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QMDF n° 4 – Dicembre 2018—CLUB ALPINO ITALIANO – Sez. VALDARNO SUPERIORE Montevarchi (Ar) - Pag. 1 CLUB ALPINO ITALIANO Sezione Valdarno Superiore—Via Cennano, 105 – 52025 MONTEVARCHI (AR) Tel./Fax 055900682 – Mobile 3425316802 - [email protected] – www.caivaldarnosuperiore.it Dicembre 2018 - Anno 16° - Num. 4- Noziario Trimestrale della Sezione Valdarno Superiore del Club Alpino Italiano—Autorizz. del Trib. di Arezzo n. 12/2001 - Spedizione in A.P. Tariffe stampe Periodiche Arcolo10 DL n.159/2007 conv. L. n. 222/2007 - DC/DCI/125/ SP del 06/02/2002 AREZZO Anno XVI n° 4Dicembre 2018 C.A.I. VALDARNO SUPERIORE Web Magazine CENTO ANNI FA LA GRANDE GUERRA: LE PORTATRICI CARNICHE E MARIA PLOZNER MENTIL.

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Anno XVI — n° 4– Dicembre 2018

C.A.I. VALDARNO SUPERIORE

Web Magazine

CENTO ANNI FA LA GRANDE GUERRA:

LE PORTATRICI CARNICHE E MARIA PLOZNER

MENTIL.

QMDF n° 4 – Dicembre 2018—CLUB ALPINO ITALIANO – Sez. VALDARNO SUPERIORE Montevarchi (Ar)- Pag. 2

IN QUESTO NUMERO:

Arrivano le Feste! Tempo di Bilanci, ma soprattutto tempo di AUGURI ......................................... Pag. 03

Cose di casa nostra ........................................................................................................................... Pag. 04

Vischio, una bacca cara agli dei ........................................................................................................ Pag. 05

Cori e canti di montagna e alpini ..................................................................................................... Pag. 06

Grande Guerra: Le Portatrici Carniche e Maria Plozner Mentil ....................................................... Pag. 07

Chianti sconosciuto e misterioso ..................................................................................................... Pag. 13

Il crisantemo: ritenuto il fiore dei morti, è invece simbolo di vita .................................................. Pag. 17

Notte insonne ................................................................................................................................... Pag. 18

L’anno peggiore della storia dell’umanità? Il 536 d. C. ..................................................................... Pag. 20

L’antica via di pellegrinaggio da Rimini – Sansepolcro - Arezzo ....................................................... Pag. 21

Le foto di “Quelli del Martedì” ......................................................................................................... Pag. 25

Il ghiacciaio della Marmolada .......................................................................................................... Pag. 32

Considerazioni sull’importanza della meteorologia (2° parte) ........................................................ Pag. 36

Il monte Sinai e il monastero di S. Caterina ..................................................................................... Pag. 38

Bianco Salento: Bianche le case, bianche le rocce ............................................................................ Pag. 40

Prati incolti del versante amiatino: Note su alcuni singolari artropodi di interesse naturalistico .. Pag. 44

Il rispetto del mondo vegetale che ci circonda ................................................................................. Pag. 47

L’Appennino, una lunga dorsale montuosa e 220 cime che toccano e superano i 2000 metri ....... Pag. 50

I Mercatini di Natale in Alto Adige ................................................................................................... Pag. 53

Le ricette di… Daniela! ...................................................................................................................... Pag. 59

Calendario Attività Sezionale Luglio – Settembre 2018 .................................................................... Pag. 60

In questo numero la canzone ed il video nascosto sono:

The Drifters - "White Christmas": La trovate cliccando sull’immagine di pag. 3;

Coro La Martinella - “Sul ponte di Perati”- Montecitorio 2011: immagine di pag. 06;

Max Gazzè - Mentre Dormi: immagine di pag. 19;

Louis Armstrong - “What A Wonderful World”: immagine di pag. 49;

Mario Biondi - “Last Christmas”: immagine di pag. 58.

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Arrivano le Feste!

Tempo di Bilanci, ma soprattutto tempo di AUGURI

Anche questo anno si avvicina alla sua conclusione, questo è il tempo dei bilanci del resoconto dell'annata. Da que-

sto punto di vista devo dire che il 2018 è stato un anno veramente eccezionale sotto tutti i punti di vista.

La nostra sezione ha veramente dei soci affezionati e partecipativi, il nostro numero di iscritti si conferma ampia-

mente sopra i 500 e la partecipazione ai nostri eventi è sempre stata ottima, visto che tutte le iniziative hanno avu-

to un buon riscontro; da evidenziare il raduno regionale mountain-bike del 23 settembre a loro Ciuffenna, gite im-

portanti come quella in Sardegna, la Settimana Verde, il Salento, per elencare solo le più importanti.

Anche tutte le altre hanno avuto dei numeri sempre alti, come le attività del gruppo alpinistico che è sempre più

numeroso, per non parlare del gruppo del martedì che ha veramente successo.

Ecco tutto questo grazie a tutti coloro che con il loro impegno permettono che questo si realizzi, concludo chieden-

do a tutti quei soci che possono di dare una mano perché le cose funzionino sempre meglio.

Grazie a tutti e tanti, tanti Auguri a tutti i Nostri Soci alle loro Famiglie!

Buon Natale e Buon Anno!

MARIO BINDI

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Cose di casa nostra

Il programma per il nuovo anno è stato presentato presso la nostra sede. Il calendario è a disposizione dei soci e a

tutte le persone che interessa la nostra attività. Come sempre il nuovo programma comprende numerose, interes-

santi escursioni da uno a più giorni in tutta Italia, l’attività del gruppo alpinistico e quella del gruppo mountain bike.

Negli ultimi tempi sono state diverse le proiezioni di foto realizzate da alcuni nostri soci Cai in gite sociali e in gite

individuali. Poiché la nostra sede è molto adatta per simili proiezioni che attirano sempre numeroso pubblico, si

prevede che la cosa continui anche per il prossimo anno. A chi interessa partecipare controlli spesso l’annunci sul

nostro sito web.

L’eco del successo delle escursioni del martedì è arrivato fino in Australia. Infatti fra i partecipanti assidui del marte-

dì c’è una simpatica signora di nazionalità australiana ma di origine italiana (Signora Mirella Salerni) che partecipa

con il marito. La signora è nata in Australia, parla molto bene l’italiano e ha riferito ai familiari in quella terra a noi

lontanissima questa bella nostra iniziativa escursionistica. Con orgoglio, durante una escursione ha fatto vedere una

foto recente del padre (abruzzese) con il cappello alpino. Infatti il padre è stato fra gli alpini che hanno fatto la

“seconda naja”, quelli che terminato il servizio militare hanno ripreso la valigia e sono emigrati all’estero, mante-

nendo però nel cuore il ricordo della patria

lontana, del proprio paese di origine e facendo

onore all’Italia con il loro lavoro. Il padre vive

sempre in Australia a Melbourne dove, è molto

attiva una delle nove sezioni ANA formate da

emigranti alpini italiani fra cui anche toscani

garfagnini.

Il consiglio direttivo ha deciso di potenziare le

nostre apparecchiature telematiche e di proie-

zione per una migliore funzionalità della sezio-

ne. L’incarico è stato dato al socio Sauro Debo-

lini, molto esperto del settore

Si è svolto all’Accademia del Poggio una confe-

renza sui percorsi storici fra Firenze ed Arezzo.

All’individuazione di questi percorsi storici ha

partecipato la nostra sezione. Verrà fatta una

pubblicazione, già nel nostro sito web è ripor-

tata sulla sezione “percorsi storici” una sintesi

di quello che verrà pubblicato. Di questa ricer-

ca si è occupato il nostro socio Lorenzo Bigi.

Sono state consegnate alla casa editrice ASKA

le foto e i testi per il nuovo libro del CAI sui

castelli della nostra vallata. Il libro sarà in com-

mercio nella primavera del prossimo anno.

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Vischio, una bacca cara agli dei Una tradizione estesa soprattutto nel centro-nord dell’Italia, è che durante le festività di Natale si usa, soprattutto

in montagna, fissare delle fronde di vischio alla porta di casa come talismano contro il malocchio. Inoltre secondo la

credenza popolare dei popoli di montagna, a un uomo che bacia in maniera forte, interminabile e molto appassio-

natamente una donna (bacio alpino), il baciarsi sotto una pianta con cespuglio di vischio porta fortuna in amore (vi

posso assicurare che è vero!). Con il bacio sotto il vischio, l’uomo perpetua un rito magico che dura da millenni an-

che se, con il passare dei secoli, esso ha mutato certe sue forme. All’inizio del secolo XIX, l’uomo che baciava, dove-

va cogliere una bacca dal vischio; quando poi di bacche non ce n’ erano più, non c’erano più baci per chi giungeva in

ritardo e… ogni lasciata è persa. Tali credenze sono antichissime e risalgono al popolo celtico, per i quali questa

pianta aveva un qualcosa di divino perché non aveva radici e cresceva sopra ad altri alberi. I popoli antichi riteneva-

no che la pianta di vischio nascesse dove era caduto un fulmine e la folgore era il simbolo della discesa nella terra

degli dei. Secondo Plinio il Vecchio, che di questa pianta scrisse 2000 anni fa, i sacerdoti druidi della Bretagna, per

adoperarlo nei loro riti religiosi, tagliavano il vischio e lo facevano cadere su un panno bianco, dato che il contatto

con la terra avrebbe tolto ogni magico potere a questo cespuglio aereo. Sempre Plinio aggiungeva che la pianta

aveva il potere di rendere fertili le donne sterili. Quando veniva trovato un cespuglio di vischio, i Celti ne raccoglie-

vano i rametti, questa operazione veniva fatta con la massima attenzione per non toccare le palline di vischio con le

mani, perché questo avrebbe portato sfortuna. Strana pianta, semiparassita e sempreverde, il vischio vive sui rami

di molti alberi come il pino silvestre, il melo, il pero e anche la quercia. I frutti sono piccoli, rotondi, inizialmente

bianchi tendono poi con il tempo a diventare gialli soprattutto nel caso del vischio sulle querce. Quest’ultimo ramo

di vischio, nella leggenda sarebbe il “ramo d’oro”, che come narra Virgilio nell’Eneide, permise a Enea di entrare nel

regno degli Inferi. Il Vischio era considerato divino, ma anche “viscoso” a causa del fluido denso che veniva ricavato

dalle sue bacche, con cui era preparata una colla chiamata “pania”, trappola con la quale erano catturati piccoli uc-

celli. I frutti compaiono da settembre a gennaio su molte piante, dal piano alla montagna. Quando le palline di vi-

schio diventano mature, le piante ospiti sono senza foglie, rendendo il vischio molto evidente. Il nome “vischio”

deriva dal latino “Viscum” di origine oscura, ma sembra imparentato con il suo corrispondente greco “Ixos”.

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Cori e canti di montagna e alpini Come è consuetudine da diverso tempo, ogni anno prima che il Senato della Repubblica e la Camera dei Deputati

sospendano i lavori per le festività natalizie e di fine anno, viene dedicata una giornata presso la Camera dei depu-

tati alle cantate di montagna, alpine e natalizie. Il programma è portato avanti, a rotazione, da alcuni cori delle se-

zioni CAI e dell’Associazione Nazionale Alpini, che a turno si esibiscono nell’aula di Montecitorio davanti ai deputati

e ai senatori, in seduta congiunta. Nel 2011 partecipò anche il Coro La Martinella del CAI di Firenze. Il Coro La Marti-

nella, costituito nel 1970 è un coro che conosciamo bene e ha partecipato con soddisfazione anche alle nostre ma-

nifestazioni in Valdarno, in tanti anni di attività è riuscito ad occupare un posto di prestigio nel canto di montagna,

alpino e popolare. Quel giorno di Dicembre 2011, davanti ai senatori e ai deputati, la cantata scelta fu una prove-

niente dal repertorio delle Penne Nere intitolata “Sul Ponte di Perati, bandiera nera” o più semplicemente “Sul Pon-

te di Perati”, una di quelle cantate che, se conosciuto l’aggancio storico, fa venire i brividi per come ebbe origine

spontaneamente nel 1940 tra la neve e il fango dell’Albania. Nel Friuli e in Abruzzo, per una serie di motivazioni

molto profonde, c’è proprio una venerazione per questo canto che nell’Hit - Parade dei canti alpini viene al terzo

posto dopo “Signore delle Cime” e “Stelutis Alpinis” e davanti a “Il testamento del Capitano”. Ora non è il caso di

fare la storia di questo cantata che è una storia tragica, complessa, storia che verrà sicuramente portata a cono-

scenza dei nostri soci in altra occasione anche perché noi, come CAI siamo stati nel 2015 in Albania e il primo e se-

condo giorno eravamo a pochi km da Perati al confine greco. É possibile però ammirare e sentire da You Tube l’esi-

bizione a Montecitorio di questo coro di Firenze, che come sempre è stata veramente una esibizione “magistrale”,

da far onore alla sezione CAI fiorentina. Da notare nel video che durante lo svolgimento della concerto, l’allora se-

natore Franco Marini, a suo tempo presidente dell’Assemblea di Palazzo Madama e prima ancora alpino della Tri-

dentina alla caserma Schenoni di Bressanone, segue il canto del coro cantando sottovoce lui stesso. Inoltre si posso-

no vedere alcuni cappelli alpini portati per l’occasione dai senatori presenti al concerto. L’armonizzazione di questo

canto, e per armonizzazione si intende collegare nella massima armonia le varie strofe della cantata, è stata fatta

dal Coro Monte Cauriol di Genova, un coro storico nato nella città ligure nel 1949 e fondato da alcuni studenti della

facoltà di ingegneria, alpini e grandi appassionati di montagna .Prende il nome dal Monte Cauriol, un monte trenti-

no della Val di Fiemme appartenente alla catena dei Lagorai, conosciuto soprattutto per la sua rilevanza strategica

durante la Grande Guerra e per una cono-

sciutissima, triste canzone che ispirò gli Alpini

che vi combatterono. Nella armonizzazione di

“Sul ponte di Perati” la penultima strofa (un

coro di fantasmi vien giù dai monti…) viene

cantata per prima da un solista e questa pic-

cola differenza crea un fattore di attenzione

fortemente emotivo che accompagna però la

cantata fino alla fine. Inoltre non vengono poi

tenute conto di altre strofe che sicuramente

sono state aggiunte dai reparti alpini a poste-

riori. Vi invito quindi ad ascoltare questo can-

to che è uno dei più importanti della tradizio-

ne montanara e alpina, un canto dove si ri-

cordano soprattutto i compagni caduti, un

canto che è veramente un monito contro

tutte le guerre.

