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I Sensi di Romagna numero 6. febbraio 2004 Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A. 48014 Castelbolognese (RA) ITALY via Emilia Ponente, 1000 www.cerdomus.com Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Jan Guerrini/Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Valentina Baruzzi Redazione Alessandro Antonelli Valentina Baruzzi Marcello Cicognani Viola Emaldi Stefania Mazzotti Giuseppe Sangiorgi Carlo Zauli Foto Archivio Cerdomus Archivio Centro Etnografico della Civiltà Palustre Archivio Fattoria Paradiso Valentina Baruzzi Jan Guerrini Danilo Tozzi si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca/Divisione immagine Cerdomus Traduzioni Omnitrad, Riolo Terme Stampa Litographicgroup ©CERDOMUS Ceramiche SpA tutti i diritti riservati Autorizzazione del Tribunale di Ravenna nr. 1173 del 19.12.2001

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I Sensi di Romagna

numero 6.febbraio 2004

Periodico edito daCERDOMUS Ceramiche S.p.A.48014 Castelbolognese (RA) ITALYvia Emilia Ponente, 1000www.cerdomus.com

Direttore responsabileLuca Biancini

ProgettoCarlo ZauliLuca Biancini

Grafica e impaginazioneJan Guerrini/Cambiamentiper Divisione immagine Cerdomus

Coordinamento editorialeAlessandro AntonelliValentina Baruzzi

RedazioneAlessandro AntonelliValentina BaruzziMarcello CicognaniViola EmaldiStefania MazzottiGiuseppe SangiorgiCarlo Zauli

FotoArchivio CerdomusArchivio Centro Etnografico della Civiltà PalustreArchivio Fattoria ParadisoValentina BaruzziJan GuerriniDanilo Tozzi

si ringrazia per la preziosa collaborazione

Maddalena Becca/Divisione immagine Cerdomus

TraduzioniOmnitrad, Riolo Terme

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©CERDOMUS Ceramiche SpAtutti i diritti riservati

Autorizzazione del Tribunale di Ravennanr. 1173 del 19.12.2001

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01Editor ia le

itroviamo l’inverno, che inibisce la nostra fisicità

esaltando il bisogno di sviluppare le emozioni interiori.

All’indolenza instillata dal freddo, ee risponde dedicando

più spazio alle passioni, raccontando il sentimento dell’azzardo,

vissuto al volante o con le carte in mano. Tratteggiando i caratteri opposti

(dunque complementari) di Caterina Sforza e Grazia Deledda.

Suggerendone forse un fantasioso punto d’incontro nella dimensione magica.

Il carattere marcatamente anticonvenzionale della prima

con i suoi studi alchimistici in odore di stregoneria da un lato,

confrontato all’anticonformismo deleddiano,

sviluppato su una tinta più tenue ed intimista propria delle favole:

ospiti elettive delle streghe;

come d’altro canto le interminabili notti invernali.

La Redazione di ee

R

Winter once again, which inhibits our physicality and highlights the need to develop interior emotions. To the indolence induced by cold weather ee responds by giving more space to the passions, telling of the feeling of risk, be it behind the wheel or at the card table, and sketching out the opposite (and therefore complementary) characters of Caterina Sforza and Grazia Deledda.Perhaps suggesting an imaginative encounter in the magical dimension. The markedly unconventional character of the former with her alchemical studies bordering on witchcraft, compared with Deledda’s non-conformism, developed in a more tenuous and intimist shade proper to fairytale: elective hostesses of witches, like from another viewpoint the interminable winter nights.

The editorial staff of ee

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a c q u a _ t e r r a _ f u o c o _ a r i a

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05Terr i tor io04 I Sens i d i Romagna

A veil of mist shrouds the origins of Brisighella. Sources date it to 1178, founded by the counts Belmonti delle Caminate. But it was Maghinardo Pagani daSusinana who in 1290, to better lay siege to the neighbouring Castle of Baccagnano, built a tower on one of the three selenite crags that dominate the valley. TheCastrum Brisichellae shortly became the most important fortress in the area. Its location between Romagna and Tuscany, surrounded by unassailable chalk ridges, atonce made it of outstanding strategic and commercial importance. When Maghinardo died the fortified eyrie passed into the hands of Francesco Manfredi, lord ofFaenza. In the family tradition he transformed it in accordance with the most modern dictates of the age. Continual improvements were made and new bastionsadded over the years, then in 1394 Galeazzo Manfredi built a new and more imposing fort on the buttress behind. With the fall of the Manfredi family in 1500 thecastle passed on to the Venetians who gave it its definitive aspect by adding an impressive keep. It then came definitively under the control of the Vatican State. Notfar away – perched on the third pinnacle overlooking the built-up area and once known as “Cozzolo” or “Calvary” – the 18th century Marian Sanctuary of Monticinooffers breathtaking views of the valley right to the boundary with Tuscany. All that remains of the walls are two large towers near the Bonfante Gate, on the roadthat led to the castle: this gate was linked lower down to the Gabalo Gate by means of a raised, covered thoroughfare called Via del Borgo which served as a defensi-ve shield. This road would become a centre for families of carters who earned their living from the nearby chalk quarries, and it came to be known as “Donkey Road”for the shelter it gave to the beasts of burden. This singular and historic thoroughfare, now restored to its ancient splendour and bathed by the light that filtersthrough half-arches of different sizes, offers the visitor one of the most evocative and scenic glimpses of the built-up area.Lastly, the most distinctive religious building is the parish church of San Giovanni Battista in Ottavo, also called the Tho church because it stands at the eighth mileof the road that linked Faenza and Etruria. Built in the early 10th century with Roman and Barbarian materials, it is one of the area’s oldest Romanesque works. In thetradition of that style the exterior is soberly decorated with pilaster strips and blind arches. The nave and two aisles that divide the basilica plan interior are punctua-ted by Roman columns and capitals. The frontage and the presbytery have 15th century frescoes and in the apse there is a 1516 painting by C. Mergari and S. Scaletti.The place has a rarefied atmosphere and is almost a “time machine” capable of inspiring unknown or simply forgotten emotions. The same we feel when walkingthrough the alleyways or lingering over the views of this corner of History.

A JOURNEY TROUGH TIME_ AMID HILLS AND OLIVE GROVESMarcel lo Cicognani

A spasso nel tempofra col l i ed ul iv i

onti la fanno risalire al 1178 per mano dei conti Belmonti delle Caminate, ma fu

Maghinardo Pagani da Susinana che nel 1290, per meglio assediare il finitimo Castello

di Baccagnano, fece costruire, su uno dei tre scogli di selenite dominanti la conca, una

torre divenuta in breve la roccaforte più importante dell’intera vallata. Castrum

Brisichellae, infatti, in virtù della sua ubicazione a cavallo tra Romagna e Toscana e per il

suo essere cinta da inaccessibili creste gessose, si distinse subito per la sua importanza

strategica e commerciale. Scomparso Maghinardo il nido fortificato passò alle dipendenze

di Francesco Manfredi signore di Faenza il quale, secondo la tradizione del suo casato, lo

trasformò in rocca secondo i più moderni dettami dell’epoca. Continue migliorie e nuovi

bastioni si susseguirono negli anni finché Galeazzo Manfredi eresse un nuovo e più pos-

sente fortilizio (1394) sul contrafforte retrostante. Poi, con la fine dei Manfredi (1500), il

castello passò ai Veneziani che gli diedero la sua veste definitiva dotandolo di un impo-

nente mastio, prima di passare definitivamente sotto il controllo dello Stato del Vaticano.

Poco distante – appollaiato sul terzo pinnacolo prospiciente il centro abitato e un tempo

noto come “Cozzolo” o “Calvario” – il Santuario mariano del Monticino, risalente al XVIII secolo, offre panorami mozzafiato della valle

sino ai confini della Toscana.

Della cerchia restano solo due torrioni nei pressi di Porta Bonfante, sul tragitto che giungeva al maniero: tale porta era allacciata più

in basso alla Porta del Gabalo mediante un camminamento sopraelevato, riparato e fungente da scudo difensivo chiamato Via del Borgo.

Questa diverrà centro di famiglie di birocciai, traenti il loro sostentamento dalle vicine cave di gesso, e appellata “degli Asini” per il

ricovero offerto alle bestie da soma. Oggi, questo singolare e storico transito, riportato ad antico splendore e bagnato dalla luce filtra-

ta da mezzi archi di dissimile ampiezza, regala al visitatore uno degli scorci più suggestivi e scenografici dell’abitato.

Su tutte le costruzioni sacre, infine, spicca la Pieve di S.Giovanni Battista in Ottavo o di Tho, così appellata poiché situata all’ottavo

miglio della strada che univa Faenza all’Etruria. Edificata agli inizi del X secolo con materiali romani e barbarici, è una delle più remo-

te opere romaniche di questa terra. L’esterno, com’è nella tradizione di quello stile, è sobriamente ornato da lesene e archetti ciechi;

all’interno, le tre navate che dividono la pianta basilicale sono punteggiate da colonne e capitelli romani, la fronte e il presbiterio reca-

no affreschi del ‘400 e nell’abside si trova una tavola di C.Mergari e S.Scaletti (1516). Si tratta di un luogo dall’atmosfera rarefatta,

quasi una “macchina del tempo”, capace d’ispirare emozioni ignote o, semplicemente, dimenticate. Le stesse che si provano nel pas-

seggiare fra i vicoli o indugiare lungo le prospettive di quest’angolo di Storia.

