Noir a scuola

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COOPERAZIONE PRESENTA UN’OMBRA «NOIR» SULLA SCUOLA Edizione 2014 La raccolta dei racconti del concorso «Cooperazione Noir 2014»

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La raccolta dei racconti del concorso «Cooperazione Noir 2014»

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COOPERAZIONE PRESENTA

UN’OMBRA «NOIR»SULLA SCUOLA

Edizione

2014

La raccolta dei racconti del concorso«Cooperazione Noir 2014»

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La raccolta dei racconti del concorso«Cooperazione Noir 2014»

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Noir a scuolaElisa Piraccini

All’ingresso del prestigioso liceo Franscini i ragazzisi chiamano l’un l’altro, risuonano risate, strilli e in-

sulti, chi cammina a testa alta al centro del corridoio echi rasente i muri cercando di confondersi con la paretegrigiastra.

Il professor Ranieri, biologia, arriva col passo ela-stico e il sorriso smagliante, fin troppo consapevoledella sua bella presenza, capelli nerissimi e un’impro-babile cravatta verde smeraldo. Apostrofa bonaria-mente il Bianchi, matematica, calvizie incipiente epancetta messa in risalto dal taglio della camicia a ri-ghine: “Enzo, quando vuoi la rivincita per ieri? Eh,il tennis è una questione di fiato... “ Ammicca a unaragazza del quarto anno dagli enormi occhi azzurridi perenne stupore: “Gaia, oggi viene papà, cosa glidevo dire?” Si fa serio per un attimo salutando Gior-dano, tedesco, alto e spigoloso, cardigan e cravattaimpeccabili: “Corrado, allora ci vediamo dopo perquella faccenda del laboratorio nuovo? Se sceglie-vano te come vicepreside al mio posto era meglio, tucosa dici Marina?” dice scherzando alla Monti, ita-liano, caschetto da zitella, mocassini e gonna sottoal ginocchio; fa un finto baciamano alla Rossi, fran-cese, che arrossisce mettendo in mostra le fossettesulle guance paffute: “Rita, oggi sembra proprio chehai bevuto l’elisir della bellezza, posso offrirti uncaffè?”

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Il racconto vincitore

del concorso

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Metà mattina. I corridoi sono silenziosi, solo a trattisi sentono le voci degli insegnanti che stanno tenendolezione. La porta dell’aula docenti si spalanca con vio-lenza e Ranieri, col viso gonfio e livido, barcolla fuori efinisce tra le braccia della bidella Eugenia che passava lìdavanti. Rantola qualcosa, cade a terra, Eugenia scatta achiamare aiuto, ma è già troppo tardi.

“Shock anafilattico”“E che cacchio è?”“Ma sarai scemo, l’ha spiegato proprio Ranieri l’altro

giorno, è tipo quando sei allergico a qualcosa, ma dibrutto, e quando lo mangi non riesci più a respirare, tiripigliano con l’adrenalina”

“Eh, a lui non hanno mica fatto in tempo a ripi-gliarlo”

“Ma a cosa era allergico?”

“Nocciole, commissario”L’ispettore Bernasconi sta facendo rapporto al suo

superiore.“E non lo sapeva?”“Sì, ma sembra che qualcuno gliele abbia messe nel

caffè che aveva preso alla macchinetta. Secondo le ana-lisi, ci avrebbero sbriciolato dentro una merendina allenocciole presa agli stessi distributori. Il caffè era moltozuccherato, e lui non ha sentito l’altro sapore”

“Un atto deliberato, quindi?”“Direi proprio di sì... il preside ha avuto ragione a

chiamarci, si era accorto che qualcosa non andava.”

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“Bene, allora proceda come di routine e vediamocosa salta fuori”

“L’hanno ammazzato!”“Non ci credo”“Non crederci, ma l’hanno ammazzato”“E chi è stato?”“Eh, i polini stanno indagando... comunque per me

è stato il preside (risate). No, guardate che non scherzomica, per me è stato il preside perché la moglie gli facevale corna con Ranieri”

“Ma dici che ci andava davvero con la Rossi?”“Io dico di sì, e lei faceva anche bene, Ranieri era

proprio figo”La professoressa Rossi sembra in effetti molto

scossa, e la Ghini, inglese, è ben contenta del ruolo diascoltatrice comprensiva.

“Proprio una tragedia... povera cara, come sei pal-lida... eravate molto amici?”

“Bè ci si vedeva spesso, tra una cosa e l’altra, special-mente da quando era diventato vicepreside... “

“Certo... a proposito... sembra che Giordano l’avessepresa un po’ male” dice la Ghini abbassando la voce eosservando l’interessato che passa lì vicino.

“Sì bè... Naturalmente lui è più anziano e sperava inun avanzamento, ma... “ Il suo sguardo si mette improv-visamente a fuoco sull’espressione avida della sua inter-locutrice. “Cosa vorresti insinuare? Il professorGiordano è un modello di integrità!”

L’ispettore Bernasconi è di nuovo nell’ufficio delcommissario.

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“Se mi permette, signor commissario, la vedo grigia.”“Mi dica”“Innanzitutto, praticamente metà della scuola era al

corrente della grave allergia di Ranieri... Mi sembra diaver capito che fosse uno a cui piaceva parlare di sè. Equanto all’occasione, molte persone avrebbero avutol’opportunità di alterare il caffè, l’ha lasciato sul tavolodell’aula docenti per un po’.”

“Allora bisogna vedere chi poteva volerlo morto.”“Sì signore, e neanche questo è facile. Parlando con

insegnanti e studenti, diversi hanno menzionato una tre-sca tra la vittima e la professoressa Rossi, moglie del pre-side, che quindi avrebbe avuto un movente, ma a mesembrano chiacchiere da perditempo. Una delle docentiha sottolineato più volte che Ranieri aveva soffiato ilposto di vicepreside a un altro insegnante, che se ne eramolto risentito, ma arrivare ad ammazzare qualcuno perquesto mi sembra quantomeno eccessivo. Quella mat-tina poi il padre di una studentessa ha avuto un colloquiocon la vittima. Aspetti” dice l’ispettore controllando isuoi appunti “Gaia Silvestri, una bella ragazza con gliocchi azzurri. Stando ad alcune compagne, Ranieri avevaun debole per lei; in questo caso, forse il padre aveva altrimotivi, non solo didattici, per parlare con il docente ma– anche ammesso che questa debolezza del professorenon sia solo nella testa di chi me ne ha parlato – non cisono indicazioni serie di nessun tipo.”

