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Numero VI Marzo 2014 Vox Kantis Disegno di Francesca Polverino, IIIAL Speciale! Festa della donna

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Double Edition

Numero VI Marzo 2014

Vox Kantis

Disegno di Francesca Polverino, IIIAL

Speciale!Festa della donna

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DirettriceJessica Andracchio, IVCL

Redazione Giuditta Migiani, IIIALArianna Antonelli, IIIAMarta Dibitonto, IAChiara Innocenzi, IA Michelangelo Conserva, ICGiulia Di Censi, IIID Valeria Paris, IIIDGabriele Ghenda, IIFLMichela Sabani, IIIGLValentina Midolo, IA Virginia Cenciarelli, IVALDaniela Movileanu, IA Federica Sasso, IIIC

Professori referentiSalvatore AlessiValerio Giannetti Silvia Concetta Minniti

In questo numero troverete (ahimé) pochi articoli, ma vi accorgerete su-bito di quanto siano degni di nota.Innanzitutto, terrei a sottolineare l’omaggio di Giuditta Migiani a Lu-cia Ottobrini, compagna di Mario Fiorentini, entrambi partigiani che contribuirono in modo fondamen-tale alla storia della liberazione italiana. In questo mese si renderà, dunque, omaggio al 70° anniversa-rio della strage delle Fosse Ardea-tine che seguì, come rappresaglia da parte dei nazisti, l’attacco parti-giano di via Rasella. Tuttavia Lucia Ottobrini ci appare, qui, nelle vesti non solo di combattente che ebbe un ruolo attivo nella Resistenza, ma anche in quelle di donna-sim-bolo, pronta a farci riscoprire un mondo di femminilità a quei tempi soffocato e costretto tra le quattro mura domestiche. Ma non aggiun-go nulla di più, non vorrei rovinare la piacevole spontaneità dell’inter-vista.Proseguendo con ordine, per la cro-naca interna, Martina Tomassini ci fornisce un dettagliato resoconto sul progetto Comenius che anche quest’anno ha intessuto una rete di amicizie tra ragazzi di nazionali-tà diverse dal 5 al 9 marzo, giorno in cui l’iniziativa si è conclusa tra la commozione generale degli stu-denti che vi hanno partecipato. Anche Federico Pizzo ci parla di un evento che ha avuto luogo nel no-stro istituto il 28 febbraio: il tanto atteso “K Factor”, organizzato dal Progetto Camerun Kant e concluso-si con grande soddisfazione di par-tecipanti e organizzatori. Per quanto riguarda la cronaca esterna, il National Geographic

festeggia il suo 125° anniversario con una mostra che, grazie alla forza visiva delle sue fotografie, ha affascinato e rapito lo sguardo di migliaia di visitatori, tanto da indurre gli organizzatori a prolun-gare l’esposizione fino al 13 luglio. E se scorrerete le pagine, potrete osservare che non mancano nean-che le analisi politiche del nostro Paese.E qui terminano gli articoli di cro-naca, ma solo per fare spazio alle nostre rubriche e recensioni, tra cui vorrei far notare quella de “La grande bellezza” di Paolo Sorrenti-no che, come anche il telespettato-re più distratto ha potuto constata-re, ha disseminato vittorie in ogni festival cinematografico sparso nel mondo, fino a raggiungere la con-sacrazione nella serata degli oscar 2014.

Arianna Antonelli

CONTENUTI EDITORIALE

03 · SPECIALE! FESTA DELLA DONNA

05 · ESPuLSIONI, ATTACChI E CAPrIOLE IDEOLOgIChE: TuTTE LE CONTrADDIzIONI DEL mS5

06 · LA grANDE AvvENTurA

07 · COmENIuS: bEyOND ThE LANguAgE

09 · L’ArTE DELLA SOLIDArIETà

10 · SuLLE ALI DELLA mOrTE: LA vErA STOrIA DI ALICE DOmON

11 · guArDATE IL mONDO SOTTO uN ALTrO ASPETTO

11 · IL FILOSOFO E IL vEgETArIANO

13 · LA grANDE bELLEzzA

14 · LA rAgAzzA CON L’OrECChINO DI PErLA

14 · CONCOrSO SCACChI

15 · uN mArE DA SOgNO

16 · bOrDEAux

17 · IL PrEzzO DELL’ILLuSIONE

20 · CruCIvErbA

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SPECIALE! FESTA DELLA DONNA SPECIALE! FESTA DELLA DONNA

Eroine d’Italiaomaggio a

Lucia Ottobrini

ucia è una simpatica donna di 90 anni dai vivacissimi occhi neri da cui traspare

ancora oggi una forza straordinaria. Lucia Ottobrini nasce a Mulhouse, in Alsazia, nel 1924. Sin dalla più tenera età si trova immersa in un ambiente carico di tensioni, so-prattutto in ambito sociale. Era terribile quando dalle miniere di potassio venivano estratti i caschi dei minatori rimasti là sotto e quando le manifestazioni dei lavoratori erano represse a furia di bastonate dalle guardie a cavallo. In questo clima di fermento e malcontento gene-rale Lucia, già a quindici anni, prende in mano le redini della propria vita: non ha neanche il diplo-ma di terza media, ma divora le opere della libre-ria domestica, in particolare quelle di letteratura russa e francese. A 16 anni, dopo essersi trasferita a Roma con la sua nume-rosa famiglia, trova lavoro presso l’Ufficio valori del Tesoro, contribuendo così al sostentamento familiare. Avevo poco perché davo tutto alla mia famiglia, ma quello che mi restava lo spen-devo in cibo e libri. E a Roma, una sera del 1943, incontra Mario Fiorentini, un grintoso intellettuale comunista. Da quel mo-mento non ci lasciammo più. Fu una fiammata che non si è mai spenta né attenuata. Fu subito il mio ragazzo e il mio compagno di tutta una vita. Con Mario entra nella Resistenza Romana, nel GAP centrale Antonio

Gramsci, di cui diventa subito un’attiva protago-nista. Mario e Lucia frequentano inoltre i mag-giori esponenti della cultura e dell’arte: artisti, attori, registi, protagonisti del fermento culturale italiano di quegli anni e di quelli a venire. Lucia, con i nomi di battaglia “Maria Fiori” e “Leda Lam-berti”, insieme a Mario e ai loro due compagni di lotta Rosario Bentivegna e Carla Capponi, scrive tra le pagine più importanti della Resistenza della guerra di Liberazione. La determinazione e il vigore che caratterizzano il suo contributo alla guerra partigiana non l’hanno mai abbandonata.Subito dopo la Liberazione, Lucia e Mario cele-

brano le nozze e Lucia viene accolta come una figlia dalla famiglia del suo compagno. Quan-do, dopo la Resistenza, sposai Mario, in un cer-to senso la sua famiglia mi adottò. Sua madre e suo padre furono mia madre e mio padre, ai quali, in punto di morte, promisi che mi sarei sempre presa cura del loro figlio. E così è stato, dopo 67 anni di matrimonio, noi siamo ancora insieme. E’ vero: dopo 67 anni sono ancora una coppia affiatatissima.Oggi, però, Lucia non ama ricordare quei momenti di sofferenza e di lotta: E’ terribile. La Lucia Ottobrini nel 1942

guerra è morte... l’esperienza più triste della mia vita. E’ stanca di raccontare, soffer-marsi nei ricordi rivivendo quel dolore. Delle sue numerose e importantissime azioni da par-tigiana, tra i principali momenti della guerra di liberazione italiana, preferisce non parlare nei suoi scarni racconti. Ma i suoi occhi sono ancora vi-vaci e rivelano una vitalità che non si vuole arrendere. Alla domanda: “Qual è il ricordo più piacevole che hai di que-gli anni?” lei risponde “La mia vera fortuna è stata quella di aver incontrato tanti uomini e donne meravigliose, che ci aiutato anche rischiando la loro stessa vita”.