Un velo di nebbia avvolge le origini di Brisighella.

F

Il ricordo di una pratica ancestrale, quella della camminata, della penetrazione lenta e come ritmata del paesaggio. Roland Barthes

foto d’archivio

foto d’archivio foto d’archiviofoto d’archivio

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07Terr i tor io06 I Sens i d i Romagna

Valent ina Baruzz i

Centro Etnografico della Civiltà Palustre

l ’ecomuseo di V i l lanova di Bagnacaval lo

Quando si attraversa “la bassa” si percepisce immediatamente che l’aria ha un altro odore, e

le forme, i colori si scoprono pian piano tra la bruma invernale.

When you cross “lower” Romagna you immediately notice that the air has a different smell and that shapesand colours emerge gradually from the winter mist. The colours are ancient, the perfumes have always existedsince the time, before the great land reclamation works of the early 20th century, when the land was dottedwith swamps and humid zones. The period of the first marshland civilisation settlements is unknown, but wedo know that the first census of the ancient “Villanova of the Huts” dates to the second half of the 13th cen-tury. The people of Villanova fully exploited the abundance of palustrine plants, initially to build huts andlater to make household utensils. This production grew increasingly to the point of developing a huge marketwhich lasted into the 1970’s. Special mention should go to the sportla de’ pes, a sort of loosely-woven basketused for landing and washing fish.The sportla de’ pes or sportla lesa can be seen today, together with many other items made with palustrineplants, at the Ethnographic Centre of Marshland Civilisation in Villanova di Bagnacavallo, an actual ecomu-seum created to preserve the identity of the territory. The centre was set up in 1985 to recover a lost culture,but to call it a museum is reductive since there are always dynamic projects going on around it, with diversi-fied activities and events. The items on exhibition were made with five varieties of palustrine plant found inthe surrounding environment (reed, cattail, sedge, rush and bulrush) and with local wood such as poplar andwillow. On guided visits you can see these items being made by elderly ladies whose expert hands transmit thepoetry of tradition. The most original example of this ancient craft is a splendid late 19th century bolero crea-ted for an important exhibition in Paris. But these skills, and above all the importance of these materials andtechniques, were rediscovered in 2002 when a project was begun in Oman to reconstruct a ship dating to2000 years ago. For the building of a full scale replica the Villanova ethnographic centre was called in tosupply “the necessary abilities with regard to materials and, in part, also the technologies to be employed inreconstruction of the ship.”The museum plays an important role on our territory because it represents a past that is now far off but stillalive inasmuch as it is an integral part of our traditions and origins.

ETHNOGRAPHIC CENTRE OF MARSHLAND CIVILISATION_THE ECOMUSEUM IN VILLANOVA DI BAGNACAVALLO

ono colori antichi e profumi che esistono da sempre, fin da quando, prima delle grandi bonifiche d’inizio ‘900, l’ambiente era dis-

seminato d’acquitrini e zone umide. Non si conosce il periodo a cui risalgono i primi insediamenti di questa civiltà palustre, sap-

piamo soltanto che il primo censimento dell’antica “Villanova delle capanne” risale alla seconda metà del XIII secolo. I villanovesi

sfruttarono appieno l’abbondanza d’erbe palustri, inizialmente per costruire i capanni, poi per realizzare utensili d’uso domestico.

Questa produzione si fece sempre più intensa e importante, tanto che portò allo sviluppo di un vastissimo mercato che si protrasse fino

agli anni ’70 del secolo scorso. In particolare è da ricordare “la sportla de’ pes”, manufatto simile ad una sporta dalla trama rada, in

cui venivano raccolti e lavati i pesci. “La sportla de’ pes”, o “sportla lesa”, e moltissimi altri oggetti realizzati con le erbe di valle, si

possono ammirare oggi presso il centro etnografico della civiltà palustre di Villanova di Bagnacavallo, un vero ecomuseo nato dal dis-

agio della perdita di identità del territorio. Il centro fu fondato nel 1985 per recuperare una cultura andata perduta, ma parlare di

museo è riduttivo poiché attorno ad esso, grazie ad attività ed eventi diversificati e interessanti, ruotano sempre progetti dinamici.

I manufatti raccolti sono realizzati con le cinque varietà di erbe palustri (canna, stiancia, carice, giunco, giunco pungente) presenti

nell’ambiente circostante, e con i legnami locali come il pioppo e il salice. Durante le visite guidate è possibile assistere alla creazio-

ne di questi oggetti ad opera di anziane signore; i manufatti nascono da movimenti esperti delle mani che sanno trasmettere ancora

oggi la poesia della tradizione. L’esempio più originale di questa lontana maestria lo abbiamo con lo splendido giacchetto di fine

Ottocento realizzato in occasione di un’importante esposizione parigina, ma l’abilità e soprattutto l’importanza di questi materiali e di

tali tecniche è stata riscoperta nel 2002, quando fu avviato il progetto di ricostruzione di una nave risalente a più di 2000 anni fa in

Oman. Nella messa in opera d’una replica di dimensioni reali fu interpellato il centro etnografico di Villanova perchè mettesse a dis-

posizione “le necessarie competenze per quanto riguarda i materiali e in parte anche le tecnologie da utilizzare durante la ricostruzio-

ne della nave.” Il museo riveste una grande rilevanza per il nostro territorio poiché rappresenta una realtà ormai lontana, ma ancora

viva in quanto parte integrante delle nostre tradizioni e delle nostre origini.

S

foto d’archivio

foto d’archiviofoto d’archivio

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foto d’archivio

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Il paese che conserva... avrà. Antico detto popolare

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09Stor ia08 I Sens i d i Romagna

Stefania Mazzott i

Caterina Sforzaleonessa d i Romagna

Chi non ha sentito parlare di Caterina Sforza?

l suo nome e la sua leggenda come Leonessa di Romagna hanno sicuramente fatto il giro del mondo, dal Giappone agli Stati Uniti.

La storia ha dipinto Caterina Sforza, signora di Imola e Forlì dal 1477 al 1500, come una figura altera vicina alle sacerdotesse Medea

e Norma. Una donna dalla bellezza ineguagliabile, virago, eroina feroce e di animo indomito; guerriera e insaziabile di amanti. In cin-

quecento anni di cronache e ritratti, la sua biografia si è definita tra leggenda e realtà al pari di quella di Lucrezia Borgia, l’altra celebre

del Rinascimento. Nel tempo la sua figura è stata presa ad esempio ante litteram di emancipazione femminile.

Caterina Sforza ebbe una vita tormentata e piena di eccessi. Di origini nobilissime, figlia di Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, andò

in moglie a Girolamo Riario ed abitò a Roma, alla lussuosa corte di Papa Sisto IV. Durante il suo governo instaurò relazioni politiche e

diplomatiche con i più importanti personaggi storici del tempo: dallo zio Ludovico il Moro a Lorenzo il Magnifico di Firenze, a Machiavelli

fino a Girolamo Savonarola. Poi si trasferì in Romagna nel 1481 e fu lei a governare il regno dal 1488, dopo che il marito fu assassina-

to in una congiura politica. Al momento della discesa degli eserciti del Valentino nel 1499 Caterina difese con tutte le forze i suoi terri-

tori, ma invano. Fu fatta prigioniera e, nel 1501, costretta a firmare la rinuncia ai suoi stati.

Fu lodata da Machiavelli per le sua determinazione politica. Nei “Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio” la ricorda come colei che

attese quel Cesare Borgia “che altri non ebbero il coraggio di aspettare". E’ proprio Machiavelli ad avere tratteggiato per primo il suo carat-

tere di leonessa quando racconta il leggendario episodio della rocca. Alla morte del marito, Caterina fu catturata dai cospiratori insieme

ai suoi figli. Nel frattempo il castellano Feo era riuscito a difendere la rocca. Caterina ottenne il permesso di raggiungere il Feo per con-

vincerlo ad arrendersi. Lasciò in cambio i figli in ostaggio. Appena varcato il portone, si barricò dentro alla fortezza e al ricatto dell’uc-

cisione dei figli “per mostrare che dei suoi figlioli non si curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il modo di

rifarli". Con questo gesto Caterina è passata all’immaginario popolare come la virago, proponendo le proprie virtù femminili ad un eser-

cito di maschi a discapito del ruolo di madre. Scrive Jadranka Bentini come in queste storie, in questi aneddoti, Caterina difenda il pro-

prio regno e la propria vita “con un accanimento e una supremazia che risiedono nel segno della Romagna al femminile, in una supre-

mazia della gonnella fatta corazza che spiazza i potenti come i mariti” e, aggiungiamo, la qualità femminile più popolare: quella di madre.

