è quella che ci mostraquesto sublime banchetto come “pe-gno della gloria futura”. Nella messanoi preghiamo nell’embolismo dopo

il Padre nostro: “nell’attesa che sicompia la beata speranza e venga ilnostro Salvatore Gesù Cristo”. Noisiamo tutti protesi verso questo com-pimento finale che ci vedrà uniti persempre e senza ombra a Colui che ciha amati e ci ha redenti. Nell’Eucari-stia, dono della presenza pasquale diCristo alla sua Chiesa, noi abbiamogià un anticipo della gloria futura,anzi è il pegno più sicuro che po-tremmo avere, in quanto in essa laChiesa già pregusta quella comunio-ne con Dio e con i fratelli che godre-mo perfetta in cielo.

Ultima cena, S. Maria ad Cryptoas, Fossa AQ, sec. XII

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A nche questo numero della no-stra rivista è dedicato ai riti dicomunione, per i tanti pro-

blemi che essi pongono, come dimo-strano gli interventi che seguono. Iovoglio fare delle considerazioni difondo, che si aggiungono a quelleformulate nel numero precedente.

Ho già abbondantemente illustra-to come la partecipazione rituale edeffettiva al banchetto eucaristicoesprima ed esiga la comunione con ifratelli. Altrimenti avremmo un se-gno cui non corrisponderebbe larealtà. Questo mi porta a ribadireche la celebrazione non è staccatadalla vita, anzi ne è il sacramento,cioè “segno” che la manifesta, e“strumento” perché si realizzi sem-pre più. Lo scopo della vita cristiana,che si esprime e realizza a livello sa-cramentale nella comunione eucari-stica, è la nostra unione con Cristo,fino a che noi “diventiamo in Lui unsolo corpo e un solo spirito”. A que-sto tende tutta l’azione della Chiesa,come recita un testo della Costitu-zione Liturgica del Vaticano II, di cuici apprestiamo a celebrare il 40° an-niversario: “Il lavoro apostolico… èordinato a che tutti, diventati figlidi Dio mediante la fede e il battesi-mo, si riuniscano in assemblea, lodi-no Dio nella Chiesa, prendano parteal sacrificio e alla mensa del Signo-re” (SC 10).

Il gesto di mangiare il corpo di Cri-sto e di bere il suo sangue significa lanostra partecipazione alla sua morte

e risurrezione. Si tratta del suo corpo“offerto in sacrificio” e del suo “san-gue versato”. La Pasqua di Cristo nonè soltanto un evento della storia pas-sata, ma si rende presente perché noine siamo “toccati” e da esso salvati.

I Padri della Chiesa insistono sullanostra trasformazione in ciò che rice-viamo. Nell’ultima Enciclica, il PapaGiovanni Paolo II ricorda un testo disant’Agostino: “Se voi siete il suocorpo e le sue membra [cfr 1 Cor 12,27], sulla mensa del Signore è depo-sto quel che è il vostro mistero; sì,voi ricevete quel che è il vostro mi-stero” (Sermone 272), cioè “ricevetequello che siete, e diventate ciò chericevete”.

Il momento della comunione quin-di porta a compimento tutto ciò chel’intero rito della Messa ha finora si-gnificato:

a) i riti di ingresso avevano lo sco-po di “formare una comunità”. Ora sigiunge al culmine: noi diventiamouna sola persona, quella di Gesù Cri-sto, perché in Lui “non c’è più giudeoné greco; non c’è più schiavo né libe-ro; non c’è più né uomo né donna,poiché tutti voi siete UNO in Cristo”(Gal 3, 28). Porta a compimento an-che i riti di offertorio, nei quali ave-vamo espresso la carità verso i fratellipiù poveri, perché anche con essi di-ventiamo uno, e si compie quell’altraparola del Signore: ciò “che avetefatto ad uno solo di questi miei fra-telli più piccoli, l’avete fatto a me”(Mt 25,40).

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Il sacramento della comunione di p. Ildebrando Scicolone, osb

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b) Nella liturgia della Parola, ab-biamo visto come la storia della sal-vezza, che ha il suo compimentonella Pasqua di Cristo, si rende pre-sente. Ma abbiamo anche notatoche tale presenza raggiunge il mas-simo della sua efficacia nell’eucari-stia. Se allora “ci ardeva il cuore nelpetto… quando ci spiegava le Scrit-ture” (Lc 24, 32), ora lo riconoscia-mo “nello spezzare il pane” (Lc 24,35). Nella comunione si adempieper noi questa Scrittura che abbia-mo udito con i nostri orecchi (cfr Lc4, 21). Ne sono conferma le antifo-ne alla comunione, tratte dal Van-gelo del giorno, previste dal Messa-le italiano per le domeniche nei trecicli. La comunione sotto le duespecie significherebbe meglio la no-stra partecipazione alla Pasqua sal-vifica, perché il pane “significa” laliberazione dall’afflizione, mentre ilsangue significa la stessa Pasqua co-me alleanza.

c) Nella preghiera eucaristica, do-po aver offerto al Padre il sacrificiopasquale del Signore Gesù, abbiamochiesto per noi lo Spirito Santo, per-ché diventassimo “un solo corpo eun solo spirito”. Ciò si compie nelmomento della comunione.

La partecipazione al banchettoeucaristico dà luce alla giornata.Questa diventa il “giorno del Signo-re” Risorto, perché lo incontriamo,lo riconosciamo, ci uniamo a lui.

Sentiamo ogni tanto parlare di“mistica”. E pensiamo che si trattidi doni o fenomeni straordinari(estasi, visioni, levitazioni…), chehanno sperimentato alcuni santi,

detti appunto “mistici”. Dimenti-chiamo che il termine “mistica” èun aggettivo femminile, che si ac-compagna alla parola (sottintesa)“unione”. Che cosa è l’unione misti-ca, se non la comunione sacramen-tale, quando si realizza con il massi-mo della nostra personale parteci-pazione? Ne consegue che una co-munione eucaristica “ben fatta” è ilprincipio della santificazione, o (perdirla con i Padri orientali) della no-stra “divinizzazione”.

La dimensione escatologica delbanchetto eucaristico è stata già il-lustrata. Basti pensare alla formulacon cui siamo “invitati alla cena del-le nozze dell’agnello” (cfr Ap 19,9),già presentata nel n. 5 del 2001 diquesta rivista.

L’identificazione che Gesù fa di sestesso con i fratelli più piccoli, ci im-pedisce tuttavia di dimenticare la di-mensione ecclesiale-incarnata dellanostra comunione.

Il Papa, ancora nell’ultima encicli-ca, ricorda un testo di san GiovanniCrisostomo, con il quale concludo:“vuoi onorare il corpo di Cristo?Non trascurarlo quando si trova nu-do. Non rendergli onore qui neltempio con stoffe di seta, per poitrascurarlo fuori, dove patisce fred-do e nudità. Colui che ha detto:“Questo è il mio corpo”, è il medesi-mo che ha detto: “voi mi avete vistoaffamato e non mi avete nutrito”…A che serve che la tavola eucaristicasia sovraccarica di calici d’oro, quan-do lui muore di fame? Comincia asaziare lui affamato, poi con quelloche resterà potrai ornare anche l’al-tare”.

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L a processione di comunionenon ha solo lo scopo di faresvolgere con ordine e decoro il

movimento dei fedeli, ma soprattuttoessere segno dell’unità esistente tracoloro che partecipano all’Eucaristiaed evidenziare il carattere comunita-rio della celebrazione. Per sua naturaè una forma del camminare liturgicoe, pertanto, espressione della fede in-tesa anche come cammino. La Chiesapellegrina nel mondo (preghiera eu-caristica V/A; LG 9) è manifestazionesimbolica di un popolo che si mette inmarcia per raggiungere una meta.Può essere utile, a tal proposito, ri-chiamare con brevi cenni il significatodel termine “simbolo” che, innanzitutto, va distinto dal “segno” che nonè ciò che significa ma ci orienta versoaltro: il fumo indica l’esistenza delfuoco; è, pertanto, una specie di mes-saggio che indica o rappresenta un’al-tra realtà che non ci appartiene ne-cessariamente, dalla quale possiamorimanere lontani. Il simbolo, invece, ol’azione simbolica produce una certacomunicazione, un avvicinamento. In-dica un’efficacia unitiva, non solo co-noscitiva, e stabilisce, quindi, una cer-ta profonda identità tra la persona euna realtà. Il gesto simbolico di duesposi che si scambiano l’anello di ma-trimonio, ad esempio, non indica, al-lora, soltanto l’amore; è un linguag-gio molto espressivo che testimonia larealtà di volersi coinvolgere recipro-

camente e fattivamente in un rappor-to d’amore fedele ed esclusivo.

Le varie processioni, i pellegri-naggi e gli spostamenti nelle cele-brazioni sono, quindi, simbolicamen-te, una specie di parabola dellaChiesa in cammino; la comunità“parte” da un luogo, abbandonauna situazione e uno stile di vita, siconverte, “cammina in unione”, fra-ternamente, mettendo in risalto l’a-spetto comunitario della marcia. Simanifesta così una comunità che,sentendosi pellegrina, tenta di avan-zare verso la meta stabilita, senzastabilirsi né in un luogo, né in unasituazione. Camminare non vuol di-re, però, disimpegnarsi dal quotidia-no, significa ricordare agli uomini lacondizione di pellegrini e, parimen-ti, risvegliare la parte nomade dellaloro anima, perché si ricordino chela loro dimora quaggiù non è stabilema transitoria (Eb 13,14; 1 Cor 5,6),convinti, tuttavia, della presenza diCristo in mezzo a noi, compagno diviaggio, come ad Emmaus.

In particolare, la processione di co-munione è anche il movimento checonduce l’assemblea all’eucaristia e,nello stesso tempo, è il movimentoche reca l’eucaristia all’assemblea. Èl’altare che per la sua funzione ritua-le, ara del sacrificio e mensa del con-vito pasquale, conferisce maggior si-gnificato a questa processione. Proce-dere alla comunione, nello spazio e

Procedere alla comunione incontro a Cristo… che viene incontro di don Roberto Soprano

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nel tempo, nel cosmo e nella storia, si-gnifica andare incontro a Cristo Gesùe Signore che viene incontro. Ecco ilmotivo per il quale la processione“escatologica” alla comunione è,idealmente, bidirezionale; l’assembleasi dirige verso il Signore che viene in-contro all’uomo.

Credo sia opportuno rilevare an-che una relazione che intercorre trala processione di comunione e quellaoffertoriale, sempre auspicabile nellecelebrazioni festive, in cui i doni ed isacrifici dei fedeli possono e voglionoesprimere la partecipazione attiva al-la mensa del Signore e il segno visibi-le del coinvolgimento personale nelsuo sacrificio di sacerdote e vittima.La processione offertoriale è compiu-ta solo da alcuni fedeli che, tuttavia,rappresentano coloro che, poco do-po, parteciperanno alla mensa eucari-stica. Questo a significare che per par-tecipare attivamente occorre averpresentato il proprio sacrificio (Sal 39,7-9) che consiste nell’ascolto della vo-ce di Dio (“mi hai aperto le orecchie”)e che questo ascolto si risolve in unarisposta di pronta e volontaria obbe-dienza che abbracci tutta intera la vo-lontà di Dio espressa nella sua parola(“Ecco io vengo a fare la tua vo-lontà”). Con questo ascolto-risposta sirealizza il vero sacrificio della nuovaAlleanza, detto spirituale, perché nonsi risolve più nell’offerta di animalima nell’offerta interiore del cuoreche rinuncia alla propria volontà peraccettare, spesso con sacrificio, quellasalvifica di Dio.

La processione per la comunione è,normalmente, accompagnata dal can-to per esprimere, mediante l’accordo

delle voci, l’unione spirituale di coloroche si comunicano, per manifestare lagioia del cuore e rendere più fraternala processione con cui si va a ricevereil Corpo di Cristo (cfr. PN 56i).

Facendo tesoro di queste preciseindicazioni, si desume il criterio daadottare per la scelta dei canti adattiad accompagnare questa processio-ne; si sceglieranno, pertanto, queicanti che fanno riferimento a salmialleluiatici e di lode, avendo presentequanto detto circa il significato esca-tologico della processione di comu-nione: incontro con Cristo che vienea incontrarci.

Pur trattandosi di un canto funzio-nale, non è necessario che duri finchédura il rito di comunione, soprattuttose è previsto un inno di ringrazia-mento subito dopo. Lo scopo del can-to è raggiunto pienamente quando ilcanto di comunione è eseguito “du-rante” la processione e, soprattutto,da coloro che partecipano alla comu-nione. Essi dovrebbero rispondere al-meno con il ritornello al canto dellaschola o del cantore.

Ricevere l’Eucaristia non è solo unfatto personale e intimo: è un attoche, come abbiamo detto, ha soprat-tutto una valenza comunitaria e que-sta è, senza dubbio, evidenziata dalcantare insieme.

Quando non è eseguito il canto dicomunione, deve essere recitata lal’antifona proposta nel Messale roma-no. Essa, precisano le norme, “è reci-tata o dai fedeli, o da alcuni di loro, odal lettore, se no dallo stesso sacerdo-te dopo che questi si è comunicato,prima di distribuire la comunione aifedeli” (PN 56i).

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I n queste poche pagine intendoillustrare due novità, apparente-mente ‘minori’, nel modo di rice-

vere la comunione eucaristica, chesono state introdotte nel contestodella recente riforma liturgica pro-mossa dal concilio Vaticano II: la co-munione sotto le due specie e la co-munione sulla mano.

1. La comunione sotto le due specie

Il 7 marzo 1965 con un unico De-creto della S. Congregazione dei Ritivenne pubblicato il nuovo rito dellaconcelebrazione e della comunionesotto le due specie. Per il Rito roma-no si trattava di una novità dopouna lunga storia non esente daaspetti polemici.

1.1. Cenni storici. In ossequio alleparole di Gesù, che dice: “se nonmangiate la carne del Figlio dell’uo-mo e non bevete il suo sangue, nonavrete vita in voi” (Gv 6,53) , la co-munione sotto le due specie è statain uso costantemente fino ai nostrigiorni nei riti orientali non latinizza-ti. In Occidente invece tale praticaha avuto una storia travagliata. Neiprimi secoli della Chiesa, l’uso dellacomunione sotto le due specie è sta-to universalmente praticato, ed eraritenuta addirittura parte essenzialedella celebrazione; il fatto di aste-nersi dal calice, pertanto, era ripro-

vato come un attentato all’unicitàdel mistero eucaristico. Papa GelasioI (+ 496) si esprime in questi termini:

“Sappiamo che alcuni, ricevutasoltanto la porzione del sacro corpo,si astengono dal sangue consacrato,guidati senza dubbio da chi sa qualesuperstizione. Costoro o ricevanoper intero i sacramenti o se neastengano per intero; la divisione diun solo ed identico mistero non puòfarsi senza grande sacrilegio”1.

Nella seconda parte del secolo XIIcomincia a prevalere la comunionesotto la sola specie del pane. Le cau-se di questo cambiamento furonomolteplici, alcune d’ordine pratico,altre d’ordine teologico. Tra i motivid’ordine pratico, r icordiamo: lepreoccupazioni igieniche, le diffi-coltà create dalle grandi assemblee,la prolissità del rito, ecc. Furonoperò i motivi d’ordine teologicoquelli principali e decisivi: la teolo-gia della presenza reale conobbe inquesto periodo un grande sviluppo.Ciò produsse, tra altre conseguenze,un maggior rispetto verso il Ss. Sa-cramento che si concretizzò, perquello che riguarda il nostro tema,in una maggior attenzione ai perico-li di irriverenza e di versamento delvino consacrato che comporta la co-munione al calice. Nel secolo XIII sanTommaso giustificherà in modo chia-ro e definitivo la prassi di comuni-

Partecipare all’eucaristia nella pienezza del suo segno di p. Matias Augé cmf

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carsi col solo pane con la cosiddettalegge della “concomitanza”, per cuiil corpo e il sangue di Cristo sono ve-ramente contenuti nella loro inte-grità sia sotto la specie del pane chesotto quella del vino2. Notiamo peròche la comunione sotto le due specieperdurerà qui e là fino agli inizi delsecolo XV.

Prima gli Orientali e poi alcunesette dell’Occidente attaccaronoviolentemente il nuovo uso di co-municare sotto la sola specie del pa-ne, considerandolo contrario al van-gelo e alla tradizione ecclesiastica.Questo atteggiamento di contesta-zione, non soltanto disciplinare maanche dottrinale, provocò l’inter-vento di due concili ecumenici: ilconcilio di Costanza, nella sessioneXIII del 15 giugno 1415, proibì ai sa-cerdoti, sotto pena di scomunica, didare ai fedeli la comunione sotto ledue specie, uso che era stato rein-trodotto recentemente tra i Boemida Giacomo de Misa: “… i laici rice-vano solo la specie del pane, rima-nendo fermissima verità di fede, dicui non si deve dubitare, che il cor-po e il sangue di Cristo sono vera-mente contenuti nella loro integritàsia sotto la specie del pane che sot-to quella del vino”3. Più tardi, ilconcilio di Trento, nella sessione XXIdel 16 luglio 1562, ribadisce i princi-pi dottrinali che regolano la que-stione e, per quanto riguarda il pro-blema disciplinare della concessioneo meno della comunione al calice,lo lascia alla prudenza del Papa, ilquale di fatto non la concesse. No-tiamo che Trento, oltre a citare il te-

sto di Gv 6,53, da noi sopra ricorda-to, cita anche, tra altri testi, Gv6,51: “Se uno mangia questo panevivrà in eterno…”4.

1.2. La novità del concilio Vatica-no II e il suo significato. La Costitu-zione sulla sacra liturgia del Vatica-no II afferma al n. 55:

“… Fermi restando i principi dog-matici stabiliti dal concilio di Trento,la comunione sotto le due specie sipuò concedere sia ai chierici e reli-giosi sia ai laici, in casi da determi-narsi dalla sede apostolica e secondoil giudizio del vescovo, come agli or-dinati nella messa della loro sacraordinazione, ai professi nella messadella loro professione religiosa, aineofiti nella messa che segue il bat-tesimo”.

Se il Vaticano II non fa riferimen-to ai valori teologici specifici dellacomunione sotto le due specie, i do-cumenti posteriori al concilio hannoriempito questo vuoto. Così, l’ultimodi questi documenti in ordine ditempo, le Premesse al Messale Ro-mano, nella sua ultima edizione del-l’anno 2000, riassumono questa teo-logia al n. 281 (n. 240 delle edizionianteriori):

“La santa comunione esprime conmaggior pienezza la sua forma di se-gno, se viene fatta sotto le due spe-cie. Risulta infatti più evidente il se-gno del banchetto eucaristico, e siesprime più chiaramente la volontàdivina di ratificare la nuova ed eter-na alleanza nel Sangue del Signore,ed è più intuitivo il rapporto tra il

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banchetto eucaristico e il convitoescatologico nel regno del Padre”.

In primo luogo, quindi, nella co-munione sotto le due specie vi èuna maggiore autenticità e forzaespressiva immediata del segno eu-caristico come banchetto, cioè unamaggior perfezione del segno. Nonbasta accontentarsi di un segno ‘va-lido’. E’ un postulato teologico eun’esigenza pastorale tendere versola pienezza di manifestazione e dicomprensione del segno sacramen-tale.

Il rito sacramentale, poi, acqui-sta nella comunione sotto le duespecie la struttura originale con laquale Cristo l’ha istituito. Ma nonsi tratta semplicemente di una fe-deltà materiale alla istituzione delsegno sacramentale; con la comu-nione sotto le due specie abbiamola possibilità di mettere in eviden-za una serie di valori biblici e teo-logici che illuminano il mistero eu-caristico: l’eucaristia è un banchet-to sacrificale (cf. 1Cor 10,16-22;11,20), in relazione con la tematicastorico-simbolica dei banchetti bi-blici: la storia della salvezza è in-quadrata dai due grandi banchettiiniziali dell’antica alleanza (pasquae sacrificio del Sinai) e dal banchet-to del la nuova al leanza, tutt iorientati verso il banchetto escato-logico della fine dei tempi. Il vinoesprime i l carattere festivo delbanchetto bibl ico (cf . Sal 23,5;104,15; Gdc 9,13; Pr 9,2). Il bere alcalice del vino nella cena di Cristorievoca inoltre la dimensione esca-

tologica di questo calice (cf. Mt26,27-29; Lc 22,17-18): il prossimobanchetto nel quale Cristo pren-derà parte con i suoi discepoli saràil banchetto escatologico che la ce-na anticipa. Infine il calice alludealla nuova ed eterna alleanza traDio e gli uomini, sigillata nel san-gue di Cristo (cf. Eb 9,15-22).

La normativa che regola la comu-nione sotto le due specie è compe-tenza del vescovo diocesano, il qua-le ha facoltà di permettere la comu-nione sotto le due specie addiritturasempre, posto che ciò sembri oppor-tuno al sacerdote celebrante; così iln. 283 delle Premesse all’ultima edi-zione del Messale Romano. Si trattadi un notevole ampliamento dellanormativa anteriore. Il modo previ-sto di assumere il vino consacratopuò essere quello di bere diretta-mente al calice o con la cannuccia oil cucchiaino o anche per intinzionebagnando il pane nel vino del cali-ce. Cannuccia e cucchiaino non sonoentrati nell’uso, almeno nelle nostreregioni.

2. La comunione sulla manoSecondo una tradizione costante

della Chiesa, i fedeli ‘ricevono’ lasanta eucaristia dalle mani del mini-stro; si tratta dell’inderogabile ca-rattere ministeriale che deve espri-mere la distribuzione della comu-nione. L’attuale disciplina prevedeche i fedeli laici la possono riceveresulla lingua o sulla mano. Quest’ul-timo modo di comunicarsi è una no-vità reintrodotta dopo il concilioVaticano II.

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2.1. Cenni storici. Nel primo mil-lennio, la comunione si riceveva disolito sulla mano, mentre la si davadirettamente in bocca in quei casi incui il fedele non era in grado di rice-verla sulla mano, come i malati o ibambini nel giorno del loro battesi-mo. È nota l’ampia spiegazione chesan Cirillo di Gerusalemme (+ 387)offre di questo modo di comunicarsinella sua 5a Catechesi mistagogica.Riproduciamo soltanto le prime bat-tute del testo:

“Quando ti accosti non procederecon le palme delle mani aperte, nécon le dita separate, ma colloca la si-nistra come un trono sotto alla de-stra che deve ricevere il Re. Ricevi ilcorpo di Cristo nella cavità delle tuemani e rispondi: ‘Amen’ …”5 .

In Occidente abbiamo le testimo-nianze di san Cesario di Arles (+ 542)e dei sinodi delle Gallie dei secoli VI-VII, che confermano una prassi simi-le. Gli uomini ricevono la comunionesulla mano nuda, le donne invecesul la mano coperta con un velobianco. Il santo vescovo di Arles siesprime in questi termini:

“Tutti gli uomini quando deside-rano comunicarsi lavino le loro manie le donne mostrino candidi panno-l ini , dove r icevano i l corpo diCristo”6.

Nel secolo VIII abbiamo testimo-nianze molto chiare, secondo cui lacomunione sulla mano era sempre invigore sia in Oriente, sia in Occiden-te. San Beda il Venerabile (+ 735)

parla di un monaco che al momentodi ricevere il santo Viatico, “tenendol’eucaristia sulle sue mani”, chieseperdono ai confratelli di comunità7.San Giovanni Damasceno (+ 749),nel descrivere il rito della comunio-ne, esorta i fedeli ad avvicinarsi alSignore con ardente desiderio e a ri-cevere il suo corpo “con le maniaperte l’una sull’altra in forma dicroce”8.

Verso il secolo IX/X si verifica ungraduale cambiamento della prassiantica. Con l’introduzione delle fi-nissime particole di pane azzimo,che già nel secolo IX prendono laforma tondeggiante e si assottiglia-no sempre di più, si facilita la prassidella comunione data sulla lingua,che sarà poi imposta e resa obbliga-toria per tutti i fedeli laici. Tale di-sciplina è affermata già nel sinododi Rouen dell’anno 878, che stabili-sce che “a nessun laico, uomo o don-na, si dia la comunione sulla mano,ma solo in bocca…”9 Anche in que-sto caso, come nel caso della comu-nione al calice, i motivi che determi-narono questo cambiamento sono didiversa natura. Anzitutto, si inten-deva evitare il rischio di profanazio-ne del pane eucaristico, che potevaessere portato eventualmente viaper pratiche superstiziose. In secon-do luogo, poi, il crescente rispettoverso il Ss. Sacramento, si trasformòtalvolta in una sorte di timore, esa-sperato dalla coscienza del propriopeccato, che rende indegni di ‘tocca-re’ il corpo di Cristo, e anche di rice-verlo. Infatti, la rivalutazione delladimensione della presenza reale e il

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conseguente aumento delle manife-stazioni di rispetto e di adorazioneverso l’eucaristia, vanno di pari pas-so con un vistoso allontanamentodalla comunione eucaristica.

2.2. La novità del concilio Vatica-no II e il suo significato. Nel corsodella riforma liturgica promossa dalVaticano II, l’Istruzione della S. Con-gregazione per il culto divino Me-moriale Domini , del 29 maggio1969, sul modo di distribuire la co-munione, permetteva alle singoleConferenze episcopali la possibilitàdi richiedere alla Sede Apostolica lafacoltà di introdurre nei loro paesil’uso tradizionale della comunionesulla mano, da affiancare però aquello fino allora in vigore della co-munione sulla lingua.

In Italia la possibilità di dare lacomunione sulla mano è stata ap-provata dalla Conferenza episcopalenel maggio del 1989, ed è entrata invigore il 3 dicembre dello stesso an-

no, prima domenica di Avvento. Lemodalità di questo modo di riceverela comunione sono spiegate dai ve-scovi in questo modo:

“Accanto all’uso della comunionesulla lingua, la Chiesa permette didare l’eucaristia deponendola sullamano dei fedeli protese entrambeverso il ministro, (la sinistra sopra ladestra), ad accogliere con riverenzae rispetto il corpo di Cristo. I fedelisono liberi di scegliere tra i due mo-di ammessi. Chi la riceve sulle manila porterà alla bocca davanti al mini-stro o appena spostandosi di latoper consentire al fedele che segue diavanzare. Se la comunione viene da-ta per intinzione, sarà consentitasoltanto nel primo modo”10.

Con la reintroduzione della co-munione sulla mano si ricupera unapositiva ‘familiarità’ con l’eucaristia.Non si deve dimenticare però il ri-spetto e riverenza con cui i fedeli di

La divina liturgia: il Cristo dà agli apostoli la comunione sotto le due specie, Veli eucaristici della Collegiata di Castell’Arquato (PC)

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tutti i tempi si sono avvicinati a rice-vere il Ss. Sacramento. Teodoro diMopsuestia (+ 428) spiegando in unadelle sue omelie il modo di comuni-carsi sulla mano, dice: “Si stende lamano destra a ricevere l’oblazioneche viene data, ma sotto di essa sipone la sinistra, e con ciò si mostrauna grande riverenza”11. Non si puòquindi identificare, come ha fattoqualche autore, comunione sulla lin-gua con modo rispettoso di comuni-carsi e comunione sulla mano conmodo irrispettoso di comunicarsi.Familiarità e riverenza non si esclu-dono. Come ricorda Giovanni PaoloII nella sua recente enciclica Ecclesiade Eucharistia (n. 12), citando il Ca-techismo della Chiesa Cattolica (n.1382), l’eucaristia è inseparabilmen-te sacro banchetto della comunioneal corpo e al sangue del Signore ememoriale del sacrificio nel quale siperpetua il sacrificio della croce.Non partecipiamo solo a un ban-chetto festivo (familiarità), ma par-tecipiamo anche al memoriale delsacrificio della croce (riverenza). Aquesto proposito, sono sempre in vi-gore le norme stabilite dall’Istruzio-ne Eucharisticum Mysterium, del 27

maggio 1967, che, al n. 34, affermache la comunione può essere ricevu-ta dai fedeli sia in ginocchio, sia inpiedi, e aggiunge: “quando la rice-vono in piedi, si raccomanda calda-mente che, accostandosi all’altareprocessionalmente, facciano un attodi riverenza prima di ricevere il sa-cramento…”.

3. ConclusioneLe due ‘novità’ che abbiamo illu-

strato non sono tali per le genera-zioni più giovani, che non hanno co-nosciuto la prassi anteriore al conci-lio Vaticano II. In ogni modo, è utileche sia i giovani, sia gli anziani co-noscano la storia e il senso dei gestirituali che compiono. D’altra parte,la comunione sotto le due specie ela comunione sulla mano sono usiche devono essere compresi e valu-tati nella loro dimensione di ‘segno’,che è quella propria del linguaggiodella liturgia, la quale è per defini-zione un “complesso di segni sensi-bili”, come dice la Costituzione litur-gica del Vaticano II al n. 7. Si trattadi usi che ci possono aiutare a parte-cipare all’eucaristia nella pienezzadel suo segno.

—————————————1 GELASIO I, Majorico et Joanni episcopis: PL 59, 141.2 Cf. TOMMASO D’AQUINO, Somma Teologica III, q. 76, a. 2.3 Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Edizioni Dehoniane, Bologna 1991, p. 419.4 Ibid., p. 726.5 CIRILLO DI GERUSALEMME, Catechesi Mistagogiche 5, 21: Sources Chrétiennes 126, 170.6 CESARIO DI ARLES, Sermo 227,5: CCL 104, 899-900; cf. IDEM, Sermo 229: CCL 104, 908.7 BEDA, Historia ecclesiastica IV, 24: PL 95, 214.8 GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthodoxa IV, 13: PG 14, 1150.9 SINODO DI ROUEN, can. 2: MANSI 10, 1199.10 CEI, Istruzione sulla comunione eucaristica 15: Enchiridion CEI 4, 1860.11 TEODORO DI MOPSUESTIA, Omelia 16, 27: ediz. a cura di R. TONNEAU, 577.

