Numero 27 maggio 2015

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"Sin dalle prime ore dell'alba gli alleati entrano a Bologna: è il 21 aprile 1945, la liberazione è cominciata. Donne, uomini, bambini e anziani riversi tra via Indipendenza e Piazza Maggiore, affiancati da militari e partigiani tornati da mesi e anni di lunghe battaglie. Bologna fu uno dei fuochi più dirompenti, dalle stragi di Monte Sole e Marzabotto alla partigianeria che lottò contro il nemico sui monti dell'Appenino. 70 anni dopo è giusto dare ancora più voce ad una memoria che ci chiama ad essere tutti uniti, nel ricordo e nella resistenza quotidiana."

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PERCHÉ L’ITALIA VIVABrano tratto dal libro Enzo Biagi – Era Ieri

Editoriale: COMBATTERE PER RESISTEREDi Diego Ottaviano

INTERVISTA AD ADELMO FRANCESCHINIDi Giovanni Modica Scala

STORIE PARTIGIANEDi Antonio Cormaci

DONNE PARTIGIANEDi Giulia Silvestri

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Brano tratto dal libro Enzo Biagi – Era Ieri

Ognuno di noi portò nella Brigata non solo le sue idee e la sua storia, ma anche le proprie capacità e quello che faceva nella vita. Così, io che non ero uno stratega e di campagne miliari conoscevo solo quelle napoleoniche, pensai che era importante raccontare la situazione del nostro Paese e i princìpi che ci avevano spinto a combattere i nazifascisti. Con i pochi mezzi che avevamo, feci un giornale, Patrioti, due pagine che stampavamo oltre il fronte, a Porretta Terme. Ne realizzammo, con molti sacrifici, tre numeri con il sottotitolo: «Pubblicazione della Prima Brigata Giustizia e Libertà». Una notte la tipografia fu perquisita, per fortuna la stampa e la consegna erano avvenute meno di ventiquattro ore prima. Nella seconda pagina pubblicavo dei pensieri che non erano solo i miei, ma quelli che ci scambiavamo. I titoli li facevo io,

la rubrica si chiamava, con poca originalità, «Taccuino», che era quello che tenevo sempre in tasca e che mi serviva per prendere appunti.Il primo numero uscì il 22 dicembre 1944; accanto al logo della testata, dove oggi viene messa la pubblicità, io scrissi: Esercito Partigiano, Divisione Bologna. L’editoriale portava come titolo «Perché l’Italia viva». Cominciava così:«Ciò che hai fatto non sarà dimenticato. Né i giorni, né gli uomini possono cancellare quanto fu scritto con il sangue. Hai lasciato la casa, tua madre, per correre alla montagna. Ti han chiamato “bandito”, “ribelle”; la morte e il pericolo accompagnavano i tuoi passi. Scarpe rotte, freddo, fame, e un nemico che non perdona. Sei un semplice, un figlio di questo popolo che ha sofferto e che soffre: contadino o studente, montanaro od operaio. Nessuno ti ha insegnato la strada: l’hai seguita da solo, perché il cuore

ti diceva così. Molti compagni sono rimasti sui monti, non torneranno. Neppure una croce segna la terra dove riposano. La tua guerra è stata la più dura, tanti sacrifici resteranno ignorati. Contadino o studente, montanaro od operaio, ti sei battuto da soldato. E da soldato sono caduti coloro che non torneranno… Giosuè Borsi, poeta e combattente, lottò e cadde per un’Italia più grande, ma soprattutto, “per un’Italia più buona”. Anche tu vuoi che da tanti dolori nasca un mondo più giusto, migliore, che ogni uomo abbia una voce e una dignità. Vuoi che ciascuno sia libero nella sua fede, che un senso di umana solidarietà leghi tutti gli italiani tornati finalmente fratelli. Vuoi che questo popolo di cui sei figlio viva la sua vita, scelga e costruisca il proprio destino. Non avrai ricompense, non le cerchi. Sarai pago di vedere la patria, afflitta da tante sciagure, risollevarsi. Uno solo è il tuo intento: perché l’Italia viva.»

