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1 Gennaio/febbraio 2010 – Anno XI Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino Biagio de Giovanni Alla vigilia del voto, l’at- tenzione torna a convergere sul Mezzogiorno e sulla con- dizione di degrado molto se- ria in cui versa. Vien quasi da sorridere – se non fosse un sorriso assai amaro – pen- sando a tutte quelle ricer- che e riflessioni che voleva- no convincerci che… …continua a pagina 3 Ê Umberto Ranieri Al presidente della Re- pubblica va il merito di aver riportato con il discorso su “Mezzogiorno e unità nazio- nale” pronunciato a Rionero in Vulture, il tema del supe- ramento dei divari tra Nord e Sud al centro del dibattito poli- tico. Nel suo recente interven- to all’Accademia dei Lincei… …continua a pagina 5 Ê QUALE BILANCIO DELLE “MACCHINE REGIONALI”? QUANTITÀ DELLE RISORSE E QUALITÀ DEI RISULTATI Check up regioni Bd’I – EUROSISTEMA Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia SVIMEZ Indagine conoscitiva sull’efficacia della spesa e delle politiche di sostegno alle aree sottoutilizzate CHIESA ITALIANA e Mezzogiorno. Per un paese solidale CONFINDUSTRIA Il Sud aiuta il Sud Da pagina 23 Ê Il patto che ci lega Giorgio Napolitano a pagina 41 Ê La recensione di Marco Plutino Compariamo per le singole regioni gli indicatori riferiti all’ economia, al mercato del lavoro, all’istruzione e alla sicurezza sociale nelle sche- de di indagine dell’Istat. A pagina 13 Ê a pagina 11 Ê Affanno economico, an- zitutto, con la recente crisi che ha prodotto effetti più devastanti proprio laddove il tessuto produttivo nel suo insieme – imprese, banche, Il Mezzogiorno giunge al voto del 28 marzo in grave affanno Ivano Russo Per un profondo rinnovamento delle classi dirigenti Il Convegno promosso da “Mezzogiorno Europa” e “FareFuturo” mercato del lavoro, business home – si presentava già più debole e frammentato. Ma anche affanno politico, con- siderato… continua a p. 7 Ê Per una buona politica nel Mezzogiorno

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Rivista Mezzogiorno Europa

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1Gen

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010

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I

Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.Spedizione in abbonamento postale 70%

Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

Biagio de Giovanni

Alla vigilia del voto, l’at-tenzione torna a convergere sul Mezzogiorno e sulla con-dizione di degrado molto se-ria in cui versa. Vien quasi da sorridere – se non fosse un sorriso assai amaro – pen-sando a tutte quelle ricer-che e riflessioni che voleva-no convincerci che…

…continua a pagina 3 Ê

Umberto Ranieri

Al presidente della Re-pubblica va il merito di aver riportato con il discorso su “Mezzogiorno e unità nazio-nale” pronunciato a Rionero in Vulture, il tema del supe-ramento dei divari tra Nord e Sud al centro del dibattito poli-tico. Nel suo recente interven-to all’Accademia dei Lincei… …continua a pagina 5 Ê

QUALE BILANCIODELLE

“MACCHINEREGIONALI”?

QUANTITÀ DELLE RISORSE

E QUALITÀ DEI RISULTATI

Check up regioni

Bd’I – EURosIstEmaIl mezzogiorno e la politica economica

dell’Italia

svImEzIndagine conoscitiva

sull’efficacia della spesa e delle politiche di sostegno alle aree

sottoutilizzate

ChIEsa ItalIana e mezzogiorno.

Per un paese solidale

ConfIndUstRIaIl sud aiuta il sud

Da pagina 23 Ê

Il patto che ci legaGiorgio Napolitano

a pagina 41 Ê

La recensionedi marco Plutino

Compariamo per le singole regioni gli indicatori riferiti all’economia, al mercato del lavoro, all’istruzione e alla sicurezza sociale nelle sche-de di indagine dell’Istat.

A pagina 13 Ê

a pagina 11 Ê

Affanno economico, an-zitutto, con la recente crisi che ha prodotto effetti più devastanti proprio laddove il tessuto produttivo nel suo insieme – imprese, banche,

Il Mezzogiorno giunge al voto del 28 marzo in grave affanno

Ivano Russo

Per un profondo rinnovamento delle classi dirigenti

Il Convegno promosso da “Mezzogiorno Europa” e “FareFuturo”

mercato del lavoro, business home – si presentava già più debole e frammentato. Ma anche affanno politico, con-siderato…

…continua a p. 7 Ê

Per una buona politica nel Mezzogiorno

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Le immagini che illustrano questo numero sono illustrazioni editoriali americane di autori vari.

Il lavoro come elemento portante della Repubblica e fattore di sviluppo del Paese antonio duva » 35 33

Recensioni Giorgio Napolitano Il patto che ci lega, Il Mulino marco Plutino » 41 33

euRonote andrea Pierucci » 44

sommario

dalla prima pagina Ê

…il Mezzogiorno o andava “aboli-to”, o non costituiva più un proble-ma complessivo e si colorava delle macchie del leopardo, o esauriva i propri tratti specifici in una generi-ca globalizzazione germinante dal ri-getto di ogni storicità. Ma la realtà è dura, e resiste ai tentativi di nascon-derla. La storia replica duramente ai vari ideologismi. Ora il Mezzogiorno sta lì, davanti ai nostri occhi, nella asprezza delle sue condizioni, nei fal-limenti delle politiche che lo riguarda-no, nella miseria generalizzata delle sue classi dirigenti, nel rischio di una marginalizzazione senza più vera spe-ranza. Ricordiamo con qualche nostal-gia la fase lunga dei grandi dibattiti che lo toccavano nel profondo della sua storia, e che comunque aggrega-vano intelligenze e formavano classi dirigenti. Ora, a un assordante silen-zio di proposte concrete, si accom-pagna lo scomparire di gran parte del Sud in zona altamente depressa, in desertificazione della cultura, in “cultura” della criminalità organizza-ta, vero stato nello Stato, in fuga dei giovani, in scomparsa di un impegno

etico-politico che lo prenda ad ogget-to di pensieri e di iniziative capaci di ricostituire il senso di una coscienza civile. L’Italia è più che mai divisa in due, la coesione nazionale è sempre più in pericolo, e l’unico partito italia-no degno di questo nome, la Lega, è nato in definitiva sulle macerie di un meridionalismo sconfitto. Non posso nascondere che sono questi i pensieri che mi premono dentro, alla vigilia di un voto che dovrà rinnovare le ammi-nistrazioni regionali del Mezzogiorno e anche alla vigilia del centocinquan-tesimo dell’unità d’Italia, quando la memoria di quella grande rivoluzio-ne nazionale che fu il Risorgimen-to sembra immergersi opacamente nell’ombra.

Troppo pessimismo? Certo, a en-trare nel merito di singole questioni e nelle differenze che pur ci sono tra singole regioni e città, il quadro sommariamente delineato potrebbe subire varie correzioni. La realtà non si tinge mai solo di nero. Ma è questo che veramente importa, o non impor-ta piuttosto sollevare un vero grido di allarme per lo stato complessivo delle cose? Varrebbe ancora la pena di ricordare una ennesima volta che

il 2013 sarà la data conclusiva per l’afflusso dei fondi strutturali euro-pei, e che da quel momento le risorse del Mezzogiorno saranno solo quel-le provenienti dal centro o dalla sua produttività interna. E su questo sia-mo ancora inchiodati a una domanda che implica un giudizio storico e poli-tico sulle classi dirigenti meridionali: perché sono fallite nel rapporto con l’Europa? Perché mai non è avvenu-ta da noi la stessa cosa che altrove ha prodotto processi di modernizza-zione e di sviluppo? Eppure, la quan-tità di risorse giunte nel Sud è stata superiore a tutte quelle del passato: un fiume di denaro senza preceden-ti che fa giustizia di tanti luoghi co-muni. La risposta ci fa entrare subito nella crisi meridionale: perché quel risultato si producesse sarebbe sta-ta necessaria una visione strategica del Sud nelle sue varie fisionomie, necessario –per fare forse l’esempio che più scotta- individuare un ruolo per Napoli, una ridefinizione della sua fisionomia dopo la conclusione della sua storia industriale. Solo a questa condizione, l’Europa poteva innervar-si in una strategia “locale”. Senza un pensiero strategico, e una cultura

corrispondente, senza la dimensio-ne della storicità dei problemi, mille rivoli e canali e clientele e notabilati

Se non si riscopre il Mezzogiorno

non c’è speranzae dato che non

esistono più partitiin grado di farlo è possibile che questo compito

sia assunto da Fondazioni

attrezzateculturalmenteBiagio de Giovanni

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4erano pronti ad assorbire denaro e a mortificare competenze, tutto disper-so in progetti insignificanti e senza capacità di indurre sviluppo. Così è avvenuto, e non poteva essere di-versamente.

E forse c’è un problema ancora più generale da mettere a fuoco. Qua-le bilancio si deve fare delle “macchi-ne” regionali? L’impressione è che ci troviamo dinanzi a un fallimento abba-stanza generalizzato, nel senso che le burocrazie regionali sono in generale più scadenti di quelle statali, più ple-toriche e meno produttive. Un primo gran problema sarebbe quello di rico-stituire delle élite burocratiche capaci di governo, ma l’Italia non è la Francia dove le grandi scuole di amministra-zione permettono a quello Stato un continuo ricambio del ceto di governo nazionale e locale. A questo si aggiun-ge che la fine dei partiti, di quelli una volta innervati nel territorio e forniti di una cultura tagliata sui problemi del Mezzogiorno, ha implicato uno scadimento anche del ceto politico, composto spesso da boss senza patria e senza fede in una idea, e la qualità degli eletti (con le dovute eccezioni, ma sempre più rare) è precipitata a un livello per molti aspetti disperante e certo senza precedenti.

Questi sarebbero i primi proble-mi da affrontare, giacchè è anzitutto dall’alto che si può avviare un rinno-vamento politico-amministrativo. Per ora, non se ne vedono i segni, a dirla francamente. Ho l’impressione, per giungere all’oggi, e senza voler dare un giudizio generalizzato sulla qualità delle liste amministrative, che la cam-pagna elettorale non abbia ancora prodotto quel tessuto minimo di idee concrete capaci di aggregare compe-tenze e gruppi che lascino immaginare una vera discontinuità. Ma se non si rompe qualcosa nella macchina am-ministrativa, compatibilmente con i diritti costituzionali acquisiti, nulla può veramente cambiare. C’è una minima possibilità in questo senso? c’è una sia pur latente intenzione? E di chi? Bisognerà pur sollevare questo

tema ingrato, ma pesante, un tema che giunge a farci dubitare della de-mocraticità delle “autonomie locali”, se vogliamo liberarci almeno per un momento dal “politicamente corret-to”. E che cosa avverrà a federalismo imperante? Ci si rende conto che tutta l’ipotesi federalista è legata alla qua-lità delle classi dirigenti che lo gover-neranno? Meglio non pensarci, è cosa da incubi notturni.

Insomma, da un lato il nostro territorio appare piuttosto vuoto, impresa e lavoro latitano, servizi e infrastrutture sono scadenti, le lun-gaggini della giustizia, e delle licen-ze per avviare impresa, impediscono investimenti dal Nord o dall’estero; dall’altro, in questo vuoto, si annida il nihilismo della criminalità organiz-zata (stato nello Stato, dicevo), che ha spesso collegamenti organici con i boss senza fede e senza patria. Il gioco fra economia legale e illegale diventa giorno dopo giorno più in-quietante. Che cosa altro deve avve-nire perchè scatti la campanella della salvezza, secondo il celebre verso del poeta? Ho nominato la parola “terrri-torio”, parola anch’essa ingrata e am-bigua, insieme neutrale e ideologica. La Lega ne ha fatto la sua bandiera, destinata a sventolare probabilmente su regioni e città. Ma bisogna riflette-re. La Lega ha compreso sicuramente la fase di crisi del meridionalismo pa-rassitario per insediarsi solidamente al governo di città, in una simbiosi di miti politici e riduzioni “ammnistra-tive” della politica, ma in un quadro strategico ben preciso. Il terrritorio ha giocato un ruolo assai importante per solide aggregazioni delle piccole patrie. Ma non dimentichiamo che la Lega ha una idea intorno alla quale è nata, e ha contribuito a creare intorno a essa un senso comune. La questione settentrionale e il rigetto del paras-sitismo, concentrato soprattutto nel Sud, hanno fatto da punto d’unione, fra mitologia padana e logos politi-co effettivo e realistico. Il territorio non ha dunque valenza per sé. Esso va pensato, e ci vuole un cervello per

pensarlo. C’è oggi un cervello politi-co pensante nel Mezzogiorno? Che possa pensare il territorio meridiona-le, le sue specificità, le sue connes-sioni, la sua capacità di relazione, le sue introversioni? Se non si riscopre il Mezzogiorno, non c’è speranza, e dato che non esistono più partiti in grado di farlo (da nessuna parte: anche qui esco dal “politicamente corretto”?) è possibile che questo compito sia assunto da fondazioni attrezzate culturalmente. Il Con-vegno sul Mezzogiorno che si è svolto a Napoli all’Unione in-dustriali (in collaborazione tra Fare Futuro e Mezzogiorno-Europa) ha dato indicazio-ni interessanti in questa direzione, ha aggre-gato forze, ha sta-bilito collegamenti, mostrato possibili vie di ricerca. È una strada da percorrere, e forse altra oggi non c’è. Nessuno sa precisamente che cosa è diventata la società me-ridionale, da quali sentimenti è effet-tivamente percorsa, quali vitalità si muovono nella profondità della sua crisi. Si riparta da qui, dall’ analisi. Dalla cultura. Dalle idee. Poi for-se, chissà, si troveranno anche le gambe per farle camminare, gli uomini per renderle viventi pas-sioni. Non saprei immaginare da dove verranno questi “homines novi”, ma forse verranno, dalle nuove generazioni, e dalle vec-chie che si sono scoraggiate a appartate; aspettano un segnale, sanno che si è a un punto di svolta, che la crisi morde oltre ogni dire, che il Mezzogiorno rischia di spro-fondare in quel mare Mediterraneo che tante volte (ma retoricamente) è stato indicato come luogo della sua salvezza, per apprendere, oggi, che Milano, non Napoli, è diventata città “mediterranea” per i rapporti che ha saputo istituire. Se non si ter-minasse con una parola di fiducia, si dovrebbe pensare che il mondo fini-sce, ma siccome non è così e un fondo

sembra che si sia toccato e forse non c’è molto da raschiare in questo fondo, è possibile che si ricominci a risalire e che la partita si riapra, e termino con questa un po’disperata speranza.

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5dalla prima pagina Ê

…inoltre, Giorgio Napolitano ha ri-cordato che “la condizione del Mezzo-giorno pone il più preoccupante degli interrogativi per il futuro del Paese” e ha insistito sul fatto che lo sviluppo del Sud è “una condizione…essenziale per garantire all’Italia un più alto ritmo di sviluppo e livello di competitività”. Sarebbe necessaria una svolta nella politica del governo verso il Mezzo-giorno. È altamente improbabile tut-tavia che il governo, condizionato da un movimento come la Lega, possa produrla. A conferma di ciò basti ricor-dare quanto di paradossale è accaduto negli ultimi due anni. Dal maggio del 2008 il governo nazionale ha finanzia-to parte dei propri interventi con tagli alla spesa per investimenti nel Sud. A conti fatti circa 20 miliardi di euro. Che la ricostruzione in Abruzzo sia quasi to-talmente finanziata da fondi destinati alle regioni in ritardo di sviluppo, che con gli stessi fondi siano state pagate le multe per le “quote latte” dei colti-vatori del Nord, sembra non suscitare alcuno scrupolo al Nord!

La verità è che non c’è una po-litica del governo per il Sud. Il piano per il Mezzogiorno annunciato dal ministro Scajola come imminente è stato ancora rinviato. Il governo cerca di farsi un po’ di propaganda a buon mercato insistendo su due punti: un progetto generico e vago di Banca per il Sud che nasconde, come so-stiene Mariano D’Antonio, il rischio di un ritorno alle esperienze non bril-lanti degli istituti di credito di diritto pubblico nel Mezzogiorno; un po’ di retorica sul federalismo fiscale mal-grado allo stato attuale manchino i dati in gradi di quantificare gli effetti del federalismo in termini di redistri-buzione territoriale delle risorse. Non c’è consapevolezza nel centro destra che l’avanzamento economico e civile dell’Italia non può prescindere dalla persistenza di un divario territoriale di eccezionale dimensione e durata. Stenta a farsi strada la convinzione che non c’è alternativa al crescere

insieme di Nord e Sud, che senza il recupero allo sviluppo delle regioni meridionali, l’obiettivo di uscire dal ristagno dell’ultimo decennio ele-vando il tasso di crescita dell’econo-mia italiana appare del tutto velleita-rio. Il governo resta prigioniero della vecchia idea che sia sufficiente far ripartire la locomotiva del Nord per rimettere in moto il paese.

Per sconfiggere tali orien-tamenti e affermare l’idea del carattere prioritario del supe-ramento del divario, occorre tuttavia rispondere ad un interro-gativo: perché, nonostante il volume di risorse investite nel corso degli anni, il divario tra Nord e Sud si aggra-va? Intendiamoci, la spesa pubblica in conto capitale destinata al Mez-zogiorno è stata negli ultimi anni inferiore a quanto programma-to e tuttavia questo dato non può oscurare il fatto che, negli anni 2000/2006, le risorse finanziarie attri-

buite all’area meridionale mediante i Fondi strutturali siano state cospicue: oltre 46 miliardi di euro. E gli stanzia-menti destinati al Mezzogiorno negli anni tra il 2007 e il 2013 ammontano a quasi 101 miliardi.

Il paradosso è che, mentre altre regioni europee in ritardo di sviluppo hanno recuperato terreno crescen-do del 3% annuo, il Sud dell’Italia è rimasto fermo ad appena lo 0,3% annuo. Come si spiega? La verità è che i Fondi europei sono stati spesi poco e male.

In questa situazione, una batta-glia per il Sud che ruotasse unicamen-te intorno al tema della carenza di ri-sorse non condurrebbe molto lontano. Occorre spostare, come suggerisce Mario Draghi, l’accento nel-la politica per il Sud, dall’enfasi sulla

quantità delle risorse alla qualità dei risultati e impegnarsi per far fruttare appieno le risorse disponibili.

Un rilancio della battaglia poli-tica e culturale per il Sud dovrebbe fare leva sui risultati delle ricerche di quegli studiosi che hanno sottolinea-ta l’esigenza di superare una lettura eccessivamente economicistica dello sviluppo del Mezzogiorno. Come so-stiene Carlo Trigilia “occorre guar-dare alla cultura, alla società, alle istituzioni”. Lo sviluppo è un feno-meno che ha cause non solamente economiche. È l’offerta inadeguata di beni pubblici di base come sicurezza, giustizia, cultura civica, qualità della pubblica amministrazione, all’origi-

ne della debolezza che ha soffocato l’eco-

nomia del Mezzo-giorno, ha reso più

bassa la propensio-ne all’imprenditoria-lità, più alto il costo

del credito. Come han-no scritto in un loro recen-te libro Luca Bianchi e Giu-seppa Provenzano, due giovani e valorosi studiosi della realtà meridionale, “

i servizi pubblici devono essere considerati

Il governoresta prigioniero

della vecchia idea che

sia sufficientefar ripartire

la locomotiva del Nord

per rimetterein motoil Paese

Umberto Ranieri

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6elementi fondanti delle condizioni di competitività del Mezzogiorno nel medio e lungo periodo”1. Innalzare i livelli di conoscenza e di competen-za dei giovani migliorando la qualità dell’istruzione, aumentare l’offerta di servizi per l’infanzia e dei servizi so-cio sanitari per le persone non auto-sufficienti, migliorare il servizio idrico integrato e la qualità dell’ambiente a cominciare dalla gestione dei rifiuti, diffondere valori civici, combatte-re l’illegalità. Questa la strada per promuovere lo sviluppo del Mezzo-giorno. Questa è anche la strada per attirare nel Sud nuove risorse priva-te: solo lo 0,7 degli investimenti di-retti giunti in Italia negli ultimi due anni si è indirizzato al Mezzogiorno. Senza la capacità di attrarre investi-menti dal Nord e dall’estero, il Sud non conoscerà un processo autono-mo di sviluppo. Si tratta insieme, di accrescere la dotazione di servizi di base nelle regioni meridiona-li e di lavorare per giungere ad una fiscalità di vantaggio che faccia da leva allo sviluppo. Di fronte alle conseguenze della crisi economica, le istituzioni comunitarie potrebbero adottare una maggiore flessibilità circa la possibilità di ap-plicare politiche fiscali differenziate nel Mezzogiorno. In questo quadro andrebbe valutata la proposta avanzata da Pierluigi Bersani di introdurre per dieci anni un credito di imposta sta-bile ed automatico per gli investimenti nel Sud che creano occupazione. Per quanto riguarda le risorse necessarie per operare in tali dire-zioni, una r i s p o s t a può veni-re dal rein-tegro delle risorse in questi anni sottratte al Sud, e da una ripro-grammazio-

ne dei fondi europei in funzione del potenziamento del capitale sociale nel Sud.

Sul punto delle risorse tuttavia occorre essere chiari: il federalismo fiscale è una sfida che il Mezzogior-no intende raccogliere. Esso può rap-presentare, come ha spesso ripetuto Giorgio Napolitano, un banco di prova della capacità di autogoverno delle popolazioni meridionali. Il federali-smo tuttavia non può ridursi ad una sorta di passaggio delle consegne per abbandono da parte dello Stato centrale. Le Regioni devono perse-guire obiettivi e risultati nel campo dei servizi pubblici, far fruttare ap-pieno le risorse, ma lo Stato centra-le deve farsi carico delle situazioni

di svantaggio e fornire le risorse ag-giuntive necessarie.

