Nostos di Jessi Ranaivoson

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Jessi Ranaivoson [Madagascar] NÒSTOS La mia amica Chiara mi ha definita “apolide”. È questa una parola che oggi, più di molte altre, mi fa paura. Non voleva insultarmi, lo so bene. Ha solo espresso la realtà dei fatti. Dato un nome a questo vuoto incolmabile di casa che sento da molti più anni di quanto non voglia ammettere. Ricordo ancora l’attimo: eravamo sedute l’una di fronte all’altra, su scricchiolanti sgabelli da pic- nic in uno stanzino dell’associazione che aveva organizzato l’intervista. I capelli appiccicati alla nuca dal primo caldo. In bilico sulle sue gambe, il registratore che avrebbe ricordato per noi ogni silenzio, parola, ogni respiro di quel pomeriggio. Le sue domande erano incalzanti. Lei implacabile. Potevo capirla: a quell’intervista era appesa la sua tesi di laurea. L’ha detto così: «Apolide», senza pensarci troppo. Con la noncuranza di chi è abituato a sapere sempre qualcosa in più. Di chi sa dare un nome ai “non so cosa” di noialtri, che viviamo perennemente incapaci di chiamare queste emozioni. La mia mente di grecista si è subito messa a ronzare: “Alfa privativo, più Polis, città. Chi non ha città, non ha patria. Chi non è di nessun luogo”. E in me si sono contrapposte due emozioni: l’amarezza, di chi porta in sé un dolore antico cui si è finalmente dato nome; e l’orgoglio, di chi non è vincolato a nessun luogo e crede di essere libero. Ma è questa una libertà che opprime, che mortifica. Allora, stupidamente, non me ne resi conto. Pensavo a quella parola quando l’aereo è atterrato quella notte di giugno. Non so del resto grazie a quale miracolo, data l’inesistenza delle luci sia sulla pista sia in tutta la città. Mi sembrava di essere sprofondata negli abissi dell’Africa più nera. Sapevo solo che io lì non volevo esserci, che da quell’aereo non volevo scendere. Me ne sarei più volentieri andata in vacanza altrove o anche solo rimasta a casa davanti alla tivù. Ma poi, lì, c’era l’energia elettrica? No, mi pareva di ricordare non ci fosse. Troppo bene mi tornavano in mente le serate a lume di candela a casa della nonna, quando la luce andava via e lo zio, con la pila accesa sotto il mento, imitava l’orco Trimobé mentre, aspettando il buio nel folto del bosco, sbocconcellava resti di bimbi rapiti dai loro letti, uccisi, fatti a pezzi la notte prima. Ricordo soprattutto il vivido terrore di bambina che mi solleticava la schiena fino alla punta dei piedi, quando sentivo le foglie di bambù frusciare in modo sinistro alla mia finestra, nelle notti ventose. “È l’orco Trimobé! È l’orco Trimobé e viene a prendermi!” pensavo allora, tirandomi le coperte fin sopra la testa. Sentivo che c’era qualcosa di sbagliato in quel sentimento: non si torna nel proprio paese dopo undici anni senza un minimo di nostalgia, eccitazione o spavento. Ma quel qualcosa appunto non sapevo di nuovo definirlo e l’erudizione di Chiara mi avrebbe certo fatto comodo in quel momento, ma lei non c’era. Nulla c’era del mondo che conoscevo. Anche mia madre appariva così lontana nel suo savoir-faire di emigrata abituata a tornare. Diceva: «Domani dobbiamo andare in Comune, poi devo passare qui, e lì…», come se, semplicemente, riprendesse le fila della solita routine. Nulla in lei faceva presupporre che avesse appena attraversato mezzo mondo: nessuna traccia di sonno, sguardo perso o intorpidimento. Ero sola nella terra che dicevano fosse la mia, ma che sentivo più straniera di qualunque altra: il mio Paese. Avevo sempre odiato quelle tre parole: “il mio Paese”. Evitavo, per quanto possibile, di pronunciarle. Mi mortificavano. Mi rendevano diversa e mi impedivano di smettere di esserlo.