I

Who hasn’t heard of Caterina Sforza? Her name and legend as Lioness of Romagna have certainly gone round theworld, from Japan to the United States. History has painted Caterina Sforza, duchess of Imola and Forlì from 1477 to1500, as a stately figure rather like the priestesses Medea and Norma. A woman of unparalleled beauty, a virago, aferocious heroine with indomitable spirit, a warrior and insatiable seeker of lovers. After five hundred years of chroni-cles and portrayals her biography lies between legend and reality, on a par with that of Lucrezia Borgia, the other cele-brated woman of the Renaissance. With time she has been taken as an ante litteram example of female emancipation.Caterina Sforza had a tormented life full of excesses. Of highly aristocratic origins, daughter of Galeazzo Maria Sforza,duke of Milan, she was given in marriage to Girolamo Riario and lived in Rome at the luxurious court of pope Sixtus IV.As a ruler she set up political and diplomatic relations with the most important historical personages of the day suchas her uncle Ludovico il Moro, Lorenzo the Magnificent of Florence, Machiavelli and Girolamo Savonarola. She thenmoved to Romagna in 1481 and governed it from 1488, after her husband had been assassinated in a political plot.When Valentinus’ armies arrived in 1499 Caterina defended her territory with all her might, but it was in vain. She wastaken prisoner and, in 1501, forced to sign away her states. She was praised by Machiavelli for her political determina-tion. In the “Discourses on the first ten books of Titus Livius” she is remembered as the one who stood up to CesareBorgia "whom others did not have the courage to face". Machiavelli was in fact the first to sketch out her lioness cha-racter when he recounted the legendary episode of the fortress. On her husband’s death Caterina and her childrenwere captured by the conspirators. Meanwhile the commander of the castle, Feo, had managed to defend the fortress.Caterina got permission to go to Feo and persuade him to surrender, leaving her children as hostages. As soon as shecrossed the threshold she barricaded herself inside and, on being threatened with her children’s death, “she displayedher genitals to show she didn’t care about her children, saying that she was still able to have others”. With this gestureCaterina passed into the popular imagination as a virago, showing her female attributes to an army of males, to thedetriment of her role as mother. Jadranka Bentini writes that in these stories, in these anecdotes, Caterina defends herown realm and her own life “with the fury and supremacy that lie at the heart of female Romagna, a supremacy of theskirt which becomes armour that jostles the powerful, such as husbands, out of position”; not to mention, we may add,the most popular feminine quality: that of mother.

CATERINA SFORZA_ LIONESS OF ROMAGNA

L'inferno non è

mai tanto scatenato

quanto una donna offesa.

Shakespeare

foto d’archivio

foto d’archivio

immagine d’archivio

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11Stor ia10 I Sens i d i Romagna

Alessandro Antonel l i

Stregoneria, superstizione.... . . ne l la Romagna di f ine Medioevo

Chi o cosa, stava di fronte all’indice puntato

di quei romagnoli che, lungo il tramonto dei

secoli bui, confabulavano di malefici e

accusavano di connivenza con il diavolo?

aghi, streghe, incantatori e negromanti raccoglievano, come cate-

gorie, un universo multiforme di tipi e casi: persone affette da certe

patologie mentali, individui dal comportamento anticonformista,

intellettuali eccentrici, mistificatori e forse qualche vera fattucchiera.

Sorprende apprendere dalle cronache che in Romagna i toni della per-

secuzione alle streghe non furono oltremodo efferati. Le colpevoli di

malefizio mortale venivano, comunque, assegnate al braccio secolare,

vale a dire messe a morte. Man mano che si avvicina il periodo illu-

minista, tuttavia, la pena più applicata per il reato di stregoneria fini-

sce per consistere nel trascinare le colpevoli a dorso d’asino con le

spalle rivolte al muso dell’animale e il torso nudo fustigato dal boia;

una pena tutto sommato mite se si eccettuano i casi in cui le malcapi-

tate esposte al pubblico ludibrio venivano linciate dalla folla. Varie

erano le abilità che rischiavano di far loro guadagnare il rogo. L’ABC

della maga consisteva nella fattura, la più comune delle quali, in

Romagna, era la pedica, che consisteva nel distribuire un po’ di terre-

no, ove abbia camminato la vittima, su una frasca per attirargli il male

o sulla catena del fuoco per causarne la morte. Molte erano le pratiche

destinate ad influenzare la vita amorosa, come nel caso dell’aghetto,

atto ad impedire la consumazione del matrimonio. Per ottenere l’amo-

re di qualcuno veniva invece utilizzata una calamita “battezzata” o si

usavano le fave raccolte durante la notte di San Giovanni. Gli ingre-

dienti di filtri e pozioni avevano più spesso una marcata componente

macabra: al cosiddetto “sughetto d’impiccato” (il terriccio sottostante

il patibolo dell’impiccagione) veniva attribuita la proprietà di panacea

universale, stessa facoltà ascritta al liquore fatto con carni e grassi di

annegato; il che avvalora la tesi secondo cui la medicina popolare

attribuiva virtù straordinarie ai morti di mala morte. Da un sinodo

riminese del 1600 apprendiamo la diffusione in Romagna di immagi-

ni recanti il nodo di Salomone o il pentacolo, il vescovo imolese

Paleotti metteva poi in guardia da coloro che tengono demoni costret-

ti in anelli, specchi ed ampolle. La sovrapposizione di religioso e magi-

co interveniva immancabilmente nei momenti cruciali del ciclo vitale:

la nascita, il battesimo, il matrimonio e la morte. La fine di questa

mescolanza di semiotica popolare, invasamento pagano e superstizio-

ne è idealmente sancita dalla pubblicazione del trattato ottocentesco:

“Congresso notturno delle Lammie”, che esilia al ruolo di personaggi

favoleschi anche coloro che nella Romagna remota veneravano,

rischiando la morte, il “Diavolo dal naso torto che spezza le banche e

rompe le porte”.

M

Who or what stood before the pointed index finger of those Romagnol people who, towards the end of the dark ages,confabulated about malefactors and made accusations of connivance with the devil?Wizards, witches, enchanters and necromancers included, as categories, a multiform universe of types and cases: peopleafflicted with certain mental pathologies, individuals with nonconformist behaviour, eccentric intellectuals, mystery-mongers and maybe some genuine sorcerers. It is surprising to learn from the chronicles that in Romagna the persecu-tion of witches wasn’t excessively savage. Those found guilty of mortal evildoing were however handed over to the secu-lar authorities, meaning they were put to death. With the approach of the Enlightenment however the most widelyapplied punishment for the crime of witchcraft consisted of tying the victims onto a donkey, their heads facing the tail,and having their nude torsos thrashed by the hangman. A mild punishment all in all if we except the cases in whichthese unfortunate people, exposed to public derision, were lynched by the crowd. There were various skills that couldresult in burning at the stake. The witch’s ABC consisted of sorcery, the most common form in Romagna being pedicawhich involved collecting some soil where the victim had walked and sprinkling it on a leafy branch to attract evil, or onthe chain above the fireplace to cause death. There were many practices aimed at influencing love life, such as theaghetto to prevent consummation of a marriage. To win someone’s love there was a “baptised” magnet or alternativelysome beans picked during St. John’s night. Ingredients for filtres and potions more often included a markedly macabreelement: what was called “hanged man’s sauce” (the soil beneath the gallows) was considered a universal panacea, thesame properties also being attributed to a liquor made with the flesh and fat of the drowned. This bears out the thesisaccording to which popular medicine attributed extraordinary powers to those who died without the last rites. From aRimini synod of 1600 we learn that images of Solomon’s seal and the pentacle were widespread in Romagna, and bishopPaleotti of Imola warned against people who kept demons entrapped in rings, mirrors and ampoules. The overlapping ofreligion and magic always occurred in connection with crucial moments in the life cycle: birth, baptism, marriage anddeath. The end of this intermingling of popular semiotics, pagan obsession and superstition was, in theory, ratified withthe publication of a 19th century treatise entitled “Nocturnal Congress of the She-Demons” which made fairytale figuresout of those who, also in the Romagna of long ago, risked death by worshipping the “Diavolo dal naso torto che spezzale banche e rompe le porte” (Devil with the crooked nose who smashes benches and breaks down doors).

WITCHCRAFT AND SUPERSTITION… … IN LATE MEDIAEVAL ROMAGNA

Nel tempo fuori dal tempo

la fattucchiera chiama gli uomini al ballo.

La strega balla il ballo

degli alberi e l’uomo sente

fra i suoi rami il morso del vento.

Frammento medioevale di autore ignoto

foto d’archivio

foto d’archivio

immagine d’archivio

immagine d’archivio

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13Stor ia12 I Sens i d i Romagna

Non c’è grande uomo o gran donna che sia tale per i suoi domestici.

ia perché li vedono nella dimensione domestica, dove ognuno è quello che è, sia perché le dif-

ferenze culturali permettono di cogliere solo gli aspetti più immediati. Aspetti che, filtrati da

una visione popolare, ci consegnano infine ritratti umani sorprendenti e di grande realismo. Ne è

un esempio il ricordo di Grazia Deledda che Rosa Gentilini, scomparsa lo scorso anno a Casola

Valsenio, amava rievocare ai suoi nipoti.

Era il mese di giugno del 1931 quando Rosa, allora domestica ventenne, prese servizio presso

Grazia Deledda, al tempo sessantenne, la quale, come faceva da una decina d’anni, soggiornava a

Cervia in una casa sul mare insieme al marito.

