Non ho l'età

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Romanzo “endorfinico”, cioè scritto per il divertimento di raccontare e di leggere. È la storia di tre donne anziane, di un cane e di vari altri personaggi: parenti, amori vecchi e nuovi che partecipano alla vicenda. Tutto inizia quando una delle tre donne, vicine di casa, scompare e le altre due, con il cane Oscar, si danno al suo inseguimento. Gli episodi si susseguono nel crescendo della ricerca e del coinvolgimento di nuove situazioni, nel germinare di altre storie che si collegano alla vicenda principale.

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DESCRIZIONE:

L'omicidio di un rettore universitario è solo una piccola parte di un terribile ricatto. Il corpo di un senzatetto conduce la polizia a indagare in luoghi oscuri. L'improvvisa diminuzione dei pazienti di una clinica potrebbe nascondere qualcosa di molto più cupo. Tre racconti lunghi ambientati in un mondo che potrebbe essere il nostro, se solo non fosse del tutto differente...

L'AUTORE:

Impiegato, traduttore a tempo perso, Carmelo Massimo Tidona è da sempre un avido lettore e scrive da quando ne ha memoria. In tempi recenti si è dedicato con maggiore impegno a questa attività , dando vita al mondo di Anthuar, in cui questo libro è ambientato. Oltre a diversi racconti, pubblicati in varie antologie, ha scritto anche “Riflessi d’ombra” (2009, Zerounoundici Edizioni)

Titolo: Trittico oscuro Autore: Carmelo Massimo TidonaEditore: 0111edizioni Collana: Gli IneditiPagine: 158 Prezzo: 13,00 euro

11,90 euro su www.ilclubdeilettori.com

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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO)

ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI

Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'!

Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione.

TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA

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EasyReader è una vastissima raccolta di libri da leggere online, in versione integrale oppure in versione "trailer", comunque sempre molto "corposa" (da un minimo di 30 pagine a un massimo di 50). Tutti i libri proposti in versione e-book su questo sito sono coperti da copyright e sono disponibili anche in formato libro, regolarmente pubblicati (e quindi muniti di codice ISBN) e disponibili anche in libreria. Il catalogo viene aggiornato MENSILMENTE.

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Maria Rosa Panté

Non ho l’età

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NON HO L’ETÀ 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Maria Rosa Panté

ISBN 978-88-6307-241-9 In copertina: Immagine di Alessandro Tomiello

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009 da

Digital Print Segrate - Milano

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A mia madre

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Eravamo tre… Erminia indugiava volentieri la mattina a letto. Appena apriva gli occhi salutava con un sorriso la fotografia del sorridente marito, morto ormai da sei anni. Era una sorta di falso allarme, perché richiudeva gli occhi subito dopo e ripiombava in un sonno frammentato, ma al tempo stesso pesante. Restava per un bel po’ in questo stato, finché suonava il cam-panello, puntuale, alle nove. Era la vicina, Concetta, che invece non in-dugiava affatto e, fedele all’impegno preso, la chiamava, suonando alla porta finché Erminia non si fosse affacciata al balcone e avesse tirato su le tapparelle. Erminia aveva tentato di dissuadere Concetta urlando che “sì aveva sentito”, ma Concetta non era paga finché non la vedeva in carne e ossa. Se si fosse solo illusa d’averla sentita? L’udito non era quello d’un tempo, invece vedere una persona che solleva le tapparelle è chiaro indice se non di salute, almeno di un minimo di vitalità. Erminia aveva anche escogitato uno stratagemma, se, per caso, si sve-gliava presto, cosa che ormai sempre più le accadeva, andava subito ad alzare la tapparella, così Concetta sarebbe stata tranquilla. Ma in realtà questo giochetto non sempre funzionava, Concetta infatti preferiva ve-dere coi suoi occhi che la vicina non era passata, nella notte, a miglior vita e così al mattino Erminia sonnecchiava mentre Concetta suonava, suonava a fastidiosi intervalli regolari fino a che con voce preoccupata le telefonava. Domanda legittima sarebbe: “ma perché chiedi di essere svegliata se vuoi dormire di più?”. Domanda legittima che la legittima figlia di Er-minia le poneva ogni volta che la madre si lamentava di aver dormito poco. Erminia la guardava stupita e la risposta era sempre la stessa: “Vuoi mica che dorma tutta la mattina?”. Gianna, la figlia, taceva, non aveva elementi razionali per contrastare la sicura irrazionalità della madre. Quella mattina, giovedì santo, però avvenne un fatto inaspettato, Con-cetta non si degnò di suonare, né di chiamarla, Erminia continuava a fingere di esser contenta del suo sonno prolungato, ma ogni minuto di ritardo le provocava un aumento esponenziale di nervosismo misto a sottili strati di preoccupazione e di curiosità. Il ripetersi degli atti quoti-

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diani, se pure talvolta può venire a noia, dona una sicurezza che non si vorrebbe mai perdere. Erminia si alzò un po’ a fatica, la mattina la sua schiena dolorante era più rigida che mai, per prima cosa diede da mangiare al cagnolino, O-scar, con cui condivideva la vita da che il marito era morto, quindi, prima di fare colazione, si attaccò al campanello di Concetta, sforzo ti-tanico perché Concetta aveva una grande casa, non aveva più l’udito d’un tempo e se era lontana dall’ingresso non sentiva nulla. Erminia rientrò, delusa, in casa e si decise a fare colazione, aveva circa 10 pillo-le da prendere a stomaco vuoto, a stomaco pieno e a stomaco semipieno (queste le procuravano non poche perplessità cos’è uno stomaco semi-pieno? A che punto del pasto uno stomaco è semipieno?). Assunte le pillole a stomaco vuoto, si accingeva, dopo la metà esatta di fette bi-scottate che soleva mangiare, a prendere le pillole dello stomaco semi-pieno, quando suonò il campanello, anzi più esattamente tuonò, spaven-tando il povero Oscar, cane abituato ai toni smorzati fin dalla più tenera età. Erminia saltò sulla sedia e si alzò, con una prodigiosa agilità, per avvicinarsi alla porta. Come pensava era proprio Concetta, ma trafelata, preoccupata, angosciata oltre ogni dire. “Da dove vieni? Perché non mi hai chiamata?” “Sta zitta, fammi sedere, vengo dai carabinieri! Ah, che mischina!” Concetta, nonostante l’ambascia, miracolosamente fermò il suo respiro affannoso, per vedere che effetto facessero le sue parole sull’amica. Non fu delusa: “Dai carabinieri? Ti hanno derubata in quel parco equi-voco? Ti hanno truffata fuori della posta, sai quelli dei quadri, ti…” Concetta interruppe questo elenco di disgrazie che la facevano rabbri-vidire e precisò. “Sono andata fino alla porta della caserma, ma non so-no entrata… Volevo prima chiedere a te.” Erminia si sedette davanti alla tazza e imprecò perché non ricordava se aveva preso le pastiglie dello stomaco vuoto; vedere la restante parte di fette biscottate le confermò che se non si ricordava di averle prese vo-leva dire che la memoria era ancora buona, non lo ricordava perché non le aveva effettivamente prese. A ogni buon conto d’ora in poi avrebbe tirato fuori le pillole, le avrebbe mese in ordine di assunzione davanti alla tazza e così non avrebbe più avuto dubbi. Concetta taceva, conscia della fondamentale importanza di quel mo-mento nella vita d’un individuo, lei di pastiglie doveva prenderne otto, ma distribuite lungo l’arco della giornata: mattino, pomeriggio, sera. I suoi dubbi erano perciò giocati sul filo dei minuti, quand’è mattino?

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iante.

Pomeriggio, sera? Quando la sera sfocia nella notte, il mattino nel mez-zodì e il pomeriggio nel crepuscolo? Infine il corruccio di Erminia svanì sostituito da ansietà, allora Concetta ricominciò a parlare e, senza alcun riguardo per la delicata operazione della colazione, a bruciapelo annunciò: “Non sono andata dai carabinie-ri perché forse è meglio chiedere al pronto soccorso” “Ma cosa?” im-plorò Erminia. In Concetta prevalse la pietà e alla fine spiegò il motivo di tanta frene-sia, di tanta inquietudine e dell’irrimediabile tradimento delle loro con-suetudini più antiche. “Susanna è sparita. Sai che chiamo anche lei e lei, lasciatelo dire, mi risponde molto prima di te, questa volta non ha ri-sposto, le ho anche telefonato, niente, da fuori la porta sentivo gli squil-li, poi silenzio. Ho pensato stesse male, siccome ho le chiavi sono entrata…” “Da sola? Che coraggio!” “Se aspettavo te, cara Erminia, quella poteva morire. Ma comunque potevo anche aspettarti perché lì non c’è nessuno e ho visto un letto preciso preciso, tutto a posto. Sai bene com’è precisina, direi pignola Susanna”. Erminia scosse il capo affermativamente, lo sapeva uh, se lo sapeva. Susanna quando entrava in una casa mentalmente pensava a quali spostamenti si sarebbero dovuti compiere, dai mobili, ai soprammobili sino al cane, per rendere il tutto più ordinato. Era straz“Susanna scomparsa... Non è possibile! Da che la conosco Susanna non è mai stata fuori a dormire nemmeno una notte. Mi vesto e andiamo a vedere insieme, poi telefoniamo ai carabinieri. Portiamo anche Oscar magari sente l’odore”. “In mezzo a tutti quei detersivi, alla cera, ai deo-doranti? Non so” disse dubbiosa Concetta. Erminia, aveva il volto senza rughe, ma aveva accumulato i suoi 75 an-ni sulla schiena e quindi i suoi atti erano rallentati, però era determinata e Oscar venne preparato anche lui. Concetta invece aveva candidi capelli, raccolti in una crocchia antiqua-ta perché aveva smesso di tingerli dopo i 75 anni, cioè da ben 3 anni, era solo un po’ debole d’udito, camminava dritta come un fuso, sebbene la sua velocità di crociera fosse piuttosto una lentezza, soprattutto per-ché si fermava a parlare con chi conosceva e lei conosceva tutti. Nono-stante queste piccole limitazioni in capo a mezz’ora si ritrovarono en-trambe nella linda e mostruosamente ordinata casetta di Susanna.