PERCHÉ L’ITALIA VIVA

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di Diego Ottaviano

Attilio, Floriana, Renato. Nomi di persone, di partigiani bolognesi. Nomi di chi ha sacrificato la vita per una finestra aperta sulla libertà. Un’apertura intensa, voluta, di quelle che illuminano e fanno la storia di un paese, il Nostro, l’Italia. Una fessura chiara, distinta e troppo importante per non essere difesa.

E’ questa la Resistenza Partigiana. E’ questo un fenomeno complesso, emozionante e drammatico. Un sentiero nascosto tra le buie battute della Seconda Guerra Mondiale. Un sentimento di passione e d’ideali, di difficoltà. Un filo sottile, fragile, protetto in battaglia da centinaia di donne, di uomini e di vite il cui nome è pezzo portante di democrazia.

Battaglie aggressive, piene di violenza e di racconti come quelli di via Piana a Bologna, dove i fascisti trovano la fiera opposizione di coloro che nella ‘Pace, Lavoro e Libertà’ riposerò il proprio credo. Partigiani, antifascisti e gente comune come fu Romolo Veronico, trovato con una rivoltella e ucciso dalla brutale ferocia di un’esecuzione fascista.

Opposizione armata e per la libertà. Scontri come quelli nel quartiere Lame, sempre a Bologna, dove

la mattina del 7 novembre del 44’ perdono la vita giovani come Daniele, detto il Diavolo, ucciso dal rumore di una mitraglietta, sulla soglia di casa, quando è ancora un ragazzino non maggiorenne.

Conosciuta come ‘Battaglia delle Lame’ è questa uno dei teatri di guerra e sangue più drammatico d’Italia; uno scontro incisivo e crudele, tra i più violenti mai combattuti all’interno di un centro urbano della penisola. Un episodio centrale nella lotta verso la liberazione, che vede coinvolti i contingenti dei Gruppi di Azione Patriotica in opposizione alle forze armate tedesche e della Repubblica Sociale Italiana.

Un momento di storia indelebile, un apostrofato bellico lungo oltre dodici ore che non ferma partigiani e antifascisti nonostante l’inferiorità in numero. Uno smacco storico alle forze nazifasciste, frutto delle azioni di due distaccamenti della 7ª G.A.P., che costretti a un ripiegamento verso Porta Lame, prima resistevano agli attacchi delle formazioni di cingolati armati delle truppe nazifasciste, e poi con un’azione simultanea, circondavano e attaccavano le forze nemiche, che non ebbero tempo di una reazione ordinata. Nei sotterranei dell’ospedale

Maggiore la sede del primo distaccamento. Circa 230 uomini, guidati da Giovanni Martini “un esempio superbo di spirito, sacrificio e di amore per la Patria” che da partigiano è catturato, seviziato e ucciso proprio come Ferruccio Magnani membro tenace del Partito Comunista Italiano riconosciuto e massacrato da gruppi fascisti. In una palazzina di vicolo Macello vi era invece la sede del secondo distaccamento della 7ª G.A.P., composto da circa settanta unità condotte dal coraggio di Lino Michelini, alias William, e dall’audacia di Bruno Gualandi.

Storie bolognesi, italiane e di chi ha anteposto la difesa della Libertà a quella della propria vita. Momenti di resistenza, che raccontano una forte parte di noi. Storie di vita e di coraggio italiano che neanche la paura ha fermato e che invece ha nutrito le radici della nostra Italia, della nostra bandiera, della nostra cultura delle nostre speranze.

Partigiani d’Italia la voce sul futuro del nostro Paese. Una voce che ha lottato per il bisogno di pace, di democrazia e di giustizia. Una voce davanti al senso unico, combattere per resistere.

Combattere per Resistere.