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SANT’AMBROGIO (339-397): “Nonsenza ragione tu dici Amen ricono-scendo nel tuo intimo che ricevi ilcorpo di Cristo. Quando ti presentiper riceverlo, il Vescovo ti dice: IlCorpo di Cristo e tu rispondi Amen,cioè è vero; il tuo animo custodiscaciò che la tua lingua riconosce”.

De Sacramentis, 4, 25.

SAN CIRILLO DI GERUSALEMME (315-386): “Quando ti avvicini, non avan-zare con le palme delle mani distese,né con le dita disgiunte; invece, faidella tua mano sinistra un trono perla tua mano destra, poiché questadeve ricevere il Re e, nel cavo dellemani, ricevi il corpo di Cristo dicendoAmen. Santifica dunque accurata-mente i tuoi occhi mediante il con-tatto con il corpo santo, poi prendiloe fai attenzione a non perderne nul-la. Ciò che tu dovessi perdere, infat-ti, è come se perdessi una delle tuemembra. Se ti dessero delle pagliuz-ze d’oro, non le prenderesti con lamassima cura, facendo attenzione anon perderne nulla e a non danneg-giarle? Non farai dunque assai piùattenzione per qualcosa che è ben

più prezioso dell’oro e delle pietrepreziose, in modo da non perderneneppure una briciola?

Dopo esserti comunicato al Corpodi Cristo, avvicinati anche al calicedel suo sangue. Non distendere letue mani, ma inchinato, e con ungesto di adorazione e rispetto, di-cendo Amen , santifica te stessoprendendo anche il sangue di Cri-sto. E mentre le tue labbra sono an-cora umide, sfiorale con le tue mani,e santifica i tuoi occhi, la tua frontee gli altri tuoi sensi. Poi, aspettandol’orazione rendi grazie a Dio che tiha stimato degno di così grandi mi-steri”.

Catechesi mistagogiche, 5, 21-22.

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO (350-407): “Dimmi, andresti con mani nonlavate all’Eucaristia? Penso di no.Preferiresti piuttosto di non andarci,anziché andare con mani sporche. Inquesta piccola cosa sei attento, e poiosi andare a ricever l’Eucaristia conl’anima impura? Ora con le mani tie-ni il Corpo del Signore solo per brevetempo, mentre nell’animo vi rimaneper sempre. […]

La Comunione Eucaristica negli scritti dei PadriLa Conferenza Episcopale Italiana ha ripristinato in Italia la possibilità di ricevere la comu-nione sulla mano con una delibera approvata dalla Congregazione per il Culto Divino e laDisciplina dei Sacramenti in data 14 luglio 1989. Il 19 luglio fu pubblicata un’Istruzionepastorale per preparare i fedeli al nuovo uso. La nota 24 dell’Istruzione riporta i brani piùcelebri di Padri della Chiesa e scrittori ecclesiastici che presentano l’uso antico e ne spie-gano il significato. Sono brani suggestivi che ci permettono di gettare uno sguardo sullaprassi liturgica dei secoli IV-V e sulla fede eucaristica della Chiesa antica. Ripubblichiamotali brani a beneficio dei lettori.

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La più grande dignità di chi ricevecon la mano il Corpo del Signore ri-spetto agli stessi Serafini”.

Omelia sulla lettera agli Efesini, 3,4. 6, 3.

TEODORO DI MOPSUESTIA († 428):“Allora ciascuno si avvicina, con losguardo abbassato e le mani tese.Guardando in basso, il fedele espri-me, mediante l’adorazione, una spe-cie di debito di convenienza; in certoqual modo, egli confessa di ricevereil corpo del Re, di colui che divenneSignore di tutto mediante l’unionecon la natura divina, ed è egualmen-te adorato a titolo di Signore da tut-ta la grandezza del dono che sta perricevere. Si stende la mano destraper ricevere l’oblazione donata; masotto di essa si mette la mano sini-stra, mostrando così una grande rive-renza […]

Il Pontefice dunque, dando l’obla-zione, dice: Amen. Mediante la tuarisposta, tu confermi la parola delPontefice e contrassegni la parola dicolui che dà. E lo stesso si fa perprendere il calice […]

Ma dopo avere preso l’oblazione,giustamente tu farai salire a Dio, date stesso, azione di grazia e benedi-zione, in modo da non essere ingrato

per questo dono divino; e rimarrai, inmodo da assolvere con tutti il debitodi azione di grazie e di benedizionesecondo la legge della Chiesa, perchéè giusto che tutti coloro che si sononutriti di questo cibo spirituale ren-dano assieme, in comune, azione digrazie a Dio per questo dono.

Catechesi XVI, 27-29.

A conclusione del documento, è postoun altro brano di San Cirillo di Gerusalem-me (Catechesi mistagogiche, IV):

“Avendo appreso queste cose haipiena coscienza che ciò che ti parepane non è pane, anche se al gusto ètale, ma corpo di Cristo, e il vino chepare vino non è vino, anche se il gu-sto l’avverte come tale, ma sangue diCristo. Di ciò anticamente David can-tando disse: Il pane fortifica il cuoredell’uomo, e il suo volto brilla d’olio.Fortifica il tuo cuore, prendendo ilpane come spirituale e si rallegri ilvolto della tua anima. Il tuo volto di-scoperto in una coscienza pura possariflettere come in uno specchio lagloria del Signore e progredire digloria in gloria nel Cristo Gesù no-stro Signore al quale sia gloria neisecoli dei secoli”.

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I l Codice di Diritto Canonico pro-mulgato da Benedetto XV nel1917 e rimasto in vigore fino al

1984, al canone 858 § 1 prescrivevache chi non avesse osservato il digiunoeucaristico (ieiunium naturale) dallamezzanotte precedente non potevaaccostarsi alla comunione, salvo il casodi pericolo di morte o per impedire laprofanazione delle Sacre Specie. Soloai malati che erano a letto da almenoun mese e con incerta speranza dipronta guarigione era consentitoprendere una medicina o una bevan-da in deroga alla norma generale1.Questa rigida prescrizione canonica èben ricordata da tutti quelli che han-no fatto la prima comunione primadel 1953, ma soprattutto dai sacerdo-ti, che in caso fossero stati costretti acelebrare due volte nel corso dellastessa mattina, non potevano neppurepurificare con un po’ d’acqua il calicedopo la comunione della prima messa,perché anche questo avrebbe rotto ildigiuno. E magari tra le due messec’erano state due ore di confessionalee uno spostamento da un piccolo pae-se a un altro, in una calda mattinad’estate. Molti preti hanno custoditoin benedizione la memoria di Pio XIIper la concessione di bere un bicchiered’acqua! Nel 1953 infatti papa Pacellimitigò la disciplina riducendo il digiu-no a tre ore per i cibi solidi e un’oraper le bevande, ed escludendone ac-qua e medicine.

La norma attualmente vigente èancora più blanda: “Chi intende rice-vere la santissima Eucaristia si astengaper lo spazio di almeno un’ora primadella sacra comunione da qualunquecibo o bevanda, fatta eccezione sol-tanto per l’acqua e le medicine2. Talelasso di tempo viene ulteriormentemitigato per i sacerdoti che devonocelebrare più volte, per gli anziani, gliinfermi e coloro che sono addetti alleloro cure, per i quali il digiuno può ri-dursi anche a un quarto d’ora3.

Il digiuno eucaristico è una prassiantica; le prime attestazioni risalgonoal III secolo, quando Tertulliano inAfrica del Nord, Ippolito a Roma af-fermano che l’Eucaristia va ricevuta“prima di ogni altro cibo”4.

Non si tratta di una pratica di mor-tificazione, né costituisce in sé un fine:il cristianesimo ha sempre rifuggitoogni fachirismo e ogni pratica di au-toesaltazione. È piuttosto uno stru-mento per indurre preparazione, atte-sa, desiderio. Avere fame e sete del-l’Eucaristia, desiderare di accostarsi al-l’altare in modo che la processioneper la comunione divenga un affret-tarsi festoso, diremmo quasi impa-ziente, l’accorrere di un popolo che hafame e sete.

Certo, il dato simbolico, il legamecon le funzioni vitali del mangiare ebere, un tempo naturale, di immedia-ta e spontanea comprensione, ogginon è più percepito. Difficile parlare

Il digiuno eucaristico e la comunione iterata di Adelindo Giuliani

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di fame e sete dell’Eucaristia a una ge-nerazione che, per grazia di Dio certo,non ha conosciuto queste esperienzenella loro ruvida, scarnificante verità eche usa parole di cui non comprendeil significato profondo. Chi è nato inOccidente dopo la seconda guerramondiale non sa che cosa significhiavere fame. Conosce l’appetito, il lan-guore, la “voglia di qualcosa di buo-no” delle pubblicità in carta patinata,ma non ha memoria delle carestie dimaggio, quando le riserve nei granaiandavano esaurendosi e i contadinisbirciavano le prime spighe che im-biondivano per mieterle e farne unsospirato assaggio di farina. Chi ricor-da l’uso di tracciare una croce sull’im-pasto già diviso in pani e pronto per ilforno? Solo dai libri di storia medieva-le un giovane del XXI secolo potrebbescoprire l’antico uso monastico di rac-cogliere le briciole dalla tavola e sicu-ramente nessun bambino che lasciacadere un pezzo di pane dalla mensaviene invitato a raccoglierlo, pulirlo ebaciarlo, come accadeva in tante casedell’Italia rurale fino a quattro o cin-que decenni fa. Allo stesso modo il vi-no, dimenticato dalla moda per alcunidecenni quando non evocatore diemarginazione sociale (l’alcolizzato),viene ora riscoperto come prodotto ri-cercato e costoso, per intenditori chelo rimirano in controluce disquisendosu preziosi retrogusti fruttati o spezia-ti. In ogni caso nulla che abbia un le-game con la quotidianità, con la vita ei suoi bisogni fondamentali.

Scendendo a un l ivel lo piùprofondo di comprensione, fonda-mentale è il ricupero di un rapportoconsapevole tra l’uomo e il cibo, un

rapporto banalizzato dal tutto e su-bito al quale la civiltà dell’opulenzaci ha abituati. Un monaco del nostrotempo ricorda: “il cibo trascina consé una dimensione affettiva straordi-nariamente potente: anoressia e bu-limia sono gli indici di turbamenti af-fettivi che si ripercuotono nell’ali-mentazione. Ecco perché il compor-tamento alimentare nell’uomo riceveun “surplus” di senso: non dipendesolo da bisogni fisiologici, ma appar-tiene al registro dell’affettività e deldesiderio. L’oralità, allora, richiedeuna disciplina per passare dal biso-gno al desiderio, dal consumo all’at-teggiamento eucaristico del ringra-ziamento, dalla necessità individualealla comunione. E qui l’eucaristiamostra il suo magistero come eserci-zio ed esperienza di comunione, dicondivisione. Ecco la ragione del di-giuno prima dell’eucaristia: non unamortificazione per essere degni, nonuna penitenza meritoria, ma unadialettica digiuno-eucaristia, una di-sciplina del desiderio per discernereciò che è veramente necessario pervivere, oltre il pane. Con il digiuno sitratta di dominare il vettore del con-sumo per promuovere il vettore del-la comunione”5.

Senza questa duplice consapevo-lezza, del cibo e dell’oralità, il datobiblico e quello liturgico diventanodi difficile comprensione: l’uomosalvato da Cristo ha fame e sete dilui, la sua sopravvivenza dipende daquel cibo e da quella bevanda, laprivazione temporanea e momenta-nea ne accresce il desiderio e per-mette di comprenderne l’imprescin-dibile importanza.

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Non va dimenticato infatti che laforma di digiuno eucaristico piùmarcato è quello del Triduo sacro, inattesa della Pasqua. E non si intendeparlare qui del digiuno prescrittoper il venerdì santo, che la Chiesaconsiglia di protrarre anche al saba-to, ma di un uso liturgico occidenta-le che si innesta sul digiuno dal cibocomune: quello di non celebrarel’Eucaristia il venerdì e il sabato san-to. In attesa della Pasqua la Chiesarinuncia non solo al cibo di questavita, ma anche al Pane del cielo, perpoter ritrovare con rinnovata consa-pevolezza nella Pasqua il gesto delSalvatore che prende il pane e il vi-no, li benedice, li porge. Da quel ge-sto i discepoli di Emmaus, e la Chiesacon loro, riconoscono la presenzadel Risorto.

Anche su questa forma del digiu-no eucaristico si riflette poco: la ve-glia pasquale in un immaginario col-lettivo difficile da correggere (e pur-troppo anche nella prassi di qualchechiesa!) è situata ancora alla sera delsabato piuttosto che nella notte del-la domenica; quanto al venerdì san-to, la liturgia si conclude pur semprecon la comunione eucaristica alleSpecie pre-santificate, ossia consa-crate al giovedì, ma un’occhiata allastoria di questa celebrazione ci per-metterebbe di scoprire usi liturgicivariamente fluttuanti tra luoghi eepoche: ora si comunicava solo il sa-cerdote, non il popolo, ora il contra-rio. Testimonianze di una ricerca ri-tuale che intendeva comunque dareevidenza al digiuno dal cibo di im-mortalità.

Ultima cena, pittore Cretese, sec. XVI

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Anche la disciplina della comunio-ne iterata nel corso del giorno ha su-bito un cambiamento. Il già citatoCodice del 1917 prescriveva che anessuno fosse consentito riceverel’Eucaristia per più di una volta algiorno, fatti salvi i consueti casi dipericolo di morte o di profanazione(in cui si consumava l’Eucaristia per-ché non cadesse in mani empie)6. Do-po la riforma liturgica, nel 1973 l’i-struzione Immensae caritatis primariassumeva i casi nei quali, alla lucedei documenti attuativi della rifor-ma, era consentito comunicarsi duevolte nel corso della stessa giornata7,poi, dopo aver riaffermato il valoredella norma generale che consenteai fedeli “di accedere alla sacra men-sa solamente una volta al giorno”,principio cui non si può derogare persemplice devozione, l’istruzione af-frontava quei casi in cui i fedeli po-tevano trovarsi a partecipare duevolte alla celebrazione eucaristica,estendendo ampiamente la facoltàdi ripetere la comunione8.

Il Codice di Diritto Canonico del1984, al can. 917 amplia ulteriormen-te questa facoltà, ma il testo latinosembra dire ancor più della traduzio-ne italiana: “Qui sanctissimam Eu-charistiam iam recepit, potest eamiterum eadem die suscipere solum-modo intra eucharisticam celebratio-nem cui participat [...] - Chi ha già ri-cevuto la santissima Eucaristia, puòriceverla una seconda volta nellostesso giorno, soltanto entro la cele-

brazione eucaristica alla quale parte-cipa [...]”. Due rilievi:

1) l’avverbio iterum viene tradot-to in italiano “una seconda volta”. Inquesto modo il testo italiano restrin-ge l’ambito semantico del termine,che di per sé significa semplicementedi nuovo.

2) Si precisa che tale seconda co-munione può avvenire solo all’internodi una celebrazione eucaristica allaquale si sia preso parte.

L’evoluzione della disciplina mo-stra una sempre maggior consapevo-lezza dell’unità della celebrazione eu-caristica: la completa partecipazionedel fedele non può non includere lacomunione eucaristica. Sembra per-tanto opportuno che chi abbia parte-cipato due volte alla celebrazione (ca-so possibile soprattutto per i laici piùimpegnati, i catechisti, coloro cheesercitano un ministero liturgico),possa parteciparvi in pienezza, senzaulteriori determinazioni casistiche.

D’altro canto, proprio per non sle-gare la comunione dalla dinamicacelebrativa ed evitare che essa deca-da in una pratica individuale devotao addirittura superstiziosa, si sottoli-nea il fatto che tale seconda comu-nione è possibile solo nella celebra-zione e si ribadisce nel testo italianoun limite numerico (due volte), la-sciando nel latino un termine menodeterminante.

Non sarà inutile allora concluderequeste note richiamando alla mentela dinamica celebrativa, almeno limi-tandoci alla liturgia eucaristica. Diodona all’uomo la terra e i suoi frutti,l’uomo li rende a Dio benedicendo ilsuo amore (e al dono del frutto del-

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la terra si aggiunge un “plus-valo-re”, quello del “lavoro dell’uomo”che esprime l’accoglimento, l’adesio-ne, la partecipazione della creaturaal progetto che il Creatore ha avvia-to), Dio rinnova il dono facendo delpane e del vino il Corpo e il Sanguedel Signore, l’uomo, che già conoscei doni del creato per la sua vita, spe-rimenta la fame del “Pane di vitanuova” e la sete del “Calice dellasalvezza” e corre all’altare per rico-noscere il Signore e riceverne il so-spirato nutrimento.

Potremmo scandire la dinamica ce-lebrativa con le parole del salmo 116

(115): “Quid retribuam Domino proomnibus quae retribuit mihi? - Checosa renderò al Signore per quantomi ha dato?” Se all’offertorio e allapreghiera eucaristica la risposta è“Alzerò il calice della salvezza e invo-cherò il nome del Signore”, al termi-ne della celebrazione risuona nelcuore del fedele un altro versetto delmedesimo salmo: “Adempirò i mieivoti al Signore davanti a tutto il suopopolo; negli atri della casa del Si-gnore, in mezzo a te, Gerusalemme”.

Il supremo rendimento di graziedel cristiano è l’offerta di tutta la vita,un’offerta che si fa testimonianza.

—————————————1 È sempre stato consentito amministrare il viatico senza alcun vincolo di digiuno; cf. motu pro-

prio Sacram communionem, 19 marzo 1957, in AAS 49, 1957, 178.2 Codice di Diritto Canonico, can. 919 § 1.3 Istruzione della S. Congregazione per la disciplina dei Sacramenti Immensae caritatis, 26 gen-

naio 1973, n. 3.4 Cf. M. RIGHETTI, Storia liturgica, Milano 1966, III, pp. 577-581.5 E. BIANCHI, Tornare al digiuno, contro la voracità dei consumi, in “Avvenire”, 3 marzo 2002.6 can. 857.7 Istr. Immensae caritatis, cit., n. 2. I casi erano i seguenti:- mattino del sabato o del giorno prefestivo e messa vespertina prefestiva;- veglia pasquale e messa del giorno di Pasqua;- notte di natale e messa dell’aurora o del giorno;- messa crismale e messa della Cena del Signore al giovedì santo.8 Questi i casi che erano previsti:- messe rituali durante le quali sono amministrati i sacramenti dell’iniziazione, dell’unzione degli

infermi, dell’ordine, del matrimonio, nonché nella messa di prima comunione;- consacrazione della chiesa o dell’altare, professione religiosa, conferimento di una “missio cano-

nica”;- alcune messe per i defunti (esequiale, dopo la notizia della morte, nel giorno della sepoltura,

nel primo anniversario);- messa principale nella festa del SS. Corpo e Sangue di Cristo, nella visita pastorale, nella visita

canonica, in particolari riunioni o capitoli;- messa principale di un congresso eucaristico o mariano;- messa principale di convegni, pellegrinaggi, predicazioni;- amministrazione del viatico (comunione anche ai familiari e amici presenti); - circostanze particolare giudicate opportune dall’ordinario locale.

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T erminata la distribuzione del-l’Eucaristia, tutti i fedeli “loda-no e pregano il Signore nell’in-

timo del proprio spirito” (IGMR 23).Così ci indica l’Introduzione Generaleal Messale Romano.

In questo momento avviene, daparte di ciascun fedele, il riconosci-mento del Cristo nell’intimo del pro-prio essere. È proprio del processofisico e psichico dell’essere umanoavere la necessità di un tempo perassimilare e comprendere sia quantosi è mangiato, sia quanto questo si-gnifichi.

L’errore pastorale a cui spesso assi-stiamo è quello di dare per scontato ilfatto che nell’assunzione del pane eu-caristico ci sia la presenza reale delCristo. Si tratta di discernere il Corpodel Signore.

Non è raro constatare che l’Euca-ristia scivola sulla nostra vita, cheusciti dalla chiesa tutto è come pri-ma, che non c’è stata trasformazionein noi, che non ricordiamo neanchela parola ascoltata: perché? Sonotanti i motivi, ma uno di questi èproprio la mancanza di un tempoper l’incontro personale con il Cristopresente nell’Eucaristia, un tempoper l’esperienza personale di un dia-logo a tu per tu con Cristo. È questoil significato del sacro silenzio collo-cato in questo momento della messa.Non possiamo passare sopra e infretta su quanto abbiamo ricevutonelle nostre mani e poi abbiamo

mangiato. Mistero tremendo è quan-to succede!

I Santi Padri avevano una profondacomprensione dell’eucaristia; Simeoneil Nuovo Teologo affermava che non sidoveva mai ricevere l’Eucaristia senzaversare lacrime.

Il mistero della presenza di Cristonell’Eucaristia è davvero il misterodella kenosis del Figlio di Dio, delsuo annientarsi nei segni semplici delpane e del vino. Cirillo di Gerusalem-me così scrive: “Quando ti accosti,non farti avanti con le mani protesené con le dita disgiunte: ma fa dellatua mano sinistra un trono per la de-stra, poiché questa deve ricevere ilRe, e nel cavo della mano ricevi ilcorpo di Cristo, dicendo: “Amen”.Abbi cura allora di santificare i tuoiocchi al contatto del corpo santo, poiconsumalo e stai attento che nientese ne perda […].

Quindi dopo esserti comunicatocol corpo di Cristo, accostati ancheal calice del suo sangue. Non stende-re le mani, ma, inchinandoti in attodi rispetto e di adorazione e dicen-do: “Amen”, santificati prendendoanche il sangue di Cristo. E, mentrele tue labbra sono ancora umide,sfiorale con le mani e santifica an-che i tuoi occhi, la tua fronte e glialtri tuoi sensi”1.

Dobbiamo riconoscere che l’atteg-giamento descritto da san Cirillo ap-pare più conforme allo spirito delVangelo: esso da un lato testimonia di

Il silenzio di ringraziamento delle Sorelle di Santa Maria del Silenzio, ef

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un’estrema venerazione per il poteresantificante dell’Eucaristia, e dall’altrolato della fiducia accordata a personeadulte, coscienti di essere parti attivenella liturgia.

“Ultimata la distribuzione dellacomunione, il sacerdote e i fedeli,per quanto è possibile, pregano insilenzio per un po’ di tempo. Sesembra conveniente, si può anchefar cantare da tutta l’assemblea uninno, un salmo, o un altro canto dilode” (IGMR 56j).

Il silenzio e il canto sono la rispo-sta e il ringraziamento della comu-nità dei fedeli per aver ricevuto ilpane di vita eterna e il calice dellasalvezza. In questo momento si do-vrà dare molta importanza al silen-zio per la preghiera personale. Nonsi tratta di un’interruzione, ma di unelemento essenziale dell’azione li-turgica. I documenti post-conciliariraccomandano ripetutamente lapreghiera personale dopo la comu-nione: “Per la partecipazione al cor-po e sangue del Signore, si spargeabbondantemente su ciascuno deifedeli il dono dello Spirito Santo co-me acqua viva, purché esso sia rice-vuto sacramentalmente e con la par-tecipazione dell’animo, cioè con lafede viva che opera attraverso l’a-more […]. Affinché, poi, restino conpiù facilità in quest’azione di grazia,che è resa a Dio in modo eminentenella messa, si raccomanda a coloroche si sono ristorati con la santa co-

munione, di sostare qualche tempoin preghiera”2.

Sarebbe una grave perdita se nellaprassi liturgica scomparisse del tutto ilringraziamento personale; la comu-nione correrebbe il rischio di diventa-re un formalismo e si indebolirebbe lafede nella presenza reale di Cristo nel-l’Eucaristia. Ogni rinnovamento litur-gico, per quanto buono e ricco, rimar-rebbe senza frutto se non portasse adapprofondire la pietà e la fede perso-nali dei cristiani. Non si deve correre ilrischio di togliere ai fedeli la possibi-lità di esprimere personalmente la lo-ro fede; essi non possono manifestarela loro adesione cosciente, se scom-paiono dalla liturgia la quiete e il si-lenzio.

Sta agli operatori pastorali, ai ca-techisti e a quanti hanno responsa-bilità diretta, educare i bambini egli adulti al dialogo nel proprio spi-rito con lo Spirito del Cristo, sapen-do che l’azione pastorale e quellacatechetica non comportano solo ilfare o l’imparare enunciati di fedema anche e soprattutto avviare i fe-deli a un’esperienza di fede attra-verso il dialogo con Cristo che è pre-ghiera, dove avviene l’incontro didue persone amanti.

Non dimentichiamo che la nostrafede, il nostro essere cristiani non sibasa solo su ragionamenti o su dogmima sull’incontro di una persona viva, ilCristo risorto vivente e sempre presen-te nella sua Chiesa.

—————————————1 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche, V, 21-22, S Ch. 126, pp.170-172).2 Rito della comunione fuori della messa e culto eucaristico, 25.

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I riti di conclusione della celebra-zione eucaristica custodiscono,quali elementi di maggiore rile-

vanza, la benedizione del sacerdotee il congedo dell’assemblea. Cosìl’introduzione al messale presentaquesto momento celebrativo:

“I riti di conclusione comprendono:a) il saluto e la benedizione del sa-

cerdote, che in alcuni giorni e incerte circostanze si può arricchiree sviluppare con l’orazione sulpopolo o con una formula piùsolenne;

b) Il congedo propriamente detto,con il quale si scioglie l’assem-blea, perché ognuno ritorni allesue occupazioni lodando e bene-dicendo il Signore”1.

Il senso della benedizione e delcongedo è racchiuso nella finalità,qui proposta, di accompagnare i fe-deli nel passaggio dalla celebrazio-ne alle occupazioni quotidiane, per-ché queste siano vissute nella lodee nel rendimento di grazie. Il sacer-dote in forza del suo ministero dipresidenza, può introdurre la bene-dizione e il congedo con una brevemonizione che, richiamando in for-ma essenziale il contenuto principa-le della celebrazione, favorisca talepassaggio2. Il direttorio per la messadei fanciulli sottolinea particolar-mente l’importanza di questa moni-zione prima della benedizione e delcongedo: “Prima di essere congeda-ti, essi hanno bisogno che con bre-

vissime parole si ripeta loro e si ap-plichi alla loro vita quanto hannoascoltato. È questo soprattutto ilmomento di sottolineare il nessotra la liturgia e la vita”3.

Benedizione finale

La benedizione del sacerdote allafine della messa è un rito relativa-mente recente. Anticamente, nell’u-so romano, la benedizione del popo-lo era riservata al vescovo. Il sacer-dote non dava mai alla fine dellamessa la benedizione a tutti i fedeli,ma solo a chi lo chiedeva. Fino al XIIsecolo i libri liturgici non menziona-no una benedizione finale generaleda parte del sacerdote all’altare. Lamessa si concludeva con il congedo(ite missa est), che nel messale tri-dentino si trova, ancora, prima dellabenedizione4. Il senso pieno del ge-sto della benedizione è rappresenta-to dall’intimo legame che essa hacon il sacramento celebrato e il suocontenuto: il mistero della pasqua diCristo. Tale legame veniva così deli-neato dal testo conciliare sulla litur-gia: “Così la liturgia dei sacramenti edei sacramentali offre ai fedeli bendisposti la possibilità di santificarequasi tutti gli avvenimenti della vitaper mezzo della grazia divina, chefluisce dal mistero pasquale dellapassione, morte e resurrezione diCristo; mistero dal quale derivano laloro efficacia tutti i sacramenti e i

Benedizione finale e congedo di don Concetto Occhipinti

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sacramentali. E così non esiste quasialcun uso retto delle cose materiali,che non possa essere indirizzato allasantificazione dell’uomo e alla lodedi Dio”5. La benedizione, in quantosacramentale posto alla conclusionedella celebrazione eucaristica, lungidall’essere considerata come una ap-pendice marginale, deve esser com-presa e proposta come un rito cheattingendo al mistero pasquale diCristo, sorgente di ogni grazia, dàcompiutezza al movimento santifi-cante che caratterizza tutta la cele-brazione.

Il Benedizionale, specie nel testodella presentazione e dei praeno-tanda, offre una ricca trattazionesul senso biblico-teologico della be-nedizione. Continuamente fa riferi-mento ai due movimenti, discen-dente e ascendente, che insiemerealizzano la lode di Dio e la santifi-cazione dell’uomo. “Dio è il bene-detto e il benedicente: Benedettosia Dio, Padre del Signore nostroGesù Cristo, che ci ha benedetti conogni benedizione spirituale nei cieliin Cristo …Sullo sfondo è il sacroscambio dell’Eucaristia, dove i donidella creazione, il pane e il vino, so-no trasformati per opera dello Spiri-to Santo nel corpo e sangue di Cri-sto, e offerti al Padre diventano pernoi fonte di grazia e pegno di bene-dizione per tutto il creato”6. Lungotutto il testo è costante l’attenzionee il riferimento alla teologia biblicae liturgica della benedizione (be-rakah, eulogia, eucharistia). La be-nedizione di Dio per gli uomini vie-ne realizzata attraverso la storia

della salvezza. Il punto di partenzaè Dio, fonte di benedizione e bene-detto sopra tutte le cose. Nella pie-nezza del tempo il Padre mandò anoi il suo Figlio, che è la sua massi-ma benedizione per gli uomini e ap-pare nel Vangelo in atto di benedirei fratelli, specialmente i più piccoli;donò poi, come compimento dellesue benedizioni, lo Spirito Santo.Tutto questo si è andato concretiz-zando lungo la storia della salvezzaavendo il suo inizio nell’alleanzacon il popolo eletto, segno e sacra-mento della benedizione di Dio peril mondo7. Viene messo in evidenzacome il senso del bene-dire da partedi Dio si muove sempre sul registrodel fare e dell’agire.

“Quando Dio o direttamente oper mezzo di altri benedice, sempreviene assicurato il suo aiuto, annun-ziata la sua grazia, proclamata lasua fedeltà all’alleanza sancita. Equando sono gli uomini a benedire,essi lodano Dio ed inneggiano allasua bontà e misericordia”8. Perchéquesta efficacia e questo frutto disantificazione siano raggiunti sonoindispensabili le autentiche disposi-zioni di fede, di speranza e di caritàda parte dei fedeli. In tal modo gliuomini, intenti alla ricerca della vo-lontà di Dio, comprenderanno inpieno e otterranno davvero la be-nedizione del Signore9.