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I pericoli dell’ordine Dapprima si fermarono nel salottino, l’unica stanza a cui avevano avuto accesso, nonostante i 40 anni di reciproca conoscenza. Susanna era cor-dialissima, ma custodiva gelosamente le sue cose, i ricordi e soprattutto se pensava alla polvere che ogni individuo porta con sé, si sentiva man-care, pertanto preferiva andare lei nelle case altrui e, quando proprio doveva ricevere, usava una sorta di luogo di decontaminazione, il salot-tino appunto, preservando tutto il resto, cioè, come appurarono quella mattina Erminia e Concetta: un cucinino, una cameretta e un bagno. L’ordine era tale che Oscar non riusciva a fare un passo senza guaire, ricordando anche bene come Susanna delle tre fosse la meno amichevo-le. Purtroppo Oscar era un cane, non poteva usare le pattine e la sua so-la vista riempiva Susanna di sgomento. Oscar rilevava col suo fiuto an-che il candore maniacale di quella casa, in cui a causa dei mille deodo-ranti, prodotti di pulizia, ammoniacali ecc. non faceva che starnutire come inebetito dalla miscellanea pazza di odori, profumi, puzze. L’ordine fermò per un momento anche le due donne, che osservarono con timore reverenziale il divanetto corredato di cinque cuscini disposti a una distanza millimetricamente esatta l’uno dall’altro, il tavolino con tre soprammobili e un vaso al centro ciascuno poggiato su un candido centrino, la libreria dove i libri stavano sull’attenti come frementi solda-tini disposti secondo l’altezza a formare una sorta di scivolo enciclope-dico. Nonostante quella fosse l’unica stanza che conoscevano, ancora una volta Ermina e Concetta pensarono che Susanna era pazza, che le loro case non sarebbero mai state così, purtroppo, che sarebbe stato bello liberare un libro dagli scaffali o un soprammobile da un centrino. L’ulteriore starnuto di Oscar spezzò l’incantesimo, e le due eccitatissi-me si accinsero a esplorare il resto della casa. Sebbene l’appartamento fosse minuscolo, ci volle un bel po’ prima che le due amiche riuscissero a ultimare la loro perlustrazione, in cucina fu facile: non c’era nulla fuori posto, nemmeno sotto il lavandino dove, santo cielo, qualche volta un granello di polvere, una spugnetta spaiata sono ammessi. La camera da letto non era ammoniacale, ma monacale, guardarono compunte e

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piene di fervore e di ammirazione un inginocchiatoio, chissà se Susanna lo usava ancora? Aveva una gamba irrigidita dai reumatismi e usava il bastone, dunque forse l’inginocchiatoio era solo un arredo, però vivace perché in bell’ordine vi erano disposti il più gran numero di libri di pre-ghiera che le due avessero mai visto, fuorché in chiesa, naturalmente. Approdarono al bagno, anche lì non erano mai entrate, perché prima di andare da Susanna si premuravano di scaricarsi d’ogni peso onde evita-re di sentirsi dire che il bagno era rotto, inagibile, allagato con evidente disappunto di Susanna e grave imbarazzo soprattutto di pancia delle o-spiti. Il bagno, o toeletta come diceva elegantemente Susanna, avrebbe addirittura richiesto occhiali speciali tanto splendeva, le due compianse-ro caldamente la donna che faceva le pulizie per Susanna, era una mar-tire sacrificata sull’altare dei detersivi. Erminia e Concetta parevano entrate nel paese delle meraviglie, si era-no dimenticate del motivo per cui scorrazzavano per l’appartamento dell’amica finché qualcosa turbò la loro mente, tornarono alla realtà, stavano cercando Susanna e lei non c’era, la casa non era stata svaligia-ta, la porta non era stata scassinata, tutto era in ordine. Proprio tutto? No, giacché in camera, proprio vicino all’inginocchiatoio trovarono l’inseparabile bastone di Susanna, per di più non adeguatamente ap-poggiato alla parete o, al limite, in un portaombrelli, ma steso a terra: l’unico caduto, per ora, in quella misteriosa partenza. Erminia si chinò, un po’ a fatica per tirare su il bastone, Concetta con un urlo la fermò: “Mischina! Non toccare, non vorrai lasciare le tue im-pronte ditali!”. “Digitali, Concetta, si dice digitali, ma hai ragione dammi un fazzolet-to, così lo raccolgo senza lasciare le impronte”. Il bastone venne esaminato come un antico reperto appena ritrovato, ma non mostrò alcun segno particolare era il solito lucido bastone di Su-sanna, però come mai era restato lì? Perché non era in ordine come il resto della casa? Concetta andò a prendere la lente d’ingrandimento che usava per le parole piccole, perlustrò la superficie del bastone inutil-mente. Però, se Susanna l’aveva lasciato lì, o era scappata da casa ed era in ritardo, o qualcuno l’aveva trascinata via. Ma chi? Susanna non era mai stata sposata, era una rispettabile maestra ormai di 76 anni, non aveva parenti, solo le sue amiche. “Dici che l’hanno rapita?” “Ma no, taci Erminia, fammi pensare, Susanna in ogni caso è andata via con qualcuno che conosceva, se no non gli avrebbe aperto la porta, ti

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ricordi di quella volta che chiamò i carabinieri perché la faccia del tec-nico della televisione non la convinceva?” “Hai ragione e poi non era convita nemmeno della faccia dei carabinie-ri, dovette venire di persona il brigadiere che lei conosceva. Che storia! Si era barricata. Hai ragione, una così, apre solo a qualcuno che cono-sce e bene anche”. Le due donne decisero di rimettere il bastone come l‘avevano trovato, se Susanna fosse tornata e avesse notato qualcosa? Magari l’aveva mes-so così apposta, in fondo a 76 anni, qualche stranezza poteva pure aver-la. Mentre Concetta si chinava (lo sforzo questa volta toccava a lei), ur-tò malamente l’inginocchiatoio, lo spostò dalla sua naturale posizione, sbattendo con la spalla contro uno spigolo. Mugolava di dolore, Ermi-nia non sapeva se soccorrerla o sgridarla, Oscar mugolava dall’altra stanza perché nessuno l’aveva ancora portato fuori e intuiva che quello era l’ultimo posto in cui liberarsi dal peso d’una vescica stracolma. In-fine ci fu un silenzio surreale, Concetta smise di mugolare e afferrò qualcosa, Oscar spaventato dal silenzio tacque. Tremando per l’emozione Concetta diede a Erminia il foglietto che a-veva raccolto da sotto l’inginocchiatoio, era la scrittura di Susanna che si era appuntata le seguenti misteriose parole: Lecco, Hotel Vistalago, ore 12.30.