Il Direttore Responsabile

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Grande Guerra: Le Portatrici Carniche e Maria Plozner Mentil

Nello scenario della Grande Guerra che ebbe fine esattamente cento anni fa, un posto d’onore deve essere riserva-

to alle Portatrici Carniche, donne che evocano il carattere forte, la passione, la grinta, la determinazione di quella

parte di popolazione femminile tipica della Carnia e che furono le uniche donne ad essere poi insignite dell’ onorifi-

cenza di “Cavaliere di Vittorio Veneto”, quattro parole che hanno conferito nobiltà effettiva a tutta la loro vita, no-

biltà riservata solo ai combattenti che avevano passato un certo periodo nella prima linea del fronte bellico. Orgo-

gliose del loro Cavalierato conquistato nelle linee di guerra, con la medaglia appuntata nel petto sopra al vestito

buono della festa ma con in testa il fazzoletto annodato sulla nuca, tipico delle contadine della Carnia, hanno aper-

to per anni, all’adunata nazionale degli Alpini la sfilata della Sezione ANA Carnica, in mezzo ad un delirio di italianità

e un tripudio di applausi. Una memoria che non si è mai spenta, anche ora che tutte le Portatrici, per età, hanno

“posato a terra la loro gerla” raggiungendo in cielo Maria Plozner Mentil nel “Paradiso degli Eroi”. Una memoria

che nella Valle e nell’Alta Valle del But, da Tolmezzo al Passo di Monte Croce Carnico passando da Zuglio, Paluzza,

Cleulis, Timau, ma anche Paularo, Ovaro… è ancora viva perché le leggende non passano, le leggende si tramanda-

no in quanto la storia di queste contadine che avevano dimenticato la giovinezza per i loro uomini lottando al loro

fianco, e con loro avevano guardato la morte negli occhi, è la storia della Carnia, della Carnia Fidelis. La Carnia è una

terra povera, dura, scarpona per eccellenza come “scarpone” erano queste donne che avevano ereditato dal loro

passato la fatica, perché abituate da secoli per l’estrema, atavica povertà di queste zone di montagna e di confine

ad indossare sulle spalle per lavoro la “gerla”, che ben potrebbe rappresentare il simbolo della loro vita e che ora

mettevano al servizio dell’Italia in guerra. Donne che durante il conflitto bellico hanno condiviso con le Penne Nere

stenti, sacrifici, rischi, emozioni, paure, portando in prima linea viveri, indumenti, bevande, medicine e munizioni ai

combattenti, fra i quali si trovavano per alcune di loro i propri mariti. Lo straordinario compito portato avanti dalle

Portatrici Carniche non si pone solo come un lunga, difficile, pesante e rischiosa partecipazione di ciascuna di esse

alle operazioni belliche, ma soprattutto una sofferta adesione di tutta una vallata al servizio delle linee di combatti-

mento operante sulle montagne di casa. Vallata che si trovava praticamente per gran parte in zona di guerra perché

situata sotto l’arco delle traiettorie dell’artiglieria pesante austriaca e sottoposta alle conseguenze di quelli che era-

no i mutevoli riferimenti territoriali delle prime linee di guerra. Questa piccola unita formata da 2000 coraggiose

donne combattenti, le quali svolsero per ventisei mesi continuativi il difficile, pericoloso compito loro affidatoli è da

considerare uno straordinario avvenimento collettivo che rende onore e merito alla Carnia e al Friuli intero. In

quell’autentico museo all’aperto che passa da Monte Croce Carnico e tocca il Pal Piccolo, il Monte Freikofel, il Pal

Adunata Alpini di Udine (Maggio 1974) - Sfilano le Portatrici Carniche

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Grande, il Passo di Pramosio ogni angolo di trincea, ogni rifugio scavato nella roccia calcarea, ogni galleria di servizio

per i combattenti, parla ancora di queste donne, alcune giovanissime quasi bambine, che diventarono per più di

due anni una delle colonne portanti in quella zona dell’esercito italiano. Nel fronte bellico dell’Alto But e della Val

Chiarsò erano circa 12.000 i soldati italiani impegnati nelle varie linee di guerra, questi soldati per combattere in

condizioni di alta capacità operativa materiale e morale avevano occorrenza giornaliera di lunghe corveè che por-

tassero loro cibo, acqua, grappa, munizioni, medicinali, la posta arrivata da casa, indumenti, attrezzi. I magazzini

erano dislocati tutti nel fondovalle e non esistevano carrarecce, teleferiche o rotabili che permettessero il passaggio

di mezzi motorizzati o di carri a traino animale. I collegamenti fra la linea di guerra e la valle erano formati da soli

sentieri dove i rifornimenti potevano essere portati solo “a spalla” o con il mulo. Le salmerie dei vari battaglioni non

erano però sufficienti per i rifornimenti e poi non potevano essere usate durante il periodo invernale, ne era pensa-

bile togliere combattenti alla prima linea senza pregiudicare l’efficienza operativa dei vari reparti. In questo conte-

sto, il Comando Logistico della Zona e quello del Genio, su consiglio di un parroco della vallata, chiesero aiuto alla

popolazione, ma poiché tutti gli uomini validi erano al fronte bellico e nelle case erano rimasti solo vecchi, bambini

e donne, la situazione si presentava estremamente grave. Le donne della Carnia sono sempre state persone dinami-

che, forti, coraggiose, decise e molto legate alla famiglia e al territorio; quando i loro mariti, per emigrazione stagio-

nale andavano all’estero a costruire strade e ferrovie (la Transiberiana è stata costruita dai friulani), loro portavano

avanti i lavori dei campi, accudivano i bambini, i vecchi e gli animali. Queste donne, avvertendo la gravità della si-

tuazione, senza alcuna remora né alcun dubbio si misero a disposizione dei Comandi Militari per trasportare sulle

immediate linee del fronte, granate, munizioni e materiale di conforto con la gerla carica di un peso che andava dai

30 a 40 Kg. Normalmente fra andare e tornare percorrevano in 6 ore una media di 16 km, superando spesso disli-

velli in salita che andavano dai 600 ai 1200 m, e questo tutti i giorni e anche con condizioni atmosferiche proibitive.

Il numero di queste donne, chiamate all’inizio “trasportatrici”, arrivò presto a duemila, le più anziane erano nate

nel 1876, ma molte erano nate nell’arco di anni che vanno dal 1900 al 1905, per cui alcune erano veramente bam-

bine. Non vennero sottoposte alla disciplina militare, ma loro stesse si imposero un rigido codice di autoregolamen-

tazione che tutte dovevano osservare, nemmeno ebbero una divisa ma solo un bracciale rosso con stampigliato il

numero del reparto militare per il quale lavoravano. Avevano un libretto personale di lavoro dove erano registrati

tutti i viaggi fatti e il materiale trasportato, per ogni viaggio venivano remunerate con la somma di 1,5 lire ed erano

pagate alla fine del mese (da tenere presente che nel 1915 il valore di 1,5 lire è considerato che equivalesse al valo-

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re odierno di 3,5 €). Partivano la mattina presto, ma poteva-

no essere chiamate a qualsiasi ora del giorno e della notte in

gruppi di 15/20 persone, durante il viaggio spesso pregavano

e cantavano le loro canzoni forse per ammortizzare la paura

delle cannonate che fischiavano sopra alle teste, altre come

mostrano tante fotografie d’epoca addirittura procedevano

lavorando la lana con i ferri (facevano la calza). Arrivate nelle

linee di combattimento scaricavano le gerle ed essendo allora

il reclutamento degli alpini locale, mettevano al corrente i

combattenti delle cose successe al paese. Ripartivano con le

gerle piene di indumenti militari da lavare, spesso veniva

chiesto loro di portare nei paesi del fondovalle le barelle con i

feriti, non di rado con i soldati morti che provvedevano loro

stesse a sotterrare nel cimitero militare di Timaù. Poi torna-

vano ad occuparsi della loro famiglia, delle bestie, della stalla

e dei campi da coltivare fino alla mattina successiva. Un certo

numero di Portatrici fu in maniera permanente alloggiata in

baracche appena dietro il fronte, queste erano a disposizione

del Genio militare che usava queste donne per lavori di ma-

nutenzione dei sentieri, trasporto di materiale da costruzione

per ricoveri e trincee. In considerazione della paga giornaliera

molto misera rispetto alla fatica, all’impegno e ai pericoli a

cui andavano incontro, non è sbagliato pensare che le Portatrici Carniche fossero mosse più da sentimenti patriotti-

ci che da interesse pecuniario. Di questo ne fa fede il fatto che, quando nel marzo 2016 il Pal Piccolo venne perso e

riconquistato più volte in furibondi e sanguinosi assalti e controassalti, le Portatrici soprattutto di Timau, chiesero di

dare il cambio agli artiglieri nelle batterie come “serventi ai pezzi (cannoni) “e perfino domandarono di essere tutte

armate di fucile. Richiesta che se pur non concretizzandosi, suscitò negli Alpini ammirazione, riconoscenza stimo-

landone il coraggio e la determinazione alla riconquista delle posizioni perse. È sicuro che se la linea bellica del con-

fine sulla Valle dell’Alto But fu tenuta saldamente dai soldati italiani, oltre al valore stesso dei combattenti, questa

tenuta si deve molto anche all’opera delle Portatrici Carniche. Alcune di loro furono ferite, mentre una di esse, Ma-

ria Plozner Mentil, giovane madre di 32 anni, con quattro figli e il marito combattente al fronte, mentre si riposava

a Casera Malpasso fu colpita a morte da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916. Trasportata ancora in vita nel

piccolo ospedale militare di Paluzza poco dopo moriva, attualmente la salma di Maria Plozner Mentil è collocata nel

Tempio Ossario di Timau. Per ventisei mesi, in qualsiasi stagione e con qualsiasi tempo,le Portatrici salirono per poi

scendere tutti i giorni i sentieri montani di confine, ma poi arrivò il 27 Ottobre 1917, un’alba tragica che vide il crollo

delle linee italiane a Caporetto nel lontano

fronte dell’Isonzo. Gli alpini del Pal Piccolo e del

Pal Grande dovettero ripiegare per non essere

accerchiati e insieme ai soldati in ritirata lascia-

rono la loro valle anche le Portatrici, che cam-

minando e piangendo si portarono sulla nuova

linea del Piave, ma molte furono accolte anche

in Toscana, nella zona di Firenze dove furono

trasportate le sedi di oltre 200 comuni del Ve-

neto e del Friuli occupati dagli austriaci. La sto-

ria non ha mai messo bene a fuoco la portata

dell’esodo dei civili veneti e friulani che lascia-

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rono le loro case insieme ai soldati italiani in ritirata fino alla nuo-

va linea di difesa sul Piave, fu un dramma improvviso che si svolse

in un tempo breve e interessò circa 700.000 civili che furono ac-

colti fino alla fine del 1918, ma anche dopo, in tutt’ Italia. Ritorna-

te poi nelle loro valli con le case distrutte e i campi rovinati, le

donne della Carnia si rimisero la vecchia gerla sulle spalle aiutan-

do la famiglia a sistemare l’abitazione, la stalla, i campi; per molte

famiglie, anche di Portatrici, invece la soluzione fu l’emigrazione

in terre lontane anche oltreoceano, fra questi molti i combattenti

che furono chiamati “gli Alpini della seconda naja”, che partirono

con tristezza come può partire un emigrante che ha amato e

lottato per la propria terra. Il ricordo delle Portatrici Carniche

non poteva morire con la scomparsa fisiologica dell’ultima di es-

se, ma doveva per forza essere tramandato alle future generazio-

ni, allora su iniziativa della Sezione Combattenti e Reduci di Ti-

mau e di Paluzza e del Gruppo Alpini di Timau, ai quali aderirono

poi la parrocchia di Timau, il comune di Paluzza, il Gruppo Alpini

di Paluzza e di Cleulis, fu costituito nel Luglio 1988 il “Comitato

Pro Monumento alle Portatrici Carniche “ che portò alla erezione

del monumento a Timau inaugurato il 5 luglio 1992 nella piazza

laterale alla chiesa . Alla cerimonia parteciparono le Portatrici ancora in vita e i figli Dorina e Gildo di Maria Plozner

Mentil. Il 12 Gennaio 1996 nasceva l’Associazione “Amici delle Alpi Carniche” che ritenne doveroso lavorare per

dare un segno tangibile di riconoscimento per il sacrificio di Maria Plozner Mentil. Il 1 ottobre 1997 il Presidente

della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, accompagnato dalle più alte cariche dello Stato e della Regione, consegnò a

Timau ai figli Dorina e Gildo la Medaglia d’Oro al Valor Militare concessa alla memoria della madre Maria Plozner

Mentil. Ma l’Associazione Amici delle Alpi Carniche ha svolto anche ricerca storica sulle Portatrici, esiste un libretto

del Ministero della Difesa e stampato a cura della suddetta Associazione e aggiornato al 31-10- 2005 in cui vengono

riportate per comune di provenienza il nome di circa 1500 Portatrici Carniche con accanto la data di nascita. Maria

Maria Plozner Mentil

15 Luglio 1992 Timau, inaugurazione del monumento a Maria Plozner Mentil e alle Portatrici Carniche

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Plozner Mentil non fu mai dimen-

ticata in Carnia e nel 1955 venne

intitolata al suo nome la caserma

degli Alpini di Paluzza, l’unica in

Italia intitolata a una donna e

ancora una delle caserme più

ricordate e amate dalle Penne

Nere. Da questa caserma tutti gli

anni alla fine del mese di gennaio

parte all’imbrunire la “Marcia

sulla neve” in ricordo dei Caduti

della Campagna di Russia, marcia

che portata avanti al lume delle

fiaccole termina dopo alcune ore

al suggestivo isolato sacrario di

Timau, dove è sepolta insieme a

1700 soldati anche Maria Plozner

Mentil e dove viene officiata la funzione religiosa da un cappellano alpino. Da anni a questa marcia partecipa il

sottoscritto insieme a diversi alpini del Gruppo Valdarno Superiore. Nel 1975, a Sabaudia, località in provincia di

Latina dove emigrarono alla fine degli anni ’30 numerosi friulani e carnici rimasti sempre fedeli alle tradizioni della

loro gente, fu eretto un monumento a Maria Plozner Mentil su un sasso proveniente dal luogo dove la portatrice fu

colpita a morte. Nel mese di settembre di questo anno 2018, per ricordare le Portatrici Carniche sono partiti in bici-

cletta da Paluzza per Roma (950 Km) 8 ciclisti-pellegrini alpini fra i quali Giorgio Di Centa, fondista e campione olim-

pionico di Paluzza, fratello della olimpionica fondista Manuela di Centa. Le ultime due Portatrici Carniche sono

scomparse nel 2005 avendo superato abbondantemente cento anni di età. Personalmente ho conosciuto un certo

numero di Portatrici Carniche soprattutto alle Adunate Alpine di Udine nel 1974 e nel 1983, sono andato a cercarle

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e quando mi sono trovato davanti quelle figure di donne, alcune esili altre ancora robuste, non ho potuto fare a

meno di portare la mano destra aperta alla falda del cappello alpino nel vecchio saluto militare. Un attimo di emo-

zione intensa, un attimo della mia vita che non dimenticherò mai. Onore alla memoria delle Portatrici Carniche!

Onore a coloro che hanno personificato tutte le valorose donne della Carnia e che sono e resteranno il simbolo, il

modo di vivere di tutto il popolo carnico - friulano, popolo scarpone, alpino, gente dura di montagna, gente che nel

corso di 15 secoli di lotte contro tutti gli invasori, ha saputo difendere e mantenere intatta la propria lingua, la pro-

pria identità culturale, religiosa e italiana alla quale da sempre si sente profondamente legato.