Benedizione solenne e orazio-ne sul popolo.

La parte del messale italiano ri-guardante i riti di conclusione con-

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tiene un cospicuo numero di testiper la benedizione solenne e per leorazioni di benedizione sul popolo.Esse possono essere utilizzate, agiudizio di colui che presiede, per laconclusione di una celebrazione eu-caristica, o di una liturgia della pa-rola, o della liturgia delle ore, o deisacramenti10. Per la benedizione so-lenne si possono trovare 25 formu-lari pensati per i diversi tempi del-l’anno liturgico, per le feste dellaMadonna, dei santi e per la celebra-zione dei defunti. “Le benedizionisolenni si ispirano ad un modellogallicano. Nei tempi antichi il vesco-vo o l’abate impartiva queste bene-dizioni prima della comunione co-me preparazione alla medesima econtemporaneamente come conge-do a coloro che non facevano la co-munione. La maggior parte delleattuali benedizioni solenni sonostate prese dal supplemento del Sa-cramentarium Gregorianum e pro-vengono con ogni probabilità daBenedetto di Aniano (750-821)”11.

La maggior parte di questi testidi benedizione comprende tre pro-posizioni pronunciate dal sacerdotea cui i fedeli rispondono con l’amene, di seguito, la benedizione conclu-siva. In alcuni casi la benedizione èpreceduta da una sola proposizionee dal relativo Amen dei fedeli.

Le preghiere di benedizione sulpopolo sono 26 e seguono, nella di-sposizione del messale, i testi dellebenedizioni solenni. “Nelle fonti ro-mane erano orazioni che conclude-vano la messa: prima che il popolo

tornasse al proprio lavoro quotidia-no si invocava su di esso l’aiuto e ilsostegno di Dio. Corrispondono allapreghiera che veniva detta alla finedella liturgia della parola, primadel congedo dei catecumeni. Laoratio super populum, che si trovanelle fonti più antiche, anche nelSacramentario Veronese, nel corsodei tempi andò sempre più in disu-so, fino a scomparire”12. General-mente tali orazioni, anche nellaprassi liturgica post-conciliare, con-tinuano a rappresentare una diquelle sezioni “dimenticate” delmessale. La bellezza di questi testi el’opportunità pedagogica che rap-presentano, educando i fedeli a cu-stodire una coscienza viva della pre-senza di Dio provvidente dentro levicende storiche concrete, dovreb-bero convincere gli operatori pasto-rali e gli animatori della liturgia aun uso più frequente di questi testieucologici. Come esemplificazionedi quanto detto sopra proponiamoil testo della tredicesima orazione:“Stendi la tua destra, Signore, a di-fesa del tuo popolo, perché ti cerchicon tutto il cuore e veda esauditi isuoi desideri di giust iz ia e dipace”13.

Congedo.

Nella tradizione latina si è conso-lidata la formula di congedo itemissa est; essa è rimasta l’unica mo-dalità di congedo sia nel messaletridentino che nella versione origi-nale in latino dell’attuale messale.Il termine missa significa originaria-

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mente missio, dimissio, cioè conge-do14. Questa parola, posta alla con-clusione di tutto il rito, assunse unaimportanza particolare fino ad indi-care l’intera celebrazione eucaristi-ca. Nell’edizione italiana del messa-le questa formula viene conservatama, ispirandosi al congedo delle li-turgie orientali, ad essa viene ag-giunta l’espressione di sapore bibli-co “andate in pace”; il messale poipropone alcune forme di congedoalternative che esprimono la gioiavissuta nella celebrazione e il con-seguente impegno per la feconditàdella vita cristiana. La terza di que-ste nuove formule rappresenta unesempio significativo quando dice:“Glorificate il Signore con la vostravita, andate in pace”15.

Come custodire sul piano pasto-rale la ricchezza di questo ultimoframmento celebrativo rappresen-

tato dalla benedizione e dal conge-do? Può esser innanzitutto utileavere una buona consapevolezzadelle insidie tipiche di questo mo-mento conclusivo; pensiamo allastanchezza, alla fretta di conclude-re, al calo della tensione partecipa-tiva, all’abitudine propria di un ge-sto ripetitivo. In secondo luogo puòvenire in aiuto una sapiente e pre-murosa scelta dei testi che assicuriun’attinenza al tema principaledella celebrazione e un’opportunavariazione delle parole utilizzate.In ultimo è certamente decisiva laconsapevolezza di colui che presie-de riguardo al fatto che ancora,seppure attraverso questo ultimoframmento di celebrazione, è il ge-sto di salvezza di Cristo a essere inatto. Da tale coscienza possono fa-cilmente scaturire gesti e parole insintonia con lo stile di Cristo BuonPastore.

—————————————1 PNMR 572 PNMR 113 DMF 544 J. Hermans, La Celebrazione dell’Eucarestia, LDC, 1985, pg. 4505 SC 61.6 Benedizionale, Presentazione, n. 3.7 Cfr. Benedizionale, Praenotanda, n. 1-5.8 Benedizionale, Praenotanda, n. 6.9 Cfr. Benedizionale, Praenotanda, n. 15.10 Messale Romano, Riti di conclusione.11 J. HERMANS, La Celebrazione dell’Eucarestia, LDC, 1985, p. 449.12 J. HERMANS, op. cit., p. 450.13 Messale romano, Riti di Conclusione.14 J. HERMANS, La Celebrazione dell’Eucarestia, p. 450.15 Messale Romano, Riti di conclusione.

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26 Culmine e Fonte 4-2003

L a meditazione dei misteri diCristo è proposta nel Rosariocon un metodo basato sulla ri-

petizione, che potrebbe farlo ritene-re una pratica arida e noiosa. “Benaltra considerazione, invece, si puògiungere ad avere della Corona, se lasi considera come espressione diquell’amore che non si stanca di tor-

nare alla persona amata coneffusioni che, pur simili nellamanifestazione, sono sem-pre nuove per il sentimentoche le pervade”. Così nelterzo capitolo della Lettera

Apostolica Rosarium Virginis Mariaedal titolo “Per me vivere è Cristo” ilSanto Padre sottolinea che “in Cri-sto, Dio ha assunto davvero un “cuo-re di carne”. Egli non ha soltanto uncuore divino, ricco di misericordia edi perdono, ma anche un cuore uma-no, capace di tutte le vibrazioni del-l’affetto… Per comprendere il Rosa-rio bisogna entrare nella dinamicapsicologica che è propria dell’amore.Una cosa è chiara: se la ripetizionedell’Ave Maria si rivolge direttamen-te a Maria, con lei e attraverso di leiè in definitiva a Gesù che va l’atto diamore. La ripetizione si alimenta deldesiderio di una conformazione sem-pre più piena a Cristo”.

Il Papa si ferma a lungo sul-l’importanza del metodo nella pre-ghiera, che ha per fine quello di in-staurare un rapporto diretto con Cri-sto: “C’è oggi anche in Occidente

una rinnovata esigenza di medita-zione, che trova a volte in altre reli-gioni modalità piuttosto accattivan-ti. Non mancano i cristiani che, perla poca conoscenza della tradizionecontemplativa cristiana, si lascianoallettare da quelle proposte… Il Ro-sario si pone in questo quadro uni-versale della fenomenologia religio-sa, ma si delinea con caratteristicheproprie, che rispondono alle esigen-ze tipiche della specificità cristiana.In effetti, esso non è che un metodoper contemplare”. Il Santo Padrepresenta quindi alcuni suggerimentirelativi alla recita del Rosario “peraiutare i fedeli a comprenderla neisuoi risvolti simbolici, in sintonia conle esigenze della vita quotidiana”,altrimenti c’è il rischio che la coronadel Rosario “finisca per essere senti-ta alla stregua di un amuleto o di unoggetto magico”.

L’enunciazione del mistero -Enunciare il mistero, e magari averel’opportunità di fissare contestual-mente un’icona che lo raffiguri, è co-me aprire uno scenario su cui concen-trare l’attenzione. Le parole guidanol’immaginazione e l’animo a quel de-terminato episodio o momento dellavita di Cristo. Dio ha voluto prendere,in Gesù, lineamenti umani. È attraver-so la sua realtà corporea che noi ve-niamo condotti a prendere contattocon il suo mistero divino.

L’ascolto della Parola di Dio -L’enunciazione del mistero sia seguita

Testi edocumenti

Rosarium Virginis Mariae (3)di Stefano Lodigiani

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dalla proclamazione di un passo bibli-co corrispondente, più o meno ampio.In qualche occasione solenne e comu-nitaria, questa parola può essere op-portunamente illustrata da qualchebreve commento.

Il silenzio - Per un congruo perio-do di tempo ci si fermi a fissare losguardo sul mistero meditato, primadi iniziare la preghiera vocale. La ri-scoperta del valore del silenzio è unodei segreti per la pratica della con-templazione e della meditazione. Tra ilimiti di una società fortemente tecno-logizzata e mass-mediatica, c’è ancheil fatto che il silenzio diventa semprepiù difficile.

Il “Padre nostro” - Dopo l’ascoltodella Parola e la focalizzazione del mi-stero, è naturale che l’animo si innalziverso il Padre. Gesù, in ciascuno deisuoi misteri, ci porta sempre al Padre,a cui Egli continuamente si rivolge. IlPadre nostro, posto quasi come fon-damento alla meditazione cristologi-co-mariana che si sviluppa attraversola ripetizione dell’Ave Maria, rende lameditazione del mistero, anche quan-do è compiuta in solitudine, un’espe-rienza ecclesiale.

Le dieci “ Ave Maria ” - Sonol’elemento più corposo del Rosario einsieme quello che ne fa una pre-ghiera mariana per eccellenza. Pro-prio alla luce dell’Ave Maria bencompresa, si avverte con chiarezzache il carattere mariano sottolinea edesalta quello cristologico. La primaparte dell’Ave Maria, infatti, desuntadalle parole rivolte a Maria dall’an-gelo Gabriele e da sant’Elisabetta, ècontemplazione adorante del misteroche si compie nella Vergine di Naza-

reth. Il baricentro dell’Ave Maria,quasi cerniera tra la prima e la secon-da parte, è il nome di Gesù. Talvolta,nella recitazione frettolosa, questobaricentro sfugge, e con esso anchel’aggancio al mistero di Cristo che sista contemplando. Già Paolo VI ri-cordò, nell’Esortazione apostolicaMarialis cultus, l’uso praticato in al-cune regioni di dar rilievo al nome diCristo, aggiungendovi una clausolaevocatrice del mistero che si sta me-ditando. È un uso lodevole, specienella recita pubblica.

Il “Gloria” - La dossologiatrinitaria è il traguardo dellacontemplazione cristiana. Cri-sto è infatti la via che ci con-duce al Padre nello Spirito. Sepercorriamo fino in fondo questa via,ci ritroviamo continuamente di fronteal mistero delle tre Persone divine dalodare, adorare, ringraziare. È impor-tante che il Gloria, culmine della con-templazione, sia messo bene in evi-denza nel Rosario, e nella recita pub-blica potrebbe essere cantato.

La giaculatoria finale - Nellapratica corrente, dopo il Gloria se-gue una giaculatoria, che varia a se-conda delle consuetudini. La con-templazione dei misteri potrà meglioesprimere tutta la sua fecondità, sesi avrà cura di far sì che ciascun mi-stero si concluda con una preghieravolta a ottenere i frutti specifici dellameditazione di quel mistero. In que-sto modo il Rosario potrà esprimerecon maggiore efficacia il suo legamecon la vita cristiana.

La ‘corona’ - Strumento tradizio-nale per la recita del Rosario è la coro-na, che si presta a esprimere un sim-

Testi edocumenti

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bolismo che può dare ulteriore spesso-re alla contemplazione. La coronaconverge verso il Crocifisso, che aprecosì e chiude il cammino stesso dell’o-razione. In Cristo è centrata la vita e lapreghiera dei credenti. Tutto parte daLui, tutto tende a Lui, tutto, medianteLui, nello Spirito Santo, giunge al Pa-dre. In quanto strumento di conteg-gio, la corona evoca l’incessante cam-mino della contemplazione e dellaperfezione cristiana. Infine il suo si-gnificato simbolico ci riporta al nostro

rapporto reciproco, ricordan-do il vincolo di comunione edi fraternità che tutti ci legain Cristo.

Avvio e chiusa - Sonovari nella prassi corrente, i

modi di introdurre il Rosario nei di-versi contesti ecclesiali, tutti validinella misura in cui dispongono l’ani-mo alla contemplazione. La recita èpoi conclusa con la preghiera secon-do le intenzioni del Papa, per allar-gare lo sguardo di chi prega sull’am-pio orizzonte delle necessità ecclesia-li. È proprio per incoraggiare questaproiezione ecclesiale del Rosario chela Chiesa ha voluto arricchirlo di san-te indulgenze per chi lo recita con ledebite disposizioni. In effetti, se vis-suto così, il Rosario diventa veramen-te un percorso spirituale, in cui Mariasi fa madre, maestra, guida, e sostie-ne il fedele con la sua intercessionepotente. Come stupirsi se l’animosente il bisogno, alla fine di questapreghiera, in cui ha fatto intimaesperienza della maternità di Maria,di sciogliersi nelle lodi per la VergineSanta, sia nella splendida preghieradella Salve Regina, sia in quella delle

Litanie lauretane? È il coronamentodi un cammino interiore che ha por-tato il fedele a contatto vivo con ilmistero di Cristo e della sua MadreSantissima.

La distribuzione nel tempo - IlRosario può essere recitato ogni gior-no integralmente o solo in parte, se-condo un ordine settimanale che fini-sce per dare alle varie giornate dellasettimana un certo ‘colore’ spirituale,analogamente a quanto la liturgia facon le varie fasi dell’anno liturgico. Illunedì e il sabato sono dedicati ai “mi-steri della gioia”; il martedì e il ve-nerdì ai “misteri del dolore”; il merco-ledì e la domenica ai “ misteri dellagloria ”; il giovedì ai “misteri della lu-ce”.

Il Papa conclude la Lettera aposto-lica sottolineando “la ricchezza diquesta preghiera tradizionale, che hala semplicità di una preghiera popola-re, ma anche la profondità teologicadi una preghiera adatta a chi avvertel’esigenza di una contemplazione piùmatura”. A questa preghiera, che laChiesa ha riconosciuto sempre di par-ticolare efficacia, Giovanni Paolo IIconsegna oggi la causa della pace nelmondo e quella della famiglia. “Caris-simi fratelli e sorelle! Una preghieracosì facile, e al tempo stesso così ricca,merita davvero di essere riscopertadalla comunità cristiana. Facciamolosoprattutto in questo anno: riprende-te con fiducia tra le mani la coronadel Rosario, riscoprendola alla lucedella Scrittura, in armonia con la Litur-gia, nel contesto della vita quotidiana.Che questo mio appello non cada ina-scoltato!”

Testi edocumenti

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La prima riflessione su queste pa-role di Gesù ci spinge a osservareche i suoi discepoli sono persone

che hanno misericordia poiché ricono-scono che Dio è misericordioso con lo-ro. Nella nostra relazione con gli altrisiamo chiamati a esprimere la stessa mi-sericordia che Dio dimostra costante-mente verso di noi. Nessuno di noi èsenza peccato, perciò il nostro Padre ce-leste è pieno di misericordia. Egli hacreato ciascuno di noi e ci ha chiamatoa prender parte alla sua vita. Ci ama co-me figli e figlie e non ci abbandonanemmeno quando lo dimentichiamo ecadiamo nel peccato, come dice il sal-mo 103,8: ”Buono e pietoso è il Signo-re, lento all’ira e grande nell’amore”.

Cristo è venuto in questo mondo perincarnare l’amore, la compassione e lamisericordia di Dio. È venuto per dimo-strare con le parole e le opere che Dioha a cuore ciascuno di noi. Ciascuno dinoi ha di fronte a Dio un valore supre-mo. La Buona Notizia consiste nel fattoche Dio ama ciascuno di noi e che Cristoè venuto per restaurare l’amicizia colPadre. Il Signore è venuto come la Viaattraverso cui possiamo trovare la Veritàe la Vita: ”Io sono la via, la verità e la vi-ta. Nessuno viene al Padre se non permezzo di me. Se conoscete me conosce-rete anche il Padre: fin da ora lo cono-scete e lo avete veduto” (Gv 14,6-7).

Quando leggiamo l’Antico Testa-mento, riconosciamo che gli Israelitinon furono in grado di riconoscere che

il Signore è il Dio di misericordia cheperdona il peccato: ”Il Signore passò…proclamando: Il Signore, il Signore, Diomisericordioso e pietoso, lento all’ira ericco di grazia e di fedeltà, che conservail suo favore per mille generazioni, cheperdona la colpa, la trasgressione e ilpeccato…” (Es 34,6-7).

Con la venuta di Cristo ab-biamo ricevuto uno sguardopiù profondo sulla misericor-dia di Dio e sul modo con cuiDio si relaziona con noi. Co-me Figlio di Dio incarnato Gesùci ha portato una conoscenza di Dioche è molto più ricca e profonda diquella che possedevano gli israeliti.L’unico vero Dio non è cambiato, ma lapienezza della rivelazione di Dio èespressa attraverso le parole e le ope-re di Cristo. Così è affermato in Eb 1,1-2: ”Dio, che aveva già parlato nei tem-pi antichi molte volte e in diversi modiai padri per mezzo dei profeti, ultima-mente, in questi giorni, ha parlato anoi per mezzo del Figlio, che ha costi-tuito erede di tutte le cose e per mez-zo del quale ha fatto anche il mondo”.

L’affermazione che Dio è misericor-dioso e compassionevole è il cuore del-l’insegnamento e del ministero di no-stro Signore. Egli è venuto a dirci cheDio è nostro Padre e che non può ab-bandonarci al potere del peccato: ”Egliche non ha risparmiato il proprio Fi-glio, ma lo ha dato per tutti noi, comenon ci donerà ogni cosa insieme con

Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia (Mt 5,7) di don Giovanni Biallo

InDialogo

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portarvi in maniera degna della vocazio-ne che avete ricevuto, con ogni umiltà,mansuetudine e pazienza, sopportando-vi a vicenda con amore” (Ef 4,1-2). Ma ri-mane il fatto che noi non viviamo sem-pre alla presenza di Dio, non seguiamosempre la nostra vocazione a essere figlidi Dio. Perciò siamo chiamati a ricono-scere volontariamente i nostri peccati.

Ma così come sperimentiamo la mi-sericordia di Dio nella nostra vita, siamochiamati a nostra volta a essere miseri-cordiosi: ”Siate misericordiosi, come èmisericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).

Il Signore ci insegna che il nostrocomportamento verso gli altri do-vrebbe riflettere il modo in cui Diotratta ciascuno di noi. Se noi libera-mente decidiamo di offrire misericor-dia a un’altra persona, diventiamo te-stimoni, con le parole e i fatti, dellamisericordia che riceviamo da Dio. Es-sere misericordiosi è perciò una carat-teristica fondamentale della nostra vi-ta come discepoli di Cristo. Le beati-tudini ci insegnano che il modo in cuifacciamo esperienza di Dio non puòessere separato dal modo in cui siamoin relazione con gli altri. Non possia-mo dire di amare Dio se non amiamoil nostro prossimo.

Sant’Efrem il Siro così loda il Signo-re nel terzo Inno sulla Natività:

Benedetto è il Pastore, che è diven-tato l’Agnello per il nostro perdono;

Benedetto è il Virgulto della vite,che è diventato Calice per la nostraSalvezza.

Benedetto è anche l’Agricoltore,che è diventato il Grano seminato e ilCovone mietuto.

lui?” (Rm 8,32). Piuttosto, come Diodell’amore, è venuto in mezzo a noinella persona di Cristo per dimostrarciil suo amore incondizionato per noi:”Dio infatti ha tanto amato il mondoda dare il suo Figlio unigenito, perchéchiunque crede in lui non muoia, maabbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Il Signore insegnò la misericordia delpadre e la dignità della persona umanain molte delle sue parabole. Certamentela parabola del Padre Misericordioso èuno dei racconti più importanti attra-

verso cui Gesù insegna riguardoall’amore misericordioso ecompassionevole di Dio (Lc15,11-32). Questa parabola ri-flette il modo in cui Dio ci trat-ta. Egli mai ci abbandona, poi-

ché siamo suoi figli e figlie. Aspetta pa-zientemente che ritorniamo a lui ognivolta che ci allontaniamo. Dio è semprepronto a riabbracciarci, dona la sua mi-sericordia in relazione ai nostri bisogni enon in relazione ai nostri desideri. Secrediamo che Dio esiste, abbiamo piùdifficoltà a credere che Dio ci ama comepeccatori. Ma il Padre è sempre miseri-cordioso, non ci condanna nel nostropeccato: ”Se riconosciamo i nostri pec-cati, egli che è fedele e giusto ci perdo-nerà i peccati e ci purificherà da ognicolpa” (1Gv 1,9).

Ma per apprezzare pienamente il si-gnificato di questa quinta beatitudinenon dobbiamo solo riconoscere che Dioè misericordioso, ma anche che noi ab-biamo bisogno della sua misericordia.Siamo chiamati a vivere il bene in ognicosa, per essere persone intere e com-plete. Dobbiamo vivere una vita degnadella nostra chiamata: ”Vi esorto dun-que io, il prigioniero del Signore, a com-

InDialogo

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La parola di Dio celebrata

CHI VIENE A ME NON AVRÀ PIÙ FAME, ECHI CREDE IN ME NON AVRÀ PIÙ SETE

18a Domenica del tempo ordinario3 agosto

Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35

1. Il tema fondamentale della Liturgiadella Parola è espresso da Gv 6,33b: “Il pa-ne di Dio è colui che discende dal cielo edà la vita al mondo”. Gli elementi che ruo-tano attorno al tema sono essenzialmentetre: la moltiplicazione dei pani (raccontoevangelico di domenica scorsa), la manna ela persona di Gesù (“Io sono il pane dellavita”).

Questi elementi presi singolarmente nondanno una unità tematica. Perché essi pos-sano essere visti come elementi di un’unicavisione tematica vanno letti alla luce di Gv6,32b: “Il Padre mio vi dà il pane discesodal cielo”. Questa rilettura biblica su Sal78,24 fatta da Gesù si pone come criterioultimo per comprendere sia il valore dellamanna (Es 16,2-4.12-15), che è “pane dalcielo”, sia il valore del pane moltiplicato daGesù, sia la persona di Cristo stesso (“Iosono il pane della vita”), tipologicamenterappresentato dalla manna e simbolicamen-te rappresentato dal pane moltiplicato (Gv6,24-35).

2. Il lezionario ha scelto di tralasciareGv 6,16-23 (Gesù cammina sul lago; le fol-le incontrano Gesù). In questo modo la li-turgia intende seguire il filone narrativoche dal segno del pane (Gv 6,1-15) giungein modo diretto alla discussione sul segnostesso (Gv 6,24-35). La classica aggiuntaliturgica, “In quel tempo”, non altera, infat-ti, il testo di Gv 6,24-35, scelto come testo

evangelico per questa domenica. 3. Volendo comprendere il testo così co-

me si presenta nella Liturgia della Parola,sembra più opportuno lasciare un po’ daparte le divisioni proposte dagli studiosi(quasi tutti ne presentano una propria) e se-guire, invece, solo l’identità del testo bibli-co-liturgico.

Tale testo è ritmato dai quattro interven-ti della folla. Si tratta di tre interrogativi edi una petizione: “Rabbì, quando sei venutoqua?” (Gv 6,24-27); “Che cosa dobbiamofare per compiere le opere di Dio?” (Gv6,28-29); “Quale segno tu fai...? Qualeopera compi?” (Gv 6,30-33); “Signore,dacci sempre questo pane” (Gv 6,34-35).Queste prese di parola forniscono una sud-divisione quadripartita del testo.

a) La folla interroga Gesù: “Rabbì,quando sei venuto qua?” Gesù non è più ilProfeta che deve venire o il Re messianico(cfr. Gv 6,1-15, il vangelo della domenicaprecedente), ma è un semplice Rabbì. Sitratta della stessa folla che ha presenziatoalla moltiplicazione dei pani? La rispostanon è facile. Sembrerebbe che non si possaescludere che lo sia. Si può comunque direche senz’altro conosceva i “segni” di Gesù.

Dalla prima parte della risposta di Gesùpossiamo notare che la folla, purtroppo,non cerca Gesù per “i segni” (Cfr. v. 26),ma perché ha mangiato e si è saziata. La ri-cerca è compiuta per trovare il “già cono-sciuto”, “il cibo che perisce”. Se la follaavesse tentato di penetrare il segno, potreb-be ora trovare “il nuovo”, “il cibo che duraper la vita eterna”.

“Il cibo per la vita eterna” che Gesùpropone, ha più significati. Un significato,però, non può essere tralasciato: il cibo èun dono “storico” del Figlio dell’uomo che

La parola di Dio celebratadi don Renato De Zan

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La parola di Dio celebrata

contiene in sé il dono “escatologico” dellavita eterna. L’imperativo “procuratevi” (er-gasesthe), non ha che un valore: essendosolo il Figlio dell’uomo capace di dare talecibo, bisogna accostarsi a Gesù, accoglien-dolo come Figlio dell’uomo, cioè come co-lui che appartiene al cielo da dove è disce-so e dove ritornerà, e come colui sul quale,nel Battesimo, Dio ha posto la sua confer-ma.

b) La seconda domanda della folla(“Che cosa dobbiamo fare per compiere leopere di Dio?”: Gv 6,28-29) nasconde lamentali tà dell’alleanza (cfr. Es 19,8:“Quanto il Signore ha detto, noi lo fare-mo”), probabilmente riletta alla luce dellateologia farisaica (le opere salvano). Nellarisposta di Gesù “le opere” sono diventate“l’opera” e l’opera richiesta è la fede in co-lui che Dio ha mandato. La fede, dunque, èl’opera di Dio alla quale l’uomo è chiamatoad aderire.

Certamente il testo giovanneo non ha inevidenza la problematica della salvezza permezzo delle opere, compiute come attua-zione della fede (Giacomo), o per mezzodella fede operosa, ma “libera” dalle operedella legge (Paolo). L’evangelista esprimein una sintesi altissima l’azione di Dio e lalibertà dell’uomo. Credere è opera di Dio,perché dono suo, che l’uomo accoglie, cu-stodisce, matura con Dio e in Dio attraver-so l’azione più profonda, libera e personaleche l’uomo stesso possa compiere.

c) Con la terza domanda la folla (“Qualesegno tu fai...? Quale opera compi ?”: Gv6,30-33) manifesta di aver compreso la ri-sposta di Gesù (egli è il Messia) e per que-sto motivo avvia con Gesù un dialogo pa-squale e messianico. Il pensiero rabbinico

di allora riteneva che il Messia si sarebbemanifestato in un periodo prossimo alla Pa-squa e che tale manifestazione sarebbe sta-ta accompagnata dal miracolo della manna.Da qui la richiesta del “segno” che sia pa-ragonabile a quello di Mosè. La richiestaviene fatta attraverso una citazione biblicache ha come base il Sal 78,24 (assieme aEs 16,4 e Es 16,15 ?): “Diede loro da man-giare un pane disceso dal cielo”. La rispo-sta di Gesù è sempre di tipo rabbinico. Eglicompie una rilettura corretta del testo el’amplifica: non è “Mosè” il donatore delpane, bensì “il Padre”; non è un’azionepassata, “diede”, ma presente, “dà”; non èsufficiente la definizione “pane dal cielo”,ma bisogna aggiungere “quello vero”. Queltesto si sta adempiendo in Gesù sotto i loroocchi e, quindi, le attese escatologiche delpopolo ebraico si adempiono in lui. Ma c’èdi più. Al tempo di Gesù si sapeva moltobene che la manna aveva un valore anchesimbolico: indicava la sapienza divina (cfr.Sap 16,20-26; Ne 9,20; Filone). Gesù in-tende portare i suoi ascoltatori verso unavisione unitaria delle attese escatologiche.La manna ultima e definitiva, quella vera, èuna persona, lui stesso. Di conseguenza,per il valore traslato della manna, quellavera, egli si presenta anche come la sapien-za-rivelazione incarnata.

In breve. Gesù è il Messia, Egli dona lamanna, ma il pane del cielo è lui stesso, lasapienza-rivelazione incarnata.

d) La richiesta finale della folla (“Si-gnore, dacci sempre questo pane”: Gv 6,34-35) possiede la stessa ambiguità della do-manda della Samaritana (“Signore, gli dis-se la donna, dammi di quest’acqua, perchénon abbia più sete e non continui a venirequi ad attingere acqua: Gv 4,15). La rispo-

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sta di Gesù lascia cadere la dimensione diincomprensione presente nella richiesta evalorizza la dimensione positiva, svelandol’identità della “manna-pane dal cielo” cheè “pane vero”: questo pane è Gesù stesso.

L’espressione “pane della vita” richiamala preistoria della salvezza, quando Adamopoteva accedere all’albero della vita (Cfr.Gen 2,9). Dopo la disubbidienza ad Adamonon è più stato possibile prendere dell’albe-ro della vita, mangiarne e vivere sempre(Gen 3,22; cfr. Gen 3,24). Ora Cristo si fapane della vita perché l’uomo ne mangi eviva. L’espressione “pane di vita”, infatti,riletta alla luce di quanto verrà detto dopoin Gv 6,51, significa “il pane che dà la vi-ta”.

Interessante è poi il linguaggio adopera-to da Gesù. L’uomo è chiamato ad andare aGesù e a credere in lui per non avere più néfame, né sete. In diversi testi sapienziali(Cfr. Pr 9,5; Sir 24,21; Sap 1,6.14; ecc.) laSapienza di Dio offre se stessa sotto formadi cibo e di bevanda che dona la vita. Gesù,dunque, è la Sapienza di Dio, l’ultima,grande, definitiva rivelazione che sazia gliuomini e dona loro la vita eterna. Non vadimenticato come in epoca esilica il Deute-roisaia avesse già anticipato in qualche mo-do le stesse idee (Cfr. Is 48,21; 49,10). Al-l’interno di questo orizzonte il valore euca-ristico del testo di questa e delle domenichesuccessive prende un valore di significatopiù adeguato.