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di Giovanni Modica Scala

Quando si parla di Resistenza, spesso ci si riferisce esclusivamente alla lotta antifascista dei partigiani. Una consuetudine più che comprensibile, legittimata dalla storiografia e dalla letteratura che ne hanno annualmente celebrato le gesta. In tal modo si è spesso offuscata la storia parallela, e non meno determinante, di quella che Alessandro Natta (ex internato e segretario del PCI dopo Enrico Berlinguer) definì “l’Altra Resistenza”, i cui protagonisti sono noti con l’acronimo di IMI (Internati Militari Italiani). Costoro furono ufficiali e soldati italiani che, all’indomani dell’8 settembre 1943, scelsero coraggiosamente l’internamento nei campi di lavoro tedeschi pur di non proseguire la guerra a fianco dei tedeschi nell’esercito repubblichino. Lo status di IMI fu un crudele stratagemma adottato dai nazisti per sottrarre gli italiani alla tutela della Convenzione di Ginevra del 1929 (compresa l’assistenza della Croce Rossa), per costringerli al lavoro manuale e per aggirare la contraddizione formale di considerare prigionieri i militari di uno stato formalmente alleato, la Repubblica Sociale Italiana, visto che Berlino non riconobbe mai il Regno del Sud. Parliamo di oltre 600000 italiani che combatterono un’altra guerra, senz’armi, fatta di resistenza alla fame, al freddo, alle violenze e al lavoro coatto. Tra questi, spiccano nomi illustri come quello di Giovannino Guareschi, autore del celebre “Don Camillo”; del già citato Alessandro Natta; senza dimenticare personalità meno celebri ma di alta levatura morale e culturale, come Adelmo Franceschini, un “giovane” 91enne che ha fatto tesoro della propria drammatica esperienza per impegnarsi in prima persona dapprima nella vita politica di Anzola (è stato Sindaco e segretario della Camera del Lavoro) e poi, in

missione nelle scuole di ogni ordine e grado (cosa che fa ancora oggi alla sua venerabile età), per trasmettere alle nuove generazioni valori oramai smarriti.Ho avuto l’onore ed il privilegio di conoscerlo personalmente, assetato da una curiosità che va oltre le poche - e difficilmente reperibili - monografie sugli IMI.Mi dice Adelmo che per quasi 30 anni lui e tanti altri ex internati si sono chiusi nel silenzio: “quando siam tornati c’era tanta voglia di dimenticare. Poi ci siamo resi conto che invece era importante parlare ai giovani, tramettere loro il valore della memoria con la testimonianza”.Non dimentica i torti subiti - spesso provenienti anche da alcuni “compagni - da parte di chi non ha compreso il sacrificio e il coraggio dei tanti militari italiani che scelsero l’internamento spinti da motivazioni ideologicamente non omogenee, principalmente mossi - come evidenzia un’analisi sociologica di Giuseppe Caforio - dall’antimilitaristico rifiuto di proseguire la guerra di Hitler e Mussolini, dalla fedeltà al re e dalla volontà di non combattere contro altri italiani. In molti casi, dunque, non risposero ad una scelta politica o consapevolmente antifascista.Fu probabilmente anche per questo motivo che, come ricorda Franceschini, la casa editrice del PCI (Editori Riuniti) si rifiutò di pubblicare il diario di prigionia di Natta, dato poi alle stampe da Einaudi solo nel 1997.Quando si parla di Resistenza, è opportuno ed auspicabile non semplificare e non cedere al riduzionismo. “Bisognerebbe partire dagli anni ’20: è allora che è iniziata la prima Resistenza al fascismo con Matteotti, Dozza, Gramsci, Pertini. Poi c’è stata anche la Resistenza degli operai delle grandi fabbriche del Nord che nel 1944 si rifiutavano di lavorare, molti dei quali sono stati portati a Mauthausen”.La vicenda degli Internati Militari