Vannetto Vannini

Il Tempio-sacrario di Timau dove vi sono custodite le spoglie di Maria Plozner Mentil

...Quel Mazzolin di Fiori

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Chianti sconosciuto e misterioso

È fin troppo facile identificare il Chianti con solo il suo vino, la cui notorietà è andata ben oltre i confini fissati dopo

lunghe contese fra Siena e Firenze, di certo in Italia e all’estero il castello di Brolio credo sia conosciuto più per i vini

che vi si produce che per il Barone Bettino Ricasoli, i suoi antenati e i suoi successori. Ma girovagando nei borghi

chiantigiani, appollaiati sui colli circondati da querce e da cipressi, paesi che tutti hanno difese come fossero castel-

li, vediamo spesso le facciate nere e stemmate dei palazzi che si affacciano su vie lastricate, palazzi spesso vuoti e

serrati che presentano aspetti di fiera e travagliata antichità, un senso di abbandonata nobiltà. E allora viene il dub-

bio che il Chianti non sia solo vino, ma una regione complessa che si specchia in vicende storiche secolari che vanno

ben al di là di quelli che sono oggi i propri confini. Il Chianti fin dal primo contatto, avvince con quel senso di conti-

nuità e del perenne intreccio di passato con il presente, con le sue tradizioni, con la sua cucina rustica contadina e

con il suo paesaggio prezioso e unico. Ma c’è un particolare che pochi conoscono, ma che io ritengo di primaria im-

portanza che qualifica la regione chiantigiana e che dà la certezza che il vino, benché fattore importante e trainan-

te, sia solo uno degli elementi importanti di questa Terra, e questo particolare semisconosciuto si chiama: bibliogra-

fia chiantigiana. In effetti sono stati pubblicati nei decenni passati tanti libri sul territorio chiantigiano, che fanno del

Chianti la zona d’Italia con la bibliografia più copiosa, e questo fenomeno continua tutt’ora. I libri pubblicati parlano

anche di vino, ma soprattutto di storia, architettura, ambiente, popolazione, cucina, tradizioni e folclore che altre

zone d’Italia non hanno, tanto che si capisce bene che nel Chianti si vive un presente fatto di storia, ed è questo uno

dei motivi che hanno invogliato molti stranieri a vivere e investire nel Chianti. La bibliografia dedicata al Chianti è

vastissima, tanto che, esempio unico in Italia, una casa editrice fiorentina (All’Insegna del Giglio), nell’anno 1991 ha

messo in commercio un volume di 180 pagine in cui vengono riportati 1302 titoli fra libri e saggi dedicati alla terra

Antonio, la Laila e le case di Porcignano

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chiantigiana fino al 1990, riguardanti i comuni di Gaiole, Radda, Castellina e Greve. Da considerare che il territorio

dei quattro comuni che sono stati presi in considerazione in quella ricerca bibliografica fatta ben 27 anni fa, è quello

che più si avvicina ad un Chianti ideale dal punto di vista dell’unità paesaggistica e morfologica. Da questa ricerca,

risultano circa seicento libri pubblicati fino al 1990 riguardanti i quattro comuni chiantigiani, di cui più di duecento

libri per Greve, circa duecento per Gaiole, un centinaio per Radda e un’ottantina per Castellina. È lecito pensare che

il soggetto di tutti questi libri non può essere solo il vino, ma tante altre attestazioni multiculturali che rendono an-

cora più interessante questa zona. Il Monte Majone è un ottimo vino, soprattutto l’annata 2011, prodotto nel co-

mune di Radda in Chianti con il 90% di Sangiovese e il 10% di Canaiolo, ma se prendiamo una carta topografica ve-

diamo che il Monte Majone è anche una montagnola di 811m di altezza situata sulla cresta dei monti che da Badia

Coltibuono porta al Parco di Cavriglia, facendo da spartiacque fra Valdarno e Chianti e sulla cui sommità vi sono i

resti di antichissimi manufatti. Una montagnola che occupa però una posizione importante, strategica tanto che la

Storia vi è passata diverse volte. Nel periodo etrusco vi transitava una strada che collegava Volterra con Fiesole, in

quello romano vi transitava la Via Cassia Adrianea, nel Medioevo fu sede di romitori, poi sempre nel Medievo fino

ai giorni nostri inserito nel percorso di pastori transumanti con il gregge, durante l’ultima guerra, a causa della posi-

zione strategica, Monte Maione era il caposaldo tedesco più forte della linea Irmgard, una linea di difesa che parti-

va da Selvole per Badia Coltibuono, Monte Maione, Cavriglia, Montevarchi, Levanella, Monticello , Laterina e Casti-

glion Fibocchi. A difesa di questa linea, fino a metà Luglio 1944, venne impiegata la tristemente famosa divisione

tedesca Herman Goering, che prese parte a tutti gli eccidi di civili nelle nostre zone in quella estate 1944. Questa

divisione germanica il 18 Luglio 1944 iniziò poi lo sganciamento per portarsi sul fronte polacco. La storia religiosa, e

ancora oggi oscura di Monte Maione, parte forse intorno al Mille quando il monte diventò dimora di numerosi ere-

miti senesi e fiorentini tanto da costituire una forma di “tebaide”, dove veniva condotta una vita solitaria e contem-

plativa votata alla preghiera. È facile pensare che su quel monte esistesse già allora un gruppo religioso ma ancora

non organizzato in senso monastico, istituzione che venne alcuni secoli dopo come “fratellanza” organizzata in for-

ma semi eremitica. Il territorio interessato da questa comunità dovrebbe essere stato quello compreso sotto la

vetta del monte fra Casa Maione, il podere San Marco dove esisteva l’eremo di San Michele con la chiesetta di San

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Michele e il Casale Campora. I dissidi fra gli eremiti e i proprietari delle terre del monte che erano i signori di Mon-

terinaldi fecero sì che una parte dei monaci-eremiti si trasferirono a Firenze abbracciando la regola agostiniana e

fondando il monastero di Santa Maria al Sepolcro alle Campora di Colombaia (abbastanza strano è che il nome

“Campora” si ritrovi sia sul Monte Maione che a Firenze nella collina di Bellosguardo e quindi con grosse probabilità

esisteva una analogia, un legame fra le due località). Nel 1371 il monastero di Santa Maria al Sepolcro fu posto a

capo del nascente ordine gerolamino (Ordine di San Gerolamo) che si affermò soprattutto in Spagna e Portogallo.

Abbandonata la zona, anche l’eremo con la chiesetta dedicata a San Michele che ora è inserita nei ruderi del pode-

re San Marco, che pensiamo fosse stata il fulcro dell’attività religiosa della “fratellanza”, cadde in abbandono. Pro-

babilmente la chiesetta fu ristrutturata dai francescani nel secolo XVII ed ebbe cambiata anche la titolazione che

passò da San Michele a San Marco, inoltre vi fu costruito un ospizio per i pellegrini come risulta da una testimonian-

za storica. La chiesetta ebbe una storia religiosa in quanto dipendente dalla parrocchia di San Salvatore di Albola,

nel 1784 l’oratorio di San Marco risulta proprietà dei “padri conventuali di Figline”, mentre nel 1839 è proprietà

privata. Sempre nel 1839 l’oratorio fu trovato in uno stato di squallore e di assoluta indecenza, successivamente fu

adibito a fienile e oggi è un rudere come l’edificio di podere San Marco, però si nota bene ancora l’antico impianto

romanico con i filaretti di alberese e un ampio portale a tutto sesto, il casale Campora invece è stato completamen-

te ristrutturato. Il mistero di questa piccola chiesetta isolata e di montagna diventa ancora più fitto se si parla dei

Cavalieri del Tempio (Templari) che sul crinale Chianti- Valdarno hanno lasciato alcuni “segni” e qualche toponimo.

Uno dei toponimi è proprio “Monte Maione” che deriva da “Monte della Magione”; antiche fonti locali non com-

provate, dicono anche che nell’oratorio di San Michele (che poi diventerà San Marco) sarebbero state addirittura

deposte le ceneri di Jacques de Mo-

lay, ultimo Gran Maestro Templare

morto sul rogo a Parigi nel 1310 e

traslate anni dopo in Toscana da mo-

naci dell’Ordine dei Gerolomini. Que-

sta potrebbe essere una ipotesi fan-

tasiosa, una fonte che però ammanta

ancora più di mistero questa chie-

setta ridotta a rudere. Degli eremiti

di Monte Maione ha parlato anche il

Repetti che pone erroneamente gli

eremiti presso la Badia di San Miche-

le a Montemuro (Badiaccia)e anche

Monsignor Giuseppe Raspini che nel

1981 in una sua pubblicazione sugli

eremi della diocesi di Fiesole, pone

gli eremiti sempre alla Badiaccia. Se

persino un attento ricercatore stori-

co come Monsignor Raspini abbia

conosciuto solo in modo approssima-

to l’esistenza della confraternita,

questo dà la misura di quanto ancora

questo fenomeno sia passato inos-

servato per diversi secoli. Nel nume-

ro 67 di Corrispondenza si può trova-

re un lungo e interessante articolo su

questo argomento che porta la firma

di Lorenzo Pecchioni, inoltre lo stes-

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so articolo è stato poi ripreso da due volumi che parlano del culto micaelico sui monti del Chianti. Martedì 6 Giugno

del 2017, con 11 soci Cai del gruppo del Martedì abbiamo fatto una bellissima escursione nella zona interessata

(escursione che verrà ripresentata per l’attività della prossima primavera), passando anche davanti ai ruderi del

podere San Marco dove si intravede al fianco un edificio in filaretto diverso dalla casa colonica. Mi sono avvicinato

ma per sicurezza non più di tanto e poiché il tutto è circondato da rovi e macchie altissime non ho potuto scattare

nessuna foto.

Molto bello e ben tenuto è invece Porcignano che rievoca le fiabe e le leggende riportate alcuni anni fa su un libro

di successo intitolato “Le veglie di Porcignano”. Siamo partiti e tornati a Badia Coltibuono, ma da Selvole fino alla

fine questo paesaggio chiantigiano, pur essendo vicinissimo a noi, effettivamente è diverso da quello che abitual-

mente conosciamo. Un territorio che oltre a farci entrare in sintonia con la natura lungo sentieri che ricalcano anti-

che vie dove si respira il profumo della storia, ci fa percepire vivo quel sentimento che viene dalla seduzione di un

antico misterioso passato, dove potrebbe entrare a pieno titolo anche la figura dell’ultimo Gran Maestro Templare

Jacques de Molay.

Vannetto Vannini

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Il crisantemo:

ritenuto il fiore dei morti, è invece simbolo di vita

Nei periodo di tempo intercorrente tra il giornalino sezionale uscito a Settembre e l’ultimo numero che esce a Di-

cembre, c’è la festività dei Santi e dei Morti, festività che vedono nei cimiteri le tombe dei nostri cari abbondare di

crisantemi, un fiore che noi pensiamo sia il “fiore dei morti” e quindi molto indicato per quelle festività. Il nome

“crisantemo” deriva dal greco che significa “fiore d’oro”, nell’antichità sicuramente questo significato deriva dalla

margherita gialla che rallegra prati e giardini dall’alta montagna al mare, perché proprio la margherita gialla è un

crisantemo. Infatti sia la margherita che il crisantemo fanno parte della famiglia botanica delle Asteracee, la prima

con il nome di “Leucanthemum vulgare”, l’altro fiore con il nome di “Chrysanthemum leucanthemum”. In totale le

specie appartenenti al genere “Chrysanthemun” sono oltre 200 e hanno fioritura da primavera all’autunno, i crisan-

temi che conosciamo noi hanno fioritura autunnale. Il crisantemo è un fiore antico molto amato dai popoli orientali

ed era coltivato in Cina già fin dal 500 a.C., poi si diffuse in Giappone dove è considerato il simbolo della vita, infatti

è l’emblema ufficiale della casa imperiale giapponese. Questo fiore e stato cantato da poeti, rappresentato in

raffinati dipinti e usato anche nella decorazione di oggetti di uso comune. In Europa il crisantemo è noto fin dal

1682 con la specie “Chrysantemun indicum” e dal 1789 al 1862 con le rimanenti specie e la prima cultura specifica

avviene in Francia alla fine del ‘800. Nel frattempo vengono ottenuti numerosi ibridi con le forme più svariate e nel-

le più straordinarie sfumature, fra i più belli quelli ricadenti che formano delle vere cascate di colore. La pianta è

anche circondata da un leggenda che ci racconta come è nata: una bimba, venuta a sapere che alla madre ammala-

ta rimanevano tanti giorni di vita quanti erano i petali di un fiore che aveva colto, ed erano solo cinque, si mise a

dividerli in striscioline sempre più sottili, fino a renderle innumerevoli. Negli Stati Uniti e in molti paesi del Centro

Europa, ma anche nelle vallate di confine dell’Alto Adige, i crisantemi, soprattutto quelli piccoli coreani, vengono

molto apprezzati come fiori decorativi sia per il giardino che per il balcone di casa. É questo un altro segnale che

dice che questo fiore, per tradizione legato per la celebrazione dei defunti, che si commemorano in novembre, non

meriti affatto l’appellativo di “triste”.

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Notte insonne Nell’oscurità il tempo si dilata soffocando lo spazio e il silenzio diventa l’eco di mille paure inconfessate. Solo gli oc-chi sono accesi nel buio immoto, denso come pece, nel quale i pensieri sprofondano terminando in quel mare igno-to quel loro accavallarsi e rincorrersi, come marosi in balia del vento. Quel vento che fa pulsare le tempie gonfian-dole come vele. La mente scalpita come un cavallo imbizzarrito, anela le inconsce praterie dello spirito e, senza più le briglie della coscienza, varcare i confini dello spazio e del tempo dove passato e presente sono categorie astratte. E la morte un velo che il sonno lacera restituendo coloro che di giorno ha rubato alla vita. Ma Ipno, il dio del sonno, stanotte tarda ad arrivare. Nel regno sotterraneo degli inferi la sua oscura caverna, posta accanto al fiume Oblio, lo avviluppa come un caldo grembo dove non filtra né luce né suono. Il serico fruscio delle sue ali, nere come la notte e poste alla sommità del capo, increspa appena quel silenzio ovattato. Nessuno osa svegliarlo. Ipno non è un dio cattivo e gli umani lo invocano perché possano riposarsi dalle loro fatiche, dalle loro sofferenze. Non è certo spa-ventoso come il suo gemello, Thanatos, dio della morte, anche se ogni tanto… ma così… per puro diletto, lo aiuta a sbarazzarsi di qualcuno, come quando appesantì le palpebre del vecchio nocchiere di Enea, Palinuro, facendolo fini-re in mare. Sia ben chiaro; niente di personale. Solo un favore a Poseidone che, per intercessione della bellissima Venere, permise alla flotta di Enea di toccare il suolo italico in cambio di una vittima. Una soltanto. E che sarà mai? E Ipno il favore glielo fece di buon grado… ché a volte giù negli inferi è una tale noia! Nessuno osa svegliarlo perché Ipno non ama essere svegliato. Cosa c’è di più dolce che scivolare dal sonno alla veglia, come su un soffice e morbi-do tappeto di velluto, appagati, ritemprati da un lungo, benefico e corroborante sonno? Quale violenza più grande che rompere un tale incantesimo? Non se ne parla nemmeno! Lo metterebbe di cattivo umore e renderebbe le notti insonni anche a un ghiro. Oppure farebbe addormentare anche il più focoso degli amanti e nel momento me-no opportuno, quando lei, tutta fremente di desiderio, si abbandona al corpo di lui che il dio, non senza un crudele piacere, ha svuotato d’ogni virile vigore nel molle abbraccio del sonno. E non c’è dio che tenga a questo suo soporo-so sortilegio. A farne le spese, incredibile a dirsi, fu lo stesso Zeus che, per volere di sua moglie Era, Ipno addormen-tò per nove lunghissimi anni affinché Poseidone potesse dar manforte ai greci. Nell’Olimpo si accapigliavano le op-poste fazioni, ne facevano una questione personale. Greci… troiani… Solo lui rimaneva algido e neutrale. Ma Era gli aveva promesso in sposa la bellissima Pasitea. E capirai! La più giovane e la più bella delle tre Grazie. A Ipno piaceva dormire ma gli piacevano anche tante altre cose, sicché Era non aveva nemmeno finito di parlare che già Zeus, co-me un pupone, dormiva di un sonno beato e tranquillo. Con buona pace dei Troiani. Nessuno osa svegliarlo. I suoi figli fremono pensando a come si divertiranno, di lì a poco, ad entrare nella mente degli uomini dispensando sogni e incubi, assumendo infinite forme, infiniti aspetti. C’è chi aspetta di addormentarsi nella speranza di riabbracciare persone care, ombre prigioniere dell’Ade che solo il pietoso Morfeo restituirà di notte, assumendone le amate sem-bianze e dopo aver agitato sulle palpebre dei dormienti il suo purpureo fascio di papaveri. Anche suo fratello