4. Al testo evangelico di Gv 6,24-35 laliturgia associa il testo classico della mannadonata agli Ebrei lungo l’esodo (Es 16,2-4.12-15). La pericope biblica è stata impo-verita dei vv. 5-11, forse perché la loro in-sistenza su alcuni particolari lega il miraco-lo all’osservanza del sabato. È stato scelto

questo testo perché lo spirito della pericopeevangelica si fonda sulla comparazione trail dono di Dio fatto per mezzo di Mosè, lamanna, e il dono di Dio fatto per mezzo diGesù, la propria persona. In altre parole iltesto della prima lettura presenta l’elemen-to tipologico attraverso il quale è compren-sibile il messaggio di Gesù presentato dallapericope evangelica. Come il Dio provvidoseppe venir incontro al bisogno dei prota-gonisti dell’esodo, oggi lo stesso Padre savenir incontro alla fame profonda di vitache abita nel profondo di ogni uomo.

5. Il salmo responsoriale, Sal 77 (78),3.4bc; 23-24; 25.54, sottolinea in qualchemodo il valore tipico della manna attraversodue espressioni che possono sfuggire, senon vengono attentamente valutate. Lamanna, infatti, viene chiamata “pane degliangeli” (Sal 78,25) perché è il sostegno ce-leste per il popolo di Dio. Senza questo so-stegno il popolo di Dio non sarebbe stato ingrado di “salire al luogo santo” di Dio (Sal78,54). Il valore “profetico” di queste dueespressioni è evidente alla luce della rilettu-ra cristologica del salmo. La manna è Cristostesso e il luogo santo anche. Gesù ha parla-to di sé come pane della vita che discendedal cielo (vangelo di oggi), e ha parlato disé come tempio già in Gv 2, 19-22.

6. In questa domenica in modo partico-lare si può notare la differenza tra il ruolodella colletta generale e quello della collet-ta particolare. Nella liturgia romana sappia-mo che la colletta ha il valore di completa-re i riti d’introduzione. Nel Messale italia-no le nuove collette hanno anche il compitodi introdurre alla Liturgia della Parola.

La colletta generale (Sacr. Leoniano n.887), infatti, non è in sintonia con la ric-

La parola di Dio celebrata

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La parola di Dio celebrata

chezza del Lezionario. Pur richiamando nel-la seconda petizione il rapporto “creazione-nuova creazione” (albero della vita/Gesù,pane di vita), il testo eucologico è lontanodall’orizzonte tematico delle letture. La col-letta particolare, invece, pur in una formaancora da perfezionare, ha cercato di tradur-re in preghiera, soprattutto nella secondapetizione e nel fine della petizione l’aspettoteologico-sapienziale delle letture, eviden-ziando in modo particolare il bisognoprofondo dell’uomo. Non è, invece, eviden-ziato il tema di Gesù, pane di vita.

7. Nella lettura semicontinua della lette-ra agli Efesini il lezionario tralascia i testidi Ef 4,7-16.18-19, dove vendono illustratedue tematiche: l’identità di Cristo, originedi tutti i doni agli uomini; la vita condottadai credenti quando erano ancora pagani.Nel testo composito di Ef 4,17.20-24, checostituisce il testo della seconda lettura,l’autore sacro si sofferma con particolareattenzione e con puntigliosa benevolenzasull’identità della vita cristiana, esortando icredenti ad assumere una “cultura di fede”.Ai credenti vengono chieste alcune cose inconcreto: abbandonare la “vanità” del pen-sare pagano, prendere sul serio l’ “imparareCristo”, fare propria l’ “istruzione” alla ve-rità “che è Cristo” e “rinnovarsi nello spiri-to della mente”.

L’insistenza sulla “cultura e sulla men-talità di fede” non ha niente di ideologico.Si tratta, invece, di una proposta che guidaa un sapere esistenziale. L’autore sacroporge al credente un obiettivo che è all’in-terno del suo mondo spirituale: essere“uomo nuovo”, così come Dio lo avevasognato fin dalle origini. L’ “uomo nuovo”è Cristo e tutti coloro che sono “in Cristo”(Cfr. 2,10).

IO SONO IL PANE VIVO, DISCESO DALCIELO

19a Domenica del tempo ordinario 10 agosto

1 Re 19,4-8; Sal 33; Ef 4,30-5,2; Gv 6,41-51

1. Nel mondo biblico la vita dell’uomoviene vista spesso come un “pellegrinag-gio”. Per il cristiano la fede accompagna,sostiene e illumina questo percorso verso lavera vita. In Gv 6,41-51 l’evangelista pre-senta la persona di Gesù, pane vivo discesodal cielo, donato all’uomo perché compia ilmisterioso pellegrinaggio verso la vita eter-na, che è Gesù stesso (cfr. v. 45: “Chiunqueha udito il Padre e ha imparato da lui, vienea me”). Questo percorso è stato già anticipa-to e profeticamente annunciato nel pellegri-naggio compiuto da Elia verso il monteOreb (1 Re 19,4-8).

2. Il lezionario non ha ritoccato il testo bi-blico del vangelo, fatta salva l’aggiunta clas-sica della lettura liturgica (“In quel tempo”).Circa la suddivisione del testo, sembra che lapericope Gv 6,41-51 formi una buona unità,anche se alcuni biblisti ritengono che il v. 51possa far parte della pericope successiva.C’è, infine, una breve nota marginale e inin-fluente per il commento. La numerazione deiversetti tra testo greco e Vulgata sono legger-mente divergenti: il v. 51 greco viene chia-mato v. 52 dalla Vulgata.

3. Il testo di Gv 6,41-51 è strutturabile conuna certa facilità. Si può, infatti, notare comeal v. 41, al v. 48 e al v. 51 compaia l’espres-sione, teologicamente rilevante nel vangelo diGiovanni, “Io sono”. Tale espressione è ac-compagnata da una definizione particolare del

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pane: al v. 41 troviamo “il pane disceso dalcielo”, al v. 48 “il pane di vita” e al v. 51 “ilpane vivo”. Alla luce di quanto appena visto,si può suddividere la pericope in tre momentiautorivelativi di Gesù. Egli si svela come panedisceso dal cielo (vv. 41-47), come pane di vi-ta (vv. 48-50) e come pane vivo (v. 51).

a) Ciò che aveva detto Gesù (“Io sono ilpane disceso dal cielo”) aveva provocato lemormorazioni dei Giudei. Giovanni chiama“Giudei” coloro che invece sono Galilei. Sitratta di una valutazione, non di un errore.Nel quarto vangelo, infatti, “giudeo” è sino-nimo di colui che aderisce attivamente al re-gime religioso giudaico e non alla fede bibli-ca. Coloro, dunque, che stanno ascoltandoGesù non sono persone libere interiormente eaperte alla verità di Dio, ma sono chiuse neiloro preconcetti come i loro padri nell’esodo(Es 16,2.7.8). Il verbo, “mormoravano”(egonghyzon) è un verbo particolare perchéindica un atteggiamento di incredulità e didisobbedienza a Dio. Compare nel testo gre-co dei LXX nella narrazione anticotestamen-taria dell’esodo, nei testi salmici (cfr. Sal104,24) e in quelli profetici (cfr. Is 30,12).

Questo atteggiamento dei Giudei si mani-festa nella perplessità che dimostrano difronte a Gesù. Egli si manifesta come “disce-so dal cielo” e come “il Figlio dell’uomo” edessi si fermano alla presunzione di conoscer-lo attraverso la domanda se egli non sia l’uo-mo di Nazaret, figlio di genitori noti a tutti.

La risposta di Gesù coglie la radice delladomanda dei Giudei e propone come testo sucui riflettere Is 54,13 (versione LXX): Dioammaestra gli uomini. Il problema più deli-cato di questa risposta è capire “come Dioammaestra” o, se si vuole vedere la cosa daun altro punto di vista, “come si ascoltaDio”. In Gv 8,38 si dice che i Giudei “ascol-

tano” il loro padre, il diavolo (Gv 8,38). IGiudei non leggono qualche opera demonia-ca o non ascoltano qualcuno che parla in no-me del demonio. Piuttosto si lasciano guida-re da un impulso interiore che è demoniaco.Se questo è il senso dell’espressione “ascol-tare il padre vostro”, il diavolo, si comprendemeglio l’espressione “chiunque abbia udito ilPadre e ha imparato da lui, viene a me” (Gv6,45). Gesù vuole evidenziare l’assistenzainteriore del Padre nei confronti dell’uomoaffinché questi possa conoscere il Padre at-traverso l’insegnamento di Gesù, l’unico cheha visto il Padre e quindi lo conosce. Il Padreconduce l’uomo a Gesù e questi al Padre. La

Cristo, Icona greca a mosaico, Berlino, sec. XII

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risposta si chiude riprendendo il tema di Gv6,29: chi crede (in colui che il Padre ha man-dato), ha la vita eterna.

b) Sotto il profilo letterario i vv. 48-50formano una inclusione con i vv. 31-35 (cfr ilvangelo di domenica scorsa) e riprendono glistessi temi. Poiché i padri che hanno vissutol’esodo sono morti, diventa evidente che lamanna non è un cibo che dà la vita (eterna).Esiste un altro pane, Cristo, che invece è ca-pace di dare la vita eterna. Tale pane va man-giato. Il verbo faghein-mangiare compare inquesti versetti due volte, in parallelismo. Unaprima volta è legato alla manna, una secondaal “pane disceso dal cielo”, Gesù. Il senso,perciò, è uguale nei due casi. Si tratta di man-giare la manna e di mangiare il pane discesodal cielo, che è il pane di vita (Gesù).

Per capire meglio il verbo “mangiare” bi-sogna ricordare che il legame fondamentalecon Gesù è “credere in lui”. Conseguente-mente “mangiare Cristo” implica prima diogni altra cosa la fede in lui. Il verbofaghein-mangiare viene, perciò, adoperato daGiovanni come verbo-ponte che fa transitareil credente dal “mangiare figurato” (fare pro-pria tutta la persona di Gesù attraverso la fe-de del discepolo che imita il maestro) al“mangiare eucaristico” (cfr. trogo-mangiaredel v. 54). L’ottica del mangiare figurato ri-chiede che la fede non sia un atteggiamentostatico, frutto di una opzione compiuta unavolta per tutte. La fede appare qui come unatteggiamento dinamico che implica un ci-barsi continuo del Cristo. Si tratta di una pre-messa essenziale al v. 51.

c) Il v. 51 (Io sono il pane vivo) contienel’ultimo passaggio: da “mangiare Gesù” al“mangiare la sua carne”. La tecnica letterariadel trapasso era già stata adoperata in prece-

denza (dalla “manna” al “pane” vero discesodal cielo, dal “pane” a “Gesù”, dal “credere” al“mangiare”). Con quest’ultimo versetto vienecompletato il significato del miracolo del pane.Il segno del pane, infatti, fondamentalmentesta ad indicare la volontà e la capacità donativadi Gesù. Dopo aver donato il cibo (pane, pe-sce), ora Gesù propone in dono (ego doso-iodarò) la propria carne come pane vero, vivo(nel v. 51 il pane non viene detto “di vita”, ma“vivente”-zon ) e vitale, che dona la vita.

Una lettura non superficiale può coglierein questo versetto tre grandi temi teologici:l’incarnazione, il valore della passione el’eucaristia. La carne di Gesù viene donatacome offerta sacrificale (doso-darò + uper)per gli uomini. Da qui il senso dell’incarna-zione: Gesù ha assunto la carne per donarla.Questa carne (sarx) è destinata ad esseremangiata. Mentre il vocabolo eucaristico deiSinottici è soma-corpo, per Giovanni è sarx-carne (vocabolario che continua nella tradi-zione liturgica siro-antiochena: cfr. Ignaziodi Antiochia). Solo la “carne-mangiata”, cheè pane disceso dal cielo, pane datore di vita,pane vivente, può diventare efficace portatri-ce di vita eterna.

4. La liturgia associa a Gv 6,41-51 il branodi 1 Re 19,4-8. Il profeta Elia, perseguitatodalla idolatra regina fenicia Gezabele, compieil faticoso viaggio verso l’Oreb (Sinai). Egliripercorre a ritroso l’esodo, quasi a voler ritor-nare alle fonti dell’incontro con Dio. Nel suocammino, il profeta viene colto da una crisi divocazione: egli non ha più fiducia nella mis-sione che Dio gli ha affidato perché “non èmigliore” dei suoi padri. Dio non resta in si-lenzio. La risposta di Dio consiste nell’acco-gliere l’angoscia del profeta, rispondendo adessa in modo efficace. L’angelo, che gli portala parola di Dio, gli dona il pane e l’acqua. La

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presenza dell’essere celeste, il dono del pane edell’acqua costituiscono la soluzione propostada Dio al pellegrinaggio di Elia. Quel pane equell’acqua servono a Elia per portare a com-pimento il suo pellegrinaggio.

5. Il salmo responsoriale, Sal 33 (34) èun testo di azione di grazie. I versetti scelti(vv. 2-3; 4-5; 6-7; 8-9) presentano gli ele-menti essenziali di una situazione umana difatica alla quale Dio risponde con il suo in-tervento salvifico. L’orante ha vissuto unaesperienza di profonda limitatezza (povero:v. 7): era nelle angosce (v. 7) e ha cercato (v.5) una risposta, rifugiandosi in Dio (v. 9). IlSignore lo ha ascoltato (v. 7), gli ha risposto(v. 5), difendendolo (v. 8) e liberandolo dallapaura (v. 5).

6. La colletta generale (Sacr. Bergomensen. 634), chiudendo i riti di inizio, esprimenell’amplificazione dell’invocazione solouna tematica, importante ma non principale,del lezionario: la consapevolezza di essere fi-gli del Padre.

La colletta particolare è centrata tematica-mente con la Liturgia della Parola. Nelle duepetizioni viene presentata la vita come unpellegrinaggio lungo il quale il Padre sostie-ne la Chiesa con la “forza del cibo che nonperisce”, chiaro riferimento al tema centraledel vangelo e della prima lettura. Nel finedella petizione si chiarisce come la fede inCristo sia il fondamento della vita eterna,compresa come contemplazione di Dio(“giunga a contemplare la luce del tuo vol-to”). Fede e vita eterna sono i due elementipolari all’interno dei quali si muove la tema-tica evangelica.

7. La lettura semicontinua della letteraagli Efesini tralascia 4,25-29, probabilmente

perché la pericope si attarda in forma accen-tuata su comportamenti molto specifici (direla verità, non mantenere l’ira, non rubare,non dire parole disoneste).

Il lezionario tralascia Ef 4,25-29 (il testosi sofferma nell’elencare comportamenti spe-cifici) e propone come testo della lettura se-micontinua il brano Ef 4,30-5,2 che proponela chiave di ogni comportamento cristiano.La chiave è l’imitazione di Dio Padre e delFiglio, oppure, detto in altri termini, è cam-minare nella carità. L’autore sacro si rifà allapredicazione di Gesù, che aveva propostocome criterio di comportamento del cristianola “perfezione” e la “misericordia” del Padre:“Siate dunque perfetti come è perfetto il Pa-dre vostro celeste” (Mt 5,48); “Siate miseri-cordiosi, come è misericordioso il Padre vo-stro” (Lc 6,36).

“Camminare nella carità” non ha solovalenza morale, ma anche cultuale. Attra-verso il linguaggio cultuale veterotesta-mentario (“dare”, “offerta”, “sacrificio”,“soave odore”) l’agiografo illustra il com-portamento di Cristo. Il cristiano, imitandoil Padre secondo l’esempio di amore delCristo, rivive in sé la capacità di amare cheha Cristo. E Cristo ha amato fino al sacrifi-cio di sé per gli uomini.

Questo concetto era un elemento fondantedella visione paolina della vita cristiana. AiRomani l’Apostolo aveva scritto: “Vi esortodunque, fratelli, per la misericordia di Dio, adoffrire i vostri corpi come sacrificio vivente,santo e gradito a Dio; è questo il vostro cultospirituale” (Rm 12,1). La morale cristiana,dunque, obbliga il culto a diventare impegnodi vita, togliendo il momento liturgico dal pe-ricolo del formalismo, e dona a se stessa l’i-dentità di una offerta a Dio, togliendo l’impe-gno morale dal pericolo del nudo volontari-smo.

La parola di Dio celebrata

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La parola di Dio celebrata

GRANDI COSE HA FATTO IN ME L’ONNIPOTENTE

Assunzione della Beata Vergine Maria 15 agosto

Ap 11,19; 12,1-6.10; Sal 44; 1 Cor 15,20-26;

Lc 1,39-56

1. Teofane il Marcato scriveva sulla so-lennità odierna: “Il cielo oggi spalanca ilsuo seno per ricevere colei che ha generatol’Immenso”. L’Assunzione è una festa chela tradizione ha donato alla Chiesa. Primadel sec. VI a Gerusalemme c’erano tre datilegati a Maria: una chiesa dedicata allaSantissima Vergine Maria; una tradizioneche voleva il suo sepolcro vicino al Montedegli Ulivi; il 15 agosto come data del tran-sito di Maria dalla terra al cielo (forse erala data della dedicazione della chiesa dedi-cata alla Santissima Vergine Maria). Nelsec. VII questa devozione locale venne por-tata in tutto l’impero bizantino dall’impera-tore Maurizio che chiamò la festa “giornodella nascita di Maria al cielo”, “dormizio-ne di Maria” o “festa del Transito di Mariaal cielo”.

In occidente il primo che ne parla espli-citamente e per esteso è Gregorio di Tours(morto nel 594). A Roma tale festa è cele-brata già da Sergio I (sec. VII) con il nomedi Dormitio Mariae. Questa festa liturgica,però, non venne mai intesa come semplicememoria della morte di Maria. In Occiden-te, infatti, nel sec. VII si pregava così per il15 di Agosto: “Per noi, Signore, è veneran-da la festività di questo giorno in cui lasanta genitrice di Dio si è sottoposta allamorte temporale, senza tuttavia che potessevenire sottomessa alle conseguenze della

morte stessa; essa, infatti, dal suo gremboha partorito tuo Figlio, il Signore nostro in-carnato”.

Teodoro Studita, morto nel 826, così pre-gava: “O tu, che penetri le nubi e sali al cie-lo, entri nella sancta sanctorum con voce diesultanza e di lode, degnati di benedire, oMadre di Dio, la terra tutta... da’ tranquillitàalla Chiesa, fermezza alla fede, sicurezza al-lo stato...”. Nel 1849 giunsero alla Santa Se-de le prime petizioni per la proclamazionedel dogma. Quando, il 1 novembre del 1950,Pio XII proclamò con definizione infallibile(Munificentissimus Deus) la verità di fededell’Assunzione, volle come testo evangelicoper la celebrazione Lc 11,27-28 (Beato chiascolta la Parola e la mette in pratica).

A questa splendida gemma donataci dallatradizione Giovanni Paolo II ha voluto ag-giungere una sua riflessione, lì dove affermaper Maria l’esperienza della morte prima del-la gloria dell’Assunzione. Non poteva esserediversamente, se Gesù Cristo, prima, è pas-sato attraverso la morte e, poi, è stato prota-gonista della resurrezione.

2. Alcuni autori antichi, fondandosi sul-la Cronaca di Eusebio (il passo in questioneè, purtroppo, un’interpolazione), hannopensato che Maria fosse morta nel 48 d.C.Poiché Maria sarebbe diventata madre al-l’età di 15 anni circa, la sua morte dovreb-be essere avvenuta all’età di 63 anni. Peraltri, Maria sarebbe diventata madre pocopiù che ventenne. Da qui la deduzione del-l’età: alla sua morte Maria potrebbe averavuto 68 o 69 anni.

I luoghi che si arrogano l’onore di ospita-re il sepolcro di Maria sono fondamental-mente due: Efeso e Gerusalemme. La tradi-zione legata a Efeso si fonda sul fatto cheMaria fosse affidata da Gesù all’apostolo

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Giovanni. Poiché Giovanni, per varie vicissi-tudini, avrebbe testimoniato la sua fede nellazona efesina, diventò inevitabile collocare lamorte di Maria a Efeso. Da qui nasce la tra-dizione storica della tomba di Maria a Efeso.La tradizione legata a Gerusalemme, invece,ha un altro percorso.

3. La liturgia del Concilio legge nellamessa della vigilia il testo evangelico di Lc11,27-28 (Gesù proclama la beatitudine dichi ascolta e osserva la Parola). Si tratta del-lo stesso vangelo voluto da Pio XII. Nellamessa del giorno, invece, la liturgia del Con-cilio legge un secondo testo evangelico: Lc1,39-56. Si tratta del brano che narra la visitadi Maria a Elisabetta e che riporta il Magnifi-cat, canto gioioso e carico di riconoscenzaper le cose meravigliose che Dio compie perla salvezza dell’uomo.

4. Nella messa della vigilia la liturgia pro-clama il testo di Lc 11,27-28. Si tratta di unbrano evangelico impressionante. Non c’ècontrapposizione tra maternità (proclamatadalla donna della folla) e ascolto obbedien-ziale della Parola. C’è, piuttosto, una chiarapreferenza: Gesù apprezza più questo legameche Maria ha con la Parola e con Dio piutto-sto che la sola e isolata esperienza di puramaternità carnale messianica e “divina” (purgrandissima nella sua verginità resa fecondadallo Spirito Santo).

L’aver portato in grembo il Figlio di Diopoteva essere un’esperienza transitoria. Ac-cogliere la Parola, portarla sempre dentro disé, esprimendola nella testimonianza, perMaria è stato un ripetere quotidianamente lasua totale disponibilità al Mistero di Dio co-me all’Annunciazione, alla Nascita, alla Vitae alla Morte sul Calvario, alla Risurrezione,alla Pentecoste...

5. La prima lettura (1 Cr 15,3-4.15-16;16,1-2), chiaramente eclogadia, narra il tra-sporto dell’arca a Gerusalemme, sotto unatenda, voluto e fatto da Davide. Il valorecristologico e mariologico del testo è evi-dente. L’arca, che contiene la Parola (tavoledella legge), la ciotola della manna e il ba-stone di Aronne, annunciano profeticamenteMaria che nel suo grembo ha portato la Pa-rola, il Pane disceso dal cielo, il SacerdoteSommo. Il salmo responsoriale, Sal131(132),6-7.9-10.13-14, riprende il temadell’arca.

Assunta, Annibale Caracci, S. Maria del Popolo,Roma, sec. XVII

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6. La seconda lettura della messa vigilia-re, 1 Cor 15,54-57, riporta il pensiero diPaolo circa la nostra risurrezione, di cuiMaria è già stata pienamente protagonista,partecipando alla primogenitura del Figlio(cfr Col 1,18: “il primogenito di coloro cherisuscitano dai morti”). Per Maria già e pernoi alla fine dei tempi, la risurrezione rive-stirà di incorruttibilità e di immortalità ciòche era corruttibile e mortale. Maria Assun-ta, dunque, diventa per noi, in qualche mo-do, modello e profezia della nostra risurre-zione.

7. L’orazione che precede le letture (col-letta) della messa della vigilia riassume letappe della storia della salvezza mariana:Dio vede l’ “umiltà” della Vergine Maria(cfr. il Magnificat), innalza la Vergine Ma-ria alla sublimità di Madre del Figlio di Diofatto uomo e, infine, la corona con la “glo-ria incomparabile” (si ricordi che nel NT iltermine “gloria” è spesso equivalente a ri-surrezione). Nel fine della petizione siesprime il desiderio dei credenti di giungerecome Maria alla gloria del cielo dopo avervissuto in questo modo “costantemente ri-volti” ai beni eterni.

8. Nella messa del giorno, il testo evan-gelico di Lc 1,39-56. Si tratta del brano chenarra la visita di Maria a Elisabetta e che ri-porta il Magnificat, canto gioioso e caricodi riconoscenza per le cose meraviglioseche Dio compie per la salvezza dell’uomo.Il testo biblico evidenzia come Maria, su in-dicazione dell’angelo, verifica il segno do-natole da Dio (la cugina, sterile, incinta alsesto mese!) e contemporaneamente associaMaria e la Chiesa.

Il testo evangelico, dunque, esprimel’obbedienza di Maria ai “segni di Dio” e la

sua capacità di lettura e comprensione di es-si. Nel Magnificat Maria esprime la propriagioia riconoscente e quella della Chiesa.Come Maria anche la Chiesa ha il compitodi rendere “storico e esperimentabile” agliuomini Colui che i cieli dei cieli non posso-no contenere, che era preesistente e che ac-cettò di essere uomo per la salvezza degliuomini.

9. Il testo della prima lettura, Ap 11,19;12,1-6.10, riprende il tema dell’associazio-ne Maria-Chiesa. La donna vestita di solecon la luna sotto i suoi piedi è una immagi-ne che da sempre è stata letta nella Chiesacome immagine di Maria e della Chiesastessa. Come Maria genera il Figlio, così laChiesa genera il cristiano. Come Maria hadovuto essere testimone della Grande Ten-tazione subita dal Figlio, così la Chiesa neiconfronti dei credenti. Come Maria trovaspiegazione e comprensione nel mistero sal-vifico di Dio, così la Chiesa. Solo in Lui c’èil vero “rifugio” e l’ultimo significato diogni cosa. Anche il salmo responsorialegioca sul doppio registro Maria-Chiesa. Iltesto di Sal 44(45),10bc.11.12ab.16 è statoletto nella Chiesa sia come il salmo della“sposa” di Cristo sia come salmo mariano.

10. La seconda lettura è tratta, come perla messa vigiliare, dalla prima lettera ai Co-rinzi. Il testo di 1 Cor 15,20-26 allude alprivilegio di Maria. Tutti riceveranno la vitain Cristo. Ciascuno però nel suo ordine. Pri-ma Cristo, che è la primizia; poi, alla suavenuta, coloro che sono di Cristo. Dio havoluto che Maria fosse collocata tra la pri-mizia, che è Gesù, e il resto dell’umanità.

11. La colletta della Messa del giorno,invece, preferisce illustrare in modo sinteti-

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co il contenuto del dogma: l’ImmacolataVergine Maria, Madre del Figlio di Dio, èstata innalzata alla gloria del cielo in corpoe anima. Nel fine della petizione si esprimeil desiderio dei credenti di giungere comeMaria alla gloria del cielo dopo aver vissutoin questo modo “costantemente rivolti” aibeni eterni.

LA MIA CARNE È VERO CIBO, IL MIOSANGUE È VERA BEVANDA

20 a Domenica del tempo ordinario 17 agosto

Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58

1. Per il pensiero rabbinico contemporaneoa Gesù essere commensali del Messia signifi-cava essere sicuramente partecipi del pastoescatologico e del Regno di Dio. La liturgiadella Parola odierna riprende la tematica e laporta a compimento. L’Eucaristia non è solo unmangiare con Gesù, ma anche un cibarsi di lui:“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangueha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimogiorno” (Gv 6,54). La liturgia, accostando il te-sto evangelico di Gv 6, 51-58 al testo sapien-ziale di Pr 9,1-6, intende rileggere cristologica-mente il testo veterotestamentario in modo dacogliere nella Sapienza l’anticipazione profeti-ca della figura di Gesù, e nelle azioni della Sa-pienza le azioni di Gesù. La Sapienza di Dio haimbandito la sua mensa ed ha invitato tutti gli“inesperti” perché, cibandosi alla sua tavola,abbandonino la stoltezza e camminino per lavia dell’intelligenza. Cibarsi eucaristicamentedi Gesù non significa, dunque, cibarsi solo del-la sua carne e del suo sangue, ma di tutta la suapersona: anche delle sue parole e delle sueazioni, con tutto ciò che ne consegue.

2. Il lezionario ritocca l’incipit del testo(“In quel tempo, Gesù disse alla folla”) e nelbrano prescelto (Gv 6,51-58) riprende il v.51 già letto nella domenica precedente. Que-sto fatto è spiegabile con il fatto che i vv. 51.58 formano letterariamente una inclusioneperfetta, dove l’autorivelazione di Gesù (“Iosono il pane vivo disceso dal cielo”: v. 51 //“Questo è il pane disceso dal cielo”: v. 58)deve essere capita come funzionale al beneglobale e definitivo dell’uomo (“Se unomangia di questo pane vivrà in eterno”: v. 51// “Chi mangia questo pane vivrà in eterno”:v. 58). L’eucaristia, di conseguenza, vienepresentata come autorivelazione di Gesù perla salvezza globale e definitiva dell’uomo.

3. Dopo le considerazioni fatte, per unalettura liturgica il testo evangelico si puòsuddividere in tre parti: il primo elemento diinclusione (v. 51), il dialogo tra i Giudei eGesù (vv. 52-57) e il secondo elemento di in-clusione (v. 58)

a) Il primo elemento di inclusione (v. 51),già commentato alla fine del brano evangeli-co di domenica scorsa, potrebbe contenere –secondo alcuni studiosi - il ricordo della for-mula eucaristica aramaica; formula probabil-mente usata dalla comunità giovannea.

Comparando questo versetto (dove il ter-mine sarx-carne spiega il concetto “pane vi-vo disceso dal cielo”) con il testo di 1 Gv4,2, dove il termine sarx-carne è la discrimi-nante per un corretto riconoscimento di Gesù(“Da questo potete riconoscere lo spirito diDio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cri-sto è venuto nella sarx-carne, è da Dio”),emerge chiara l’intenzione dell’autore. Eglisi oppone a ogni eccesso di spiritualizzazio-ne dell’umanità di Gesù e del contenuto deldiscorso del Maestro.