Lucia, medaglia d’argento al valor militare, non è però solo un’eroina della Resistenza. E’ anche, in assoluto, un’icona femminile al di fuori del tempo. E’ una donna coraggiosa, che non si è fatta piegare o con-dizionare dal fatto di essere donna in un’epoca, quella del ventennio fascista, in cui alle donne veniva riconosciuto esclusivamente il ruolo di ma-dre e casalinga. In una società in cui, purtroppo ancora oggi, le donne subi-scono ogni tipo torto e discri-minazione, Lucia è una figura da celebrare. I suoi sacrifici, i suoi dolori, la sua forza, la sua determinazione, li ritroviamo noi oggi nella libertà del nostro Paese, che lei, Mario, Rosario, Carla e gli altri hanno ottenuto per mezzo di sangue e sudore, mettendo in gioco la propria vita.

“- Che cosa resta, in lei, di quel periodo di lotta?”“Una sensazione di aver fatto poco e molto. Poco, perché eravamo pochi. Molto, sempre perché eravamo troppo pochi. Con una speranza che è una certezza: nella malaugurata ipotesi che la cosa si ripetesse, non saremmo più così pochi”

[Intervista rilasciata a Adris Tagliabracci - «Il Contempo-raneo», a. XI, n. 7 -dicembre 1964]

Senza di lei non sarei una per-sona civile: lei si occupa di me e mi cura amorevolmente e quoti-dianamente. Ci siamo accettati sempre per quello che eravamo, per questo conviviamo amando-ci da 66 anni. E’ il destino che ci ha fatto incontrare. La mia Lucia dice di me: ‘Mario è un aquilone; io tengo i fili e lo riporto giù.’ Sì, è esattamente così…”

[Dall’intervista di Cecilia Lugi a Mario Fiorentini in “Ondanoma-la” – Il Giornale del Pilo Alber-telli di Roma – Mag/Giu 2011 – Numero 5 – Anno IV]

— di Giuditta Migiani, IIIAL

Ho partecipato alla guerra di Liberazione, anzitutto per risollevare il nostro paese dal baratro in cui era caduto per la follia guerrafondaia del Fascismo. In quel momento occorreva unire tutte le forze intorno all’obiettivo principale che era la guerra a fianco delle democrazie oc-cidentali. Ho combattuto avendo al mio fianco carabinieri, graduati, ufficiali, civili di idee liberali o socialiste, comunisti e democristiani, preti ed ebrei, monarchici e repubblicani, tutti uniti dal comune in-tento di cacciare via i nazisti. Il Fascismo, il Nazismo, il Franchismo erano modelli da respingere perché avevano calpestato le libertà e la stragrande maggioranza dei partigiani si batteva per la libertà.L

Mario Fiorentini

Carla Capponi

Rosario Bentivegna

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CRONACA ESTERNA CRONACA ESTERNA

Espulsioni, attacchi e capriole ideologiche: tutte le contraddizioni del M5S

cco, ci risiamo. La ghigliottina media-tica di Grillo, novello

Robespierre del XXI secolo, torna a far rotolare altre teste. Questa volta si sono ritrovati nel mirino dell’ostracismo del M5S Alessandra Bencini, Laura Bignami, Monica Casaletto, Ma-ria Mussini e Maurizio Romani, i cinque senatori dimissionari che si erano opposti all’espul-sione – di pochi giorni prima – di altri membri del partito (Orellana, Battista, Bocchino…). La pratica delle espulsioni, bisogna dire, non è una novità, anzi potrebbe essere annove-rata tra le clausole contrattuali del programma grillino. Se uno si discosta leggermente dalla

linea politica del leader, o ri-vendica una timida autonomia ideologica, viene immediata-mente isolato e messo alla ber-lina. Lo stesso vale per i giorna-listi, attaccati e denigrati solo per aver espresso un proprio giudizio sulle “purghe” grilline. Quasi verrebbe da chiedersi come concepiscono, i penta-stellati, la libertà di espressione e il diritto di cronaca. E pensare che uno dei punti cardine del loro manifesto è la democrazia

diretta del po-polo. Ma come è possibile promuovere un simile prin-cipio di sovra-nità popolare quando la democrazia viene bandita all’interno del partito stesso? Il controsenso

è evidente. Negli ultimi tempi il M5S ha seguito un’involuzione che potrebbe quasi tenere testa a quella giacobina. Quando erano scesi in campo, i grilli-ni vantavano un programma avanzato e allettante soprat-tutto per gli elettori sfiduciati, in prevalenza di sinistra, che stavano varcando le soglie dell’ateismo partitico. La lotta alla corruzione, il piano ecolo-gista della green economy, la riduzione delle indennità per i parlamentari costituivano un programma alternativo, senza compromessi, ben distinto da quello degli altri partiti. Ma da queste premesse, comunque ancora propugnate, si è passati a una serie di proposte che

strizzano l’occhio all’eletto-rato leghista. In primo luogo l’atteggiamento di Grillo e del suo esoterico guru Casaleggio nei confronti degli immigrati, quando ad esempio si sono schierati contro l’introduzione dello ius soli, il diritto che ga-rantirebbe la cittadinanza agli stranieri nati in Italia. Tuttavia la presa di posizione che più segue le orme dei proseliti della Lega è, senza dubbio, la dissoluzione del nostro Paese. “Un’arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme”, così Grillo definisce l’Italia. Per questo vagheggia la formazione di macroregioni sul modello atavico del Regno delle due Sicilie o della Repub-blica di Venezia. Se tutti gli eroi risorgimentali, morti per l’Unità d’Italia, avessero saputo che fine avrebbe fatto il Paese per cui stavano dando la vita, pro-babilmente avrebbero appeso le armi al chiodo e preferito di gran lunga una salutare bevuta in osteria. Distruggere tutto per ricostru-ire dalle fondamenta. Questa è l’ideologia di fondo del Mo-vimento 5 Stelle. Eppure non capiscono, Grillo, Casaleggio, Di Battista, che l’Italia non è un’a-raba fenice. Dalle ceneri non rinascerà niente, ma resteranno solo macerie.

— di Arianna Antonelli, IIIA

La grande avventura

in dalla sua prima compar-sa sulla Terra

4,5 milioni di anni fa, l’uomo è stato pervaso da un’insaziabile sete di conoscenza e ardente desiderio di esplorare nuo-vi mondi, conoscere realtà diverse, entrare a contatto con usi e costumi differenti dai propri, scoprire specie animali e vegetali, viaggiare nelle regioni più inospitali e selvag-ge, fino ai confini della terra...

“La grande avven-tura” è il nome della mostra allestita da Guglielmo Pepe, direttore del Na-tional Geographic Italia, al Palazzo delle Esposizioni dal 28 settembre 2013 al 2 marzo 2014 in onore dell’an-niversario della National Geografic Society (125 anni) e NG Italia (15 anni). Attraverso l’esposi-zione di 125 scatti, pannelli espositivi, cover della rivista, schermi televisivi, touch screen, si am-mirano le scoperte e le pubblicazioni dell’organizzazione. Questa è stata fon-

data il 27 gennaio 1888 da 33 scienziati e intellettuali, riunitisi precedentemente il 13 gennaio al Cosmos Club di Washington. Il suo scopo è quello, come ha affermato John Fahey, di indur-re l’umanità a prendersi cura

del proprio paese e a divenire consape-voli del fatto di non essere i padroni del mondo, di essere i più intelligenti della terra ma non i mi-gliori e quindi a im-pegnarsi a rispettare e salvaguardare tutte le altre specie viventi per il bene del nostro pianeta.