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Non ci siamo scelte… Poche persone erano tanto diverse tra loro quanto Erminia e Concetta, Erminia era convinta d’essere in qualche modo il comandante in capo, ma Concetta era un soldato molto riottoso, anzi nel fondo del suo cuore sentiva di essere lei quella che aveva sempre, ma proprio sempre, ra-gione. Erminia era stata una sarta raffinata, per signore raffinate e molto esi-genti che però con lei si ammansivano quasi sempre perché in fatto di gusto e di precisione nessuno la batteva. Le signore arrivavano coi loro improbabili modelli e le loro stoffe quasi sempre poco adatte, poco co-lorate, troppo chiassose ecc. Erminia scuoteva la testa e le signore pre-sto scordavano il loro modello per adattarsi, convinte o meno, a quelli proposti dalla sarta. Alla fine tutte tornavano perché le gonne erano per-fette e le giacche cascavano a meraviglia, per non parlare dei vestiti, la specialità di Erminia. Il marito, amabilissimo e giustamente amatissi-mo, era morto improvvisamente, quando ormai entrambi potevano go-dersi la pensione. Come spesso accade, il povero Giuseppe se n’era an-dato troppo presto ed Erminia aveva stentato a riprendersi. Per fortuna aveva un carattere aggrappato alla vita e una adattabilità invidiabile. Aveva anche una figlia, Gianna, la quale, però, piuttosto che consolare la madre era lei stessa da consolare, perché malamente separata, senza figli e con 48 anni sul groppone. Erminia era sempre vestita bene, con colori coordinati e abbastanza vivaci, aveva i capelli in ordine in ogni occasione, variava collane e anelli, non ne aveva poi molti, ma li ruota-va spesso, in una girandola di cui solo lei conosceva i turni e le combi-nazioni. Concetta invece si acconciava da sola i candidi capelli, in una crocchia sulla nuca, da nonna le diceva con rimprovero, Erminia, ma a lei piace-va così, vestiva sempre di scuro, non tradiva le sue origini meridionali, al paese il lutto di una vedova durava per sempre, peccato che lei non fosse affatto vedova, almeno che lei sapesse. Infatti il marito non era ufficialmente morto, semplicemente una sera non era tornato dal lavoro e dunque doveva essere accaduto qualcosa nel tragitto dalla fabbrica alla casa, cosa nessuno l’aveva mai appurato. Forse oggi se fosse andata

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a “Ritrovateli!” avrebbe avuto dei risultati, ma il marito era scomparso 40 anni or sono e “Ritrovateli” era ancora da ideare. L’aveva lasciata sola col figlio di 3 anni. Per fortuna Concetta aveva già un lavoro come infermiera generica, quella delle padelle per intenderci, all’ospedale. Con sacrifici enormi era riuscita non solo a preservare il figlio da una vita “sbagliata”, come diceva sempre lei con orgoglio, ma anche a farlo laureare. Ora Pietro era un ingegnere, attaccato in modo morboso alla madre, aveva vissuto con lei fino all’età di 41 anni, da due anni però si era dovuto trasferire in un’altra città, la carriera e le preghiere della ma-dre l’avevano convinto ad accettare, ma ogni 15 giorni puntuale, Pietro passava il sabato e la domenica da mammà. Nonostante tutto, essendo un bell’uomo, intelligente e spiritoso, quando non era da mammà vive-va un’intensa vita sociale e veleggiava da una conquista femminile all’altra senza mai approdare ad alcuna riva sicura: la sua riva era la sua mamma. Erminia si trovava a suo agio tra stoffe e merletti, Concetta tra malati e defunti; Erminia comprava riviste di moda, modificava i modelli pen-sava spesso che, se avesse potuto studiare, sarebbe potuta essere una stilista. Concetta andava spesso all’ospedale spinta dalla nostalgia e poi, a casa, raccontava ad Erminia, inorridita, le patologie più interessanti che aveva incontrato nel suo giro sanitario. Erminia cominciava a senti-re su di sè i vari sintomi e cercava di arginare Concetta mostrandole a-biti che all’amica non interessavano affatto, avendo lei abbandonato ogni parvenza di femminilità da quando il malandrino si era volatilizza-to (aveva avuto le sue ragioni, talvolta pensava Erminia, osservando Concetta sciatta mentre parlava di purghe e clisteri, d’altra parte Con-cetta riteneva che Giuseppe non avesse retto, una volta in pensione, al tempo pieno con la moglie….). Erano diventate amiche più per logistica che per scelta. Abitavano sullo stesso pianerottolo al primo piano d’una palazzina a tre piani, anni ’60, quasi al centro di Novara. Susanna era arrivata dopo, l’avevano trasferita a Novara dalla natia Riccione, pensava di fermarsi alla scuola elementare di Novara per un anno e poi si era fermata per sempre. Di lei si sapeva ch’era maestra, ma perché avesse chiesto il trasferimento non l’aveva mai rivelato, par-lava molto Susanna, ma quasi mai del tempo prima di Novara. Emerge-va da un oscuro passato (se non ne parlava doveva per forza essere o-scuro), ma a Novara aveva vissuto una vita irreprensibile, aveva affitta-to un piccolo appartamento al secondo piano, proprio sopra la casa di Concetta, ed era naturalmente colata giù, quand’era andata in pensione,

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verso le sue coetanee. Non si sapeva dell’esistenza di parenti, aveva pe-rò amici, ex alunni, ex colleghe, ma in complesso la sua era una vita so-litaria, la sua vera famiglia erano le due vicine di casa. Susanna, a parte l’oscuro passato e l’estrema precisione, era equilibrata ed era divenuta il collante del gruppo, in lei si stemperavano i fulmini che scoccavano fra le altre due, inoltre era un’eccezionale giocatrice di svariati giochi di carte che aveva insegnato alle amiche vivacizzando e variando le loro serate altrimenti dedicate alla televisione, ognuna a casa sua s’intende, nemmeno sui programmi televisivi le due andavano d’accordo.

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Partiamo? “Andiamo in aereo?” “Ma cosa dici, vuoi andare in aereo a Lecco? Da Novara?” “Non l’ho mai preso un aereo io, mi sarebbe piaciuto e poi abbiamo fretta.” “Concetta taci, prima di tutto non abbiamo fretta, di sicuro alla Susanna non è successo proprio niente e poi…” “E poi?” Ma Erminia non rispose, in effetti sperava che a Susanna non fosse suc-cesso proprio niente davvero. Concetta rassegnata sospirò, ancora una volta le era andata male, suo figlio non amava volare e quindi quando andavano al paese in Sicilia, viaggiavano in treno o in auto e lei l’ebbrezza del volo non l’aveva mai provata. “Ma tu in aereo ci sei mai stata?” “Una volta, siamo andati in Sardegna, è stato bello, però preferisco la terraferma. Va là che in aereo noi due da sole cosa facciamo, bisogna prendere i bagagli al volo, poi fare il chekh up per mostrare di non ave-re armi o cose pericolose. Magari passi di lì hai una stecca di metallo nel busto, suona la campanella si accendono le luci e tutti ti guarda-no…” “O Santa Rosalia” “e poi ti perquisiscono… Quindi aereo escluso oltre al fatto che ci ride-rebbero dietro. No, andiamo in treno è ovvio, compriamo la guida degli orari e studiamo lì la situazione, prima però bisogna trovare un po’ di soldi. E bon!” Concetta intanto meditava poi sbottò “E i nostri figli?” Di rimando Erminia sbottò “E Oscar?” Decisamente partire era affare complicatissimo, partire in incognito poi... Per un po’ Erminia e Concetta rigirarono il foglietto misterioso ritrova-to a casa di Susanna. Era chiaro che lei si trovava a Lecco, nell’albergo Vistalago, ma era il caso che loro due partissero alla sua ricerca? Se non aveva detto nulla può darsi che semplicemente volesse essere la-

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sciata in pace. A quel pensiero entrambe respiravano più liberamente, ma poi poggiavano la testa sull’altro braccio (quello cattivo, il sinistro, quello del cuore) e meditando meditando arrivavano a conclusioni più cupe. E se fosse stata costretta a partire precipitosamente? Se si fosse trovata in pericolo? Poteva essere che il biglietto le fosse caduto appo-sta, per lasciare una traccia alle amiche, mentre i suoi rapitori erano di-stratti. “Rapitori, magari terroristi” “Mischina! Erminia perché terroristi, io pensavo a qualche parente sco-nosciuto.” “No potrebbero anche essere quei terroristi islamici, lo sai no che la Su-sanna faceva sempre catechismo e delle volte serviva persino messa. Si saranno sentiti urtati dalla supremazia femminile”. “Ma se non vanno in chiesa come fanno a sapere che la Susanna faceva ogni tanto le veci del sacrista?” ”Quelli sanno tutto. E bon! Parenti sconosciuti… Cosa ti salta in men-te? Se avesse avuto parenti sconosciuti noi li avremmo conosciuti di si-curo.” Convinta da questa inossidabile argomentazione totalmente priva di lo-gica, Concetta, alla fine si pronunciò: “dobbiamo cercarla” disse. “Se la troviamo e non ci vuole ci manda via”. Erminia pensò che era una buona soluzione, se l’amica non era in peri-colo sarebbero tornate a Novara e almeno avrebbero dormito sonni tranquilli. Ora bisognava prepararsi alla partenza. Erminia si occupò delle incom-benze esterne e organizzative, Concetta di sistemare bagagli, vettova-glie e di scrivere un biglietto ai figli che poi Erminia avrebbe riveduto e firmato. ”Vado per il treno, poi alla posta a prelevare dei soldi e tu? Dobbiamo mettere parti uguali” Concetta annuì con aria cospiratrice, entrò in camera e dopo un certo numero di scricchiolii, brusii, fruscii, tornò in sala con un bel mazzetto di 50 e 100 euro in mano. “Me li lascia il bambino (cioè il suo figliolo) per ogni evenienza, questa è una vera evenienza, no?”. Erminia ammirò la preveggenza del ‘bambino’ e corse alle sue com-missioni, mentre pensava angosciosamente che fare di Oscar che le trot-terellava accanto, finalmente liberato dal peso opprimente della vescica. Concetta in casa stava stendendo a fatica la lettera per i figli, doveva essere uguale, diceva Erminia, rassicurante e vaga, soprattutto vaghis-sima, non che quelli le andassero a cercare. Non tanto Gianna, quanto quel mammone del figlio di Concetta.