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Gesù, poi, dona la sua carne “per la vitadel mondo”. Il temine “mondo” in Giovanniha diversi significati, tra i quali ne prevalgo-no due. Prima di tutto “mondo” significa l’u-manità che ha bisogno di salvezza. Successi-vamente, quasi in legame semantico deriva-to, significa l’ordinamento socio-religioso,ingiusto e nemico di Dio. Gesù, dunque, do-na la sua carne perché tutti gli uomini, op-pressi dall’ordinamento nemico di Dio, ab-biano la vita eterna.

b) Il dialogo tra i Giudei e Gesù (vv. 52-57) non è sereno. La reazione dei Giudei èviolenta e manifesta una mentalità legata so-lo all’esteriorità. Come può dare la sua carneda mangiare? Qualche studioso pensa chedietro a queste parole ci sia la calunnia diEbrei e Doceti. Essi, sulla fine del primo se-colo, accusano i cristiani di banchettare concarne umana. Ignazio di Antiochia, rispon-dendo in qualche modo ai Doceti nella lette-ra ai cristiani di Smirne (7,1) scrive: “Essi siastengono dall’eucaristia e dalla preghiera,perché non confessano (omologhein) chel’eucaristia è la carne (sarx) del nostro Sal-vatore Gesù Cristo, la stessa che patì per inostri peccati, la stessa che, per sua bontà, ilPadre fece risorgere. Così coloro che discu-tono il dono di Dio, muoiono nelle loro di-scussioni...”.

La risposta di Gesù non attenua l’affer-mazione da lui fatta. La replica viene arti-colata in tre momenti, scanditi dalla ripeti-zione dell’espressione “mangiare la carne -bere il sangue” (vv. 53.54.56). Come nel v.51 è stata vista l’opposizione alla spiritua-lizzazione (attenuazione o negazione dellaumanità del Verbo) della persona del Mae-stro, ora c’è l’opposizione alla spiritualiz-zazione (attenuazione o negazione) del-l’Eucaristia.

* La replica di Gesù inizia con una sen-tenza: non mangiare la carne e non bere ilsangue del Figlio dell’uomo equivale a nonavere la vita. L’espressione mangiare-bereindica il pasto, mentre l’espressione carne-sangue denota tutta la persona. Il titolo cri-stologico “Figlio dell’uomo” è già comparsoin Gv 6,27 legato allo Spirito (“Procuratevinon il cibo che perisce, ma quello che duraper la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vidarà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messoil suo sigillo [= Spirito Santo]”).

La carne e il sangue sono reali, ma sonodel Figlio dell’uomo, pieno di Spirito Santo.La carne e il sangue dunque, reali e concreti,superano le leggi della pura fisicità per ap-partenere alle leggi dello Spirito.

* Nella seconda parte della replica (vv.54-55) il concetto precedente viene espressosotto la forma positiva, evidenziandone i ri-sultati (chi mangia... e chi beve... ha la vita everrà risuscitato). A chi mangia e beve di lui,Gesù dona la vita eterna già quaggiù (si notiil tempo presente: “ha la vita eterna”) e pro-mette la risurrezione alla fine della storia (sinoti l’espressione “ultimo giorno”). In questofrangente viene usato il verbo trogo (mangia-re, divorare) che accentua il realismo dellacarne e del sangue eucaristici. Carne e san-gue vengono, infatti, aggettivati con alethes(vero), aggettivo adoperato da Giovanni perindicare il valore autentico della realtà.

* Nella terza parte della replica (v. 56-57)Gesù chiarisce come il dono della vita eterna siapresente in chi ha mangiato il corpo di Cristo ein chi ha bevuto il suo sangue perché costui di-mora in Cristo e questi in lui. Il concetto ha ilsuo perno nel verbo menein-rimanere (dimora-re). Non si tratta di una esperienza “umana” (co-me il bimbo nel grembo materno), ma “divina”(come il Figlio e il Padre in perfetta unità).

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Il legame divino Figlio-Padre è la spiega-zione del legame eucaristico personale cheintercorre tra il credente e Cristo. Il credente,pur vivendo una vita “storica”, vive una vita“eterna” perché unito a Cristo.

Questa unione, sottolineata dalla particel-la dià-per, può essere letta in due modi, traessi complementari: “colui che mangia di mevivrà per mezzo mio” (causa) e “colui chemangia di me vivrà per amore mio” (fine).

c) Il secondo elemento di inclusione (v.58) è un versetto riassuntivo dove viene riba-dito quanto appena illustrato e quanto giàtrattato in sintesi precedenti (cfr. i vv. 33.50). Ciò che si poteva attendere dalla manna,pane dal cielo, ora viene donato dal vero eperfetto pane dal cielo, la carne e il sangue diGesù che, mangiato e bevuto, dona già oggila comunione con tutta la persona di Gesù,dà la vita eterna e diventa pegno sicuro di re-surrezione.

Alla fine di questo breve e incompletocommento si può però affermare che una in-terpretazione pienamente eucaristica esprimeil meglio di Gv 6,51-58. Alcuni studiosi han-no pensato che questa pericope possa essereun prodotto redazionale, inserito dopo lacomposizione di Gv 6. Anche se così fosse, iltesto redazionale resta quello ispirato e, con-seguentemente, l’interpretazione esclusiva-mente spiritualistica, o solo pasquale, oppurepuramente simbolica non possono esaurire laforza della pericope stessa.

4. La liturgia associa Gv 6,51-58 a unapericope sapienziale, Pr 9,1-6. Diversamentedalla Follia (Pr 9,13-18) che sta seduta sullaporta di casa ad aspettare i clienti come unadonna di malaffare, la Sapienza manda le sueancelle a invitare gli uomini al banchetto. La

Follia propone un banchetto con acque ruba-te e il pane del mistero, un pasto segreto edenigmatico che indica il male commesso dinascosto. La Sapienza, invece, invita a man-giare nella sua casa con “sette colonne” (è lacasa o la scuola della Sapienza: cfr Sir51,23). Essa offre come cibo, pane, e comebevanda, vino. Si tratta di un chiaro legame(una anticipazione sapienziale del tema) conla proposta fatta da Gesù nel testo evangelicodi Gv 6,51-58. Il banchetto della Sapienza,infatti, è donato agli “inesperti” (v. 3), affin-ché abbandonino la “stoltezza” (v. 6) e cam-minino “dritti per la via dell’intelligenza” (v.6): è il banchetto dottrinale, il grande convit-to dello spirito. Oltre al pane e al vino la Sa-pienza offre anche la carne (“ha ucciso glianimali”: v. 2). Si tratta di banchetti cultuali(cfr. il vocabolario cultuale). La Sapienza,perciò, invita gli uomini a un banchetto pub-blico, aperto, dove la ricerca della dottrina edello spirito è equiparata e si accompagna asacrifici cultuali.

5. L’assemblea risponde con la continua-zione del salmo di domenica scorsa, Sal 33(34), 2-3; 10-11; 12-13; 14-15. Il v. 11 espri-me il tema principale: “Chi cerca il Signorenon manca di nulla”. Si tratta di una preghie-ra che, mentre risponde alle proposte dellaSapienza, predispone all’ascolto dell’impe-gnativo messaggio evangelico. Per gustare ilbene dell’esistenza (v. 13) l’uomo si pone inatteggiamento di ricerca. Questo a sua volta,predispone e fa nascere la disponibilità all’a-scolto (vv. 3.12). L’ascolto fa raggiungere iltimore di Dio (v. 10) che a sua volta generala gioiosa ricerca della propria realizzazione(“cerca la pace e perseguila”: v. 15).

6. La colletta generale (sacr. Gelasianon. 654; Messale tridentino n. 323), pur con

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un vocabolario generico, entra in dialogotematico con le letture bibliche. Nel finedella petizione, infatti, si trova il tema deidoni promessi da Dio, che, alla luce delcontesto odierno, sono la vita eterna già og-gi e la risurrezione alla fine della storia.L’eucologia, però, fa derivare i doni pro-messi dall’amore verso Dio.

La colletta particolare, in modo non deltutto fluido, riprende i temi più importantidel lezionario. Mentre sorvola sul tema delmangiare la carne e bere il sangue di Ge-sù, il testo esprime nell’amplificazionedell’invocazione il valore conviviale dellacelebrazione eucaristica (“amici” e “com-mensali”), nella seconda petizione presen-ta il tema della certezza già oggi viva epresente della vita eterna, e nella primapetizione espone la speranza che si avverila promessa eucaristica di Gesù, la risurre-zione.

7. Per questa domenica il lezionario hascelto il testo di Ef 5,15-20, che si riallacciapiù direttamente a quanto letto nella dome-nica precedente. Il testo tralasciato, Ef 5,3-14, ha ancora carattere morale (tema dellaluce e delle tenebre: cfr Didachè 1,1: “Cisono due strade, una della vita e una dellamorte”).

Il comportamento del credente va gestitoda “saggi”. “Saggi” sono coloro che fannole loro scelte comportamentali secondo lavolontà di Dio, conosciuta per grazia. Nelledifficoltà della vita – stando al contesto del-la lettera – il credente, ricco di Spirito San-to, si rifugia nella sinassi liturgica dove im-para a capire che tutto è provvidenza e, con-seguentemente, pur nella difficoltà impara aringraziare il Padre, nel nome del Signorenostro Gesù Cristo, “di continuo e per ognicosa”.

DA CHI ANDREMO? TU HAI PAROLE DIVITA ETERNA

21a Domenica del tempo ordinario24 agosto

Gs 24,1-2a.15-17.18b; Sal 33; Ef 5,21-32; Gv 6,60-69

1. Il brano evangelico (Gv 6,60-69) e laprima lettura (Gs 24,1-2a.15-17.18b) sonotesti permeati dalla tematica che vede l’uo-mo chiamato a decidersi per Dio, dopo avervissuto un’esperienza profonda e coinvol-gente con Lui.

Nel testo evangelico troviamo sia la rea-zione negativa di chi abbandona Gesù, sia larisposta positiva dei discepoli che intendonorimanere fedeli alla persona e all’insegnamen-to del Maestro. Tale fedeltà è profeticamentevissuta da Giosuè, che insieme con la sua casaintende rinnovare l’alleanza con Yhwh.

2. Il testo biblico e il testo biblico-liturgicodel vangelo sono identici, eccezion fatta per ilclassico incipit liturgico “In quel tempo”. Iltaglio finale della pericope, però, non rispettacerte regole letterarie. I biblisti preferisconotagliare la pericope in Gv 6, 60-71 (scandalodei discepoli: Gv 60-65; confessione di Pietro:Gv 6,66-71). Il testo liturgico, invece, è Gv6,60-69. La liturgia, dunque, ha operato un ta-glio che influisce a livello tematico. Toglien-do, infatti, il testo di Gv 6,70-71 (annunciodell’infedeltà di Giuda) dall’unità letterariaoriginale, la liturgia vuole evidenziare solo iltema dell’abbandono dei discepoli e dell’ade-sione fedele dei Dodici al progetto salvificoofferto da Gesù. Per quanto riguarda la nume-razione dei versetti continua la divergenza tratesto greco (Gv 6,60-69) e la Vulgata (Gv6,61-70), già trovata in precedenza.

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3. Il testo evangelico (Gv 6,60-69) è facil-mente divisibile, a livello letterario, in dueparti. La prima parte (vv. 60-66) è dominatadal gruppo dei discepoli galilaici che abban-donano Gesù. La seconda parte (vv. 67-69) èdomina dal gruppo dei Dodici che per boccadi Pietro esprime la propria scelta in favoredel Maestro (vv. 67-69).

a) La pericope dell’abbandono dei disce-poli di Galilea (vv. 60-66) è delimitata dal-l’inclusione formata dall’espressione “moltidei suoi discepoli” (vv. 60. 66). All’internodell’inclusione si trova la preoccupazione diGesù per la mancanza di fede dei discepoli;mancanza di fede che porta allo scandalo e,quindi, all’abbandono.

* Dopo le parole del Maestro c’è il rifiutodelle sue parole da parte del gruppo dei di-scepoli galilaici: è una parola dura (skleros),difficile e inaccettabile per la loro fede.

L’intervento di Gesù si pone proprio sulpiano della fede e si articola in tre passaggi:la domanda costruita sulla protasi senza l’a-podosi (E se vedeste il Figlio dell’uomo sali-re là dov’era prima ?), l’azione dello Spirito(È lo Spirito che dà la vita), il dono del Padreche conduce a Gesù.

Lo scandalo dei discepoli è legato all’im-possibilità che Gesù sia il Figlio dell’uomo,il pane disceso dal cielo, e che possa dare lasua carne da mangiare e il suo sangue da be-re. La risposta di Gesù è di non facile com-prensione. Cosa intendeva dire Gesù, ponen-do la domanda sull’ascensione del Figlio del-l’uomo? Nella domanda troviamo esplicitatala protasi (E se vedeste il Figlio dell’uomosalire là dov’era prima ?), mentre l’apodosiè sottintesa. Sono state fatte alcune ipotesi disoluzione per rendere chiara l’apodosi: “allo-ra il vostro scandalo sarebbe veramente gran-

de”, “allora il vostro scandalo sarebbe elimi-nato”, “allora conoscereste il pane di vita cheè disceso dal cielo”, “allora giudichereste di-versamente della mia carne”.

L’obiettivo di Gesù non sembra fosse quellodi aumentare o diminuire lo scandalo, ma quel-lo di portare i discepoli dubbiosi e critici a unamentalità di fede. Se questo è l’obiettivo, la do-manda sull’ascensione del Figlio e l’afferma-zione sullo Spirito vanno unite. Gesù, Figliodell’uomo, pane di vita disceso dal cielo, puòessere creduto solo e unicamente da quelle per-sone che accolgono la forza e la logica delloSpirito. La forza e la logica della carne non aiu-tano a credere e, di conseguenza, “la carne nongiova a nulla”. Le affermazioni di Gesù, dun-que, circa la sua carne e il suo sangue come ci-bo e bevanda non possono essere colte nel lorovalore autentico, se non attraverso la forza e lalogica dello Spirito Santo, già presente e ope-rante nelle stesse parole del Maestro (“le paroleche vi ho dette sono spirito e vita”).

* Gesù, accettando l’abbandono dei di-scepoli galilaici, affronta il problema del“traditore”. Le parole di Gesù non sembranofermarsi solo al traditore Giuda, ma a tutticoloro che abbandoneranno la comunità cri-stiana. Costoro, come i discepoli e come iltraditore, non hanno creduto in Cristo (nonhanno potuto “andare a Lui”) perché nonhanno ricevuto tale dono da parte del Padre.

L’associazione tra l’espressione “coloroche non credevano” e l’altra espressione “co-lui che lo avrebbe tradito” permette una ri-flessione sul “mistero dell’iniquità”.

Il legame fra i discepoli galilaici (assiemea quelli che abbandonano la comunità) e iltraditore autorizza a leggere il problema delmistero dell’iniquità ad modum unius: com-prendendo il tradimento di Giuda, si può ca-pire l’abbandono dei discepoli.

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Per Giovanni i discepoli che abbandona-no o tradiscono Gesù non hanno ricevuto ildono della fede perché nel loro intimo prefe-riscono essere abitati dal Maligno (cfr. Gv13,27) e operare nelle tenebre (cfr. Gv13,30). Di fronte al “mistero dell’iniquità” sicolloca però in antitesi l’altro mistero, quellodella eudokia (beneplacito) del Padre.

* Giovanni esprime il rifiuto di seguire Ge-sù con una terminologia (si tirarono indietro =apelthon eis ta opiso) che richiama alla lonta-na sia Is 1,4 (“Hanno abbandonato il Signore,hanno disprezzato il Santo d’Israele, si sonovoltati indietro - in ebraico nasog ‘ahor), siaLc 6,62 (“Nessuno che ha messo mano all’ara-tro e poi si volge indietro - in greco: blepon eista opiso - è adatto per il regno di Dio”).

b) La seconda parte del testo evangelico(Gv 6,67-69) è dominata dal gruppo dei Do-dici, che Giovanni nomina qui per la primavolta. La confessione che Pietro fa a nomedei Dodici e che si ritrova anche nella tradi-zione sinottica, è in netta antitesi con l’atteg-giamento di scandalo e di abbandono dei di-scepoli galilaici. I Dodici per bocca di Pietrofanno una confessione di fede articolata inuna domanda, in una definizione e in unaprofessione di fede nella persona di Gesù.

* La domanda intende sottolineare cheper i Dodici non esiste nessun altro Maestroche abbia le caratteristiche di Gesù.

* La definizione, che riprende la logicadella domanda, esplicita il motivo della scel-ta indiscussa dei Dodici: solo Gesù ha paroleche comunicano la vita eterna.

* La professione di fede esplicita una ade-sione totale alla persona di Gesù e alla sua

missione. Il titolo “santo di Dio”, infatti, indi-ca nel mondo biblico una persona, come San-sone (LXX Gdc 13,7; 16,17) o come Aronne(Sal 106,16) o, ancora, come i sacerdoti ( cfr;Lv 21,6-7), che è totalmente consacrata aDio. Nel NT Gesù verrà riconosciuto come“santo di Dio” dagli ossessi (Mc 1,24; Lc4,34). Gesù stesso dirà in relazione alla suamorte: “Per loro io consacro (santifico) mestesso” (Gv 17,19). Dietro al titolo cristologi-co “santo di Dio” adoperato da Pietro si puòvedere la confessione di fede dei Dodici sullaidentità e sulla missione di Gesù. Egli è com-pletamente esente da ogni peccato ed è inperfetta unità con Dio in un modo unico. Egliè anche colui che, chiamato a svolgere unamissione sacerdotale capace di donare la vita,sottrae l’uomo al dominio del male attraversoil mistero della propria offerta.

4. La liturgia associa a Gv 6,60-69 il te-sto di Gs 24,1-2a.15-17.18b. La pericope ècomposta da frammenti del discorso di Gio-suè agli abitanti di Sichem. Egli si rivolgesia a coloro che hanno vissuto l’esodo, sia acoloro che non l’hanno sperimentato. I ver-setti scelti mettono in evidenza la decisionedella casa di Giosuè: “Quanto a me e allamia casa, vogliamo servire il Signore”. Die-tro alla scelta di Giosuè e della sua casa sipone anche la scelta delle tribù e degli abi-tanti di Sichem. La fedeltà del primo nucleoin qualche modo apre la strada alla fedeltàsuccessiva di tutto il popolo. Questo aspettodel testo veterotestamentario completa lacomprensione della tematica presente nelvangelo. Come va notato l’abbandono deidiscepoli galilaici (e dei cristiani), così vaevidenziata la fedeltà espressa dalla confes-sione di fede dei Dodici per bocca di Pietro,fedeltà che diventa modello per la stragran-de maggioranza dei cristiani.

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5. Nei pochi versetti (vv. 2-3; 16-17; 18-19; 20-21; 22-23) che la liturgia adoperadel Sal 33 (34), troviamo la motivazioneche il credente ha per scegliere di stare dal-la parte di Dio. Egli aiuta i giusti, li ascolta,li salva, li libera. Scegliere di stare dallaparte di Dio significa avere la vita riscattataperché - qui il salmista anticipa alcuniaspetti della teologia giovannea - “chi in luisi rifugia non sarà condannato” (Sal 34,23;cfr Gv 3,18; 12,47-48).

6. La colletta generale (Sacr. Gelasianon.551 e Messale tridentino n. 342) riprendenell’amplificazione dell’invocazione e nellapetizione il tema del vangelo e della primalettura, introducendo accanto all’aspetto teo-logico (desiderare ciò che prometti) la di-mensione morale (amare ciò che comandi).La riformulazione eucologica focalizza il te-ma biblico: scegliere di credere e di fare ciòche Dio vuole è un dono del Padre e va do-mandato con fede nella preghiera..

7. La colletta particolare evidenzia il temadella scelta radicale della fede in Gesù. L’at-to di fede, che si fonda saldamente sulla pa-rola di Dio in Cristo (cfr. Gv 6,68), è possibi-le attraverso la luce dello Spirito (cfr. Gv6,63). Nessuna parola umana (cfr. “la carnenon giova a nulla”) può contenere la vita,che è vita divina e perciò generatrice di ve-rità e di eternità, capace, dunque, della “divi-nizzazione” dell’uomo.

8. La seconda lettura prosegue la lectiosemicontinua con Ef 5,21-32. Si tratta di untesto molto conosciuto per la sua ricchezzateologica legata al matrimonio cristiano.Tutto il testo ruota attorno a due fulcri: lasottomissione reciproca “nel timore del Si-gnore” e il rapporto marito-moglie compre-

so e vissuto come reale riproduzione dell’a-more di Cristo per la sua Chiesa. Il linguag-gio dell’apostolo è fortemente condizionatodalla cultura dominante di allora, ma con-temporaneamente esprime il “mistero gran-de” che supera ogni criterio culturale. Il do-no totale, fino alla morte, di Cristo per la suaChiesa e l’atteggiamento di totale accoglien-za di questa nei confronti del suo Kyriosfungono da modello e da causa al legamematrimoniale tra uomo e donna. Nella cita-zione anticotestamentaria di Gn 2,24 loscrittore sacro vede il legame tra Cristo e lasua Chiesa, rappresentato tipologicamentedal legame tra Adamo ed Eva e conseguen-temente riprodotto nel legame fra ogni mari-to e ogni moglie. Se ogni legame (tra genito-ri e figli, tra padroni e schiavi) deve esserevissuto “nel Signore”, il legame matrimonia-le gode di una particolarità: in esso c’è l’a-more di Dio per la Chiesa.

TRASCURANDO IL COMANDAMENTO DI DIO, OSSERVATE LE TRADIZIONI DEGLI UOMINI

22 a Domenica del tempo ordinario31 agosto

Dt 4,1-2.6-8: Sal 14; Gc 1,17-18.21.27;

Mc 7,1-8.14-15.21-23

1. La legge, fondata sull’amore fedele diDio verso l’uomo e di questi verso il suoDio, era stata progressivamente affiancatada prescrizioni umane il cui intendimentoiniziale era di facilitarne l’osservanza. Conl’andar del tempo tali prescrizioni avevanosoppiantato i valori che Dio aveva proposto.Così l’uomo si era trovato a dare semprepiù peso all’osservanza delle prescrizioni

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umane, dimenticandosi della loro vera fun-zione, e aveva sempre più lasciato da parteil vero significato della legge di Dio e delsuo fondamento (il rapporto interiore eprofondo con Dio). La proposta divina (Dt4,1-2.6-8), fonte di saggezza e intelligenza(cfr Dt 4,6), era stata equivocata ed era di-ventata sostegno di un comportamento este-riore senza anima. Gesù nega la validità ditale esteriorità e ripropone il senso autenti-co della legge che porta l’uomo alla fedeltàdel cuore, al rapporto profondo e genuinocon Dio, al di là di ogni formalismo esterio-re (Mc 7,1-8.14-15.21-23). Se il cuore del-l’uomo è vicino a Dio non possono uscireda lui cose cattive (cfr Mc 7,21-22: prostitu-zioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie,malvagità, inganno, impudicizia, invidia,calunnia, superbia, stoltezza).

2. Il lezionario ha tolto dal brano origina-rio (Mc 7,1-23) i vv. 9-13 (obbedienza allaParola di Dio e non alla tradizione degli uo-mini) e i vv. 16-20 (la purità alimentare), eha aggiunto all’inizio la solita espressioneliturgica “in quel tempo”. Il centone che nerisulta (Mc 7,1-8.14-15.21-23) si innerva suuna tematica soltanto: il rapporto esteriorità-interiorità. Una prima parte (Mc 7,1-8) è do-minata dalla “tradizione” (vv. 3.4.5.8), men-tre la seconda (Mc 7,14-15.21-23) dall’anti-tesi “dentro-fuori” presente nell’uomo (vv.15.21.23). Questi due brani, tematicamentelontani tra loro, trovano un collante nella ci-tazione di Is 29,13 (“Questo popolo mi ono-ra con le labbra, ma il suo cuore è lontanoda me. Invano essi mi rendono culto, inse-gnando dottrine che sono precetti di uomi-ni”) dove sono presenti in qualche modoespressioni che alludono sia alla “tradizio-ne” (“dottrine che sono precetti di uomini”:Mc 7,7), sia all’antitesi “dentro-fuori” (“ mi

onora con le labbra” / “il suo cuore è lonta-no da me”: Mc 7,6).

3. Il brano evangelico, confezionato dallezionario, si può comprendere in due mo-menti distinti e complementari, due tappe: latradizione e la purezza legale (Mc 7,1-8);l’antitesi “dentro-fuori” nell’uomo (Mc 7,14-15.21-23).

a) La tematica della tradizione e la purez-za legale (Mc 7,1-8) è introdotta da un episo-dio. I discepoli mangiano senza lavarsi lemani. Si tratta di un comportamento disdice-vole. Rabbi Aqiba preferiva, quando era incarcere, mangiare nulla piuttosto che rinun-ciare a purificarsi le mani con l’acqua. Sem-bra che le varie regole di purità, soprattuttoquella di lavarsi le mani prima e dopo l’as-sunzione di cibo, siano una traduzione inchiave “laicale” (farisei) di alcune consuetu-dini osservate durante il banchetto dei sacer-doti nel tempio (cfr Lv 11-15). Questa confe-zione di regole, tradotte dal mondo sacerdo-tale, era frequente e abbondante all’epoca diGesù. L’evangelista presenta ironicamente lacosa come eccessiva. L’ironia si trova nell’e-lenco stesso e viene in qualche modo raffor-zata da una variante, presente in alcuni ma-noscritti, ma non accettata nel testo, che par-la perfino del “lavaggio del letto”. L’eccessoconsiste nel fatto che non tutti i Giudei sicomportavano così: il popolo comune ne eraben distante e i sadducei non amavano che leleggi del clero venissero praticate dai laici.

Alla domanda dei farisei, dal sapore accu-satorio, Gesù risponde con la citazione di Is29,13 (LXX). Il testo greco (“il suo cultoverso di me è soltanto un meccanico ordina-mento umano”) permette all’evangelista dicontrapporre “culto a Dio” e “precetti di uo-mini” e per far concludere a Gesù: “Trascu-

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rando il comandamento di Dio, voi osservatela tradizione degli uomini”.

Mettendo in parallelo questa affermazio-ne di Gesù con la prima parte della citazioneisaiana (“Questo popolo mi onora con le lab-bra, ma il suo cuore è lontano da me”), si ri-cava che osservare il comandamento di Dioequivale ad avere il cuore vicino a Dio, men-tre osservare le tradizioni degli uomini equi-vale a onorare Dio con le labbra.

“Avere il cuore vicino a Dio” equivale a“cercarlo” (Dt 4,29) e ad “amarlo” (Dt 6,5),significa essere “mite ed umile” come Cristo(Mt 11,29), corrisponde a lasciarsi abitaredallo Spirito (Gal 4,6) di Colui che ha avutoil cuore infranto dall’insulto (cfr Sal 62,21).

b) Si chiude improvvisamente il dialogocon i farisei e inizia l’ammonimento di Gesùalla folla sull’antitesi “dentro-fuori” nell’uo-mo (Mc 7,14-15.21-23). L’intervento di Gesù(“non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrandoin lui, possa contaminarlo; sono invece le coseche escono dall’uomo a contaminarlo”) è statointerpretato come condanna dei peccati dellalingua, come contestazione dell’atteggiamentofarisaico o come cessazione di ogni normacultuale sulla purità. Colta nella sua interezza,intende solo far riflettere seriamente sul mon-do interiore dell’uomo dal quale escono “cosecattive”, difficilmente esauribili in un elenco.L’elenco delle “intenzioni cattive”, infatti, èun catalogo standardizzato di vizi. Si cono-scono cataloghi simili nella letteratura apocri-fa, in quella di Qumran e in Filone. Paolo neusa diversi nelle sue lettere dove, però, non sitrovano i “cattivi pensieri” e l’ “occhio mali-gno”. Tutto questo sta a dire che il catalogonon ha la pretesa di completezza.

Si tratta, in fondo, di un invito pressante adiventare discepolo di Cristo nell’intimo piùprofondo: l’uomo, con il suo cuore “vicino a

Dio”, acquista la libertà dalla legge perchésoggiace alla legge dello Spirito.

4. A Mc 7,1-8.14-15.21-23, la liturgia havoluto associare Dt 4,1-2.6-8. Come il testoevangelico, anche il brano del Deuteronomioè composto da due pericopi cucite insieme(vv. 1-2 + vv. 6-8).

La prima pericope (vv. 1-2) sviluppa il te-ma dell’ascolto (“ascolta le leggi e norme”)come atteggiamento obbedienziale (“perchéle mettiate in pratica”). L’obiettivo dell’ascol-to, però, non è l’obbedienza in sé, ma è la vi-ta (“perché viviate ed entriate in possesso delpaese”). Tale vita (cfr Es 20,12) è il bene piùprezioso che l’uomo ha ricevuto da Dio. I co-mandi di Dio, perciò, non vanno alterati (cfrMt 5,17-19: ...neppure uno iota o un apice...).C’è la piena coscienza di voler conservareinalterato il deposito della rivelazione perchéportatore di vita, come l’Apostolo raccoman-derà al suo discepolo Timoteo in 2 Tm 1,14.

La seconda pericope (vv. 6-8) sembra ri-spondere a un dubbio: “Gli altri popoli sonopiù capaci di noi, più forti e più sapienti”(Babilonesi, Egiziani). La risposta ruota at-torno al tema dell’intimità con Dio (“qualgrande nazione ha la divinità così vicina asé...?”). Da tale intimità (cfr Dt 30,11-14:Dio presente nel cuore del credente) nasconol’ascolto e la pratica della legge dell’allean-za. Dall’ascolto e dall’obbedienza alla leggedivina trae origine la sapienza. Intimità divi-na, legge e sapienza sono strettamente unite.Non c’è una senza l’altra.

5. Il salmo responsoriale, Sal 14(15), 2-3a; 3cd-4ab; 4c-5, ha la forma letteraria della“liturgia” ed enumera tutta una serie di atteg-giamenti per poter giungere all’intimità conDio, per essere “puri di cuore” e abitare “nel-la casa del Signore” (cfr. il ritornello).

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6. Nelle prime due petizioni della collet-ta generale (sacr. Gelasiano n. 1182 e Mes-sale tridentino n. 467) vengono chiesti l’a-more e la fede, che costituiscono gli ele-menti dell’intimità con Dio. Nelle altre duepetizioni vengono richieste la fedeltà allalegge divina e la gioia della maturità cristia-na. La fedeltà alla legge divina viene richie-sta come una realtà che nasce dal mondo in-teriore del credente (“si sviluppi in noi ilgerme del bene”).