“To increase and diffuse geographic knowledge whi-le promoting the conservation of the world’s cultu-ral, historical, and natural resources” è l’obiettivo che si è da sempre prefissata la Society, che spon-sorizza e promuove l’esplorazione e la ricerca scientifica e si occupa delle più svariate discipline, dalla geografia all’ar-

cheologia, alle scienze naturali, alla salvaguardia dell’ambiente e dei patrimoni storico-arti-stici, allo studio delle civiltà e della loro storia. La società, la cui sede si trova a Washington negli USA, è gestita da ventitré membri del consiglio degli am-ministratori fiduciari e pubblica periodicamente il National Geografic Magazine, una rivista di fotografia, ricca di articoli d’illustri studiosi, giornalisti, avventurieri, ricercatori, oggi tradotta in 31 lingue diverse con cinquanta milioni di lettori al mese.

Nel 1890 la NGS finanziò la sua prima spedizione: il professore universitario Israel C.Russel e il topografo Kerr scalarono il Monte Saint Elias alto 5489m, situato al confine tra il cana-dese Yukon e la statunitense Alaska. Da allora la bandiera a strisce blu, verde, bruna, sim-bolo della società, è stata pian-tata un po’ ovunque, sulla luna nel 1962, sulla cima dell’Everest il 29 maggio 2012, sul fondo della Fosse delle Marianne il 24 marzo 2012, al Polo Nord nel 1909, al Polo Sud, esplorato nel 1929 da Richard Bird, che ripor-tò le immagini aeree di 100.000 chilometri quadrati di ghiaccio antartico. Nel 1906 sono sta-

“Poter gettare ponti che scaval-

chino millenni, continenti, civiltà, raggiungere esseri umani che lingue, scritture, leggi, co-stumi, fedi diverse

parrebbero dividere inesorabilmente da noi, e scoprire invece che ci sono similissimi - quasi

dei fratelli - ecco un insigne piacere”

Fosco Maraini (Firenze, 15 novem-bre 1912-8 giugno

2004) scrittore, fotografo, viaggia-

tore-pellegrino, etnologo, orientali-

sta, alpinista.

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CRONACA INTERNACRONACA ESTERNA

colorava e si incollavano foto e in Performance si facevano le prove per l’esibizione, il pome-riggio, dividendoci in vari grup-pi, abbiamo portato i ragazzi in giro per Roma.Il giorno dopo verso le 18.30 si è svolta la cerimonia di chiusu-ra e tra ringraziamenti, esibizio-ni, risate e probabilmente an-che qualche lacrima abbiamo dato il nostro saluto a questo progetto che in due anni ha legato ragazzi distanti kilometri e kilometri, creando amicizie che vanno oltre il confine del proprio Paese.Bisogna precisare una cosa: questo non è stato affatto un addio, è stato un semplice arri-vederci, forse a questa estate, forse al mese prossimo o forse all’anno prossimo, fatto sta che l’intenzione di rivedersi è comune a tutti.E’ stata un’esperienza fantastica sotto tutti i punti, sia a livello linguistico che di relazioni, e se mi dessero l’opportunità di rivivere dei momenti del gene-re non ci penserei due volte ad accettare.E per questo non possiamo fare altro che ringraziare chi ha reso possibile la realizzazione di tutto ciò: grazie alla professo-ressa Cacciò, alla professoressa Ferrarese, alla professoressa Parretti, al professor Giannetti, alla professoressa Keating e al preside Infantino da parte di tutti gli studenti che sono stati coinvolti nel progetto.

— di Martina Tomassini, IIICL

CRONACA INTERNA

te scattate le prime immagini notturne di animali catturate col flash, nel 1914 le prime foto a colori, nel 1926 le prime immagini subacquee.

La mostra è suddivisa per diverse aree tema-tiche: momenti indi-menticabili; bandiera; storia; esplorazioni di terra, mare, aria; scienza; natura; viaggi, ciascuna introdotta da delle efficaci e sugge-stive citazioni, come quella che ricorda che nel 2100 molte specie animali si estingueran-no.

Attraversando i corri-doi, lungo le pareti, si possono notare due straordinari scatti di grandi dimensioni: il ritratto di Robert Peary, il primo uomo a esplo-rare il Polo Nord nel 1909, e la fotografia di una ragazza afghana di Steve McCurry, la cui espressione ci induce a riflettere profonda-mente sul rapporto tra l’uomo occidentale e quello dei paesi in via

di sviluppo.

L’ultima parte della mostra è interamente dedicata alla National Geographic Italia, con le immagini di tutte le copertine della rivista, fondata 15 anni fa nel febbraio 1998. All’ini-zio costituita solo da articoli brevi, si è in seguito arricchita di reportage e inchieste effettuate in tutto il nostro Paese. Descrive le innumerevoli città italiane con le loro particolarità, si soffer-ma sulle bellezze e sui problemi della natura e dell’ambiente, esalta

il ricco patrimonio artistico, culturale, archeologico della nazione. “Inspiring people to care about the planet“, motto della rivista, è rappresen-tativo del messag-gio della mostra.

“Se dopo la mostra ve-drete con occhi diversi, più empatici, più com-prensivi, tutte le specie viventi, sarà missione compiuta. E vorrà dire che la speranza di avere un mondo migliore è ancora viva” [Guglielmo Pepe]

— di Valentina Midolo, IA

Comenius: beyond the language

uando si sente parlare di Comenius so-

litamente si pensa ad uno scambio culturale incentrato più sulla scuola e sull’imparare nuove culture che su altro. Si pensa a due ra-gazzi di diversa nazio-nalità che convivono per un periodo di tem-po e imparano ognuno qualcosa della lingua e della cultura dell’altro. E’ vero, il Comenius è anche questo. Dico “anche” perché oltre all’obiettivo scolastico, se così si può chiamare, c’è altro dietro, qualco-sa di molto più profon-do. Grazie al Comenius nascono amicizie che superano la distanza la maggior pare delle volte, dietro lo scambio di informazioni ci sono due ragazzi che ridono insieme e si divertono nonostante le diverse origini. Ed è con que-sto presupposto che mercoledì 5 marzo, chi a Ciampino e chi a Fiumicino, abbiamo ac-colto i ragazzi tedeschi e inglesi a Roma per la chiusura di questo progetto. Per molti di

noi è stata la prima esperienza mentre altri già conoscevano i loro ospiti, ma di sicuro non è stato questo a fermarci dall’entrare pienamente nello spirito del Comenius. Nonostante l’agita-zione iniziale, il primo impatto non è stato affatto tragico come pensavamo e, fatti i primi saluti e superata la timidezza, ognuno è tornato a casa propria e ha fatto in modo che il proprio ospite si sentisse a suo agio. Il giorno dopo, arrivati a scuola, i ragazzi tede-schi e inglesi sono stati accolti dal nostro presi-de e dalle professores-se ma soprattutto, con tutto il rispetto, da un enorme tavolata piena di dolci e altro. Inutile dire che all’ “ora potete andare a mangiare” della professoressa si sia scatenato il putife-rio. Dopo aver saziato il nostro stomaco con tutto quel ben di Dio, ci siamo divisi nei vari workshops: Music, Me-dia, Dance, Art e Per-formance, in ognuno dei quali ci si preparava per lo spettacolo finale che si è svolto la sera di venerdì 6 marzo. Mentre la mattina in Music si suonava, in Media si fotografava e si montava il video, in Dance si memoriz-zavano i passi, in Art si

“Qualunque sia il luogo in cui ti trovi, se non hai paura vuol dire che in te c’è qualcosa che non va”

M. Nichols

“Credo che ovunque si vada si finisca col trovare qualche riflesso di se stessi”

Peter Jenkins

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CULTURA&SOCIETÀ

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Alice Domon e Léonie Duquet fotografate dai militari fascisti sotto la bandiera dei montoneros