“Ho capito” dice il commissario con un sospiro“una bella rogna. La cosiddetta arma del delitto era allaportata di chiunque, la vittima si era intrattenuta con un

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sacco di persone, e i moventi sono troppi e troppopochi... Vabbè ispettore, continui pure le sue indagini,vediamo se alla scientifica riescono a cavare un ragno dalbuco.”

Seduta con la schiena ben diritta, la professoressaMonti corregge i compiti in classe dei suoi studenti. Al-cuni desolanti, la maggior parte piuttosto buoni. E’ sod-disfatta dell’amore per il linguaggio che sta riuscendo ainstillare nei suoi ragazzi. Al contrario di quel disgraziatodi Ranieri. Inammissibile, pensa la professoressa li-sciando una piega del maglione con un ricamo di ma-trioske, che un docente del prestigioso liceo Franscininon sappia usare il congiuntivo.

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Bellezza e criminePaola Ghedini

La scuola era uno di quei prefabbricati dei quali ce nesono in giro molti altri uguali.L’insegnante di inglese, camminando con il suo

passo spedito, ricordava che le era sfuggito un sorriso laprima volta che ci era entrata, le pareva di essere in unaltro paese, non lontano dalla città dove abitava, doveanni addietro era impegnata in una supplenza. Ma qui,finalmente, in questo edificio poco distante dal centro,era stata nominata in ruolo, e perciò ci entrava tutte lemattine, da anni.

Le piaceva l’aria che vi respirava, la gioia e l’allegriaincosciente dei ragazzi che permeavano il luogo comeun mantello trasparente e vivo.

Il custode era un omino strano, con dei baffetti ispidie due occhietti inquisitori, ricordava più un piccolo ro-ditore striminzinto che non un essere umano in pienaregola.

In effetti lui la metteva un po’ a disagio, con quellasua aria stantia.

Gli regalò il solito sorriso largo e splendente, che glirendesse la giornata migliore, magari.

Dopo di lei entrò la mamma di un allievo, così gio-vane e carina da sembrare una ragazza.

Piccola, minuta, con due splendidi occhi scuri e unamassa di capelli ramati, curati e soffici.

Ma il sorriso, quello le mancava. Inoltre, un’aria cupae preoccupata le aleggiava intorno, raggelandole il passo,

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facendola sembrare sospetta.‘Buongiorno, sono qui per un appuntamento con

una docente’, spiegò al baffuto, e questi la fece accomo-dare, con un fare un po’ brusco.

All’interno della scuola era tutto un vociare e unoschiamazzare usuale: l’anelata pausa.

Professori ed alunni erano impegnati in chiacchierevivaci e a riuscire ad arraffare un panino, una bibita o uncaffè veloce al bar.

L’insegnante di inglese si imbattè quasi subito nelnuovo collega di educazione fisica, un bel ragazzone stilesurfer californiano, che aveva colpito molti giovani cuorisin dal suo primo giorno di servizio...

Si salutarono, lei si avvide che lui aveva molta fretta,nemmeno due parole scambiate come al solito, difattiera un tipo simpatico e cordiale, che non se la ‘tirava’troppo, nonostante...

Lei allora si diresse svelta in sala insegnanti per pren-dere registri e libri per l’ora successiva.

La giornata andò poi come doveva andare, comesempre.

Ma il giorno seguente tutto era cambiato. Un tram-busto insolito, un vago terrore aleggiante nell’aria, l’inu-suale presenza della polizia, il preside con gli occhiestraniati, le domande, i visi di tutti terrorizzati.

L’insegnante di inglese sulle prime non riusciva a ca-pire.

Fu messa al corrente, poco dopo il suo arrivo, che lamamma di un’allieva era scomparsa dal giorno prece-dente, non si sapeva nulla, le sue ultime tracce portavano

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alla scuola, aveva un appuntamento con la docente di di-ritto per parlare del profitto della sua figliola, ma dallaprofessoressa non era mai arrivata.

Il primo ad essere interrogato fu proprio il custode,l’omino scialbo che l’aveva fatta entrare il giorno prece-dente. La sua aria furtiva e sfuggente lo rendeva alquantosospetto agli occhi della polizia.

Fu tempestato di domande proprio lì, in aula do-centi, dove si installò il commissario per le prime proce-dure del caso.

Volle sapere il poliziotto se l’avesse sentita parlare diqualcosa di interessante ai fini dell’indagine, ma quelloniente, con la sua aria ambigua non lasciava trapelare chepoche e confuse parole in risposta elle incalzanti do-mande del commissario.

‘Mah!’ pensò quest’ultimo, ‘mi sa che questo qui bi-sognerà tenerlo d’occhio, sembra che non voglia sbot-tonarsi più di tanto, che nasconda qualcosa diimportante? Lo rivedrò in questura’

Comunque certo era che da quel momento in poidella signora se ne erano perse le tracce, la giovanemamma avvenente era svanita nel nulla.

Nessun collega l’aveva notata, nessun assistente dellascuola aveva visto la persona descritta così minuziosa-mente aggirarsi nei meandri dell’edificio.

D’altra parte di corridoi e aule, laboratori e bagni cen’erano a iosa, se qualcuno avesse occultato qualcosanon sarebbe stato semplice scoprirlo.

Furono interrogati ad uno ad uno tutti i colleghi,moltissimi ragazzi, soprattutto gli amici e i compagni di

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classe della ragazza la cui madre era scomparsa. E poi ilpreside, il vicepreside e gli assistenti di segreteria, tuttoquanto il personale in servizio. Nulla.