La colletta propria si sofferma sulla coe-renza tra labbra e cuore nella preghiera (“fa’che la lode delle nostre labbra risuoni nellaprofondità del cuore”). La seconda petizioneripropone il tema dell’interiorità (“la tua pa-rola seminata in noi”) dalla quale nascono lecose secondo Dio (“santifichi e rinnovi tuttala nostra vita”).

7. Oggi inizia la lectio semicontinua dellalettera di Giacomo. Il testo liturgico (Gc1,17-18.21b.22.27) sviluppa un tema fonda-mentale del cristianesimo: tutto nasce dallaParola. I credenti sono “generati” dalla Paro-la e tale Parola accolta nel cuore dei credentie tradotta in testimonianza genera la religio-ne pura. Lo scrittore sacro sembra voler sot-trarre la comunità dal pericolo di pensare cheessere figli di Dio possa essere solo un donotranseunte e che l’ascolto della parola possaridursi a puro esercizio intellettuale. Dio, in-fatti, non muta come le cose della storia e ilsuo dono è un dono per sempre.

Circa poi il tarlo del pregnosticismo chestava invadendo la sua chiesa (e la nostra?)Giacomo taglia corto: ascoltare (in greco nonsi ha akoyo, ma akroaomai) la Parola senzametterla in pratica equivale a illudersi. Emetterla in pratica non significa ripetere lestesse azioni all’infinito, ma significa essere“creativi” (in greco è poieo ).

FA UDIRE I SORDI E FA PARLARE I MUTI

23 a domenica del tempo ordinario7 settembre

Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

1. Circa otto secoli prima di Gesù, Isaiaaveva profetizzato alcuni avvenimenti disalvezza, alcuni “segni” della presenza diDio in mezzo al suo popolo (Is 35,4-7a). Traquesti avvenimenti di salvezza o “segni”,Isaia elenca il recupero della vista per i cie-chi, dell’udito per i sordi, della deambula-zione per gli zoppi e della parola per i muti:“Allora si apriranno gli occhi ai ciechi e sischiuderanno gli orecchi ai sordi. Allora lozoppo salterà come un cervo, griderà digioia la lingua del muto” (Is 35,5-6). Laguarigione del sordomuto nella Decapoli(Mc 7,31-37) non è dunque un avvenimentoterapeutico soltanto.

Si tratta di un gesto salvifico-messianicoe contemporaneamente di un gesto autorive-lativo in quanto manifesta l’identità messia-nica del terapeuta. Non bisogna, inoltre, di-menticare il valore di “adempimento” pre-sente nel “segno” compiuto da Gesù. Dio an-ticipa, attraverso i profeti, scenari e avveni-menti futuri, carichi di salvezza.

2. Il lezionario non ha alterato il testooriginale di Mc 7,31-37. Ha compiuto lasolita aggiunta, “in quel tempo”, comple-tandola, però, con una integrazione: il no-me di “Gesù”.

È importante questa integrazione? Il cicloletterario di Mc 6,30-8,26 è una lunga prepa-razione, attraverso la narrazione di miracolisulla natura, di miracoli di guarigione e di di-scussioni, alla grande e centrale confessionemessianica di Pietro in Mc 8,27-30. La peri-

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cope di Mc 7,31-37, il vangelo di oggi, è unatessera di questo mosaico preparatorio e do-vrebbe essere letto, secondo il testo evangeli-co, come un tema tra i tanti che sinfonica-mente conducono a capire l’intervento delprincipe degli apostoli. Il lezionario, invece,ha scelto il nostro brano come unico testopreparatorio alla confessione apostolica cheverrà proclamata domenica prossima. Ciòpotrebbe indicare che il lezionario liturgicoha letto nell’episodio della guarigione delsordomuto un testo capace in qualche mododi sintetizzare la ricchezza di tutto il ciclo diMc 6,30-8,26 (miracoli sulla natura, miracolidi guarigioni e discussioni).

3. Il testo di Mc 7,31-37 si presenta conalcuni problemi. Il primo riguarda la criticatestuale e il secondo l’itinerario geograficocompiuto da Gesù. Data la soluzione a questidue problemi, si vedrà il tema del silenzioimposto al miracolato.

a) Nella traduzione della C.E.I. troviamoscritto che Gesù “gli pose le dita negli orec-chi e con la saliva gli toccò la lingua”. Que-st’espressione non si trova in alcune tradizio-ni manoscritte dove si possono leggere alcu-ne varianti. In alcuni manoscritti minuscoli sitrova: “Sputò sulle dita e le premette negliorecchi del sordo e toccò la lingua del mu-to”. In altri (tradizione siriaca) si legge: “Pre-mette le sue dita e sputò nei suoi orecchi etoccò la lingua”. In altri manoscritti ancora èscritto: “Sputò e premette le sue dita negliorecchi del sordo e toccò la sua lingua”.Queste varianti probabilmente manifestano ildisagio dei copisti di fronte alla descrizionedei gesti di Gesù. Questi gesti, infatti, pote-vano essere visti come gesti “magici”, tipicidei racconti ellenistici di miracolo dove i ge-sti magici erano accompagnati dalla parola

segreta. A una lettura più attenta ci si accorgeche nel racconto non c’è niente di “magico”.

La “parola segreta” viene tranquillamentetradotta nel racconto e i gesti, che dovrebbe-ro nella mentalità ellenistica dimostrare allagente la potenza magica del taumaturgo,vengono invece fatti “in disparte, lontanodalla folla”. Queste osservazioni permettonodi dire che il testo di Mc 7,31-37 è nato inambiente palestinese (cfr. l’espressione ara-maicheggiante “Effata”), ma è stato traman-dato in una comunità ellenistico-cristiana checoglieva molto bene la profonda differenzafra le guarigioni di Gesù e quelle raccontatenel mondo ellenistico.

b) L’itinerario geografico presentato inMc 7,31 è a dir poco stranissimo. Il tragittodescritto dal testo equivarrebbe a un percorsoda Milano a Bologna, passando per il Friuli.Ciò starebbe ad indicare due possibilità: lacomunità che ha tramandato il testo non co-nosceva lo scenario geografico dove Gesù simuoveva, oppure il racconto era stato tra-mandato senza “cornice geografica”, che ilredattore si è premurato di creare. Egli pro-babilmente si rifà al fatto che Gesù sarebbearrivato a Sidone (cfr Mc 3,8) e avrebbesvolto parte del suo apostolato anche nellaDecapoli (cfr Mc 5,20).

Altri studiosi pensano che dietro al ver-setto si possa nascondere la memoria di unviaggio di Gesù fuori della Palestina di cui,però, non c’è più il ricordo esatto del percor-so. L’indicazione geografica potrebbe na-scondere più semplicemente l’adempimentodella profezia isaiana: il popolo della Galileaavrebbe visto una grande luce.

c) Evidenziato il valore profetico del-l’inquadramento geografico e dei gesti ap-parentemente “magici”, resta da capire il

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valore della proibizione di Gesù e della fe-lice “disobbedienza” che si esprime conuna citazione esplicita, ma non letterale, diun brano di Isaia (Is 35,5-6).

Il silenzio imposto da Gesù (segretomessianico) a coloro che gli avevano porta-to il sordomuto, adesso guarito, aveva loscopo di obbligare i contemporanei a “ri-modellare” il concetto scorretto di Messiache avevano in mente. Tale azione di rimo-dellamento andava fatta, secondo Gesù, at-traverso due elementi: la contemplazionedel Maestro (attraverso le sue parole, le sueazioni e la sua morte-resurrezione) e lascelta radicale di collocarsi alla sua sequela(imitazione del Maestro fino alla fine). Nonera possibile “concettualizzare” l’idea delMessia, ma bisognava scoprirla nella con-templazione di Gesù e intesserla nella pro-pria vita attraverso la sequela.

Per l’evangelista il segreto messianicoha probabilmente un valore aggiunto: la ri-velazione di Dio in Gesù si fa strada conpotenza. Chiunque, infatti, può notare nellastringatezza del racconto la forte antitesitra il comando di Gesù e la “disobbedien-za” della gente. Tale “disobbedienza” vienepresentata attraverso lo stupore che spingea proclamare l’accaduto attraverso la cita-zione, con carattere allusivo, di Is 35,5-6.Tale citazione, messa in bocca alla follaproprio a questo punto del racconto, appareonestamente come una vera confessione difede in Gesù e non come semplice manife-stazione di stupore.

A Gesù vengono attribuite le caratteri-stiche di Dio: ha fatto bene ogni cosa (siricordi l’espressione simile presente nelracconto della creazione di Gn 1,31, ecc.)ed è il salvatore (cfr Is 26,19). In Gesù,dunque, Dio creatore e salvatore si è fattopresente.

4. Il lezionario associa Is 35,4-7a al testoevangelico di Mc 7,31-37 per due motivi.La reazione della folla al miracolo dellaguarigione del sordomuto si concretizzanella citazione allusiva di Is 35,5-6: il testoisaiano, dunque, ha un valore di profezia,adempiuta dai miracoli di Gesù. C’è inoltreda ricordare che già la tradizione evangelicaricordava come Gesù stesso, rispondendoaffermativamente ai discepoli di Giovanni(Mt 11,5; Lc 7,22) sulla sua identità messia-nica, presentava i suoi miracoli come adem-pimento di quanto veniva “profetizzato” daIs 35.

Il brano di Is 35,4-7a faceva parte dell’“incoraggiamento profetico” nei confrontidegli abitanti di Giuda. Costoro erano statiinvasi e vinti da nemici feroci (Edom?) cheavevano lasciato dietro a sé distruzioni emorte. Dopo una profezia di condanna con-tro i nemici (Is 34), il profeta pronuncia laprofezia consolatoria di speranza: la situa-zione di dolore verrà completamente ribal-tata da Dio salvatore. Il cambiamento si ar-ticolerà in tre direzioni. Prima ci sarà il mo-mento consolatorio, poi ci sarà la vendettae, infine, la salvezza.

La salvezza viene tratteggiata come unripristino della pienezza della vita: i ciechivedranno, i sordi udranno, gli zoppi salte-ranno, i muti parleranno, il terreno arido di-venterà ricco d’acqua. Per alcuni autori sitratterebbe della descrizione di una “guari-gione” completa compiuta da Dio nei con-fronti delle mutilazioni fatte dai nemici sul-le persone vinte (strappo degli occhi e dellalingua, bruciatura degli orecchi, taglio deitendini) e sul territorio (interramento deipozzi d’acqua, deviazione dei canali, ecc.).Per altri, invece, la descrizione del ripristi-no della pienezza della vita equivale a unavera e propria “nuova creazione”. Sulla li-

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nea di questa seconda interpretazione tro-viamo il Nuovo Testamento. Marco, ag-giungendo all’allusione isaiana di Is 35 iltratto letterario tolto da Gen 1 (“ha fatto be-ne ogni cosa”: Mc 7,37), afferma che inCristo si fanno presenti la nuova creazionee la salvezza.

5. Il Sal 145, è un inno di lode che illu-stra l’attuazione del Regno divino. Nei po-chi versetti scelti come salmo responsoriale(Sal 145,7;8-9a; 9bc-10) il salmista loda ilSignore perché opera in favore dei deboli(oppressi, affamati, prigionieri, stranieri, or-fani, vedove), dei malati (ciechi), di coloroche socialmente possono essere dei falliti(chi è caduto) e di coloro che vivono unavita spirituale impegnata (giusti). Lo lodaanche perché Dio “sconvolge la via degliempi”. Nella sintesi teologica del salmistaviene attribuito a Dio non solo ciò che Eglicompie direttamente, ma anche quello cheEgli compie attraverso i suoi fedeli.

6. La colletta generale (sacr. Gelasianon. 522) allude, nell’amplificazione della pe-tizione, all’opera cristologico-pneumatolo-gica presente nei miracoli (“che ci ha i do-nato il Salvatore e lo Spirito Santo”). È no-ta, infatti, l’affermazione di Gesù riportatain Mc 3,28 (“chi avrà bestemmiato controlo Spirito Santo non avrà perdono in eter-no”) dove il Maestro rimprovera gli scribiper la loro ottusità davanti ai miracoli. Essinon vogliono capire che nei miracoli operalo Spirito di Dio, non certo la potenza diBeelzebùl, principe dei demoni. Nel finedella petizione ritroviamo i temi della nuo-va creazione e della salvezza, riformulaticon concetti di tipo paolino: “perché a tutti icredenti in Cristo sia data la vera libertà el’eredità eterna”.

La colletta particolare è completamentepermeata dalle tematiche della liturgia dellaParola. Nell’amplificazione dell’invocazio-ne (“che scegli i piccoli e i poveri per farliricchi nella fede ed eredi del tuo regno”) so-no presentate la vera preferenza di Dio el’autentica identità degli eredi del Regno(citazione presa dalla conclusione della 2°lettura). Nel primo fine della petizione (“adire la tua parola di coraggio a tutti glismarriti di cuore”) la comunità accetta in-condizionatamente l’invito divino detto permezzo del profeta (“Dite agli smarriti dicuore: “Coraggio!...”“: Is 35,4a). Nel secon-do fine della petizione (“perché si sciolganole loro lingue e tanta umanità malata, inca-pace perfino di pregarti, canti con noi le tuemeraviglie”), il testo eucologico in un certoqual modo “spiritualizza” ciò che il salmoresponsoriale aveva velatamente propostocome “impegno concreto” di salvezza.

7. Per questa domenica la liturgia hascelto di proclamare un testo compatto: Gc2,1-5. Il brano costituisce l’inizio della pa-renesi sul tema dei “favoritismi personali”.La fede può accettare solo il criterio di Dio.Egli non fa distinzione fra le persone: fapiovere e fa sorgere il sole indifferentemen-te sul campo del giusto e del buono, dell’in-giusto e del malvagio (cfr Mt 5,45). A mag-gior ragione il credente non può creare di-stinzioni fra le persone nella propria adu-nanza liturgica. Purtroppo nelle assembleeliturgiche cristiane non era così. Il tratta-mento di un ricco era diverso dal trattamen-to offerto a un povero. Tale comportamentodenotava due gravissimi errori per il cre-dente. Non solo egli fa distinzione di perso-ne (ciò che Dio non farebbe mai), ma com-pie un atto peggiore: compie “giudizi per-versi”, cioè non secondo Dio.

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BISOGNA CHE IL FIGLIO DELL’UOMOSIA INNALZATO

Esaltazione della Santa Croce 14 settembre

Nm 21,4-9; Sal 77; Fil 2,6-11; Gv 3, 13-17

1. L’antifona d’introito offre all’assembleacelebrante il tema della festa: “Di null’altromai ci glorieremo se non della croce di GesùCristo, nostro Signore”. Volendo andare oltrebisognerebbe riprendere l’embolismo del pre-fazio che sintetizza la teologia della croce:“Nell’albero della croce tu hai stabilito la sal-vezza dell’uomo, perché donde sorgeva lamorte (albero del paradiso terrestre) di là risor-gesse la vita (albero della croce) e chi dall’al-bero traeva vittoria (il serpente del paradisoterrestre, il demonio) dall’albero (la croce) ve-nisse sconfitto...”

2. Il brano di Gv 3,13-17 appartiene allalunga pericope del dialogo tra Gesù e Nicode-mo. Il taglio della pericope ha voluto eviden-ziare la preesistenza e l’incarnazione (vv. 13),la valenza profetica del segno del serpente dibronzo (vv.14), l’adempimento del segno nellamorte di Gesù (v. 15) e il valore salvifico del-l’amore di Dio che si manifesta nel dono delFiglio (vv. 16-17).

Il testo fondamentalmente è già stato com-mentato per la quarta domenica di Quaresima.

3. Il testo della prima lettura, Nm 21,4-9,narra l’episodio a cui Gesù si è richiamato neldialogo con Nicodemo. Esiste uno stretto lega-me teologico tra l’espressione veterotestamen-taria “se questi guardava il serpente di rame,restava in vita” e il concetto giovanneo di “ve-dere” come atto di fede (cfr Gv 20,8: “vide ecredette”). Esiste anche a livello tematico uno

stretto legame tra il serpente di Gn 3,1-5 cheha dato la morte all’umanità per mezzo delpeccato di Adamo e i serpenti che danno lamorte agli Ebrei per il loro peccato. Esiste, in-fine, un terzo elemento da non sottovalutare. Ilserpente di bronzo viene innalzato per la sal-vezza degli ebrei così come Gesù viene “innal-zato” sulla croce per la salvezza degli uomini.

4. Il salmo responsoriale, Sal 77(78),1-2.34-35.36-37.38, traduce in preghiera l’ascol-to della prima lettura. L’assemblea celebranteviene invitata alla meditazione di quanto haascoltato, come se fosse un “insegnamento”.Gli altri versetti illustrano la continua miseri-cordia di Dio verso il suo popolo. Dietro aquesta preghiera c’è la croce di Cristo, dove il

Crocifisso, anonimo, sec. XVII

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perdono di Dio è sempre presente, senza ira esenza furore.

5. La seconda lettura è costituita fondamen-talmente dall’inno cristologico presente nellalettera di Paolo alla comunità di Filippi, Fil2,6-11. Il commento è già stato fatto nella do-menica di Passione.

6. Il testo della colletta offre un’interpreta-zione importante del mistero della croce: è il“mistero di amore”. Sul calvario Gesù ha con-sumato la sua obbedienza al Padre (cfr. Gv19,30: “Tutto è compiuto”). Era il gesto di amo-re più grande che potesse compiere per l’uomo(cfr. Gv 15,13: “Nessuno ha un amore più gran-de di questo: dare la vita per i propri amici”).L’assemblea, dunque, nella Croce di Cristo ce-lebra l’amore di Dio che non emette sentenze dicondanna sul mondo, ma che invia il Figlio per-ché il mondo si salvi per mezzo di lui.

IL FIGLIO DELL’UOMO STA PER ESSERECONSEGNATO… SE UNO VUOL ESSEREIL PRIMO, SIA SERVO DI TUTTI

25a domenica del tempo ordinario 21 settembre

Sap 2,17-20; Sal 53; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37

1. Il Maestro sta attraversando in incognitola sua patria, la Galilea (Mc 9,30). Si tratta del“cammino” verso Gerusalemme, verso la mortee la risurrezione. In questo percorso Gesù per laseconda volta preannuncia il suo destino. Egli èil giusto (Sap 2,17), mite e “rassegnato”, che gliempi, con atteggiamento di sfida a Dio, voglio-no colpire fino a togliergli la vita. Alla secondaprofezia della passione-risurrezione il leziona-rio ha scelto di associare la massima riguardan-

te l’accoglienza dei bambini. In questo modol’accoglienza del giusto-perseguitato, Gesù ilCristo, non si attua solo con una scelta intima epersonale di discepolato (domenica preceden-te), ma anche attraverso la concreta accoglienzadi tutti coloro che sono “perseguitati” dagli“empi”. I “bambini” sono in questo caso il pro-totipo dei miti, “rassegnati” e perseguitati. Il di-scepolo compie l’accoglienza del Maestro attra-verso l’accoglienza di tutti coloro che sonobambini (miti, “rassegnati”, perseguitati, ecc.).

2. Il testo evangelico scelto dalla liturgia(Mc 9,30-37) incomincia con queste parole:“Partiti di là, attraversavano la Galilea...”. La li-turgia, invece, lo fa iniziare in quest’altro modo:“In quel tempo, Gesù e i discepoli attraversava-no la Galilea”. Questa piccola operazione lette-raria obbliga l’ascoltatore a concentrare la suaattenzione sul legame Gesù-discepoli, trala-sciando i legami narrativi con ciò che precede(Mc 8,36-9,29: il discepolo che si vergogna delsuo Maestro, la trasfigurazione, la domanda sul-la venuta di Elia e l’episodio dell’epilettico gua-rito da Gesù dopo che i suoi discepoli avevanofallito perché non avevano pregato). Se questaoperazione per certi versi impoverisce il temadel discepolato, per altri, invece, lo arricchisce.Andando oltre le regole letterarie per la delimi-tazione del testo, il lezionario associa la perico-pe conclusiva del cammino di Gesù da Cesareadi Filippo alla Galilea (Mc 9,30-32) e la perico-pe iniziale della cosiddetta parentesi di Cafarnao(Mc 9,33-37). Il brano che ne scaturisce presen-ta il discepolato come accoglienza incondizio-nata del Maestro come giusto, mite e persegui-tato, e, conseguentemente, di tutti coloro che so-no “bambini” (giusti, miti e perseguitati).

3. Il brano di Mc 9,30-37 si suddivide indue unità letterarie: il secondo annuncio dellapassione e reazione silenziosa e timorosa dei

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discepoli (Mc 9,30-32); la questione sulla veragrandezza e l’accoglienza dei “bambini” (Mc9,33-37). Come domenica scorsa, anche oggi,la struttura evangelica è la stessa: annunciodella passione, incomprensione-rifiuto dei di-scepoli, ripresa dell’istruzione di Gesù. La pe-ricope verrà esaminata con questa ottica.

a) Il secondo annuncio della passione-risur-rezione (Mc 9,30-31) appartiene alla tradizio-ne premarciana. Ciò che va sottolineato sono iltitolo di Figlio dell’uomo e il verbo paradido-tai-viene consegnato.

* Gesù chiama se stesso con un titolo cri-stologico che non sembra in armonia con ilcontesto. Il Figlio dell’uomo in Daniele è unoche riceve tutto il potere da Dio e diventa in uncerto modo giudice degli uomini e della storia.Nella profezia di Gesù il Figlio dell’uomoverrà giudicato e condannato a morte dagli uo-mini. Sembra, dunque, più pertinente che inquesto caso il titolo di Figlio dell’uomo equi-valga a quello di Giusto. Costui, infatti, neltempo ultimo, quello escatologico, viene ab-bandonato da Dio, che successivamente lo faràrisorgere (cfr Enoc etiop. 38,2; 53,6; 71,14.16;Sap 2,12-20; 5,1-7). Il titolo va, dunque, com-preso alla luce delle riflessioni sapienziali erabbiniche e non profetico- escatologiche.

* Quanto è stato appena detto spiega la formapassiva del verbo (paradidotai-viene consegna-to) dove il complemento d’agente sottinteso èDio (“da Dio”). Nella passione e nella risurrezio-ne del Giusto, dunque, l’azione di Dio è quellaprincipale, anche se non vengono affatto esclusele azioni degli uomini (cfr. il tradimento di Giu-da, i processi, ecc.). Passione e risurrezione fan-no parte di un disegno salvifico divino ben preci-so, anche se per i discepoli momentaneamenterestano realtà difficili da accettare. Solo la fede,

dono divino all’uomo, può accordare il mondointeriore dei discepoli con i progetti di Dio.

La segretezza voluta da Gesù può rientrarenella discrezione del segreto messianico e puòanche indicare la decisione di non essere inter-rotto nel cammino verso il suo obiettivo finale(passione-morte-risurrezione).

b) La reazione dei discepoli (Mc 9,32-34) èin netto contrasto con quanto Gesù ha appenaannunciato. In loro c’è l’incomprensione(v.32) e, da questa, nasce la futile discussionesul più grande (vv. 33-34).

*Marco non sviluppa il tema dell’incom-prensione, ma lo trova già nella tradizione. Ivocaboli, infatti, che esprimono il tema dell’in-comprensione sono agnoeo (non capire) e re-ma (parola). Il primo è un vocabolo usato unasola volta in Marco (un hapaxlegomenon),mentre il secondo, con valore di “profezia”, ri-compare solo in Mc 14,72. Già in precedenzail tema dell’incomprensione era comparso nel-la protesta di Pietro (Mc 8,31-33) e nella do-manda dei tre discepoli dopo la Trasfigurazio-ne (Mc 9,10). Nasce una domanda: i discepolinon capiscono o non vogliono capire?

* L’atteggiamento d’incomprensione gene-ra la discussione su chi fosse il più grande tradi loro. Seguendo la teologia dei rabbini equella di Qumran, i discepoli si chiedevano chitra di loro sarebbe stato collocato nella classeparadisiaca più alta dopo la morte (si pensavache le classi nell’aldilà fossero sette). In tal ca-so i discepoli “non-volevano-capire” la “paro-la” di Gesù perché non erano disposti a rinun-ciare alla vecchia mentalità religiosa che con-cepiva la salvezza e il suo raggiungimento inun modo del tutto opposto a quello di Gesù.

Esiste un altro modo di comprendere la lo-ro discussione. Il testo racchiuderebbe la me-

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moria di atteggiamenti presenti nella comunitàdi Marco; atteggiamenti presenti forse nei re-sponsabili della comunità che avevano dimen-ticato di essere discepoli del Messia “sofferen-te” e “servo” vittorioso.

c) La reazione di Gesù è sapienziale. Ri-prende con pazienza l’istruzione dei discepoli(Mc 9,35-37). Qualunque sia il significato chesi vuol attribuire alla discussione dei discepoli,la risposta di Gesù (‘‘Se uno vuol essere il pri-mo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”) siarticola su due concetti di fondo.

Il primo è un’allusione al servo sofferente(“Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tut-ti”): chi vuol essere il primo accetti di imitare ilMaestro che sta andando a morire. Non si tratta,quindi, di un concetto di “umiltà” di tipo ideolo-gico, ma di un atteggiamento che si potrebbechiamare “imitazione” del Maestro. È l’umiltà oil servizio umile che fa grande il cristiano?

Il secondo concetto si trova espresso neidestinatari del servizio: sono “tutti”. Non siimita il Maestro solo quando capita l’occasio-ne, ma in ogni momento. Ciò toglie il servizioumile da qualunque tentazione di ideologia (il“povero” è quello senza soldi o quello senzafede, il portatore di handicap o l’ignorante,l’abbandonato o il malato?)

Per illustrare il “servizio umile” Gesù com-pie un esempio dal vivo: abbraccia un bambi-no. Il gesto è con ogni probabilità un gesto divalore salvifico o almeno di dedizione e di sti-ma. Nel mondo biblico il bambino viene con-siderato spavaldo e irragionevole, incapace dicapire cose serie, bisognoso di educazione se-vera da parte degli uomini e di Dio (cfr 2 Re2,23-24; Is 3,4; Sir 30,1-13; ecc.). Gesù inqualche modo rovescia questo atteggiamento,pur non negando i limiti del bambino. Rifacen-dosi alla teologia rabbinica circa la figura giu-ridica del messaggero (il messaggero sta al po-

sto di colui che lo invia), Gesù afferma che nelbambino (piccolo, indifeso, ricco di lacune emanchevolezze, pieno di aspetti immaturi,ecc.) è misteriosamente presente Gesù stessoe, addirittura, Dio Padre. Dio, dunque, è pre-sente lì dove i discepoli potrebbero pensare diincontrare solo incompletezza, limite e inutilità(come nel bambino, così anche nella sofferen-za e nella morte del Messia sofferente).

4. Al testo di Mc 9,30-37 la liturgia associail brano sapienziale di Sap 2,17-20. Gli empivogliono eliminare il debole (povero innocen-te, vedova, vecchio) e il giusto (Sap 2,10-20)perché mettono in crisi il criterio di vita degliempi (Sap 2,12-16).

Nella pericope di Sap 2,17-20 l’obiettivodella rabbia degli empi consiste nel voler pro-vare a se stessi quale tesi sia la migliore, la pro-pria o quella del debole-giusto che si affida aDio come padre (Sap 2,16: “si vanta di averDio come padre”; Sap 2,16: “il giusto è figlio diDio”). Il legame tra il brano sapienziale e ilvangelo si trova a due livelli. Per un verso il te-sto sapienziale anticipa ciò che capiterà a Gesù,giusto perseguitato e ucciso dagli empi. Per unaltro verso il testo sapienziale anticipa, nella fi-gura del giusto, la figura del vero credente inGesù: non accetta nessun altro atteggiamentointeriore se non quello del Maestro, si fida to-talmente del progetto divino che passa attraver-so ciò che la mentalità degli uomini rifiuta.

5. Il salmo responsoriale riprende le temati-che della prima lettura e le traduce in preghie-ra. I pochi versetti (Sal 53,3-4;5;6.8 ) sono trat-ti da una supplica individuale. L’orante è iden-tificato con il giusto. È difficile stabilire il si-gnificato liturgico di questo salmo responso-riale. Per un verso il salmo invita l’assembleaa prestare la propria voce a Cristo Signore, ilgiusto (Figlio dell’uomo) che viene perseguita-

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to e ucciso dagli empi (gli uomini). Per un al-tro verso il salmo dona coscienza all’assem-blea circa la propria identità e vocazione (as-semblea di discepoli chiamati a essere “giusti”sull’imitazione del Maestro), a essere cioèl’assemblea di discepoli di Cristo, perseguitatida chi non ragiona con i pensieri di Dio.

6. La colletta generale, composta da due te-sti antichi e liturgicamente differenti (due fa-miglie liturgiche diverse: sacr. di Verona n.493 e Liber Mozarabicus n. 1374), traduce inpreghiera un principio generale, in sé bello efondante, ma non legato tematicamente alladomenica.

La colletta particolare, invece, coglie la ra-dice della duplice tematica evangelica. Nel fi-ne della petizione si trova l’accenno all’acco-glienza della parola di Gesù (“perché accoglia-mo la parola del tuo Figlio”). Questa è la sa-pienza che viene dall’alto e, di conseguenza, sitrova in contrasto con la “mentalità degli uo-mini”. Nel secondo fine della petizione vengo-no presentati i temi della “comprensione” e delservizio, come misura della vera grandezza da-vanti a Dio (“comprendiamo che davanti a te ilpiù grande è colui che serve”).

Nella petizione si coglie il suggerimento del-la seconda lettura (“donaci la sapienza che vienedall’alto”). Il testo eucologico, poi, ha preferitotralasciare la ricchezza della prima lettura, a me-no che non si consideri un recupero del testo sa-pienziale l’amplificazione dell’invocazione (“ODio, Padre di tutti gli uomini”), dove attraversola paternità di Dio viene richiamata la figliolan-za divina del giusto (Sap 2,12). Il testo eucolo-gico, poi, oltrepassa la tematica del lezionario,intrecciando il trema degli “ultimi-primi” e delfanciullo come “misura del Regno”.