Ipno dio del sonno

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Phobetor freme di impazienza; sa già quanto si sganascerà dal ridere nel vedere quale effimero terrore agiterà le palpebre chiuse dei malcapitati ai quali avrà dispensato generosamente i suoi incubi peggiori. I loro nonni, Erebo e Notte, che personificano l’oscurità e le tenebre, gli daranno man forte spargendo a piene mani un buio inquietante e spaventoso nel quale i loro viziati nipoti faranno scempio di quelle menti martoriate dalla stanchezza e che ter-ranno sotto la totale balia dei loro più bizzarri capricci. Erebo e Notte sono fratello e sorella ma si sa, l’amore è cieco e loro con la luce hanno davvero poca dimestichezza. Adorano quei loro scapati nipoti ai quali tutto perdonano e tutto concedono. E, sotto sotto, a quelle loro marachelle ci ridono di gusto. Ma ecco che Ipno comincia a rigirarsi pian pianino stiracchiandosi pigramente. Gli occhi ancora ostinatamente chiusi nel torpore del sonno recente, la bocca spalancata in un ultimo soporoso sbadiglio. Si tira sulle braccia e guarda i figli con aria interrogativa. Ma ora è sveglio del tutto e capisce cosa stanno aspettando. Suo padre e sua madre si sono già portati avanti col lavoro spa-lancando sul mondo le cataratte del buio e gli uomini, in quella oscurità, ora lo invocano perché nel sonno possano trovare pace alle angustie del giorno. E non c’è nulla che lo inorgoglisca più di quella muta preghiera. Lui e lui sol-tanto può dare agli umani quella morte apparente e benigna, per poi farli risorgere ogni volta nel mattino nascente. Certo, suo fratello ha un potere ancora più grande ma il sonno che dispensa terrifica e angoscia gli umani perché non conosce risveglio. Lui, invece, può rinnovare il miracolo della vita ad ogni sorgere del sole e sentire palpabile la gratitudine dei mortali nella loro eterna riconoscenza. Gli umani vogliono dormire...? E sonno sia! Che cali impalpa-bile come cenere, ad appesantirgli le palpebre. Che aliti, come soffio leggero, a spegnere ogni barlume di coscienza. Tacciono i pianti dei bimbi nelle culle bordate di trine, odorose di borotalco. Si sciolgono gli abbracci degli amanti, le teste abbandonate sui petti ancora affannosi e ansanti. Una preghiera si smorza sulle labbra come il moccolo di una candela. Nel silenzio della stanza va stemperandosi l’eco dell’ultimo pensiero come una stella nel chiarore dell’alba. Morfeo passa e agita sulle palpebre il suo fascio di papaveri, rossi come un sole al tramonto, popolando di sogni quelle menti stanche. Ora eccolo assumere le fattezze di un uomo, bello anche se non più giovanissimo. Ne imita la voce, i gesti, il sorriso. In questo, nessuno è più bravo di lui. Una madre non distinguerebbe suo figlio. Una donna, l’uomo che ha amato. La morte e la vita si fondono ora in un unico abbraccio. Passato e presente non sono che ca-tegorie astratte e il tempo solo una sequela di ricordi, un rosario di momenti che il sogno sgrana nella notte come una pietosa preghiera. Domani tutto svaporerà nella luce del mattino quando gli occhi si spalancheranno nell’incu-bo di un nuovo giorno.

Pina Daniele Di Costanzo

Morfeo, figlio di Ipno

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L’anno peggiore della storia dell’umanità? Il 536 d. C.

Lo studio dei ghiacciai (glaciologia) riserva spesso risultati importanti e inaspettati. Sul quotidiano milanese il “Corriere della Sera“ in un numero dello scorso mese di Novembre, compare un artico interessantissimo con dei risultati veramente eccezio-nali. Lo riportiamo anche nel nostro giornalino sezionale per dare un’idea ai nostri associati di come sia importante la scienza glaciologica. Secondo lo scienziato Michael McCormick dell’Università di Harvard, in quell’anno ci fu una catastrofica eruzione vulcanica che oscurò il Sole, e provocò carestia, siccità e molte morti. L’Europa uscì dalla crisi solo nel 640. Il 1349 della peste nera? Il 1918 con l’influenza spagnola che tra i 50 e 100 milioni di persone, per lo più giovani adulti? Gli anni atroci dell’Olocausto, tra il 1941 e il 1945? No. Gli storici pensano di aver identificato il vero annus horribilis, l’anno peggiore della storia: fu il 536 d.C. Una neb-bia misteriosa di cenere e polveri immerse l’Europa, il Medio Oriente e parti dell’Asia nell’oscurità, giorno e notte, per 18 mesi. Il Sole fu oscurato e il clima sconvolto, si abbassarono drasticamente le temperature, rovinando i raccolti, causando carestie ed ebbe inizio una crisi economica lunga oltre un secolo. «Fu uno dei periodi peggiori per l’umanità, se non il peggiore», sostiene il medievalista dell’università di Harvard, Michael McCormick sul sito della rivista Science. In quell’anno, il decimo dell’impero di Giustiniano, «il Sole sorgeva ma la sua luce non illuminava, come la Luna, per tutto l’anno. Sembrava come un’eclissi di Sole», racconta lo storico bizantino Procopio. Le temperature si abbassarono, dando il via alla decade più fredda degli ultimi 2300 anni. Ebbe inizio una grave carestia, dall’Europa fino alla Cina, dove nevicò abbondantemente coprendo i raccolti. La gente patì la fame. A peggiorare la situazione fu l’epidemia di peste bubbonica nel 541, la cosiddetta peste di Giustiniano, che sterminò tra un terzo e metà della popolazione dell’Impero romano d’Oriente, accelerandone la fine. Fino ad oggi non si conoscevano le cause di questa misteriosa nube. L’enigma è stato risolto dal gruppo di McCormick, che in team con il glaciologo Paul Mayew-ski, sarebbe arrivato alla conclusione - pubblicata sulla rivista «Antiquity» - attraverso l’analisi dettagliata del ghiaccio e delle nevi del ghiacciaio Colle Gnifetti, che si trova tra Italia e Svizzera. Analizzando campioni di ghiaccio sui quali sono «scritte» le tracce atmosferiche di epoche precedenti alle nostre, il team avrebbe trovato le prove di una potentissima eruzione vulcanica avvenuta in Islanda, le cui ceneri si sparsero per tutto l’emisfero settentrionale all’inizio del 536. Seguirono altre due eruzioni, nel 540 e nel 547. Eventi da cataclisma che, uniti alla peste e alla stagnazione economica che derivò da questi eventi, precipita-rono l’Europa in una crisi profonda, che durò fino al 640. Per i nati del 536 (e negli anni successivi) la mortalità fu elevatissima e l’aspettativa di vita si ridusse drasticamente. Da quel momento, tracce di piombo trovate nel ghiaccio, risultato del processo di estrazione dell’argento, mostrerebbero come l’attività mineraria per coniare monete fosse ripresa. E con essa l’economia.

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L’antica via di pellegrinaggio da Rimini – Sansepolcro - Arezzo

La Romagna, per la sua posizione geografica che fa da unione alla Val Padana orientale con le regioni centrali oltre

Appennino, è sempre stata strategica per i percorsi dei pellegrini diretti a Roma, infatti in quella Terra venivano

convogliati non solo i romipeti della Via Teutonica come riportato nell’articolo dello scorso numero del nostro gior-

nalino, ma anche quelli della Via Romea provenienti dal settore orientale del Centro-Europa e dai Balcani. In Roma-

gna, da Rimini partiva nel periodo romano l’antica Via Emilia per Piacenza, sempre a Rimini terminava l’antica Via

Flaminia che partiva da Roma , Rimini era poi collegato con Arezzo attraverso la Via Ariminenses, inoltre partiva da

Rimini alla volta di Aquileia la Via Popilia-Annia e quindi se ne deduce che questa città aveva una grande importanza

strategica soprattutto al tempo della Roma repubblicana e nel primo periodo della Roma imperiale, tanto da essere

considerata un “Caput Viarum “ di grande importanza. La città di Rimini fu occupata dai romani nel 288 a. C., molto

prima che scoppiassero le guerre puniche, e svolse come Arezzo il proprio compito di città di confine che teneva

sotto controllo i movimenti delle popolazioni galliche, e come ad Arezzo, stanziavano a Rimini due legioni romane

(4000 soldati). Ancora oggi, in questa bella città romagnola, si possono trovare importanti testimonianze del passa-

to romano, come l’arco di Augusto dove partiva la Via Emilia e il ponte di Tiberio, un ponte a cinque arcate lungo 63

m. finito di costruire nel 21 d.C. e ancora in piena attività, le rovine dell’anfiteatro fatto costruire dall’imperatore

Adriano e capiente di 14000 persone, inoltre l’ultima grande scoperta recentemente: la Domus del Chirurgo con la

più completa collezione di strumenti chirurgici dell’antichità. Dal III secolo d.C., ormai perduto quel ruolo diretto

nella storia d'Italia che la città aveva raggiunto fino all'epoca di Augusto, Ariminum fu soggetta a un progressivo

declino e a trasformazioni sociali e culturali, tra cui la diffusione di culti orientali, dovuti ai rapporti commerciali e

alla presenza di numerosi funzionari e mercanti stranieri. Le prime invasioni barbariche, affrontate con la costruzio-

ne di una nuova cinta muraria in età aureliana, portarono a un'inesorabile decadenza e ad un arresto dell'espansio-

ne urbana. Contemporaneamente alla minor importanza di Rimini, si affermava come preminente la città di Raven-

na con il vicino porto di Classe, dove già dal tempo di Augusto vi era dislocata la flotta militare romana dell’Alto

Adriatico, forte di 250 triremi con 10.000 marinai. Si pensa che proprio dal porto di Classe, siano partite le due spe-

dizioni nel 102 e nel 105 d.C. di Traiano che riuscirono a sottomettere la Dacia. Ravenna divenne capitale dell’impe-

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ro romano d’Occidente dal 402 fino alla fine dell’impero nel 476, poi del Regno degli Ostrogoti dal 493 al 553 e

dell’Esarcato bizantino 568-751. Con la fine dell’Esarcato ad opera dei Longobardi ai quali seguirono i Franchi, per

Ravenna iniziò un periodo di decadenza, la città in lotta con i papi romani fu spogliata di statue, arredi, mosaici,

marmi e i flussi delle acque non più regimati, circondarono Ravenna di paludi malsane, malariche; il porto di Classe,

nel frattempo interrato, fu saccheggiato. In questo periodo dell’Alto Medioevo, cominciava ad affermarsi il pellegri-

naggio alla tomba dell’apostolo Pietro a Roma e i pellegrini che provenivano in parte dal Centro Europa, ma so-

prattutto dall’Est, percorrendo i resti della Via Popilia-Annia che seguiva grosso modo quello attuale della Via Ro-

mea, arrivavano numerosi a Rimini che riprese importanza e ritornò nel periodo comunale e malatestiano quel

“Caput Viarum” di antica memoria. Anche Ravenna costituiva sempre uno dei gangli delle vie di comunicazione ter-

restri e acquatiche usate dai pellegrini nonostante che la città fosse circondata da paludi malariche e questo stato di

cose perdurò anche per tutto il periodo dell’Basso Medioevo. Nel frattempo però a Ravenna la situazione ambien-

tale migliorò a causa dei lavori di regolamentazione dei fiumi Montone e Ronco, però il pericolo della malaria per-

durò a lungo (Dante vi morì nel 1321 colpito, si pensa, proprio dalla malaria). In Romagna facevano capo diverse vie

di pellegrinaggio per la posizione strategica di quella Terra, oltre all’itinerario da Forlì ad Arezzo attraverso l’Alpe di

Serra e descritto nei numeri precedenti del giornalino e preferito dai tedeschi, partiva un percorso romipeto da Ce-

sena che seguiva la valle del fiume Savio fino a Sarsina, per portarsi ad Alfero, all’Abbazia del Trivio e poi superando

l’Appennino al Poggio dei Tre Vescovi m. 1127 scendendo a San Sepolcro, un altro sempre da Cesena verso Penna-

billi e il Sasso di Simone, uno ancora da Rimini per Verrucchio, Pennabilli e Sasso di Simone seguendo in parte il cor-

so del fiume Marecchia, un altro partiva nei pressi di Cattolica seguendo la valle del fiume Conca per Mercatino

Conca innestandosi nel percorso che descriveremo. Nel fascio di itinerari esistenti, per chi proveniva da est, vi era-

no due percorsi molto più preferiti degli altri, uno dei quali era il tracciato della antica Via Flaminia che, nel Basso

Medioevo affermandosi sempre più il pellegrinaggio lauretano, permetteva di inserire nel viaggio di andata o ritor-

Il perimetro urbano di Rimini medievale

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no da Roma anche la visita alla Santa Casa di Loreto e allo stesso tempo permetteva il facile accesso ai luoghi fran-

cescani dell’Umbria. L’altro importante percorso di pellegrinaggio era quello che da Rimini portava a Ospedaletto,

passava nel territorio della Repubblica di San Marino, Serra Nanni, Carpegna, Sasso di Simone, Parchiule, varcava

l’Appennino al Passo delle Vacche m. 1119, toccava l’eremo francescano di Monte Casale e scendeva poi a San Se-

polcro, e quest’ultimo itinerario sarà l’oggetto del presente articolo e dei successivi. Importante è poi sapere che

nel pellegrinaggio devozionale solo ai nobili era permesso viaggiare a cavallo. Il resto dei viandanti camminava a

piedi, i pellegrini che scontavano pene inflitte dai tribunali ecclesiastici ma anche civili (pellegrini coatti) viaggiavano

a piedi nudi, con vestiti a brandelli e a volte con addosso le catene, dando uno spettacolo che doveva essere molto

commiserevole. Viene spontanea una domanda: perché i pellegrini preferivano un itinerario rispetto ad un altro? Ci

sono una serie di ragioni che chi si metteva in cammino conosceva bene. Innanzi tutto, un percorso è un susseguirsi

di tappe che formano una linea a carattere geografico dove è molto stretto il rapporto esistente fra morfologia del

terreno e viabilità che è una cosa essenziale. Esisteva poi una grande preferenza per i percorsi di crinale che d’esta-

te erano più ventilati, privi di acque stagnanti e dove la visibilità era maggiore perché spaziava in due versanti e

quindi migliore era l’orientamento, non esistevano sulle creste problemi di guadi e di allagamenti e quindi il terreno

era asciutto. Era importante poi essere a conoscenza se i percorsi erano più o meno indicati dal punto della sicurez-

za personale, tanto che per far fronte a episodi di banditismo si preferiva viaggiare in gruppi numerosi, spesso ag-

gregati alle carovane dei mercanti che molte volte erano scortate da soldati armati, nei valichi dei percorsi più tran-

sitati stazionavano spesso gruppi armati alle dipendenze delle abbazie. Vi erano pellegrini che cercavano di stare

lontano dai castelli per motivi giuridici e di sicurezza, altri per non pagare i pedaggi, altri invece cercavano di per-

nottare nei castelli, molte volte si preferiva un itinerario all’altro a causa della situazione politica dei paesi che dove-

vano essere attraversati o addirittura per non trovarsi in mezzo a guerre fra città e città. Importante poi era la con-

nessione dei percorsi in altri più facili dal punto della percorribilità, della sicurezza e dell’ospitalità. Però, per un per-

corso di pellegrinaggio, il fattore determinante era dato dalla struttura ospitaliera di sostegno. Il pellegrino non

avrebbe potuto raggiungere una meta a volte assai distante soltanto con i propri mezzi in quanto aveva necessità di

appoggiarsi ad un sistema assistenziale che gli permetteva di realizzare un viaggio che spesso era molto pericoloso

e difficile. Nasce così, lungo quelle che definiamo “vie di pellegrinaggio”, una rete abbastanza fitta e articolata di

Il ponte di Tiberio, finito di costruire nel 21 d.C. a Rimini

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hospitia, spedali, luoghi di accoglienza dove era possibile per il pellegrino sostare alcuni giorni con vitto e alloggio

gratis. Spesso sono edifici semplicissimi, costituiti da poche stanze con alcuni pagliericci per dormire, in genere sono

tenuti da confraternite e corporazioni e i migliori da ordini religiosi-militari come i Cavalieri di Malta o i Cavalieri del

Tempio. Il numero di questi hospitia, qualificava più o meno un percorso da un altro. Sul percorso si trovavano poi

le abbazie che svolgevano un ruolo di primaria importanza sia nell’accoglienza dei pellegrini (vitto, alloggio, assi-

stenza medica e religiosa), ma anche per la manutenzione delle strade e per la difesa dai briganti Certe abbazie

identificavano un percorso perché erano importanti luoghi di culto e di potere contemporaneamente e conosciute

da tutti. Insieme alle abbazie avevano una loro funzione minore le pievi, che però restano nella storia del pellegri-

naggio dei punti di riferimento importanti. I pellegrini arrivati a Rimini venivano accolti nei numerosi hospitia pre-

senti nel perimetro urbano, ma soprattutto facevano capo a due abbazie esistenti in quella città, l’abbazia di San

Pietro e quella di San Gaudenzo, strutture religiose che hanno avuto un ruolo importante nella storia del pellegri-

naggio della Romagna. I viandanti da Rimini si dirigevano verso San Martino Montelabbate passando poi da Ospe-

daletto, struttura ricettiva che apparteneva alla vicina chiesa di San Salvatore, priorato dell’Ordine del Santo Sepol-

cro, Ordine Equestre tutt’ora esistente. Veniva risalita la valle del Marano, torrente che nasce dal territorio della

Repubblica di San Marino e sfocia nell’Adriatico fra Rimini e Riccione dopo trenta Km di corso… (continua nel prossi-

mo numero del giornalino)

Vannetto Vannini

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Le foto di “Quelli del Martedì” Le escursioni del gruppo “Quelli del Martedì” sono ormai entrate a pieno titolo tra le attività della nostra sezione.