rientra a pieno titolo nella guerra di Liberazione e come tale Franceschini la rivendica, con un pizzico di polemica: “Se noi 600000 avessimo aderito alla Repubblica di Mussolini per voi diventava dura la vita di partigiani! Ciò non toglie nulla al valore e al rispetto di questa epopea della guerra di liberazione ma è bene ricordare che ci sono stati alcuni partigiani che lo sono diventati il giorno in cui sono arrivati gli americani. Adesso prendi per il culo a me che ho detto subito no e mi son beccato 2 anni di internamento?!”.Dopo questa accesa puntualizzazione, torna ad essere la persona mite che ho conosciuto e sottolinea il valore del rispetto altrui e del ripudio dell’odio: “Io non odiavo il popolo tedesco, che peraltro è stato in parte vittima. L’odio è il sentimento peggiore che un essere umano possa coltivare”. Subito penso ad una frase con cui mio nonno, preso prigioniero a Rodi e anch’egli internato, chiude la premessa del suo inedito diario di prigionia, auspicando che la propria testimonianza possa servire “ad odiare la guerra, che dissolve ogni valore morale, e a concepire l’amore come l’unico splendido dono concesso all’uomo da una entità sconosciuta, a parziale risarcimento di innumeri sventure”. Cito a memoria l’estratto e i suoi occhi si illuminano: “vedi come coincidono i sentimenti di quella generazione lì?”.Al termine della nostra piacevole conversazione, Adelmo fa riferimento all’attualità. Riporto di seguito integralmente le sue parole cariche di preoccupazione ma anche di speranza e fiducia nel cambiamento.“Il dramma dell’Italia è che, a differenza della Germania, non ha ancora fatto i conti con la propria Storia. Uno dei mali peggiori è l’indifferenza. Sono convinto che ci sono ingredienti e molte analogie con quello che successe molti anni fa, anche se in un contesto diverso. I ragazzi devono conoscere la Storia perché gli serva per essere più preparati e meno indifferenti sul presente, altrimenti non serve

INTERVISTA ADADELMO FRANCESCHINI

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Di Antonio Cormaci

Bologna è una roccaforte della storia della Resistenza antifascista, un simbolo di un’Italia rinata dopo aver soffocato sotto le macerie dell’occupazione. Non solo la storia è la testimonianza di questo valore della città felsinea nella cronologia della Liberazione, ma anche la topografia della città stessa, con un sacco di vie intitolate ad eroi della Resistenza, nomi indimenticati nella memoria bolognese. Raccontarla tutta, sottrarrebbe non poco tempo.In questa sede vorrei soffermarmi su l’operato dei partigiani della 7° Gap a Bologna, durante il periodo della resistenza, azioni che forse, al giorno d’oggi, non hanno la giusta risonanza.Mi riferisco innanzi tutto alla liberazione dei prigionieri politici dalle carceri di S. Giovanni in Monte. Dodici gappisti, divisi in tre gruppi, di cui due in divisa fascista e nazista, giunsero dinnanzi le porte del carcere, intimando chi di guardia di far entrare quattro presunti prigionieri, nonché terzo gruppo dei tre dei partigiani. Entrati nelle prigioni, con fare deciso immobilizzano le guardie, colte di sorpresa, e liberano tutte i prigionieri, più di 50, all’interno del carcere. Nessuno potte fare niente e l’operazione “sotto copertura” fu un vero successo.Altri eventi di particolare rilevanza nella storia della resistenza bolognese furono i due attacchi all’Hotel Baglioni, oggi una celebre struttura del centro storico della città. Nel 1944 era un ritrovo delle massime autorità naziste ed in quanto tale, la notte del 29 settembre dello stesso anno, fu oggetto di un primo attacco, fallito, ad opera di sei gappisti travestiti da guardie tedesche. Il piano prevedeva aprire il fuoco nella sale e poi piazzare una scatola di tritolo che, inizialmente, non esplose. Il piano venne riprovato il 18 ottobre dello stesso anno, stavolta con