“Mi avevano detto – ricordava la Gentilini - che la nuova padrona era la più grande scrittrice

d’Italia, conosciuta in tutto il mondo per aver vinto il premio Nobel e quindi mi aspettavo di vede-

re una signora di bell’aspetto. Invece mi venne incontro una donna di statura bassa, di pelle scura,

con mani molto piccole e l’aria dimessa. Col tempo ebbi la conferma che Grazia Deledda era diver-

sa dalle altre signore che avevo conosciuto: eleganti, allegre, con la casa piena di ospiti. Invece la

Deledda, benché avesse un guardaroba con begli abiti, vestiva in modo semplice; non usciva quasi

mai e raramente riceveva persone. Dopo cena se ne andava in terrazza, guardava il mare e lì, da

sola, sembrava parlasse o ragionasse a bocca chiusa con ospiti invisibili. Muoveva la testa e le

mani e vedendola mi veniva in mente quanto mi dicevano i miei vecchi: le persone intelligenti

hanno dei comportamenti strani”.

Parimente strano appariva alla giovane domestica proveniente dall’Appennino tosco romagnolo il

modo di lavorare dell’autrice di Canne al vento: “Aveva orari uguali tutti i giorni. Si alzava alle

sette, si preparava la colazione e quindi andava in terrazza fino alle undici. Da sola o con il mari-

to passeggiava poi in riva al mare fino a poco dopo mezzogiorno. Pranzava e quindi andava a

riposare. Poi, alle quattro, si ritirava nel suo studio a leggere e scrivere fino alle sette; cenava e

dopo tornava nella terrazza affacciata sul mare, quasi sempre da sola”.

In ottobre Rosa Gentilini seguì la Deledda a Roma dove rimase fino alla primavera successiva.

SBeppe Sangiorgi

La domestica di Grazia Deleddaun r i t ratto cur ioso ed umano del la grande scr i t t r ice

The great never seem so to their servants because they are seen in the domestic sphere, where we are all what we are,and because cultural differences mean that only the most immediate aspects are grasped. Aspects which, filtered througha simpler vision, give us human portraits that are surprising and highly realistic. An example is the memory of GraziaDeledda which Rosa Gentilini, who died last year in Casola Valsenio, liked to recount to her grandchildren.It was June 1931 when Rosa, twenty years old, went to work for Grazia Deledda, then sixty, who for about ten years hadalways spent the summer with her husband in a house by the sea in Cervia.“They’d told me,” Gentilini remembered, “that my new employer was the greatest writer in Italy, known all over the worldas a Nobel prize-winner. So I expected to find a beautiful lady. But the person I met was short and dark-skinned, with tinyhands and a neglected look. With time I had confirmation that Grazia Deledda was different from the other ladies I hadknown who were elegant, merry and with their houses always full of guests. Though Deledda had a wardrobe of lovely clo-thes she dressed quite simply: she hardly ever went out and rarely had people in. After dinner she’d go out on the terraceto look at the sea. On her own, with her mouth closed, she seemed to talk or to discuss things with invisible guests. Shemoved her head and hands. Seeing her I recalled what the old folk had told me: intelligent people behave strangely”.Equally strange to the young maid from the Tuscany-Romagna Apennines was the way the author of Reeds in the Windwent about her work: “She had fixed hours every day. She got up at seven, made her breakfast and went out onto the ter-race until eleven. Then, by herself or with her husband, she would walk along the seashore until shortly after midday. Shehad lunch and then took a siesta. At four in the afternoon she withdrew into her study to read and write until seven. Thenshe had dinner and went back onto the terrace overlooking the sea, almost always on her own.”Every October Rosa Gentilini went with Deledda to Rome where she remained until the following spring.

GRAZIA DELEDDA’S MAID_ A CURIOUS AND HUMAN PORTRAIT OF THE GREAT WRITER

foto d’archivio

foto d’archivio

foto d’archivio

foto d’archivio

...il demone

che divora gli uomini

per la sola fame

del loro dolore;

era pur esso il mare,

un essere stravolto

da una forza superiore,

e che a sua volta travolgeva

senza saperlo.

Grazia Deledda

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15Pass ioni14 I Sens i d i Romagna

Alessandro Antonel l i

Romagna biscazzierala mania del l ’azzardo nei secol i

La febbre del gioco è una malattia endemica

in terra di Romagna, si trasmette frequentemente

per via ereditaria e non è facile risalire

all’origine primigenia di questa patologia.

i perderebbe nei millenni a giudicare dal ritrovamento di un dado

d’argilla (rinvenuto nel 1968 a Faenza) risalente all’età del ferro, e

di numerosi resti di astragalo (ossicino del tarso di forma cuboide, di

solito estratto dal tallone degli ovini), lavorato e votato alla stessa fun-

zione nel Medio Evo. I primi giochi di carte: i naibi, si diffusero inve-

ce durante il Rinascimento, giunti fin qui dalla Spagna o forse trami-

te i Saraceni, trovando quel che si suole dire un “terreno fertile”. Fin

dai primi documenti scritti riguardanti il gioco d’azzardo risulta che i

governanti, forse per frenare i vizi dei loro sottoposti, certamente per

trarne vantaggio economico crearono l’istituto della pubblica bisca,

che veniva ceduta in appalto al miglior offerente. Per scoraggiare ritro-

vi clandestini gli statuti includevano pene severissime: sia a coloro che

tentavano la sorte di nascosto, sia a chi offriva loro ospitalità o pre-

stiti, arrivando a punire anche chi si limitava ad assistere. Oltre a sala-

tissime ammende in molti casi erano previste pene quali la prigione,

l’esilio e, per i bari, la barbara punizione del taglio della mano. Come

ben si sa, tuttavia, lo spirito romagnolo è storicamente refrattario all’a-

desione incondizionata alle leggi e, nonostante il rischio di incorrere

in queste sanzioni, la pratica illegale del gioco d’azzardo si è, nei seco-

li, costantemente diffusa e radicata come dimostrano i documenti

notarili e gli elenchi dei beni impegnati presso gli strozzini per salda-

re debiti di gioco. La smania dell’azzardo univa tutti gli strati sociali:

nobili e possidenti perdevano fortune al tavolo verde, ricchi proprieta-

ri terrieri si ritrovavano a lavorare la terra per conto di chi gliel’aveva

vinta, mentre i poveri si limitavano a giocarsi la proverbiale camicia.

Persino il clero non era affatto estraneo a questa realtà come dimo-

strano il caso occorso al cappellano Gianagostino Marchi, che arrivò

ad impegnare il tabernacolo d’argento della chiesa di S. Giovanni

Battista per saldare un debito di carte, e le ripetute invettive dei fusti-

gatori del malcostume contro il lassismo e la passione per il gioco dei

preti e prelati romagnoli. Ironia della sorte, proprio una di queste pre-

diche rappresenta il primo documento in cui si descrivono con esat-

tezza le figure e i semi delle carte, quali sono giunte fino a noi, unita-

mente al significato diabolico loro attribuito: i denari per l’avarizia, i

bastoni per la stoltezza, le coppe per l’ubriachezza, le spade per l’odio

e le guerre… In effetti gli archivi giudiziari di Ravenna e di Forlì

abbondano di processi relativi a reati compiuti per cause di gioco e il

fenomeno del banditismo, che in queste zone assunse proporzioni rile-

vanti, fu in un certo senso ispirato dall’azzardo. Come risulta da molte

confessioni, lo stesso capobanda: Stefano Pelloni, meglio conosciuto

come il “Passatore”, si sarebbe dato inizialmente alla macchia per rifar-

si delle perdite subite al gioco della “tagliata”. L’esempio forse più ecla-

tante della sfegatata propensione al gioco dei romagnoli e della loro

incuranza (per non dire strafottenza) davanti alle leggi è occorso però

a Riolo Terme all’inizio del secolo scorso, quando nella sede del Grand

Sfoto d’archivio immagine d’archivio

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17Pass ioni16 I Sens i d i Romagna

Hôtel du Parc venne istituita, ad opera di tali fratelli Sparvieri, una casa da gioco sta-

gionale aperta al pubblico, palesemente illegale, con l’inequivocabile nome di Casinò.

Quando le dimensioni raggiunte dal suo giro di soldi e habitué impedirono alle autorità

locali di continuare a fingere d’ignorarne l’esistenza, la questura di Ravenna intervenne

con un’imponente irruzione ma, nel miglior stile “proibizionismo”, furono trovati solo

tavoli puliti e persone tranquille. Avvertiti da una talpa i giocatori avevano fatto sparire

ogni indizio compromettente; si seppe in seguito di come, solo in una toilette, vennero

rinvenuti oltre duecento biglietti da mille (somma madornale a quei tempi). Neanche le

guerre mondiali sono riuscite a smorzare in questo popolo il vizio per la scommessa: c’era

chi giocava tra le rovine e nei rifugi; nelle caserme o al fronte, ove militavano romagnoli,

non tardava ad avviarsi una piccola bisca e nei campi di prigionia, non circolando dena-

ro, i perdenti rilasciavano dei “pagherò” da saldare al rientro in patria. Cambiano gli sce-

nari ma le costanti tracciano un filo di cui non è difficile trovare il capo che versa ai

giorni nostri. Impossibile quantificare il numero delle bische clandestine operanti in

Romagna, impossibile stimarne il giro d’affari, ma è sufficiente sbirciare dentro un bar di

paese, dopo che il sole è tramontato, per capire che la gente di queste parti tende a sot-

trarre al termine “gioco” la sua componente puramente ludica. Non è, però, da credere

che tutti i romagnoli siano una razza di scellerati pronti ad ipotecare per un nonnulla il

futuro loro e dei propri cari. Vero è invece che non è insolito scorgere in fondo al loro

sguardo quella scintilla, quella pulsione, che li porta in tutti gli ambiti a sfidare così spes-

so la sorte (non di rado avversa) armati solo di abbondante coraggio, una certa qual dose

di follia e senza il lusso di una certezza.