Per ogni numero del giornalino pubblicheremo delle foto fatte durante queste escursioni infrasettimanali da alcuni

soci partecipanti. Abbiamo riservato alla nostra tosco/friulana signora Pausa Laila, bravissima fotografa attenta a

ricercare i particolari più importanti che il paesaggio e il momento offre, uno spazio apposito perché la Laila fa foto

belle e soprattutto serie. Per le altre meno tecniche e specialmente meno serie ma abbastanza originali e spassose

fatte da altri fotografi del gruppo, ci sarà un altro spazio equivalente dedicato. Il motivo è far conoscere non solo

l’attività, ma anche lo “spirito” di che partecipa il Martedì, che è importante oltre che dal punto sociale e dei rap-

porti fra partecipanti, anche dal punto di vista culturale. Inoltre qualche foto metterà in rilievo anche lo spirito un

po’ goliardico e di amicizia necessario a far sentire ancora giovani e dinamici un gruppo di persone che da anni è nel

libro-paga dell’Inps.

Il Direttore responsabile.

Foto della Signora Laila

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Foto di altri autori

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Il ghiacciaio della Marmolada Un articolo sulla Marmolada è sempre interessante, d’altra parte la Regina delle Dolomiti con il suoi ghiacciai, con le

pareti alpinistiche di tutti i gradi di difficoltà, con la sua storia e le sue leggende, è nel cuore di tutti noi soci CAI. Ri-

portiamo volentieri nel nostro giornalino sezionale un estratto di quanto riportato nella rivista Le Alpi Venete n° 1 –

Primavera – Estate 2018. La rivista Le Alpi Venete è una rivista importante che dal 1947 è la rassegna semestrale

delle Sezioni CAI del Triveneto, attualmente 90 sezioni. L’articolo porta la firma del socio CAI Stefano Benetton della

sezione di Padova.

Il gruppo della Marmolada, massiccio che si distingue sia per rilevanza geologica che geomorfologica, sia che quella botanica e naturalistica, possiede vari ghiacciai sia per estensione e forme diverse. Nella recente storia, il periodo più favorevole all’espansione glaciale si è verificato durante la Piccola Età Glaciale (PEG), arco temporale che va dal-la metà del XVI alla metà del XIX secolo, quando si verificò un abbassamento della temperatura media terrestre nell’emisfero settentrionale. Durante questo arco temporale venne registrato un graduale avanzamento dei princi-pali ghiacciai e la formazione di nuovi corpi glaciali. Tali ghiacciai arrivarono al culmine della loro estensione intorno alla metà del XIX secolo, quando le temperature ripresero ad aumentare causando una nuova riduzione della massa dei ghiacci.

Il Ghiacciaio Principale della Marmolada è il più importante ed esteso ghiacciaio dell’intero gruppo, catalogato con il numero 941 nel Catasto dei Ghiacciai Italiani (Comitato Glaciologico Italiano, 1962). Esso ricopre la porzione più elevata del ver-sante settentrionale della Marmolada, sviluppan-dosi principalmente in larghezza, con una fronte larga circa 2, 5 Km. La zona di alimentazione è deli-mitata dall’orlo superiore della lunga cresta princi-pale, da cui si discosta solo nei pressi di Punta Roc-ca e Punta Penia. Pertanto il bacino di raccolta è generalmente ben definito, con alimentazione pre-valentemente diretta. Attualmente il ghiacciaio si sviluppa tra le quote 2650 e 3300 m. A livello alti-metrico, ormai il ghiacciaio non è più presente con continuità in tutta la sua larghezza, a causa delle tante finestre rocciose apertesi negli ultimi decen-ni. Studi scientifici dalla fine dell’Ottocento a oggi. Le prime osservazioni e informazioni relative al ghiacciaio, legate principalmente ad ascensioni alpinistiche, risalgono alla seconda metà dell’Otto-cento. Il primo a compiere dei rilievi scientifici fu il tedesco Richter (1888). Nel 1902 iniziarono le ri-cerche di Marinelli, dando l’avvio ai primi rilievi degli spostamenti frontali, fondamentali per la co-noscenza dell’evoluzione del corpo glaciale. Dopo la prima guerra mondiale, ripresero controlli siste-matici sulle variazioni frontali di tutto il ghiacciaio. Così nel 1925 si inserì l’opera del Comitato Glacio-logico Italiano (C.G. I.), che iniziò a coordinare le campagne glaciologiche. Con maggior continuità fu acquisita la seconda serie di ricerche sistematiche, condotta tra il 1925 e il 1938. Dopo un breve inter-vallo, i rilievi sul ghiacciaio furono ripresi dalla So-cietà Adriatica di Elettricità (SADE) nel 1946. A par-tire dal 1963 le indagini sul ghiacciaio furono ese-guite da parte dell’Ente Nazionale per l’Energia

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Elettrica (ENEL). I valori dei ritiri frontali, ricava-ti dalla SADE e dall’ENEL, riguardano l’arco temporale tra il 1951 e il 1966. Dal 1971 sono ripresi con buona continuità, sui bollettini del C.G.I., tutte le campagne glaciologiche relative al Ghiacciaio Principale della Marmolada. Infine nel 2015, la rinnovata necessità di una maggio-re conoscenza del patrimonio glaciale italiano ha portato all’allestimento de “Il Nuovo Cata-sto dei Ghiacciai”. Ai fini dello studio compiuto si è deciso, considerata la morfologia glaciale passata e le misurazioni effettuate, di seguire la più semplice suddivisione dei corpi glaciali for-niti dal “Catasto dei Ghiacciai Italia-ni” (Comitato Glaciologo Italiano, 1962). Variazioni areali e analisi GIS Lo studio di questo capitolo è dedicato all’evo-luzione areale del notevole complesso glaciale disposto sul versante nord del massiccio della Marmolada, comprendente il Ghiacciaio Princi-pale e il Ghiacciaio Occidentale. È particolar-mente interessante osservare la modificazione della forma delle fronti, che con il passare del tempo si sono notevolmente ritirate; l’apertura di svariate finestre rocciose, fenomeno dovuto alla perdita di spessore del ghiacciaio; il distac-co di lembi glaciali che hanno determinato, in alcuni settori, il rapido ritiro del corpo glaciale sopra gli sbalzi rocciosi che ne hanno causato il distacco. Come base è stata utilizzata una se-zione della Tavoletta F. 11 N.E. (IGM 1959), centrata sul ghiacciaio Principale e sul Ghiac-ciaio Occidentale della Marmolada. A partire dalle molte fonti analizzate, sono stati scelti gli shape file relativi alle annate del 1888, 1905, 1954, 1982,2000,2015, grazie ai quali è possibi-le vedere con chiarezza le modificazioni della superficie planimetrica glaciale, verificatesi sul massiccio della Marmolada. Oltre alla rappre-sentazione del bordo mediante linee, si è scelto di utilizzare anche un’illustrazione che eviden-

ziasse le aree, permettendo di valutare velocemente, in base ai diversi colori assunti, quali sono le principali varia-zioni areali perse o acquistate nel tempo. I valori di diminuzione areale, considerati i successivi ritiri rispetto al pri-mo dato riguardante la superficie glacializzata, risalente al 1874 per quanto acquisito attraverso la bibliografia, sono riassunti nella seguente tabella.

Periodo % riduzione rispetto al 1874

1874 – 1905 14,5%

1905 – 1964 16,2%

1951 – 1971 14,3%

1971 – 1996 8,5%

1996 – 2015 15,9%

Area residua post 2015 30,6%

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Rilevamento delle fronti glaciali. Sono stati creati dei grafici che permettono di capire l’evoluzione delle fronti, relativamente al cambiamento della loro posizione, caratterizzato mediamente da un ritiro generalizzato e di notevole entità. Nel complesso, da quando

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si hanno i valori delle misurazioni, l’arretramento complessivo ammonta a svariate centinaia di metri in tutte le fronti, con un’accelerazione nel ritiro che è andata a crescere in particolare dagli Novanta del secolo scorso. Le mi-sure vengono effettuate da operatori del Comitato Glaciologico Italiano; vengono pubblicate annualmente nei bol-lettini delle campagne glaciologiche e riportate nella rivista “Geografia Fisica e Dinamica Quaternaria”. Le misura-zione compiute dal 1902 a oggi, all’interno delle quattro serie temporali monitorate, hanno permesso di tracciare l’evoluzione della fronte, per 76 su 113 anni. Evoluzione delle fronti tra il 1902 e il 1906 Nel settembre 1902 furono compiute dal prof.re Marinelli, sui ghiacciai della Marmolada, le prime osservazioni con scopi e metodi scientifici. Solo nel settembre 1906 Marinelli, accompagnato da Toniolo, fece ritorno sulle fronti, per controllare le variazioni. I due ricercatori osservarono un generale ritiro e un abbassamento dello spessore glaciale nei pressi delle fronti. Utilizzando i valori degli spostamenti si può stimare che tra il 1902 e il 1906 il ritiro medio delle due fronti in analisi sia stato di m.1,9. Il grafico a lato rappresenta il confronto fra le oscillazioni nella posizione delle fronti, nell’arco temporale compreso tra il 1902 e il 1906. Evoluzione delle fronti tra il 1925 e il 1938 Si può stimare, partendo dalla media delle sommatorie degli spostamenti, come tra il 1925 e il 1938, il ritiro medio delle tre fronti sia stato di 66,7 m. Il grafico rappresenta il confronto tra le oscillazioni nella posizione delle fronti nell’arco temporale compreso tra il 1925 e il 1938. Evoluzione delle fronti tra il 1951 e il 1966. Tra il 1951 e il 1966, il ritiro medio delle tre fronti è stato di 127 metri. Relativamente al trend generale di notevole ritiro, è presente una variazione di tendenza negli ultimi anni di misurazioni, con ritiro che va diminuendo di entità e con presenza di valori che indicano un piccolo avanzamento durante la campagna glaciologica del 1966.

Evoluzione delle fronti tra il 1971 e il 2015. Dal 1971 al 2015, su tutte le fronti è avvenuto un ritiro dell’ordine di svariate centinaia di metri. Utilizzando la me-dia dei valori cumulati delle tre variazioni frontali, si può stimare un ritiro medio delle tre fronti di 454 m. Conclusioni Gli studi affrontati in questo lavoro hanno permesso di descrivere e quantificare le variazioni glaciali del Ghiacciaio Principale e del Ghiacciaio Occidentale della Marmolada, che appaiono in forte generale regresso in tutto il periodo studiato, compreso tra la fine dell’Ottocento e il 2015. Costituisce eccezione a questo trend solo il periodo compre-so tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta del Novecento, durante il quale si verificò unam in-versione di tendenza, con un leggero avanzamento delle fronti. L’analisi condotta ha permesso di osservare eviden-ze di frammentazione glaciale, con l’unico iniziale ghiacciaio di fine Ottocento e inizio Novecento, che ha poi dato origine a più corpi glaciali di minori dimensioni. Questo fenomeno è tipico della fase di deglaciazione. Il rispetto del ghiacciaio, visto come entità fondamentale da tutelare e non esclusivamente come risorsa economi-camente sfruttabile, potrà contribuire, per le possibilità date all’uomo, a una sua migliore preservazione, o almeno a una sua naturale evoluzione. In tale ottica la raccolta e l’elaborazione dei dati risulta essere un fattore indispensa-bile tenendo conto della rapida evoluzione del glacialismo e della necessità di un continuo monitoraggio di questa risorsa nell’ottica di un suo utilizzo sostenibile.

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Considerazioni sull’importanza della meteorologia

(Differenza fra tempo e Clima)

(Seconda parte, continua dal numero precedente)

Molti confondono il tempo

con il clima. Il tempo, che è

sempre sotto i nostri occhi,

è l’insieme delle condizioni

atmosferiche che costituisce

il frutto di una situazione

contingente. Si può dire che

il tempo rappresenta uno

degli elementi dinamici

dell’ambiente, con il vento

che da movimento all’aria,

con le nubi in continua evo-

luzione, con le piogge inter-

mittenti e a intensità varia-

bile, con la temperatura e

l’umidità dell’aria soggette a

modifiche di ora in ora, con

la radiazione solare dipendente dall’ora, dalla stagione e dalle nubi. Il clima è più difficile da spiegare, esistono mol-

te definizioni e molte sono corrette, ma nessuna riesce in fondo a rappresentare bene e in maniera completa que-

sta complessa struttura ambientale. Si può dire, con semplicità che il clima è l’insieme delle condizioni meteorologi-

che che caratterizzano una località o una regione più o meno vasta con comportamenti prevalenti ma anche minori-

tari nell’arco di almeno 25/30 anni. Trascurando gli aspetti meno frequenti, si usa ritrarre il clima con una serie di

valori “medi”, temperature, precipitazioni, ecc. È un sistema molto comodo e che ha il pregio della semplicità, ma

che nasconde molte insidie. Nel caso poi di climi molto variabili, le medie offrono un quadro falso, stabilendo com-

promessi tra gli estremi che non esistono. L’ingessatura del clima, il tentativo di scolpirlo nella pietra non tiene mol-

to conto della sua evoluzione, lenta ma comunque esistente. Anzi gli ultimi decenni della nostra storia sembrano

testimoni di una dinamica in accelerazione. Possiamo immaginare allora il clima in un altro modo, come uno stato

di equilibrio dinamico raggiunto dagli elementi dei sistemi atmosfera-idrosfera-criosfera-litosfera-biosfera (aria,

acqua, terre, esseri viventi), in presenza di condizioni esterne in parte costanti e in certa misura mutevoli (attività

solare, posizione terra-sole, presenza di gas, vapori e polveri nell’atmosfera, ecc.).