Sulle ali della morte: la vera storia di Alice Domon

on è necessario atten-dere una particolare ricorrenza per ricordare

il tragico destino dei desapare-cidos. La scomparsa di 40000 persone, solo in Argentina, non può essere archiviata nello scantinato della memoria e fatta riemergere solo quando lo impone il dovere istituzio-nale. Soprattutto è importante che i giovani d’oggi ne siano al corrente, perché un orrore di tale gravità non si ripeta nelle epoche future. Per chi non conosca, o ne abbia solo sentito parlare distratta-mente, la vera storia dei desa-parecidos, forse potrà trovare questa lettura di particolare interesse. Erano solo dei ragazzi, la mag-gior parte, tra i 16 e i 25 anni. La loro colpa è stata quella di ribellarsi ai regimi dittatoriali, instaurati, in Sud America, da militari fascisti come Jorge Rafael Videla o Augusto Pino-chet, organizzando azioni di protesta messe subito a tacere con sequestri, torture e violen-ze di ogni tipo. Un trattamento particolare era riservato alle donne in attesa, tenute in vita quel tanto che bastava, dopo supplizi che lascio alla vostra immaginazione, fino al mo-mento del parto, poi percosse e trapassate da una scarica di

mitra sul ventre per nascondere il taglio cesareo, eseguito –ovviamente– senza anestesia. I bambini appena nati venivano in seguito affidati alle famiglie dei milita-ri, condannati, così, inconsapevolmente a crescere tra gli assassini dei loro veri ge-nitori. Ed era per aiutare queste persone che Alice Domon, una monaca francese trasferitasi in Sud America alla fine degli anni ’60, si era unita alle Madri di Plaza de Mayo, prepa-rando una petizione con i nomi di tutti i dissidenti scomparsi da presentare al go-verno argentino. Ma nello stesso gior-no in cui la petizione fu pubblicata sul giornale “La Naciòn”, l’8 dicembre 1977, Alice Domon, insie-me a un’altra religiosa, Léonie Duquet, venne sequestrata dai militari al comando di Alfredo Astiz, infiltratosi, dietro l’apparen-za del suo viso angelico, nel gruppo delle Madri di Plaza de Mayo. La scomparsa di due citta-dine francesi, tuttavia, non poteva rimanere nascosta dietro un muro di silenzio e omertà: a distanza di pochi giorni dal rapimento, la Fran-cia già gridava allo scandalo internazionale. Per indirizzare altrove i riflettori della stampa, il governo argentino addossò ogni responsabilità del seque-stro delle due donne sull’or-

ganizzazione ribelle dei montoneros, capro espiatorio ideale per uscire da una situazio-ne a dir poco scomoda e imbarazzante. Ad avvalorare la presun-ta accusa, una lettera scritta –sotto tortura– da Alice e Léonie, nella

quale additavano come colpe-voli del loro rapimento i capi guerriglieri. Eppure le due monache erano sempre rimaste là, nelle celle dell’ESMA, da dove uscirono solo per essere imbarcate su un

Jorge Rafael Videla, dittatore dell’Argentina dal 1976 al 1981

L’arte della solidarietà

a solidarietà del genere umano - ci suggerisce Immanuel Kant - non è

solo un segno bello e nobile, ma una necessità pressante, un ‘esse-re’ o ‘non essere’, una questione di vita o di morte.”Segno ancora più bello e nobile - aggiungo io - è quando arte e solidarietà si fondono per dare vita a qualcosa di straordinario, unico, quasi magico. Perché in fondo l’arte, come la solidarietà, sta nel donare completamente se stessi senza sentire il bisogno di ricevere qualcosa in cambio. Così, in occasione dell’annuale raccolta fondi, che si inserisce nel progetto di scambio inter-culturale tra il G.B.H.S. di Fontem (Camerun) ed il nostro Liceo, alunni e docenti si sono “messi in mostra”, cimentandosi in esibi-zioni live, gara artistica, culinaria e fotografica, per dare a ognuno la possibilità di esibire il proprio talento solidale.L’evento, che prende il nome di “K Factor”, si è tenuto nei locali del nostro Istituto il pomeriggio del 28 febbraio, e ha visto un’ interessata e viva partecipazione da parte non solo di studenti e professori, ma anche di genitori ed esterni che hanno voluto fornire il loro contributo. Un contributo fondamentale ad un progetto di vitale importanza per la nostra scuola, non un pro-getto tra tanti, bensì una manife-stazione di solidarietà verso una realtà diversa, non così lontana dalla nostra. Dal ’97/’98, quando

la scuola si inserì nel pro-getto “Adotta un diritto umano. Parole e fatti”, ad oggi, certo le parole non sono mancate, e men che meno i fatti. Scambi di lettere, cartoline e foto, incontri tra la dele-gazione camerunese e alcuni studenti del Kant, un premio ricevuto dalla FAO per l’impegno, la cura e la dedizione riservate al progetto dai nostri compagni, conferen-ze video, assemblee, concerti e raccolte fondi per le borse di studio e il materiale didattico per gli studenti del liceo di Fontem: questa, in poche righe, la storia di un progetto; anzi meglio, la storia di un’amicizia, un’amicizia tra due Paesi, tra due scuole, ge-ograficamente così lontane ma vicine col cuore e con la mente.La vivace, energica ed entusiasti-ca adesione all’evento è senz’al-tro la dimostrazione del dure-vole ed effettivo interesse che il nostro Istituto continua a nutrire nei confronti di tali iniziative. La manifestazione si è aperta con il saluto ai partecipanti da parte di due studentesse, Valeria Paris e Giuditta Migiani, che dopo un breve excursus sulla storia dello scambio interculturale, hanno presentato i partecipanti al Ta-lent Show. Pianisti, musicisti, e cantanti hanno esibito la loro arte, hanno sollevato applausi, commozio-ne e strappato anche qualche risata al pubblico presente, che, chiamato a votare, ha deciso di premiare la performance di Rita Negrini. Tra un’esibizione e l’altra, nel corridoio adiacente all’Aula Magna, è stato possibile apprez-zare il talento artistico e fotogra-

fico dei kantiani, i cui lavori sono stati degni di nota. Purtoppo alla fine, si sa, il vincitore è uno solo. Mentre Alessia Stefanori ha incantato tutti con la sua scultu-ra, la fotografia di Sofia Orifici è stata decretata la migliore. Dulcis in fundo, la giuria della gara culinaria, composta da docenti, alunni e collaboratori scolastici ha avuto l’ingrato compito di dover premiare solo due tra le decine di pietanze, dolci e salate, in gara. Giuliano Turturro è stato coronato con un cappello da chef grazie alla sua torta “Pan di stelle”, Andrea Marcelli invece ha stuzzicato il palato della giuria vincendo per la categoria “salato” con il suo piatto a base di pollo e funghi. Dopo la degustazione e la premiazione dei vincitori, la giornata si è conclusa con i saluti e i ringraziamenti del Prof. Gnoc-chini e della Prof.ssa Parretti che da anni ormai tengono le redini di questo gemellaggio. Vorrei concludere con i miei personali ringraziamenti a quanti hanno preso parte a questo strepitoso evento: organizzatori, performers, fotografi, artisti, cuo-chi, alunni, docenti, personale ATA, genitori e a tutti coloro che, con rinnovato spirito, ogni anno continuano a donare se stessi.Grazie!

— di Federico Pizzo, IIIA

CRONACA INTERNAMadri di Plaza de Mayo: associazio-ne umanitaria fon-data nel 1977 da Azucena Villaflor e formata da tutte le madri dei desapa-recidos, unite nella lotta per la libera-zione dei loro figli scomparsi.

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CULTURA & SOCIETÀ

aereo e gettate –vive e piena-mente coscienti– tra le onde brulicanti di squali dell’Oceano Atlantico, in uno dei tanti voli della morte che liquidavano in maniera veloce e pulita gli oppositori del regime. E pensare che i responsabili e gli esecutori di simili atrocità, dopo pochi anni passati in car-cere, nel 1989 erano già a piede libero per merito della conces-

sione di grazia e perdono incondi-zionato del pre-sidente argentino Carlos Menem. Politici,

carcerieri, militari tornarono ai loro posti di potere, impuniti, come se nulla fosse, come se quelle 40000 vittime fossero solo dei numeri e niente più.Solo negli anni 2000, con l’ele-zione alla presidenza di Nés-tor Kirchner, l’Argentina poté raggiungere una maggiore equità giuridica: alcune amni-stie vennero revocate e, questa volta, gli artefici del “Processo di riorganizzazione nazionale” (così veniva definita la dittatura argentina) non riuscirono a sot-trarsi alle pene che da tempo li attendevano.