Una nuova politica per il Sud non può eludere il nodo della riforma nelle regioni meridionali dell’agire politico. Va combattuta nel Sud la politica che si trasforma in macchina per l’acquisi-zione di consenso attraverso la distri-buzione di benefici particolaristici. Va cancellata la piaga sociale della “in-termediazione impropria” esercitata dal ceto politico. In realtà, come scri-vono acutamente Bianchi e Proven-zano, “la politica ha svolto nel Mez-

zogiorno funzio-ni da cui avrebbe

dovuto astenersi e si è astenuta da quelle che

avrebbe dovuto svolgere”. Occorre che la politica torni al suo ruolo originario: indiriz-zare; definire le regole entro cui agiscono i soggetti sociali; assumersi la responsabilità di scelte nel nome degli interes-si generali. Va promosso infi-ne un personale politico loca-le orientato a dare risposte a problemi collettivi. Da questo

punto di vista non è questione secon-daria la revisione dello status di quan-ti sono eletti nelle assemblee rappre-sentative. Su questo punto è difficile non convenire con quanto sostenuto da Mariano D’Antonio: “Quando le indennità degli eletti e degli ammi-nistratori della cosa pubblica sono eccessivamente alte rispetto al red-dito medio della popolazione, quan-do i benefici accessori di cui godono i politici sono generosi e il tutto non è giustificato dalla necessità di assi-curare la loro autonomia dai gruppi di pressione, quando si crea una casta di ben pagati, i politici sono indotti a cercare ossessivamente i consen-si per essere rieletti attivandosi nel promettere e nel concedere benefici a gruppi di elettori piuttosto che a tutta la cittadinanza. I politici perciò si dedicano all’intermediazione im-propria”. Non è scandaloso che un consigliere regionale della Campania o di altra regione del Sud riceva una indennità mensile di oltre tredicimila euro? Il vero problema è costruire nel Sud le condizioni di una politica più orientata all’interesse generale. Chi sperpera denaro pubblico va sanzio-nato sempre e in modo automatico senza discrezionalità fino alla ineleg-gibilità degli amministratori locali re-sponsabili di dissesto finanziario.

Serve inoltre un governo cen-trale interessato all’efficienza della spesa locale.

Il contrario di quanto accaduto nell’ultimo anno, quando il governo nazionale ha trovato i soldi per finan-ziare lo sfascio di Catania e Palermo ed evitare il commissariamento della sanità in Sicilia per mantenere equili-bri politici nazionali. Se questo è l’an-dazzo, per quale ragione un governo locale in una situazione difficile come il Mezzogiorno dovrebbe sobbarcar-si alla fatica di migliorare la qualità dei servizi?

1 Luca Bianchi, Giuseppe Provenzano, Ma il cielo è sempre più su?, Alberto Castelvecchi Editore, Roma 2010.

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7dalla prima pagina Ê

…che i due principali contrapposti schieramenti non sono riusciti anco-ra né a maturare una compiuta nuova proposta politico amministrativa meri-dionalista, né a proporre all’elettorato una rinnovata e più qualificata classe dirigente in grado di interpretarla.

Nell’ultimo anno non c’è stato stu-dio o rapporto sul Mezzogiorno – da Banca d’Italia a Confindustria, da Ci-vicum a Svimez e fino alle rilevazioni Istat – che non abbia segnalato quan-to, anche su materie di stretta com-petenza regionale o laddove le regio-ni abbiano ricevuto enormi risorse per mettere in campo politiche pubbliche (formazione, sanità, ambiente, turi-smo, cooperazione territoriale) i risul-tati non siano stati sostanzialmente negativi. Certo, sarebbe una scorret-ta semplificazione non sottolineare anche talune diversità tra regioni e regioni, o non dare il giusto risalto ai tanti elementi di eccellenza che pure costellano qua e la il territorio. Ma se per scelta politica e culturale ci si approccia al tema Sud considerando questo una macroregione europea e non la sommatoria di quattro – cinque distretti amministrativi confinanti, non è possibile non partire da un critico e preoccupato sguardo di insieme.

Pur parlando di ritardo del Mez-zogiorno e di “economia duale”, in premessa, sarebbe utile sottrarsi in questa riflessione al dibattito un po’ semplificatorio tra esclusivi censori delle classi dirigenti meridionali e pre-valenti fustigatori del progressivo di-sinteresse nazionale nei confronti del Sud che pure è innegabile, certificato, documentato.

Le due cose stanno insieme in un perverso rapporto di causa – effetto, dove l’una è diventata la capziosa mo-tivazione dell’altra, ma dove entrambi i fattori – considerato che gli errori si sommano e non si annullano – finisco-no per scaricarsi negativamente sulle spalle e sul futuro dei cittadini.

Sulla scorta dell’ultimo Rappor-to Svimez sull’economia meridionale,

presentato nel 2009, si provi anche a guardare “dentro” il Mezzogiorno per capire – a parità quindi di condizioni complessive Sud-Sud – come stavano andando le cose prima della crisi.

A livello regionale la Campania mostra una diminuzione del PIL parti-colarmente elevata ( – 2,8%), le altre regioni presentano perdite più conte-nute, e tra queste la Puglia risulta es-sere la meno colpita (-0,2%).

In agricoltura, positiva è stata la performance della Basilicata (+ 24%), bene anche i dati di Abruzzo, Molise e Puglia, crescita solo lieve per la Sicilia (+2,9%), segno meno, invece, per la Calabria (-0,8%) e vero e proprio ton-fo della Campania (-1,8%).

Il trend generale abbastanza posi-tivo della crescita dell’export, guidato dai risultati di Molise (+105%) e Ba-silicata (+ 98%), registra tuttavia un netto distacco tra questi due territori e la restante parte – ben più poderosa ed estesa – del Mezzogiorno e stes-so discorso vale per il settore turismo: Sardegna e Puglia hanno trainato la crescita del comparto con rispettivi +12,5% e +11,2% e la Campania ha fatto registrare un più modesto +3,3%, pur ospitando circa la metà dei grandi attrattori turistici meridionali. Ma tale

comparto potrebbe, quasi da solo, fare da driver per l’intero PIL meridionale, se ovviamente messo in valore con modalità sistemiche e industriali in termini di servizi avanzati, innovazione di prodotto, integrazione territoriale. Al contrario, la rigenerazione e salva-guardia del patrimonio naturale e del territorio – precondizione per qualun-que politica seria sul turismo – sem-bra non essere una priorità. Due dati su tutti: la Campania è la regione con la più alta percentuale di acque non depurate (11,5%), nonché terzultima in merito alle azioni di contrasto rispetto al rischio sismi, frane ed erosioni che comunque devastano l’intero Sud, da Ischia a Messina.

Nel comparto energia, poi, sempre la Campania è al poco invidiabile se-condo posto per tasso di interruzione di energia elettrica e addirittura penul-tima nel Sud – dopo Molise, Calabria, Basilicata e Puglia – per diffusione di fonti rinnovabili.

In tema di servizi innovativi e in-frastrutture immateriali offerti ad imprese e cittadini, il Mezzogiorno è ben lon-tano dal dotarsi di un piano regolatore delle reti, della banda larga, della connettivi-tà, fattori oggi considerati cruciali per poter com-petere sui mercati delle nuove produzioni.

Per quanto attiene poi ad alcune specifiche funzioni lega-te alla Pubblica Amministrazione, ad esempio “per progettare e affidare i lavori di una infrastruttura, sono ne-cessari in Italia 900 giorni risultanti dalla media di diversi valori regionali”: prima la Lombardia (583 giorni), ultime Campania e Sicilia (con 1.100 giorni e 1.582 giorni). Ovviamente anche le prestazioni pubbliche ed i servizi legati al welfare, a partire dalla sanità, sono i peggiori nel rapporto costi – benefici per i fruitori.

Venendo al tema “mercato del lavoro”, per il terzo anno consecutivo, sempre nel 2008, si registrano risulta-ti positivi per Molise (+1,6%), Puglia (0,3%), Abruzzo (3,2%), mentre crol-lano gli occupati in Campania (-2,2%) e Calabria (-1,2%) e negli ultimi due casi, in particolare e in controtendenza, si registra il crollo anche degli occupati del settore servizi (-1,4%). La Cam-pania detiene i non invidiabili primati del più alto numero in valore assolu-to di lavoratori irregolari e “in nero” (329 mila) e il record delle emigrazio-ni verso il Nord o l’Europa di lavoratori e giovani talenti alla ricerca di una opportuni-tà professionale (25 mila nel solo 2008, circa 270 mila nel decennio 1997 – 2008). In tutto il Sud, infine, lavora meno del 40%

È chiaroche nel

Mezzogiornoqualcosa

non ha funzionatonell’ultimo decennio

Ivano Russo

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8della popolazione, e le donne in attività sono solo 4 su 10, in questo caso il re-cord negativo spetta alla Sicilia.

Le più recenti rilevazioni, per quanto frammentate e non ancora in grado di fornirci un quadro di insieme, ci dicono tuttavia che, come era am-piamente prevedibile, la crisi econo-mico-finanziaria del 2009 ha livellato verso il basso, quasi appiattito, tut-ti gli indicatori ed oggi, in un Paese complessivamente in difficoltà e dove la ripresa stenta a mostrarsi, la sua parte più debole sconta condizioni di sostanziale arretratezza oramai quasi non più recuperabili.

È chiaro che qualcosa non ha fun-zionato nell’ultimo decennio. E deci-diamo di prendere in considerazione tale arco temporale di riferimento an-zitutto perché caratterizzato da ben due cicli di spesa dei fondi strutturali: Agenda 2000 e la programmazione 2007 – 2013.

E il primo grande tema da porre è proprio quello della qualità della spe-sa dei fondi europei che, chiudendosi il Ciclo 2000 – 2006 con il cofinanzia-mento di 245 mila progetti di importo medio pari a 220 mila euro, lascia ov-viamente molto a desiderare in termi-ni di strategicità, lungimiranza, utili-tà e sovraregionalità degli interventi prodotti. Tra l’altro, come segnalava il Rapporto Eurispes del marzo 2009, le regioni meridionali – già in regime di proroga – hanno rischiato di perdere circa nove miliardi di euro, solo in par-te poi recuperati, per progetti mai pre-sentati a Bruxelles. Anche sulla spesa 2007 – 2013 ci sono gravi ritardi, se è vero che di vera e propria “cantieriz-zazione” di interventi non vi è ancora traccia e che anche il solo semplice “impegno di spesa” è fermo, nell’in-sieme delle Regioni Obiettivo Con-vergenza, ad una percentuale di poco inferiore al 5%. Ciò rende ovviamente più difficile anche qualsiasi azione ri-vendicativa sulla redistribuzione delle risorse lungo le direttrici politiche Eu-ropa – Sud, e Nord – Sud Italia.

Uguali limiti si sono registrati sul tema, in parte attinente, della più com-

plessiva qualità delle strutture ammi-nistrative locali. Dieci, quindici anni avrebbero potuto rappresentare un tempo oggettivamente sufficiente per modernizzare gli apparati burocratici regionali e delle grandi città del Sud. Ovviamente inserendo strutturalmen-te ove possibile giovani laureati, com-petenze, saperi, professionalità, in gra-do di aiutare i livelli istituzionali locali a misurarsi con le complesse sfide del governo di oggi: internazionalizzazio-ne, cooperazione internazionale, stru-menti di finanza locale, progettazione comunitaria, innovazione tecnologica, attrazione di capitali. Lasciando trop-pi di questi ambiti di intervento, inve-ce, in gestione più o meno esterna a vecchi carrozzoni locali para pubblici, società controllate, agenzie, o a con-sulenze estemporanee, si sono sostan-zialmente aggravati i costi per la col-lettività, con scadenti risultati, e senza nessun accrescimento reale di compe-tenze dentro le amministrazioni.

Anche sulla formazione professio-nale nel Mezzogiorno, probabilmente, occorrerebbe tentare strade nuove. Nel corso degli ultimi dieci anni si è ali-mentato un mercato delle preferenze piuttosto che un mercato del lavoro, la formazione professionale è stata utiliz-zata come una sorta di ammortizzatore sociale aggiunto, e le nuove risorse del FSE andrebbero utilizzate – sul model-lo di Lombardia, Veneto ed Emilia Ro-magna – con il principio della “dote alla persona”. Consentendo cioè al lavoratore espulso di rivolgersi libera-mente, per il proprio percorso di riqua-lificazione e reinserimento occupazio-nale, a soggetti pubblici o privati, enti di formazione o agenzie per il lavoro, e vincolando rigidamente l’assegnazio-ne – erogazione del voucher formativo solo al momento della reale ricolloca-zione del lavoratore stesso.

Infine, non essere riusciti a creare un meccanismo virtuoso di circolazio-ne delle informazioni e affiancamento per le imprese e gli altri attori econo-mici, sociali o culturali, sulle opportu-nità europee, ha rappresentato forse uno dei limiti più gravi del sistema di

governance pubblica locale. Abbando-nando qualunque cultura competitiva e incentrata sul merito della proget-tazione, ci si è adagiati su una visione “bancomat” dei soli fondi strutturali. In questo modo i Programmi a Sportel-lo Bruxelles, i Progetti legati alla rete MEDA, i Twinning, i Programmi Qua-dro per la Ricerca e l’Innovazione, i fon-di per la Politica di Vicinato, il Fondo UE per contrastare gli effetti distorti della globalizzazione, l’Erasmus per i giovani imprenditori e tante altre opportunità sono rimaste ampiamente, nel Mez-zogiorno, chances sconosciute, solo in minima parte utilizzate, e mai comun-que in una logica di sistema.

Recentemente il Governatore Dra-ghi ha assunto sull’insieme della con-dizione meridionale oggi posizioni lim-pide: “ occorre spostare l’enfasi dalla quantità delle risorse alla qualità dei risultati e fare fruttare le risorse che ci sono già”, e inoltre: “la spesa pub-blica primaria che viene convogliata a vario titolo nel Sud è imponente, al confronto delle risorse utilizzate per le politiche regionali”, e che queste hanno ottenuto comunque “scarsi ri-sultati” indebolite da “localismi, fram-mentazione degli interventi, difficoltà ad individuare priorità, sovrapposizioni delle competenze dei vari enti pubbli-ci”. Caso eclatante, quello della sani-tà, dove “il divario deriva chiaramen-te dalla minore efficienza del servizio reso, non da una carenza di spesa”, e altri casi simili riguardano il trasporto locale, la gestione dei rifiuti, la distri-buzione idrica, il mercato del lavoro, “la minore efficacia della Pubblica Amministrazione”.

Ancora più nette le riflessioni proposte al dibattito pubblico, nelle ultime settimane, dal Professor Trigi-lia. Secondo questi, nel Mezzogiorno un’attività redistributiva di massa in-termediata impropriamente dalla po-litica, ha diviso spesso le risorse tra gruppi clientelari e interessi partico-laristici piuttosto che concentrarle su grandi obiettivi impersonali legati al bene comune: a partire da ambiente e istruzione.

Avrebbe preso così corpo un “ca-pitalismo politico” tipico delle realtà a basso capitale sociale, e che alimenta, nel Sud, “il circolo vizioso” tra la moda-lità di raccolta del consenso, l’assenza di un voto esigente, la scarsa qualità della politica e dell’amministrazione.

In questo schema, “la politi-ca” – mal’intesa come manovra auto-referente e posizionamento tattico di ceto, forze, partiti, preferenze, clien-tele – è tutto, al contrario “le politi-che” – cioè le concrete scelte di gover-no – non interessano a nessuno.

Le considerazioni del Governato-re Draghi sulla totale “mancanza di qualità” nella spesa pubblica locale, gli spunti offerti da Trigilia sul “con-solidamento di un vero e proprio bloc-co politico sociale clientelare attorno alle risorse destinate al Sud dal Cen-tro e dall’Europa”, le analisi di Barucci “sull’intermediazione politica impro-pria” dilagante nei territori, le stesse considerazioni di Salvati sulla “politi-ca” nel Mezzogiorno ormai “parte del problema e non possibile soluzione”, rappresentano una robusta cornice culturale di riferimento. Perché una nuova stagione per il pensiero meridio-nale, che non rinunci alla critica dura rispetto a posizioni e comportamenti incoerenti da parte dei Governi nazio-nali, ha bisogno quindi di autorevolezza e credibilità. Ovviamente serve riven-dicare un’adeguata politica nazionale per il Mezzogiorno, ma se le risorse ordinarie trasferite dal centro – per quanto insufficienti – sono utilizzate male, quelle derivanti dalla fiscalità lo-cale ancora peggio, e i fondi europei dissipati, ha poca credibilità la stessa rivendicazione. E infatti, demagogica-mente, sta diventando senso comu-ne il convincimento per cui “meglio sprecare 5 che sprecare 10”, e quindi sarebbe inutile continuare dal Centro a riversare risorse pubbliche in una “pentola bucata”. L’affermazione, a livello politico decisionale, di una si-mile e rozza visione propagandistica rappresenterebbe la pietra tombale per qualunque speranza di emancipa-zione del Mezzogiorno.

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11La preoccupante e generale caduta di atten-

zione nei confronti del Mezzogiorno vede, più o meno inconsapevolmente, lo stesso Mezzogiorno in buona parte corresponsabile.

Se è vero che negli ultimi dieci anni i trasfe-rimenti dal centro verso le aree tradizionalmente in ritardo di sviluppo – così come i grandi investi-menti pubblici – si sono rivelati ampiamente insuf-ficienti, è pur vero tuttavia che le risorse nazionali, endogene, o europee gestite localmente sono sta-te in larga parte poco e male utilizzate.

Occorre spostare l’attenzione dalle riven-dicazioni quantitative alla qualità dei risultati prodotti.

Il Sud Italia cresce meno, proporzionalmente alle risorse impiegate, delle altre regioni Obiettivo Convergenza dell’Unione a 27, e qui si annidano tutti i maggiori casi, nazionali ed in parte euro-pei, di inquietante asimmetria trai costi medi dei servizi pubblici e la loro qualità, tra i costi degli apparati amministrativi e la loro efficienza, tra l’impiego di risorse pubbliche a sostegno di pro-cessi – spesso solo virtuali – di modernizzazio-ne, crescita, attrazione di investimenti, buona occupazione.

La drammatica crisi economica in corso ri-schia, tra l’altro, di provocare effetti peggiori proprio laddove il tessuto economico – produt-tivo appare più fragile, con conseguenze sociali difficilmente immaginabili e gestibili.

Il capitale sociale è ai minimi storici, così come la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, e gli spazi lasciati vuoti dalla buona politica e da un corretto funzionamento del mercato vengono riempiti impropriamente e aggressivamente dal-la criminalità organizzata e dalle sue sempre più inquietanti e moderne articolazioni.

Una classe dirigente diffusa che, dopo quin-dici anni, presenti un simile bilancio complessivo rischia di non avere autorevolezza e credibilità per opporsi a scelte, “anche le più perverse “, che potrebbero riguardare alcune fuorvianti in-terpretazioni del federalismo fiscale, della de-stinazione dei grandi investimenti nazionali per le opere pubbliche, dell’utilizzo dei fondi per le aree sottosviluppate, dell’impiego del Fondo So-ciale Europeo.

Se non si da il senso di una profonda autocor-rezione, dal Mezzogiorno, nelle scelte, nelle prati-che, negli orientamenti, e nelle politiche di gover-no locale, diviene impossibile il rilancio, in termini culturali e dialettici prima ancora che economici e istituzionali, di una nuova e moderna Questio-ne Meridionale che abbia l’ambizione di parlare

all’intero Paese ponendosi anche come grande tema geoeconomico continentale.

Per questo occorre rinnovare, nel Sud, le isti-tuzioni, la politica e le classi dirigenti, recuperan-do uno spirito, una capacità di progettazione, una vocazione realizzativa e stili oggi diffusamente inadeguati.

Basta con il pigro continuismo, la stanca ge-stione fine a se stessa della spesa pubblica, la mera denuncia e la proclamazioni di nuovi obiet-tivi che, seppur giusti e condivisibili, restano sempre inattesi. È improcrastinabile un radica-le cambiamento per scongiurare l’inasprimento del solco che va approfondendosi con il resto del paese ed impedire che il Mezzogiorno continui a frenare lo sviluppo dell’intero paese. Le questio-ni principali da affrontare possono essere indivi-duate nelle seguenti:1. Miglioramento della qualità delle istituzioni

per affrontare la questione cruciale della ri-forma della governance regionale, in grado di assicurare una corretta amministrazione del territorio, una responsabilità fiscale del-le autonomie locali, una gestione efficiente dei servizi

2. Contrasto all’illegalità e al sommerso, non solo attraverso le forme tradizionali di repres-sione, ma migliorando la qualità dello sviluppo economico e sociale per affrontare in modo nuovo e indipendente dalle clientele la scel-ta e le modalità di finanziamento dei proget-ti. per contrastare l’illegalità e combattere il sommerso

3. Sostegno al capitale umano per far crescere la responsabilità degli individui e promuovere una crescita economica dal basso, più stabile, duratura e, specie, condivisa.È giunto il momento del cambio di rotta per-

ché, tra il nuovo ciclo di spesa 2007-2013, l’avvio dei programmi legati alla neonata Unione per il Mediterraneo, la riprogrammazione del FSE e il dibattito sulla territorializzazione della fiscalità, siamo di fronte ad un contesto difficile di azioni e strumenti, nazionali ed europei, che va affron-

tato con serietà, idee strutturate, scelte politiche precise, competenze.

Occorre maturare una visione di insieme del-la macroregione Mezzogiorno, e da essa farne discendere pochi, integrati, misurabili program-mi di sviluppo.

Occorre individuare tre/quattro grandi ope-re infrastrutturali sovraregionali che incrocino le politiche europee dei Corridoi e delle Reti. Pun-tare sul trasferimento tecnologico e su robuste iniezioni di conoscenza nel processo produttivo, sperimentare strumenti finanziari innovativi che accompagnino sul mercato idee e brevetti, saper attrarre capitali e investimenti puntando sulle ec-cellenze del territorio, mettere in valore le grandi risorse turistiche, naturali ed ambientali, con un approccio dinamico e competitivo.

È altresì indispensabile scegliere l’asset Ener-gia e il grande campo della green economy per una storica sfida di riconversione di parti significative del tessuto produttivo locale. E, ancora, occorre stringere sul decollo delle Zone Franche Urbane, mettere in campo il coraggio di produrre robuste riforme degli apparati amministrativi, preparare una vera e propria rivoluzione del settore della formazione professionale affinché vi siano, final-mente, vere e utili politiche attive per il lavoro caratterizzate da qualità, legalità, trasparenza. Altre priorità su cui concentrare l’attenzione: pari opportunità, Agenda di Lisbona, banda larga e innovazione tecnologica, internazionalizzazione: è necessaria una Politica che parli il linguaggio della modernità.

Infine: meno regole, ma più stringenti, e auto-maticità degli incentivi e della maggior parte delle politiche pubbliche contro l’eccessiva e clientelare intermediazione politica.

Di tutto ciò vorremmo discutere il prossimo 5 marzo, in uno spazio di confronto e riflessione libero da condizionamenti, lontano dalle logiche della ricerca del consenso ad ogni costo, teso ad offrire spunti e contributi ad un Mezzogiorno che non intende rassegnarsi ad un destino di cupo e ineluttabile declino.