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Concetta sudava e sbuffava, patendo soprattutto l’impossibilità di scri-vere tutte quelle paroline dolci che una mammina scrive al suo bambino e che non erano proprie del vocabolario di Erminia e Gianna, che anzi bisticciavano sempre. Erminia sudava pensando al fatto che Oscar do-veva portarselo con sé… anzi con loro. “Cari figli, siamo partite per un viaggio pasquale. È meglio se cercate qualcun altro per la domenica di Pasqua, noi finalmente abbiamo pensa-to a svagarci un po’, vi vogliamo bene, siamo in ottima forma. Oscar viene con noi, ah, non cercateci, abbiamo il cellulare vi chiamiamo noi, saremo al lago, a Lecco. Buona Pasqua figlioli carissimi, le vostre ado-rate mamme”. L’eccesso di aggettivi sdolcinati fece storcere la bocca a Erminia, ma non se ne poteva fare a meno, aveva già dimezzato la lettera di Concet-ta e questa si rifiutava di firmarla, così giunsero a un compromesso. Misero la lettera nella sala di Concetta, tanto il figliolo sarebbe arrivato certo prima della figlia di Erminia e avrebbe diramato lui la notizia, poi si dedicarono alla scelta del treno e alla sistemazione del bagaglio e di Oscar, all’albergo avevano già telefonato, prenotando le stanze. Due stanze rigorosamente separate: io russo, tu parli, meglio stare divise, ognuno ha le sue abitudini. Il pensiero di dormire nella stessa camera risultava fastidioso a entrambe: Concetta non concepiva di dormire nel-la stessa stanza di un cane ed Erminia non concepiva di dormire nella stessa stanza con un altro essere umano.

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Da sola Susanna, seduta nell’ampia hall dell’albergo “Vistalago”, sito nel cen-tro di Lecco, da dove il lago non si vedeva affatto a meno di avere le stanze all’ultimo piano, guardava perplessa i due fogli che teneva reli-giosamente in mano. Leggeva il primo, passava al secondo e poi di nuovo al primo. Talvolta leggeva il secondo due volte, talvolta il primo, ci fu un momento in cui pareva leggere una parola di qua una di là, alla fine, com’era ovvio pre-vedere, posò i fogli sulle ginocchia chiuse gli occhi. Un lieve capogiro la costrinse a fermarsi e a pensare cosa fare. Vista l’ora decise che do-veva mangiare, nonostante si fosse gettata sulla colazione internaziona-le con grande e vorace entusiasmo, arrivando persino ad assaggiare il pesce affumicato. Si rese conto che l’avventura, il viaggio, le novità e soprattutto le scelte le mettevano un appetito fuori dal comune. Susanna non era molto alta, un tempo era stata esile e un po’ legnosa, ma col passare degli anni si era decisamente appesantita, era rotolata allegramente lungo la vecchiaia, finché non fu costretta ad usare il ba-stone e poi addirittura a mettersi a dieta. Era dimagrita, non rotolava più ed era molto meno allegra, però poteva usare il bastone solo quando era veramente stanca. Il vantaggio non valeva la dieta, ma aveva un medico cui era difficile disobbedire. “Ma com’è il vostro dottore?” aveva chiesto una volta alle sue vicine di casa. La risposta era stata sconsolante e unanime. Il medico era tremen-do, loro non osavano disobbedirgli, né obiettare alcunché, inesorabil-mente il medico le metteva a dieta: insomma era una ineluttabile condi-zione… La dieta, ovviamente. Grazie alle ultime rinunce gastronomiche ora Susanna da una parte a-veva potuto lasciare a casa il bastone, che, secondo lei, la invecchiava, dall’altra si sentiva abbastanza in forma per indulgere a qualche piccolo peccato di gola. Non voleva arrivare all’appuntamento rotolando, ma un po’ di carne avrebbe forse riempito qualche ruga, scaturita dopo che la pelle improvvisamente sprovvista di grasso si era accasciata sulle guan-ce, creando un effetto bull dog poco attraente. Invece lei voleva almeno ringiovanire un poco, essere più bella, cascare un pochino meno.

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Risoluta, dopo avere ripiegato i due foglietti con cura e averli riposti in un ben preciso angolo della borsetta in cui soggiornavano comodamen-te da alcune ore, la donna andò al ristorante, provvide con grande ope-rosità a ricreare un piccolo strato di riempitivo per le rughe più profon-de, poi decise di cercare una pettinatrice, capelli nuovi, nuova tinta, magari un po’ di manicure e poi persino un massaggio. Un massaggio? No, Susanna, ritirò subito il pensiero da quella lussuria diabolica. No, permanente, manicure e un filo, un filino di trucco, l’appuntamento era per le 17. Aveva tempo, anzi poteva addirittura comprarsi un vestitino a fiori, verde, verde brillante ecco, un colore che si accompagnasse alla collana che lui tanti anni prima le aveva regalato e che aveva portato con sé. Soddisfatta sia del suo programma che della sua previdente mania dell’ordine, Susanna si alzò dal tavolo, erano le 14.00 l’ora in cui prima di un riposino pomeridiano, si ritrovavano lei Erminia e Concetta a par-lare della mattina e a programmare qualche eventuale attività pomeri-diana. Il pensiero delle amiche la intristì un poco, le stava ingannando, non c’era dubbio, ma non poteva fare diversamente, ormai il dado era tratto anche se certamente loro non avrebbero capito e il ritorno, se di-sgraziatamente ci sarebbe stato, sarebbe stato molto amaro. Scacciò la tristezza ripensando sia ad alcuni litigi storici soprattutto tra Erminia e Concetta, sia al cane Oscar che per ben tre volte aveva fatto la pipì sui suoi vasi da esterno. Se avesse giocato bene le sue carte, e lei era un’abile giocatrice, avrebbe potuto dare a 76 anni la seconda grande svolta della sua vita e all’incrocio ancora una volta si trovava la stessa persona. Presa da un improvviso timore, Susanna, una volta in camera, rilesse il primo e il secondo foglio, ma si addormentò quasi subito, sognò la ma-estrina che era stata, lo sconosciuto che l’aveva conquistata, poi, forse a causa della difficile digestione, si ritrovò con le due vicine a contempla-re l’ennesimo vaso rovinato o concimato da Oscar. Si svegliò di sopras-salto senza aver portato a termine la lavata di capo a Erminia, padrona di Oscar e dunque responsabile della sua vescica. Il brusco risveglio non la preoccupò: era ora di muoversi, l’attendeva un tuffo nel passato. Alle 16.30 una festante Susanna rientrava nella hall dell’albergo senza vista sul lago. Aveva riccioloni castani, il suo colore naturale 30 anni or sono, mani curatissime, con unghie laccate di un rosa discreto, il vestito verde a fiori, con un voulant birichino proprio intorno alla scollatura,

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gli occhi cerchiati di nero parevano grandi e risaltavano persino sotto gli occhiali che proprio non poteva evitare. Si diresse verso il portiere chiese la chiave, ma c’era un messaggio per lei, sì proprio per lei. “Un messaggio?” prese il foglio e lo scorse, poco ci mancò che le uscisse un’imprecazione, la seconda forse della sua vi-ta. Può darsi che all’incrocio nella strada della sua esistenza ci fosse sempre la stessa persona, ma o a quello stesso incrocio arrivavano in orari diversi, o, se l’ora era la stessa, cambiava l’incrocio e, alla fine, era sempre lei a doversi spostare. Arrabbiata appallottolò il foglio e lo abbandonò sul bancone, solerte il portiere lo rimise nella casella della camera 127, dove poco dopo Su-sanna depose la chiave. Era in partenza, l’incrocio era stato spostato al giorno dopo, trattavasi di un incrocio di Verona.