Si procedette poi alla perlustrazione della scuola eaula dopo aula, accompagnati tutti da un crescente sensodi sgomento, persino le forze dell’ordine, si arrivò allapalestra, che era situata in un edificio adiacente. Giuntiqui, l’ispettore incaricato notò subito un andirivienistrano e infatti colse il docente di educazione fisica uscirecon fare sospetto da uno spogliatoio.

Interrogato sul suo operato l’uomo rispose dapprimaun po’ confuso, poi con gli occhi abbassati e un diffusorossore sul volto. Infine scoppiò in un pianto a dirottomentre in modo sconclusionato blaterava balbettanto esinghiozzando che non voleva, che non sapeva comefosse successo, che lui non ne aveva colpa, che lei avevabattuto la testa cadendo...

L’ispettore non si era fatto trarre in inganno, fortedi una lunga esperienza a capo di indagini ben più com-plicate, sapeva bene che l’assassino torna sempre sulluogo del delitto ed infatti così era stato.

Si scoprì il cadavere della povera donna occultatodentro un grosso materasso utilizzato di solito per ilsalto in alto.

Fu facile ottenere la piena confessione dello stupe-fatto omicida e la triste storia che dietro si celava.

Una tresca piu superficiale che sordida, che pur-troppo accade nella vita di tanti.

E la tristezza di simili storie è la percezione assai di-versa degli attori, come differente è la loro lunghezza

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d’onda. La giovane signora aveva scoperto proprio ilgiorno precedente che dalla relazione con l’attraente in-segnante era sbocciata una nuova vita.

Lei, da divorziata, pensava all’inizio di una favolabella.

Lui non era per niente dello stesso parere.

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Gelide emozioniPaola Moretti Benestante Paola

Quella mattina si sentì lo stridolio delle gomme e ilfurgone bianco che scappò a tutta velocità. La

scuola era gelida, l’aria fredda non aiutava la brutta sor-presa, il suo corpo giaceva nell’aula di scienze, in un an-golo, adagiato su un fianco. Mario era il bidello, unbidello esemplare tanto che arrivata la sua pensione tuttierano dispiaciuti che finisse; così gli proposero di rima-nere. Aveva sempre una parola gentile per tutti, chi po-teva volergli del male fino ad ucciderlo?

Sul collo spiccavano dei segni bluacei, gli occhi sbar-rati vitrei, e con una mano indicava la porta comunicanteall'aula di scienze: il locale tecnico, nell’altra mano sottole unghie le tracce degli ultimi attimi di vita, tra cui deicapelli biondi. Le mani sporche di grasso e rinsecchitedal freddo non aiutavano le indagini dell'ispettore. Fuorigli allievi mormoravano e tutti avevano dei sospetti, tutticonoscevano Luigi l’insegnante di scienze molto stranoe aggressivo. Nessuno poteva entrare nella sua aula senzail permesso, e se ciò accadeva lo si sentiva urlare in tuttii tre piani della scuola. Anche il freddo ostruiva le inda-gini della polizia, il riscaldamento era rotto da giorni enessuno era corso ad aggiustarlo. La direttrice era spae-sata e per la prima volta in vita sua non sapeva comecomportarsi. C'era una troupe televisiva che cercavaqualche allievo per avere uno scoop.

Lina aveva trovato il corpo, era entrate nell’aula persvuotare i cestini trovando la brutta sorpresa, aveva gri-

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dato talmente forte che la povera donna non aveva piùun filo di voce. Non riusciva a togliersi dalla mente l’im-magine di Mario.

Quel giorno gli allievi persero tutte le lezioni, il con-siglio di direzione riunì tutti i professori che vennero in-terrogati dall’ispettore Spark cominciando proprio daLuigi.

Lo guardavano straniti e sospettosi, soprattutto dopole due ore di interrogatorio. Ad uno ad uno entraronotutti ma nell’aria i sospetti erano solo su di una persona:Luigi.

Poi arrivò il turno di Franca, la direttrice, davanti al-l'ispettore prese tutte le difesi del povero maestro discienze e disse chiaramente che pur avendo un bruttocarattere Luigi non avrebbe mai fatto una cosa del ge-nere. In passato spesso era capitato di difenderlo per ilsuo atteggiamento molto aggressivo, specialmente coni colloqui con i genitori, gli allievi spesso borbottavanosui suoi metodi di studio e modi poco gentili .Lei lo co-nosceva molto bene, era sua sorella. Odette, la profes-soressa di francese, molto discreta e gentile, era ancoraspaventata dell’accaduto ma rispose minuziosamente alledomande dell’ispettore anche sulla sua relazione passatacon Luigi. Purtroppo la causa di rottura era dovuta pro-prio al suo brutto carattere. Fu la volta di Angelo il pro-fessore di matematica, molto composto disse di nonavere sospetti su nessuno ma che quella mattina perpoco non urtò un furgone bianco mentre posteggiavala sua moto.

Valerio il maestro di ginnastica, vide Mario la sera

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prima di morire discutere con Luigi, ma era una situa-zione diventata normale aggiunse. Spark voleva la listadi chi era entrato ed uscito quel giorno, chi era assente eil perchè, ma qualcosa attirò la sua attenzione in quel-l'andirivieni di persone imbottite di sciarpe e maglionipesanti per la temperatura glaciale.

Improvvisamente la porta si spalancò e sull’uscio ap-parve stravolta Florance, la vedova del povero Mario, av-visata da Lina.

Piangeva, farfugliava parole, aveva bevuto, ed erastravolta . Disperata, si buttò al collo dell’ispettore peressere consolata,non si reggeva in piedi e cominciò apiangere.

Tutti attorno a lei, misero una mano sulla spalla perconfortare quel momento molto triste, tranne Luigi cheaddirittura indietreggiò e uscì dall’aula.

La disperazione di Florance, fece commuovere tuttii presenti, fu un momento veramente intimo e qualchelacrima scese dai loro visi.

L’ispettore annotò tutto sul suo piccolo quadernettogià molto colmo di dettagli, e finalmente capì.Raggiunseil povero Luigi, e parlarono a lungo. Spark volle sapereesattamente il motivo del litigio avvenuto la sera primacon Mario.