Gambling fever is an endemic disease in Romagna, frequently hereditary,and it isn’t easy to pinpoint the origins of the pathology. You would get lost inthe millennia: a clay die found in Faenza in 1968 was dated to the iron age,and numerous remains of astragalus have come to light (a small cuboid boneof the tarsus, usually taken from sheep or goats’ heels) which were used as dicein the middle ages. The first playing cards arrived during the Renaissance fromSpain, or perhaps by way of the Saracens, and found what is usually called“fertile soil”. The earliest documents regarding games of chance show thatgovernments, maybe to restrain their subjects’ vice but certainly to makemoney out of it, created the institution of the public gambling house whichwas granted under licence to the highest bidder. To discourage clandestine densthe by-laws included very severe penalties not only for gamblers frequentingthem but also owners, moneylenders and even onlookers. Over and above veryhigh fines, in many cases prison and exile were envisaged and, for cheats, thebarbarous punishment of amputating the hand. Nonetheless, as is well known,the Romagnol spirit is traditionally refractory with regard to unconditionaladherence to the law and, in spite of the risks run, illegal gambling constantlyspread and put down roots over the centuries. This is borne out by notarialdocuments and lists of goods pawned to moneylenders in order to pay gam-bling debts. The gambling craze united all social classes: aristocrats and men ofproperty lost fortunes on the green baize, wealthy landowners found themsel-ves tilling the soil they had gambled away, while the poor were limited to bet-ting the proverbial shirt. The clergy too were in no way extraneous to this stateof affairs, as may be seen from the case of chaplain Gianagostino Marchi whowent so far as to pawn the silver tabernacle of the church of San GiovanniBattista to pay what he had lost at cards, and the continual invective by criticsof immorality against the lassitude and gambling passion of Romagnol priestsand prelates. The ironic thing is that precisely one of those sermons is the firstdocument in which the figures and spots on the cards (the ones we use today)are described with exactness, together with the diabolical meaning attributedto them: denari (coins) for avarice, bastoni (clubs) for foolishness, coppe (cups)for drunkenness and spade (swords) for hatred and war… In fact the judiciaryarchives of Ravenna and Forlì abound with trials for crimes connected withgambling, and the phenomenon of banditry – rife in this area – in a certainderived from it, as borne out by many confessions. Stefano Pelloni himself, thebandit leader better known as Il Passatore (The Ferryman) is said to have takento crime initially to recoup the money he’d lost playing tagliata. Perhaps themost striking example of the Romagnols’ keen propensity towards gaming andtheir heedlessness (not to say insolence) with regard to the law took place inRiolo Terme at the beginning of the last century when the Sparvieri brothersset up a seasonal gaming house, also open to the public, in the Gran Hôtel duParc. Clearly illegal, it bore the unequivocal name of Casino (see photo). Whenthe turnover of money and habitués became so great that the local authoritiescould no longer go on pretending to ignore its existence, the Ravenna policeintervened with an impressive raid. But in the best ”Prohibition” style theyfound only empty tables and tranquil people. Tipped off by a mole the gam-blers had got rid of all compromising evidence. It later emerged that more thantwo hundred thousand lire (a huge sum then) was found in a toilet. Not eventhe world wars managed to dampen this people’s vice of betting: they playedamong the ruins and in shelters; in barracks and at the front, where there wereRomagnol soldiers it wasn’t long before a game was set up; and in the prisoncamps, where no money circulated, the losers issued IOU’s to be honoured ontheir return to Italy. The scenarios changed but the constants traced a line thatis easily followed down to our own days. It is impossible to quantify the num-ber of clandestine gambling dens in Romagna and impossible to estimate theturnover, but you need only glance into the village café after sundown tounderstand how people around these parts tend to subtract the play aspectfrom the term “game”. It should not be believed that all Romagnol peoplebelong to a race of villains ready to mortgage their own and their families’future for a trifle. But what is true is that it is not unusual to glimpse in thedepth of their eyes that spark, that impulse which leads them so often to chal-lenge fate (often adverse) in all contexts, armed only with abundant courage, acertain touch of madness and without the luxury of certainty.

GAMBLING ROMAGNA_BETTING MANIA OVER THE CENTURIES

Ci vorrebbe qualcuno che l’accompagnasse, signore, quando il suo giudizio va a zonzo. Charles Dickens

immagine d’archivio immagine d’archivio

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19Pass ioni18 I Sens i d i Romagna

Marcel lo Cicognani

La fulgida paraboladi una ste l la chiamata Lorenzo

ato alcuni giorni prima di Natale dell’anno 1935 ad Al-marj (Arbe) – nel-

l’allora colonia italica di Cirenaica dove i genitori erano emigrati in cerca di

miglior fortuna – già tre anni più tardi, messi a frutto i (pochi) risparmi accu-

mulati, la sua famiglia fece ritorno a S.Cassiano di Romagna e, rispettata e ben-

voluta, prese a gestire una locanda con ristoro. Ma l’idillio fu freddamente

interrotto dall’arrivo della Guerra che, inesorabile, portò via l’albergo e, soprat-

tutto, Giovanni, il babbo. Tempi duri. Lorenzo manifestò subito allergia ai ban-

chi sporchi d’inchiostro, trovando, invece, la propria dimensione armeggiando

su quelli grassi di lubrificante delle autofficine. Così, giunto a Milano nel ‘51,

la sua perizia gli procurò ben presto un impiego presso il garage REX di quel

Goliardo Freddi, grande appassionato, che – oltre ad essere il padre della sua

futura ed amatissima moglie, Margherita – scorgerà il fuoco divampare dietro

a quei lineamenti delicati e ne fomenterà, per quanto possibile, le spire. Ma sarà

Bandini, fra un’accanita brama da nutrire ed un crudo pagherò da firmare, ad

essere l’unico padrone della propria stella. Filava l’anno 1956 quando la sua

parabola iniziò. Esibendo sempre tenacia, ardimento nonché spigliate doti di

pilotaggio abbinate ad una sensibilità nella messa a punto derivante dal suo

passato di meccanico, egli prese parte a competizioni in categorie diverse e con

NSeppur divenuto uno dei piloti più acclamati della

sua epoca, la vita non era stata facile per Lorenzo

Bandini; anzi, a ben guardare, essa fu tortuosa e

imprevedibile esattamente come la pista in cui,

ineluttabilmente, si compì.

Ora che più forte sento

stridere il freno, vi lascio

davvero, amici. Addio.

Di questo, sono certo: io

son giunto alla disperazione

calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

Giorgio Caproni

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21Pass ioni20 I Sens i d i Romagna

le più disparate autovetture, alternando ottime prestazioni ad altre più opache o, spesso, sfortunate. Sinché, com’è nel sogno di qual-

siasi pilota, alla fine del ‘61 Enzo Ferrari s’accorse di lui mettendogli a disposizione uno dei propri bolidi. Il rapporto fra i due vivrà

d’alti e bassi, fra la tensione del nostro a mettersi in mostra e l’abilità del costruttore modenese nel tenere sempre sulla corda i propri

driver. Lorenzo, ormai simbolo mondiale dell’Italia dello sport, non aveva, però, smarrito la prospettiva delle cose e con i suoi guada-

gni aveva acquistato un piccolo casale sulle colline di Brisighella (dove dal 1994, in occasione del Gran Premio di San Marino, viene

consegnato un trofeo in sua memoria al miglior esordiente del Campionato di Formula1); era là, al podere «Piolo Pioletto», che passa-

va il poco tempo libero innestando piante, annaffiando rose o potando viti per sedare le pressioni accumulate nell’attendere al suo

logorante mestiere e ricaricarsi in vista degl’impegni venturi. Ed il 1967 pareva essere il suo anno. La nuova Ferrari 312 era una saet-

ta e Bandini, ad onta di una guida sempre rispettosa del mezzo meccanico, ben s’attagliava all’infernale toboga di Montecarlo – costret-

to fra marciapiedi, grattacieli e hotel di lusso – dove aveva sempre conseguito eccellenti risultati; inoltre, finalmente forte di un meri-

tato ruolo di prima guida in seno alla Scuderia si sentiva pronto per il titolo iridato. Ecco, fu probabilmente un tal mulinare d’emo-

zioni e responsabilità, unito alla coscienza d’essere comunque lui la somma di tutti i singoli avvenimenti passati, a fremere nell’ani-

mo di Lorenzo schierato in prima fila al via del Grand Prix. Una consapevolezza che, sicuramente, l’accompagnò sino all’ottantadue-

simo giro, quando la sua rossa n.18 uscì dal tunnel del circuito e fu, per l’ultima volta, inondata dal sole.

Il Vecchio, anni dopo, vergherà nelle sue memorie: «Ricordo quel giorno di maggio del 1967. Ero nel mio studio di Maranello, davan-

ti al televisore che trasmetteva le fasi conclusive del Gran Premio di Monaco. Quando vidi il grosso fungo nero di fumo che deturpava

sinistramente la baia di Montecarlo, ancor prima che Piero Casucci, l’indimenticato telecronista di quei tempi, commentasse la cata-

strofica immagine, sentii che quella macchina in fiamme era una delle mie. Ora non so dire perché, ma intuii Bandini nel rogo e fui

sicuro che non lo avrei più rivisto».