— di Arianna Antonelli, IIIA

Guardate il mondo sotto un altro aspetto

iao a tutti! Qualche settimana fa avevo pubblicato un

articolo sul cioccolato, ve ne ri-cordate? Insomma chi se lo sa-rebbe mai aspettato che quello che anticamente era chiamato “cibo degli dei” al giorno d’og-gi è fatto da bambini schiavi? Detto ciò, vi vorrei parlare di un video che ho visto. Parlava della bomba atomica e del-le inimmaginabili cifre che i governi spendono per esse, e intanto nell’altra parte del pia-neta ci sono persone che muo-iono di fame, malattie, e allora mi chiedo: Perché? Perché il mondo è tanto egoista? Perché dobbiamo lasciare in condizio-ni pietose delle persone come noi? A volte non mi sembra vero, ma è così! E ovviamente ci sono molte altre cose inutili per cui il mondo spende miliardi e miliardi di dollari. Dobbiamo fare qualcosa, dobbiamo agire. Vi consiglio di aprire i vostri occhi guardando il video della associazione ‘Senza Atomica’ oppure molti altri che raccon-tano quello che succede nel mondo. Concludo questo “mini articolo” chiedendovi: MA LO VOGLIAMO CAMBIARE QUESTO MONDO? Ci vediamo al prossi-mo numero!

— di Gabriele Ghenda, IIFL

Il filosofo e il vegetariano

ostein Gaarder nel suo libro ‘Il mondo di Sofia’ scrive: “L’unica cosa di cui

abbiamo bisogno per diventare buoni filosofi è la capacità di stu-pirci”. Aggiunge anche che mano a mano che cresciamo questa capacità sembra attenuarsi: è per questo che paragona i bambini ai filosofi. Per un bambino è tutto nuovo, scrive, ancora non sa cosa il mondo abbia in serbo per lui. Prova lo stesso entusiasmo nel vedere un cane come potrebbe provarlo nel vedere una persona spiccare il volo. Un bambino non è ancora schiavo dell’abitudine come lo è un adulto. Gaarder identifica in questo genuino e -nella più positiva delle accezio-ni- infantile entusiasmo il più nobile degli stili di vita.

Spesso le persone mi chiedono “Sei vegetariana? Ma come fai?”. Capita raramente di avere abba-stanza tempo e predisposizione da parte dell’interlocutore per tuffarsi in una discussione eti-co-filosofica sulle ragioni di que-sta scelta. Allora, semplicemente, taglio corto sfoderando il solito elenco di categorie (ragioni eti-che, sociali ed economiche). Ma puntualmente, appena torno a casa ed ho un momento per me, mi fermo a riflettere. C’è davvero da chiederlo? In quei momenti è come se si ristabilisse la giusta misura delle cose; come scrollarsi di dosso quella patina di apatia accumulatasi con l’adagiarsi alla corrente della vita tipico della

CJ

RUBRICA RUBRICA: GREEN(H)EART(H)

consuetudine. Un improvviso risveglio dal sonno in cui tutti, in qualsiasi momento della propria esistenza, rischiano di cadere.

Una scelta come il vegetariani-smo, palesemente operata nel rispetto della vita e come attua-zione di un senso di giustizia, superiore al frivolo “desiderio di gola”, desta davvero tanta ammirazione? “Io vorrei esserlo, ma la carne è troppo buona”, mi sento rispondere, “Beata te che ci riesci”. Come se fossi una dei pochi che “ce la fa”, una pioniera, un’avanguardista. Questa stima comporta una consapevolezza di fondo che ciò per cui si applica un vegetariano sia, quantomeno eticamente, qualcosa di giusto. E ciò, a sua volta, dimostra come spesso ci sia anche una condivi-sione dei princìpi di tale scelta.

Chi metterebbe in dubbio che sia sbagliato uccidere un ermel-lino solo per rifinire il cappuccio di un giubbino? Chi contestereb-be l’affermazione che strappare un elefante dal suo ambiente per fargli spruzzare l’acqua in un circo sia sbagliato? E chi, a cono-scenza delle condizioni di vita degli animali negli allevamenti, non si opporrebbe -in via teorica, s’intende- all’esistenza di questi ultimi? Nessuno. Allora, se è vero che nessuno ritiene giusta o meritata la sof-ferenza, mi chiedo: come mai le persone che prendono una posi-zione sono così poche? Sarebbe meno doloroso rifugiarsi nella speranza che si trattasse solo di ignoranza. Purtroppo, però, ci troviamo per l’ennesima volta di fronte a un muro mastodontico: l’indifferenza.

“Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccu-pa”, scriveva Antonio Gramsci nel 1917. Le industrie, la pubblicità, gli interessi economici, non sono forse anche queste le “poche mani” a cui si riferisce Gramsci? E la massa ignora. Non igno-ra perché non le vede, ignora perché sta bene dove si trova. “Right where it belongs”, recita il testo dell’omonima canzone di denuncia contro gli allevamenti intensivi dei Nine Inch Nails. Ma alcuni no, alcuni non riesco-no a ignorare. Non si può ignora-re il dolore, non si può ignorare la violenza, non si può ignorare la morte. Non si può ignorare quella sensazione di “schifo” che attanaglia lo stomaco nel

vedere le immagini di mucchi di pulcini gettati vivi nei tritacarne perché maschi e quindi inutili, non si possono bloccare le lacri-me e il groppo in gola nel ve-dere un gattino preso a calci.

RIGHT WHERE IT BELONGS [ NINE INCH NAILS ] See the animal in his cage that you builtAre you sure what side you’re on?Better not look him too closely in the eyeAre you sure what side of the glass you are on?See the safety of the life you have builtEverything where it belongsFeel the hollowness inside of your heartAnd it’s all...Right where it belongs

What if everything around youIsn’t quite as it seems?What if all the world you think you knowIs an elaborate dream?

And if you look at your reflectionIs it all you want it to be?What if you could look right through the cracks?Would you find yourself...Find yourself afraid to see?

What if all the worlds inside of your headJust creations of your ownYour devils and your godsAll the living and the deadAnd you’re really all alone?You can live in this illusionYou can choose to believeYou keep looking but you can’t find the wordsAre you hiding in the trees?

Vedi l’animale nella sua gabbia, che tu hai costruitosei sicuro di sapere da che parte stai?Meglio non guardarlo negli occhi troppo da vicinoSei sicuro di sapere da quale parte dello spec-chio sei?Vedi la sicurezza della vita che hai costruitoOgni cosa al suo postoSenti il vuoto nel tuo cuoreed è tutto... Esattamente al suo posto.

Cosa succederebbe se tutto intorno a teNon fosse come sem-bra?Cosa se tutto il mondo che pensi di conoscereFosse un sogno elabo-rato?

Se guardi alla tua imma-gine riflessaE’ proprio quello che vuoi essere?Se tu potessi guardare tra le crepe

Troveresti te stesso... ti troveresti spaventato di vedere?

Cosa succederebbe se tutti i mondi nella tua testaFossero tue creazioni,I tuoi diavoli e i tuoi dei, Tutto ciò che è vivo e mortoE tu fossi veramente tutto solo?Puoi vivere questa illusionePuoi scegliere di credereRimani a guardare ma non riesci a trovare le parole Ti stai nascondendo negli alberi?

ESMA: “Escuela Su-perior de Mecánica de la Armada”, scuola della marina di Bue-nos Aires, divenuta durante la dittatura (1976-1983) centro di detenzione e tor-tura degli oppositori al regime.