I capelli rilevati sul corpo non aiutavano l’ispettorenelle indagini, tutte le professoresse erano bionde, e fu-rono spediti al laboratorio per approfondire la prove-nienza.

Quella mattina fu proprio il freddo a svelare l’assas-sino, l’ispettore fece una telefonata e Franco arrivò con

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il suo furgone bianco, dritto dritto al locale tecnico senzaneanche dover chiedere alla segretaria della scuola dovefosse collocata la caldaia.

L’ispettore notò i graffi sui polsi del tecnico, e losguardo di Florance improvvisamente si fece basso esfuggente. Tutti erano increduli, si sospettava che aves-sero una relazione, ma nessuno li credeva capaci di uc-cidere. Nel silenzio assoluto si sentirono queste parole:– Vi dichiaro in arresto per l’omicidio di Mario il cu-stode. Nooo esclamò Florance, non siamo stati noi, ierisera, abbiamo litigato perchè Mario ci ha sorpresi in-sieme nel locale tecnico, lui si è infuriato e c’è stata unaforte lite, ma giuro,ispettore che lo abbiamo lasciatovivo. Non so cosa sia accaduto.

Luigi, guardò Odette e disse: – Ora parla!Odette sempre composta aggiunse: – Sono stata io!

Mario non mi ha mai voluto, pur sapendo che sua mo-glie da sempre lo tradiva .

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VendettaSusanna Lagone

Naosuke era accecato dalla vendetta. Lui che era acapo della più famosa gang di Chiba era stato col-

pito dritto al cuore. Anzi avrebbe preferito che fossestato così. Invece quelli senza spina dorsale se l’eranopresa con la sua sorellina. Naoko. Oltre alla banda eral’unica della famiglia che gli era rimasta. Invece pocodopo l’apertura del nuovo istituto scolastico, per qualchestrano motivo lei era stata presa di mira. L’aveva trovatain biblioteca, con i suoi lunghi capelli neri che le copri-vano il volto, un taglio lungo tutto il torace richiuso fret-tolosamente con una spillatrice. Quello che aveva fattosospettare Naosuke era stato il cuore trovato sopra illibro che la gemella stava leggendo, il quale era statocome impacchettato con il nastro giallo, quello che nelladivisa femminile è usato per fare il fiocco. Nessunabanda avversaria avrebbe fatto una cosa simile. Si trat-tava di qualcosa di diverso.

– Troveremo il colpevole di quest’atto atroce – disseil direttore Shourikawa durante il solito incontro mattu-tino del giorno seguente – Le forze dell’ordine stannoindagando, quindi se vi rivolgeranno delle domande, pre-gherei che darete tutta la vostra collaborazione per farsì che l’indagine si concluda e il colpevole sia arrestato ilpiù in fretta possibile –.– Saremo noi a trovare per prima il colpevole – borbottòNaosuke – Ragazzi, mi raccomando, occhi e orecchieaperte. Ricordatemi di farmi rapporto – i suoi compagni

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annuirono per poi sparire in mezzo alla folla di studentiMentre camminava nei corridoi, casualmente Naosukesi trovò davanti all’ufficio del direttore. Sentendo chedialogava in modo animato si fermò ad ascoltare.– No! Sindaco non sono d’accordo! Aveva promesso chedopo la morte della studentessa mi avrebbe… – silenzio– Sì, va bene –.Il ragazzo s’insospettì, sembrava come se fosse statotutto programmato, che Naoko fosse stata scelta perchissà quali motivi politici. Lui era sempre stato sospettosul fatto che avevano aperto un nuovo istituto scolasticocon tanto di dormitori nel quartiere più malfamato diChiba.Le lezioni erano state sospese, per cui con due dei suoiuomini si mise a pedinare il direttore, che stranamentesi stava recando fuori dall’istituto scolastico in pienogiorno.– Che hai intenzione di fare? – chiese il ragazzo con icapelli tinti biondi– Stà zitto! – inveì il capo banda– Mi perdoni, capo – si scusò il biondino– Voi due mi coprirete solo le spalle al resto ci penseròio – Naosuke rispose alla domanda era giusto tenere alcorrente anche gli altri due. Dopotutto erano parte dellasua famiglia. Il direttore curvò dentro il parco dei dormitori, dove sisedette su una panchina accanto ad un altro uomo cheera intento a dare briciole ai piccioni. I ragazzi si sposta-rono, andando a nascondersi dietro la siepe più vicinaalla panchina.

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– Ha fatto bene a venire qua Direttore Shourikawa –– Ho svolto il lavoro sporco, ora è giusto che mi dia isoldi –– Ogni cosa a suo tempo, prima deve firmare un docu-mento, dove vi è scritto che non proferirà parola ri-guardo il piano del Sindaco –– Una volta che avrò prelevato quei soldi, me ne andòda qui, si figuri se parlo di quello che volete fare a quelquartiere –– Sta già parlando troppo…il Sindaco aveva ragione ariguardo – l’uomo mise nuovamente la mano nel sac-chetto di carta come per prendere una nuova manciatadi briciole di pane, invece estrasse un piccolo Sai che in-filò nella gola del direttore.I ragazzi non batterono ciglio, avevano già ucciso in pre-cedenza durante le risse con le altre gang.L’uomo se ne andò lasciando morire dissanguata la suavittima.– Che cosa dobbiamo fare capo? – chiese il biondino– Andiamo via di qui senza dire niente a nessuno. Qual-cuno lo troverà –La vendetta Naosuke non l’aveva ottenuta. O almenosolo in parte. Qualcuno aveva ucciso chi aveva assassi-nato in quel modo cruento la gemella. Gli restava solotrovare il mandante, perché dubitava fortemente che chiavesse appena ucciso il direttore avrebbe fatto lo stessocon il Sindaco.“Forse ci metterò anni, indagherò fino allo sfinimentofinché non troverò una prova che mi conduca al man-dante e stavolta non mi farò soffiare sotto il naso la ven-

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detta. Nonostante Naoko non ne sarebbe felice” sospiròimmaginandosi il viso imbronciato della sorella se avessesaputo quello che stava progettando di fare.