Per un profondo rinnovamentodelle classi dirigenti

Per una buona politica nel Mezzogiorno

I temi trattati nel Convegno promossoda FareFuturo e Mezzogiorno Europa

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Per offrire una panoramica della situazione eco-nomica-sociale del Mezzogiorno in un quadro d’insieme dei diversi aspetti economici e sociali del nostro Paese, e delle differenze regionali che lo caratterizzano, ripor-tiamo alcune schede di indagini condotte dall’Istat (ulti-mi aggiornamenti dati feb braio 2010). Gli indicatori pre-scelti si riferiscono all’economia, al mercato del lavoro, all’istruzione e alla sicurezza pubblica.

Check up regioni

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1425-64enni con istruzione secondaria inferiorePopolazione in età 25-64 anni che ha conseguito al più un livello di istruzione secondaria inferiore per regione – Anni 2004-2008 (valori percentuali)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE 2004 2005 2006 2007 2008 differenze

2004-2008

Abruzzo 47,0 44,5 43,5 45,7 43,5 -3,4Molise 51,2 49,7 49,2 47,7 47,4 -3,8Campania 57,7 57,4 56,8 56,8 56,6 -1,1Puglia 60,4 60,0 57,9 56,4 56,4 -4,0Basilicata 53,0 51,0 49,9 49,2 47,5 -5,5Calabria 53,5 52,5 51,9 51,7 51,0 -2,4Sicilia 59,5 58,6 57,4 56,9 56,2 -3,4mezzogiorno 57,7 56,9 55,7 55,2 54,7 -3,0Italia 51,9 50,3 49,2 48,2 47,2 -4,7

Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Un miglioramento con diverse velocità

Dal 2004 al 2008 l’indicatore mostra un miglioramento in ogni ambito territoriale, anche se con diverse velocità. I bassi livelli di istruzione della popolazione adulta decrescono infatti nel periodo di 3 punti percentuali nel Mezzogiorno. Regioni del Mezzogiorno quali Campania, Puglia e Sicilia mostrano, invece, quote più consistenti (intorno al 56 per cento) di popolazione adulta con livello di istruzione secondaria inferiore. Solo Basilicata e Molise si avvicinano al valore medio nazionale, mentre l’Abruzzo rappresenta una eccezione positiva (43,5 per cento).

scolarizzazione superiore dei 20-24enniTasso di scolarizzazione superiore della popolazione in età 20-24 anni per regione – Anni 2004-2008 (valori percentuali)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE 2004 2005 2006 2007 2008 differenze

2004-2008

Abruzzo 80,3 78,7 79,2 80,7 80,4 0,1Molise 80,0 84,2 79,1 80,2 80,3 0,3Campania 67,2 66,9 67,2 66,8 71,1 3,9Puglia 66,1 67,2 68,7 69,8 72,1 6,0Basilicata 76,9 76,3 82,2 81,8 84,0 7,0Calabria 75,5 78,3 76,8 74,3 76,3 0,8Sicilia 64,3 65,2 67,9 69,6 69,1 4,9mezzogiorno 67,7 68,0 69,5 70,3 72,2 4,5Italia 72,3 73,0 74,8 75,7 76,0 3,6

Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Il divario permane ma il Mezzogiorno è in movimento

Il Mezzogiorno, pur presentando il più basso valore dell’indicatore in ciascuno dei cinque anni, fa registrare il più alto incremento del tasso nel periodo 2004-2008: 4,5 punti percentuali, a fronte di incrementi nell’ordine dei 3 punti percentuali negli altri grandi ambiti territoriali. Spicca il risultato della Basilicata (di 8 punti superiore alla media nazionale), la regione in cui il tasso assume il valore più elevato in assoluto nel 2008.

Istruzione

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15Iscritti all’universitàIscritti all’università per regione – Anni accademici 2001/02-2006/07 (in percentuale della popolazione di 19-25 anni)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE 2001/02 2002/03 2003/04 2004/05 2005/06 2006/07

Abruzzo 42,1 45,6 50,1 55,5 62,1 60,6 Molise 29,2 32,4 35,0 35,8 36,4 36,5 Campania 33,7 35,6 36,3 36,8 37,7 36,9 Puglia 23,5 24,8 28,0 29,7 30,5 30,3 Basilicata 11,3 12,8 14,0 14,3 14,7 14,8 Calabria 22,2 24,5 26,3 28,0 28,8 29,3 Sicilia 30,9 32,5 33,5 35,2 35,6 36,6 mezzogiorno 29,5 31,2 32,7 34,2 35,4 35,4 Italia 35,9 38,1 39,7 40,4 41,2 41,4

Fonte: Elaborazione su dati Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Forti capacità attrattive dei territori

Forte capacità attrattiva grazie alle università presenti sul proprio territorio anche Umbria e Abruzzo (con un valore dell’indicatore superiore al 60 per cento nel 2006/07); in quest’ultima regione tra il 2001/02 e il 2006/07 i corsi di laurea sono quasi raddoppiati.

abbandono delle scuole secondarie superioriTasso di abbandono alla fine del primo anno delle scuole secondarie superiori (secondarie di secondo grado) per regioneAnni scolastici 1997/98-2006/07 (valori percentuali)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE 1997/98 1998/99 1999/00 2000/01 2001/02 2002/03 2003/04 2004/05 2005/06 2006/07

Abruzzo 9,4 8,0 8,3 8,9 8,9 8,8 8,3 8,6 7,7 8,4Molise 12,1 5,8 5,8 7,6 7,5 6,1 6,7 8,5 8,0 6,9Campania 14,8 8,1 10,3 13,1 16,4 15,4 14,7 15,2 14,1 13,9Puglia 11,5 8,8 9,9 11,3 13,8 13,9 12,9 11,9 11,5 12,1Basilicata 10,4 8,0 5,7 8,7 9,6 10,3 9,6 7,7 9,2 8,4Calabria 10,0 6,2 7,3 11,0 11,9 12,5 12,4 11,1 13,4 10,7Sicilia 16,3 12,0 13,2 13,3 16,1 16,7 14,9 14,8 15,2 15,7mezzogiorno 13,9 9,2 10,4 12,4 14,7 14,2 13,4 12,9 13,1 13,3Italia 12,6 9,1 9,9 11,6 12,8 12,7 11,7 10,9 11,1 11,4

Fonte: Istat, Statistiche sull’istruzione fino all’a.s. 1998/99 – Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca dall’a.s 1999/00

Alto tasso di abbandono nel Mezzogiorno

Il Mezzogiorno già nell’anno scolastico 2001/02 si caratterizza come l’area geografica in cui gli studenti abbandonano di più al primo anno delle superiori, questo profilo si conferma nel 2006/07, con oltre il 13 per cento di abbandoni. Confrontando i tassi di abbandono al primo e al secondo anno delle scuole supe-riori, emerge come la scelta di rinunciare agli studi avvenga principalmente al primo anno di corso, sia a livello nazionale, sia in ciascuna ripartizione geografica. La differenza tra i due tassi è di 8,6 punti percentuali se si considera la media per l’Italia (il valore nazionale passa infatti dall’11,4 per cento al 2,8 per cento) ed è più marcata nel Mezzogiorno dove la differenza tra le percentuali di abbandono è pari a 9,6 punti.

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16Pil pro capitePil pro capite per regione – Anni 2000-2008 (euro, valori concatenati anno di riferimento 2000 e variazioni percentuali)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE

Euro (valori concatenati) variazioni percentuali

2000 2008 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Abruzzo 18.022 17.810 5,9 1,8 -0,4 -2,3 -3,1 1,2 2,1 0,9 -1,2

Molise 15.237 16.448 3,6 2,3 0,6 -1,8 1,5 0,5 3,5 1,9 -0,6

Campania 13.202 13.497 3,7 3,1 1,9 -1,1 -0,2 -0,5 1,2 0,8 -2,9

Puglia 13.876 14.123 3,3 1,4 -0,4 -1,4 0,6 -0,4 2,5 0,0 -0,3

Basilicata 14.699 15.186 1,6 0,0 0,5 -1,3 1,6 -1,0 4,2 0,9 -1,6

Calabria 12.922 13.671 2,3 4,0 0,0 1,2 2,3 -1,6 1,9 0,0 -1,9

Sicilia 13.381 14.115 2,9 3,9 0,2 -0,4 -0,5 2,2 1,1 0,3 -1,3

mezzogiorno 13.934 14.380 3,3 2,7 0,4 -0,6 0,1 0,2 1,6 0,5 -1,6

Italia 20.917 21.336 3,6 1,8 0,1 -0,8 0,5 -0,1 1,5 0,8 -1,8

Fonte: Istat, Conti economici regionali

Il livello del Pil pro capite nel MezzogiornoÈ nettamente inferiore a quello del Centro Nord. Le regioni del Mezzogiorno presentano livelli del Pil pro capite nettamente inferiori rispetto a quelli del Cen-

tro-Nord. Inoltre, a differenza di quanto avviene in Europa, in Italia non si sta assistendo a una convergenza dei valori del Pil pro capite a livello regionale. Nel periodo 2000-2008 il divario di crescita dell’indicatore tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno è molto contenuto e non consente quindi di ridurre la distanza tra le regioni in ritardo di sviluppo e quelle più ricche. Le regioni con Pil pro capite più basso sono Campania e Calabria (rispettivamente poco meno di 13.500 e 13.700 euro per abitante), precedute da Sicilia e Puglia (che superano di poco i 14mila euro per abitante).

Credito bancarioTassi di interesse sui finanziamenti per cassa del settore produttivo per durata e regione Anni 2005-2008 (media dei 4 trimestri)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE

oltre cinque anni da oltre un anno fino a cinque anni fino ad un anno

2005 2006 2007 2008 2005 2006 2007 2008 2005 2006 2007 2008

Abruzzo 5,5 5,0 5,1 5,5 4,4 4,4 5,1 5,6 4,9 5,6 6,4 6,9

Molise 5,3 5,2 5,4 5,9 5,2 5,1 5,6 6,0 5,4 6,0 6,8 7,3

Campania 5,5 5,4 5,0 5,8 4,9 5,2 5,7 6,4 5,4 5,9 6,7 7,3

Puglia 5,5 5,4 5,5 5,8 4,8 4,8 5,5 6,1 5,2 5,8 6,6 7,1

Basilicata 5,3 5,1 5,2 5,5 5,1 4,9 5,8 6,3 5,0 5,7 6,5 7,1

Calabria 6,0 5,6 5,6 5,7 4,7 5,3 6,0 6,6 5,7 7,0 7,0 7,6

Sicilia 5,2 5,1 5,4 5,8 4,9 5,2 6,2 6,5 5,1 5,7 6,5 7,0

mezzogiorno 5,5 5,3 5,2 5,8 4,8 5,0 5,7 6,2 5,2 5,8 6,6 7,1

Italia 4,7 4,8 5,1 5,6 3,6 4,0 4,9 5,3 4,5 5,1 6,0 6,5

Fonte: Banca d’Italia, Base informativa pubblica

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17Mercato del lavoroMaggiore rischiosità del finanziamento nel Mezzogiorno

Con riferimento al tasso di decadimento per cassa, l’insolvibilità delle imprese che sono ricorse al finanziamento bancario è sistematicamente superiore per le regioni del Mezzogiorno rispetto a quelle del Centro-Nord. La maggiore rischiosità del finanziamento nel Mezzogiorno si riflette sui livelli dei tassi d’interesse: con riferimento ai tassi attivi sui finanziamenti per cassa, indipendentemente dalla durata, nei quattro anni considerati, un’impresa meridionale che desideri fi-nanziare i propri investimenti tramite il ricorso al prestito bancario deve sostenere mediamente un tasso di interesse di un punto percentuale più elevato rispetto a un’impresa del Centro-Nord. Chiaramente le banche tendono a cautelarsi dalla maggiore rischiosità connessa alle operazioni di finanziamento nel Mezzogiorno praticando tassi d’interesse più elevati. Tuttavia, negli ultimi anni il divario territoriale tra tassi d’interesse a lungo termine si è notevolmente ridotto. In conclu-sione, un mercato finanziario caratterizzato da queste eterogeneità territoriali causa maggiori difficoltà nell’accesso al credito da parte delle imprese del Mezzo-giorno e accresce il divario tra le regioni più arretrate e quelle più ricche, rallentando l’auspicabile convergenza nella crescita economica.

tasso di occupazione totaleTasso di occupazione della popolazione in età 15-64 anni per sesso e regione – Anno 2008 (valori percentuali)

REGIonI tasso di occupazione 2008totale Uomini donne

Abruzzo 59,0 71,2 46,7 Molise 54,1 66,7 41,5 Sardegna 52,5 64,4 40,4 Basilicata 49,6 64,2 34,9 Puglia 46,7 63,6 30,2 Sicilia 44,1 59,6 29,1 Campania 42,5 58,0 27,3 Calabria 44,1 57,6 30,8 Italia 58,7 70,3 47,2 Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Crollo al sud dell’occupazione femminileNelle regioni del Mezzogiorno l’incremento è stato contenuto a 2,4 punti. Per contro Campania, Calabria e Sicilia non raggiungono il livello del 45 per cento e la media

del Mezzogiorno è pari a 46,1. Ancora più accentuate le differenze nei tassi di occupazione femminile: nel 2008 in Campania e Sicilia risulta occupato meno del 30 per cento delle donne in età lavorativa, mentre tale percentuale raddoppia in Emilia-Romagna (62,1) e nelle regioni settentrionali raggiunge mediamente il 57,5 per cento.

tasso di disoccupazioneTasso di disoccupazione per regione – Anni 1999-2008 (valori percentuali)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Abruzzo 12,9 10,8 9,0 9,4 8,4 7,9 7,9 6,5 6,2 6,6Molise 12,2 10,0 9,8 8,9 10,6 11,3 10,1 10,0 8,1 9,1Campania 20,0 20,0 18,8 17,5 16,9 15,6 14,9 12,9 11,2 12,6Puglia 18,1 16,3 14,1 13,5 15,0 15,5 14,6 12,8 11,2 11,6Basilicata 15,3 14,5 14,7 13,5 13,2 12,8 12,3 10,5 9,5 11,1Calabria 21,3 19,3 19,3 18,1 16,5 14,3 14,4 12,9 11,2 12,1Sicilia 24,5 24,1 22,0 20,7 20,1 17,2 16,2 13,5 13,0 13,8mezzogiorno 19,7 18,9 17,3 16,4 16,2 15,0 14,3 12,2 11,0 12,0Italia 11,0 10,2 9,1 8,6 8,4 8,0 7,7 6,8 6,1 6,7Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Permane il divario territoriale Nord SudLe differenze che si osservano tra le regioni italiane sono consistenti. Il divario territoriale tra Mezzogiorno e Centro-Nord permane, anche se nel decennio

1999-2008 sono le regioni del Mezzogiorno quelle che hanno sperimentato il più consistente decremento: in Sicilia e Calabria nel 1999 il tasso di disoccupazione superava il 20 per cento, mentre nel 2008 è sceso rispettivamente al 13,8 e 12,1 per cento. Anche i differenziali tra uomini e donne risultano elevati: più marcati

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18nel Mezzogiorno dove il tasso di disoccupazione femminile (15,7 per cento) supera di 5,7 punti percentuali il corrispondente maschile. Nel 2008 il tasso di disoc-cupazione femminile supera il 15 per cento in tutte le regioni meridionali a eccezione di Abruzzo e Molise, mentre i tassi più bassi si registrano nelle regioni set-tentrionali, dove le donne in cerca di occupazione sono poco più del 5 per cento.

tasso di disoccupazione giovanileTasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) per regione – Anni 1999-2008 (valori percentuali)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Molise 36,4 29,7 21,1 13,3 26,3 31,9 31,8 28,0 23,8 28,8

Campania 48,3 49,2 45,8 44,9 40,0 37,7 38,8 35,4 32,5 32,4

Puglia 40,2 38,4 31,9 31,0 35,4 35,4 35,4 32,2 31,8 31,6

Basilicata 49,0 40,2 44,4 43,0 36,8 35,6 36,6 32,0 31,4 34,6

Calabria 48,5 44,8 41,3 39,8 41,7 40,5 46,1 35,5 31,6 34,5

Sicilia 53,1 51,5 48,1 44,8 46,5 42,9 44,8 39,0 37,2 39,3

mezzogiorno 46,1 44,7 40,6 39,0 39,4 37,6 38,6 34,3 32,3 33,6

Italia 28,7 27,0 24,1 23,1 23,7 23,5 24,0 21,6 20,3 21,3

Fonte: Istat, Rilevazione continua sulle forze di lavoro

Nel Mezzogiorno il tasso di disoccupazione giovanileÈ molto superiore a quello medio nazionale. Nel 2008 tutte le regioni del Mezzogiorno presentano tassi di disoccupazione giovanile di molto superiori a quello

medio nazionale, a eccezione dell’Abruzzo (19,7). Nel corso del decennio 1999-2008 il calo più marcato del tasso di disoccupazione giovanile (nell’ordine dei 14-16 punti percentuali) ha interessato la Campania, l’Abruzzo, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia.

Crimini violentiCrimini violenti denunciati per regione – Anni 2004-2007 (per 10.000 abitanti, variazioni percentuali)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE

Crimini violenti

valoriper 10.000 abitanti

di cui: lesioni dolose

(%)

di cui: rapine

(%)

variazioni(%)

di cui: lesioni dolose

(variazioni %)

di cui: rapine

(variazioni %)

2004 2005 2006 2007 2007 2007 2004-2007 2004-2007 2004-2007Abruzzo 15,9 16,1 16,7 17,3 68,8 23,5 11,1 9,8 14,3

Molise 12,9 12,2 12,4 11,4 80,3 9,9 -12,3 -14,1 -30,8

Campania 35,4 36,6 40,1 38,0 26,9 68,3 7,6 57,0 -5,2

Puglia 16,9 16,5 15,9 17,5 58,4 32,2 3,4 14,8 -16,2

Basilicata 11,0 11,2 11,4 13,8 83,5 7,6 24,2 28,0 -1,6

Calabria 14,1 15,2 15,0 15,4 63,3 24,1 9,2 11,0 10,2

Sicilia 16,4 17,5 19,8 21,6 42,8 50,0 31,8 32,6 34,3

mezzogiorno 21,2 21,8 23,3 23,6 42,8 50,2 11,4 25,7 0,9

Italia 18,2 18,9 20,1 21,0 51,1 41,2 17,7 22,7 10,7

Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Ministero dell’Interno, Delitti denunciati dalle forze dell’ordine all’autorità giudiziaria

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19Giustizia e sicurezza

Crimini violentiCrimini violenti denunciati per regione – Anni 2004-2007 (per 10.000 abitanti, variazioni percentuali)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE

Crimini violenti

valoriper 10.000 abitanti

di cui: lesioni dolose

(%)

di cui: rapine

(%)

variazioni(%)

di cui: lesioni dolose

(variazioni %)

di cui: rapine

(variazioni %)

2004 2005 2006 2007 2007 2007 2004-2007 2004-2007 2004-2007Abruzzo 15,9 16,1 16,7 17,3 68,8 23,5 11,1 9,8 14,3Molise 12,9 12,2 12,4 11,4 80,3 9,9 -12,3 -14,1 -30,8Campania 35,4 36,6 40,1 38,0 26,9 68,3 7,6 57,0 -5,2Puglia 16,9 16,5 15,9 17,5 58,4 32,2 3,4 14,8 -16,2Basilicata 11,0 11,2 11,4 13,8 83,5 7,6 24,2 28,0 -1,6Calabria 14,1 15,2 15,0 15,4 63,3 24,1 9,2 11,0 10,2Sicilia 16,4 17,5 19,8 21,6 42,8 50,0 31,8 32,6 34,3mezzogiorno 21,2 21,8 23,3 23,6 42,8 50,2 11,4 25,7 0,9Italia 18,2 18,9 20,1 21,0 51,1 41,2 17,7 22,7 10,7Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Ministero dell’Interno, Delitti denunciati dalle forze dell’ordine all’autorità giudiziaria

In Campania l’indice più elevato di crimini violentiIl Mezzogiorno e il Nord-ovest sono le ripartizioni con i valori dell’indice più elevati (rispettivamente 23,6 e 21,6). Fra le regioni, la Campania mostra il valore

dell’indice più elevato (38,0) associato a una quota molto elevata di rapine (oltre 68,3 per cento), peraltro in diminuzione rispetto all’anno precedente. Le altre regioni del Mezzogiorno, con l’eccezione della Sicilia, presentano valori dell’indicatore inferiori a quello medio nazionale.

delitti commessi da minoriMinori denunciati per regione – Anni 2004-2007 (per 1.000 persone di 10-17 anni e valori percentuali)

REGIonIRIPaRtIzIonI GEoGRafIChE

minori denunciati

Per 1.000 minori in età 10-17 di cui: in età < 14 anni %

di cui: femmine

%

di cui: stranieri

%

2004 2005 2006 2007 2004 2005 2006 2007 2007 2007Abruzzo 10,5 9,8 9,9 8,8 11,6 9,6 12,1 10,6 15,7 20,2Molise 8,4 8,4 8,9 7,1 22,6 24,2 12,0 20,4 12,7 8,3Campania 5,7 5,5 5,5 6,3 14,9 14,5 15,4 13,8 13,1 6,4Puglia 6,7 6,5 7,2 7,4 12,4 10,6 11,6 14,7 8,2 5,7Basilicata 6,1 6,9 8,4 10,2 12,2 13,8 13,7 17,3 3,3 4,8Calabria 6,4 6,2 7,2 6,5 12,8 8,3 11,9 12,4 11,4 5,4Sicilia 10,4 10,9 9,1 9,2 10,5 10,1 9,2 11,2 7,7 8,8mezzogiorno 7,8 7,8 7,8 7,8 12,5 11,3 11,6 13,0 10,2 7,5Italia 9,1 8,8 8,7 8,4 16,0 15,3 16,2 17,0 16,4 27,2Fonte: Elaborazione su dati Ministero della giustizia – Dipartimento per la giustizia minorile

Nel Mezzogiorno un panorama variegato

Anche nel Mezzogiorno (con un valore medio dell’indicatore pari a 7,8) il panorama è abbastanza variegato: Basilicata e Sardegna superano abbondantemen-te il valore medio delle regioni del Nord, mentre Campania e Calabria sono tra le regioni con valori più bassi dell’indicatore.