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Luoghi romantici Susanna si era appena sistemata nel suo vagone al suo posto, dal lato del treno che guarda avanti per evitare di star male, occupava addirittu-ra il sedile vicino al finestrino. A mano a mano che il tempo trascorreva sentiva l'ira sbollire, è vero che era fallito l'appuntamento a Lecco, ma Verona era certo una città più adatta per un incontro tra innamorati. L'appuntamento era al bar Arena, giusto per l'indomani alle 17.00, che squisitezza anglosassone, l'ora del tè nella città di Giulietta cui lei in quel momento si sentiva tanto affine. Ma si trattava proprio del bar Arena? In effetti il nome, anche se signi-ficativo, non era poi molto romantico, forse ricordava male, meglio ri-controllare il biglietto che le avevano recapitato nell'albergo di Lecco. Povera Susanna, frugò e rifrugò nella borsa capiente, tanto che stava per sfondarla, ma non trovò il biglietto. Rinvenne è vero molte altre uti-li cose: le medicine per il diabete, quelle per la pressione, il blando son-nifero vegetale, le caramelline senza zucchero, le salviettine profumate collezionate in ogni ristorante "specialità pesce". Susanna odiava il pe-sce, ma adorava le salviettine al limone. Fazzoletto di cotone ricamato, poco pratico, ma fine e fazzoletti di carta a un leggero profumo di fra-gola. Trovò le chiavi di casa, il portafoglio, il portamonete, la bottigliet-ta dell' acqua, il bicchierino portatile, scovò taccuino e penna a sfera, era pur sempre una maestra. Insomma la borsa era colma d'ogni ben di Dio, mancava solo il biglietto. Susanna, anche se doveva controllare la glicemia e aveva la pressione un po' alta, aveva però mantenuto la me-moria della giovinezza, quando imparava a memoria lunghe poesie, in-teri canti della Divina Commedia, e così si sovvenne che il biglietto giaceva appallottolato in qualche angolo dell'albergo di Lecco. Ahimè, ora l'unica speranza era che il bar fosse proprio l'Arena. Susanna certo non poteva immaginare che la realtà per lei si faceva più complessa e drammatica, infatti, come poteva supporre che il fatidico biglietto pro-prio in quel momento fosse tra le mani esterrefatte della esterrefatta Concetta, prossima a uno svenimento e sostenuta da Erminia? Ignara della tragedia incombente sul suo capo, Susanna abbandonò la ricerca e si abbandonò piuttosto ai ricordi, così strettamente mescolati

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ai sogni che nemmeno lei sapeva più distinguere ciò che era avvenuto e ciò che avrebbe desiderato. Che male c'era? Idealizzare il passato, sen-tirsi oltre che Susanna, la maestrina, anche Giulietta, la famosa amante, non recava danno a nessuno, perché a nessuno mai Susanna aveva rive-lato né i suoi sogni né i suoi ricordi. Molti anni prima a Riccione la città dov'era nata e dove ormai da molti anni era una stimata maestra era arrivato un uomo, spuntato dal nulla. Era bello, veniva dal sud, aveva i capelli neri e gli occhi profondi. Su-sanna allora non aveva l'età di Giulietta, ma ne incarnava lo spirito in-genuo, assetato d'amore e di romanticismo. Non aveva 16 anni, ma 36 dunque non era una virginale fanciulla, ma una virginale quasi zitella, c'era una bella differenza agli occhi di tutti, non nel cuore di Susanna, che aveva eletto il nuovo arrivato al rango del suo Romeo. L'uomo trovò subito lavoro, faceva il bracciante nelle fertili campagne romagnole, s'accostò a Susanna perché desiderava prendere la licenza elementare, chiese d'una maestra e un po' per burla, un po' perché Su-sanna era brava davvero, le fu indicata quella particolare maestra. L'uomo non era uno sprovveduto, anzi si sarebbe potuto definire uno sciupafemmine, comprese subito che la matura Giulietta era rimasta folgorata al solo vederlo, decise così di approfittarne, aveva bisogno di amicizia, lezioni gratis e una spinta per ottenere la licenza elementare e poi tentare altrove la fortuna. Una bella carogna è vero, ma a chiunque allora avesse detto a Susanna di stare attenta lei avrebbe tolto stima e saluto. Solo la madre e la sorella, il padre era morto da tempo, non ces-savano di esprimere apertamente il proprio parere. Invero avessero usa-to più diplomazia avrebbero raggiunto forse maggiori risultati, ma le due donne non avevano la stessa raffinatezza e sensibilità d'animo di Susanna e con una concretezza molto contadina le ripetevano: "Batu-còuna! Bello è bello, troppo per te". "Non fidarti, sei troppo stagionata per l'amore". "E' un terrone, magari ti sposa, però sono sicura che ha una moglie da un’altra parte". "Non può volerti bene…" e lasciavano la frase in sospeso perché il succo era non può volerti bene perché sei bruttina, invecchiata e hai occhiali spessi come fondi di bottiglia, botti-glie vecchie per giunta. Susanna non era stupida capiva che tutti la deridevano, tutti pensavano che lui la ingannasse, ma lei credeva solo al suo cuore, si nutriva di po-esia e letteratura, nei libri trovava tutta la comprensione che le serviva. I libri tracimavano uomini come lui: belli, gentili, pieni di premure, ammaliatori. Erano anche piene di eroine contrastate nell’amore, pro-prio come lei. Grazie al contributo di tutti dunque quella che poteva es-

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sere una semplice infatuazione divenne un amore contrastato, bestia della peggior specie, più difficile da sradicare di un assicuratore che ti impone una polizza sull’incendio del vecchio tosaerba. I due andavano per prati, Susanna ammirava fiori, nubi, alberi, il mare, lui ripassava le tabelline, l'ortografia e un po' di geografia. Così tra so-spiri e interrogazioni passarono i mesi, venne il momento dell'esame, l'uomo misterioso era pronto per la mossa finale, chiese a Susanna una prova d'amore. Susanna si sentì arrossire, sentì caldo e freddo, si com-portò come una vera eroina da romanzo, era pronta a sacrificare all'uo-mo meraviglioso la sua verginità, ma lui non intendeva precisamente quella prova, bensì una prova più pratica e meno poetica: un aiuto per il compito di matematica. “Solo per la licenza, così troverò un lavoro migliore e potrò darti la vita che una signora come te merita. Ti rispetto troppo per chiederti altro prima del matrimonio." La parola matrimonio lenì la delusione sorta nel cuore di Susanna e aprì la sua mente alla possibilità di fare uno strappo alla regola, di aiutare il suo amore che, lei ne era testimone, aveva studiato e meritava un suo aiuto. Il bel tenebroso, ottenuta la licenza elementare, cercò un lavoro, ma al-trove, in un luogo misterioso tanto quanto quello da cui era giunto. A Susanna non restò nulla, se non il ricordo. Qualche mese dopo arrivò una cartolina piena di affettuosi ringraziamenti, proveniva da Novara. In capo a una settimana Susanna aveva chiesto il trasferimento. La ma-dre e la sorella la salutarono con commozione e una profonda convin-zione: chi troppo studia matto diventa.

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Parliamo? Un fastidioso rincorrersi di frasi interrogative sempre più pressanti tra-volse Susanna, chiaramente qualcuno le stava chiedendo qualcosa, strappandola ai suoi ricordi. Si scosse, distolse lo sguardo dal finestrino e osservò i suoi interlocutori, sì perché, nonostante tutto, aveva colto che le domande provenivano da una voce femminile e da una maschile, nonché da accenti diversi. L’essere stata per anni maestra l’aveva aiuta-ta a destreggiarsi in situazioni ben peggiori, quando ad accalcarsi erano almeno dieci o dodici voci di altrettanti bambini. Guardò i due interlo-cutori con un sorriso gentile, ma distante che nel suo intento avrebbe dovuto spegnere ogni tentativo di conversazione. Non fu così. La signora di mezza età, vestita con sobria eleganza, aveva un sorriso mite e occhi imploranti, le stava chiedendo con evidente disperazione: “Lei che ne pensa?”. Che ne pensa di che? E perché ha uno sguardo implorante? Susanna fis-sò allora il giovane seduto quasi di fronte a lei, anche lui le chiedeva con accento straniero cosa ne pensasse. Susanna capì che il giovane, molto bello, era però arabo, e dunque di sicuro mussulmano, istintivamente la mano corse alla borsa e qui trovò riposo intorno ai grani del rosario. Forte di questa protezione, si scusò con entrambi, dicendo che non aveva opinioni particolari giacché non sapeva di cosa si stesse discutendo. Tentò di volgere lo sguardo verso il finestrino, ma fu fermata dal giovane che prese ad armeggiare nel suo zaino. “Gesummaria, questo è un terrorista”, Susanna strinse con più forza i grani del rosario, ma era un falso allarme, il ragazzo trasse dallo zaino delle fotografie: erano le immagini della sua famiglia e il soggetto principale era la sua mamma. Susanna trasse un sospiro di sollievo, ecco un clone del figlio di Con-cetta, la religione è la religione, la razza la razza, ma la mamma è sem-pre quella. Mentre pensava furiosamente tutte queste cose il ragazzo non aveva smesso di parlare ad entrambe. A questo punto Susanna comprese lo sguardo implorante della compagna di viaggio: era estenuata dal mare