Though he became one of the most acclaimed racing drivers of his time, life had not been easy for Lorenzo Bandini; indeed it was every bit as tortuous and unpre-dictable as the track on which, ineluctably, it ended. He was born a few days before Christmas 1935 in Al-marj (Arbe), in the then Italian colony of Cyrenaica where his parents had emigrated in search of fortune. Justthree years later the family returned, with the little money they had saved, to San Cassiano di Romagna where, respected and well liked, they ran an inn. But the idyllwas brutally interrupted by the war which, inexorably, deprived them of both the inn and, worst of all, his father Giovanni. Hard times. Lorenzo immediately showedhimself allergic to ink-stained school desks, finding himself more at home with the oil and grease of a car mechanic’s workshop. So when he arrived in Milan in ’51 hisskills soon got him a job at Goliardo Freddi’s REX garage. This great enthusiast – also the father of Lorenzo’s future and beloved wife Margherita – was to note the fireblazing up behind those delicate features, and he encouraged it as much as possible. But Bandini, with a motivating dream and a crude IOU to sign, was the sole cap-tain of his star. His parabola began in 1956. Always demonstrating tenacity, boldness and outstanding driving skills, linked to his sensitivity, from his mechanic’s past,in tuning an engine, he took part in races in various categories and with the most disparate kinds of vehicle, alternating top performances with others less noteworthyand often unlucky. Until, like in every racing driver’s dream, Enzo Ferrari took notice of him at the end of ’61 and offered him one of his thoroughbreds. There werehigh and low points in the relationship between the two, what with our man’s tension about putting himself on show and the Modena manufacturer’s ability toalways keep his drivers on tenterhooks. Lorenzo, by that time a world symbol of Italian sport, had not however lost his perspective on things: with his earnings he hadbought a small farmhouse in the hills of Brisighella (where since 1994, on the occasion of the San Marino Grand Prix, a trophy is awarded in his memory to the bestdebutant in the Formula One Championship). There, on the “Piolo Pioletto” smallholding, he spent what little free time he had in grafting plants, watering his rosesand pruning vines in order to soothe the pressures accumulated in his wearying profession and to recharge his batteries for future commitments. And 1967 seemed tobe his year. The new Ferrari 312 was a thunderbolt and Bandini, despite a way of driving that always respected the mechanical means, was well suited to the tobog-gan ride of Monte Carlo – squeezed between pavements, skyscrapers and luxury hotels – where he’d always had excellent results. Moreover, strengthened at last by hiswell deserved role as the Stable’s top driver, he felt ready for the title. So it was probably just such a whirl of emotions and responsibilities, together with the aware-ness of his being the sum total of each individual past event, that throbbed in Lorenzo’s soul as he was lined up in the first row at the start of the Grand Prix. Anawareness which surely accompanied him up to the 82nd lap when his rossa N° 18 came out of the circuit tunnel and was bathed in sunlight for the last time. The Old Man, years later, would write in his memoirs: “I remember that day in May 1967. I was in my study in Maranello, watching the last phases of the MonacoGrand Prix on TV. When I saw the great black mushroom of smoke that eerily disfigured the Bay of Monte Carlo I felt, even before the well remembered commenta-tor of the day Piero Casucci had said anything about the catastrophic image, that the car in flames was one of mine. I don’t know why but I intuited that it wasBandini and was sure I’d never see him again.”

THE BRILLIANT PARABOLA_ OF A STAR CALLED LORENZO

Ecco, è l’ora di andare: io a morire, e voi a vivere.

Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti fuorché a Dio.

Socrate

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23Enogastronomia22 I Sens i d i Romagna

Car lo Zaul i

La storia di un vinoi l v ino del Barbarossa

La Fattoria Paradiso, già Castello Urgate Lovarelli, si eleva su di un poggio solare

che affianca il borgo medioevale di Bertinoro, ha una estensione di 80 ettari di vigneto

su terreno calcareo e sassoso con elementi tufacei di grande vocazione viticola.

bicata in altitudine media, sul primo gradino dell’Appennino tosco-romagnolo, è assistita oltre che da un

congeniale microclima, dall’amore che Mario Pezzi ha sempre nutrito per la vite, valori che hanno dato

vita ai vini cru della regione. In particolare il Barbarossa rappresenta il vero fiore all’occhiello aziendale.

Scoperto nel 1955, in una vecchia vigna di oltre 150 anni non più produttiva e destinata alla ruspa, il

Barbarossa è vitigno esclusiva mondiale della Fattoria Paradiso. Il nome che porta trae spunto storico dal fulvo

Imperatore alemanno Federico che soggiornò a lungo nella Rocca di Bertinoro, detta appunto del Barbarossa.

Barbarossa_ Rosso I.G.T. – Uve: Barbarossa 100%

L’invecchiamento avviene in cantina per 18 mesi in grandi botti di rovere di Slavonia, 6 mesi in barrique francesi e 12 mesi

di affinamento in bottiglia. Al cliente oltre 10 anni, bottiglia coricata. Il colore è rosso granato carico, tende all’aranciato

con l’età. Brillante limpidezza. Profumo austero, intenso e persistente, richiama la rosa appassita e la viola mammola. Il

sapore è asciutto, franco e generoso, nerbo sicuro in stoffa ampia di velluto, pieno di carattere. Questo vino si accompagna

egregiamente con arrosti di carni bianche e rosse, pollame nobile, cacciagione e carni tartufate, formaggi stagionati.

Barbarossa _ Red I.G.T. (Typical Geographical Indication) – Grapes: Barbarossa 100%Aging in the cellar continues for 18 months in large Slavonian oak barrels and for 6 months in French barriques, followed by 12 months of maturationin the bottle. For wine to be sold after more than 10 years, the bottles are laid down. A deep garnet red, it tends towards orange with ageing. Brightlimpidity. Austere, intense and persistent bouquet that recalls withered roses and sweet violets. The taste is dry, frank and of pronounced vigour and vel-vety substance, full of character. This wine is an admirable accompaniment to white and red meat roasts, breeding poultry, game, seasoned cheeses andmeat with truffles.

Mito_ Rosso I.G.T. – Uve: Merlot 50%, Cabernet Sauvignon 50%

L’invecchiamento avviene in barrique di rovere francese per 20 mesi e un anno almeno di affinamento in bottiglia. Vino di

grande longevità. Il profumo è ricco e consistente, con note di frutti di bosco, viola e vaniglia. Il sapore è asciutto, morbi-

do e vellutato, stoffa aristocratica, carattere e razza di sublime eleganza. Si sposa ottimamente con arrosti di carni rosse,

pollame nobile, cacciagione, selvaggina, formaggi stagionati e piccanti, cioccolato fondente.

Mito _ Red I.G.T. – Grapes: Merlot 50%, Cabernet Sauvignon 50%Ageing is in French oak barriques for 20 months with at least one year of maturation in the bottle. A wine of great longevity, the bouquet is rich andconsistent with notes of wild fruit, violets and vanilla. The taste is dry, soft and velvety, an aristocratic wine with a character and cultivation of sublimeelegance. It is the perfect accompaniment to red meat roasts, breeding poultry, all kinds of game, seasoned and spicy cheeses and plain chocolate.

Jacopo_ Chardonnay di Romagna I.G.T. – Uve: Chardonnay 80% e Sauvignon 20%

Dopo la fermentazione resta circa sei mesi in barrique, su fecce; batonnage periodico a scalare. L’affinamento si ha con

numerosi mesi in bottiglia prima di essere immesso sul mercato due anni dopo la vendemmia. Il colore è giallo dorato e il

bouquet elegante, molto personale e fruttato, si colgono pesca, banana ananas e vaniglia. E’ un vino dal gusto armonico e

secco, senza asperità, caratterizzato da una presenza del rovere estremamente discreta.

Jacopo _ Chardonnay di Romagna I.G.T. – Grapes: Chardonnay 80% and Sauvignon 20%.After fermentation it remains about six months in barriques on the dregs with periodic graduated batonnages. Maturation in the bottle continues for manymonths before the wine is put on the market two years after the harvest. A golden yellow colour and an elegant, highly personal and fruity bouquet withhints of peach, banana, pineapple and vanilla. It is a harmonious dry wine without sharpness and is characterised by an extremely discreet nuance of oak.

U

The Paradiso Estate, formerly Urgate Lovarelli Castle, stands on a sunny hillock looking onto the mediaeval village of Bertinoro. It has80 hectares of vineyard on a calcareous stony soil, with tufaceous elements, that is particularly suited to winegrowing. The altitude ismedium, on the first level of the Tuscany-Romagna Apennines, and the vineyard is aided not only by a congenial microclimate but alsoby the love Mario Pezzi has always felt for his vines, values that have resulted in the region’s best crus. Barbarossa in particular is theestate’s real flagship. Discovered in 1955 in a more than 150 year old disused vineyard about to be ploughed up, the Barbarossa vinespecies is exclusive worldwide to the Paradiso. Its name comes from the Alemannian emperor Frederick who was a long time resident atthe Fortress of Bertinoro which is, in fact, known as Barbarossa’s Fortress.

HISTORY IN A WINE_ THE WINE OF BARBAROSSA

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Le memorie sono le cantine da vino della mente. Timmermans

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Non riesco a sopportare

quelli che non prendono

seriamente il cibo.