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20Problemi prioritari del Paese secondo i cittadini

Persone di 14 anni e più che considerano disoccupazione e criminalità come problemi prioritari del Paese per regioneAnni 2005-2008 (per 100 persone con le stesse caratteristiche)

REGIonI RIPaRtIzIonI GEoGRafIChE

disoccupazione Criminalità

2005 2006 2007 2008 2005 2006 2007 2008

Abruzzo 80,8 81,6 70,7 71,4 49,2 56,4 54,8 55,3

Molise 86,9 86,6 81,7 74,4 56,0 50,0 50,6 56,9

Campania 88,2 88,3 85,3 75,5 74,5 72,3 75,5 68,3

Puglia 86,7 87,8 82,0 84,4 60,0 62,6 64,7 58,1

Basilicata 87,9 87,9 86,5 88,7 53,3 50,8 45,2 45,4

Calabria 90,5 90,5 86,5 86,2 53,0 51,1 58,8 53,0

Sicilia 91,5 88,7 86,9 83,2 56,6 61,3 59,3 56,5

mezzogiorno 88,4 87,9 84,1 81,0 60,4 61,6 63,3 58,6

Italia 72,4 70,1 64,3 61,3 56,5 58,7 61,8 60,5

Fonte: Istat, Indagine multiscopo sulle famiglie “Aspetti della vita quotidiana”

Nel Mezzogiorno priorità al lavoroNel Centro Nord alla sicurezza

L’esame della percezione dei problemi considerati prioritari dalla popolazione di 14 anni e più rivela una differente sensibilità tra Nord e Sud del Paese. In tutte le regioni del Mezzogiorno è, infatti, la disoccupazione che occupa il primo posto della graduatoria, mentre in molte regioni del Nord il tema della crimina-lità è maggiormente sentito. Nel dettaglio, l’81 per cento dei residenti nel Mezzogiorno segnala il problema della disoccupazione, in calo rispetto al 2000 (90,3 per cento).

Nel Mezzogiorno la criminalità è considerata problema prioritario dal 58,6 per cento della popolazione; la regione dove appare più rilevante è la Campania, con il 68,3 per cento delle indicazioni (è il valore più elevato a livello nazionale), mentre per le regioni del Centro-Nord lo è in Emilia-Romagna (67,6), in Veneto (63,8 per cento) e in Piemonte (63,3 per cento).

Fonte dati IstatElaborazioni di luisa Pezone

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L’interesse e l’impegno della Banca d’Italia in quella che un tempo si sarebbe detta la “questione meridionale” sono di antica data. Dona-to Menichella, Governa-tore della Banca dal 1948 al 1960, fu nel ristretto

gruppo di nuovi meridionalisti che, fondando la SVIMEZ nel 1946, avviarono l’intervento straor-dinario nel Mezzogiorno. Gli economisti di questo Istituto hanno continuato da allora a sviluppare le loro analisi sui divari territoriali.

Un sentiero di crescita più eleva-to di quello dello scorso decennio è essenziale per la stabilità finanziaria; per abbattere il debito pubblico; per potenziare le nostre infrastrutture: l’istruzione, la protezione sociale, la giustizia; per ridurre il prelievo fisca-le. Questo è lo scopo delle ricerche che presentiamo oggi: riesaminare il problema che ha segnato la sto-ria economica d’Italia fin dalla sua Unità. Abbiamo tutti bisogno dello sviluppo del Mezzogiorno.

Da lungo tempo i risultati economici del Mezzogiorno d’Italia sono deludenti. Il divario di PIL pro capite rispetto al Centro Nord è rimasto sostanzialmente immutato per trent’anni: nel 2008 era pari a circa quaranta punti percentuali. Il Sud, in cui vive un terzo degli italiani, produce un quarto del prodotto nazionale lordo; rimane il territorio arretrato più esteso e più popoloso dell’area dell’euro.

Il processo di cambiamento è troppo lento. Mentre le altre regioni europee in ritardo di svilup-po tendono a convergere verso la media dell’area, il Mezzogiorno non recupera terreno. I flussi mi-gratori verso il Centro Nord sono di nuovo ingen-ti, coinvolgono molti giovani anche con elevati li-velli di scolarizzazione, impoveriscono il capitale umano del Sud. Il tasso di attività nel mercato del lavoro resta tra i più bassi d’Europa, soprattutto per i giovani e per le donne. Un quinto del lavoro è ancora irregolare, più del doppio che nel Centro Nord, che pure presenta valori superiori a quelli di Francia, Germania e Regno Unito.

L’integrazione del Mezzogiorno nel sistema economico internazionale è modesta; da que-sta area, escludendo la raffinazione dei prodotti petroliferi, viene meno di un decimo delle espor-tazioni italiane. La crisi internazionale ha quindi trasmesso i suoi impulsi soprattutto attraverso la

catena di subfornitura che si origina dalle imprese del Centro Nord; anche al Sud si sono allungati molto i termini di pagamento, sono peggiorate le condizioni di accesso al credito.

Nel 2008 la contrazione del PIL meridionale è stata più severa di quella del Centro Nord: -1,4 contro -0,9 per cento. Nel secondo trimestre del 2009 l’occupazione è calata nel Mezzogiorno del 4,1 per cento rispetto all’anno precedente; nel Centro Nord è scesa dello 0,6 per cento. Il divario riflette anche la minore tutela offerta in concreto dalla Cassa integrazione guadagni al Sud a causa

della differente struttura produttiva. Il Mezzogior-no sconta la debolezza della sua economia.

Il divario tra il Sud e il Centro Nord nei ser-vizi essenziali per i cittadini e le imprese rimane ampio. Le analisi che presentiamo oggi rivela-no scarti allarmanti di qualità fra Centro Nord e Mezzogiorno nell’istruzione, nella giustizia civile, nella sanità, negli asili, nell’assistenza sociale, nel trasporto locale, nella gestione dei rifiuti, nella distribuzione idrica. In più casi – emblematico è quello della sanità – il divario deriva chiaramente dalla minore efficienza del servizio reso, non da una carenza di spesa. Svolgere un’attività pro-duttiva in Italia è spesso più difficile che altrove, anche per la minore efficacia della Pubblica am-ministrazione; nel Mezzogiorno queste difficoltà si accentuano.

Grava su ampie parti del nostro Sud il peso della criminalità organizzata. Essa infiltra le pub-bliche amministrazioni, inquina la fiducia fra i cit-tadini, ostacola il funzionamento del libero mer-cato concorrenziale, accresce i costi della vita economica e civile. La Banca ha messo risorse di

analisi a disposizione della Commissione parla-mentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, per una indagine sul costo economico della criminalità.

Alla radice dei problemi del Sud stanno la ca-renza di fiducia tra cittadini e tra cittadini e isti-tuzioni, la scarsa attenzione prestata al rispetto delle norme, l’insufficiente controllo esercitato dagli elettori nei confronti degli amministratori eletti, il debole spirito di cooperazione: è carente quello che viene definito “capitale sociale”. Que-sti elementi richiedono una maggiore attenzione da parte di economisti e statistici. Accurate in-

formazioni quantitative su questi fenomeni, sulla loro evoluzione nel tempo, sono essenziali per valutare quali innovazioni, anche istituzionali, siano in grado di modificare lo stato delle cose.

I nostri dati mostrano che non ci sono marcate divergenze nell’an-damento del credito bancario tra il Centro Nord e il Mezzogiorno. Con la crisi i prestiti alle famiglie hanno rallentato fortemente in entrambe le aree territoriali, continuando tutta-

via a crescere di più al Sud. I prestiti alle imprese e il costo del credito hanno avuto, pur partendo da livelli diversi, dinamiche simili nelle due aree. Vale anche per il Sud la considerazione che an-diamo facendo dall’inizio dell’anno con riferimen-to all’intero sistema bancario italiano: in questi tempi di straordinaria difficoltà per le imprese è anche sulla capacità dei banchieri di valutare e selezionare il merito di credito con prudente lungimiranza che si giocano le sorti delle nostre imprese migliori e della nostra competitività nel lungo periodo.

I divari tra Centro Nord e Mezzogiorno, che permangono nelle condizioni di accesso al credito e nel costo dei finanziamenti, sono dovuti in larga misura alla diversità strutturale delle economie reali e alla maggiore debolezza nel Mezzogiorno delle istituzioni che tutelano il rispetto dei con-tratti. Nascono nel Sud tante nuove banche quan-te ne nascono nel resto d’Italia, tenuto conto dei pesi economici relativi.

Le politiche regionali – quelle esplicitamente finalizzate a promuovere lo sviluppo delle aree in ritardo, con interventi specifici – nell’ultimo de-cennio si sono volte anche all’obiettivo di innal-zare il capitale sociale, attraverso miglioramenti nella trasparenza informativa, nella rendiconta-zione, nel controllo e nella valutazione dei risultati

BANCA D’ITALIA • EUROSISTEMA

Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia

Intervento d’apertura del Governatoredella Banca d’Italia Mario Draghi

Roma, 26 novembre 2009

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24 25dell’azione pubblica, ma hanno ottenuto risultati scarsi. Ne hanno indebolito l’azione i localismi, la frammentazione degli interventi, la difficoltà di individuare le priorità, la sovrapposizione del-le competenze dei vari enti pubblici.

Se ne può trarre un insegnamento: le politiche regionali possono integrare le risorse disponibili, consentirne una maggiore concentrazione terri-toriale, contrastare le esternalità negative e raf-forzare quelle positive. Ma non possono sostituire il buon funzionamento delle istituzioni ordinarie. Non è quella delle politiche regionali la via mae-stra per chiudere il divario tra il Mezzogiorno e il Centro Nord. Occorre dirigere l’impegno soprat-tutto sulle politiche generali, che hanno obiettivi riferiti a tutto il Paese, e concentrarsi sulle condi-zioni ambientali che rendono la loro applicazione più difficile o meno efficace in talune aree.

Politiche pubbliche uniformi producono infatti effetti diversi a seconda della qualità delle ammi-nistrazioni e del contesto territoriale. Nel definire la normativa e le risorse si deve tenere conto di questi aspetti; si devono anche prevedere mec-canismi correttivi, che operino quando la qualità del servizio fornito alla collettività è inadeguata. È un assunto che può essere illustrato con tanti esempi, come emergerà dal convegno. Nel caso dell’istruzione, dove varie iniziative sono già in corso, non si può non tenere conto della minore capacità delle scuole e delle università del Sud di stimolare l’apprendimento degli studenti: occorre studiare incentivi e introdurre valutazioni volti a migliorare l’efficienza di ciascun istituto, ma anche prevedere un potenziamento delle attività didatti-che per gli studenti che ne abbiano bisogno.

Considerazioni analoghe possono essere ef-fettuate per il mercato del lavoro. Un assetto nor-mativo e contrattuale che consente elevati tassi di occupazione in molte regioni d’Italia si accom-pagna nel Mezzogiorno con tassi di occupazione tra i più bassi d’Europa. In alcune regioni il rap-porto tra occupati e cittadini in età lavorativa è inferiore al 45 per cento; in alcune i lavoratori ir-regolari superano il 20 per cento del totale. Una maggiore articolazione dell’assetto generale in relazione alle situazioni locali attraverso lo svi-luppo della contrattazione integrativa può con-tribuire ad accrescere l’occupazione e a ridurre lo spreco di risorse umane.

Ma c’è un altro motivo per concentrare l’at-tenzione sulle politiche generali: la spesa pubbli-ca primaria che viene convogliata a vario titolo nel Sud è imponente al confronto delle risorse utilizzate per le politiche regionali, che ne rap-

presentano solo il 5 per cento. Oggi una politica che persegua l’obiettivo di accelerare lo svilup-po del Mezzogiorno non deve sovrapporsi alle politiche generali; deve essere in primo luogo la consapevole e sapiente declinazione di queste ultime sul territorio.

Questo è dunque il messaggio che la nostra ricerca affida alla discussione: affinché il Mezzo-giorno diventi questione nazionale, non retorica-mente ma con ragionato pragmatismo, ogniqual-volta si disegni un intervento pubblico nell’econo-mia o nella società occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi. Inter-venti di politica regionale tradizionale potranno dare un contributo solo se congegnati in coerenza con gli interventi generali. Le nostre analisi mo-strano che i sussidi alle imprese sono stati gene-ralmente inefficaci: si incentivano spesso investi-menti che sarebbero stati effettuati comunque; si introducono distorsioni di varia natura penalizzan-do frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive.

Insomma, occorre investire in applicazione, piuttosto che in sussidi. Tradurre questa impo-stazione in atti concreti di governo non è facile. Si deve puntare a migliorare la qualità dei ser-vizi forniti da ciascuna scuola, da ciascun ospedale e tribunale, da ciascun ente amministrativo o di produzio-ne di servizi di traspor-to o di gestione dei rifiuti. Per questo è, innanzi tutto, necessario misu-rare e valutare i risultati dell’azio-ne pubblica, in ogni campo, dal-le grandi opere in-frastrutturali fino alla performance del singolo ad-detto. I lavori presentati oggi danno conto di alcuni progres-si compiuti in tale direzione. Molto resta da fare.

Servono rilevazioni in-

dipendenti, sistematiche, frequenti, su cui misu-rare i progressi delle amministrazioni, stabilire un corretto sistema di incentivi, indirizzare le risorse pubbliche. “Conoscere per deliberare” è massima aurea, dall’attualità permanente, che dobbiamo al primo Governatore della Banca d’Italia nel Paese liberato, Luigi Einaudi.

Ovviamente, occorre poi deliberare. Si tratta di reimpostare norme e prassi antiche. Spostando l’enfasi dalla quantità delle risorse alla qualità dei risultati e facendo fruttare le risorse che ci sono già, che i bilanci pubblici trasferiscono dalle aree più ricche. I lavori presentati oggi mostrano che i margini per un utilizzo più efficiente delle risor-se pubbliche sono significativi, in particolare nel Mezzogiorno. La spesa pubblica pro capite per i farmaci è per esempio in questa area largamen-te maggiore che al Centro Nord. Nel contempo, bisognerebbe riconoscere e premiare il merito di coloro che servono il Paese con distinzione in un ambiente particolarmente difficile.

Con il federalismo fiscale la maggiore auto-nomia si coniuga con una maggiore responsabi-lità: sarà un’occasione per rendere più efficace l’azione pubblica solo se l’imposizione e la spesa a livello decentrato premieranno l’efficienza, solo se gli amministratori locali saranno capaci di indi-

rizzare le risorse verso gli usi più produtti-

vi e le priorità più urgenti. Nel Sud

questi obiettivi sono più difficili da raggiungere, ma se raggiunti i benefici saran-

no grandi, proba-bilmente maggiori

che nel resto del Pa-ese. Altrimenti i divari

si aggraveranno.A Sud come a Nord

lo scopo del nostro agi-re deve essere garan-

tire la funzione pubblica per eccellenza, quella

che definisce una cornice, un clima uniformi nel Pa-

ese: scuole, ospedali, uffici pubblici che assicurino

standard comuni di servizio da un capo all’altro d’Italia.

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24 25

L’Ecclesiaste ci ha insegnato che c’è “un tempo per ta-cere e un tempo per parla-re”. Dopo tanti silenzi sul Mezzogiorno, sui suoi ri-tardi, sui fattori della sua crisi e sulla problematici-tà del suo futuro, ed alla

vigilia dei 150 anni dal formale avvio all’Unifi-cazione giuridico-istituzionale della Nazione nel 1861, è forse il tempo, e comunque questa ap-pare a noi della SVIMEZ come un’occasione per “non tacere”.

La definitiva fine – nel 1993 – del positivo “intervento straordinario” per il Sud avviatosi nel 1950, che era entrato dai primi anni ’70 in un ventennio di incertezze [a causa del-la crisi petrolifera, ma anche per le mutate strategie di politica econo-mica nazionale tradottesi nella Leg-ge 675 – nordista – sulla “ristruttu-razione e riconversione industriale”, ed insieme per il ruolo assegnato alle neonate ed impreparate “regioni a statuto ordinario” anche nella ge-stione interna della “Cassa per il Mezzogiorno”], segnò a fine Secolo una caduta profonda nei ritmi di crescita della necessaria accumulazione produt-tiva e dell’occupazione nell’area meridionale. La decisione del Ministro Ciampi di dar vita ad una “Nuova Politica Economica”, ed alla costituzione ed operatività del “Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione”, venne sminuita – rispetto alla loro attesa incisività – dall’approccio dispersi-vo dei localismi, e dalle “cento idee” di Catania, cui la SVIMEZ non venne allora neppure invitata.

Le corrette scelte quantitative fatte dal DPS nel quadro della citata “Nuova Politica Economi-ca” si sono presto scontrate con i limiti della “ca-pacità di spesa” di Ministeri e di Amministrazioni, e soprattutto con l’incapacità programmatica e realizzativa delle Regioni e dei poteri locali (per non parlare della pressione delle “leghe” che da allora condizionano in modi impropri il Governo dell’economia e del Paese, facendo pesare una irrealistica “questione settentrionale”, incom-parabile con la storica e strutturale “questione meridionale”).

Sotto la spinta di Carlo Azeglio Ciampi e di Fabrizio Barca, si ebbe certo – da parte del Gover-no e del DPS – il coraggio politico di parlare con i “numeri” e con i valori di “riserve” economico-politiche: il 45% al Sud delle totali spese nazionali

in conto capitale, ordinarie e straordinarie; il 30% di quelle solo ordinarie; l’85% di localizzazione al Sud delle risorse aggiuntive per le aree meno svi-luppate d’Italia. Ma numeri e riserve hanno finito presto col diventare vaghi proclami e mancate promesse, di cui si è dimostrata nel tempo l’in-capacità del rispetto, politico e tecnico, da parte di chi – governando – doveva darsene carico. Ed è certo responsabilità politica non aver previsto allora e poi vincoli e sanzioni, ancor oggi neces-sari e non definiti.

Tutto ciò è avvenuto in un contesto di “politi-

ca regionale europea” che non ha saputo cogliere le differenze presenti – quanto ad arretratezza relativa dei territori nell’Europa che [dai 6 iniziali Paesi, ai 27 di oggi] è cresciuta più sulle speci-ficità dei “localismi” che sulla comprensione dei fenomeni “dualistici”, che a diverso titolo Italia e Germania – soli Stati in Europa – hanno presen-tato e conosciuto, ma rispetto ai quali quantità e qualità del rispettivo impegno è stato straordina-riamente diverso, giustificando così le differenze nei risultati registrati nei due Paesi.

Ritornare a parlare di MezzogiornoIl Presidente della Repubblica Italiana Gior-

gio Napolitano, nel messaggio da Lui rivolto il 16 luglio 2009 in occasione della presentazione del “Rapporto SVIMEZ 2009”, ha indicato come indi-spensabile lo «sviluppo di un confronto naziona-le, aperto ed approfondito», capace di accresce-re «la consapevolezza, nelle Istituzioni ed in tutta la società italiana, del carattere prioritario e della portata strategica dell’obiettivo del superamento dei divari tra Nord e Sud». Una maggiore consa-

pevolezza – ha affermato il Presidente – neces-saria anche per reagire all’accrescimento dell’in-certezza sulle risorse disponibili e, insieme con esse, «l’incertezza del quadro di riferimento delle politiche per il Mezzogiorno», in un contesto in cui la crisi economica rende più difficile il bilanciamen-to tra i diversi e conflittuali obiettivi della politica economica nazionale.

Proprio in tale ottica, riteniamo possa essere di grande utilità la presente “Indagine conoscitiva sull’efficacia della spesa e delle politiche di so-stegno alle aree sottoutilizzate”, promossa dalla Camera dei Deputati, alla quale la SVIMEZ è ono-

rata di poter offrire il contributo di alcune sue riflessioni.

Ho consegnato pertanto agli Uffici della Commissione – per la pubblicazione degli Atti ufficiali – un articolato testo, di cui tuttavia mi riservo di dare qui oggi, per esigen-ze di concisione, solo una selettiva lettura.

La ripresa negli ultimi mesi di un dibattito – pur non privo di genericità ed approssimazioni – sui temi dello sviluppo meridionale, non può che

essere accolta con compiacimento.Molte delle notazioni e dei temi che la SVI-

MEZ ha trattato, anche con tenacia, nel corso di questi anni di silenzio e rimozione [il divario Nord-Sud; il Mezzogiorno come macro-area; il Mezzo-giorno come questione nazionale; la necessità di una forte revisione della programmazione delle politiche per il Sud; eccetera], sono tornati di una certa attualità. Ciò è stato confermato dal presti-gioso Convegno di studi che il 26 novembre scor-so la Banca d’Italia ha dedicato al Mezzogiorno e alla politica economica dell’Italia, presentando un ampio numero di documentate analisi, che esper-ti prevalentemente settentrionali hanno peraltro voluto ricondurre – con qualche evidente forzatu-ra – quasi solo alla storica assenza del “capitale sociale” nel Sud, macro-regione che non ebbe mai a conoscere l’autogoverno.

Il giudizio sulle politiche per il Mezzogiorno si è fatto più critico con riferimento a quelle relati-ve agli ultimi dieci anni. Il clima è a nostro avviso positivamente mutato: la presa d’atto degli assai insoddisfacenti risultati di tale recente esperien-za ha dato luogo ad una favorevole riconsidera-zione di politiche “aggiuntive” e “speciali” per il Sud, sia pure con intonazioni diverse ed alterna-tive, che necessitano di approfondita riflessione politica e tecnica.

SvIMEzIndagIne conoscItIva

sull’effIcacIa della spesa e delle polItIche dI sostegno alle aree sottoutIlIzzate

Roma, 3 febbraio 2010Comm. Vª: Bilancio, Tesoro e Programmazione

Nino Novacco, Presidente della Ass. per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno

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26 27La prospettazione, nel “Rapporto SVIMEZ ”

presentato nello scorso luglio, dei dati relativi al processo di deterioramento, a livello di capitale fisso sociale e produttivo, in atto nel Mezzogior-no, e ai pesanti effetti di esso sul mercato del lavoro e sulla ripresa di una rilevante fuoriuscita migratoria (commisuratasi nell’ultimo decennio in oltre 700 mila persone), ha con-corso, forse in misura non piccola, al rilancio della discussione. Oggi – mi pare che ormai si possa dire – siamo usciti da una lunga stagione di silen-ziosa rimozione. Ma occorre avere la consapevolezza che mentre siamo di fronte ad un senz’altro positivo muta-mento di clima, esso non è del tutto consolidato o irreversibile.