7. Il lezionario, tralasciando Gc 2,19-3,15(la fede “operosa” di Abramo, la custodia della

lingua e la falsa sapienza), pone nella sua lec-tio semicontinua della lettera di Giacomo il te-sto di Gc 3,16-4,3. Vengono presentate la verasapienza che viene dall’alto e le sue caratteri-stiche. La vera sapienza è innanzitutto agné. Èuna caratteristica che indica genuinità, autenti-cità, caratteristiche decisamente opposte a tor-tuosità. È, inoltre, legata alla pace. Di tutt’altrotipo sono i frutti delle passioni. Il cristiano,però, sa che le passioni possono tradursi inspinte positive se ben orientate. In Sal 137,8-9l’orante mostra come la vendetta possa tradur-si in preghiera che lascia a Dio il compito difare giustizia.

CHI NON È CONTRO DI NOI È PER NOI.SE LA TUA MANO TI SCANDALIZZA, TAGLIALA

26 a domenica del tempo ordinario 28 settembre

Nm 11,25-29; Sal 18; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48

1. La tematica biblico-liturgica di questadomenica ruota attorno a questa massima diGesù “Chi non è contro di noi è per noi” (Mc9,40). Dio ha un orizzonte ampio nel concepirela salvezza degli uomini. Lo dimostra in modosfumato l’esperienza veterotestamentaria di El-dad e Medad (Nm 11,25-29). Questo orizzonteampio diventa universalistico nell’atteggia-mento di Gesù. Il Signore, infatti, invita aguardare a chi non è discepolo con estremasimpatia, soprattutto quando costui non si col-loca espressamente contro il credente e la co-munità. I discepoli di Gesù devono guardarsinon da chi non è credente, ma piuttosto da chiintende intaccare la loro fede attraverso lo stru-mento più deleterio in mano all’uomo: lo scan-dalo. Purtroppo lo scandalo può venire sia da

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chi si trova fuori della fede, sia da chi è cre-dente. Se esiste una certa inevitabilità nel fattoche qualcuno dia scandalo al discepolo di Ge-sù, è un fatto gravissimo il caso in cui un di-scepolo sia artefice di scandalo per un altro di-scepolo. Per chi dà scandalo, se non si ravve-de, resta solo la Geenna.

2. Il testo greco di Mc 9,38 inizia la perico-pe asindeticamente e dice: efe auto Ioannes(letteralmente: “Disse a lui Giovanni”). LaCEI ha sciolto l’asindeto: “Giovanni gli (= aGesù) disse...”. Il testo biblico-liturgico, inve-ce, preferisce questo incipit: “In quel tempoGiovanni ripose a Gesù dicendo...”. Giovannisembra reagire (“rispose”) a un intervento dia-logico precedente di Gesù. L’intervento dialo-gico, però, non c’è stato e non esiste nel testooriginale. Forse l’intenzione era di collocarel’ascoltatore nella posizione corretta nell’acco-gliere sia il parere chiuso e duro di Giovanni,sia l’intervento aperto e liberante di Gesù.

La soppressione dei vv. 44.46 è una sceltatestuale che considera tali versetti delle sem-plici ripetizioni del v.48, seguendo i migliorimanoscritti.

Il taglio finale della pericope non risponde-rebbe esattamente ai criteri letterari. Il testoevangelico originario avrebbe una divisionepiù consona nelle seguenti pericopi: Mc 9,38-40 (l’estraneo che compie miracoli), Mc 9,41(detto sul bicchiere d’acqua) e Mc 9,42-50(guardarsi dagli scandali). La delimitazionedel brano evangelico operata dal lezionario,Mc 9,38-48, compie due scelte: unisce il temadell’estraneo (Mc 9,38-40) e del dono dell’ac-qua (Mc 9,41) al tema dello scandalo (Mc9,42-48) e toglie a quest’ultimo testo due ver-setti integranti la pericope (Mc 9,49-50).

3. Accogliendo la proposta del lezionario, iltesto di Mc 9,38-43.45.47-48 è facilmente sud-

divisibile in due brani: vv, 38-40 (l’estraneofavorevole) e vv. 41-43.45.47-48 (carità escandalo verso chi crede). Poiché vengono lettiinsieme, il secondo brano sarà condizionatodalla comprensione del primo, che a sua voltaviene condizionato dall’incipit del lezionario(“In quel tempo Giovanni rispose a Gesù...”).

a) La pericope dell’estraneo favorevole aldiscepolo (Mc 9,38-40), si apre con la figuradi Giovanni in primo piano. Egli appare duro eintollerante, viene chiamato, con suo fratelloGiacomo, “figlio del tuono” (cfr Mc 3,17) e inLc 9,54 è ancora lui, insieme con Giacomo, aproporre a Gesù di far scendere il fuoco dalcielo sui Samaritani che avevano rifiutato l’o-spitalità al Maestro.

L’intervento di Gesù si articola in due mo-menti. Nella prima parte il Maestro sembra ri-farsi alla teologia rabbinica secondo la quale“a chi si è fatto del bene, non si fa, subito do-po, del male”. L’estraneo, esorcista in nome diGesù, non è “ostile” ai discepoli proprio per-ché usa il nome di Gesù e, conseguentemente,può essere ritenuto “simpatizzante” nei con-fronti dei discepoli. Se l’estraneo, dunque, fadel bene alla sequela cristiana, non può subitodopo fare del male.

La seconda parte dell’intervento, invece, ac-centua ancora di più il concetto di apertura e ditolleranza. Gesù considera apertamente come“simpatizzante” chiunque non si presenti espli-citamente come nemico. L’affermazione di Ge-sù potrebbe essere compresa pienamente allaluce della comunità di Marco, in situazione dipersecuzione, dove chiunque non fosse dallaparte dei persecutori poteva essere annoveratotra gli amici di Cristo e della comunità perse-guitata. Questa lettura è suggerita dall’uso deipronomi nei vv. 38-40. Giovanni, rivolgendosia Gesù, dice che i discepoli hanno impedito al-l’esorcista di invocare il nome di Gesù “perché

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non ci seguiva” (la traduzione CEI “perché nonera dei nostri” tralascia il valore teologico delverbo greco ekoluthei, verbo della sequela). Cisi aspetterebbe “perché non ti seguiva”. Ancheal v. 40 troviamo una frase (“Chi non è controdi noi, è per noi”) che ci si aspetterebbe formu-lata in prima persona singolare (“Chi non ècontro di me, è per me”; cfr. la versione alla pri-ma persona singolare, sebbene con formulazio-ne opposta, in Mt 12,30 / Lc 11,23: “ Chi non ècon me, è contro di me e chi non raccoglie conme, disperde”). Queste piccole anomalie sonogià state notate nel passato e hanno generatodella varianti testuali interessanti (codice D:“perché non [ti] segue con noi”).

b) Fare del bene o fare del male a un disce-polo di Gesù, non è un fatto indifferente (Mc9,41-48). In questa seconda parte il testo bibli-co affronta queste due tematiche.

* Se chi non è “contro”, è già “a favore”,tanto più sarà a favore colui che fa del bene aidiscepoli di Gesù (perché discepoli di Gesù) an-che con il più piccolo segno di ospitalità, comepuò essere un bicchiere d’acqua. L’affermazio-ne, se legata a quanto già detto per i vv. 38-40,ha un valore notevole: il gesto di ospitalità, an-che piccolo, se fatto in un momento di persecu-zione assume un valore di “scelta” anche daparte di chi non è esplicitamente credente. Se ilgesto favorevole viene fatto nei confronti deldiscepolo bisognoso ci sarà una ricompensa. Sitratta della generosità di Dio nei confronti deldonatore nel giorno del giudizio.

* Nei confronti dei discepoli (“i piccoli checredono”) si potrebbe verificare anche un altrofatto: qualcuno potrebbe invece che aiutarli,scandalizzarli. Il verbo skandalizo-skandalizo-mai indica un’azione che trae in errore nella fedequalcuno, attentando alla sua saldezza e alla suacorrettezza. Soggetto del verbo può essere sia un

non cristiano, sia un cristiano (v. 42: chiunque;vv. 43-48: il cristiano). La ricompensa per lo“scandalo” è un castigo peggiore della morte perannegamento (già ritenuta nel mondo coevo aGesù una condanna vendicativa e una morteatroce): si tratta del castigo eterno (cfr. più avantil’espressione “essere gettato nella Geenna”).

Se colui che dà scandalo ai discepoli è undiscepolo di Gesù, è meglio che sradichi da sétutto ciò che verrebbe condannato nel giudizioe che trascinerebbe nella sentenza di morteeterna tutta la persona stessa. Non bisogna di-menticare, infatti, che nel mondo biblico gliistinti risiedono negli organi umani. Di conse-guenza per sradicare gli “istinti”, che possonoscandalizzare, viene adoperata la metafora del-lo sradicamento dell’organo: mano, piede, oc-chio. Secondo la prassi giuridica, poi, l’ampu-tazione di un organo veniva praticata al postodella pena capitale. Piuttosto, dunque, della“morte eterna” è meglio sottrarre alla personal’organo colpevole. L’obiettivo non è l’equili-brio e la maturazione dell’individuo. L’obietti-vo è giungere alla vita eterna o, meglio, allatotale e completa appartenenza al Regno.

* La morte eterna viene raffigurata dalla“Geenna”, o valle dei figli di Hinnon. Il librodi Enoc la chiama “fossa maledetta” e affermache lì avverrà il giudizio di Dio. Il verme chenon muore e il fuoco che non si estingue sonoimmagini tratte dal testo di Is 66,24. Si tratta dielementi simbolici: verme e fuoco, infatti, nonagiscono insieme. Essi indicano la morte totale(vermi) e la distruzione totale (fuoco). La cita-zione del Trito-Isaia oltre a fornire i simboli,fornisce anche un concetto teologico: il giudi-zio di Dio non è più un gesto chiuso nel tempostorico, ma è un intervento escatologico di Diocon risultanti che si innestano nell’eternità.

4. A Mc 9,38-43.45.47-48 la liturgia asso-cia Nm 11,25-29. Lo spirito presente in Mosè

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viene donato da Dio prima ai settanta anziani epoi ad altri due uomini, Eldad e Medad, chesembrerebbero non esserne stati degni. L’inter-vento di Giosuè presso Mosè possiede trattimolto vicini all’intervento di Giovanni pressoGesù. La risposta di Mosè si pone sulla stessalinea dell’intervento di Gesù. Mosè, infatti, siaugura che Dio effonda lo spirito su tutto il po-polo d’Israele. Dio dona lo spirito a chi vuole,senza nuocere alla autorità e al prestigio di al-cuno.

Non bisogna dimenticare il valore redazio-nale di questo testo, che potrebbe rispecchiarela situazione palestinese all’epoca di Elia edEliseo, quando i circoli profetici cominciaronoa proliferare tra gli Ebrei con grave disappuntoe opposizione delle autorità religiose.

5. Il salmo responsoriale (Sal 18,8;10;12-13; 14) prende l’aspetto di risposta a Giosuè,discepolo di Mosè, e a Giovanni, discepolo diGesù. L’assemblea orante, che presta la suavoce ai due discepoli, impara ad ampliare lapropria visione delle realtà di Dio (“la testimo-nianza del Signore è verace, rende saggio ilsemplice”) in spirito di totale affidamento eobbedienza (“Anche il tuo servo in essi - i giu-dizi del Signore - è istruito”). Il salmo esprimeanche il rammarico per le proprie visioni “pic-cole” delle cose di Dio (“Assolvimi dalle colpeche non vedo”) e il desiderio di ottenere sal-vezza proprio da quell’orgoglio che può nasce-re da una fede non rettamente intesa (“Anchedall’orgoglio salva il tuo servo”). L’assembleaimpara che sarà “irreprensibile” solo quandoavrà i pensieri di Dio (cfr Is 55,10ss.).

6. La colletta generale (sacr. Gelasiano n.1198 e ritocchi dal Messale tridentino n. 418)nella petizione raccoglie il tema centrale delleletture, rielaborando il pensiero di Mosé (“con-tinua a effondere su di noi la tua grazia”).

Anche la colletta particolare, nell’amplifi-

cazione, riprende il tema delle letture: Dioprovvede affinché il suo popolo non manchidella voce dei profeti (“tu non privasti mai iltuo popolo della voce dei profeti”). Nella pe-tizione chiede che lo Spirito venga effuso sul-la Chiesa (“effondi il tuo Spirito sul nuovoIsraele”) e nel fine della petizione si dice:“perché ogni uomo sia ricco del tuo dono”.C’è una certa tensione: lo Spirito viene effusosolo sulla Chiesa e ogni uomo diventa riccodel tuo dono. La tensione forse si stempera lìdove si afferma che l’annuncio evangelico,dono di Dio alla Chiesa e della Chiesa almondo, è per tutti i popoli (“a tutti i popolidella terra siano annunziate le meraviglie deltuo amore”).

7. La liturgia legge come seconda letturaGc 5,1-6, tralasciando Gc 4,4-17. Le ricchezzedel ricco sono ampiamente più ingenti di quel-le di cui può fare uso. Invece di impiegarle perandare incontro ai poveri, i ricchi hanno prefe-rito accumularla e lasciarla intaccare dalla rug-gine. La stessa cosa dicasi per le vesti prezioselasciate divorare dalle tarme. Sono poco sa-pienti. Il Siracide, infatti, insegna che il denarova donato e non lasciato in preda alla rugginesotto la pietra (“Perdi pure denaro per un fra-tello e amico, non si arrugginisca inutilmentesotto una pietra”: Sir 29, 13). Questa remini-scenza anticotestamentaria potrebbe spiegareperché Giacomo parla di “ruggine” per l’oro eper l’argento.

La “ruggine” delle ricchezze testimonierànel giorno del giudizio l’avidità e il crudeleegoismo dei ricchi. Costoro si sono arricchiti ascapito degli altri, sottraendo la giusta paga achi lavora e corrompendo il tribunale contro ilgiusto, innocente e povero. Per questi ricchi c’èsolo il giudizio di Dio, ma anche il castigo avvi-lente: la “ruggine”, come ha divorato le lororicchezze, “divorerà come fuoco” le loro carni.Non è certo questo il modo di essere ricchi.

La parola di Dio celebrata

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Q uando la comunità è radunata, il ministro espone il Santissimo incensando-lo mentre si esegue un canto appropriato. Quindi l’assemblea sosta in si-lenzio.

Guida: Il Signore Gesù ci ha convocati perché nella preghiera enel silenzio dell’adorazione desidera rimanere con noi facendociassaporare nel segreto l’amore del Padre. Siamo cercatori di Dio!Se lo cerchiamo è perché in qualche modo già Lui si è reso pre-sente; abbiamo sperimentato la sua presenza nella nostra vita ne-gli innumerevoli messaggi di speranza seminati nel solco dellegiornate. Il Padre, nel Figlio, per mezzo dello Spirito Santo ci haincontrato fin dall’eternità; ha tessuto la vita di ciascuno in modo

unico e irripetibile. Ci ha fatti come un prodigio! Il Signore conosce ogninostro agire, nulla gli è nascosto. Per questo preghiamo il salmo 138. Ilsalmista avverte che Dio conosce tutto di lui: i suoi movimenti e le sueazioni esteriori, i suoi impulsi intimi, i suoi pensieri, prima che essi sianoespressi.

Il salmo 138 esprime un profondo insegnamento: la nostra esistenza, in ognisuo più piccolo movimento, è avvolta dallo sguardo e dalla presenza di Dio e diCristo.

Salmo 138

1 lettore: Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo.Penetri da lontano i miei pensieri,mi scruti quando cammino e quando riposo.Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua, già la conosci tutta.Alle spalle e di fronte mi circondie poni su di me la tua saggezza,troppo alta, e io non la comprendo.

Veglia di preghieraCercatori di Dio

di suor Clara Caforio ef

Preghiamo

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2 lettore: Dove andare lontano dal tuo spirito,dove fuggire dalla tua presenza?Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi eccoti.Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare,anche là mi guida la tua manoe mi afferra la tua destra. Se dico: “Almeno l’oscurità mi coprae intorno a me sia la notte”;nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno;per te le tenebre sono come luce.

3 lettore: Sei tu che hai creato le mie visceree mi hai tessuto nel seno di mia madre.Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere,tu mi conosci fino in fondo.

1 lettore: Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segretointessuto nelle profondità della terra.Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhie tutto era scritto nel tuo libro; i miei giorni erano fissati,quando ancora non ne esisteva uno.Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio;se li conto sono più della sabbia,se li credo finiti con te sono ancora.

2 lettore: Se Dio sopprimesse i peccatori!Allontanatevi da me, uomini sanguinari.Essi parlano contro di te con inganno:contro di te insorgono con frode.Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano,non detesto i tuoi nemici?Li detesto con odio implacabilecome se fossero i miei nemici.Scrutami, o Dio, e conosci i miei pensieri:vedi se percorro una via di menzognae guidami sulla via della vita.

Preghiamo

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Guida: Il Signore conosce ogni fibra della nostra vita; continuamente ci invita asuperare le nostre resistenze, i dubbi, le mediocrità che portiamo dentro. Il Signoreche adoriamo e cerchiamo è la vera Vita, la speranza che incoraggia ogni sfiducia.

Lettore: Chi sei dunque, mio Dio?Che altro, dimmi, se non il Signore Dio?O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo;misericordiosissimo e giustissimo,lontanissimo e presentissimo; o bellissimo, o fortissimo, stabile e incomprensibile;immutabile e muti tutte le cose;mai nuovo, mai vecchio;tutto rinnovi, ma conduci a vecchiaia i superbi,ed essi non lo sanno; sempre in attività, sempre nella quiete;porti e riempi e proteggi; crei, nutrisci e porti a compimento.Ami senza passione;

sei geloso senza turbamento.Ti adiri nella tua tranquillità; mai avaro eppure esigi ad usura;noi doniamo a Te e nessuno ha cosa che non sia tua. (sant’Agostino)

Canto di meditazione e silenzio prolungato.

Guida: Per incontrare Dio è necessario abbandonare l’uomo vecchio, met-tersi alla scuola dello Spirito creatore e ricevere da lui la spinta a lasciare vizi epassioni per avere in cambio la vita nuova.

Dalla Prima lettera di Giovanni

Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno hapeccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittimadi espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quellidi tutto il mondo.

Da questo sappiamo d’averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamen-ti. Chi dice: “Lo conosco” e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e laverità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramen-

Preghiamo

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te perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui. Chi dice di dimorare in Cri-sto, deve comportarsi come lui si è comportato.

Mentre si esegue un canto si può portare l’incenso deponendolo ai piedi dell’altare.

Guida: La ricerca di Dio coinvolge tutto l’essere; mente, sguardo, cuore…tutto deve porsi sotto una traiettoria precisa. Ci sono molte strade ma non tut-te conducono a Colui che è la vera Via. La bussola che ci consente di non perde-re l’orientamento è la Fede. È a partire dalla fede che inizia e si sviluppa la no-stra conoscenza del Padre.

Dalla lettera agli Ebrei (11, 1-3)

La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelleche non si vedono. Per mezzo di questa fede gli antichi ricevetterobuona testimonianza.

Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola diDio, sì che da cose non visibili ha preso l’origine quello che si vede.

Guida: La fede non è mai un fatto privato, essa acquista senso e fondamen-to se vissuta in comunione con la fede della Chiesa. La Chiesa desiderata e ama-ta dallo stesso Gesù Cristo nostro Signore. Tramite lei l’uomo che cerca dialogacon Dio.

Dalla Prima lettera di Giovanni (5, 20)

Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza perconoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egliè il vero Dio e la vita eterna.

Adorazione prolungata.

Dal Vangelo di Giovanni (6, 44- 47)

Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lorisusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: e tutti saranno ammaestra-ti da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui viene a me. Non chealcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. Inverità in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.

Preghiamo

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Guida: Per conoscere Dio è importante amare; l’amore per lui e per le creaturesono il “lasciapassare” che ci consentono di fare esperienza del suo Volto. Inna-moriamoci del suo Volto che traspare dalla Parola, dai Sacramenti, dalla santaassemblea radunata e da ogni fratello e sorella. La bellezza di Dio si manifestadove l’uomo vive, soffre, spera, lotta per la giustizia e per la pace.

PreghieraDio è bellezza. È questa bellezza a produrre ogni amicizia, ogni comunione. È questa bellezza a muovere tutti gli esseri e a conservarli dando loro il deside-rio amoroso della propria bellezza. (Dionigi l’Areopagita)

L’assemblea risponde alla preghiera con un canto adatto.

Ci uniamo alla preghiera del lettore che proclama (o canta) delle invocazioni trat-te dall’inno akàtistos: è una preghiera molto usata dai cristiani di rito bizantino.Letteralmente akàtistos significa inno che si canta in piedi.

Lettore: “Con l’intelletto l’apostolo Filippo voleva intendere ciò chenon è intellegibile, e disse: Signore, mostraci il Padre. E tu a lui: datanto tempo sei con me, e ancora non hai capito, che il Padre è in me,

e io sono nel Padre? Rinunciando a capire, con timore ti invoco:

Gesù, Dio eternissimo:Gesù, re fortissimo.Gesù, Signore pazientissimo.Gesù, Salvatore misericordiosissimo.Gesù, custode mio buonissimo.Gesù, scaccia le mie trasgressioni.Gesù, liberami dalle mie iniquità.Gesù, mia speranza, non abbandonarmi.Gesù, mio aiuto non respingermi.Gesù, mio creatore non dimenticarmi.Gesù, mio pastore non lasciarmi perire.Gesù, figlio di Dio, pietà di me”.

Secondo l’opportunità, se a presiedere è un ministro ordinato, rivolge una riflessione sulleletture proclamate ai presenti. Conclude poi con la preghiera del Padre nostro, benedice l’as-semblea e ripone il Santissimo Sacramento mentre si esegue un canto eucaristico.

Preghiamo

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Per questa veglia di preghiera mariana si può mettere in rilievo la Parola di Dio, che saràintronizzata e incensata.

Guida: Maria è colei che più di ogni altra creatura ha meditato e interiorizzato laParola, che in Lei è divenuta carne. Il Verbo di Dio ha preso dimora nel suo grembo;nel seno di Maria trova posto l’umanità che rinasce, e tramite lei tutta la terra puòesultare di gioia. Il Magnificat è diventato il canto che la Chiesa canta nellaliturgia di Vespro; è la preghiera della Chiesa che esulta nel suo Signore.Alla preghiera di tutta la Chiesa che ovunque in ogni parte del mondo in-nalza il cantico di lode uniamo anche la nostra voce.

Tra solista e assemblea si canta il Magnificat:

Cantico di Maria

L’anima mia magnifica il Signoree il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore,perché ha guardato l’umiltà della sua serva.D’ora in poi tutte le generazionimi chiameranno beata.

Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotentee Santo è il suo nome:di generazione in generazione la sua misericordiasi stende su quelli che lo temono.

Ha spiegato la potenza del suo braccio,ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore.Ha rovesciato i potenti dai troni,ha innalzato gli umili.

Ha ricolmato di beni gli affamati,ha rimandato i ricchi a mani vuote.Ha soccorso Israele suo servo,ricordandosi della sua misericordia,come aveva promesso ai nostri padri,ad Abramo e alla sua discendenza per sempre.

Guida: Maria canta per noi e con noi la vittoria dell’uomo redento. Dalla vo-ce di quest’umile creatura sgorga un grido d’esultanza, in lei la debolezza di-venta forza, il dubbio diventa certezza d’essere amata, la fatica riposo. La storia

Preghiamo

Veglia Mariana Il Magnificatdi suor Clara Caforio ef

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degli affaticati trova ristoro nel grembo di Maria che ha detto Sì a Dio. E’ laterra stessa che si rallegra e magnifica il Signore.

Preghiera1 lettore: O Maria il tuo semplice sì ha preannunciato i cieli nuovie la terra nuova in cui godremoin novità di vitala libertà dei figli di Dio.Nell’attesa cosmicadella novissima liberazioneanche noi gemiamotra le pressure dell’esodoe sospiriamo le ali della colomba.Immetti, Madre beata, nel tuo sì il mioperché tuo figlio sia pure mio figlio,i tuoi figli miei figli e li ami col tuo amore teologale,le tue sollecitudini immediate,la tua chiarezza epuratrice,le tue predilezioni evangeliche,la tua gelosia divina, la tua libertà di Madre di Dio.

(Maria Oliva Bonaldo)

Guida: La storia della salvezza conosce donne che, nonostante la sterilità, l’in-capacità di generare la vita sono fiduciose nell’intervento gratuito di Dio. La sup-plica di Anna raggiunge la misericordia di Iahwè; la sua preghiera è quella di tutticoloro che attendono la possibilità di una fecondità che sentono di non avere.

Cantico di Anna

Il mio cuore esulta nel Signore,la mia fronte si innalza grazie al mio Dio.Si apre la mia bocca contro i miei nemici,perché io godo del beneficio che mi hai concesso.Non c’è santo come il Signore,non c’è rocca come il nostro Dio.Non moltiplicate i discorsi superbi,dalla vostra bocca non esca arroganza;perché il Signore è il Dio che sa tuttoe le sue opere sono rette.L’arco dei forti si è spezzato,ma i deboli sono rivestiti di vigore.I sazi sono andati a giornata per un pane,mentre gli affamati han cessato di faticare.

Preghiamo

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La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita.Il Signore fa morire e fa vivere,scendere agli inferi e risalire.Il Signore rende povero e arricchisce,abbassa ed esalta. (1Sam 2,1-7)

Guida: La meraviglia di Maria è superiore a ogni altro stupore, più di quelladi Sara, di Anna, di Elisabetta e di ogni altra donna, poiché in lei si è compiel’antico prodigio: una vergine concepisce il Figlio di Dio e nel Figlio dona la vitaa tutta l’umanità.

Preghiera

1 lettore: “Santa Maria, donna dei nostri giorni, dandoti per nostra madre,

Gesù ti ha costituita non solo conterranea di tutti, ma prigioniera nel-lo stesso frammento di spazio e di tempo. Nessuno, perciò, può adde-bitarti distanze generazionali, né gli è lecito sospettare che tu non siain grado di capire i drammi della nostra epoca.

Mettiti, allora accanto a noi e ascoltaci mentre ti confidiamo le an-sie quotidiane che assillano la nostra vita moderna: lo stipendio che non basta,la stanchezza da stress, l’incertezza del futuro, l’instabilità degli affetti, l’educa-zione difficile dei figli, la frammentazione assurda del tempo, la tristezza dellecadute, la noia del peccato.

Facci sentire la tua rasserenante presenza, o coetanea dolcissima di tutti” (Da don Tonino Bello, Maria, donna dei nostri giorni).

Al canto segue una breve riflessione personale silenziosa.

Guida: I potenti della terra di ogni tempo non sono che “pula che il ventoprima o poi disperde”. I regni di questo mondo sono effimeri, come vane sonole superbie degli uomini. Maria canta convinta che i padroni delle tenebre sonorovesciati dai troni mentre gli umili vengono innalzati. Il profeta Isaia già loaveva predetto.

Dal libro del profeta Isaia (25, 3-5)Per questo ti glorifica un popolo forte, la città di genti possenti ti venera.

Perché tu sei sostegno al misero, sostegno al povero nella sua angoscia, riparodalla tempesta, ombra contro il caldo, poiché lo sbuffare dei tiranni è comepioggia d’inverno, come arsura in terra arida il clamore dei superbi,

Tu mitighi l’arsura con l’ombra di una nube, l’inno dei tiranni si spegne.

Guida: Ci uniamo alla lode del salmista che invita coloro che amano il Signo-re a lodare il suo nome in ogni tempo e in ogni luogo. Il Signore si prende cura

Preghiamo

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del povero e lo solleva dalla sua miseria; conforta la donna sterile e le dona lagioia di una fecondità materna.

Sia lodato il nome del SignoreLodate, servi del Signore,lodate il nome del Signore.Sia benedetto il nome del Signore,ora e sempre.

Dal sorgere del sole al suo tramontosia lodato il nome del signore.Su tutti i popolo eccelso è il Signore,

più alta dei cieli è la sua gloria.

Chi è pari al Signore nostro Dioche siede nell’altoe si china a guardarenei cieli e sulla terra?

Solleva l’indigente dalla polvere,dall’immondizia rialza il povero,per farlo sedere tra i principi,

tra i principi del suo popolo.

Fa abitare la sterile nella sua casaQuale madre gioiosa di figli.

Guida: L’obbedienza di Maria ha rinnovato la misericordia di Dio per l’uma-nità; l’ascolto assiduo della Parola è divenuto in lei frutto. Tutte le generazionila proclamano beata.

PreghieraNon è su una generazione, né su due, né su tre, che si estende la misericordia di Dio;essa si estende eternamente di generazione in generazione.Per coloro che lo temonoha dispiegato la potenza del suo braccio.Anche se sei debole, se tu ti accosti al Signore,se avrai timore di lui, potrai udire la promessacon la quale il Signore risponde al tuo timore.Qual è dunque questa promessa?Dice: per coloro che lo temono s’è fatto potenza.La forza e il potere sono attributi regali.Ebbene, Egli ti comunica la sua forza e le sua potenza,egli ti dà il suo regno, se tu temi Dio. (Origene)

Preghiamo

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il cameratismo e in cui la scelta dellevoci viene fatta alla buona.

Nel secondo caso, specialmente seci sono di mezzo enti pubblici e seri, siconfigurerà un coro piùorientato al professionismo,basato su intendimenti mu-sicali ben precisi.

In ogni caso è chiaro cheda queste scelte rimane fissa-ta la fisionomia del coro na-scente, la sua capacità, il suo“identikit”. È opportuno quindi proce-dere con cautela attraverso selezionisevere, anche tra i cori amatoriali.

È altrettanto ovvio che bisogna sa-pere in partenza il tipo di coro che sivuole fondare, a quale repertorio ci sivuole dedicare: un coro liturgico, dacamera, per musica antica, da teatro,popolare, folkloristico, madrigalistico,“tuttofare”. La selezione delle voci, illoro numero è in parte condizionatodagli scopi che ci si prefigge.