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di parole e dalle altrettante correzioni grammaticali, di lessico, accento e pronuncia cui era sollecitata dalla faconda conversazione del giovane. Hamìd, algerino, di buona famiglia, studiava in Italia, paese verso cui nutriva uno smisurato quanto immeritato, forse, affetto e ammirazione. “Moi, io viaggio, madame, signora, perché voglio converser con molti di Italiani per imparare il vostro linguaggio, così bello, ma très, tanto, sì tanto, difficìle, diffìcile, grazie”. Quando il ragazzo scoprì quello che Susanna incautamente aveva rive-lato e cioè i suoi tremendi trascorsi di maestra fu la fine. Hamìd si gettò entusiasticamente in una conversazione senza capo né coda, con un e-loquio degno di un giocoliere, fantasmagorico, in cui Susanna doveva intervenire a correggere, modificare, addirittura servendosi d’un taccui-no spuntato dal capiente zaino di Hamìd dopo le famose fotografie. Alla fine Susanna, estenuata e molto arrabbiata con la compagna di viaggio, che ora ostentatamente leggeva un libro, chiese al ragazzo da dove originava questo amore per l’Italia. “Però questa volta Hamìd mi faccia il favore di parlare lentamente e di non chiedermi di correggerla, mi faccia ascoltare la storia tranquillamente, ça va?”. Hamìd si mise comodo, ritirò il taccuino ed estrasse un libro, con gran-de stupore le due signore videro che si trattava dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, in italiano con traduzione francese a fronte, invero scadente, pensò Susanna dando un’occhiata all’inizio: “Le donne i ca-valier l’armi gli amori io canto”. “Ah, io amavo leggere sempre da bambino, avventura avventura, anche il Corano (brivido di Susanna e stretta al rosario), ma i chevaglieri mi gustavano troppissimo. Questo libro era del mio granpapà, il nonno dite voi, l’ho letto tante tante volte, ogni anno. Davvero madame Susanna lei non crede?” “Sì, sì” disse Susanna per non fermare la narrazione che si faceva inte-ressante e poi con un mussulmano non si sa mai… Il mio granpapà allora mi parlò dell’Italia, lui era un poco arrabbiato con voi perché poveri chevaglieri moreschi, tutti cattivi, tutti morti, l’unico buono diventa cristiano. No, non va bene. Vero?” “Eh!” Fu l’enigmatico commento di Susanna che perseguiva un com-plicato tentativo di dire un’ave pater et gloria e di ascoltare insieme la storia. “Allora io ho detto al nonno, guarda io vado in Italia imparo l’italiano e scrivo una risposta al signor Ariosto. Ero piccolo non sapevo che era morto da tanto tempo. Ma voglio mantenere la promessa, ho studiato prima in Francia da miei cugini, poi sono venuto in Italia e mi sono in-

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cantato. Bello il mare, le montagne, i paesi, tutto, anche le chiese, bel-lissima arte. Bella la vostra lingua, io voglio diventare scrittore e ri-spondere lo stesso al grande Ariosto, scrivere la storia dei chevaglieri arabi, Rodomonte, il grande Saladino. Che dice madame la maestra pensa che posso farlo?” Susanna, dopo le ultime affermazioni aveva lasciato il rosario a riposo e guardava sorridente il ragazzo, ma che bravo, ma che bello, ma che bel-la gioventù, si riscoprì piena di ardore pedagogico. Si fece dare il tac-cuino da Hamìd e gli scrisse il titolo di un libro di Calvino sull’Orlando Furioso, poi altri libri sulla cavalleria. “Leggili, Hamìd, qualcun altro ha cominciato a scrivere dei cavalieri in modo diverso, tu completerai l’opera, sono sicura che tra qualche tempo e dopo qualche viaggio in treno a conversare con le persone sarai in grado di scrivere la tua storia e io la leggerò.” Eh, Susanna quando tornava maestra era una forza della natura: Hamìd si sentì tanto consolato che tacque, ricominciando a leggere il suo Or-lando Furioso. Intanto Verona si avvicinava.

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Qui comincia l’avventura… “Hai preso gli occhiali di scorta?” Chiese Erminia a Concetta, notando che l’amica sfoggiava vistosi, quanto antiquati, occhiali da sole, nono-stante il tempo volgesse al brutto. Di rimando Concetta domandò: “E tu hai preso le medicine? Anche quelle a stomaco mezzo pieno?” Come partenza non c’era male: cominciavano da subito a punzecchiar-si. Fare qualcosa insieme era nuovo per loro, organizzare una partenza ancor di più, fortunatamente il pudore impedì un’approfondita indagine sulle rispettive protesi dentarie. “Perché porti il bastone di Susanna?” “Non si sa mai. Prima di tutto è un’arma e poi è impregnato dell’odore di Susanna, stai certa che Oscar la individuerà anche fosse finita in America”. Tacquero pensose, la prospettiva dell’America le preoccupava un poco: andare a Lecco, passi, ma un viaggio nell’America! Intanto il cane O-scar, rinchiuso in uno striminzito trasportino che puzzava orrendamente di gatto, gettava continui e strazianti guaiti. “Sono un cane meticcio, di taglia piccola, cacciato a viva forza in que-sta gabbia semovente, sicuramente qua dentro c’è stato un gatto, l'or-renda puzza è inconfondibile. Questa crudele caneumana se l'è fatta prestare dalla dirimpettaia che di solito ci trasporta il suo enorme sia-mese. Enorme ma più piccolo di me, così io qui dentro ci sto a malape-na. Perché non mi hanno lasciato a casa? Quanti sobbalzi, sono pesante, lo so, mi dai troppo da mangiare e non ricordo quanto tempo è trascorso dalla mia ultima corsa. Anzi forse non ho mai fatto una corsa: dev’essere un tratto archetipico della mia razza. Vi paio inoffensivo ma millenni fa anch’io fui lupo". I guaiti di Oscar nascondevano la mente d'un cane molto intelligente, molto filosofo e molto attento alla televisione sempre accesa in casa d'Erminia; tutte qualità direttamente correlate alla fondamentale caratte-ristica di Oscar: la sedentarietà. Suo antenato fu il lupo, però sua compagna era ora l'anziana Erminia che lo ipernutriva di cibo e parole, ma non aveva sviluppato il suo lato avventuroso, il lato più selvaggio. Così Oscar, il cane filosofo, ma pi-gro, guaiva di dolorosa costernazione: il mondo era impazzito. Com’era grande il mondo, però.

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“Pesa, eh?” Disse Concetta a Erminia che ormai non ce la faceva più a camminare oppressa dal trasportino di Oscar. “Non potevi portarlo al guinzaglio?” Erminia posò Oscar, dardeggiando con lo sguardo Concet-ta e, ansimando vistosamente, le rispose: "E sse, poi ssi perdeva? Sse mi fosse ssfuggito di mano? (il respiro era sibilante più per la fatica che per la rabbia, ma faceva il suo bell’effetto). Lo sai com’è com’è inge-nuo? Anzi imbranato!" Oscar ingiustamente offeso cessò di guaire e abbaiò con vigore. Erminia non gli badò, non permetteva ad alcuno di interrompere un suo ragionamento. “E poi, e poi… così non dobbiamo prenotare un intero scompartimento. Anzi, dato che risparmieremo sul biglietto, io chiamo un facchino, anche tu stai crollando sotto il peso del nostro bagaglio.” Erminia non poteva concepire che Concetta, più vecchia di lei, forse meno stanca, meno provata: invece, ahimé, era proprio cosi. Ma Con-cetta era concreta, non replicò alla compagna, pensò al ritardo accumu-lato, al treno che stava per partire e chiamò lei stessa il facchino. Un ul-teriore scossone minò il fragile equilibrio psico-fisico di Oscar che ri-prese a guaire, mentre già l'altoparlante annunciava il loro treno. Il baldo facchino camminava a grandi falcate, Concetta ed Erminia pa-revano un frullatore con le pile quasi scariche: inesorabilmente rallen-tavano rallentavano. Quando giunsero sul binario, ritrovarono il facchi-no che osservava assorto il lento incamminarsi del treno. Forse era un facchino zen: era già stato pagato, lui era arrivato in orario e non aveva nulla da rimproverarsi. Aspettava con un distacco orientale. Concetta ed Erminia invece erano pienamente figlie della loro terra, in particolare Concetta, che si mise a rincorrere il treno, urlando: “Frena, frena. Mi-schina.”, mentre brandiva il bastone di Susanna. Erminia, dopo un atti-mo d'esitazione, si unì all'amica, ma solo camminando; un po’ di digni-tà insomma! Forse il macchinista teneva madre anziana, forse sentiva lo spirito aleg-giante della Pasqua, forse temeva che Concetta scivolasse e finisse sotto il treno e che all’altra vecchietta prendesse un accidente. Forse, forse… alla fine quel che è certo è che si fermò. Grato della novità, il facchino, si industriò nell'issare sul treno con la stessa solerzia i bagagli, Oscar e le due viaggiatrici. "Grazie, grazie" si salutarono con calore e anche Oscar stette buono buono, era inebriato dai troppi odori, stordito, tanto stordito che finì, filosoficamente, per appisolarsi. "Bell'inizio” disse Erminia quando si sedettero in uno scompartimento stranamente deserto. Concetta, fiera di sé, sorrise, die-de un buffetto a Oscar e si rilassò decidendo che alla stazione di Milano

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avrebbe preso un cappuccino al bar. Uno dei piaceri della vita, pensò appisolandosi anche lei.