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Noir a scuolaRomeo Ferrari

Gennaio

La vecchia contadina se ne stava al tepore della stufa.Osservava compiaciuta la neve che smussava silen-

ziosa le sagome dell’orto. Aveva messo il mangime pergli uccellini dentro la vecchia buca lettere. L’aveva recu-perata dalla demolizione della casa di Maria; il Municipioaveva raso al suolo quella bella casetta per creare un par-cheggio ed allargare la strada. Ora che tutti avevano l’au-tomobile il paese si era trasformato; le autorità siaccanivano contro le belle cose e non tolleravano più glianimali, che solo pochi anni prima avevano nutrito lagente. Le galline dai loro pollai mandavano puzza e tuttii porcili venivano trasformati in autorimesse. Quellamattina non c’era traffico. La coltre di neve si era viepiùalzata. Nessuno osava mettersi al volante, il mondo siera fermato. Dalla sua finestra Lucia scorgeva la stradasottostante e non c’era traccia di passaggio motorizzato.Distingueva le suole degli scarponi di Franco e si chie-deva di chi potessero essere quelle scarpette che gli siposavano accanto. Un bambino che si recava a scuola?Oppure una donna di quelle che Franco si portava a casadi soppiatto?

Marzo

Luciano passeggiava con il labrador sul sedime dellaveccia ferrovia. Come sempre e contro gli ordini muni-cipali il cane Fox correva libero. Prese a salire su un sen-

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tierino sconosciuto, muso a terra e coda ritta. Lucianolo chiamò, ma Fox, contrariamente al solito non gli diederetta. Scomparve nel fitto della foresta. Non ubbidireagli ordini del padrone significava per lui un giorno in-tero senza mangiare. Luciano non capiva e, perplesso, siavviò sul ripido sentiero. Dopo cento metri intravvideFox scodinzolante ai bordi del famoso crepaccio che unavolta era adibito a discarica.. Si avvicinò a questo cre-paccio e scrutò dentro all’abisso. Sulle prime non notòniente di particolare, poi un acre odore giunse alle suenarici.

Luciano tornò a casa, non senza prima prendersi unbianchino al bar. Era l’ora delle comari; raccontò del fe-tore che una folata di vento gli aveva mandato, improv-viso e fugace, nelle vicinanze del crepaccio. Martinasentenziò che Lucio aveva ancora l’abitudine di gettarele galline vecchie, da lui strozzate perché ormai impro-duttive, in quel luogo frequentato solo da volpi, tassi evipere. Il discorso finì lì, c’era da commentare la partitadella locale squadra di calcio.

Il giorno dopo Fox non prese il sentierino, sicuramentenon desiderava passare un’altra giornata a digiuno! Qualchemetro più avanti, mentre Luciano si fumava la sigaretta, losguardo preoccupato rivolto alle nuvole che si stavano am-massando attorno al Pizzo di Claro, Fox gli corse incontrocon una schifezza di straccio rosso fra i denti. Lo lasciò ca-dere e Luciano lo considerò attentamente. Si trattava di unreggiseno tutto infangato e strappato in più parti. “Sarà unresiduato dei lavori che svolgono le scolaresche della Sviz-zera interna sui monti “ pensò sorridendo.

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Aprile

Il vecchio Lucio, quello delle galline, faticava ormai areggersi in piedi, tuttavia quel giorno di aprile non resi-stette; voleva rivedere i suoi amati luoghi d’infanzia. Ar-mato del suo bastone si incamminò verso il bosco. Era laprimavera festante e lui stava vivendo un triste autunno.La sua vista era calata e senza occhiali riusciva a leggeresolo i nomi degli annunci funebri. Giunto alla sua panchinapreferita si sedette e, inforcati gli occhiali, si accinse a cari-car la pipa. Gli caddero gli zolfanelli e, curvo a raccattarlidal prato, la sua attenzione fu attratta dal bagliore che qual-che cosa riverberava poco più sotto. Curioso come erastato sempre, una volta esaurito il poco tabacco, scese quasicarponi la ripida scarpata. Era un secchio di latta, di quelliche una volta usavano gli imbianchini. Notò un teschio di-pinto sull’ammaccato contenitore e ne dedusse che si trat-tava di materiale tossico, forse acido.

Dicembre, vacanze di Natale

Il Blick riportava, dapprima con grande rilievo, poi inquarta pagina, la notizia della scomparsa di Berthi, sedi-cenne del Togghenburgo. La famiglia, ritratta davanti allafattoria di legno, non aveva più notizie.

I vicini raccontavano di quanto fosse una cara ragazza.Parlava sempre della magnifica settimana trascorsa in Ticinocon la scuola di Bischofszell e della sua intenzione di andareda sola laggiù a rivedere gli amici che si era fatta in paese. Ilsuo telefonino squillava a vuoto nella cameretta che dividevacon la sorella Uschi. Neanche lei sapeva di niente, solo chedal suo scaffale mancava quel bel reggiseno rosso.

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Noir a scuolaPaola Celio

“Una morte atroce” commentò il medico legalegalattico affiancando l’Ispettore, che avanzava

veloce sulle sue propaggini retrattili. “Un veleno lento,ma inesorabile”

Avevano esaminato i locali della scuola, ormai ina-nimata, dove si era consumato il dramma: una serie diaule mute, dalle porte spalancate come fauci inerti.

L’Ispettore percorse il lugubre corridoio, immersoin un silenzio funebre.

Anche qui, tracce ben leggibili. Estruse il suo occhiostroboscopico e analizzò il pavimento consunto e le pa-reti dall’intonaco simile alle mani di un vecchio.

“Mrhhh” gorgogliò, critico, annusando incuria e de-grado.

Seguivo i due alieni tenendomi a distanza. I Mirza-kiani mi avevano sempre fatto un po’ impressione. Tut-tavia, la Terra era in mano loro da oltre un millennio. Farrispettare leggi e regolamenti, per quanto insoliti, eraaffar loro.