È ancora molto forte e diffusa, infatti, in gran parte del Paese – a partire dalle élites politiche ed eco-nomiche – la convinzione che i pro-blemi dell’Italia coincidano in realtà con quelli delle sue zone forti, e che basti rimettere in moto la locomoti-va del Nord per fare ripartire l’Italia. Permane, dunque, il rischio di una nuova progressiva rimozione della natura nazionalmente determinan-te dei macro-problemi meridionali, e dell’indebolirsi del convincimen-to che sia necessario assicurare, al perseguimento dell’obiettivo dello sviluppo del Sud e della coesione del Paese, un impegno macro economico certo e duraturo nel tempo.

È ancora insufficiente, d’altra parte, l’attenzione delle classi di-rigenti meridionali alla dimensione strutturale e macro-regionale dei fattori che sono alla base del gap di crescita registrato rispetto al resto del Paese, ma anche rispetto alle altre re-gioni deboli dell’Unione Europea. Il rischio è che permanga la tendenza a privilegiare micro-inter-venti diffusi sul territorio, in grado di acconten-tare le esigenze locali e/o congiunturali, rispetto ad interventi di più ampio respiro sulle condizio-ni – strutturali ed infrastrutturali – del contesto economico e produttivo. Laddove è certo, inve-ce, che ogni disegno strategico per lo sviluppo del Mezzogiorno potrà avere successo solo se i responsabili delle Istituzioni e degli Enti locali e territoriali saranno capaci di adottare comporta-menti che radicalmente si distacchino dalle in-

soddisfacenti esperienze del passato, che hanno largamente concorso a screditare le politiche me-ridionaliste, a causa degli sprechi nella gestione delle cospicue – ancorché insufficienti – risorse

loro assegnate, e dell’intrinseca debolezza di non poche delle scelte adottate nel merito degli interventi […]

[…] Le considerazioni avanzate eviden-ziano un quadro di grande complessità, che ri-propone l’esigenza di un franco confronto na-zionale di politica economica, da cui emergano impegni strutturali sul futuro del Mezzogiorno e dell’Italia.

Nel dibattito politico che ha seguito e conclu-so la presentazione dell’ultimo annuale “Rapporto SVIMEZ ”, abbiamo appunto perciò rinnovato la ri-chiesta ai poteri pubblici di organizzare una “Con-ferenza Nazionale sul Mezzogiorno”. Al dibattito

da approfondire, la SVIMEZ, come di consueto, ha cercato anche qui di offrire un contributo, che vorremmo sintetizzare con queste cinque finali affermazioni.

L’eccessivo ritardo dell’Italia – ri-levante, di fatto, soprattutto per gli interventi pubblici nazionali ed europei a favore del Mezzogior-no – nell’avviare il ciclo 2007-2013 di utilizzo dei fondi UE, impone di trova-re soluzioni urgenti e più efficaci che in passato.

Vi è la necessità di rafforza-re – in sede di Governo, ma anche nel Parlamento – l’unità e la qualità del luogo (soggetto, autorità) capace di assicurare il coordinamento delle politiche di sviluppo e di coesione ; tale luogo deve essere capace di garantire strategie ed ottiche macro-economiche.

Occorre evitare quel che è av-venuto nel 2009 in ordine allo spiaz-zamento territoriale (trasferimenti illegittimi, e non marginali) di risorse destinate al Mezzogiorno su Fondi FAS ed altri.

Vi è l’esigenza che la “Confe-renza Stato-Regioni” accentui i mo-menti di considerazione del Mezzo-giorno come “grande regione debole dell’Italia”. Occorre comunque che le posizioni delle nostre macro-re-gioni – che sarebbe bene fossero rappresentate come tali nella “Con-ferenza” – vengano evidenziate e valorizzate, costituendo esse og-getto di necessaria decisione, ed insieme discrimine politico-sociale,

produttivo ed occupazionale. È comune e diffu-so il convincimento che – nella concreta attivi-tà di programmazione e di gestione della spesa pubblica – vi sia una grande responsabilità delle Amministrazioni regionali e locali. Esse in effetti non hanno né sufficienti pregresse esperienze, né autonomia di giudizio tecnico-economico. Da questo punto di vista, la prospettiva di introdur-re in Italia (e specie nel Sud) dosi di “maggiore federalismo” – che possono tradursi in dosi di “maggiore localismo” – non può non preoccupa-re, ed impone di ricercare ed applicare soluzio-ni adeguate e conformi alla natura dei problemi strutturali presenti nei territori meridionali del-la Nazione.

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26 27la Chiesa in Italiae la questione meridionale

A vent’anni dalla pubbli-cazione del documento Sviluppo nella solida-rietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, vogliamo riprendere la riflessione sul cammino della soli-darietà nel nostro Paese,

con particolare attenzione al Meridione d’Italia e ai suoi problemi irrisolti, riproponendoli all’at-tenzione della comunità ecclesiale nazionale, nella convinzione «degli ineludibili doveri della solidarietà sociale e della comunione ecclesiale […] alla luce dell’insegnamento del Vangelo e con spirito costruttivo di speranza»1.

Torniamo sull’argomento non solo per celebrare l’anniversario del documento, né in primo luogo per stilare un bilancio delle cose fatte o omesse, e neppure per regi-strare con ingenua soddisfazione la qualificata presenza delle strutture ecclesiali nel-la vita quotidiana della società meridionale, ma per intervenire in un dibattito che coinvolge tanti soggetti e ribadire la consapevolezza del dovere e della volontà della Chiesa di essere presente e solidale in ogni parte d’Italia, per promuovere un autentico sviluppo di tutto il Paese. Nel 1989 sostenemmo: «il Paese non crescerà, se non insieme»2. Anche oggi riteniamo indispensabile che l’intera nazione conservi e accresca ciò che ha costruito nel tempo. Il bene comune, infatti, è molto più della somma del bene delle singole

1 Conferenza episCopale italiana, Sviluppo nella solidarie-tà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 18 ottobre 1989, n. 1. «Tale documento – disse Giovanni Paolo II il 9 novembre 1990 a Na-poli, incontrando la popolazione in piazza Plebiscito – può ben essere considerato la traduzione non solo pastorale, ma anche politica, nel senso più alto del termine, del progetto di organiz-zazione della speranza nella vasta area del Mezzogiorno» (n. 3). Esso richiamava, a distanza di quarant’anni, la Lettera colletti-va dell’Episcopato dell’Italia meridionale del 25 gennaio 1948 I problemi del Mezzogiorno, che, a sua volta, dopo aver analizzato la religiosità delle popolazioni del Sud, poneva in evidenza le profonde esigenze di giustizia nei rapporti di lavoro soprattutto in riferimento all’economia agraria meridionale, auspicando una «religione più pura ed una giustizia più piena» (n. 1).

2 L’espressione fu desunta dal documento del Consiglio Episcopale Permanente La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 23 ottobre 1981, n. 8.

parti3. Ci spingono a intervenire la constatazio-ne del perdurare del problema meridionale, an-che se non nelle medesime forme e proporzioni del passato, e, strettamente connessi, il nostro compito pastorale e la responsabilità morale per le Chiese che sono in Italia. A ciò si aggiunge la consapevolezza della travagliata fase economi-ca che anche il nostro Paese sta attraversando. Questi fattori si coniugano con una trasformazio-ne politico-istituzionale, che ha nel federalismo un punto nevralgico, e con un’evoluzione socio-culturale, in cui si combinano il crescente plurali-

smo delle opzioni ideali ed etiche e l’inserimento di nuove presenze etnico-religiose per effetto dei fenomeni migratori. Non si può, infine, tralascia-re la trasformazione della religiosità degli italiani che, pur conservando un carattere popolare, for-temente radicato soprattutto nel Sud, conosce processi di erosione per effetto di correnti di se-colarizzazione. Affrontare la questione meridio-nale diventa in tale maniera un modo per dire una parola incisiva sull’Italia di oggi e sul cammino delle nostre Chiese.

Tanti sono gli aspetti che si impongono all’at-tenzione: anzitutto il richiamo alla necessaria so-lidarietà nazionale, alla critica coraggiosa delle deficienze, alla necessità di far crescere il senso civico di tutta la popolazione, all’urgenza di su-

3 Secondo le parole di Benedetto XVI, nella Lettera en-ciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009, il bene comune è «il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte del-la comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene» (n. 7).

perare le inadeguatezze presenti nelle classi diri-genti. Questi aspetti rendono difficile farsi carico della responsabilità di essere soggetto del proprio sviluppo. Sul versante pastorale, vogliamo anche cogliere l’occasione per incoraggiare le comunità stesse, affinché continuino a essere luoghi esem-plari di nuovi rapporti interpersonali e fermento di una società rinnovata, ambienti in cui crescono veri credenti e buoni cittadini. A richiamare, poi, la nostra attenzione – e non per ultime – sono le molteplici potenzialità delle regioni meridionali, che hanno contribuito allo sviluppo del Nord e che, soprattutto grazie ai giovani, rappresentano

uno dei bacini più promettenti per la crescita dell’intero Paese.

Facciamo appello alle non poche risorse presenti nelle popolazioni e nelle comunità ecclesiali del Sud, a una volontà autonoma di riscatto, alla necessità di contare sulle pro-prie forze come condizione insostitu-ibile per valorizzare tutte le espres-sioni di solidarietà che devono pro-venire dall’Italia intera nell’articola-zione di una sussidiarietà organica. La prospettiva della condivisione e

dell’impegno educativo diventa in questa ottica l’unica veramente credibile ed efficace. […]

Il mezzogiorno alle presecon vecchie e nuove emergenzeChe cosa è cambiato in venti anni

[…] Profondi cambiamenti hanno segnato in questi ultimi venti anni il quadro generale in-ternazionale, nazionale e anche quello del Mez-zogiorno.

In Italia, è cambiata la geografia politica, con la scomparsa di alcuni partiti e la nascita di nuo-ve formazioni. È pure mutato il sistema di rap-presentanza nel governo dei comuni, delle pro-vince e delle regioni, con l’elezione diretta dei rispettivi amministratori. L’avvio di un processo di privatizzazioni delle imprese pubbliche, il ve-nir meno del sistema delle partecipazioni statali e la fine dell’intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno, di cui non vogliamo dimentica-re gli aspetti positivi, hanno determinato nuovi scenari economici.

È cambiato il rapporto con le sponde orien-tali e meridionali del Mediterraneo. La massiccia immigrazione dall’Europa dell’Est, dall’Africa e dall’Asia ha reso urgenti nuove forme di solidarie-tà. Molto spesso proprio il Sud è il primo approdo

per un paese solIdale. chIesa ItalIana e MezzogIorno

Documentodell’Episcopato italiano

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28 29della speranza per migliaia di immigrati e costituisce il labo-ratorio ecclesiale in cui si ten-ta, dopo aver assicurato acco-glienza, soccorso e ospitalità, un discernimento cristiano, un percorso di giustizia e promo-zione umana e un incontro con le religioni professate dagli im-migrati e dai profughi4.

Il contrastato e complesso fenomeno della globalizzazione dei mercati ha portato benefici ma ha anche rafforzato egoi-smi economici legati a un rap-porto rigido tra costi e ricavi, mutando profondamente la geografia economica del pia-neta e accrescendo la compe-tizione sui mercati internazio-nali. Infine, con l’allargamento dell’Unione Europea, si sono dovuti riequilibrare gli aiuti, prevedendo finanziamenti in favore di nuove zone anch’es-se deboli e depresse.

La Chiesa non ha mancato di seguire con attenzione que-sti cambiamenti. Essa si sen-te chiamata a discernere, alla luce della sua dottrina socia-le, queste dinamiche storiche e sociali, consapevole della necessità di raccogliere con responsabilità le sfide che la globalizzazione presenta5.

Il Vangelo ci indica la via del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37): per i discepoli di Cristo la scelta preferenzia-le per i poveri significa aprirsi con generosità alla forza di li-bertà e di liberazione che lo Spirito continuamente ci dona, nella Parola e nell’Eucaristia.

Uno sviluppo bloccatoLa complessa e contraddittoria ristrutturazione

delle relazioni tra le istituzioni nazionali e il merca-

4 Cfr Conferenza episCopale siCiliana – faColtà teologiCa di siCi-lia, Per un discernimento cristiano sull’Islam, Palermo 2004.

5 Cfr giovanni paolo ii, Lettera enciclica Centesimus annus, 1° maggio 1991, nn. 22-29. Cfr anche Caritas in veritate, n. 37.

to non ha interrotto le politiche di aiuti per il Sud, veicolate attraverso nuovi strumenti e competen-ze a livello locale, soprattutto regionale, anche se resta da verificare se e come queste risorse siano state effettivamente utilizzate. Con rinnovata ur-genza si pone la necessità di ripensare e rilanciare le politiche di intervento, con attenzione effettiva ai «portatori di interessi»6, in particolare i più de-boli, al fine di generare iniziative auto-propulsive di

6 Ib., n. 40.

sviluppo, realmente inclusive, con la consapevolezza che «sia il mercato che la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco»7, di una cultura politica che nutra l’attività degli amministratori di visioni ade-guate e di solidi orizzonti etici per il servizio al bene comune. Il cambiamento istituzionale provocato dall’elezione diret-ta dei sindaci, dei presidenti delle province e delle regioni, non ha scardinato meccanismi perversi o semplicemente mal-sani nell’amministrazione della cosa pubblica, né ha prodotto quei benefici che una demo-crazia più diretta nella gestio-ne del territorio avrebbe au-spicato. Accenti di particolare gravità ha assunto la questio-ne ecologica: nel quadro del-lo stravolgimento del mondo dell’agricoltura, sono progres-sivamente venute alla luce for-me di sfruttamento del territo-rio che, come dimostra il feno-meno delle ecomafie, spingo-no con evidenza a prendere in considerazione, in tutti i suoi aspetti, l’«ecologia umana»8. La globalizzazione, poi, veden-do accresciuta la competizio-ne sui mercati internazionali, ha messo ancor più a nudo la fragilità del territorio, anche solo a motivo dell’allocazione delle industrie o comunque dei modelli economici adottati.Il complesso panorama politico ed economico nazionale e in-

ternazionale – aggravato da una crisi che non si lascia facilmente descrivere e circoscrivere – ha fatto crescere l’egoismo, individuale e corporati-vo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzio-ne delle risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo. […]

7 Ib., n. 39.

8 Ib., n. 97.

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28 29Europa e Mediterraneo

[…] In questo processo di incompiuta mo-dernizzazione, il Mezzogiorno – collocato all’in-crocio tra l’Europa e il Mediterraneo – si è tro-vato fortemente sollecitato dal già menzionato fenomeno della globalizzazione9. L’allargamento dell’Unione europea ha posto il Mezzogiorno di fronte a nuove opportunità ma anche a rischi inediti: da un lato, ha permesso l’accesso a ca-nali finanziari e commerciali più ampi, dall’altro ha accresciuto la concorrenza, a causa dell’in-gresso massiccio di Stati a basso reddito medio, più attraenti per le imprese in ragione del minor costo della manodopera.

Purtroppo i dati statistici mostrano che il Mezzogiorno non coglie gran parte delle nuove opportunità per una scarsa capacità progettua-le, una ancor più bassa capacità di mandare a effetto i progetti e mantenere in vita le nuove realizzazioni e, comunque, una radicale fragilità del suo tessuto sociale, culturale ed economico e, non per ultimo, la frequente mancanza di si-curezza. Eppure le sue vaste risorse, tuttora non valorizzate, potrebbero diventare opportunità di sviluppo nel grande mercato europeo, aprendo maggiori possibilità di sbocco per le imprese meridionali e promuovendo una nuova centrali-tà geografica del Mediterraneo.

Università e centri di ricerca, come anche im-prese ed entità amministrative, hanno già stabi-lito in questi anni una serie di rapporti con realtà rivierasche affini sia europee sia nord-africane, in un confronto di modelli culturali, sociali ed econo-mici tendenti a costruire una sorta di cittadinanza “aperta”, che può realizzarsi intorno al comune denominatore del Mediterraneo.

In questa ottica, esso accentua la centrali-tà del Mezzogiorno per la movimentazione del-le persone e delle merci provenienti dal Medio Oriente e dagli altri Paesi asiatici. Le nuove po-tenzialità di sviluppo diventano, così, occasioni concrete, soprattutto se accresciute dalle neces-sarie infrastrutture, anche per innescare effetti moltiplicativi sul territorio in termini di reddito e di investimenti. Possiamo pertanto considerare quella del Mediterraneo una vera e propria op-zione strategica per il Mezzogiorno e per tutto il Paese, inserito nel cammino europeo e aperto al mondo globalizzato.

9 Cfr Caritas in veritate, n. 57.

Per un federalismo solidale«Il principio di sussidiarietà va mantenuto

strettamente connesso con il principio di soli-darietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo so-ciale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo»10. La prospettiva di riarticolare l’assetto del Paese in senso federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo accentuasse la distanza tra le diverse parti d’Italia.

Potrebbe invece rappresentare un passo verso una democrazia sostanziale, se riuscisse a contemperare il riconoscimento al merito di chi opera con dedizione e correttezza all’interno di un “gioco di squadra”. Un tale federalismo, soli-dale, realistico e unitario, rafforzerebbe l’unità del Paese, rinnovando il modo di concorrervi da parte delle diverse realtà regionali, nella consa-pevolezza dell’interdipendenza crescente in un mondo globalizzato. Ci è congeniale considerarlo come una modalità istituzionale atta a realizza-re una più moderna organizzazione e ripartizio-ne dei poteri e delle risorse, secondo la sempre valida visione regionalistica di don Luigi Sturzo e di Aldo Moro.

Un sano federalismo, a sua volta, rappresen-terebbe una sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio, se riuscisse a stimo-lare una spinta virtuosa nel bonificare il sistema dei rapporti sociali, soprattutto attraverso l’azio-ne dei governi regionali e municipali, nel rendersi direttamente responsabili della qualità dei servizi erogati ai cittadini, agendo sulla gestione della leva fiscale. Tuttavia, la corretta applicazione del federalismo fiscale non sarà sufficiente a porre rimedio al divario nel livello dei redditi, nell’occu-pazione, nelle dotazioni produttive, infrastruttu-rali e civili. Sul piano nazionale, sarà necessario un sistema integrato di investimenti pubblici e privati, con un’attenzione verso le infrastrutture, la lotta alla criminalità e l’integrazione sociale. L’impegno dello Stato deve rimanere intatto nei confronti dei diritti fondamentali delle persone, perequando le risorse, per evitare che si creino di fatto diritti di cittadinanza differenziati a se-conda dell’appartenenza regionale.

In questo senso, l’imminente ricorrenza del centocinquantesimo anniversario dell’unità na-zionale ci ricorda che la solidarietà, unita alla sussidiarietà, è una grande ricchezza per tut-

10 Ib., n. 58.

ti gli italiani, oltre che un beneficio e un valore per l’intera Europa11. Proprio per non perpetua-re un approccio assistenzialistico alle difficoltà del Meridione, occorre promuovere la necessa-ria solidarietà nazionale e lo scambio di uomini, idee e risorse tra le diverse parti del Paese. Un Mezzogiorno umiliato impoverisce e rende più piccola tutta l’Italia. […]

11 Cfr giovanni paolo ii, Discorso al Parlamento italiano in seduta pubblica comune, 14 novembre 2002.

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30 31

La difficile congiuntura ha avuto, tra i vari effetti, quello di mettere per l’en-nesima volta in luce lo squi-librio che esiste nel nostro paese tra un sistema im-prenditoriale che non per-de occasione di palesare,

anche nei momenti più critici, la sua intrinseca ro-bustezza e solidità, ed un sistema pubblico che, al contrario, non riesce a superare limiti di funziona-lità e di efficienza in cui versa da anni.

E ciò non solo e non tanto, con riferimento alla capacità di trovare rapide ed adeguate risposte alle esigenze che di volta in volta provengono dal corpo sociale. Ma soprat tutto nel creare quelle condizioni di contesto indispensabili a che, anche in una situa zione di emergenza, l’iniziati-va privata possa essere sviluppata e sostenuta.

Non è un caso pertanto che pro-prio in una situazione critica, quale quella in cui versa l’intero sistema economico mondiale, il tema della riforma della Pubblica Ammini strazione ritorni prepotentemente alla ribalta. Perché è evidente ormai che l’uscita dalla crisi, la stabilizzazione dei processi di ripresa e il recupero di competitività, di cui il sistema Paese ha bisogno, non possano più prescindere dall’eliminazione di quel handicap strutturale rappresentato da un sistema ammini-strativo inefficiente, ngombrante e costoso.

Un sistema che si traduce per le imprese in un costo invisibile estremamente eleva to, tanto più in un mercato globalizzato, che se da un lato ren-de più conveniente e facile l’accesso alle “risorse mobili”, ai fattori della produzione (materie prime, lavoro, semilavorati, professionalità vengono ac-quistati dove il loro prezzo è più conveniente, in ogni parte del mondo) dall’altro vede crescere la rilevanza dei fattori “immobili”, dei contesti rego-lativi e funzionali in cui operano le aziende: le uni-che risorse che sfuggono a logiche di concorrenza e che, diversamente dalle altre, rappresentano un costo fisso su cui queste non sono minimamente in grado di incidere.

Il tema del rapporto tra imprese e Pubblica Amministrazione si conferma pertanto come un punto di snodo sempre più decisivo, ancora di più in quei contesti, come è il Mezzogiorno d’Ita-lia, caratterizzati da una cronica carenza sot-to il profilo della pre senza e del funzionamento

della macchina amministrativa, che tanta parte ha avuto nel condizionare i processi di crescita e di sviluppo.

È indicativo da questo punto di vista quanto emerso dall’indagine condotta dal Censis nei mesi di novembre e dicembre presso circa 100 referen-ti del sistema Confindustria-Mezzogiorno, che in-dividuano proprio nell’inefficienza della Pubblica Ammini strazione e nella carenza di infrastrutture che questa stessa ha prodotto negli anni, il prin-cipale motivo del gap di competitività che sepa-ra le regioni del Sud da quelle del Nord (la pensa

così il 64,2% degli intervistati).Si tratta peraltro di una dimensione, quel-

la di inefficienza, che appare, almeno agli occhi di quanti giornalmente si trovano a confrontarsi con le problematiche che pro duce, difficilmente comprimibile.

Perché congenita al sistema, considerato che oltre la metà del campione ne indivi dua la ragio-ne profonda non tanto nella carenza di risorse economiche o di investi menti nel Mezzogiorno, di innovazione, o in una presunta “peggiore qua-lità” del per sonale pubblico, quanto nella perva-sività delle logiche clientelari che governano il rapporto tra pubblico e privato, tra istituzioni e società (51,1%).