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RUBRICA RUBRICA CINEMATOGRAFICA

GENERE: Drammatico

REGIA: Paolo Sorrentino

SCENEGGIATURA: Pao-lo Sorrentino, Umberto Contarello

CAST: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Isabella Ferrari, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzaka

Questo, è il senso dell’orrore. Questo è quello che ci rende umani. La capacità di stabilire un legame empatico con il prossi-mo, sia esso bipede o quadru-pede, e la possibilità di agire di conseguenza. Senza tutto ciò, dove si andrebbe a finire? Si tornerebbe indietro alla seconda guerra mondiale, alla spietatezza della tortura e al gusto dell’umi-liazione solo per dimostrare a qualcuno la propria superiorità, come se l’unità di misura fosse il potenziale di vittime. Senza il senso dell’orrore, l’umanità scomparirebbe. Ecco perché sono vegetariana. Quando l’ho definita, nelle righe precedenti, una scelta, ho men-tito: non si è mai trattato di una scelta. Crescere e fronteggiare la realtà, essere messi di fronte al mondo, comporta dei doveri. Doveri morali, collettivi quanto individuali, ma che ignorare i quali significa rinunciare a una parte della propria umanità. È il carico della consapevolezza a pesare, e se non si vuole rima-nere schiacciati, si deve reagire. Ed è un carico che rimarrà lì, sulle nostre spalle, finché qualcosa non cambierà, aggravato dall’op-pressione del vuoto e dal fracas-so del silenzio.

Jostein Gaarder nel suo libro ‘Il mondo di Sofia’ scrive: “L’unica cosa di cui abbiamo bisogno per diventare buoni filosofi è la capacità di stupirci”. Io aggiun-gerei: l’unica cosa di cui abbia-mo bisogno per non perdere il nostro essere uomini è la capacità di non abituarci alla sofferenza.

— di Giuditta Migiani, IIIAL

La grande bellezzan viaggio attraver-so la Roma del XXI secolo. Una Roma

cambiata, distratta e quasi dolente ma non così diversa da quella raccontata ne “La dolce Vita” di Fellini, spet-tatrice già negli anni ‘60 di un paradiso di confusione e peccato. E’ Jep Gambardella il protagonista di questo viag-gio lungo 142 minuti, diretto e sceneggiato dal premio Oscar Paolo Sorrentino. Jep è un giornalista e scrittore dive-nuto famoso con il suo unico romanzo, “L’apparato Umano” nonché primo titolo del film; ma oltre ad essere un uomo di lettere, la più grande pecu-liarità del nostro protagonista è proprio di essere il Re della mondanità capitolina, delle feste in stile barocco e della sua vasta gamma di amici e conoscenti che ne prendono

parte. Un personaggio di una bellezza senza tempo e senza ragione, il cui cinismo risuona nei suoi salotti e regna all’inter-no dei suoi discorsi, ma tutto questo non conta perché niente intorno a lui ha senso, non la sfacciata ricchezza alto borghese, né la povertà culturale, non la finzione, né la falsa religiosità dei cardinali in limousine, ma tutto può essere ricondotto ad un concetto, linea guida del film: il Nulla. Ed è proprio questo che Sorrentino ha tentato di portare sul grande schermo: il Nulla circonda Jep, immerso in situazioni banali e sentimenti effimeri, che vive solamente nel ricordo del suo grande amore giova-nile, “incostanti sprazzi di bellezza...”, e sopravvive tutti giorni districandosi in una vacua jungla quale è la sua vita “...e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”. Un film ambizioso, fuori dagli schemi, quasi azzardato che però arriva dritto come una lama e sembra quasi far male, una Grande Bellezza difficile da afferrare e da ricercare negli attimi più semplici e inaspettati della vita.

— di Virginia Cenciarelli, IVAL

ULa ragazza con l’orecchino di perla

a ragazza con l’orec-chino di perla” è il se-condo romanzo della

scrittrice statunitense Tracy Chevalier, pubblicato nel 1999. Da esso è stato tratto anche un omonimo film nel 2003 che vede protagonisti Colin Firth e Scarlett Johans-son.

La vicenda si svolge a Delft, Paesi Bassi, nel XVII secolo, e la sua protagoni-sta è la sedi-cenne Griet. E’ una ragazza intelligente, concreta, che sa farsi valere

e sa ottenere ciò che vuole, sempre nei limiti imposti dalla sua povera condizione sociale. Per aiutare la famiglia economi-camente, Griet viene mandata dai genitori a lavorare in una casa aristocratica, nel quartiere dei papisti: la casa del famoso artista Johannes Vermeer. Qui, il suo compito più impor-tante e delicato è quello di pulire l’atelier del pittore. Griet, grazie alla luce partico-lare che ha negli occhi, riesce a colpire e conquistare Vermeer e tra i due si instaura un rapporto basato sulla complicità e com-prensione, ma anche su senti-menti ben più profondi. Tutto ciò si tramuta nella richiesta del

pittore alla ragazza di posare per un suo quadro. Quando l’opera è quasi compiuta, i due si accorgono che essa manca di qualcosa e per questo l’uomo fa indossare a Griet gli orecchini della moglie Catherina. Venuta a conoscenza dell’atto, la signo-ra Vermeer, già profondamente turbata e soprattutto gelosa del rapporto tra Griet e il marito, si scaglia contro la serva, la quale lascia il lavoro per sposare un giovane macellaio. Anni dopo, Griet verrà a conoscenza della morte di Vermeer e l’esecutore testamentario le consegnerà gli orecchini di perla, rivelandole così la reale attenzione da parte del caro pittore.

Grazie a questo romanzo è possibile entrare pienamente nel contesto dell’epoca; soprat-tutto attraverso i personaggi di sfondo, come Catherina (don-na estremamente nervosa e insicura) e Maria Thins (madre di Catherina, colei che “dirige” la casa e protegge il genero nella sua attività) si riesce a pene-trare nell’ottica della società seicentesca con le sue regole moralistiche. Il pittore, invece, viene descritto come un uomo completamente dedito al suo lavoro, un perfezionista sempre in cerca della giusta luce o del perfetto scenario per le sue opere. Con questo romanzo, Chevalier riesce a farci apprezzare ancor di più il quadro e farci andare anche oltre ad esso utilizzando una narrazione dalle più diverse sfumature.

— di Michela Sabani, IIIGL

L

RECENSIONI SCACCHI

CONCORSO

Il Bianco muove e dà scacco mat-to in 2 mosse

Il Bianco muove e dà scacco mat-to in 2 mosse

Il Nero muove e dà scacco matto in 3 mosse

Il Nero muove e dà scacco matto in 3 mosse

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RUBRICA: LE VAGAMONDO

“MUn mare da sogno

ia madre non lo deve sapere, non lo deve sapere che...voglio andare ad Al-ghero in compagnia di uno straniero!”

Così cantava Giuni Russo... e voi pronti ad andare ad Alghero?! Alghero è una ridente cittadina marittima del nord ovest della Sardegna, in provincia di Sassari. Sorge su un piccolo pro-montorio a dominio di un’incantevole rada ed è cinta in parte da mura turrite. Questa pittoresca città conserva ancora nelle sue viuzze l’influenza catalana della colonia che nel 1345 vi si stabilì. Consiglio di visitare la Cattedrale, in particolare la parte absidale, dove si aprono cappelle con volte gotiche, e il magnifico campanile.

Dopodiché non perdete l’occasione di fare il giro dei bastioni! L’escursione raccomandata è quella alla grotta di Nettuno: gli avventurieri possono arrivarci via terra dopo una scalinata, di oltre 600 gradini, che scende fino all’ imboccatura della grotta (passeggiata in discesa! A risalirli....)Per i sedentari è possibile, però, fare la gita via

mare col servizio plurigiornaliero di motosca-fo. Non potrete, poi, andare ad Alghero e non visitare la spiaggia Mugoni: spiaggia dalla sabbia finissima e dalle acque color turchese.