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… e la disavventura Appena scesero dal treno Concetta ed Erminia si stupirono una volta ancora della maestosità della volta che ricopriva la stazione di Milano. Era passato per entrambe molto tempo da che si erano fermate a quella stazione ora essa appariva loro come un antro enorme e magico, come la volta d’una cattedrale pagana che risuonasse di eco infinite. Fecero “Oh!” rispose solo l’uggiolio disperato di Oscar. “Andiamo a prendere il cappuccino, tanto la coincidenza per Lecco è fra un’ora” “E come faccio con Oscar?” “Guarda che tanto fino a là dobbiamo andare per vedere su che binario è il treno, togli quel povero cane dalla gabbia e mettigli il guinzaglio… ah no! Non dire che poi scappa, a questo punto sarà già mezzo paraliz-zato, mischinu”. Erminia ammise che sì, Concetta aveva ragione e poi provava pena per il povero Oscar, farlo camminare per la stazione poteva essere pericolo-so, ma tenerlo nel trasportino taglia micio sarebbe stato peggio. “Hai ragione”, disse un poco stupita Erminia che spesso pensava di a-ver ragione solo lei, “così gli do anche da bere e noi ci prendiamo qual-cosa di buono”. Concetta sorrise con una certa sufficienza, certo che aveva ragione, solo che Erminia… Va bene adesso era ora di muoversi il cappuccino se lo voleva gustare con calma e la stazione di Milano era lunga, ma lunga. Se ne accorse anche Oscar che sgambettò felice in una delle più lunghe passeggiate dei suoi ultimi anni, molto sedentari. Un po’ arrancanti e ansimanti, Concetta ed Erminia giunsero in fondo alla stazione, là dove stavano gli enormi cartelloni con gli arrivi e le partenze, dove i chioschi di giornali, i bar, i negozi vari si moltiplicava-no. Le due amiche decisero però recisamente per il bar interno, quello più bello, l’unico che entrambe ricordassero. Che fosse divenuto meno prestigioso non s’avvidero, nel ricordo tutto si accendeva di colori, di luci anche a quell’ora d’un mattino uggioso. Concetta si sedete a un ta-volino. “Addirittura ti siedi, chissà quanto ci costa”.

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“Ma dai, un cappuccino, alla stazione, non vedi? Non ci sono mica solo persone eleganti”. A ben guardare le persone eleganti erano pochine, però il cameriere era proprio ben vestito e molto gentile, diede loro la carta. “Cappuccio, caffè scecherato, moccaccino, irisc coffee e maroc-chino. Come facciamo a scegliere, cos’è tutta ‘sta roba?” Proruppe Er-minia esasperata, mentre Oscar tirava per raggiungere chissà quale odo-re accattivante. Concetta, pazientemente, spiegò di cosa si trattava. “Ma tu come le sai queste cose?” “Il mio Pietro, quando mi porta al bar mi fa scegliere sempre qualcosa di diverso” disse Concetta con orgoglio, sapendo che Gianna, la figlia, non portava Erminia da nessuna parte, stavano in casa a litigare, lei le sentiva sempre. Erminia si accorse che Concetta se la stava cavando meglio di lei, spes-so le persone se spinte da una giusta motivazione, come un buon cap-puccino, si mostravano determinate e diverse dal solito. Erminia dovet-te smettere un poco le sue arie da capo spedizione, il che alla fine non le dispiacque, si senti più rilassata e scelse un marocchino, decisa a dar-si alle novità. D’un tratto Oscar si mise a guaire e a strattonare. “Bravo, stai bravo” diceva Erminia, ma niente da fare Oscar si era libe-rato e correva appresso a un individuo. Si attaccò coi denti e col suo minuscolo peso ai pantaloni del giovane che prese a scalciare, allora Erminia vide che l’individuo aveva in mano il suo portafoglio. “Al la-dro” urlò precipitandosi dietro l’individuo, seguita da Concetta. Bran-diva minacciosa il bastone, lo roteava come una mazza con un’energia che stupì gli astanti, alla fine il bastone cadde e qualcosa colpì. Non la testa cui aveva mirato Erminia, ma il braccio. Il ladro lasciò cadere il portafoglio, Oscar che era un cane non violento mollò la presa e le due anziane donne si fermarono prese da un affanno terribile, tanto che Concetta dovette essere soccorsa da un medico di passaggio, Erminia si rammaricava solo della sua mira così scarsa. Intanto un avventore ave-va preso il portafoglio semiaperto e aveva detto, dispiaciuto: “Ma si-gnora le hanno già rubato tutto”. Il portafoglio infatti conteneva solo alcune foto e svariati santini. “No, no”, li rassicurò Erminia, “mica li tengo lì i soldi e i documenti” e con un sorriso astuto indicò altri vaghi luoghi. “Però il portafoglio era un regalo e le fotografie e i santini mica volevo perderli”. Nessuno fiatò, in fondo anche in questo c’era la sua logica. Concetta si era ripresa, Oscar accoglieva innumerevoli complimenti e carezze, compreso qualche ben più gradito biscotto ed Erminia si pavo-

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neggiava per l’avventura superata così brillantemente, non dovette nemmeno trarre qualche soldo dai suoi nascondigli perché il barista of-frì loro cappuccino e marocchino. Appena in tempo si ritrovarono al binario con Oscar stanco e soddisfat-to nel trasportino che cominciava a perdere l’odore di gatto per acqui-stare l’odore tipico di un supercane quale lui era. Pigramente il treno partì, così infatti si muovono di solito i treni con una sorta di ritrosia, poi volano, non tutti, ma alcuni sì. Il treno per Lec-co era un treno moderato, le amiche ebbero tutto il tempo per confortar-si, consolarsi, complimentarsi e ricordarsi che erano lì per una precisa ricerca. A Lecco, presero un taxi che le lasciò all’albergo Vistalago. Erano da poco entrate nella hall e si guardavano intorno un po’ smarrite e incerte sul da farsi, quando da un altoparlante si sentì “La signora Mongibelli è pregata di recarsi alla reception”. La signora Mongibelli, cioè Concetta, meccanicamente si mosse verso il primo signore simpa-tico che aveva scorto, per fortuna era proprio l’addetto alla reception. Erminia e Oscar come di fronte a un’illuminazione miracolosa osserva-rono Concetta e la sua aura dorata, Concetta… la conoscevano proprio dappertutto!

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Mamma, mammina dove sei? La signora, biondo cenere, alta, robusta, stava decorando uova ben ben sode da portare al negozio di oggettistica con cui da tempo collaborava, d’improvviso si fermò… l’uovo a mezz’aria, mezzo dipinto e mezzo no. “Da un’intera giornata non sento mia madre, possibile?” Mentre formulava questo pensiero, focalizzando così l’origine precisa di un disagio che la disturbava da qualche ora, squillò il telefono. Dall’altra parte del filo la voce allarmatissima d’un uomo le urlò: ”Da un’intera giornata non sento mia madre. Sono molto preoccupato”. Gianna staccò di un palmo la cornetta dall’orecchio, non sopportava di sentire Pietro quando era allarmato per la madre, gli usciva una voce stridula da soprano che è appena scivolato su un acuto. Purtroppo Gianna riceveva telefonate da Pietro solo quando l’uomo era in allarme per la madre, Concetta, il che avveniva piuttosto spesso. Pure a quella voce non riusciva ancora ad assuefarsi. “Che posso farci, Pietro, lo sai che mia madre non mi dice mai nulla. Tu piuttosto. Possibile che mamma tua ti abbia nascosto qualcosa?” E sarebbe stata anche ora! Concetta nelle sue lunghissime telefonate serali riferiva al figliolo non solo la sua giornata sorprendentemente colma di avventure, ma si dilungava anche sulle vicende delle vicine e financo delle figlie delle vicine, cioè lei. Naturalmente Gianna glissò su questo scabroso argomento e tentò di decodificare tra gli acuti di Pietro un qualche messaggio intelligibile. Alla fin fine il succo era che neanche lui sapeva nulla ed era angosciato, così angosciato. “Ma tu non sei angosciata?” “Beh, devo ammettere che è strano. Senti, facciamo così, io abito abba-stanza vicina, se vuoi fra un po’ vado a vedere di persona”. “Sì, ma fra quanto?” “Fra un’orett… Va bene, va bene non disperarti, vado subito, vado su-bito. Finisco le uova quando torno. Stai tranquillo, ti chiamo, ti chia-mo”.