O.Wilde

Beppe Sangiorgi

I cappelletti di magroun piatto stor ico del la cucina romagnola

iniziativa si deve alla volontà della delegazione faentina dell'Accademia Italiana

della Cucina di celebrare il cinquantesimo anniversario di fondazione

dell’Accademia, le cui finalità statutarie vedono in testa la tutela delle tradizioni della

cucina italiana. A metà ottobre, nella Sala dei Cento Pacifici di Faenza, alla presen-

za delle autorità cittadine e della delegazione faentina dell’AIC al completo, è stato

redatto il rogito di accompagnamento della ricetta dei “Cappelletti di magro secondo

la tradizione faentina", poi depositata presso la Camera di Commercio di Ravenna

nella sezione degli Usi. “Abbiamo scelto questo piatto – spiega il delegato di Faenza

Giovanni Zauli - per la sua importanza rituale legata al Natale, per la sua tipicità

faentina e soprattutto per la sua storia secolare”. Le prime notizie sui cappelletti risal-

gono, infatti, all'inizio dell'800, quando l'Amministrazione napoleonica svolse un'in-

dagine sulle usanze dei contadini romagnoli, dalla quale risultò che nel giorno di

Natale “si fanno cappelletti, minestra composta di ricotta, formaggio, uova, aromi; il

tutto avvolto in pasta, detta spoglia da lasagne". Poi, il miglioramento delle condi-

zioni economiche ha portato all'arricchimento del ripieno con il petto di cappone o

altri tipi di carne in quasi tutta la Romagna. Ciò non è accaduto in alcune zone del

Ravennate ed in particolare nel Faentino, dove si continua a preparare rigorosamen-

te il ripieno dei cappelletti solo con alcuni tipi di formaggio. “Nel codificare la ricet-

ta – aggiunge Zauli - abbiamo dovuto mediare tra numerose proposte e consuetudi-

ni che variano anche da famiglia a famiglia, indicando un ripieno con ricotta, ravig-

giolo, parmigiano, uova e noce moscata. Il ripieno va poi avvolto in dischetti di sfo-

glia del diametro di circa sei centimetri, formando dei cappelletti di buone dimensio-

ni che devono essere cotti in un brodo particolarmente ricco e saporito. Nel rispetto

della tradizione abbiamo anche individuato in 24 il numero dei cappelletti per ogni

piatto. Anche se, su quest’ultimo punto, sono ammesse deroghe in aumento”.

L’

E’ stata ufficializzata e formalizzata con un atto notarile

la ricetta dei cappelletti di magro, così detti per

l’assenza di carne nel ripieno.

24 I Sens i d i Romagna 25Enogastronomia

The recipe for cappelletti di magro (lean cappelletti,so called because there is no meat in the filling) has beenmade official and formalised by notary’s deed. This wasdone at the behest of the Faenza delegation of theItalian Cookery Academy to celebrate the latter’s fiftiethanniversary. The Academy was established with the mainaim of safeguarding the traditions of Italian cooking. Inmid October, in the Sala dei Cento Pacifici in Faenza, inthe presence of municipal authorities and the Faenzadelegation of the Academy itself, all members present,the notarial document was drawn up to accompany therecipe for "Cappelletti di magro in the Faenza tradition”and the recipe was then deposited at the RavennaChamber of Commerce. “We chose this dish,” explainsFaenza delegate Giovanni Zauli, “for its ritual importancelinked with Christmas, for its typicality in the Faenza areaand above all for its centuries old history.” The first men-tion of cappelletti in fact dates to the early 19th centurywhen the Napoleonic Administration carried out a surveyof peasant customs in Romagna. It emerged that onChristmas Day “they make cappelletti, a dish consistingof a mixture of cheese, eggs, ricotta and flavouringsenclosed in a thinly rolled dough known as lasagnepasta". With the improvement in economic conditionsthe filling was enriched with capon breast or other meatsalmost everywhere in Romagna. But not in the provinceof Ravenna, and in particular not in the Faenza areawhere the filling for cappelletti is still strictly limited tocertain types of cheese. "In codifying the recipe,” addsZauli, “we had to take an average of numerous proposalsand customs, which vary even from family to family, andsuggest a filling of ricotta, raviggiolo, parmesan, eggsand nutmeg. The filling is then enclosed in roughly 6centimetre diameter discs of thinly rolled pasta formingfair sized cappelletti (“little hats”) which must be cookedin a particularly rich and tasty broth. Out of respect fortradition we also identified the number of cappelletti perportion as 24, but on this last point exceptions are per-missible as long as the number is increased.”

“CAPPELLETTI DI MAGRO”_A HISTORIC DISH IN ROMAGNA COOKERY

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29Arte28 I Sens i d i Romagna

Valent ina Baruzz i

Palazzo San Giacomo a Russil ’e lefante fer i to

“Un grande oggetto stratosferico, un pachiderma bianco lungo 84 metri, piombato nella

campagna di Russi, presso l’argine destro del fiume Lamone: così appare Palazzo San Giacomo…”

a metafora dell’elefante bianco, di Anna Maria Iannucci, descrive perfettamente l’effetto che suscita quest’edificio, così inaspettato

e inconsueto per le nostre terre di pianura. Nel palazzo, edificato durante la seconda metà del Seicento per volere dei conti raven-

nati Guido Paolo e Cesare Rasponi, coesistono elementi tipici delle ville-castello romagnole del XVI secolo (le due torri laterali e il basa-

mento a scarpa), insieme a componenti che anticipano le ville residenziali (il porticato ed il finto loggiato).

La passione di Cesare Rasponi (investito della carica di cardinale nel 1666) per i giardini si manifestò con la realizzazione di un giar-

dino all’italiana e un bosco detto “delicioso”, caratterizzati da elementi ornamentali e sentieri labirintici di gusto barocco. Il palazzo fu

sia sede di corte, sia fattoria produttiva; coesistevano, pertanto, stalle, cucine, pozzi, legnaie, insieme a luoghi funzionali all’accoglien-

za di numerosi ospiti, come la pasticceria, la peschiera e le conserve del ghiaccio. Il complesso nel 1774 fu arricchito dalla realizzazio-

ne della chiesa di San Giacomo, progettata da Cosimo Morelli, che diede il nome all’intero edificio.

Crebbe un gran fermento attorno al palazzo, soprattutto tra il XVII e il XVIII secolo, come conferma il testamento datato 1756 del mar-

chese Cesare Rasponi, il quale dispose che i vescovi e i cardinali legati vi potessero villeggiare liberamente. Gli arrivi dei Rasponi e dei

loro invitati erano sempre trionfali, sia che provenissero dal fiume Lamone con il bucintoro, imbarcazione tipica di queste zone, sia che

arrivassero in carrozza, percorrendo lo splendido viale di pioppi cipressini; i ricevimenti tenuti dai conti finivano per mobilitare tutti

gli abitanti del paese. Dai primi dell’Ottocento gli sfarzi e le celebra-

zioni andarono scemando e sembra che la villa divenisse teatro d’adu-

nanze rivoluzionarie negli anni dei moti risorgimentali, in concomi-

tanza con la partecipazione diretta di Tullio Rasponi a queste vicende

politiche. Con l’estinzione della famiglia, il patrimonio fu smembrato

e l’edificio cadde nel più totale abbandono. Alcune parti furono demo-

lite, altre pregiudicate a causa della guerra.

Fu Mattia Moreni, negli anni Settanta, a far rivivere la villa degli anti-

chi fasti. Nel periodo in cui alloggiava presso l’albergo Morelli di Russi,

usava, infatti, dipingere i suoi quadri proprio nelle splendide sale affre-

scate di Palazzo San Giacomo ed era solito trascorrervi qualche tempo

in compagnia delle numerose amanti. La leggenda narra che l’artista si

spostasse da una stanza all’altra in bicicletta; anche se ciò non corri-

spondesse a verità ci piace lo stesso immaginarlo, poiché, con ironia,

di nuovo ci aiuta a figurarci la mole di questo pachiderma di pietra.

L

“A great stratospheric object, a white pachyderm 84 metres long droppedinto the Russi countryside near the right bank of the river Lamone: that’swhat Palazzo San Giacomo looks like…”Anna Maria Iannucci’s metaphor of the white elephant perfectly describesthe effect aroused by this building, so unexpected and unusual in our flat-lands. Built in the second half of the 17th century for the Ravenna countsGuido Paolo and Cesare Rasponi, the palazzo features typical elements of16th century castle-villas in Romagna (the two side towers and the inclinedbase) together with components that anticipate those of residential villas(the colonnade and the false open gallery).Cesare Rasponi (made cardinal in 1666) had a passion for gardens which wasmanifested in the creation of a classic garden and a wood known as ‘deli-cious’, characterised by ornamental elements and labyrinthine pathways inbaroque taste. The palazzo was both seat of the court and a working farm-house, so there were byres, kitchens, wells and woodsheds that coexistedwith places functional to entertaining large numbers of guests, such as aconfectioner’s, a fishpond and ice stores. In 1774 the complex was enrichedby the addition of the church of San Giacomo, designed by Cosimo Morelli,which gave its name to the entire building. Great activity sprang up around the palace, especially between the 17th and18th centuries, as confirmed by the 1756 will of marquis Cesare Rasponiwhich decreed that bishops and cardinal legates might holiday there freely.The arrival of the Rasponi family with their guests was always triumphal,whether from the river Lamone by bucintoro, a typical local vessel, or bycarriage down the splendid avenue lined with Lombardy poplars. The counts’receptions ended up by mobilising all the inhabitants of the village. From the early 19th century the magnificence and celebrations abated andit seems that the villa became a meeting place for revolutionaries during theyears of the Risorgimento, when Tullio Rasponi was directly involved in thosepolitical activities. With the extinction of the family their estate was dividedup and the building fell into the most total abandon. Some parts weredemolished and others damaged during the war.It was Mattia Moreni in the 1960’s who brought the villa of ancient splen-dours back to life. While lodging at the Morelli hotel in Russi he used to dohis painting in the splendid frescoed rooms of Palazzo San Giacomo wherehe also spent time in the company of his numerous lovers. Legend has itthat he would travel from room to room by bicycle. And even if this is nottrue we like all the same to imagine it because, with irony, it helps us toconceive of the size of this stone pachyderm.