1. ATMOSFERA

1.1 Composizione dell’atmosfera: L’atmosfera del nostro pianeta è un miscuglio di gas che avvolge come un immenso ocea-

no invisibile la Terra, viene divisa in diverse zone alle quali è stato dato un significato fisico. I tre quarti di tutta l’atmosfera sin

trovano, però, in quella regione dello spazio chiamata Troposfera il cui limite è di 7 Km ai poli (dove più forte è la forza di attra-

zione della Terra), di 13 Km alle medie latitudini e di 16 km all’equatore. Sopra la troposfera si trova la Stratosfera che si esten-

de dai 16 ai 50 km. Sopra la stratosfera, fino a 90-95 Km si trova la Mesosfera. Sopra la mesosfera fino a circa 600 km si trova

solo la Termosfera ecc. Noi prenderemo in considerazione solo la Troposfera e la Stratosfera. Fino al 1600, sposando la tesi

aristotelica, l’aria era ritenuta priva di peso, mentre Gallileo accertò che, nonostante la sua natura impalpabile, un metro cubo

di aria, al livello del mare pesa 1,3 Kg. Pertanto, ogni porzione atmosferica è sottoposta al preso degli strati immediatamente

sovrastanti. È appunto tale peso (o forza di gravità) che impedisce all’aria di disperdersi negli spazi interplanetari.

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Composizione dell’atmosfera espressa in percentuali della massa totale di aria secca

Gas o vapori %

Azoto (N2) 75,51

Ossigeno (O2) 23,15

Idrogeno (H2) 1,28

Altri gas tracce

Anidride Carbonica (CO2) < 1

Vapore acqueo (H20) < 3

Ozono (O3 ) < 1

Sebbene l’aria sia una miscela di gas, la sua composizione è sensibilmente costante fino a 100 km di altezza. La

maggior parte è formata da due gas noti, azoto e ossigeno; quest’ultimo è il componente dell’aria necessario a tutte

le forme di vita, mentre l’azoto è relativamente inerte anche se prende parte attiva nella vita delle piante allorché

lo “fissano”, cioè lo sottraggono all’aria sotto forma di uno dei suoi composti. I componenti dell’aria sono raggrup-

pati in due grandi classi, quelli costanti e quelli variabili. Quelli della prima classe si trovano in proporzioni costanti,

senza variazioni apprezzabili in tutta l’atmosfera eccetto che alle grandi altezze. La seconda classe, invece contiene

gas e vapori che variano molto notevolmente per quantità, il vapore acqueo si trova tutto nella troposfera è può

arrivare fino a un limite massimo del 3%, è importantissimo per il ciclo della vita ed è la causa di tutti i movimenti

atmosferici. L’Anidride Carbonica è distribuita quasi tutta nella Tropopausa, negli ultimi anni è in notevole au-

mento ed è ritenuta uno dei maggiori responsabili dell’effetto serra. L’Ozono si trova quasi completamente nella

stratosfera ad un’altezza di circa 20 km, ha la sua funzione di difenderci dalle radiazioni UVA e UVB. Nel 1987 è sta-

to scoperto un buco nella fascia ozonica.

2. STRATOSFERA

Si estende da 15 a 50 Km; questa regione è caratterizzata da un aumento di temperatura costante che va dai – 60 a

15 Km fino a +4 a 50 km. Negli ultimi anni la Stratosfera ha assunto grande importanza perché in essa, a circa 25000

m. di altezza si trova la maggior parte dell’Ozono che forma una fascia detta Ozonosfera.

2.1 Ozono (03): L’Ozono è un gas di colore azzurro che a – 111,5°C liquefà dando origine a un liquido azzurro scuris-

simo che solidifica a – 251,4 ° C. È una sostanza tossica il cui uso richiede particolari accorgimenti per la sicurezza

delle persone e anche se molto diluito nell’atmosfera provoca irritazione delle vie respiratorie, gravi disturbi alla

respirazione e morte. Dal punto di terapeutico è un grande disinfettante, nell’industria è usato come deodorante di

olii e grassi e per stagionare artificialmente il vino. Nel campo igienico sanitario come potabilizzante dell’acqua per-

ché ossida fortemente il protoplasma dei germi causandone subito la morte, senza alterare in nessun modo i ca-

ratteri dell’acqua. L’Ozono è una molecola contenente 3 atomi di Ossigeno (03), mentre la molecola che noi respi-

riamo è formata da due atomi (02), si origina e viene regolato da un complesso di reazioni chimiche che iniziano

dalla foto dissociazione dell’Ossigeno molecolare (O2) che si scompone in due singoli atomi (0), i quali a loro volta,

nel loro incessante zig zag, si scontrano prima o poi, con qualcuna delle numerose molecole di 02 non dissociate,

dando così luogo alla formazione di Ozono (03). Questo gas assorbe (filtra) una parte dei raggi ultravioletti che arri-

vano perciò sulla superficie terrestre con un potere meno penetrante, quindi meno dannosi.

2.2 Raggi ultravioletti (UVA - UVB - UVC): I raggi ultravioletti rappresentano appena l’1% dell’energia in arrivo dal

sole, ma anche la componente solare più dannosa per gli esseri viventi. Hanno infatti capacità di penetrare attraver-

so l’epidermide in profondità nei tessuti provocando ferite, ustioni e tumori (melanoma). Gli strati alti dell’atmosfe-

ra assorbono integralmente i raggi UVB, la radiazione che raggiunge la superficie terrestre è costituita essenzial-

mente da UVA e in misura minore da UVB. I raggi si differenziano in tre categorie in base alla differente lunghezza

d’onda. La frazione di raggi UV che raggiunge la superficie terrestre varia nel tempo e nello spazio ed è influenzata

dall’ora del giorno, dalla stagione, dalla latitudine, dalle nuvole, dall’altitudine e dall’angolo di rifrazione della terra.

(continua nel prossimo numero del giornalino sezionale)

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Il monte Sinai e il monastero di S. Caterina

E' difficile descrivere le emozioni che ho provato nel fare questa escursione così avventurosa, ma cercherò di farlo cercando di trasmettere il mio entu-siasmo, la mia voglia di vedere e sco-prire nuove realtà. Inizia la nostra av-ventura alle 19.30 del 14 Novembre, io, Rocco e Veronica abbandoniamo il nostro comodissimo Hotel sul meravi-glioso mare di Sharm per proseguire in pullman verso il Monastero di S. Cate-rina a circa 300 km ed a 1500 di disli-vello, la previsione è di coprire il per-corso in circa tre ore. La guida ci infor-ma che il gruppo formato dai passeg-geri del nostro pullman, circa 40 per-sone, si chiama CLEOPATRA, questa parola, sarà noi "parola d'ordine" e

punto di riferimento. Dopo circa un'ora di viaggio il pullman si ferma in coda con tanti altri pullman più piccoli, nessuno ci informa del motivo della fermata e pensiamo ad un posto di blocco. Tutti gli autisti sono in strada, ci troviamo in mezzo al deserto, nessuno parla Italiano, vediamo persone armate, io e Rocco scendiamo per avere notizie, ma anche perché il pullman era scomodissimo. C’era un buio assoluto ma è ba-stato alzare lo sguardo verso il cielo luminoso di stelle bril-lanti, che ti sembravano vicine, ed ecco, stranamente un senso di pace e di silenzio ci avvolge. Rocco, con il suo ingle-se arrangiato, riuscì a capire che questa fermata era dovuta al fatto che nel pomeriggio, a causa di un forte temporale, alcune frane avevano bloccato l’unica strada, perciò gli auti-sti non sapevano se proseguire o annullare l'escursione. Re-stammo fermi per circa un'ora, poi molto lentamente si pro-seguì per Santa Caterina. Arrivati, altro controllo degli zaini, e quindi, in fila, muniti di torcia, iniziamo il nostro cammino in salita tra pietre, cammelli, nebbia, freddo, buio assoluto e fatica. Eravamo diversi gruppi, con diversi personaggi, chi con ciabattine, chi con mantelli, altri con curiosi copricapo, ma quello che più mi ha sorpreso è la velocità di cammino impostata dalle guide, difficile da sostenere anche dai cam-minatori allenati da CAI. Dopo poco il gruppo rallenta, il disli-vello di 800 m in sei km comincia a farsi sentire, ma ecco la voce delle guide nel silenzio della notte: “marsh CLEOPATRA, marsh!” Finalmente poi, una pausa lungo il sentiero, presso una capanna che era colma di coperte, sedute improvvisate, bandierine di ogni Nazione, stemmi ecc. Con due euro ci offrivano tè o caffè, servito da un uomo nel caratteristico

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costume Beduino. Il viaggio continua, ci trovammo ad affrontare 750 scalini improvvisati che portano alla cima, luogo in cui, secondo la tradizione, Mosè ricevette le Tavole dei 10 Comandamenti, ma noi non molliamo, molti si fermano perché i cam-melli erano arrivati e non potevano proseguire in aiuto ai camminatori, arrivati in cima sfiniti ma felici per tutto ciò che si riusci-va a vedere, un magnifico spettacolo della natura, iniziava a far giorno, il sorgere del sole illuminava le grandi montagne di un colore rosso, la luce rendeva tutto magico, il mio pensiero alla Storia, la felicità di aver raggiunto il traguardo, mi sono sentita immensamente appagata. Dopo questa breve sosta, inizia la discesa verso il Monastero di Santa Caterina del VI secolo, al cen-tro di una valle desertica, il più antico della Cristianità nel mondo. Al suo interno abbiamo visto, secondo quanto scritto nella Bibbia, il punto dell'apparizione dell'Angelo del Signore a Mosè. A questo punto, riguadagnato il nostro pullman, siamo rientrati al nostro Hotel, giungendovi verso le ore 14 del 15 Novembre, stanchissimi, ma felicissimi di questa meravigliosa esperienza, pronti per ripartire. Oggi abbiamo la possibilità di consultare Internet ed ricevere tutte le informazioni, ma fare queste esperienze personalmente, dona ricordi che restano indimenticabili ed insostituibili, senza confronti. Grazie a tutti, un grande ringraziamento al CAI, a Vincenzo ed a Rocco, che ci ha sostenuto per tutto il viaggio, con la loro alle-gria e la loro forza. Grazie grazie!

Tina Riccucci

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Bianco Salento: Bianche le case, bianche le rocce

Otranto, Lecce, Gallipoli:

bianche e lucide di pioggia o di sole Dovevo venire proprio in fondo all’Italia per sentirmi a casa mia. “Da vecchia (come se un po’ non lo fossi già) voglio venire a vivere qui”. L’ho detto e l’ho davvero pensato. Sarà per il mare, certo − io amo il mare, il mio quarto elbano si fa ancora sentire − ma credo che il motivo vero sia stata la sensazione di accoglienza. In Salento non ti senti estra-neo o fuori posto. Non parlo del tipico caloroso abbraccio del sud, per cui tutti si mettono rumorosamente a dispo-sizione. No non è questo. In fondo di gente non ne abbiamo vista poi tanta. La sera al ritorno a Uggiano la Chiesa c’era la gara a chi vedeva, dall’alto dei finestrini del pulmann incuneato da Andrea tra stradine strette e bianche con porte e finestre chiuse, un “indigeno”: Due! qui ce ne sono due, stasera! Ma quelli che abbiamo incontrato, a co-minciare dal personale dell’albergo e dal proprietario, sono stati tutti discretamente e veramente disponibili. E poi tutto quel bianco: bianco delle case, bianco delle rocce. In città, Otranto, Lecce, Gallipoli: tutte bianche e lucide di pioggia o di sole. Le persone, il mare (l’odore dei posti di mare, tanto diverso da quello dell’interno), le case e la storia. Se poi non vi interessa il mare, se la natura del sud vi è indifferente (insomma se anche siete un pochino strani) ci sono due cose che, pure prese una alla volta, valgono il viaggio: il mosaico della cattedrale di Otranto e gli affreschi della basilica di Santa Caterina d`Alessandria a Galatina. Il primo vi cattura, vi risucchia nel XII secolo: mo-struoso, enigmatico, spaventoso. Non lo capite, eppure sapete che sta parlando anche di voi. I secondi sono così belli, colorati, pieni che fanno urlare di gioia (giuro io l’ho fatto appena ho alzato gli occhi): tutto quel blu, quel ros-so e quell’oro! Ai lettori consiglio due libri: il primo, L’ora di tutti di Maria Corti, (prima edizione1962, poi ristampato nei Tascabili Bompiani, 2001) è per chi vuole entrare nella storia e capire quello che i “martiri” di Otranto hanno sentito e vissuto. Il secondo, Otranto di Roberto Cotroneo (Mondadori 1997) è per chi è rimasto affascinato dal mo-saico della cattedrale e si è sentito suggestionato da quelle immagini così remote. Infine una cosa personale, un grazie ai “caìni” vecchi e nuovi: dopo un bel po’ di tempo che non tornavo a camminare, specie per parecchi giorni, mi sono sentita accolta. Come quando ho cominciato.

Matilde

Il complesso della Basilica di S. Caterina di Alessandria

a Galatina (Le)

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Interno della cattedrale di Galatina

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Grazie Judy, grazie di una poesia che è un racconto. Grazie Matilde per il tuo racconto che è poesia. Grazie per queste parole che ci uniscono nel ricordo. Grazie per parole che rendono indelebili ricordi di una terra candida e accogliente, di gente che la propria terra l’a-ma e la rispetta. Il Salento ci ha accolto e… si ci siamo sentiti a casa! Mauro A.

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SOLE E PIOGGIA IN SALENTO Si lascia il Valdarno nel cuore della notte, Si cambia autista (trucco italiano), Uno sguardo a Castel del Monte Al re studioso e curioso. Chilometri, chilometri, olivi, olivi…. Quant’è lunga l’Italia. Albergo ‘Resort’ (altro storpiamento linguistico), Ma un paradiso con verde, palme, pepe rosa. Tutti i giorni a scoprire angoli e città Con ‘leader’ omonimi, Preoccupati dell’orario, del panino, del ritrovo E, ammettiamolo, del tempo. Una costa selvaggia, con masserie, testimoni di un tempo che fu, Chiesette senza riti, anche un menhir. Cielo, scogli, erba alta, sole in faccia, zaino in spalle, Tra lentisco e mirto Adocchiando invitanti fichi indiani. Dislivelli inesistenti, è vero Ma, a cercare un faro in capo ad un capo, Sterpaglie, rovi, legni secchi, pietre storte: Non c’avevano avvertiti! Città gioiellini, con la guida, Raimondo,: Un po’ ‘casual’, maglietta bucata, Capelli affloscianti, idee riflettenti! Ammiriamo il mosaico di Otranto: Colori, leggende, fattucchiere; la basilica bizantina. Lecce con pietra bianca che si tinge E barocco personale! Poi entra il carparo, più giallo, più duro.

Gallipoli, isola sull’acqua, contornata dall’acqua … E noi? Coperti dall’acqua! Nardò con un toro, chiese, portali E, siamo in Salento, la prima università. San Pietro in Galatina ci regala Gli affreschi di Santa Caterina, Il cavaliere senza testa, e storie bizzarre. Attenti al papavero giallo! Colazioni e cene, abbondanti e gustose, Serate di foto, ping-pong, Frantoio ipogeo che produce olio lampante, E pizzica: Musicisti energici (e bello) Ballerina favolosa con ‘partner’ ‘agé’. Tutti si scatenano, col battito ritmato: Saltano, girano, ridono e … sudano. Visti gli estremi d’oriente sul 40° parallelo E con la barca ballante, al sole ‘caliente’, Un arcobaleno ‘brillante’ al finibus terrae. Ragazze, ragazzi, la vacanza è finita. Oggi partiamo con nuovi ricordi, Troppe foto, troppi chili, E … con la voglia di tornare. E pensavate fosse finito Ma quegli omonimi ‘leader’ regalano un ultimo assaggio – Si, il paese dei trulli A noi che siamo strulli. E poi: Chilometri, chilometri, olivi, olivi (e non solo), Quant’è lunga l’Italia!