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Jessi Ranaivoson [Madagascar] NÒSTOS La mia amica Chiara mi ha definita “apolide”. È questa una parola che oggi, più di molte altre, mi fa paura. Non voleva insultarmi, lo so bene. Ha solo espresso la realtà dei fatti. Dato un nome a questo vuoto incolmabile di casa che sento da molti più anni di quanto non voglia ammettere. Ricordo ancora l’attimo: eravamo sedute l’una di fronte all’altra, su scricchiolanti sgabelli da pic-nic in uno stanzino dell’associazione che aveva organizzato l’intervista. I capelli appiccicati alla nuca dal primo caldo. In bilico sulle sue gambe, il registratore che avrebbe ricordato per noi ogni silenzio, parola, ogni respiro di quel pomeriggio. Le sue domande erano incalzanti. Lei implacabile. Potevo capirla: a quell’intervista era appesa la sua tesi di laurea. L’ha detto così: «Apolide», senza pensarci troppo. Con la noncuranza di chi è abituato a sapere sempre qualcosa in più. Di chi sa dare un nome ai “non so cosa” di noialtri, che viviamo perennemente incapaci di chiamare queste emozioni. La mia mente di grecista si è subito messa a ronzare: “Alfa privativo, più Polis, città. Chi non ha città, non ha patria. Chi non è di nessun luogo”. E in me si sono contrapposte due emozioni: l’amarezza, di chi porta in sé un dolore antico cui si è finalmente dato nome; e l’orgoglio, di chi non è vincolato a nessun luogo e crede di essere libero. Ma è questa una libertà che opprime, che mortifica. Allora, stupidamente, non me ne resi conto. Pensavo a quella parola quando l’aereo è atterrato quella notte di giugno. Non so del resto grazie a quale miracolo, data l’inesistenza delle luci sia sulla pista sia in tutta la città. Mi sembrava di essere sprofondata negli abissi dell’Africa più nera. Sapevo solo che io lì non volevo esserci, che da quell’aereo non volevo scendere. Me ne sarei più volentieri andata in vacanza altrove o anche solo rimasta a casa davanti alla tivù. Ma poi, lì, c’era l’energia elettrica? No, mi pareva di ricordare non ci fosse. Troppo bene mi tornavano in mente le serate a lume di candela a casa della nonna, quando la luce andava via e lo zio, con la pila accesa sotto il mento, imitava l’orco Trimobé mentre, aspettando il buio nel folto del bosco, sbocconcellava resti di bimbi rapiti dai loro letti, uccisi, fatti a pezzi la notte prima. Ricordo soprattutto il vivido terrore di bambina che mi solleticava la schiena fino alla punta dei piedi, quando sentivo le foglie di bambù frusciare in modo sinistro alla mia finestra, nelle notti ventose. “È l’orco Trimobé! È l’orco Trimobé e viene a prendermi!” pensavo allora, tirandomi le coperte fin sopra la testa. Sentivo che c’era qualcosa di sbagliato in quel sentimento: non si torna nel proprio paese dopo undici anni senza un minimo di nostalgia, eccitazione o spavento. Ma quel qualcosa appunto non sapevo di nuovo definirlo e l’erudizione di Chiara mi avrebbe certo fatto comodo in quel momento, ma lei non c’era. Nulla c’era del mondo che conoscevo. Anche mia madre appariva così lontana nel suo savoir-faire di emigrata abituata a tornare. Diceva: «Domani dobbiamo andare in Comune, poi devo passare qui, e lì…», come se, semplicemente, riprendesse le fila della solita routine. Nulla in lei faceva presupporre che avesse appena attraversato mezzo mondo: nessuna traccia di sonno, sguardo perso o intorpidimento. Ero sola nella terra che dicevano fosse la mia, ma che sentivo più straniera di qualunque altra: il mio Paese. Avevo sempre odiato quelle tre parole: “il mio Paese”. Evitavo, per quanto possibile, di pronunciarle. Mi mortificavano. Mi rendevano diversa e mi impedivano di smettere di esserlo.

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Negli anni smisi a poco a poco di cominciare frasi che iniziassero con “il mio Paese…” o “nel mio Paese…”. Smisi così di parlarne, poi di pensarlo; finché non presi a dimenticarne il significato. Alle volte mi capitava di sentire nell’aria un odore di non so cosa, che mi rapiva l’anima; dei sapori trascinati alla riva della coscienza, da dove non so; suoni di parole lontane ed esotiche, il cui senso però mi appariva chiarissimo. Era un fastidio che degenerava nel dolore, come fanno i sogni irrealizzati: era fame di Nòstos1. Se l’avessi chiesto a Chiara, allora, avrebbe saputo dirmelo. Dovetti purtroppo scoprirlo lentamente. Senza capirci granché all’inizio, come accade del resto con tutte le esperienze che ti riportano in vita. In quei giorni, nella Città dei Mille2 – dove il rosso della terra riempie gli occhi e la gente vive ai margini della natura; dove, se cammini a piedi nudi per strada a nessuno importa, ma se hai un’auto che va a gas tutti si chiedono da quale diavolo tu sia posseduto – una sensazione si è insinuata in me con tanta foga che alla fine, incapace di resisterle, mi arresi: ero tornata a casa. Cosa poi mi abbia trascinata via da quella casa si può riassumere in due parole tristemente note a tutti coloro che, come mia madre, si sono trovati a compiere questo genere di scelta. Perché non si abbandona la propria casa per noia o per diletto, ma solo per disperazione e per amore. La disperazione è quella di una madre, che avendo conquistato tutto ciò che da quella terra si potesse ottenere, si chiese come dare alle proprie figlie ciò che lì non si coglie dagli alberi, né si trova sotto le macerie della guerriglia: l’istruzione e la miriade di possibilità che da essa derivano. Come poi salvarle da un futuro fatto di sciacalli che le avrebbero illuse d’amore per ottenere il patrimonio di una vita di stenti? Mai come in questa circostanza, l’amore si è sposato al sacrificio. L’amore fa abbandonare tutto, vendere il vendibile, regalare ciò che resta. E partire. I miei occhi di tumultuosa adolescente si sono spesso chiusi davanti a questo suo amore, ma il sacrificio, quello, l’ho visto per anni nella madre che sola con due bambine ha raso al suolo e ricostruito; che ora, mentre scrivo, siede sul divano tenendo gli occhi fissi sul televisore senza guardarlo. L’ho visto, nel suo volto invecchiato più dalla stanchezza che dal tempo e nel suo sguardo, che le preoccupazioni, impietose, hanno reso gelido e lontano.

1 Nòstos: in greco antico, “Ritorno”. 2 In malgascio, Antananarivo significa proprio “Città Dei Mille”.