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Pietro, interdetto per la faccenda delle uova, malignamente e in modo poco originale pensò che aveva da sempre intuito l’intima natura galli-nesca di Gianna. Gianna aveva solo cinque anni più di lui, ma ai tempi della fanciullez-za, quando abitavano già nello stesso palazzo, cinque anni rappresenta-vano un’eternità. Erano cresciuti insieme, ma non avevano condiviso nulla. Quando avrebbero potuto diventare amici o almeno dirsi qualco-sa di interessante, Gianna era andata all’Accademia, non si era laureata perché nel frattempo, credendo di essere incinta, si era sposata con un coinquilino, studente pure lui. Il giovane marito, però, si era laureato, così quindici anni dopo, quando il matrimonio era finito, lui aveva con-tinuato la sua redditizia e soddisfacente professione di medico, addirit-tura risposandosi con una bella paziente, lei era rimasta piantata come un cactus in un deserto singolarmente povero anche di cactus. Del cactus, in seguito alla separazione, avvenuta ormai da sei anni, Gianna aveva assunto sia le asperità, che la natura di pianta grassa: era, infatti, di carattere agro e spigoloso, di fisico morbido e abbondante. L’ex le passava gli alimenti, ma poiché non avevano poi avuto figli, Gianna si era ritrovata a 48 anni sola, senza lavoro e senza fissa dimora. Piuttosto che tornare a vivere con la madre aveva affittato un monolo-cale ammobiliato. Arrotondava gli alimenti facendo lavoretti artistici per il negozio d’un’amica e accudendo i figli di donne lavoratrici, ac-cudiva anche cani e gatti. Preferibilmente separava bambini, cani e gat-ti, ma quando non ci riusciva puntualmente riceveva un’ammonizione condominiale, una minaccia di sfratto e una cospicua mancia dai clienti perché tutti: bambini, cani e gatti si divertivano un mondo. E così mentre Gianna, lasciato l’uovo mezzo nudo a vergognarsi, si ac-cingeva a percorrere in bicicletta i sei chilometri che la separavano dal-la casa della madre, Pietro si macerava nel suo ufficio, la sua perfida e sospettosa immaginazione lo portava a figurarsi scenari fantascientifici e comunque orrendi. Forse la madre giaceva priva di vita a causa di un infarto e aveva la cornetta del telefono ancora tra le mani, estremo tentativo di dare un ul-timo saluto al suo bambino. Forse aveva preso delle medicine, troppe… Ma l’aveva fatto apposta? Impossibile non avrebbe mai lasciato il suo virgulto da solo nel mondo. Allora un’indigestione, con quelle vicine che cucinavano pesante e ma-gari, tirchie com’erano, si scambiavano cibi scaduti o avariati, la sua mamma invece come cucinava bene: la pasta con le polpette al sugo, il

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pesce abbrustolito, la pasta al forno con le melanzane. Che nostalgia, che terrore! Ma un’ipotesi più temibile e realistica si insinuava sempre più nella mente del presunto orfano: era stata Gianna, per quello era così tran-quilla al telefono. D’altra parte era universalmente noto che lei e la ma-dre litigavano in continuazione. Chissà da quanto Giovanna meditava il matricidio, che nel frattempo era divenuto una strage, un vero e proprio vedovicidio, infatti, Gianna aveva sorpreso mammà con le vicine e le aveva uccise tutte e tre. Meccanicamente, quasi in trance, Pietro si ritrovò a fare il numero di Susanna. Come si era aspettato nessuno rispose: era morta anche lei! Pietro capì che doveva correre dalla sua mamma, ritrovare il cadavere e incastrare quella isterica, semizitella di Gianna. Telefonò così alla sua attuale fidanzata, Sonia, e le comunicò: “Tra 30 minuti verrò a prender-ti, dobbiamo andare a Novara dalla mamma”. Sonia sospirò, ogni qualvolta Pietro nominava Concetta Sonia sospira-va… Ma quanto sospirava? Tanto, troppo, pensava Sonia, chiudendo la borsa da viaggio.

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Mancamenti Nella hall dell’albergo Vistalago Erminia e Oscar osservavano Concet-ta, cui l’uomo della reception aveva consegnato un foglietto spiegazza-to. I due erano addirittura ansimanti per l’agitazione, il cane Oscar e-strofletteva la lingua all’inverosimile per avere un refrigerio all’ansia (o forse per via della gran sete?); Erminia continuava a portare una mano febbrile al cuore. Quando vide Concetta che con occhi vitrei riponeva il biglietto nella borsa e veniva verso di loro con la stessa scioltezza di un robot vecchia generazione, Erminia si sentì mancare, le parve che tutto traballasse, in particolare Concetta. Mentre Erminia cercava un saldo appiglio, fu però Concetta a crollare a terra: alla fin fine chi traballava era proprio solo lei. Tutti si volsero, una signora di 80 chilogrammi se si abbatte al suolo a corpo morto provoca onde sismiche d’una certa intensità e un tonfo profondo che attira l’attenzione. Così il gruppo di turisti che si trovava nella hall si divise equamente tra chi cercava di sollevare delicatamente Concetta, chi consolava Erminia in preda a una crisi isterica e dunque urlante e tremante, chi chiamava l’ospedale e chi, infine, si decideva a dar da bere all’assetato Oscar. O-scar era alla fine il meno spaesato di tutti perché era abituato alla voce acuta della padrona che aveva la gradevolezza del gesso sfregato sulla lavagna, e agli svenimenti dell’altra signora il cui odore spesso un po’ strano, migliorava quando appunto la signora era svenuta. A Oscar dunque il profumo di Concetta piaceva poco, di più però dete-stava l’annullamento di odori prodotto dalle devastanti miscellanee chimiche che Susanna usava per disinfettare ogni centimetro quadrato della sua esistenza. A Oscar piaceva l’odore della gente, degli animali simpatici, delle cagnoline, tollerava, per via di abitudine e fedeltà, l’odore di Erminia, il suo era un olfatto davvero raffinato. Nel frattempo lo stato di beatitudine del cane dissetato venne brusca-mente frantumato: qualcuno infatti lo portò in una camera spoglia e sconosciuta, dove venne lasciato solo e uggiolante, in uno stato di stu-pefatta prostrazione. Prostrazione non diversa da quella di Erminia, che,

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seduta sull’ambulanza accanto a Concetta, volava in mezzo al traffico verso il più vicino ospedale. Concetta non riprendeva i sensi, Erminia spaventata, ma anche curiosa, anelava a scoprire che cosa avesse potuto ridurre l’amica in quello sta-to. Si fece coraggio, avvicinò una mano alla borsetta dov’era il fatidico biglietto. Ma la svenuta, sventurata amica teneva tale borsetta stretta stretta al seno, le mani aggrovigliate al corto manico di pelle, Erminia sfiorò appena la borsetta e dalla energica svenuta partì autonomamente un colpo, la borsetta colpì Erminia, che non era riuscita a scansarsi, sul-la fronte, il braccio animato di vita propria assolto il suo dovere tornò al suo posto, orgoglioso d’aver salvato la preziosa reliquia. “Signur! Attaccata fino all’ultimo respiro alle sue carabattole!” pensò con irritazione Erminia, saggiando il bernoccolo che già le spuntava sulla fronte. Concetta era in effetti generosa a intermittenza e sempre gelosissima delle sue proprietà: regalava pietanze prelibate alle amiche, ma non prestava mai nulla, nemmeno il classico spillo, che, oltre tutto, difficilmente le sarebbe stato restituito. Finalmente l’autoambulanza giunse al pronto Soccorso, quando gli in-fermieri aprirono il portellone posteriore, fecero fatica a distinguere fra soccorso e soccorritore giacché il bernoccolo di Erminia era cresciuto e aveva già assunto una vivace colorazione, d’altra parte anche ai non addetti ai lavori è chiaro che su due persone se una è distesa e mortal-mente pallida, facilmente questa è la malata. Concetta venne portata in una sala misteriosa, Erminia fu fatta accomo-dare su una pratica sedia a rotelle, le diedero del ghiaccio per la fronte, nel frattempo le infermiere procedettero alle pratiche burocratiche. Par-lavano tutte a voce altissima, scandendo bene le parole, Erminia pensò di trovarsi in un reparto per matti o per audiolesi, si preoccupò per l’amica: in che mani era finita?! Poi comprese che tutti la pensavano vecchia e dunque rimbambita, allora si riscosse, anzi si risentì, si dedicò alle pratiche con la scioltezza d’un burocrate navigato, precisò che non era sorda e che era di madrelingua italiana. Alla fine tutti le parlavano normalmente, ma erano divenuti molto meno gentili e comprensivi: se capiva allora si arrangiasse! Erminia si sistemò su una sediolina accanto alla stanza in cui qualcuno stava armeggiando intorno alla povera Concetta. Chissà se aveva la biancheria in ordine? Le calze a posto? Le tre amiche avevano in co-mune l’ossessione di essere colte da un malore improvviso, mentre in-dossavano mutande slabbrate, canottiere sfilacciate o addirittura calze smagliate. La grande paura del mancamento inopinato si concentrava

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sull’inadeguatezza dell’intimo, sulla figura meschina, sull’inorridimento del medico di fronte a una mutanda poco decorosa. Con un volo davvero pindarico del pensiero Erminia passò dall’orrida visione di se stessa svenuta e con canottiera ingiallita o busto consunto al pensiero di Oscar: in comune i due pensieri avevano l’orrore e il dubbio. Che fine avevano fatto Concetta e Oscar? Saltò in piedi. Si risedette. Non poteva lasciare Concetta. Cercò un tele-fono, chissà come stava povero Oscar. Si alzò ancora e ancora si rise-dette finché un gentile signore d’età matura, che aveva notato i suoi movimenti agitati, le si avvicinò. “Signora, la prego si tranquillizzi, i medici sono ottimi. Si preoccupa per...” “Oscar, poverino, dove l’avranno messo?” “Ah, Oscar” sul volto del distinto signore passò un velo di delusione, “il suo signor marito?” “No, il mio cane”. CONTINUA...