Judy ottobre 2018

La signora Judy è nostra socia da tan anni e da allora è stata presente alle nostre escursioni, spesso viene anche a

quelle infrase manali del Martedì. Judy è una signora inglese (è stata anche insegnante di inglese in un corso fa o

dal CAI nel 2009/2010) stabilizzatasi nella collina di Menzano sopra a Piandiscò, ha una cultura vas ssima e cono‐

sce molto bene la nostra vallata, la Toscana e l’Italia intera. In occasione della gita nel Salento, gita molto bella e

molto bene organizzata, Judy ha scri o una poesia che per noi di “Quel Mazzolin di Fiori” è un onore pubblicarla.

La speranza nostra poi è che questa bella collaborazione in questo numero del giornalino sezionale abbia seguito

anche nei prossimi numeri.

Grazie Judy.

Il Dire ore responsabile.

In questa poesia di Judy c’è una sintesi perfe a di tu o ciò che abbiamo visto, ascoltato, odorato e gustato nella nostra esperienza salen na. Brillante, divertente e sapiente: proprio come è lei, la mia piacevolissima e irrefrena‐bile vicina di posto in questo viaggio. Chi era in Salento rivede tu o come in una serie accelerata di flash. Chi non era con noi può fidarsi delle sensazioni che la poesia suscita: è stata una esperienza davvero coinvolgente.

Ma lde

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Prati incolti del versante amiatino: Note su alcuni singolari artropodi di interesse

naturalistico

(Continua dal numero precedente)

La famiglia dei Tettigoni.

Una delle famiglie più rappresentate al mondo, ne descriviamo qui almeno 4 specie. Hanno tutti antenne filiformi

lunghissime, le femmine hanno lunghe appendici addominali (ovopositori) e i maschi hanno l’organo stridulante

nelle tegmine. Oltre 3000 specie in tutto il mondo e si conoscono forme fossili fin dal giurassico.

Un tettigonide

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L’Efippigero.

Uno dei più belli e singolari ortotteri del nostro paese è sicuramente l’Efippigero (Ephippiger Ephippiger) il cui nome

significa “sellato” portatore di sella a causa della forma insellata del torace. Si tratta di una curiosa cavalletta dal

ventre grosso, incapace di saltare e di volare con gli occhi inseriti sotto le antenne a differenza degli altri ortotteri.

L’esemplare fotografato è di sesso maschile, infatti manca del lungo ovopositore caratteristico delle femmine. Se

afferrati bruscamente questi animaletti lanciano un grido di paura; non solo, ma certuni presentano il fenomeno

dell’Autoemmorea, cioè l’emissione spontanea di goccioline di sangue attraverso esplosione.

Il Ginandromorfismo invece, saltuariamente presente in queste specie è la contemporanea presenza nello stesso

soggetto di organi sessuali maschili e femminili.

La Tylopsis Lilifollia.

Esemplare maschile, un altro vistoso rappresentante della famiglia dei tettigoni.

Efippigero

Tylopsis Lilifollia

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Cavalletta verdissima (Tettigona vividissima)

Nell’immagine, con lo sfondo il castello di Potentino, una femmina lunga circa 8 cm con il pronunciatissimo ovoposi-

tore rossastro, le lunghissime antenne ed i femori e tibie posteriori molto sviluppati e spinosi. Sono vegetariane ma

si possono cibare anche di insetti e larve a all’occorrenza si trasformano in cannibali. I loro concerti sono notturni

(da 12° gradi di temperatura in su) e l’organo stridulante si trova alla base delle tegmine (agli anteriori), costituito

da un archetto che sfrega contro il timpano.

Il Dettico dalla fronte bianca (Decticus Albifrons).

Questa bellissima cavalletta variopinta, dalle zampe robustissime e dal volo potente (la cattura è piuttosto ardua), è

comune soprattutto nell’Italia meridionale e nelle isole e canta solo nelle ore più calde. Questa specie può dare luo-

go in certi casi a imponenti devastazioni. Il suo principale nemico è un altro insetto, la vespa sfecide dalle ali gialle

che la usa per nutrire i suoi piccoli.

(continua nel prossimo numero del giornalino) Mario Morellini

Tettigona vividissima

Decticus Albifrons

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IL RISPETTO DEL MONDO VEGETALE CHE CI CIRCONDA

Stralcio di considerazioni ambientali di un anonimo fervente naturalista

Il saggista inglese John Cristopher pubblicò nel lontano 1956 un romanzo di fantascienza “Morte dell'erba” in cui il disperato l'eroe del romanzo, in un mondo pieno di ciminiere e coperto dall'asfalto, sperava di poter posare l'oc-chio sull'ultima patata o di trovare una valle fiorita nella quale riposare l’anima. L'erba è una garanzia di sopravvi-

venza. Fin quando vedremo ai nostri piedi ancora distese di verde, potremo pensare, rilassati, che la vita è ancora possibile sulla nostra Terra. Non vorremmo trovarci - e nessuno se lo augura - davanti alla visione di un pianeta in agonia, come il protagonista del romanzo sopra citato. Le piante, dobbiamo cercarle dove la misericordiosa saggez-za di Madre Natura le ha seminate: nel campo, lungo i sentieri, nei boschi, nelle praterie, non dal vivaista. L’avvento del progresso ha creato in noi una grande distrazione. Si vive sempre i più nel contesto artificiale dei c.d. “social” perdendo consapevolezza della Natura, di cui siamo parte. Eppure basterebbe passare un’ora in contemplazione

della vita misteriosa di un campo, di un prato o di un bosco, dimenticandoci il resto, per ritrovare la nostra apparte-nenza genetica al mondo della natura. Ogni piccola erba, ogni cespuglio ha la sua ragione di vita e di morte e merita rispetto. Lo scrittore ed erborista francese: Maurice Mességué ha scritto "Sulla terra che Dio ci ha dato ci compor-tiamo pressappoco come un elefante in un negozio di porcellane, devastando tutto al nostro passaggio, mentre

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dovremmo badare con tenerezza infinita a non calpestare né il più piccolo filo d'erba, né la più piccola formica". Tra piante, animali ed inseti esiste una meravigliosa complicità cerchiamo di accorgercene e non guastarla. Ripulendo le sterpaglie del sottobosco o di un prato abbiamo ucciso centinaia di migliaia di formiche e di insetti vari. E con que-sto? E con questo abbiamo sterminato quella fitta schiera di artigiani e di lavoratori che assicuravano l’ordine bota-nico. Vedete che cosa è successo per esempio del lombrico: gli americani, dopo averlo perseguitato e cacciato, lo hanno ora riabilitato, creando delle vere e proprie fattorie per l'allevamento. Le leggi che regolano le grandi comu-nità vegetali vengono direttamente da Madre-Natura. In ogni campo, in ogni radura, in ogni bosco, vive una comu-

nità. Là opera una “dialettica" vegetale che in pratica regola la vita di questa comunità verde: grandi piante, alberi altissimi, che superbi ed arroganti distendono i loro rami nel cielo e sprofondano le radici in basso, accanto ad albe-relli, a cespugli, ad erbe, che si nascondono nell'umido, all'ombra delle grandi, e dell'ombra e con l'ombra vivono. Dovrebbe parlarsi anche di fitosociologia. Sì perché le piante e le erbe sono organizzate in classi sociali, con una gerarchia sociale, con privilegi sociali, probabilmente anche con ingiustizia sociali: non ci dovremmo meravigliare se, leggendo un giornale un dì da venire vedessimo una notizia di questo genere: “Accordo raggiunto tra il sindaca-to delle conifere e il sindacato delle ombrellifere". Le piante sentono: lo sapevate? Ormai è stato scientificamente dimostrato: anche le piante sentono, soffrono, gioiscono, e a loro modo piangono. Si vuol forse dire che hanno un’anima? Non un'anima nel senso che intendiamo noi, ma qualcosa che avevamo noi, alcuni milioni di anni fa, quando gemendo e strisciando siamo usciti dal regno vegetale per entrare in quello animale. Gli esperti parlano, riferendosi alla sensibilità delle piante, di un'aura. Che cos'è l’aura? Avete mai visto una calamita? Ebbene, la parte

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calamitata di un ferro, o di un ago, esercita la sua forza di attrazione: ciò dimostra che esiste una vera e propria irra-diazione di magnetismo. Lo stesso dicasi per I'aura. Non c'è alcun dubbio che il regno vegetale emana una fortissi-ma influenza: da qui, le antiche leggende - Ieggende fino a un certo punto - le quali attribuivano qualcosa di sacro e di magico alle piante. Ci sono piante dotate di un’aura fortemente irradiante, e perciò con un'individualità, o meglio una personalità, ben spiccata. Altre, invece, sono meno dotate. Questo dimostra che come avviene fra gli uomini e gli animali, anche le piante sono soggette a simpatie e antipatie: come spieghereste altrimenti il fatto che ci sono persone che non riescono assolutamente a far sopravvivere le piante coltivate nel loro giardino? Si sa che i fiori gioiscono per esempio delle ammirazioni e delle cure ricevute, con le stesse reazioni di una fanciulla. Che cosa av-viene in quel misterioso laboratorio che è la terra sotto la quale nasce la vita? Sottoterra, a due palmi dalla superfi-cie, tutto è misteriosamente, ferreamente concatenato. In natura, nulla si perde, nulla viene distrutto, poiché tutto si ritrasforma, e sotto altre forme viene restituito alla vita. Microrganismi, piante, animali, uomini, sono legati in strette dipendenze, in un equilibrio miracoloso “l’equilibrio ecologico ". Un bel giorno, su quei pochi metri quadrati del campo, dove a pochi palmi sottoterra si "fabbrica" la vita arriva una ruspa guidata da un uomo. La macchina scava, sconvolge, getta in un disordine spaventoso quel meraviglioso equilibrio. Nessuno si è accorto di nulla. Nes-suno si è accorto della grande tragedia vegetale. Un lembo di natura è stato violentato e offeso. Passa un viandan-

te, e sullo scempio getta uno sguardo distratto. Quindi, distrattamente prosegue. Per lui non è successo nulla. Eppu-re qualcosa è successo. Il mondo in cui vive non è più come prima. Sì, impariamo a guardare la natura. Per rispettar-la. Per amarla. E soprattutto per accettare la sua complicità. Siamo tutti sulla stessa barca del destino. Hanno ucciso una viola? Hanno ucciso qualcosa di te. In natura la campana suona per tutti. Questo scritto che ho riportato condivide gran parte del mio pensiero per l’ambiente e la natura… e spero sia cosi

anche per voi !!!

Vincenzo Monda

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L’Appennino, una lunga dorsale montuosa e 220 cime

che toccano e superano i 2000 metri

Dalla Liguria alla Calabria, senza soluzioni di continuità, si sviluppa la grande nervatura appenninica, che nella prima

parte, dal Colle di Cadibona al Passo di Bocca Trabaria. Orientata da Nord Ovest a Sud Est, costituisce l’Appennino

Settentrionale diviso in Appennino Ligure, Tosco Emiliano e Tosco Romagnolo. L’Appennino Centrale comprende

tutto il massiccio montuoso da Bocca Trabaria alla Bocca di Forli o Sella di Rionero, fra Abruzzo e Molise, spartiac-

que fra i bacini del fiume Voltuno e quello del Sangro e comprende L’Appennino Umbro Marchigiano e l’Appennino

Abruzzese. Continua poi l’Appennino Meridionale che termina infine all’Aspromonte e comprende l’Appennino San-

nita, Campano, Lucano e Calabro. In tutta questa lunga catena, spina dorsale d’Italia, vi sono 220 cime che toccano

o superano l’altezza di 2000 m. Noi partendo dalla cima più bassa e quindi in ordine crescente, periodicamente in-

seriremo nel nostro giornalino la foto di cinque vette, foto riprese dai vari siti internet che si possono trovare

sull’web.

Continua la ricerca e la pubblicazione sul giornalino sezionale, in rigoroso ordine crescen-

te, delle 223 cime appenniniche che superano i 2000 m. di altezza. Siamo alla sesta pun-

tata…

N° 195: Monte Siella - 2027 m. Gruppo del Gran Sasso

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N° 194: Monte Forcellone m. 2030. Appennino Marsicano.

N° 193: Monte Acuto m. 2035. Monti Sibillini.

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N° 192: Monte Cavallo m.2039. Appennino marsicano

N° 191: Monte Pizzo Deta m.2041. Monti Ernici

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I Mercatini di Natale in Alto Adige L’Alto Adige è una delle provincie italiane in cui si vive meglio, servizi efficienti, cittadine a misura d’uomo, teatri, musei e aree

verdi ben curate, un tasso di disoccupazione fra i più bassi d’Europa, uno scenario naturale privilegiato che diventa particolar-

mente suggestivo prima e durante le feste di Natale. Troppo a Nord per essere totalmente italiana e troppo a Sud per essere

del tutto austriaca, il capoluogo altoatesino e le altre cittadine si presentano come luoghi ideali per vivere, con usi e costumi

della Mitteleuropa che si fondono alla perfezione con le atmosfere più tipiche dell’area mediterranea. Una delle caratteristiche

da sempre dell’Alto Adige è la ricerca costante di novità da offrire ai residenti e agli ospiti, cercando di coniugare l’anima com-

merciale di ogni iniziativa con quella più tradizionale e contadina legata soprattutto al territorio e all’usanze, al folclore e alle

consuetudini di un popolo. In questo contesto è nato a Bolzano nel 1990 il primo Mercatino di Natale d’Italia, un’esperienza di

grande successo, imitata poi in tutte le regioni d’Italia e costruito sulla lunga esperienza del Mercatino di Natale di Norimberga.

I Mercatini di Natale in Alto Adige sono cresciuti dimostrando come l’aspetto commerciale può convivere con le tradizioni

dell’Avvento, tipiche e caratteristiche di quel periodo. Il periodo di nascita dei mercatini non è casuale in quanto, fra le cause

dei questa iniziativa è da ricercare quel clima di pace, amicizia, collaborazione fra la popolazione di lingua italiana e quella tede-

sca, che dopo il periodo buio del terrorismo alimentato da frange estremistiche sud tirolesi, ha generato nuovo turismo e com-

mercio. I 21 militari morti , alcuni morti civili e gli oltre 400 feriti e mutilati dai micidiali ordigni usati dai terroristi nei sanguino-

si attentati di Malga Sasso, di Cima Vallona nel Comelico che non è Alto Adige e in numerosi altre azioni terroristiche degli anni

’60 e mai da noi Alpini dimenticati, le valigie esplosive per uccidere e creare paura e panico collocate nei treni internazionali

fuori dall’ Alto Adige e che scoppiavano in provincia di Trento e di Verona, non hanno mai frenato i propositi di pace tra la par-

te sana della popolazione, sia italiana che tedesca. Il duro, delicato periodo dell’Ordine Pubblico armato (OP), fatto dagli Alpini

insieme a Carabinieri e Finanzieri è servito a controllare il territorio, isolare gli estremisti, creare un clima molto positivo fra la

popolazione, clima di fiducia che poi ha favorito l’affermarsi di quella piccola ma capillare imprenditorialità artigianale che è

sempre stata il motore dell’economia alto atesina. Una iniziativa, quella dei mercatini natalizi, che in pochi anni, già all’inizio

del Duemila, aveva portato in Alto Adige oltre un milione di turisti. Una provincia dove anche il turista più frettoloso resta colpi-

to dalle splendide vallate alpine dove l’uomo, con il suo lavoro, ha saputo trovare una particolare armonia con la montagna e la

natura nel suo complesso. Grazie a questo rapporto reverenziale e particolare, che ancora oggi caratterizza la vita del contadi-

no- montanaro altoatesino inserito appieno nella natura circostante, è possibile ammirare questo territorio risparmiato dalla

Bressanone - Brixen

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speculazione edilizia e salvaguardato da una rigida legislazione protezionistica emanata dalla Provincia autonoma di Bolzano.