“Un caso lampante” disse infine il traduttore elettro-nico integrato nella sua tuta. “Ma chi poteva volerle malea tal punto?”

“Si fa prima a dire chi non gliene voleva” considerai.“Insegnanti, allievi, custodi, persino la preside a volte...”

“Prosegua”, mi ordinò.Il medico legale, intanto, mi scansionava con il de-

coder psicotronico di onde cerebrali beta e gamma. Con-

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tinuai: “Per molti era insopportabile. Di recente era peg-giorata. Avanzava proposte assurde. Affibbiava compiti esi aspettava che tutti fossimo d’accordo. Voleva stabilirelei come e cosa insegnare... È logico che non andasse agenio a tutti”

“Neanche a lei, secondo il risultato della scansione”rispose l’Ispettore.

“Non l’ho uccisa io” ribattei.“Questo sarò io a deciderlo. E non risponda a do-

mande che non le ho fatto” si stizzì l’alieno, ribollendocome un tubo intasato.

Tacqui. Non volevo complicare la faccenda. Ero giànei guai perché mi trovavo fuori orario a scuola, a predi-sporre per l’indomani il laboratorio di chimica. Come spie-gare all’Ispettore che la vittima aveva sempre più nemici?È vero, cercava di motivarci, di stimolarci a restare al passocon i tempi. Ma si fissava su singoli aspetti ed era irremo-vibile su altri più importanti. Per non parlare dei suoi si-stemi di selezione degli allievi.... Pochi la sostenevano. Glialtri, me compreso, la criticavano. Ma questa faida interes-sava a pochi e la situazione era ormai degradata. Impossi-bile che un Mirzakiano capisse queste sensazioni terrestri,tanto sottili eppure capaci di fomentare il peggio.

L’Ispettore emise uno schiocco, contrariato dal miosilenzio.

Uscimmo sul cortile.

Gli alieni gorgogliarono tra loro, guardando ogni tantola scuola che, sotto il cielo livido, aveva preso una sfuma-tura terrea.

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Le donne delle pulizie abbassarono le tapparelle deidue finestroni centrali, che mi avevano sempre ricordatodei bulbi oculari. Fu come se avessero pietosamentechiuso le palpebre all’edificio, che aveva vissuto troppecose e ora meritava riposo.

Gli alieni convocarono il custode. Tra lui e la vittimanon era mai corso buon sangue.

“Che c’è?” li apostrofò, arcigno come al solito. Zop-picava.

I Mirzakiani lo scansionarono. Poi valutarono il re-sponso e lo investirono con una raffica di domande. Per-ché zoppicava? La vittima lo aveva mai criticato per leprestazioni lacunose? Perché era poco collaborativo? Po-teva elencare gli attrezzi e le sostanze di cui disponeva?

Il custode esplose: “Basta! Io lavoro a scuola permantenere la famiglia, mica per fare il missionario! Ezoppico perché sono caduto in montagna!”

Il medico legale socchiuse i suoi sei occhi, simili allabottoniera di un ascensore, e lo soppesò. Ma l’Ispettorelo lasciò tornare al suo sgabuzzino.

“Posso andare anch’io?” chiesi, speranzoso.“Lei resta qui” mi rispose, secco.Iniziai ad avere paura. Maledette macchine! Misura-

vano onde, vibrazioni, secrezioni, ma non ascoltavanole parole. Io non c’entravo con quella storia. Ok, avevoavuto degli scontri con lei, avevo proposto dei cambia-menti. Ma essendo l’ultimo arrivato... Lei invece era lì dasempre. Una vera istituzione. Ma da qui a sopprimerla!

Doveva essere colpa del custode. Per forza. Cinicoe indolente. Sabotava sempre le sue iniziative. Quante

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volte l’avevamo sentito imprecare? Sperai con tutto mestesso che le macchine, almeno su questo, mi dessero ra-gione.

L’Ispettore visualizzò i nomi di insegnanti e allievi.Fece accurati controlli sui macchinari. Vidi che analiz-zava i profili psichici e comportamentali di ognuno e liincrociava con i dati delle onde cerebrali. Per mia for-tuna, la lista degli indiziati si allungava. Ma io restavo ilprimo.

Due ore dopo, la cittadinanza era convocata nel cor-tile della scuola. Alcuni seccati, i più incuriositi.

L’Ispettore e il medico alieni salirono a bordo delveicolo a propulsione antimaterica e si sollevarono dipochi metri, affinché li vedessimo.

“Terrestri!” tuonò l’altoparlante collegato al tradut-tore.

La folla tacque, intimorita.“Siamo giunti a conclusioni gravi circa l’omicidio che

si è consumato qui, anche per omissione di soccorso. Ei nostri rilievi indicano che i responsabili...”

Tutti erano con il fiato sospeso.“...siete tutti voi!”Scoppiò un boato di protesta.“Terrestri!” ci richiamò la voce meccanica. “Vi rite-

nevamo una razza intelligente. Forse non abbastanza percapire che voi tutti avete UCCISO LA SCUOLA con uncocktail di veleno micidiale: l’indifferenza, il modo dipensare egoistico e l’atteggiamento minimalista! Lo sa-pevate che è un organismo vivente, no? E che la sua so-

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pravvivenza dipende da ognuno?”Le proteste ripresero vigore.“Non è colpa nostra! È colpa dei politici! Anzi, della

crisi! No, dei docenti! Dei genitori! Degli allievi! Dellasocietà! Dei tablet! Dell’iPhone555S!”

“Silenzio, terrestri!” tuonò di nuovo la voce. “Vi ab-biamo dato fiducia. Vi abbiamo lasciato fare. Ma da oraci occuperemo noi delle scuole. A modo nostro, natu-ralmente”

Circolarono sguardi allarmati. Nella galassia, i Mir-zakiani erano noti per la loro fredda razionalità e infles-sibilità. Solo allora ci rendemmo conto che avevamobruciato la nostra unica chance. E che, adesso, qualcosadi davvero terribile ci attendeva.