PALAZZO SAN GIACOMO IN RUSSI_THE WOUNDED ELEPHANT

Una casa non è solo un edificio,

un edificio non è solo un palazzo,

un palazzo non è solo una casa.

Vittorio Marchis

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31Arte30 I Sens i d i Romagna

Viola Emaldi

Cartelli e angurienel la Romagna di Matt ia Moreni

“Se riuscissi a trovarmi un buco

per lavorare nel Comune di Ravenna,

chiedendo a Zaccarini, o al sindaco

o altri. Qui un casino. Ti racconterò.

Finisco due piccole tele per Larcade

e Edith e poi tornerò.”

scrivere queste righe fu Mattia Moreni, esponente in vista di quella corrente

detta Informale, che alla metà degli anni ’50, godeva pienamente della pro-

pria affermazione. Sull’onda del successo, molti suoi compagni di viaggio si

lasciarono trasportare comodamente mentre Moreni, da “battitore libero” qua-

l’era, aveva ben chiaro il limite tra autonomia dell’arte e partecipazione al

mondo dei viventi.

Già proiettato oltre il normale ordine, ma coerente alla sua appartenenza

all’Informale, portò avanti la propria ricerca artistica a prescindere da com-

menti ed aspettative. Attraverso una pennellata spessa, seducente e carica di

materia cercò l’indicazione del superamento; risolvere, cioè, i suoi problemi d’autonomia e sganciamento dalla realtà, dal sociale e da

ogni altro referente alla ricerca di un personalissimo rapporto con l’immagine naturale.

I luoghi eletti come pretesto congeniale alla sua poetica furono quelli di Romagna; “terra di cartelli e di angurie” che, nonostante gli

spostamenti dell’artista, resterà un punto di riferimento costante nonché angolo privilegiato di riconoscimenti esistenziali e simbolici.

Iniziò, così, nel ’57 a trascorrere in quel di Russi il periodo estivo: “Russi piccola Parigi delle mie estati o gli anni viscerali e ruggenti

della mia vita e della cultura- stranamente le situazioni coincidevano”. Sul calare della primavera chiudeva lo studio parigino, antica

sede del leggendario Moulin Rouge, per invadere i resti bombardati dell’imponente Palazzo S.Giacomo. “Ero a Russi tutta l’estate quat-

tro mesi meravigliosi di giorni africani, con la pelle color mogano rivestita di rame – i capelli di sole di sale di mare erano color Marilyn

Monroe – la maglia bianca e le più belle larghe bretelle svedesi – ero quasi bello – forse affascinante – perché no? Infatti sembravo

sempre solo ed invece c’erano le ragazze e con alcune ci facevo anche all’amore, ma nessuno lo ha mai saputo e non lo saprà mai e

questo mi diverte – a parte la mia tradizione di gentiluomo”.

Da “spettatore attento e diffidente con il forse continuo nella mente”, Moreni intraprese un cammino verso una visione solitaria, appa-

rentemente oggettiva, di singoli elementi del paesaggio naturale ed umano della “bassa” alla ricerca di una totalità racchiusa nel sim-

bolo. Sgorgarono, così, cartelli ed alberi, capanne e paesaggi, soli e campi, fulmini e nuvole fino alle famose “Angurie” del 1964; una

pittura come sintesi, la sua, dove il soggetto-pretesto, passando per la mente, diventa il segno-oggetto, forma simbolica del tutto e

niente. La Romagna, presenza segreta dell’artista, resta celata in quanto già forte del suo esserci come luogo dello spirito. In essa Moreni

affondò le radici nel ’66 stabilendosi definitivamente, in volontario isolamento, alle “Calbane Vecchie”, podere sui calanchi di

Brisighella; romitorio che presto divenne un avamposto autarchico, stoico e provocatorio per sfidare l’ordine e le convenzioni. In quel-

l’altitudine, conservata sino all’ultimo, visse Mattia Moreni da uomo felice sotto “il gran cielo della Romagna”.

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“If you could manage to find me a little place to work in the Commune of Ravenna, asking Zaccarini or the mayor or somebody. A mess here. I’ll tell you about it.I’m going to finish two little canvases for Larcade and Edith then I’m coming back.” These words were written by Mattia Moreni, a leading light of the Non-represen-tational movement which in the mid 1950’s was enjoying its greatest acclaim. Many of his fellow travellers let themselves be carried along comfortably on the waveof success while Moreni, the “free explorer”, was quite clear about the boundary between autonomy in art and participation in the land of the living. Already projec-ted beyond the normal order but coherently with his belonging to the Non-representational school he went ahead with his artistic research quite aside from com-ments and expectations. By means of a thick, seductive brushstroke charged with matter he sought the direction for overcoming, which is to say resolving his pro-blems of autonomy and detachment from reality, from the social aspect and from every other reference in the search for a highly personal relationship with the natu-ral image. The places he preferred as opportunities congenial to his poetics were in Romagna, “a land of posters and watermelons” which, in spite of the artist’s wan-derings, would remain a constant point of reference as well as a privileged corner of existential and symbolic acknowledgements. So in ’57 he started to spend hissummers in Russi: “Russi, little Paris of my summers or of the visceral and roaring years of my life and of culture. Strangely the two situations coincided.” At theend of spring he closed down his Paris studio, in the building that formerly housed the legendary Moulin Rouge, and took over the bombed remains of the impressivePalazzo San Giacomo. “I spent the whole summer in Russi, four marvellous months of African days with my skin the colour of copper-faced mahogany – with mysea, salt and sun hair the colour of Marilyn Monroe’s – a white T-shirt and the finest wide Swedish braces – I was almost handsome – maybe fascinating – whynot?. I seemed to be always on my own, but actually there were girls and I made love with some of them. But nobody ever knew about it, or will ever know, and thisamuses me – quite apart from my gentlemanly tradition.” As a “careful and mistrustful spectator with a continual maybe in my mind”, Moreni took a road towards asolitary, apparently objective vision of individual elements of the natural and human landscape of “lower” Romagna in search of a totality enclosed in the symbol. So there spurted forth posters and trees, huts and landscapes, suns and fields, lightning and clouds right down to the famous “Watermelons” of 1964. His was paintingas synthesis where the subject-pretext, passing through the mind, became sign-object, symbolic form of everything and nothing. Romagna, the artist’s secret presence,remains concealed inasmuch as it is already powerful in being a place of the spirit. Here Moreni put down roots in ’66, establishing himself in voluntary isolation atthe “Calbane Vecchie”, a smallholding in the erosion furrows of Brisighella; a hermitage that soon became an autarchic, stoical and provocative outpost from which tochallenge order and conventions. At that altitude, where he remained to the end, Mattia Moreni lived as a happy man beneath “the great sky of Romagna”.

POSTERS AND WATERMELONS_ IN MATTIA MORENI’S ROMAGNA

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L’arte è un’amante gelosa. R. W. Emerson

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04Territorio

A spasso nel tempo_fra colli ed ulivi

A journey through time_Amid hills and olive groves

Centro Etnografico della Civiltà Palustre_l’ecomuseo di Villanova di Bagnacavallo

Ethnographic Centre of Marshland Civilisation_The Ecomuseum in Villanova di Bagnacavallo

08Storia

Caterina Sforza_leonessa di Romagna

Caterina Sforza_Lioness of Romagna

Stregoneria, superstizione...... nella Romagna di fine Medioevo

Witchcraft and superstition… … in late mediaeval Romagna

La domestica di Grazia Deledda_un ritratto curioso ed umano della grande scrittrice

Grazia Deledda’s maid_A curious and human portrait of the great writer

14Passioni

Romagna biscazziera_la mania dell’azzardo nei secoli

Gambling Romagna_Betting mania over the centuries

La fulgida parabola_di una stella chiamata Lorenzo

The brilliant parabola_Of a star called Lorenzo

28Arte

Palazzo San Giacomo a Russi_l’elefante ferito

Palazzo San Giacomo in Russi_The Wounded Elephant

Cartelli e angurie_nella Romagna di Mattia Moreni

Posters and Watermelons_In Mattia Moreni’s Romagna

22Enogastronomia

La storia di un vino_il vino del Barbarossa

History in a Wine_ The Wine of Barbarossa

I cappelletti di magro_un piatto storico della cucina romagnola

“Cappelletti di magro”_A historic dish in Romagna cookery

32 I Sens i d i Romagna