Perché trasversale alle tante e diverse di-mensioni di intervento della sfera pubblica: dal funzionamento degli sportelli sul territorio, siano questi nazionali o locali, all’ero gazione dei servi-zi pubblici essenziali, dal cattivo funzionamento del sistema giudi ziario alla tutela della sicurezza, è impossibile individuare un ambito in cui l’opera-to del soggetto pubblico venga giudicato sostan-zialmente positivo.

Basti a titolo esemplificativo, considera-re che:

“solo” il 7,5% degli intervistati considera buo-no il funzionamento degli uffici am ministrativi sul proprio territorio mentre il 47,9% lo giudica insuf-ficiente, e il re stante 44,7% scarso;

“solo” il 13,3% da una valutazione positiva del funzionamento del sistema giusti zia;

il 72% considera insufficiente (46,2%) o scarsa (25,8%) la copertura e la qualità de ser-vizi pubblici sul territorio. Le maggiori carenze, in termini di copertura, vengo no segnalate sul fronte dei servizi alle imprese – logistica e aree attrez-

zate – ma anche dei servizi di smal-timento rifiuti (giudica molto carente la copertura del servizio il 22,6% e insufficiente il 35,5%) e il trasporto pubblico locale.

Peraltro, la situazione non sem-bra destinata a migliorare, conside-rato che negl ultimi anni, malgrado i tentativi di riforma, a dire il vero più annunciati che praticati, il livello complessivo dell’offerta dei servizi pubblici non è migliorato, registran-do semmai – queste almeno sono le

percezioni dei referenti – indicazioni di segno del tutto contrario.

Cara PA: al Sud di piùÈ comunque indubbio che laddove migliora-

menti ci sono stati, questi sono dovuti in misura prevalente all’introduzione di nuove tecnologie, all’innovazione, ovvero all’in dividuazione di so-luzioni in grado di ridurre quanto più possibile i margini di discre zionalità nell’operato dei pub-blici uffici.

Ovviamente, se all’interno del corpo impren-ditoriale sembra prevalere un sentiment di con-sapevole accettazione rispetto all’incapacità del sistema pubblico di produrre dall’interno quei cambiamenti attesi da tempo, che pure potreb-bero contribuire a mi gliorare significativamente la qualità della vita di cittadini ed imprese, dall’al-tro canto, emerge con altrettanta forza e deter-minazione la difficoltà di sopportazione di tutta una serie di ostacoli, incombenze, impedimenti che si frappongono quotidianamente al corretto svolgimento dell’attività imprenditoriale.

Il rapporto con la burocrazia, e con gli uffi-ci preposti al suo esercizio, rappresentano da questo punto di vista forse la principale area di criticità.

Lungaggini burocratiche in primis (lo indi-ca come aspetto più critico nel disbrigo degli

CONfINDUSTRIA

IL SUDAIUTA IL SUD

Bari, 19 febbraio 2010Cara P.A.: al Sud di più. Il peso della P.A. nell’economia delle imprese meridionali

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30 31adempimenti amministrativi il 71,3% degli in-tervistati), ma anche scarso coor dinamento tra uffici (55,3%), eccessiva complessità degli iter amministrativi (36,2%), ncompetenza del perso-nale (26,6%), sono il costo invisibile che le im-prese sostengo no quotidia-namente nel loro rapporto con la P.A..

Un costo che, stando alla stima effettuata dagli stessi intervistati, incide sul-le uscite complessive delle aziende per il 24,2%, consi-derati gli esborsi, le risorse impiegate per il disbrigo del-le pratiche, e i costi aggiun-tivi derivanti dalle disfunzio-nalità de pubblici uffici.

L’altra grande area di emergenza segnalata dalle imprese, riguarda invece, la dimen sione del contesto in cui queste stesse si trovano ad operare, caratterizzato dalla presenza di forme di illegalità diffusa che conti-nuano a rappresentare per le aziende del Mezzogior-no un dazio sempre più in-sostenibile. Stando ancora alle stime indicate dagli in-tervistati, sono circa il 30% le imprese del Mezzogior-no, soggette ad una qual che forma di influenza da parte della criminalità organizzata: influenza che, se a li vello di azienda si traduce in un ag-gravio di costi (il 19,4% indi-ca tale aspetto come princi-pale conseguenza della pre-senza di un tessuto crimino-so nel territorio), e nel con-dizionamento delle scelte di mercato – fornitori, lavora-tori, clienti – (indica l’item il 18,3%), nel complesso pro-duce effetti su tutto il tessu-to economico-produttivo del Mezzogiorno, penalizzando non solo la crescita degli investimenti sul territorio (32,4%), ma più in generale disincentivando quella voglia di fare impresa, che è stata e continua ad essere il prin-cipale volano di crescita del Paese (29,4%).

Riprendere in mano la questione Sud Italia, significa oggi pertanto affrontare con de cisione quello che costituisce da sempre uno dei mali del Mezzogiorno, ovvero le ca renze di un siste-ma pubblico che è stato negli anni incapace di

stimolare un processo di crescita economica e sociale.

Facendo in modo, soprattutto nella delica-ta fase di passaggio che attende la gran parte delle imprese, che le Pubbliche Amministrazioni,

svolgano attraverso il neces sario e non più pro-crastinabile recupero di efficienza, quel ruolo di promotore dello sviluppo, rendendo possibile e favorendo il corretto svolgimento dell’attivi-tà impren ditoriale e lo sviluppo di un contesto

in cui aziende e i cittadini possano muoversi in libertà e sicurezza.

Un passaggio forse epo-cale, ma dal quale non si può più prescindere e su cui oc-corre iniziare a lavorare, mettendo mano a quegli in-terventi, concreti ed attua-bili anche nel breve perio-do, in grado di promuovere dal di dentro i cambiamen-ti attesi.

Da questo punto di vi-sta, le indicazioni che pro-vengono dal territorio sem-brano muo versi su due stra-de parallele.

Da un lato, in direzione di un innalzamento del livel-lo di sicurezza dei contesti in cui operano le imprese, che oggi si vedono sottrarre quote significative di profit-to, a van taggio della perma-nenza di una dimensione di illegalità, che rappresenta di certo il principale ostacolo allo sviluppo economico e produttivo del Sud Italia.

Dall’altro lato, promuo-vendo tutti quei meccani-smi che, dall’innovazione tramite l’in troduzione di nuove tecnologie di comu-nicazione con i pubblici uf-fici, ad una più ge nerale semplificazione degli adem-pimenti in capo alle impre-se, fino all’individuazio ne di automatismi nell’erogazio-ne di incentivi o rilascio di certificati, siano in grado di favorire un rapporto sempre

più diretto ma soprattutto trasparente tra imprese e pubbliche amministrazioni, utile forse a ridurre quegli spazi “oscuri” di scambio e contrattazione che tanto hanno pesato e continuano ad influire sul ritardo di tutto il sistema.

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Corsi master per neolaureati, per facilitarne un inserimento qualificato nel mondo del lavoroMDGI - Master in Direzione e Gestione di Impresa MILD - Master in International and Local DevelopmentHRM - Master in Human Resource Management CUMA - Master in Cultural Management MAM - Master in Auditing & Managerial accounting

Corsi master executive per Imprese (EMBA) e Pubbliche Amministrazioni (EMPM) per accompagnare lo sviluppo di carriera delle alte professionalità, dei dirigenti, dei knowledge worker

STOA’ School of Management del Sud,con una vocazione internazionale

STOA’ è tra le prime Business School italiane, con oltre 2000 giovani diplomati master con un tasso di occupazione del 90% in posizioni di prestigio e 8000 dirigenti, imprenditori, dipendenti pubblici e privati che hanno rafforzato le proprie competenze manageriali.

STOA’ - Istituto di Studi per la Direzione e Gestione di ImpresaVilla Campolieto - Corso Resina, 283 - 80056 Ercolano (NA)tel. +39 081 7882111 - fax +39 081 [email protected] - www.stoa.it

Formazione e assistenza agli Enti Locali, alla Pubblica Amministrazione, alle aziende di Servizi Pubblici Locali nei loro processi di innovazione e ammodernamento, sostenendoli nel ruolo di operatori di sviluppo economico e sociale del territorio

Formazione e consulenza alle Imprese nell’implementazione di progetti di sviluppo e innovazione di processo/prodotto

Diffusione e divulgazione di cultura manageriale attraverso ricerche, eventi, seminari e occasioni di apprendimento sviluppate anche in modalità on-line

Sul modello delle più importanti School of Management, STOA’ realizza:

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35

Il gioco delle statistiche è una tentazione trop-po forte perché – soprattutto chi ha una respon-sabilità di governo da difendere – non sia tentato di farvi ricorso più del dovuto.

In questo tormentato periodo dell’economia italiana capita perciò, sempre più spesso, che appena si può far leva su qualche indice che mo-stra un’oscillazione di segno positivo, si scatena la pioggia di dichiarazioni del tipo: “Il peggio è alle nostre spalle”; “Vediamo già la luce in fondo al tunnel” e via di questo tono.

Ma si tratta, purtroppo, di affermazioni che rischiano solo di alimentare pericolose illusio-ni e che, soprattutto, si rivelano di respiro as-sai corto.

Quando, nei giorni scorsi, si sono tirate le somme dell’intero 2009, infatti, si è accertato che la recessione in Italia si è tradotta in una contra-zione del 4,9 % del prodotto interno lordo.

Si tratta del dato peggiore che il nostro Paese ha conseguito dal lontano 1971 ed è largamente inferiore a quello, già di per sé molto negativo, raggiunto dalla media degli Stati ade-renti all’Unione Europea (-4%).

Anche i risultati dell’ultimo tri-mestre dello scorso anno rispetto a quelli dei tre mesi precedenti(che se-gnalano l’Italia, con la Grecia, in coda rispetto ai partner continentali), han-no contribuito a spazzare bruscamente via tutti gli ottimismi di maniera fat-ti, con troppa superficialità, circolare da più parti.

Del resto le ricorrenti turbolenze dei mercati internazionali e i segna-li inquietanti provenienti, nelle ulti-me settimane, da Paesi come Grecia, Spagna e Portogallo hanno dimostrato che è l’intero contesto della congiun-tura continentale ad essere dominata dalla fragilità.

Ci si deve dunque chiedere se, a meritare davvero la triste definizione di annus horribilis non sarà alla fine il 2009, da molti già in questo modo bollato, ma invece quello che stiamo vivendo.

Per scongiurare un simile rischio, oltre che agli andamenti statistici, è al manifestarsi di vicende concrete, anche molto diverse fra loro, che con-viene, anche in Italia, prestare attenzione.

A cominciare non solo dai casi che investono aree specifiche (come Rosario in Calabria) o gran-di impianti (come, per esempio, la Fiat a Termini Imerese o la Lucchini a Piombino) o, ancora, le scelte di abbandono dell’Italia, da parte di multi-nazionali come l’ Alcoa, da tempo presente specie in Sardegna, o la Glaxo, in procinto di chiudere il grande centro di ricerche a Verona.

È altrettanto importante mettere a fuoco an-che lo stillicidio di crisi che, senza provocare titoli da prima pagina, continua però inesorabilmente a colpire piccole imprese, esercizi commerciali e attività professionali.

Si vedrà allora che, per condurre un esame ac-curato della condizione attuale, conviene ricorrere a una maggior dose di rigore e di onestà intellet-tuale e adottare un linguaggio ben diverso. Che non è, di sicuro, quello di un catastrofismo fine a

se stesso, che risulterebbe solo sterile, ma quel-lo, piuttosto, che mira a definire i contorni della realtà che abbiamo davanti in tutta la loro innega-bile durezza, quindi senza sminuire la portata del-le tante incognite che gravano sul nostro futuro.

Chi sceglie questo, ad avviso di chi scrive,più appropriato approccio muove – in grande sinte-si – da tre considerazioni.

La ripresa produttiva, pur visibile in molte aree del mondo dopo il dilagare della crisi a partire dall’autunno del 2008, è basata, essenzialmente, sullo slancio del “Bric”, di quei Paesi cioè (Brasile, Russia, India e Cina) che sono ormai protagonisti dell’economia del nuovo secolo. È vero che segni di vitalità vengono anche da altre realtà, ma si tratta di processi, come negli Stati Uniti, prevalen-temente legati al processo di ricostituzione delle scorte e di entità assolutamente più limitata.

Per quanto riguarda, poi, l’Italia occorre no-tare come il suo trend recupero sia significativa-mente più lento rispetto a quello di altri Paesi europei, a cominciare da Francia e Germania e in

questo pesa la sempre più drammatica condizione del Mezzogiorno.

Infine – ed è l’aspetto più preoc-cupante – se di ripresa, sia pure lenta e fragile, si può parlare anche in Italia, si tratta di un andamento nel quale si riducono in modo pesante le prospet-tive di rilancio dell’occupazione.

“Il sentiero della ripresa resta ac-cidentato e diseguale”, rileva secca-mente, nella sua analisi di gennaio, il Centro studi di Confindustria che aggiunge un dato che fa riflettere: se si includono fra i disoccupati anche l’equivalente di forza lavoro delle ore erogate dalla Cassa Integrazione gua-dagni, il tasso della disoccupazione in Italia torna, dopo molti anni, sopra le due cifre: al 10,1 per cento.

Si tratta, del resto, di quel “con-cetto ampio” della forza lavoro inuti-lizzata, suggerito dalla Banca d’Italia in una sua analisi apparsa sul “Bol-lettino Economico” sempre del gen-naio scorso.

i convegni promossi a napoli e milano dall’associazione degli ex parlamentari

I l l a v o R o C o m E E l E m E n t o P o R t a n t E dElla REPUBBlICa E fattoRE dI svIlUPPo dEl PaEsE | Antonio Duva

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36In quel testo si osservava che, “per valuta-

re compiutamente il grado di utilizzo della forza lavoro disponibile” appariva opportuno aggiun-gere ai disoccupati e ai lavoratori in Cig anche “le persone “scoraggiate” ovvero coloro che non cercano attivamente un impiego e sono quindi esclusi dal conteggio ufficiale dei disoccupati, pur avendo una probabilità di trovarlo analoga a quella di questi ultimi”.

Si potrà pure polemizzare, come ha fatto qualche ministro, sulle basi teoriche di questo criterio, ma è un fatto che esso fornisce una spiegazione assai convincente della persistente debolezza dei consumi e della fiacchezza della domanda interna: la situazione del mercato del lavoro incide pesantemente sulla propensione alla spesa.

La crisi, originata da fattori legati prevalen-temente alla finanza (versante sul quale si è poi conseguita una relativa stabilizzazione del siste-ma), appare insomma destinata a incidere via via più pesantemente sull’economia reale.

È quindi questo il fronte oggi esposto alle mi-nacce più gravi come documentano due dati.

Per un verso, il calo record della produzio-ne industriale. Nel 2009 esso è stato del 17,4 per cento: la contrazione più pesante registra-ta dal 1990.

Per l’altro, l’impoverimento evidente delle famiglie.

Anche in questo caso è la Banca d’Italia, con la sua più recente rilevazione, a fornire le cifre: nel biennio 2006-2008 (quindi già prima del ma-nifestarsi della crisi) si era avuta una contrazio-ne dei bilanci familiari pari al 4% in termini reali e al 2, 6 % se si tiene conto del cambiamento di composizione dei nuclei familiari. E, anche in questo caso, il termine temporale di riferimento più vicino è di quasi vent’anni. Un calo di reddi-to di entità analoga era stato infatti registrato solo in occasione della precedente recessione del 1991-1993.

Dunque affrontare sul serio il nesso:” con-sumi-occupazione” appare decisivo per una pro-spettiva di solida ripresa del Paese.

Lo ha sottolineato con particolare incisività il Governatore della Banca d’Italia nel suo inter-vento all’assemblea del Forex, svoltasi a Napoli il 13 febbraio.

“In Italia lo scorso anno il prodotto è dimi-nuito di quasi il 5 per cento. Se ne prevede un recupero lento, con ampie incertezze, legate in particolare agli andamenti del ciclo internazionale e alle condizioni del mercato del lavoro”, ha sotto-

lineato Mario Draghi. Secondo la sua analisi sono l’ andamento dell’occupazione e gli effetti che il rischio di perdere il reddito da lavoro provoca sui consumi a costituire una remora pesante alle pro-spettive di rilancio dell’economia reale.

“Alla fine del 2009 – continua il Governa-tore – vi erano in Italia oltre 600mila occupati in meno rispetto al massimo del luglio 2008. La quota di popolazione potenzialmente attiva che è, al momento forzata e inoperosa, è elevata e crescente”.

È positivo, secondo Draghi, che la rete di protezione sociale sia stata di recente estesa “così da arginare disoccupazione e abbandono sociale”.

Del resto, ha ricordato in un recente con-vegno a Milano il presidente di Assolombarda Alberto Meomartini, è proprio grazie al ricorso alla Cassa integrazione guadagni (con lo stra-tosferico incremento del 1400% nel regime or-dinario e con quello, altrettanto imponente, del 500% nel regime straordinario) che sono stati “salvati”posti di lavoro stimabili nel numero di un milione.

È facile immaginare quale sarebbe il clima so-ciale del Paese se ciò non fosse avvenuto.

Ma è un fatto che le misure di rafforzamen-to della Cig sono state assunte, come rimar-ca Draghi, al di fuori di una revisione organica di questo strumento (senza perciò tener conto adeguatamente delle trasformazioni che hanno segnato il mercato del lavoro nel corso degli ul-timi lustri); ne consegue, sempre secondo la sua analisi, che”finché la flessione dell’occupazione non s’inverte permane il rischio di ripercussioni sui consumi, quindi sul prodotto”.

Se ne deve concludere che il lavoro, tanto nel suo ruolo di fattore di crescita della società che nel suo rapporto con le scelte di natura produtti-va, si rivela, in questa drammatica fase della no-stra storia, più che mai centrale e decisivo.

Proprio partendo da questa convinzione l’ Associazione degli ex Parlamentari ha deciso di avviare, sin dall’autunno scorso, una riflessione approfondita su questi temi.

È un impegno che ha preso corpo, in una pri-ma fase, con due convegni, promossi Comitato campano e da quello lombardo dell’Associazione. Vi è poi l’obiettivo di giungere a una sintesi della indicazioni sin qui emerse da portare al confronto con le parti sociali e con le forze politiche.

A Napoli, dove il convegno si è svolto il 7 no-vembre, sono stati l’allarme per la condizione del Mezzogiorno, le distorsioni indotte nel mercato

dal lavoro “nero” e il peso della criminalità in mol-te aree e settori produttivi, ad essere soprattut-to al centro del dibattito, introdotto da un’analisi di Andrea Geremicca e da approfondite relazioni svolte da studiosi autorevoli quali Carlo Dell’Arin-ga, Enrico Pugliese e Mario Rusciano.

A Milano invece è stato l’aspetto della tra-sformazione produttiva e dei suoi riflessi sul mer-cato del lavoro quello su cui si è maggiormente concentrata l’attenzione degli intervenuti.

In particolare una relazione di Antonio Piz-zinato, dedicata alla Lombardia, ha consentito di misurare la profondità dei cambiamenti che hanno, in mezzo secolo, profondamente mutato cambiato la fisionomia economica e sociale del-la regione, secondo un percorso che non è stato tuttavia lineare.

“Nel 1951 si contavano circa 248mila unità locali e 1.700.000 addetti concentrati per oltre il 70% nell’industria”, ha ricordato l’ex Sottose-gretario al Lavoro.”Nel 2006 le unità locali erano poco meno di 900mila con oltre 3.600.000 addet-ti, ma di questi l’industria ne assorbiva meno del 30 per cento”.

In mezzo c’era stata una fase di forte espan-sione dell’industria manifatturiera e della fabbri-ca fordista (con un “picco” che, nel 1975, l’aveva portato a superare la soglia di 1.650.000 di addet-ti) alla quale ha poi fatto seguito un ventennio di costante contrazione, con la sempre più marcata prevalenza di terziario e servizi.

Tendenze già note e non limitate alla Lom-bardia, ma che colpiscono se ricordate con tanta precisione e ricchezza di dati.

È infatti l’entità di cifre così imponenti, scan-dite lungo l’arco di pochi decenni che dà la misura di quella che va considerata un’autentica rivolu-zione produttiva e sociale, un processo evoluti-vo profondo, non compreso tempestivamente in tutte le sue implicazioni da una classe dirigente troppo spesso distratta ed ora crudamente esa-sperato dall’irrompere della crisi.

Le trasformazioni che hanno segnato gli ultimi decenni – ha osservato Tiziano Treu in un saggio recente (“Italianieuropei”, settembre 2009 ) – incidono in modo non uniforme sul mon-do del lavoro, accentuano i tratti di dualismo già presenti nel nostro Paese, fra aree geografiche, fra gruppi di lavoratori e fra età della vita, nonché le distanze fra chi subisce le criticità presenti e chi può approfittare del nuovo contesto”.

Il peso di un’analisi troppo ancorata alla stagione delle grandi fabbriche, e del contesto operaio di massa che la loro esistenza alimen-

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37 37tava, ha portato gran parte della sinistra e del sindacato a una mancanza di attenzione, prima per la crescente realtà delle piccole imprese, portatrici di esigenze e aspettative specifiche, poi per l’espandersi delle attività legate alle professioni che un tempo si definivano “liberali” e alle nuove forme di lavoro diffuso, non a caso definito “atipiche”.

Ma è proprio da questi mondi che oggi, sot-to la spinta della crisi, si levano voci allarmate che reclamano attenzione con non meno urgen-za e legittimità di motivazioni di quelle che sono avanzate dai lavoratori dipendenti.

È la vasta platea delle “partite Iva” e delle microimprese, al confine fra fabbrica e studio professionale, che giornalisti attenti, come Da-rio Di Vico, stanno in questi mesi seguendo con particolare attenzione.

Emerge, in primo luogo, un’esigenza: quella di una ricomposizione di visione che faccia, con maggiore coerenza del passato, da sfondo a ini-ziative, robuste e non di mera cosmesi, da parte delle Istituzioni..

Rileva Treu, nello scritto citato più sopra,: “ le trasformazioni delle imprese e dei lavori sono rese ulteriormente complesse perché si somma-no a quelle del contesto familiare e sociale in cui i nuovi lavoratori operano”.

È l’Italia degli ultimi trent’anni, con le sue specifiche dinamiche (crescita del ruolo delle donne; mutata composi-zione delle famiglie; prolungamento della vita media; difficoltà crescenti per le nuove generazioni; esigenza più stringente di efficienza nel siste-ma educativo) a porre precise e non eludibili domande.