Nel territorio algherese sono stati riportati alla luce un centinaio di nuraghi dei quali alcuni, come Palmavera e Siseri, costituiscono delle vere e proprie cittadine nuragiche. Per la modica cifra di 3€ potrete vedere il sito di Palmavera, a pochi km di distanza da Alghero! Ad Alghero si sente parlare cata-lano, oltre all’italiano, praticamente tutti i sardi parlano perfet-tamente la lingua e sicuramente avrete spesso modo di sentire gli algheresi parlare in catalano oppure di vedere uti-lizzata questa lingua anche sulle indica-zioni stradali e nelle piazze!!E infine...Shopping!!! Rimar-rete a bocca aperta vedendo i pregiati tappeti fatti a mano dalle sarte algheresi e dalle stupende produzioni artigianali in corallo!

— di Marta Dibitonto, IA

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RUBRICA: LE VAGAMONDO

Bordeaux

ordeaux è una splendida città della Francia sud occidentale, che si affaccia sull’Oceano Atlantico. Una città den-

samente popolata, senza contare il numero di turisti che ogni anno affluiscono numerosi per visitare l’incantevole centro storico.La città francese è attraversata dal fiume Ga-ronna, un grande corso d’acqua, anticamente chiamato Aquitano, nome rimasto nella Regio-ne di Bordeaux, nota proprio come Aquitania, termine che probabilmente significava “terra delle acque”. Se l’origine del toponimo è dunque incerta, la presenza delle acque è una piacevolis-sima certezza. Il fascino unico della città è dato sia dall’Oceano che ne lambi-sce le coste sia dal sinuo-so fiume che la attraversa e in cui si specchiano gli eleganti palazzi.Bordeaux vanta di eccel-lenti musei e di una vita notturna che non sfigura con Parigi: dai resti dell’anfiteatro romano noto come Palazzo di Gallieno al Museo di Belle Arti in cui sono esposte opere di Tiziano, Delacroix,

Seurat, Renoir, Matisse, Braque e Picasso. La città è divisa in circoscrizioni come Parigi, ma gli abitanti tendono a parlare di quartieri, così si possono ammirare: il Quartiere di Saint Pierre proprio nel cuore della città che ospita il Place du Parlament, il quartiere Chartrons, conosciuto come “villaggio degli antiquari”per la presenza di numerosi negozi di antiquariato sorti dopo il progressivo declino degli scambi sul fiume, quasi a voler ricordare i tempi floridi del commercio, il quartiere di Saint Michel, di Sait Croix, di Victoire e il Quartiere Grands Homme cioè “dei grandi

uomini” Montesquieu, Rousseau, Voltaire e Diderot, che hanno dato i nomi alle strade che con-vergono nella Place des Grandes Hommes.Eleganza, vivacità artisti-ca e fascino… tutte qua-lità che questa splendida città racchiude in sé e che le hanno giustamente concesso il privilegio di

Patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 2007.

— di Chiara Innocenzi, IA

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di appurarlo nel corso della sua permanenza a Dorchester Prison: non c’era mai stata una sola sommossa o lite in cui Hartwood non fosse stato coinvolto. Diversa era la situazione di Flick, che proprio in quel momen-to sgattaiolò con agilità fuori dall’edificio. Era di origine russa, il suo vero nome era Ivan, ma veniva chiamato da tutti Flick per un tic che lo costringeva a volte a muovere la testa a scatti; era un ragazzo di 23 anni e aveva varcato le soglie del carcere pochi mesi prima. Su di lui pesava una condanna di trent’anni, sentenza ritenuta troppo lieve dai familiari delle vittime della sua follia omicida. Quel ragazzo dall’aspetto timido e fragile aveva sterminato con il Kalashnikov del padre, un reduce dalla guerra in Cecenia, i suoi vecchi com-pagni di liceo che per cinque anni lo avevano tormentato con soprusi e umiliazione. L’ergastolo gli fu evitato solo per la giovane età, mentre l’instabilità mentale non fu mai riconosciuta. Jake aveva deciso di prendere il giovane sotto la sua protezione, non riusciva a insultarlo e inveirgli con-tro come facevano gli altri, provava per lui troppa pena e compassione. Flick rappresentava, a suo avviso, il chiaro esempio della degradazione della società americana, una società imperniata sulla violenza e sul mito delle armi, una società che non presta la minima attenzione alle situazioni di povertà ed emarginazione delle periferie locali. Trovarono giacconi, sciarpe, cappelli e scarponi abbastanza pesanti per coprirsi e ripararsi dal freddo nell’ex- gabbiotto della sorveglianza, ora utilizzato come ripostiglio. Stavano per svoltare l’angolo quando intravidero due guardie appostate davanti al muro che i tre fuggitivi avrebbero dovuto scavalcare. Jake sentì Hartwood bestemmiare tra i denti. “Che ci fanno quegli idioti là? Sarebbero dovuti essere nella sezione B-41!”. “Cambiamento di programma: tentiamo un’altra strada”.Cercando di non far rumore si diressero verso l’ala ovest. Jake si maledisse per la sua superficialità: avrebbe dovuto prevedere ogni minimo imprevisto, come poteva pensare che tutto sarebbe filato liscio?

Evitando un’altra guardia di passaggio, i tre individuarono una zona sicura e abbastanza riparata dai fari delle torre di avvistamento dove potevano arrampicarsi finalmente sul muro con le corde che erano riusciti a reperire pochi giorni prima. Una volta saltati giù, cominciarono a correre senza preoccuparsi di lasciare tracce, la bufera di neve che si preannunciava le avrebbe cancellate. Per raggiungere il centro abitato più vicino era inevitabile attraversare il fiume, perennemente ghiacciato durante l’inverno, che circondava la zona. Quella era l’unica via, anche se in realtà vi era un ponte, piuttosto malandato, che però si trovava dalla parte opposta, troppo vicina al carcere. Armandosi di cautela, comin-ciarono ad attraversarlo. Ad ogni scricchiolo del ghiaccio il cuore di Jake sobbalzava. Ancora non aveva dimenticato quel pomeriggio di tanti anni prima, e, d’altronde, come avrebbe potuto? Aveva 15 anni all’epo-ca dell’incidente, il ghiaccio aveva ceduto sotto i suoi piedi e in attimo si era ritrovato immerso nell’acqua gelata. Neanche riusciva a ricordare come c’era finito su quel lago, il ricordo era stato offuscato da quella sensazione di dolore, annebbiamento e paura che ormai lo accompagnava da tempo.

Tuttavia lo aiutava a proseguire il pensiero che presto sarebbe stato libero, lontano dalla vita dietro le sbarre, dai continui tormenti dei suoi aguzzini. Riuscì persino a ruotare la testa per vedere come se la ca-vavano gli altri. Hartwood era a pochi passi da lui, mentre Flick sembrava in difficoltà. Fu proprio in quel momento che lo vide cadere.

Flick scivolò sopra la lastra di ghiaccio e atterrò sulla propria gamba destra. Il rumore dell’osso rotto venne coperto dall’urlo che cacciò. Jake e Hartwood si precipitarono, ma dovettero ben presto fermarsi perché si resero conto che il fiume stava per cedere.“Hartwood!” gridò “In due siamo troppo pesanti, il ghiaccio non reggerà, tu prosegui, lo prendo io”. Prese il grugnito del compagno per un sì. Con estrema prudenza, facendo scivolare i piedi sul terreno, si avvicinò a Flick, che piagnucolava reggendosi la gamba con entrambi le mani. Ad un tratto, agli scricchioli del ghiaccio si sommarono altri rumori, che provenivano da lontano. Solo dopo pochi istanti riuscì a distinguerli. ‘Cani!’