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Un affondo risolutoPierino Ceppi

“Pierino, vai alla lavagna.”Tutti i lunedì mattina alle otto e cinque in punto

Pierino lascia il banco, nel quale non si è ancora sedutoperché sa che sarebbe stato inutile accomodarsi, e va allalavagna.

Odia quella materia, ma più ancora il suo insegnante.E questo fin dalla prima ora di Matematica alle

Medie, quando ognuno degli allievi aveva dovuto alzarsie dire il proprio nome e cognome, e quando era toccatoil suo turno, il signor M. con un sorriso derisorio si erapermesso di indicare ai suoi compagni che lui, Pierino,con quel nome sarebbe stato la barzelletta della classe.

Ecco perché odia quella materia e più ancora il suoinsegnante.

Ma Pierino non è un cattivo allievo, anzi riesce benein tutte le altre materie.

A Matematica va male per sua volontà: “Non glieladarò mai vinta a quel vecchio odioso e rimbambito d’unEMME!”

Tra le altre discipline ce n’è una che ama in partico-lare: Scienze.

Quella materia segue il suo sogno: diventare medicolegale. Già si sta allenando. Cattura lucertole e topi chemette in croce fissandone le zampette con gli spilli suun’assicella, poi con un coltellino ben affilato ne apre lapancia e ispeziona gli organi interni.

Così, quando è entrato per la prima volta nell’aula di

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Scienze ha scoperto un paradiso.Lì è stato subito attratto dallo scheletro appeso a un

trespolo con un gancio avvitato nel cranio.Quello per lui è lo scheletro del signor M.Dopo appena tre mesi di Medie è già intervenuto più

volte su quelle ossa che penzolano mollemente incernie-rate tra di loro: omeri, ulne, femori, tibie, peroni del si-gnor M. sono già in frantumi. Se non fosse che ildocente di Scienze gli è simpatico e lo loda per le sueconoscenza, le avrebbe veramente già rotte.

Ecco ciò che vorrebbe fare al prof. M. non solo rom-pergli le ossa, ma anche, o soprattutto, non avvitargli intesta un semplice gancio, ma conficcargli un grosso pun-teruolo nel punto in cui si incontrano le ossa frontale,parietali e occipitali e divaricarle e mettere all’aria il cer-vello.

Le tavole anatomiche lo fanno sognare. In partico-lare quella con il cuore con atri e ventricoli e il sanguevenoso in blu e quello arterioso in rosso vivo. “Certo dalcuore dell’EMME sgorgherebbe più sangue che daquello di un topo.”

Dalla tavola dell’intero corpo umano che illustra gliorgani interni, ha individuato il punto preciso dove è col-locato il cuore. Aiutandosi con l’indice che scende lungolo sterno, si indica dove dovrà colpire con un affondorisoluto: non al centro del torace perché la lama non pe-netrerebbe, ma solo un po’ a lato, e non perpendicolarema di sbieco perché la punta raggiunga l’organo vitale.

E’ un altro lunedì e peggio degli altri.Il prof. M. entra in aula.

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Tutti in coro, meno uno, gli allievi: “Buongiorno,professore.”

Lui grugnendo qualcosa, forse “buongiorno”, si av-vicina alla cattedra e, dalla cartella dal cuoio rammollitodagli anni e dall’uso, scarica le “verifiche”.

Questo lunedì Pierino non dovrà uscire subito allalavagna e sorbirsi le risate dei suoi compagni ai com-menti del prof sui suoi errori.

Lo aspetta qualcosa di ben peggiore, la consegnadelle verifiche introdotta da: “Pierino, oltre che un grot-tesco eroe di barzellette, sei anche un burrico!” E perPierino burrico è peggio di asino.

Il prof nella distribuzione segue la trafila classica: dalmigliore al peggiore zigzagando tra i banchi. E’ cosìanche questo lunedì, ma oggi non ci saranno risate perl’ultimo foglio.

Pierino è tranquillo, aspetta il suo turno.Più di venti nomi vengono pronunciati e più di venti

commenti, elogiativi i primi ma sempre più spregiativiman mano che il plico di fogli si assottiglia in mano alsignor M.

Siamo all’ultimo.Il prof dal fondo dell’aula risale verso i primi ban-

chi.Pierino tiene ben stretto il serramanico.Il prof, arrivato alla sua altezza, si gira verso di lui.Con uno scatto Pierino affonda la lama nel torace

appena di lato allo sterno e la rigira e rigira.Il prof lascia cadere l’ultimo foglio e si porta le mani al

petto con un grido strozzato che vorrebbe essere un urlo.

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Poi cade ginocchioni e infine disteso.La classe dopo un attimo di smarrimento è in sub-

buglio.Alcuni allievi spaventati corrono fuori e gridano: “Il

prof è morto!”Dopo poco, seguito da altri docenti, arriva il Diret-

tore che, resosi conto dell’accaduto, dice ai ragazzi:“Tutti fuori e per oggi a casa.”

Come tutti gli altri allievi, Pierino rincasa. Allamamma che vuole sapere come mai è rincasato così pre-sto risponde laconicamente: “E’ morto un docente.” Poisi rende latitante per tutta la giornata aspettando che glicapiti qualcosa di grave.

La sera c’è il papà ed è costretto a sedersi a tavolacon i famigliari.

A cena appena iniziata, suonano alla porta.Il papà: “Pierino, vai ad aprire.”“Papà, manda Marta.”“L’ho detto a te. Dai, muoviti”Pierino riluttante si alza con calma dalla sedia, di-

spone con cura il tovagliolo a fianco del piatto e s’avviaalla porta d’entrata con i passi più corti che può.

Altro scampanellio.“Muoviti! Non è educato far aspettare fuori della

porta.” gli manda il papà.Perché deve aprire la porta, altrimenti avrebbe già le

braccia allungate per farsi mettere le manette.Apre.Torna in sala da pranzo e dice: “Papà, ti vuole il di-

rettore delle Medie.”

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Il papà alzandosi dice: “Sicuramente ne avrai com-binata una più grossa del solito!”