I rapporti fra la realtà del lavoro e questi fattori di contesto sono diven-tati, via via, sempre più influenti e in un rapporto biunivoco: non possono perciò essere considerati, come per troppo tempo è accaduto, poco rile-vanti ed oggetto di una valutazione separata e distante.

C’è, poi, un secondo elemento di ricomposizione sul quale Treu si sofferma.

È quello relativo alla necessità di creare: “una base di regolazione comune delle principali condizioni di lavoro, uno «zoccolo comune» riguar-dante tutte le forme di rapporti, com-presi quelli collocati nell’area grigia

del lavoro semi-autonomo e quelli facenti capo alle imprese piccole e medio-piccole”.

Si tratta di un compito davvero non sempli-ce e, tuttavia, non rinviabile in quanto è legato alla definizione di un plafond di diritti e di tutele che valga per tutti e che sia adeguato, dal punto di vista sociale, alla nuova realtà del lavoro e, al tempo stesso, economicamente sostenibile.

Anche in questo caso forze politiche e sociali scontano tanti ritardi colpevolmente accumulati (si pensi alla troppo volte rinviata riforma degli ammortizzatori sociali) che ora pesano dramma-ticamente.

Ma c’è una terza esigenza di ricomposizio-ne che, ad avviso di chi scrive, va pure presa in attenta considerazione: il rapporto fra politiche del lavoro e politiche per il lavoro.

Vi è stato un lungo periodo – dagli anni Settanta agli inizi degli anni Novanta – durante il quale il nostro Paese è stato prevalentemen-te caratterizzato da una fase di sviluppo senza occupazione.

A questa – anche per effetto di importanti modifiche legislative relative alla regolazione del mercato del lavoro – ha fatto seguito una fase di forte ripresa dell’occupazione.

Nel 2007 il tasso di occupazione italia-no(58,7%)si è avvicinata, pur restando nettamen-te inferiore, a quello dell’Europa a 15 (66,9%).

Ma tale evoluzione, senza dubbio positiva, ha avuto una contropartita pesante: si è trat-tato infatti di una svolta verso una occupazione senza sviluppo.

Inoltre, come mette in luce l’edizione aggior-nata del Rapporto Isfol, apparsa nel 2009, la re-lazione positiva che generalmente esiste tra fles-sibilità del lavoro e produttività, non ha trovato pienamente riscontro nel caso italiano.

Da noi infatti l’ impulso alla crescita dell’oc-cupazione è derivato prevalentemente dal ricor-so a contratti di lavoro di natura temporanea e la flessibilità ha mostrato la tendenza a deterio-rarsi in precarietà.

I contratti temporanei, d’altra parte, riguar-dando prevalentemente lavoratori “marginali”sul cui capitale umano le imprese risultano poco orientate a investire, hanno perciò prodotto uno scarso contributo in termini di produttività.

Vi è stato, in definitiva, un trade-off sicura-mente positivo per le imprese dal punto di vista del costo del lavoro (negli ultimi 15 anni le retri-buzioni per unità di lavoro hanno segnato pesan-temente il passo) mentre i livelli di produttività globale dell’economia non sono cresciuti e lo svi-luppo è risultato inferiore a quello potenziale: esito che, alla luce della crisi in atto, desta accentuate preoccupazioni.

Se si traccia un bilancio degli ultimi lustri si deve perciò affermare che se sul ver-sante della politica del lavoro sono stati colti, come si è ricordato prima, risultati importanti bisogna invece ri-conoscere che un elemento di grave debolezza è derivato dall’assenza di un raccordo efficace con un politica per il lavoro, cioè con un indirizzo atto a dare slancio ai fattori produttivi ed a consolidare, in una visione lungimi-rante, la struttura economica del Pae-se attraverso scelte basate su qualità e innovazione.

La crisi scoppiata a fine 2008 ha fatto insomma da detonatore a una situazione che da tempo era in incu-bazione.

Ora si tratta di ripartire: appare preferibile affrontare una congiuntu-ra, di per sé negativa, quale quella che stiamo vivendo, piuttosto che con una strategia di vista corta, basata esclusivamente su misure difensive, con una adeguata dose di ragionato coraggio.

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38Sarebbe assai utile che dal confronto pub-

blico, legato a un’assunzione di responsabilità collettiva, scaturissero pochi, ma netti, punti di riferimento.

Molte sono le analisi che, in proposito, l’esplodere della crisi ha suscitato fra gli studio-si e molte sono le occasioni di riflessione offer-te durante i recenti convegni di Napoli e Milano dell’Associazione ex Parlamentari.

A chi scrive le più convincenti appaiono quel-le che si cercherà di indicare di seguito, al netto della sommarietà implicita in una necessaria-mente grossolana sintesi.

In primo luogo occorre considerare che un tasso di sviluppo robusto – necessario all’Italia per reggere alla sfida competitiva del mondo del 21° secolo – può derivare soltanto da una cre-scita contemporanea tanto della produttività del lavoro quanto dell’occupazione “vera”.

È urgente perciò una ristrutturazione dell’ap-parato economico del Paese legata al rafforza-mento dei settori trainati dal progresso tecni-co e delle imprese sane in grado di stare sul mercato.

“Politica industriale”, in questa ottica, non può quindi essere considerato, come troppo spesso avvenuto negli ultimi anni, un termine deteriore e impronunciabile.

Non si tratta certo di tornare all’oscura stagione dello “Stato padrone” e dei “boiardi di Stato”.

Si tratta, invece, di riconoscere che cambia-menti così profondi della geografia industriale e commerciale del mondo e della struttura del mer-cato del lavoro italiano come quelli ai quali siamo di fronte esigono una riflessione radicale circa le vocazioni produttive del nostro Paese.

E che, di conseguenza, non è utile per nes-suno trastullarsi nel dibattito “incentivi sì- in-centivi no” e tanto meno fare dei finanziamenti pubblici (che, pur in assenza di una visione di politica industriale, sono continuati a fluire tan-to costantemente quanto disordinatamente) il mero campo di esercizio di un potere discrezio-nale ed opaco.

È corretto difendere il primato della politica se lo si correla all’esercizio di decisioni e respon-sabilità assunte democraticamente.

Si tratta quindi, da parte di chi governa, di chiamare imprese e forze sociali a un confronto serio e trasparente in base al quale decidere quali obiettivi – nel quadro europeo e mondiale – l’Ita-lia produttiva debba fondatamente perseguire. Su tale base diventerà plausibile fissare dimensioni

d’investimento e scelte d’indirizzo per il nostro apparato industriale che siano economicamente plausibili e socialmente accettabili.

In questo ambito se il salario non può cer-to essere trattato alla stregua di una “variabile indipendente”, l’occupazione, d’altra parte, non può essere considerata un elemento passivo o residuale.

Ma una rinnovata attenzione per la politi-ca industriale non recherebbe alcun vantaggio alla lotta contro la disoccupazione se non fosse accompagnata anche da un impegno a ristabili-re un corretto rapporto fra attività finanziarie e attività produttive.

Come molti economisti hanno rilevato è, in-fatti, proprio nell’eccesso di finanziarizzazione subita dall’industria e nella esasperazione dei processi di esternalizzazione da questo provoca-to che vanno ricercate le ragioni di fondo della cri-si scoppiata quasi due anni fa e le gravi ricadute che si sono prodotte sui livelli di occupazione.

Vi è poi un secondo punto sul quale è neces-saria chiarezza, ed è il Mezzogiorno.

A questo tema il presidente della Repubblica, Giorgio Napoletano, ha dedicato di recente – con il messaggio di Capodanno e non solo – analisi approfondite e richiami puntuali.

Ciò conforta la convinzione di quanti ritengo-no che, tanto più in una fase difficile dell’econo-mia mondiale, sia necessario avere un indirizzo netto in materia.

Nel dibattito pubblico emergono invece pe-riodicamente posizioni che mostrano di sottova-lutare la portata del dualismo che storicamente pesa sull’economia e sulla società italiane e la gravità della questione che ciò implica.

Il Mezzogiorno accusa ritardi e la sua clas-se dirigente ha compiuto errori che nessuno in-tende negare, né certo va nascosto quanto dura e pericolosa sia la stretta criminale su questa parte del Paese.

Ma, proprio per questo, occorre aver chiaro che sarebbe un tragico errore ritenere che, nel-la realtà globale nella quale siamo tutti immer-si, qualche pezzo d’Italia possa salvarsi nell’in-differenza per gli altri o, addirittura, per il fatto l’Italia vada in pezzi.

Al contrario – come ha ribadito un documen-to, sottoscritto presso la Svilez da un gruppo di autorevoli enti di cultura – per l’Italia appare de-cisivo il perseguimento, attraverso scelte pubbli-che appropriate, di un sempre maggiore livello di coesione a cominciare da una compiuta unifica-zione economica. Obiettivo che le vicende della

crisi in atto hanno reso sempre più drammatica-mente attuale.

L’ultimo punto da sottolineare, accanto al rilancio della politica industriale e all’attenzione per il Mezzogiorno, riguarda il lavoro.

Quale ruolo cioè questo fattore debba ave-re per contribuire a una ripresa che, per quanto riguarda l’Italia, è ben lontana dall’essersi con-cretizzata.

La convinzione di chi scrive è che esso vada considerato decisivo e centrale. Non solo perché l’aumento del tasso di occupazione costituisce un fattore rilevante di coesione sociale e attiva un meccanismo positivo sul versante della do-manda interna.

Ma per una ragione di più elevato profilo.Come ci ha ricordato Pierre Carniti presen-

tando la ricerca su “Il lavoro che cambia “, av-viata tre anni fa dal Cnel, nel proclamare che la Repubblica “è fondata sul lavoro”, i Costituenti hanno voluto affermare solennemente che essa si fonda sul dovere, che è anche un diritto per ogni persona, di esercitare la propria capacità di contribuire al bene comune.

È attraverso il lavoro che si diventa piena-mente partecipi del destino della società in cui si vive.

E, malgrado tanti aspetti del lavoro nel cor-so di più di sessant’anni siano profondamente cambiati, questo concetto è pienamente vali-do e attuale.

Anche oggi, infatti, il lavoro –sottolinea Car-niti – resta per tutti:” un elemento essenziale di identità, di appartenenza, di definizione di sé. In sostanza, continuiamo ad <essere> anche in rapporto a ciò che facciamo”.

Il lavoro resta in cima alle preoccupazioni sia di chi ce l’ha e teme di perderlo; sia di chi non lo ha e non riesce a trovarlo. Dunque attor-no al lavoro si concentra il massimo di attese dei cittadini.

Ma di quale lavoro parliamo? Anche qui la Costituzione offre un’indicazione precisa: di un lavoro del quale sia sempre riconosciuta la digni-tà e che, in ogni caso, si svolga in modo tale da non recare danno alla dignità umana.

Dunque il lavoro, elemento fondante della Repubblica, deve compiersi in un quadro di li-bertà, di dignità e di diritti: premessa necessa-ria affinché – soprattutto in una stagione di crisi qual è quella attuale – possano prendere corpo le speranze dei cittadini e siano poste basi dav-vero solide per lo sviluppo dell’economia e il mi-glioramento della società.

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In avvio di un invito alla lettura de “Il patto che ci lega” (Il Mulino, 2009), raccolta di una significativa selezione di discorsi, mes-saggi e interventi pronunciati dal Capo dello

Stato Giorgio Napolitano nel corso della prima metà del mandato presidenziale, può essere uti-le prendere le mosse dalla testimonianza – non compresa nel presente volume – resa alla ceri-monia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio. Nell’ambito di una rievoca-zione assai ricca, ove si rincorrono eventi e pro-tagonisti del nostro Novecento politico e cultura-le e scorrendo la quale al lettore viene restituita una ricostruzione vivida di uno spaccato della storia del nostro paese, trova posto – accanto a quella intellettuale e politica – anche una di-mensione istituzionale del discorso. Il Capo dello Stato si trattiene su una interpretazione per così dire “autentica” del proprio ruolo nel quadro del regime, parlamentare, vigente. “Tutti i miei pre-decessori – a cominciare, nel primo settennato, da Luigi Einaudi – avevano ciascuno la propria storia politica: sapevano, venendo eletti Capo dello Stato, di doverla e poterla non nascon-dere, ma trascendere. Così come ci sono stati Presidenti della Repubblica eletti in Parlamento da una maggioranza che coincideva con quella di governo, talvolta ristretta o ristrettissima, o da una maggioranza eterogenea, e contingente. Ma nessuno di loro se ne è fatto condizionare. Quella del Capo dello Stato “potere neutro”, al di sopra delle parti, fuori della mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazio-ne e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell’Oc-cidente democratico”.

Le istituzioni non sono fatte di finzioni né a lungo possono limitarsi a nutrirsi del senso di riverenza dei cittadini. Vivono di responsa-bilità, spirito di servizio e attenzione e cura per l’interesse generale. Questo altrimenti ineffa-bile interesse generale è, negli Stati retti da un ordinamento democratico, la Costituzione intesa appunto quale “patto che ci lega”, ed è in essa che il Presidente della Repubblica e le altre istituzioni politiche traggono poteri e limi-ti. Dovrebbero perciò assurgere il dovuto rilievo all’attenzione del lettore gli insistenti riferimenti che ritroverà di seguito, sulla scorta di ripetuti richiami del Capo dello Stato, al ruolo della po-litica, alla necessità di ritrovare la dignità per tornare all’altezza della propria insostituibile missione, all’invito rivolto ai partiti e segnata-mente alle loro classi dirigenti affinchè la loro insostituibilità non coincida con un deperimento

delle qualità democratiche del sistema ma, anzi, ad un rilancio della sua prosperità. Sistema dei partiti e capo dello Stato. Parte importante del-le “legature” – per richiamare una terminologia dahrendorfiana – di quel patto vengono custo-dite, o messe a repentaglio, proprio dall’operato dei partiti, svolto in prima persona ovvero trami-te le istituzioni rappresentative. Garante della preservazione di quelle legature, istituzionali e sociali, è in primo luogo il Capo dello Stato qua-le simbolo vivente dell’unità nazionale ed egli medesimo istituzione rappresentativa.

Per chiarire questa apparente contraddi-zione, conviene far cenno al risvolto positi-vo di quella neutralità definita dal Presidente Napolitano significativamente in termini priva-tivi e fortemente debitori della nota teoria con-stantiana (“Il vero interesse di questo capo non è affatto che uno dei poteri rovesci l’altro ma che tutti si sostengano, si intendano e agisca-no di certo”; “sta in mezzo, ma al di sopra degli altri quattro […] non ha interesse a disordinare l’equilibrio, ma al contrario ha ogni interesse a mantenerlo”, cit. da Principi di politica ). Ovve-ro l’esercizio concreto di una serie di poteri di grande delicatezza. Il Capo dello Stato rientra in effetti tra quel ristrettissimo novero di isti-tuzioni cui spetta di mettere in opera il circuito equilibratore della garanzia costituzionale, pur traendo origine, a differenza di altri poteri pre-senti nel nostro sistema (come la magistratura),

dal circuito dell’indirizzo politico. L’opinione pre-feribile, confermata del resto dall’operato anche dell’attuale Presidenza, ricollega la funzione del Capo dello Stato all’attuazione, allo sviluppo e alla preservazione della Costituzione intesa qua-le quadro di principi irrinunciabili prima ancora che insieme di disposizioni positivamente vigenti che ne sono semmai manifestazione (e neanche l’unica possibile). Di questa azione, che è insie-me di tutela e promozione, fa parte integrante il ruolo svolto al fine di operare una riconduzio-ne, per quanto possibile, del processo politico ai suddetti principi. Ora enfatizzando i poteri di impulso – tramite i quali emergerà nelle forme in cui appare possibile e opportuno una quale forma di indirizzo – ora quelli di freno e/o me-diazione – quale frutto di una istanza di controllo o raffreddamento del sistema – ma senza che né gli uni né gli altri possano prendere a lungo sopravvento senza trascinare questa stessa isti-tuzione in una crisi di identità che può tradursi o essere manifestazione di una crisi costituziona-le più complessiva. Sul piano della ricostruzione sintetica della figura, non è possibile, dunque operare alcuna reductio ad unum delle funzioni giacchè la figura, per volontà saggia del Costi-tuente, dotata di una versatilità che corrisponde precipuamente alla sua preminenza per onori e in un certo senso per funzioni rispetto ad altri orga-ni pur’essi qualificabili come “supremi”. L’elasti-cità dell’istituzione, diversamente interpretata, naturalmente, dai singoli presidenti e nei singoli contesti, appare utile a fornire quelle prestazioni di unità che il sistema costituzionale le richiede e giustifica, del resto, come nessuna delle più reiterate richieste o proposte di revisione della Costituzione attenga al ruolo della Presidenza per quel che fa (e non, invece, per il funziona-mento discutibile o patologico di altri spezzoni della forma di stato e di governo, che semmai rende ancora più incisivo il suo operato).

Non mancano, e non sono mai mancati, in verità, tentativi per caricare la funzione di com-piti e responsabilità improprie. Proprio in tal senso sembrano acquistare maggior rilievo le insistenze del Capo dello Stato sulla neutralità insita nella carica che, però, per essere sottrat-ta al rischio di essere qualificata alla stregua di una fictio iuris va correttamente compresa alla luce della logica di funzionamento complessivo del sistema. Il Capo dello stato viene insediato, inevitabilmente, da un voto di maggioranza che, non infrequentemente, si configura come espres-so da una maggioranza “non qualificata”. È pos-sibile anche, anche se è assai meno auspicabile,

Giorgio Napolitano

Il patto che ci legamarco Plutino

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che la maggioranza presidenziale coincida con la maggioranza parlamentare che sostiene il go-verno. Ebbene ciò dovrebbe restare indifferente all’esercizio della carica, quantomeno nel senso che mai il suo svolgimento può intendersi come espressione di un mandato rispondente alla mag-gioranza che l’ha eletto. La rappresentatività del Capo dello Stato è assai peculiare perché senza poter negare la rilevanza del “segno” politico che inevitabilmente deriva dall’elezione – peraltro nel parlamento in seduta comune, collegio più vasto dell’insieme dei parlamentari – ad essa si sovrappongono, prevalendo, due relazioni. Da un lato il legame verso una entità, la nazione, assai evocativa ma scientemente impedita dal punto di vista giuridico nella capacità di mate-rializzarsi e di chieder conto dell’operato. Infi-ne – la fonte stessa che delinea la complessa trama dei diritti e dei poteri – il documento giu-ridico positivamente vigente che è posto a base dell’ordinamento repubblicana. È la Costituzione, dunque, la sede dei poteri e dei limiti del Capo dello Stato in un senso che supera e trascende ciò che può affermarsi per le altre istituzioni rappresentative.

Il Presidente della Repubblica, quale mas-sima espressione simbolica dell’unità naziona-le, è chiamato a far da argine ad ogni visione semplificata e distorta della democrazia politi-ca, alla luce delle forme e nei limiti che incontra la sovranità popolare secondo la felice dizione dell’art. 1 della Costituzione italiana. Né, del re-sto, il riferimento alla collettività nazionale vale a ridurlo da un lato dalla statualità pura (il potere neutro alla maniera di Schmitt) né alle istituzioni che vivono per definizione le istante conflittua-li della politica. A quest’ultimo proposito, però, occorre prendere atto che l’intrinseca politicità del Capo dello Stato non è affatto un incidente di percorso, in quanto vale a distinguerlo dalle giurisdizioni in senso proprio che hanno alla base del proprio compito di garanzia un criterio di no-mina tecnocratica (dal quale è sottratta, peral-tro, la stessa Corte costituzionale in virtù della natura delle sue attribuzioni). L’estrazione rap-presentativa torna invece utile e indispensabile per giustificare la sua centralità rispetto alla fitta trama di relazioni che coinvolgono le principali istituzioni repubblicane (Governo, Parlamento, Corte Costituzionale, Consiglio Superiore della Magistratura, senza dimenticare il ruolo non for-male svolto in rapporto alle forze armate). Proie-zione di tale situazione sono i tanti poteri di cui il Presidente della Repubblica dispone, spesso assai discreti, ma all’occorrenza decisivi.

Le considerazioni finora effettuate rendono più agevole comprendere, in generale, la popo-larità o la fiducia che gli istituti demoscopici se-gnalano da anni a proposito delle istituzioni che appaiono meno investite dalla crisi di credibilità che investe la politica italiana (e non solo), e, nello specifico, quel livello forse davvero singo-lare di consenso attorno all’operato dell’attua-le Capo dello Stato sulla quale, comunque, altre sono le sedi su cui riflettere.

Qui si intende solo sottolineare che tra quelle istituzioni maggiormente beneficiate di fiducia da parte dei cittadini (le forme armate e di polizia, il sistema dell’istruzione pubblica, le istituzioni della società civile, le magistrature), il Capo dello Stato ha oneri assai maggiori, in quanto svolge le sue funzioni immerso nelle di-namiche politiche della cui crisi viene sistema-ticamente investito. A questa stregua appare in parte scontato, in parte non condivisibile, il giudizio ricavabile da recenti riflessioni che re-gistrerebbe uno slargamento di quel potere deli-cato e decisivo, cangiante nelle forme e sfumato negli effetti, noto come potere di “esternazio-ne”. Ciò perché la transizione istituzione nella quale siamo immersi da venti anni (ma direi al-meno dalla morte di Moro, volendo segnare un approssimativo spartiacque) rende inevitabile un accresciuto ruolo del Capo dello Stato di cui, anzi, il potere di esternazione è per definizione, se non si tramuta in atti o omissioni conseguenti come avveniva spesso nella presidenza Cossiga, segno di self restraint rispetto alle più incisive alternative disponibili. Del resto il sistema attua-le dei mass media non è neanche lontanamente paragonabile a quello dell’avvento del regime re-pubblicano, per cui da un lato è inevitabile che ne faccia da cassa di risonanza assai maggio-re, dall’altro che risulti invogliato l’esercizio di un potere che al tempo stesso appare tra i più blandi ma anche persuasivi.

A tale proposito, segnalo invece un rischio diverso, ovvero che l’evoluzione non sempre re-sponsabile dei media e l’avvitamento del sistema politico rischino di produrre, semmai, la tentazio-ne di sovra-interpretare ogni manifestazione (e ogni silenzio) che giunga dal Quirinale carican-do, nella migliore delle ipotesi, l’istituzione di un compito di supplenza davvero improprio. I poteri del Capo dello Stato, invece, sono inversamen-te proporzionali, nella frequenza d’uso e nell’in-tensità, allo svolgersi delle corrette dinamiche di potere e al buon funzionamento del circuito della rappresentanza politica cioè della rispon-denza dei governanti ai governati.