Il prezzo dell’illusione

iccoli fiocchi di neve ricominciarono a depositarsi delicatamente sulle distese di terreno già imbian-cate. Jake alzò lo sguardo da terra e si concentrò su quello squarcio di cielo che si poteva intrave-dere attraverso le sbarre della finestra. Era seduto nella cella 101 di Dorchester Prison, Minnesota,

carcere un tempo di massima sicurezza ora finito sui giornali per le pessime condizioni dell’edificio, il quale necessitava di finanziamenti che non sarebbero mai arrivati. I suoi pensieri vennero ben presto interrotti dal pesante e goffo passo di Stafford, la guardia carceraria addetta a quel braccio insieme a Tyler. I due costituivano una coppia di aguzzini impeccabile: riuscivano a rendere impossibile la vita dei detenuti senza mai infliggere danni troppo evidenti per non incorrere in sanzioni o reprimende. Stafford avanzava roteando il manganello con il quale urtava le sbarre delle celle per assicurarsi che fossero ben salde; in realtà era solo una scusa per riscuotere i prigionieri dai loro sogni. O dai loro incubi. Sebbene ci fosse poca luce, Jake riusciva a vederlo distintamente: la sua figura tozza e tarchiata rispecchiava alla perfezione il suo animo volgare e sudicio, quei pochi capelli castani che gli rimanevano erano impoma-tati da una brillantina dall’odore poco piacevole; il naso ricurvo quasi arrivava a fare ombra al suo perenne ghigno. Dall’altra parte gli venne incontro Tyler. Era esattamente l’opposto del suo compagno: alto e magro, il ge-nere d’uomo che guarda il mondo attraverso il fondo di un bicchiere di whisky; più di una volta lo avevano sorpreso a tracannare fiaschette di alcol ben nascoste nel giubbotto della divisa. Erano pochi i momenti in cui era in piena lucidità mentale. Superarono così la sua cella. Jake calcolò che aveva meno di cinque minuti per aprire la grata del sistema di conduzione. Era un piano di fuga molto semplice, agevolato dalla scarsa sorveglianza, progettato insieme ai suoi due compagni, Flick e Hartwood: si sarebbero infilati dentro il condotto di aereazione e una volta sbucati all’aperto, con il buio come alleato, avrebbero rubato un’auto nella località più vicina. Si alzò dalla branda e batté tre volte sui due muri, oltre i quali vi erano le celle dei suoi compagni, come segnale convenuto per la fuga. Poi prese un piccolo cacciavite nascosto tra le molle del materasso e comin-ciò a togliere le viti della grata. Una volta rimossa, s’infilò all’interno del condotto. Jake avanzava strisciando a fatica, si sentiva come Frank Morris in Fuga da Alcatraz. Dopo aver girato diverse volte tra le condutture, finalmente trovò l’accesso per l’esterno. Uscito fuori, respirò a pieni polmoni il profumo della libertà. Dovette aspettare solo pochi attimi per veder comparire i suoi compagni. Hartwood uscì dalla conduttura con fatica: la sua stazza imponente non gli facilitava di certo il passaggio. Jake non aveva mai saputo per quale motivo il suo compagno era finito in quell’inferno. C’era chi diceva avesse strangolato la moglie, chi rapinato una banca, e chi diceva che avesse fatto saltare in aria un intero edificio. Tutte le varie versioni però parlavano di una violenza quasi sadica, e questo Jake aveva avuto modo

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pensò ‘sono i cani da guardia, maledizione!’.“Flick, ora ascoltami, calmati, stanno arrivando, sì Flick, i poliziotti, ascoltami! Non posso avvicinarmi di più altrimenti io e te ci faremo un bel bagnetto rinfrescante. Devi avvicinarti tu che sei più leggero”. Ma veden-do che il ragazzo non reagiva, perse la pazienza. “Flick, cazzo, SBRIGATI!”. Fu allora che strisciò in avanti e si alzò scaricando il peso sulla gamba sana. Quando era ormai vicino, Jake lo afferrò e se lo caricò sulle spalle. I latrati dei cani si fecero sempre più distinti e con loro anche le grida dei poliziotti. Cominciò a correre, ormai ce l’avevano quasi fatta, il fiume dietro di lui si stava già aprendo, il ghiaccio cedeva. Proprio nel momento in cui atterrò con un piede sul suolo, l’altro sarebbe affondato nell’acqua, facendolo cadere, se Hartwood non l’avesse tirato per il colletto. Depose Flick a terra e trasse un gran respiro. “Dobbiamo muoverci se vogliamo vedere l’alba di domani. Sai quello che ci faranno, se ci prendono. Quelli non perdonano” gli disse l’amico, mentre si issava il ragazzo sulle spalle. Jake annuì con il capo e ripresero così la loro strada. Avanzarono nella notte per quelle che potevano essere ore oppure anche soli pochi minuti. Il vento ulula-va senza pietà facendo scuotere i rami degli alberi sparsi per i campi.Hartwood fece cenno a Jake di seguirlo in una piccola grotta. Flick aveva ormai perso conoscenza: tastan-dogli la gamba, Jake capì che la rottura era abbastanza grave. Il suo compagno lo stava fissando: “Lo sai che non ce lo possiamo portare più dietro, vero? Ce li abbiamo alle calcagna, di questo passo tra meno di un’ora ci ritroveremo con il muso schiacciato a terra e l’alito fetido di Tyler sotto il naso”. Jake si passò una mano tra i capelli, restò qualche attimo in silenzio e poi disse: “Non possiamo abbandonarlo qui”.Hartwood non smetteva di lanciargli sguardi torvi, sembrava sul punto di esplodere. “Senti un po’ amico, io non ho rischiato la pelle per arrivare fin qui e poi lasciarmi rispedire a calci in culo in quel buco di cella. Se tu vuoi suicidarti, fallo pure, ma non aspettarti che io rimanga qui. Quindi… Hasta la vista”. Detto questo si alzò e scomparve nel buio.

“E’ finita” pensò. Che diavolo gli stava succedendo? Fino a qualche ora fa era pronto ad affrontare pericoli, ostacoli, a scontrarsi con chiunque, non aveva fatto altro che pensare alla libertà. Ma in fondo sapeva che non sarebbe mai stato libero, anche fuori dal carcere ci sarebbe sempre stata una condanna sulle sue spalle, quella di esser costretto a vivere nascosto, di rinunciare alla propria identità, di dover costruire il suo futuro su bugie e menzogne. D’un tratto si sentì vecchio. Era come se gli fossero state prosciugate tutte le forze. Era stanco, stanco di vivere. Gli inseguitori erano a pochi metri da lui. Jake ormai poteva riconoscerli anche dalle loro ombre. Guardò Flick, che proprio in quel momento si stava riprendendo, tirò fuori una sigaretta dal pacchetto, che custodiva gelosamente nella tasca dei pantaloni, e se la mise in bocca. Quando i carce-rieri -Stafford e Tyler erano in prima fila, come sempre- gli si pararono davanti pregustando sadicamente il momento tanto atteso, chiese: “Qualcuno ha da accendere?”.

Le celle di isolamento erano situate nel sotterraneo del carcere. Alte meno di due metri e larghe tre, costi-tuivano il miglior deterrente per mettere in riga i detenuti. Jake ormai aveva acquisito familiarità con quel posto maleodorante spesso frequentato da topi. Era rinchiuso lì già da due giorni, a digiuno. Il suo stomaco brontolava, ma non ci faceva caso. Più acuto era il dolore alla schiena, alle gambe e soprattutto al volto. Sapeva di avere la faccia tumefatta: un occhio era completamente chiuso per il gonfiore causato dai lividi, il labbro superiore era spaccato e il naso rotto. Probabilmente Stafford gli aveva fratturato anche un paio di costole.E così il cerchio si chiudeva. Anche questa volta si era illuso di poter cambiare vita, di dare una svolta agli eventi, ma era stato del tutto inutile. Si rese conto che in tutta la sua patetica vita i piani che aveva progetta-to venivano stravolti da una sorte che gli era avversa. “E’ inutile pianificare” si disse “Vivi giorno per giorno, Jake. Il resto verrà da sé”.

— di Arianna Antonelli, IIIA

CRUCIVERBA

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— di Arianna Antonelli, IIIA