Questa peculiarità dell’Alto Adige riguarda qualsiasi centro, grande e piccolo dove da sempre si è cercato di difendere e conser-

vare le tradizioni culturali, artigianali (recentemente la provincia ha negato un grande insediamento dell’IKEA) e le linee archi-

tettoniche tradizionali che conferiscono a l’Alto Adige una proprio identità, molto marcata e inconfondibile. Il risultato di que-

sta politica oculata e anche un po’ protezionistica è che lo shopping acquista una caratteristica molto particolare grazie anche

alla vasta gamma di articoli, creati in loco e non nei paesi asiatici, che consente di risvegliare in qualsiasi turista, la curiosità e la

voglia di portare a casa qualcosa di unico e particolare, una testimonianza ed un ricordo di una terra nella quale spesso si torna

con piacere. Nell’aria gelida prenatalizia si sente il profumo della cannella, di vainiglia e mandorle e fa oltremodo piacere riscal-

darsi con il vin brûlé in un sottofondo musicale di armonie natalizie e canti tradizionali. Tutt’intorno brillano mille luci e addob-

bi, statuette di legno, palle colorate, candele di tutte le misure, giocattoli di legno che fanno parte dell’antichissima tradizione

locale e poi pezzi di artigiano locale, pizzi, ceramiche, ninnoli, per arrivare ai cappelli, alle pantofole e ai quanti di feltro, ele-

menti insostituibili nel look del tirolese. Una volta un giornale nazionale scrisse, ed è vero, che tutti i cinque sensi, vista, udito,

gusto, tatto e olfatto, sono coinvolti nel magico evento dei mercatini che in questo periodo animano località altoatesine come

Bolzano- Bozen, Merano- Meran, Bressanone- Brixen, Brunico - Bruneck e Vipiteno – Sterzing. Una atmosfera che rapisce gran-

di e piccoli, suscitando irrefrenabili golosità e voglie di acquisto e che è diventata un formidabile richiamo turistico, ed è pro-

prio in questi mercatini che possiamo senza ombra di dubbio dire che è la forza della tradizione che fa il business. Per la verità

si deve dire che i Mercatini sono tipici di una area culturale tedesca più a Nord di quella sud tirolese, ma è anche vero che essi

sono l’espressione di un momento, quello prenatalizio d’inizio inverno, da sempre caratterizzato da riti e tradizioni che nascono

dalla profonda devozione popolare della gente di montagna. Nei numerosi stand, che sono sempre graziose casette di legno,

ben fatte e curate nei minimi particolari, mai con il tetto di lamiera, si ritrova il calore, la cura del particolare, l’armonia, il senso

dell’accoglienza, ma soprattutto la fede e la religiosità vera e mai di facciata della gente semplice e alpina. In sintesi, si ritrova

attraverso la gente l’anima di questi luoghi da fiaba incastonati nelle Dolomiti. È questo che fa incantare i turisti, fa volare la

fantasia di adulti e ragazzi. É questo insieme di sentimenti che ci riporta tutti bambini o ci fa tornare alla memoria, dagli angoli

più nascosti della nostra mente, qualche fiaba perché la tradizione alpina e montanara è una tradizione vera, solida, motivata e

autentica. In questo periodo prenatalizio dell’Avvento, quando le giornate si fanno fredde e corte, la stanza della Stube diven-

tava una volta il luogo delle chiacchiere, delle favole, dei sogni, degli assaggi di grappa, della pianificazione dei lavori per prepa-

rare la casa in vista del Natale, considerata dalla gente di montagna una festa esclusivamente religiosa. Nella stanza della Stube

aumentava l’attesa di questo grande momento religioso e si approntavano, si creavano gli addobbi natalizi, poveri ed essenzia-

li.

Brunico - Bruneck

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Merano - Meran

Vipiteno - Sterzing

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Nelle vallate altoatesine, all’intimità religiosa si sono sempre sommati anche retaggi di antichissimi culti pagani legati al solsti-

zio, pensando al buio, al freddo dei lunghi mesi invernali. Da questa tradizione di creare nella stanza della Stube gli addobbi per

la propria casa e nata poi la tradizione di commercializzare questi addobbi prodotti dagli stessi artigiani del luogo. Anche l’arte

dell’intaglio del legno e della tessitura artistica nascevano nella stanza della Stube, in particolar modo nelle valli più isolate co-

me la Val Gardena e la Val Badia. Nei mercatini ogni località presenta un biscotto con la forma del proprio emblema cittadino.

Così a Bolzano abbiamo l’angioletto, a Merano la campana, a Bressanone l’agnello, a Brunico la stella e a Vipiteno la torre. A

Bolzano l’appuntamento è, come sempre, in Piazza Walter accanto al duomo, ma poi i mercatini si estendono in altre piazze

del centro come piazza dei Domenicani, piazza del Grano, angolo cittadino molto suggestivo, piazza delle Erbe, piazza del Muni-

cipio, piazza della Mostra, sede del mercatino dell’artigianato artistico. Ma è tutto il centro storico che si trasforma e si veste di

luci, con il sottofondo delle tradizionali melodie dell’Avvento mentre gli espositori offrono oggettistica in vetro, legno, ceramica

e tante idee per i regali natalizi. Un atmosfera che ricorda il ruolo di città degli scambi fra il Sud e il Centro dell’Europa svolto in

passato da Bolzano. Non può mancare una passeggiata in Via dei Portici, via che rappresenta il nucleo originario dell’antico

insediamento urbano sorto su iniziativa dei vescovi- principi di Trento nel XII secolo. La via è lunga circa 350 m. e deve essere

percorsa lentamente perché sono 350 metri di storia, 350 metri di architettura alto atesina. In Valle Isarco, a Bressanone, il

mercatino natalizio accresce quella magica atmosfera che si porta dietro la città dei principi-vescovi. La bellissima piazza Duo-

mo oltre agli espositori accoglie gruppi musicali, cori e suonatori di organetto. Sul fronte gastronomico c’è la possibilità di degu-

stare alcune specialità tipiche del Sud Tirolo, che vi garantisco sono eccezionali: zuppa di gulasch, zuppa d’orzo con carne affu-

micata, i Tirtln che sono una specie di frittelle ripiene di ricotta, spinaci e crauti e naturalmente i canederli. Fra i dolci ci sono i

Krapfen, frittelle accompagnate da marmellate contadine, in particolare quella tipica dei mirtilli e i Buchtlen con crema di vaini-

glia. Destinazione obbligatoria, facendo una passeggiata fra le bancherelle, non può essere che il Museo dei Presepi nel Palazzo

Vescovile, una delle collezioni fra le più belle d’Italia. Da tenere presente che la tradizione dei presepi proviene dal sud e non

dal nord, ma a Bressanone, centro importante di commerci era già praticata nel XV secolo. Anche i dintorni di Bressanone sono

ricchi di tesori architettonici e religiosi come l’abbazia di Novacella –Newstift- che ospita dall’anno di fondazione 1142 i monaci

Agostiniani. Tutt’intorno alla bella abbazia dai tetti con tegole cromatiche, si estendono i vigneti più settentrionali d’Italia dove

da molti secoli si producono i tipici vini della Valle Isarco. Qui il clima gioca un ruolo fondamentale: le escursioni termiche tra

giorno e notte durante la maturazione, contribuiscono alla formazione di aromi molto intensi. Ogni vitigno ha la propria esposi-

zione: in quelle più fredde c’è il Kerner, in quelle più calde il Sylvaner, altre ancora prediligono le zone più alte, come il Muller –

Thurgau che per questo è detto “l’alpino”. Dalle vinacce di questi vini vengono distillate delle grappe che hanno degli aromi

vigorosi e particolari, tali da “resuscitare i morti”. Vipiteno, una cittadina dal sapore medievale e dal fascino moderno e sede di

Bolzano - Bozen

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uno dei più prestigiosi Reggimenti Alpini (5°) invece accoglie i mercatini all’interno del suo cuore antico, con la bella Torre delle

Dodici, simbolo della città che fa da sfondo al festoso clima natalizio. Vipiteno è stata per secoli un importante centro minera-

rio e proprio in questa parte urbana viene rievocata la storia della cittadina. Come in altre località dell’Alto Adige è ancora viva

la tradizione dei Krampus, i diavoli- caproni che sfilano la sera in cerca dei bambini cattivi. Queste figure della leggenda altoate-

sina, coperti da orribili maschere dalle grandi corna e vestiti con pelli di capra, si muovono per le vie suonando campanacci e

corni e sono sempre “indiavolati”, perche stuzzicati continuamente dagli spettatori. Però sono accompagnati da una figura rap-

presentante San Niccolò che invece porta i dolci per i bimbi buoni, e questo è l’aspetto religioso di una tradizione dagli evidenti

riferimenti pagani. Brunico, capitale riconosciuta della Val Pusteria e sede dell’importante 6° Reggimento Alpini, unità pilota

che sta addestrando i reparti alpini di mezzo mondo, accoglie i mercatini tra Via Bastioni e la bella Piazza del Municipio. Nella

cittadina pusterese fra i prodotti dell’artigianato, dolcezze varie, concerti con musiche natalizie, un posto d’onore va riservato

al loden, un tessuto che ha permesso ai contadini di creare capi caldi e robusti come cappotti, mantelle, pantaloni e gonne. Fu

l’imperatore Francesco Giuseppe che fece diventare di moda in tutta Europa questo tessuto introducendolo alla corte di Vien-

na. Ricordo bene che negli anni ’60, oltre a segherie e fornaci, l’unica fabbrica di una certa importanza e dimensione vista in Val

Pusteria era la fabbrica di loden a Vandoies e proprio a Vandoies (Vintl) c’è il Museo del Loden, testimonianza importante per

capire gli stili e le tradizioni di vita della gente di queste vallate di confine. Merano, importante luogo di cura e di villeggiatura

sia ora che al tempo dell’impero asburgico e una cittadina per i gusti raffinati, può permettere di abbinare il piacere dei Merca-

tini di Natale con le passeggiate fra le bancarelle ai concerti natalizi nelle chiese o lungo il Passirio, il fiume che scende impetuo-

so dal Passo del Rombo e dà il nome alla Val Passiria. La bella cittadina costruita dai romani nel punto di incrocio di quattro valli

(Val d’Adige, Val Passiria, Val d’Ultimo, Val Venosta) è famosa per le terme, strutture moderne ormai conosciute in tutto il mo-

do e inserite perfettamente nel contesto cittadino. A Merano i Mercatini di Natale si svolgono proprio nella bella, romantica

Passeggiata del Lungo Passirio che comprende il Kurhaus, un simbolo per Merano, uno dei due grande edifici liberty conosciuto

in tutto il mondo (l’altro è il Teatro Puccini). In Italia, la tradizione dei Mercatini di Natale non poteva quindi aver luce che in

Alto Adige, dove l’amore per la natura, lo scenario di vallate verdi e di monti bellissimi, di centri storici intatti e raffinati, di ca-

stelli incantati, di una forte religiosità popolare va di pari passo alla storia del territorio e a un artigianato raffinato che è il van-

to di una antica civiltà montanara e alpina.

Vannetto Vannini

BRESSANONE - BRIXEN

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LE RICETTE DI… DANIELA!

Cari soci CAI, siamo giunti già a Natale e come ultima ricetta 2018, voglio condividere con voi dei bi-scotti! Sono i biscotti di una nostra socia Mariella Santini che ce li ha fatti assaggiare durante la festa della castagnata e meno male che ne ho presi uno, perché dopo 5 minuti non c'erano più, da quanto sono buoni! vi consiglio di farli, perché la ricetta è semplice e Mariella dice che si possono conservare a lungo in una scatola di latta, ma io dico che si conserveranno solo se li nascondete in un posto segreto perché chi li trova se li mangia tutti!!!

BISCOTTI DI MARIELLA

INGREDIENTI:

100 g di nocciole;

100g di mandorle;

150g di zucchero a velo;

scorza di limone grattugiata;

N°2 albumi;

Burro;

Farina;

cannella in polvere.

PREPARAZIONE: Montare a neve ben ferma gli albumi, quindi incorporarvi delicatamente lo zucchero a velo fino ad ottenere un impasto legge-ro ed omogeneo. Unire al composto le nocciole e le mandorle finemente tritate, un pizzico di cannella e un po' di scorza di l i-mone grattugiata. Con due cucchiaini formate dei mucchietti di impasto ed adagiarli un poco distanti tra loro in una teglia im-burrata e infarinata o nella carta da forno. Infornare a forno statico a 150° per 10 - 15 minuti e lasciar raffreddare prima di stac-care i biscotti dalla teglia. Quando durante queste feste verranno da voi ospiti inattesi, tirate fuori dal vostro nascondiglio segreto i biscotti di Mariella e farete un figurone, vanno bene a tutti perché rimangono friabili e morbidi. Augurandovi Buone Feste, vi faccio i miei migliori auguri per un 2019 pieno di salute, di pace interiore e serenità… e quando vi sentirete un po' giù, andate a cercare, sempre nel vostro posto segreto un biscotto di Mariella e vedrete che la vita vi sorriderà di nuovo! Sempre se vi ricordate dove li avete nascosti!!!

Ciao a tutti… e alla prossima escursione!

Daniela Venturi

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Attività Sezionale GENNAIO – MARZO 2019

Ogni martedì si svolgono escursioni infrasettimanali, solitamente di tipo “E” e sempre con mezzi propri, sul territorio regio-

nale; il programma delle escursioni è visibile, aggiornato mese per mese, nella sezione PROGRAMMA del sito, in sede e

presso le varie Pro Loco. Si raccomanda a tutti gli interessati (soci e non soci) di contattare il referente della singola es cur-

sione (nome e recapito telefonico nella circolare) il pomeriggio del lunedì per avere conferma.

EDITORE

Mario Bindi

DIRETTORE RESP.

Vannetto Vannini

REDAZIONE

Lorenzo Bigi

Ermanno Carnieri

COLLABORATORI

Daniele Menabeni

Vincenzo Monda

Da Giovedì 10 a Domenica 13 Gennaio

TRENTINO: Obereggen e Lavazè

Sci di fondo, sci alpino, ciaspolate.

Pullman

Accompagnatore: Fulvio BRUSONI

***

Domenica 20 Gennaio

TOSCANA

Pratomagno

Mezzi Propri

DIFFICOLTA’: percorso di tipo E/EE

Accompagnatori: Oliviero BUCCIANTI - Massimo BELLACCI

***

Domenica 03 Febbraio

TOSCANA

Siena: Panorami su Siena

Mezzi Propri

DIFFICOLTA’: percorsi di tipo E

Accompagnatori: Sauro SOTTILI —Daniele MENABENI

***

Domenica 17 Febbraio

TOSCANA: MARE

Punta Ala - Scarlino

Pullman

DIFFICOLTA’: percorsi di tipo E/T

Accompagnatori: Mario BINDI — Attilio CANESTRI

Domenica 03 Marzo

TOSCANA

Le Balze di Reggello

Mezzi Propri

DIFFICOLTA’: percorso di tipo E

Accompagnatori: Luciano ROMANELLI—Gabriele PICCARDI

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Sabato 16 Marzo

ASSEMBLEA ORDINARIA DEI SOCI

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Domenica 17 Marzo

UMBRIA

Panorami sul lago Trasimeno

Pullmann

DIFFICOLTA’: percorso di tipo E

Accompagnatori: Giampiero MAFFEIS—Daniele MENABENI

***

Domenica 31 Marzo

TOSCANA

Colline di FIrenze

Mezzi Propri

DIFFICOLTA’: percorso di tipo E/T

Accompagnatori: Lorenzo BIGI—Giovanni CROCIANI