Il Capo dello Stato, negli scritti la cui let-tura qui si propone attraverso qualche mode-sta considerazione, torna insistentemente sui due capi del problema che sono davanti a noi: il dato della crisi, con lucide analisi, e l’invito ad un uso responsabile del potere quale condizione indispensabile di un avvio a soluzione. La crisi italiana, del resto, appare sempre solidamente radicata nelle difficoltà dell’Europa e del mondo globale, sui cui innesta le sue innegabili peculia-rità frutto di fattori lontani e recenti.

La lettura dei discorsi presidenziali che qui si raccolgono, e degli altri che non appaiono (tra i quali, può ricordarsi un intervento reso presso la sede di Mezzogiorno Europa, che ebbe non piccolo rilievo sulla stampa nazionale proprio per il contributo che offriva sui temi in parola), fornisce la confortante conferma che non vi è problema di qualche importanza per l’interesse del paese, che non abbia trovato in questi anni un momento di articolazione, un riferimento ma-gari scarno ma puntuale, o anche uno sviluppo analitico e che tra di essi le relazioni sono mol-teplici e continue.

Sottolineerei alcuni elementi che non mi pare debbano passare sottotraccia, perché sono due qualità che il discorso pubblico, almeno isti-tuzionale, dovrebbe far proprie ad ogni livello. Innanzitutto il gusto e l’urgenza di raccogliere le sfide della elaborazione culturale, confrontando-si come era più frequente un tempo, con esse: basti pensare al recentissimo intervento all’Ac-cademia dei Lincei, o a quelli resi all’Università di Berlino o presso istituzioni universitarie e di ricerca anglosassoni. Che si tratti della questio-ne meridionale, o del futuro dell’Unione, di una lettura complessiva della Resistenza o del fe-deralismo fiscale, o, infine, della crisi delle eco-nomie mondiali, l’elevato tasso di tecnicismo dei problemi – che in un certo senso li rendono poco adatti, paradossalmente, al discorso pub-blico – non dissuade il Capo dello Stato dal for-nire una opinione schietta, un giudizio sicuro e calibrato, rifuggendo sempre dagli argomenti di maniera e mostrandosi sempre pronto ad offrire al dibattito le ricadute concrete delle opzioni in discussione (il Presidente ha spesso ribadito che non tocca al Capo dello Stato proporre soluzio-ni articolate e compiute, che sono e restano di pertinenza del circuito dell’indirizzo politico). Di qui un secondo tratto che mi pare di rilievo. Non v’è tema spinoso sul quale il Capo dello Stato non abbia trovato modo e maniera, se reputato utile, di prender “posizione”. In questo reiterato non volersi sottrarre alla sfida delle idee e alla

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necessità di affermazioni anche scomode, il dato caratteriale, l’imperativo etico e il dovere funzio-nale convergono. Il Capo dello Stato apprezza, valuta, giudica, sprona, incoraggia, stigmatizza, esprime compiacimento e soddisfazione; ogni questione che richiama la sua attenzione viene investita da questo esercizio che, nel metodo, è fatto di senso della misura e di un uso attento verso un esercizio improntato alla proporzionali-tà e polivalenza dei propri poteri.

Infine va chiarito che questo prender “posi-zione” in teoria non può che essere, ed ognuno giudichi se la pratica vi si attenga, un peculia-re “prender parte”, nel quale nulla residui del-lo spirito di fazione o anche solo di partito, ma ove la propria storia personale e il corredo dei valori viene misurato sul metro delle scelte fon-damentali poste in Costituzione, eventualmente anche in aperta polemica con letture più o meno convenzionali degli operatori politici e non del sistema che siano o appaiano omissive, distor-centi, corporative.

Non è il caso di scendere nello specifico dei molti filoni e degli spunti che si traggono perché qualunque descrizione banalizzerebbe la loro, pe-raltro, assai agevole, lettura e, del resto, la rac-colta è accompagnata da una ricca introduzione di Paolo Pombeni. Richiamo solo en passant il ruolo della memoria e dell’esempio, la necessi-tà di una storia nazionale condivisa, l’insistere tipico di un discorso pubblico repubblicano e di un patriottismo declinato in chiave costituzionale (sulla scia delle riflessioni di Petitt e Habermas, riprese dai nostri Maurizio Viroli e Gian Enrico Rusconi). Forse soprattutto la consapevolezza che lo spirito di fazione, e di prevaricazione, cor-rode le fondamenta del vivere civile, avvelena il patto di convivenza, nuoce più delle peggiori politiche alla coesione sociale. Tutto ciò rappre-senta l’approccio che, ad avviso del Presidente, dovrebbe impregnare le istituzioni verso le quali, a questa stregua, non esito di ricorrere a giudizi anche di notevole severità.

I miei interessi di lavoro, tuttavia, mi in-ducono in conclusione a sottolineare come la via di uscita prospettata e anche sollecitata dal Presidente Napolitano non si risolva in una generico appello alla lealtà verso lo Stato, alla moderazione dei comportamenti e degli egoismi, in un invito a ritrovare le ragioni della comune obbligazione politica. Non si fa esclusivo appel-lo a virtù civili o ad un generico ritorno dell’eti-ca individuale e collettiva, pur evidentemente importante ma che, senz’altro, rischierebbe di restare un nobile e illusorio invito privo di gam-

be sul quale camminare. Il Capo dello Stato, in coerenza con una lunga militanza riformista (e parlo innanzitutto di un approccio metodologi-co e di cultura istituzionale, prima che di una cultura politica), chiama in causa innanzitutto l’uso che una più coraggiosa politica deve fare dell’innovazione istituzionale. Ciò non esclude che, accanto a livelli quali quello dei regolamenti parlamentari più immediatamente espressione del gioco politico-parlamentare, anche il livello costituzionale possa essere interessato da in-terventi parziali ispirati a soluzioni condivise (o che siano almeno frutto di un realistico confron-to) relativamente a quelle disposizioni che mag-giormente mostrano i segni del tempo o si sono rivelate inadeguate. Ma sempre e unicamente al fine di salvaguardarne e rilanciarne il patri-monio di principi e valori. Un discorso estraneo alle tortuosità autoferenziali della politica di cui siamo spesso testimoni (ad esempio a proposito di leggi elettorali, per poi ritrovarci la peggio-re soluzione del mondo occidentale), in quanto l’accento sulle regole viene sempre illustrato per le ricadute che deve produrre a beneficio della cittadinanza. Insomma, regole e istituzioni più moderne e credibili, nella fedeltà ai valori e agli equilibri costituzionali – così si potrebbe forse sintetizzare il pensiero del Presidente – restano un presupposto per avviare a risoluzione i tanti nodi irrisolti della crisi italiana. Il Capo dello Sta-to si intrattiene su molti di essi tra cui, a mero titolo di esemplificazione, il permanente disagio di fasce sempre più ampie della popolazione, lo spreco o lo sfruttamento improprio di enormi energie e risorse (anche, ma non solo, umane: i giovani, le donne, gli immigrati, accanto ai para-dossi del fisco, ai rischi ambientali, ai costi della giustizia e dell’amministrazione per il cittadino, al mancato decollo di un vero regionalismo, etc.), il ritorno di una cultura del-la legalità – fatto tra l‘altro di un nuovo modo di legife-rare attento ai valori della certezza, della chiarezza, del decentramento – nel-la quale possa prosperare lo sviluppo virtuoso a de-trimento degli affarismi e della criminalità.

Spetta alla politica rac-cogliere la sfida, che è poi la sfida per una integrale at-tuazione della Costituzione. Solo la cattiva politica può decidere di perderla.

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Euronotedi Andrea Pierucci

Le IstItuzIonI europee: cantIere ancora aperto

Bene: i socialisti hanno fatto la voce grossa a settembre, quando non hanno votato per la nomina di Barroso a Pre-sidente della Commissione, e hanno cambiato atteggiamento a febbra-io. Era senz’altro prevedibile. La Commissione Barroso II è nata con 488 voti a favore 137 contro e 72 astenuti. Hanno votato a favore in genere i socialisti (S& D), i PPE ed i liberali (ALDE), contro i comunisti e l’estrema destra – o più precisamente, la destra euroscettica – e si sono astenuti i Conservatori ed i Verdi, pur volendo questi ultimi, nelle parole di Daniel Cohn-Bendit, dissociarsi dagli atteggiamenti antieuropei degli oppo- sitori. I socialisti hanno scelto di votare sì dopo un forte impegno di Bar-roso sulle questioni sociali. Sul tema, interrogato dalla stampa, Barroso ha affermato che la svolta apparente della Commissione, che per cinque anni era stata accusata di non aver avuto grandi slanci nel sociale, è dovuta alla gravità della situazione sociale successiva alla crisi. D’altro canto, Barroso ha, proprio nei giorni del voto parlamentare, espresso una forte attenzione ai problemi della povertà e dell’esclusione, forse anche in ragione dell’inizio dell’anno europeo della lotta contro la povertà. Barroso ha, sem-bra, convinto i socialisti.

Rivengo tuttavia su un paradigma permanente dell’Unione che fin da “quando Monnet incontrò Schuman” si è sempre basata sull’accordo istituzionale e politico dei democristiani, dei sociali-sti e dei liberali. In qualche modo, la scelta socialista era obbligata se non si voleva avere una Commissione di “cartone”, in pericolo ad ogni stormir di fronda di trovarsi spiazzata in Parlamento o di fronte al Consiglio. Non sono sicuro che un parallelo con la realtà interna dei singoli Stati, nei quali le forze citate si raffigurano come antagoniste, sia completamente legittimo. Tuttavia, non possiamo che confermare che una vera ambiguità esiste (“se Berlusconi e Bersani non sono d’accordo”, non si fa nessuna legge europea) e che presto o tardi rischia di avere conseguenze nazionali ancora più evidenti di adesso.

Ora, dunque, tutte le istituzioni sono a regime, pronte ad agi-re al meglio! Speriamo! Mi sembra che, se sul piano della Com-missione si vedono segnali positivi, meno brillante è la situazio-ne delle due nuove istituzioni, Consiglio europeo e Mme PESC. Il Consiglio europeo dell’11 febbraio si è concluso in modo poco chiaro circa il sostegno alla Grecia, se è vero che i titoli di alcu-ni giornali sostenevano che l’Unione e la Germania, in particola-re avevano salvato la Grecia ed altri sostenevano il fallimento del Consiglio europeo proprio nel salvataggio della Grecia. Inoltre, il

Consiglio europeo era stato convocato per una grande discussione di fondo sulla governance economica : non so che dire. Si trattava della prima iniziativa di Van Rompuy, il nuovo presidente del Consiglio europeo. Quest’ultimo aveva già dovuto su-perare una certa riluttanza di Za-

patero a non esercitare più il ruolo molto mediatico che spettava al capo

del governo del paese che aveva la presidenza del Consiglio, cioè quello di

Presidente del Consiglio europeo. Que-sto ruolo è ora, appunto, permanente e sarà

esercitato per due anni dall’ex capo del gover-no belga, sperando che le cose vadano meglio

di questo difficile inizio.Dall’altro lato la nuova Signora della politica este-

ra non pare splendere nel firmamento comunitario. Dopo aver detto, senza alcuna conseguenza, al Parlamento che non

conosceva il problema della composizione del Consiglio di sicu-rezza delle Nazioni Unite ed una serie di altri « non so » si ritrova ormai nelle leggende metropolitane di Bruxelles. Si mormora che nel primo comunicato stampa in cui protestava per la condanna a 11 anni di prigione a un dissidente cinese, si sia confusa con un altro! I perfidi dicono che non sappia nemmeno leggere le indica-zioni che vengono da Washington ! D’altra parte, la politica este-ra dell’Unione è largamente sparita dallo scenario internazionale. Obama, i cinesi, l’Iran, addirittura Berlusconi per la sua straordi-naria miopia nel non vedere il muro di Israele contro i Palestinesi, tengono banco. L’Europa, dopo il vertice con la Cina del 30 no-vembre e la partecipazione al vertice di Copenhagen sul clima, è lentamente sparita dagli schermi. Arriviamo al punto che la Libia blocca gli accessi dei passeggeri dei paesi Schengen perchè la Sviz-zera è stata scortese e nessuno dice praticamente niente.

Quel che mi perturba soprattutto è che il Parlamento non dica nulla. Certo, è stato impegnato nelle audizioni dei futuri Commis-sari, ormai per l’essenziale un rito sanguinario che si conclude col sacrificio dell’uno o dell’altro Commissario (questa volta è toccato alla bulgara), che rafforza il potere di pressione del Parlamento sulla Commissione, ma che ha effetti politici concreti molto, molto poco interessanti (certo è ottimo eliminare un candidato Commissario per ragioni politiche o per sospette contiguità con la criminalità, ma questa non è la grande politica; su quest’ultima, grandi silenzi !) È tempo che il Parlamento si svegli e obblighi la Commissione a fare proposte coraggiose e d’avvenire e che, esso stesso lanci grandi campagne politiche. Ormai il problema cruciale dell’Europa non è istituzionale come negli ultimi trent’anni, ma strettamente poli-tico. Poco interesserà al cittadino, una volta garantito un sistema democratico, chi fa le cose; piuttosto sarà gratificato o ferito dalle politiche concrete dell’Europa.

La speranza è che quando Barroso presenterà il programma politico e di lavoro della Commissione in marzo ci sarà qualche cosa di più, qualche luce di speranza. Resta da vedere come si

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45farà con la politica estera che, per il momento davvero langue e minaccia di languire ancora di più. Insomma, tutte le caselle sono formalmente al loro posto, ma il cantiere dell’Europa di Lisbona resta sostanzialmente aperto.

Intanto La crIsI contInua

Anzi, se vogliamo essere precisi, peggiora perchè tocca i nor-mali cittadini, i lavoratori i piccoli imprenditori, escludendoli dal lavoro, e quelli che non lo hanno, specie i più giovani, metten-doli in condizione di non sperare. UE 2020 è la grande soluzione preconizzata da Barroso (giusta, probabilmente), ma c’è un pro-blema : come ci si arriva se la società europea esce stravolta dalla crisi. Se non si riesce a risolvere il problema immediato, quale può essere la credibilità dell’Europa e dei governi degli Stati membri nel rilanciare la prospettiva? Soprattutto dopo che, per salvare le Banche (che ora fanno ai politici pagatori sberleffi e pernacchie) ci si è dissanguati? Come risolvere il problema degli ammortizzatori sociali che ormai scadono dopo una così lunga crisi? Dove trova-re i soldi? Lo, lo so: dare i soldi a chi non ce l’ha è un grave errore economico; qualunque teorico del liberismo direbbe che si tratta di una soluzione irrazionale. Non può che avere ragione. Poi però di tutta questa gente senza salario e senza sostegno che ne faccia-mo? Aumentiamo il numero di poveri nelle strade? Affossiamo la nostra società comunque solidale? Non so se si tratta di aumenta-re le tasse o di gestire meglio i soldi : ma non si può immaginare una società non solidale, accompagnata dalla pace sociale. Non c’è bisogno di essere profeti per immaginare che uno scenario non solidale sarà foriero di sventure ! Come si ricordava nel numero precedente, il 2010 è l’anno della lotta contro la povertà: se non si prenderanno misure lo ricorderemo come l’anno di una crescita spropositata della povertà! Per fortuna, in Germania, il Tribunale costituzionale (9 febbraio 2010, 1 BvL 1/09, 1 BvL 3/09, 1 BvL 4/09), annullando una legge che riduce l’assistenza ai disoccupati, ha considerato che una legge che non permette una vita degna per ogni cittadino è contraria alla Costituzione. In particolare, la Costituzione, quando afferma la dignità della persona, si riferisce alla dignità di un cittadino, al quale, per definizione non basta la pura sopravvivenza. È una buona sentenza, che si contrappone in modo radicale alla tendenza alla compressione dei diritti sociali ed alla riduzione dei diritti del lavoratore alla mera sopravviven-za; per non parlare poi dei diritti dei poveri, rispetto ai quali c’è sempre più da preoccuparsi.

Mercedes Bresso è La nuova presIdente deL coMItato deLLe regIonI

Finalmente una buona notizia, non solo perchè la nuova Presi-dente è italiana, ma soprattutto perchè nessuno può negare il suo impegno europeo e le sue qualità politiche. Naturalmente, se non dovesse essere rieletta presidente della Regione Piemonte ci po-

trebbe essere un problema da risolvere (si può essere membri del Comitato solo se si è eletti o responsabili davanti ad un’assemblea eletta a livello regionale o locale). Sarebbe davvero un peccato, ma incrocio le dita affinché questo non si verifichi.

Per la prima volta, ci sono due Presidenti italiani delle istituzioni consultive, Mercedes Bresso, appunto, e Mario Sepi, sindacalista, Presidente del Comitato economico e sociale europeo fino ad ot-tobre. Entrambi appartengono o simpatizzano per forze diverse da quelle di governo. Questo fatto – evitiamo inutili polemiche – ci dovrebbe consolare perchè mostra una presenza italiana a Bruxel-les efficace e rispettata, almeno al livello degli organi consultivi, che riesce a farsi strada, nonostante i conflitti italiani ed a costru-ire qualcosa. Sepi ha già fatto parecchio per rilanciare il Comitato economico e sociale europeo, caduto in uno stato un po’ critico. La Bresso, se non ci delude in corso di mandato, dovrebbe anch’essa rappresentare un’ottima opportunità per il Comitato delle Regioni. La questione è oramai importante perchè tanto il Comitato delle Regioni, quanto il Comitato economico e sociale europeo hanno compiti nuovi da svolgere col Trattato di Lisbona, in particolare per portare l’Europa più vicino ai cittadini. Intendiamoci, questa frase è pessima, perchè sottintende che l’Europa è altro dai suoi Stati e dai suoi cittadini, ma, certo, è necessario rilanciare la co-scienza europea dei cittadini.

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Le librerie:

Feltrinelli Via S. Tommaso D’Aquino, 70 NAPOLI – Tf. 0815521436

Piazza dei Martiri – Via S. Caterina a Chiaia, 33 NAPOLI – Tf. 0812405411

Piazzetta Barracano, 3/5 SALERNO – Tf. 089253631

Largo Argentina, 5a/6a ROMA – Tf. 0668803248

Via Dante, 91/95 BARI – Tf. 0805219677

Via Maqueda, 395/399 PALERMO – Tf. 091587785

Librerie Guida Via Port’Alba, 20 – 23 NAPOLI – Tf. 081446377

Via Merliani, 118 NAPOLI – Tf. 0815560170

Via Caduti sul Lavoro, 41‑43 CASERTA – Tf. 0823351288

Corso Vittorio Emanuele, Galleria “La Magnolia” AVELLINO – Tf. 082526274

Corso Garibaldi, 142 b/c SALERNO – Tf. 089254218

Via F. Flora, 13/15 BENEVENTO – Tf. 0824315764

Loffredo Via Kerbaker, 18‑21 NAPOLI – Tf. 0815783534; 0815781521

Marotta Via dei Mille, 78‑82 NAPOLI – Tf. 081418881

Tullio Pironti Piazza Dante, 30 NAPOLI – Tf. 0815499748; 0815499693

Pisanti Corso Umberto I, 34‑40 NAPOLI – Tf. 0815527105

Alfabeta Corso Vittorio Emanuele, 331 TORRE DEL GRECO – Tf. 0818821488

Petrozziello Corso Vittorio Emanuele, 214 AVELLINO – Tf. 082536027

Diffusione Editoriale Ermes Via Angilla Vecchia, 141 POTENZA – Tf. 0971443012

Masone Viale dei Rettori, 73 BENEVENTO – Tf. 0824317109

Centro librario Molisano Viale Manzoni, 81‑83 CAMPOBASSO – Tf. 08749878

Isola del Tesoro Via Crispi, 7‑11 CATANZARO – Tf. 0961725118

Tavella Corso G. Nicotera, 150 LAMEZIA TERME

Domus Luce Corso Italia, 74 COSENZA

Godel Via Poli, 45 ROMA – Tf. 066798716; 066790331

Libreria Rinascita Via delle Botteghe Oscure, 1‑2 ROMA – Tf. 066797460

Edicola c/o Parlamento Europeo Rue Wiertz – BRUxELLES

Libreria La Conchiglia Via Le Botteghe 12 80073 CAPRI

Libreria Cues Via Ponte Don Melillo Atrio Facoltà Ingegneria FISCIANO (Sa)

C/o Polo delle Scienze e delle Tecnologie – Loc. Montesantangelo NAPOLI

H3g – Angelo Schinaia C/o Olivetti Ricerca SS 271 Contrada La Marchesa BITRITTO (Ba)

Libreria Colonnese Via S. Pietro a Majella, 32‑33 – 80138 Napoli – Tel. +39081459858

Le Associazioni, le biblioteche, gli Istituti:Ist. Italiano per gli Studi Filosofici Via Monte di Dio, 14 NAPOLI – Tf. 0817642652

Associazione N:EA Via M. Schipa, 105‑115 NAPOLI – Tf. 081660606

Fondazione Mezzogiorno Europa Via R. De Cesare 31 NAPOLI – Tf. +390812471196

Archivio Di Stato Di Napoli Via Grande Archivio, 5 NAPOLI

Archivio Di Stato Di Salerno P.zza Abate Conforti, 7 SALERNO

Biblioteca Universitaria Via G. Palladino, 39 NAPOLI

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Piazza Cavalleggeri 1 – Firenze

Biblioteca Nazionale “V. Emanuele III” P.zza del Plebiscito Palazzo Reale – NAPOLI

Mezzogiorno Europa

Periodico della Fondazione

Mezzogiorno Europa – onlus

N. 1 – Anno X – Gennaio/febbraio 2010

Registrazione al Tribunale di Napolin. 5112 del 24/02/2000

Via R. De Cesare 31 – Napolitel. +39 081.2471196 fax +39 081.2471168

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Direttore responsabileAndreA GeremiccA

Art directorLuciAno Pennino

Comitato di redazioneosvALdo cAmmArotA

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Coordinamento e segreteriaottAviA beneduce

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Consulenti scientificiserGio bertoLissi, WAndA d’A Les sio, mAriAno d’Antonio, vittorio de cesAre, biAGio de GiovAnni, enzo Giustino, GiL berto A. mArseLLi, GustAvo minervini, mAssimo rosi, AdriAno rossi, FuLvio tessitore, serGio veLLAnte

Stampa: Le.g.ma. (Na) – Tel. +39 081.7411201

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Page 48: Numero 1/2010

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