successo. Parte dell’edificio crollò e il commando cambiò residenza.Sono storie dal sapore quasi cinematografico, ma intrise di immensa tragedia, segno comunque di uno sforzo comune collettivo dettato dalla disperazione e dalla voglia di ricacciare l’occupante. Un evento importante in tal senso fu la Battaglia di Porta Lame, il 7 novembre 1944. Siamo alle soglie dell’autunno 1944, gli alleati hanno già sfondato la linea gotica. Il 13 ottobre giungeva al CUMER (Commando Unici Militare Emilia Romagna) un rapporto in cui si diceva che la 5 armata avesse inviato una direttiva ai partigiani bolognesi di entrare in città e di bloccare tutti gli accessi del nemico. Alle 6.15 del 7 novembre, scoperta la base tedesca di Via del Macello, inizia la battaglia. I fascisti e i nazisti inizialmente, e nel timore dell’arrivare dell’oscurità, dove notoriamente i partigiani agivano meglio, predisposero una massiccia offensiva utilizzando anche mezzi cingolati. Dopo 10 ore di battaglia, verso le 18 del giorno seguente, i fascisti e i nazisti occupavano ancora la base di Via del Macello pur non avendo ancora possibilità di vittoria. Fu così che intervenne la 7° GAP, che era insediata tra le rovine dell’Ospedale Maggiore e che stava occupando il cassero di Porta Lame. La reazione delle forze nemiche non sortì gli esiti sperati, considerata pure la tempestività dei partigiani. Possiamo tranquillamente definire che quella battaglia fu l’inizio delle operazioni che, da lì a poco avrebbero portato alla liberazione della città felsinea.Queste storie, come tante altre, sono testimonianze del coraggio di una città, di un popolo, che con il sangue, anche con moltissima astuzia e con infinita forza è riuscito a diventare, forse, il simbolo della Resistenza italiana. Queste sono storie di resistenza bolognese. Queste sono storie di resistenza italiana.

a niente. LA MEMORIA E LA STORIA SONO IMPORTANTI PER CAPIRE IL PRESENTE E COSTRUIRE IL FUTURO.Io sono convinto che dobbiamo continuare ad andare nelle scuole ma è necessario che riusciamo a parlare con gli adulti, anche perché i 40enni e 50enni, molti dei quali non sanno nulla di quello che è successo, ci governano eh! Se questi non hanno memoria storica, rischiano anche in buona fede di far delle cavolate. Io credo - ne sono convintissimo - che abbiam bisogno adesso di un grande riscatto civico attraverso una battaglia culturale. Se la legalità non diventa cultura collettiva non ce la facciamo; se la Costituzione non diventa patrimonio culturale di ogni cittadino, come facciamo a combattere chi cerca di modificarla e non attuarla? Io questa battaglia la faccio sempre, perché sento che è lì che siamo carenti… accidenti il diavolo!Son preoccupatissimo, però non perdo mai la speranza. In campo di concentramento, se perdevi la speranza, dopo pochi giorni morivi. Quindi dovete essere attenti, consapevoli delle difficoltà, ma dovete vivere la speranza e la fiducia che è possibile costruire un mondo diverso, più giusto, un mondo di pace.Dovete essere voi gli artefici principali del vostro futuro, non restate alla finestra a guardare mentre qualcuno progetta il futuro per voi. Bisogna mettersi in gioco.Io, finché avrò fiato, lo spenderò per questa causa”

N.B.: la foto è tratta dall’archivio fotografico di Vittorio Vialli, internato bolognese che riuscì clandestinamente a documentare fotograficamente la realtà dei campi di internamento. In tal caso si tratta di una foto segnaletica di “benvenuto” presso il campo di Sandbostel.