Come si procede in una audizione,come si sceglie e valuta una voce? Bi-sogna ascoltare il candidato, metten-dolo a suo agio il più possibile, cercan-do di individuarne le qualità musicalie vocali evidenti o nascoste.

Accertare innanzitutto l’intonazio-ne, la qualità di base, la “conditio si-

Continuiamo la lettura del Donella,avvalendoci delle sapienti indicazionicirca la selezioni delle voci, momentodelicato e irrinunciabile per una buo-na partenza di un qualsiasi gruppo co-rale. Condividiamo tutte le indicazionidel maestro, soprattutto quelle che ri-guardano la serietà e professionalitàminime indispensabili per la selezionee inquadramento delle voci.

Per formare un coro occorrono le vo-ci, tante o poche a seconda del tipo diorganico che si intende impiantare. Levoci vanno reclutate e selezionate. (…).

Comunque la conoscenza dei giustimeccanismi vocali dovrebbe essere pertutti, indistintamente, uno stimolo adattuarli; quello è l’ideale, ognuno lorealizzerà al meglio che può, nella mi-sura in cui ne è capace.

Ci sono due maniere di selezionaree reclutare le voci:

1. un gruppo di amici appassionati,ma generalmente ignari di musi-ca, si mettono insieme, vanno incerca di un maestro – non sem-pre preparato nel campo corale– e si affidano a lui.

2. una istituzione pubblica o priva-ta (ente, teatro, una cappella…)organizza una audizione, o unvero e proprio concorso.

Nel primo caso avremo il tipico co-ro dilettante in cui prevale l’amicizia,

Reclutamentoe selezione delle voci di don Daniele Albanese

Pregarcantando

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ne qua non”, con l’attenzione a noningannarsi: può succedere di scambia-re per non intonato un individuo sol-tanto intimorito o vergognoso, oppu-re arrugginito per non aver mai can-tato. Riascoltandolo più volte e in va-rie occasione ci si può fare un’ideapiù precisa.

Trattandosi di ragazzi, un giudizioal primo ascolto è ancora più proble-

matico; all’inizio appaionotutti estremamente grezzi,come stonati, selvaggiamen-te impostati. In compenso, sec’è, la vocina balza fuori conrelativa facilità, dopo breveesercizio.

È intonato l’individuo cheriesce a mantenere il “punto

di intonazione” durante tutta l’esecu-zione di una canzone che già conosce,o di una breve melodia che gli si pro-pone. Se invece barcolla, se perde l’e-quilibrio tonale crescendo o calando,c’è senz’altro da pensare che gli difet-ti l’intonazione.

La prova dell’orecchio presupponel’intonazione, ma è qualcosa di diver-so, nel senso che indaga ulteriormen-te sulle capacità di percezione dei suo-ni, della loro immediata assimilazioneed esatta riproduzione. Si faccia dun-que sentire con uno strumento qual-che nota isolata nella tessitura media,poi un intervallo (ascendente e discen-dente, allargandolo gradatamente),indi una sequenza di tre-quattro notecongiunte e disgiunte (es. mi [1° rigo]fa sol do, tutte semiminime) infinequalche passaggio cromatico e si esigasempre la ripetizione di quanto è sta-to dettato. Non occorre che il candi-

dato dica il nome delle note, le puòsolo accennare con una vocale.

Prova del ritmo: ribattere una notadel pianoforte, oppure scandire conun’astina (va bene anche una matita)sonora alcune figure ritmiche via viasempre più complesse chiedendo di ri-produrle con lo stesso sistema.

Quella del ritmo è una qualità in-dubbiamente apprezzabile, ma sitenga presente che la letteratura co-rale (salvo forse qualche volta quellacontemporanea) non prevede casi rit-mici particolarmente difficili. Il cori-sta del resto non esegue mai da solo;può sempre appoggiarsi alla massaqualora rivelasse incertezze in talsenso. Supposto però che possegga inmisura compensativa tutte le altrequalità.

Accertamento dell’estensione voca-le al fine di inquadrare l’aspirante inuna delle sezione di cui si compone ilcoro. Le estensioni ideali delle singolevoci: (soprano: dal do centrale fino alsol-la sopra il rigo; contralto: da fa-solsotto il rigo al mi fa-sol del 4° spazio-5° rigo del pentagramma; tenore: daldo centrale fino al la sib sopra il rigo;basso dal mi-fa sotto il rigo al re misopra il rigo).

Il timbro è la qualità che maggior-mente caratterizza e “personalizza”una voce; è il suo colore, la sua naturache la fa diversa da mille altre. Traestensione e timbro non c’è perfettacoincidenza: uno può vantare esten-sione da tenore e avere timbro di ba-ritono; una corista potrebbe possede-

Pregarcantando

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re estensione da soprano ma nellostesso tempo capacità di toccare age-volmente e col colore corrispondente,le note del contralto. In questi casi, al-meno nel coro, dovrebbe prevalere ilcriterio del timbro, per il semplice mo-tivo che occorre ottenere una reale esensibile caratterizzazione delle singo-le sezioni. Un coro modernamente in-teso non ha senso se non si può di-sporre di colori ben definiti e dei con-trasti che ne possono derivare.

Per ultimo non si trascuri di inda-gare con discrezione su eventuali di-fetti della voce (voce nasale, guttura-le, …) o degli organi fonatori in gene-re, compreso il meccanismo della re-spirazione (da cui la capacità o menodi tenere il fiato, di cantare legato,ecc.) sapendo distinguere quelli cor-reggibili con lo studio da quelli conge-

niti o talmente evidenti da scoraggia-re già in partenza ogni tentativo di ri-cupero.

Trattandosi di dilettanti, cioè dielementi che non verranno in nessu-na maniera impegnati in un contrat-to, è bene accertarne la buona vo-lontà e l’effettiva disponibilità a par-tecipare alle prove necessarie e alleesecuzioni; che non esistano impedi-menti dovuti a impegni dilavoro o a inconciliabili do-veri familiari. Si usa richie-dere (sulla parola natural-mente, nei cori amatoriali)disponibilità e fedeltà peralmeno due anni, salvo cau-se di forza maggiore. In untempo minore difficilmenteil neo-corista dilettante riesce a com-binare qualcosa.

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I n piena estate la Chiesa e la famigliafrancescana donano al popolo di Diodi dissetarsi ad un’acqua sorgiva, uti-

le et humile et preziosa et casta1: la riccaspiritualità di sorella Chiara d’Assisi, di

cui quest’anno celebriamo il750° anniversario del beatotransito.

Chiara nasce nel 1193/94 daOrtolana e Favarone di Offre-duccio, una famiglia nobile trale più potenti della città. Dimesser Favarone conosciamopoco o nulla, mentre Ortolana èmolto presente nella formazio-

ne della figlia. Profondamente religiosa, letrasmette i principi della fede e delle virtùe la indirizza sulla via di una pietà teneris-sima e di una grande carità.

Assisi, cittadina feudale,era in quel tempo attraver-sata e scossa dai primi fer-menti popolari che inaugu-ravano l’era dei comuni: lamassa del popolo minuto,costituito dai poveri , gl ioperai, i “servi della gleba”,apparteneva ai cosiddettiminores che trovavano la lo-ro sussistenza e la loro sicu-rezza nella subordinazioneai ricchi e nobili signori feu-dali, i maiores, dei quali col-tivavano le terre e ai qualigiuravano fedeltà economi-ca e sociale. Tra queste famiglie vi eraanche quella di Chiara e dello zio Monal-do, probabilmente il primogenito che,come capo della famiglia, teneva alto

l’onore del potente casato. Su tutti,maiores e minores, dominava dalla Roccadi Assisi il duca Corrado Urlingen, luogo-tenente di Federico Barbarossa.

Contro queste famiglie vi era statauna vera e propria guerra civile: Chiara,ancora bambina, fu costretta all’esilionella vicina Perugia insieme con la sua fa-miglia, a causa della rivolta dei borghesie la conseguente cacciata dei nobili. Pro-babilmente fu proprio in quegli stessi an-ni (1202 – 1209) che, dalla parte oppostadel campo, combatteva Francesco, il fi-glio del ricco mercante Pietro Bernardonedi Assisi. In questo periodo la famiglia diChiara venne ospitata nella casa paternadi Benvenuta da Perugia che l’avrebbepoi seguita nella prima fraternità a SanDamiano. La stessa Benvenuta, con Filip-

pa, esule anche lei a Peru-gia, deporrà nel processo dicanonizzazione sulla pietà el’amabilità di Chiara in ognisuo comportamento2. Inquesto periodo Chiara faràper la prima volta l’espe-rienza di essere pellegrina eforestiera, tema importantenella sua spiritualità.

Ritornata ad Assisi nel1205, Chiara riprende la suavita ordinata e serena sottolo sguardo di mamma Orto-lana che svolgerà un ruolodecisivo nella sua educazio-

ne. Infatti, anche lei proveniente da unafamiglia aristocratica, aveva molto viag-giato e partecipato ai tradizionali pelle-grinaggi del tempo a Roma, San Giaco-

Santa Chiara d’Assisi11 agosto

delle Clarisse Cappuccine di Mercatello sul Metauro (PU)

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mo di Compostela, San Michele sul Gar-gano e in Terra Santa. “La testimonianzadi Ortolana così come riportata da soraCecilia al Processo di canonizzazione dàtutto lo spessore della vita di questadonna che, esposta al rischio della vitanel suo primo parto, si rivolge alla croce.(…) Qui Ortolana si rivela donna dellanuova religiosità: non si rivolge infattiad un santo o ad un altro, ma diretta-mente alla croce. (…) Ode una voce chele dice che partorirà una grande luce cheilluminerà il mondo intero. (…) Il nomeche ella volle dare a sua figlia una voltavenuta alla luce, “Chiara”, conserva il ri-cordo di questa voce”3. Vediamo così inOrtolana una spiritualità non comune: ladevozione al Crocifisso, che solo nel XIIIsecolo entrò a far parte della liturgia.

La santità di Chiara compare fin dallasua giovinezza, come emerge dalle varietestimonianze al Processo: il vecchio ser-vo della famiglia di Offreduccio, Giovan-ni di Ventura, ricorda l’alto tenore di vi-ta che si conduceva in casa. Tuttavia,dalla ricca mensa familiare Chiara sape-va riservare segretamente la sua parteper mandarla ai poveri. Inoltre, sotto gliabiti preziosi portava una veste di stami-gna, la veste dei servi. Lo stesso testimo-ne riporta ancora che “essa digiunava estava in orazione e faceva le altre operepietose come lui vide; e che se credevache dal principio fosse stata ispirata dal-lo Spirito Santo”4. Bona di Guelfuccio ciricorda che, essendo ancora nel secolo,una volta Chiara stessa le diede “unacerta quantità de denari e comandolleche li portasse a quelli che lavoravano inS. Maria della Porziuncola, ad ciò checomperassero della carne”5; ”era ritenu-ta santa da tutti quelli che la conosceva-no e questo era per la molta onestà del-la vita”6; “era una giovane prudente deetade de circa diciotto anni e stava sem-

pre in casa… non volendo essere vedutada quelli che passavano innanti alla casasua. Era anche molto benigna et atten-deva a le altre opere buone”7, al contra-rio di altre donne aristocratiche dellasua età che, vivendo all’interno dellacultura cortese cavalleresca, dovevanocorrispondere a alcuni modelli di com-portamento ritenuti leciti, ma forse pocoprudenti8.

Quando si trattò di darla in sposa,uno dei suoi pretendenti, Ra-nieri di Bernardo, testimoniòla tenacia e la fermezza diChiara che non solo rifiutò piùvolte l’offerta di matrimonio,ma “predicava a lui el disprez-zo del mondo”9. Un altro pre-tendente, Pietro de Damiano,conferma quanto detto da Ra-nieri: l’incrollabile volontà diChiara di “permanere in verginità e vive-re in povertà, come da poi dimostrò,però che vendette tutta la sua eredità ela dette a li poveri”10. Chiara doveva ave-re circa 17-18 anni e probabilmente, sul-l’esempio della madre rimasta vedova,aveva già scelto quella forma di vita pra-ticata in quel tempo da altre giovanidonne in tutta Europa: le mulieres reli-giosae, o beghine, donne coniugate ovedove che continuavano a vivere nel se-colo, pur conducendo vita penitente.

Alcuni anni prima (1206) Francesco, fi-glio di Pietro di Bernardone, uno dei piùricchi mercanti di Assisi, al termine diuna crisi profonda e misteriosa aveva ab-bandonato la casa paterna e i sogni ca-vallereschi per seguire le orme del Signo-re Gesù. Aveva intrapreso questa stradain umiltà e penitenza da solo ma benpresto altri giovani, attratti dalla radica-lità del suo stile di vita evangelica, loavevano seguito.

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Molto probabilmente anche in casa diFavarone si parlò di Francesco: pure un cu-gino di Chiara, Rufino, si era unito a luinel 1210 circa. In quello stesso anno Fran-cesco aveva predicato la Quaresima nellaCattedrale di Assisi, vicino alla casa diChiara, la quale, rimasta molto colpita dal-la sua parola semplice e ardente, cercheràdi incontrarlo più volte di nascosto, incompagnia della sua amica Bona di Guel-fuccio. Nei loro colloqui “Francesco la

esorta a disprezzare il mondo,(…) instilla nelle sue orecchie ladolcezza delle nozze con Cri-sto…”11. Chiara mossa dallo Spi-rito Santo, decise di seguireFrancesco nella stessa vita di po-vertà, sulle orme del Crocifissopovero e dietro suo consigliofuggì dalla casa paterna nellanotte del 28 marzo 1211, tra la

Domenica delle Palme e il Lunedì Santo,per raggiungere Santa Maria della Por-ziuncola “dove i frati che vegliavano inpreghiera presso il piccolo altare di Dio ac-colsero la vergine Chiara con torceaccese”12.

“La fuga dalla casa paterna è situatain un contesto liturgico: Chiara per ordi-ne di Francesco deve vestirsi elegante eornata per celebrare con tutta la città lagioia dell’ingresso del Signore, ma poidurante la notte, deve abbandonarequella gioia per spogliarsi dei suoi abiti eseguire il Signore”13: quindi, all’inizio del-la Settimana Santa, Chiara riceve la ton-sura da Francesco e inizia il cammino dipenitenza e consacrazione.

Sia Francesco, sia Chiara non sapevanoancora quale fosse il disegno di Dio su dilei e, non potendo seguire i frati itineran-ti, Francesco la condusse a San Paolo delleAbbadesse, il più ricco e importante mo-nastero benedettino a Bastia, non lontanoda Assisi, dove ella rimase come inservien-

te per una quindicina di giorni.La reazione dei parenti non si fece at-

tendere: grande era lo scandalo per la fa-miglia nobile, sia perché Chiara avevavenduto tutta l’eredità per darne il rica-vato ai poveri, sia perché la scelta cheaveva fatto era totalmente opposta allasua condizione aristocratica. Per questomotivo tentarono in tutti i modi di con-vincerla a tornare indietro: sarà qui cheChiara, scoprendosi il capo rasato e ag-grappandosi alle tovaglie dell’altare, di-mostrerà il suo nuovo status.

Quindici giorni dopo, quando Chiarasi era già trasferita a Sant’Angelo in Pan-zo, una chiesetta che ospitava donne pe-nitenti, anche la sorella Caterina, quindi-cenne, la seguirà fuggendo da casa. Lareazione dello zio Monaldo sarà ancorapiù violenta, ma proprio quando ormaiCaterina veniva riportata via a forza, eChiara si era gettata a terra a pregarepiangendo, avvenne un fatto prodigioso:la giovane divenne pesante come piom-bo, tanto che più di dodici uomini nonriuscirono a spostarla. Anche Caterina ri-ceverà la tonsura per mano di Francesco,prendendo il nome di Agnese.

In un secondo momento le due giova-ni sorelle verranno condotte nella chie-setta di S. Damiano: si compiva così laprofezia fatta da Francesco, mentre re-staurava detta chiesa: “fra poco verrannoad abitarlo delle donne, e per la fama esantità della loro vita si renderà gloria alPadre nostro Celeste in tutta la sua santaChiesa”14, come Chiara stessa ricorderànel suo Testamento. Più tardi anchemamma Ortolana e la sorella Beatrice leseguiranno a San Damiano.

Inizia così la vita delle Sorelle Poveresecondo la forma vivendi consegnata daFrancesco: “vivere secondo il Santo Van-gelo”: è questo il cuore che ispirò l’espe-rienza delle “Povere Dame” e, a sua vol-

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ta, la pietra angolare sulla quale si fondòla prima fraternità. Questo rimane anco-ra oggi intatto come contenuto sostan-ziale delle Regole tanto di Francesco,quanto di Chiara.

In poco tempo, dato il numero sem-pre crescente di sorelle che si aggiunge-vano alla primitiva fraternità, sorsero dif-ficoltà di tipo giuridico, anche perché al-l’inizio del XIII secolo c’era stata una verae propria esplosione di piccole comunitàfemminili sorte per tutta l’Europa. Con ilConcilio Lateranense IV (1215) i nuoviOrdini religiosi erano stati costretti adadottare una delle Regole già esistenti eapprovate: quella Agostiniana o quellaBenedettina. Chiara scelse quest’ultima:messa al governo della comunità per vo-lontà dello stesso Francesco, con il titolodi Abbadessa, subito si preoccupò di ot-tenere da Papa Innocenzo III il privile-gium paupertatis cioè il privilegio di vi-vere senza privilegi, il che significava nonavere rendite, possedimenti, doti o qual-siasi altra forma di sicurezza, sia persona-le, sia comunitaria.

In questo privilegium è nascosto il“segreto” delle prime Sorelle Povere: conquesto attestato Chiara avrebbe potutovivere l’originalità di una vita in assolutapovertà, in fraternità e lavorando con leproprie mani.

Poiché in quel periodo proliferavanonuove forme di vita religiosa femminile,il Cardinale Ugolino di Segni, come lega-to pontificio, fu incaricato da Papa Ono-rio III di scrivere una Regola per tutte lo-ro: le cosiddette “Costituzioni ugolinia-ne” del 1219, molto esigenti e rigide so-prattutto per quello che riguardava il si-lenzio e la clausura. Inizialmente a SanDamiano Chiara riusciva comunque a vi-vere il suo carisma grazie al Privilegio del-la povertà. Le Costituzioni ugoliniane co-nosceranno più redazioni fino alla Regola

del 1247 di Papa Innocenzo IV per la qua-le era “lecito ricevere e tenere in comu-ne… redditi e possessi”15.

Questa Regola trovò non poca resi-stenza in quasi tutti i monasteri delle Da-mianite, fino al punto che Chiara volle re-digere una Regola di suo pugno per lafraternità sua e anche per tutte quelleche sarebbero venute dopo di essa. È unadecisione senza precedenti nella storiadella Chiesa: per la prima volta una don-na compone una Regola per al-tre donne, in un periodo in cuisono rare le figure di sante chelasciano testi scritti.

La redazione di questa For-ma di vita, come la chiameràlei, sarà un vero e proprio tra-vaglio fino ai suoi ultimi giorni:la Regola infatti verrà scrittaverso la fine della vita di Chia-ra, dopo almeno 42 anni di vita evangeli-ca sperimentata. In essa ci sono dei con-tenuti nuovi per quell’epoca, che rivelanotutta l’originalità di questa donna dolce eforte allo stesso tempo, chiamata daFrancesco “cristiana”16. Chiara infatti, de-finendosi pianticella del santo padreFrancesco, esprime bene quel rapportoche li unisce anche nella Regola che scrivericalcando quella di Francesco. Pur utiliz-zando la Regola di San Benedetto, le Co-stituzioni di Ugolino, la Regola di Inno-cenzo IV, Chiara inserisce contributi pro-pri e originali - soprattutto relativi alla vi-ta fraterna - che costituiscono una novitàassoluta nella storia della vita religiosa.

La funzione dell’autorità per Chiara èservire sull’esempio di Cristo, che lava ipiedi ai discepoli: “Perché così deve es-sere, che l’Abbadessa sia la serva di tuttele sorelle...”17 ”si studi di presiedere allealtre più con le virtù e la santità della vi-ta, che per la dignità… Sia inoltre provvi-da e discreta, come una madre verso le

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sue figlie… sia ancora tanto affabile e al-la portata di tutte, che le sorelle possanomanifestarle con fiducia le loro neces-sità…”18. La ricchezza spirituale e umanadi Chiara emerge soprattutto nei rappor-ti fraterni, nei quali risplende quella san-ta unità, che fin dall’inizio aveva caratte-rizzato la fraternità nascente.

L’amore reciproco è per Chiara comel’amore materno: “E se la madre ama enutre la sua figlia carnale, con quanta

maggior cura deve la sorellaamare e nutrire la sua sorellaspirituale”19. La vita delle sorel-le condotta “in unità di spirito,mutua carità e altissima po-vertà” (bolla di Innocenzo IV),è basata sulla corresponsabilitàdi tutte per la comune utilità:“Quando qualcuna, per divinaispirazione, verrà a noi con la

determinazione di abbracciare questa vi-ta, l’Abbadessa sia tenuta a chiedere ilconsenso di tutte le sorelle”20. Anche perle responsabili degli uffici interni del mo-nastero, Chiara stabilisce che siano elettecon il consenso di tutte (cfr. Regola, IV).Un’altra novità è quella delle Consigliereche affiancano l’Abbadessa nel governodella comunità.

Chiara, da donna tenace e sicura qualera, con il suo genio organizzativo seppedare un valore autentico al silenzio, allavoro, ai contatti con l’esterno, allaclausura, al digiuno. Non solo nella Re-gola, ma anche nel Testamento, scrittoprobabilmente nello stesso periodo, co-me anche nelle Lettere, Chiara, innamo-rata di Cristo povero e crocifisso, espri-me l’originalità della sua intuizioneevangelica: vivere senza nulla di proprio,in una totale espropriazione che arrivafino alla “restituzione”: “Con quantasollecitudine e con quanto zelo di mentee di corpo dobbiamo osservare i coman-

damenti… per poter restituire, con l’aiu-to di Dio, moltiplicato il talento!”21.Chiara con le sorelle ha promesso di se-guire Cristo sulle orme di Francesco vi-vendo in santissima povertà, e supplicala Chiesa e l’Ordine dei frati minori diaiutarla a restarvi fedele (Test 44-51). Almedesimo tempo - come già Francesco -resterà in atteggiamento di filiale obbe-dienza alla Madre Chiesa.

La scelta della povertà per Chiara nonè un comportamento pauperistico comeper alcuni movimenti del tempo, ma èseguire Cristo povero, il Figlio di Dio chesi è fatto nostra via, come lei stessa af-ferma nel Testamento: per questo Chiaravorrà sempre rimanere in condizione dibassezza, di minorità, senza temere“povertà, fatica, tribolazione, umiliazio-ne e disprezzo del mondo” (Regola, VI),fino alla condivisione totale della vitadei poveri, dei mendicanti, degli esclusi.Chiara sceglie una vita priva di garanzieper il domani, radicata unicamente nellafede e nell’abbandono al Padre delle mi-sericordie, Datore di ogni bene, per vive-re come pellegrine e forestiere in questomondo, con l’unica vera ricchezza che èCristo Signore.

Nessuno riuscirà a mettere in discus-sione questa scelta: il Privilegium pauper-tatis sarà difeso contro tutti, Papi e Cardi-nali compresi: con coraggio Chiara ri-sponderà a Gregorio IX che voleva per-suaderla a ricevere qualche proprietà edera disposto a dispensarla dal voto fatto:“Santo Padre, a nessun patto e mai, ineterno, desidero essere dispensata dallasequela di Cristo!”22.

Con la stessa determinazione, per ilsuo ardente desiderio di martirio, Chiarasarà “tentata” di partire addirittura per ilMarocco dove i primi frati avevano con-fessato la loro fede con la vita (gennaio1220): così pure seppe difendere San Da-

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miano e la città di Assisi dai mercenari sa-raceni assoldati da Federico II, quandoera già gravemente inferma, confidandosolo nella forza dell’Eucaristia (1240).

Donna di grande preghiera, Chiara silascia trasformare dall’amore del Signo-re, come madre, sorella, sposa e discepo-la alla maniera di Maria, e addita alle so-relle ciò che più devono desiderare:“avere lo Spirito del Signore e la sua san-ta operazione (…). A questo spirito e de-vozione devono servire tutte le cose tem-porali”23. Il suo cammino di contempla-zione di Cristo è come un’itineranza nel-lo Spirito, che Chiara esprime scrivendoad Agnese di Praga: “guarda, medita,contempla, desiderando di imitarlo, iltuo Sposo”24.

Questo sguardo contemplativo ab-braccia tutto il mistero di Cristo, dallabeata povertà e santa umiltà dell’Incar-nazione all’ineffabile carità della Passio-ne, come lei stessa scriverà nella sua ul-tima lettera ad Agnese, additandolequello specchio che è il Cristo crocifisso,in cui la invita specchiarsi ogni giorno(Lettera IV, 15).

Dietro il linguaggio di Chiara si intui-sce una preghiera fatta di sguardo rivoltoa Cristo, prolungato fino a suscitare il mo-vimento del cuore: lo sguardo allora sitrasforma in abbraccio. Chiara si stringeallo Sposo per soffrire con Lui e poi re-gnare e godere con Lui. Dalle sue Letteretraspare la testimonianza di una donnache ama in modo assoluto e smisurato ilCristo in tutto il suo mistero: bambino de-posto nel presepe avvolto in poveri panni-celli e povero e crocifisso, inchiodato a unlegno di croce. Attraverso queste espres-sioni si coglie l’intimità sponsale da leiraggiunta: la contemplazione di Cristonella Passione non è mai separata dalleindicibili sue delizie, nelle quali ella puntalo sguardo fino alla Gerusalemme celeste.

L’atmosfera in cui Chiara ormai viveva pie-namente pochi mesi prima di morire tra-bocca dalle sue parole: “L’amore di Luirende felici, la contemplazione ristora, labenignità ricolma, la soavità di Lui perva-de tutta l’anima, il ricordo brilla dolcenella memoria”.

Questa vita consumata dall’amore econformata sempre di più a Cristo ancheattraverso la malattia, durata ben 28 an-ni, porta Chiara all’incontro con lo Sposo.Vive il suo transito da questomondo al Padre come “MatrisChristi vestigium”, improntadella Madre di Dio - come ladefinirà Papa Alessandro IV -per l’umiltà e la povertà di an-cella, per la fecondità della suaverginità sponsale, per la fe-deltà alla sequela di tutto il mi-stero di annientamento di Cri-sto.

Tre giorni prima della morte, suor Ben-venuta, in visione, ravvisò la Vergine Ma-ria chinarsi su Chiara morente ed avvolger-la nel suo abbraccio e nel suo splendidopallio, e così prepararla all’incontro con ilRe della gloria, che ella già vedeva.

Il 9 agosto 1253 ricevette tra le manil’approvazione della sua Forma di Vita(Regola di Innocenzo IV) e più forte dell’a-gonia, mentre traboccava dalle sue labbraun canto sommesso, ma colmo di gratitu-dine, rivolta alla sua anima disse:

“Va sicura… perché Colui che t’ha crea-ta, ti ha santificata e sempre guardandoticome una madre suo figlio, ti ha amatacon tenero amore. E tu, Signore sii bene-detto, che mi hai creata”25.

Questa lode ha il sapore della “resti-tuzione”, sintesi di tutta la sua vita spi-rituale.

“Davanti a sorella morte che vienenella gioia, Chiara rivela il suo essere:

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un arcobaleno di preghiera, una parolad’amore sempre viva davanti all’Altissi-mo, un grazie gioioso e infantile chesboccia tra le più piccole essenziali cosedella vita ed echeggia immenso nel cie-lo del Padre, ed ha nome contemplazio-ne”26.

Il giorno seguente, l’11 agosto 1253,quest’anima beata “vola alla gloria delcielo” (Antifona d’ingresso della messa).Alle sue esequie partecipa il Papa con tut-

ta la corte pontificia, fatto piùunico che raro. Innocenzo IVavrebbe voluto celebrare l’Uffi-cio delle Vergini, anziché quellodei Defunti, ma ciò non fu giu-dicato prudente, anche se appe-na due anni dopo Chiara vennesolennemente proclamata santada Papa Alessandro IV.

“La pienezza della luce divina rendeluminosa Chiara in cielo; le stupende me-raviglie dei prodigi da lei operati la fan-no risplendere quaggiù al popolo cristia-no […] Nulla di strano in questo: perchénon poteva avvenire che una lampadatanto vivida, tanto splendente rimanesseocculta senza diffondere luce nella casadel Signore […] anzi, spezzando dura-mente nell’angusta solitudine della suacella l’alabastro del suo corpo, riempivadegli aromi della sua santità l’intero edi-ficio della Chiesa”27.

L’intercessione e la preghiera nei mo-nasteri clariani continua ancora oggi quel-l’opera di “restaurazione della Chiesa”iniziata da Francesco a San Damiano e ilcarisma di Chiara risplende come specchioed esempio per tutti coloro che vivono nelmondo.

I nostriamici

—————————————1 San Francesco Cantico di Frate Sole, 7.2 Processo, III, 2. 3 M. Bartoli, Chiara d’Assisi, Roma 1989, pp. 45-46.4 Processo, XX, 1-5.5 Ibid. XVII, 7.6 Ibid. III, 27 Ibid. XVII, 48 cfr. M. Bartoli, Chiara, una donna tra silenzio e memoria, Milano 2001, p. 46. 9 Processo, XVIII, 2.10 Ibid. XIX, 2. 11 Leggenda, 5.12 Ibid. 8.13 M. Bartoli, Chiara, una donna tra silenzio e memoria, Milano 2001, p. 61.14 Testamento, 14.15 Regola Innocenzo, 11.16 FF 2682.17 Regola X, 5.18 Testamento, 61-65.19 Regola, VIII, 15.20 Ibid. II.21 Testamento, 18.22 Leggenda, 14.23 Regola, X, 9; VII, 2.24 Lettera II, 20.25 Leggenda, 46.26 Cfr. nota 53, FF 2986.27 Bolla Clara claris praeclara, 1-5.