Storie di resistenza BOLOGNESE

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di Giulia Silvestri

“Le donne nella Resistenza sono ovunque. Ricoprono tutti i ruoli. Sono staffette, portaordini, infermiere, medichesse, vivandiere, sarte. Diffondono la stampa clandestina. Trasportano cartucce ed esplosivi nella borsa della spesa. Sono le animatrici degli scioperi nelle fabbriche. Hanno cura dei morti. Compongono i loro poveri corpi e li preparano alla sepoltura. Un certo numero di donne imbraccia le armi. [...] Tuttavia le donne non hanno ottenuto quei riconoscimenti che meritavano”. Angelo del Boca, partigiano, scrittore e storico.Ogni storia personale è un tassello di quella del mondo. Scavare in essa comporta sempre scoperte inaspettate. Da quando sono piccola so di avere avuto dei partigiani in famiglia, di cui uno morto a Mathausen-Guesen, un altro fucilato a Sabbiuno di Paderno e il mio bisnonno, un sopravvissuto. In realtà i partigiani nella mia famiglia sono stati sette, di cui una donna: Antonietta Panzarini. Donne partigiane: nonostante i lunghi silenzi e le omissioni sull’importanza del loro apporto, esse furono fondamentali quanto gli uomini nella liberazione, tuttavia le loro storie sono rimaste sconosciute per molto tempo, con l’esclusione di coloro che sono state elette nell’Assemblea Costituente e ad altre cariche importanti. Le donne bolognesi hanno, come

molte altre, ascoltato la propria coscienza e un numero rilevante di esse, compresa Antonietta, aveva una famiglia antifascista a condividere la propria lotta. Il silenzio caduto su quella parte della storia della resistenza pesa ancora oggi. Chi nella nostra città sa chi era Irma Bandiera, quella donna che ha dato il nome alla via accanto allo Stadio? Chi conosce il nome di quella madre di Crespellano, alla quale hanno squarciato il ventre torturandola e uccidendo lei e il bambino che portava in grembo? Il suo nome era Gabriella Degli Esposti, partigiana medaglia d’oro al valor militare alla memoria, come Irma Bandiera. La loro morte ha portato il distaccamento della brigata di quest’ultima a prendere il suo nome, e per quanto riguarda Gabriella, molte donne abitanti nella sua zona hanno iniziato a lottare contro il nazifascismo creando così il raro fenomeno di una brigata partigiana tutta al femminile. 35.000 combattenti, 70.000 elementi dei Gruppi di Difesa della Donna (unione di donne che organizzavano scioperi contro i nazifascisti, pubblicavano e distribuivano giornali sulla resistenza, aiutavano finanziariamente le famiglie di partigiani uccisi o incarcerati\deportati): tutte accantonate dopo la guerra, come se non fossero esistite e come se quelle 19 medaglie d’oro al valor militare, di cui solo quattro a donne ancora in vita, fossero un misero premio di consolazione

piuttosto che un riconoscimento. L’ipocrisia più grande fu quella di dare a queste donne una medaglia alla memoria ed emarginarle ed escluderle già durante i festeggiamenti della liberazione. Questo aspetto fu sottolineato dalle molte partigiane che dopo anni decisero di raccontare la propria storia. Come a dire: uomini e donne si assumano gli stessi rischi e gli stessi doveri morali, seguendo le proprie coscienze, ma ad essi non spettino gli stessi diritti. Settant’anni dopo donne e uomini, di ieri e di oggi, si sono ritrovati insieme per ricordare un avvenimento caduto nell’oblio: la manifestazione delle donne antifasciste bolognesi del 16 aprile 1945, quando queste percorsero tutta via dell’Indipendenza con il tricolore (per poi lasciarlo ai piedi della statua di Garibaldi), senza curarsi dei militari tedeschi ormai in ritirata. È questo il legame che infonde speranza: che le nuove generazioni conoscano le storie delle proprie famiglie, della propria città, e delle donne che sono entrate nella storia in punta di piedi ma con l’orgoglio di aver agito (o parteggiato, parafrasando Gramsci) e di non essere restate indifferenti durante la seconda guerra mondiale perché, come diceva Prima Vespignani “Io sono nata con nel sangue l’antifascismo e la voglia di fare qualcosa, non stare lì passiva a guardare dalla finestra, non mi è mai piaciuto guardar dalla finestra”.

L’ANTIFASCISMO NEL SANGUE: DONNE PARTIGIANE

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Stazione Bologna Centrale

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