E mentre il papà fa accomodare il Direttore nel-l’atrio, Marta dice: “Avrà ammazzato un compagno opersino un professore per vedere come è fatto dentro.”

Intanto nell’atrio, dopo i convenevoli, il Direttore:“Guardi cosa hanno trovato le donne delle pulizie nelbanco di Pierino risistemando l’aula dove è morto il pro-fessor M.” e gli porge una scatola.

Il papà ne alza il coperchio. Dentro ci sono un ser-ramanico e dei pezzi che, se non ci fosse rimasta la facciaintatta, non si saprebbe che sono il corpo e le membra,ora dilaniati, di una bambola della sorella.

E prima che si richiuda la porta si sente: “Poveroprofessore, è stato un infarto. Un infarto, poverino.”

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La scomparsa di NanaMichelle Rajower

Nana si svegliò di colpo, era tutta sudata, fuori eratutto buio e nevicava molto forte. Si mise davanti

alla finestra gelata, si intravedevano le venature del ghiac-cio depositato durante la notte, appoggiò la fronte con-tro la finestra e cadde a terra. I suoi genitori erano andatiin Russia per un convegno allora Nana era da sola incasa. Erano appena le 6 del mattino ma Nana cominciòcomunque a prepararsi per la scuola, si fece la doccia poiandò in camera e si vestì, si mise un paio di jeans bianchicon una maglietta piena di scritte, poi andò in cucina emangio due fette biscottate. Corse a lavarsi i denti e simise le sue Timberland, il suo giubbotto di pelle e il suocappello borchiato. Prese la sua cartella e uscì di casa,chiuse la porta e andò alla fermata del bus che distavacirca 1 chilometro, la neve scendeva fitta fitta senza farvedere nulla a Nana, lei andava dritta sperando di incon-trare presto il palo della fermata. Nana era esasperataquando finalmente si scontrò contro un palo che se-gnava la fermata, era così felice che le veniva voglia digridare ma presto arrivò il bus e lei salì . Nel veicolo fa-ceva un po’ più freddo del solito ma comunque più caldoche fuori. Quel bus era molto vecchio quindi ad ognicurva faceva uno strano scricchiolio cosa che Nana eraabituata, ma sentiva il pavimento più sottile e fragilesotto i suoi piedi, come se quando si fosse alzata il pavi-mento sottostante crollasse. Lei stava lì mogia mogiasorridendo ai suoi compagni sul bus facendo finta di

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niente ma in realtà era terrorizzata, non disse niente aicompagni perché non le avrebbero creduto. Il bus feceun curva brusca e Nana per non cadere appoggiò i piedia terra e tutto il pavimento dell’area posteriore crollò.Nana era sospesa nel vuoto, anche mezzo bus, tutti ur-lavano e quando il conducente si girò solo un istante ilbus prese male una curva e cadde in un burrone capo-volgendosi di continuo. La benzina colava da tutte leparti e si riusciva a vedere il motore che si staccava,quano la benzina entrò a contatto del motore, Nanadiede un calcio al motore ormai in fiamme per evitarel’esplosione del veicolo, il motore si stacco definitiva-mente e qualche secondo dopo esplose. A scuola invecela direttrice stava aspettando i soliti ritardatari quandoarrivò un ragazzo con la faccia terrorizzata, che raccontòle raccontò l’avvenimento con il bus, la direttrice chiamoimmediatamente la polizia e l’ambulanza che andaronoal luogo della catastrofe. Il bus era pieno di bambiniormai morti, dal freddo o dai colpi della precipitazione,erano tutti morti, c’era solo una cosa che non quadravaai soccorritori, nell’ultimo sedile in fondo c’era una car-tella e un portafoglio ma il posto era vuoto. La poliziaaprì il portafoglio e vide al suo interno l’abbonamentoper il bus con il nome Nana Riago, era riuscita ad uscire.I soccorritori cercarono per tutta la città ma di lei nem-meno una traccia, la neve aveva già cancellato le sue im-pronte e la nebbia era così fitta che con l’elicottero nonsi riusciva a vedere nulla. Nana stava camminando drittacon l’obbiettivo di andare a scuola, era il luogo più vi-cino, lei camminava e camminava, finché non vide un

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grande edificio rosso, era la scuola! Con le poche forzeche aveva corse fino ad arrivare all’entrata ma era chiusoe lei si lasciò cadere a terra mentre sentiva che la neve lastava ricoprendo piano piano fino a nasconderla com-pletamente. Nana si era rotta il braccio gravementequindi l’osso era uscito e perdeva molto sangue. I soc-corritori seguirono le tracce di sangue ancora legger-mente visibili fino a trovare la scuola, da lì le traccescomparvero e loro entrarono e cercarono ovunque lapolizia sapeva che sarebbe morta di dissanguamento amomenti quindi cercarono il più veloce possibile ma connessun risultato, ma ad un certo punto ad un soccorri-tore venne in mente di cercare fuori perché si era ricor-dato che hanno dovuto sfondate la porta per entrare,allora tutta la squadra uscì e si mise a scavare nella nevema il territorio era immenso. Intanto Nana era semprepiù sepolta nella neve. Ad un poliziotto cadde la palaproprio accanto a Nana e lui tirando su la pala portò insuperfice Nana ormai congelata, il poliziotto annunciòil ritrovamento della ragazza che venne portata d’ur-genza all’ospedale e per miracolo si salvò.

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Noir a scuolaBee Alice

Era una giornata di Primavera,io con i miei amici era-vamo andati al Luna Park. Eravamo io, Giovanni,

Sare, Gilly, Simone e Alex.–Andiamo alla casa stregata!–propose il mio amico Giovanni.– Chi che viene con me?Non avrete paura!? – tutti erano d’accordo che si andassedentro la casa stregata, ma io non mi sentivo tanto si-cura, ma non dissi niente.Ci dirigemmo verso la casastregata.– Sei biglietti per favore.–chiese Sare.– Buongiro – ci disse il cassiere in tono macabro. Tutti risero,ma io no, sentivo che qualcosa non andava... – Tuttobene Jo? Mi sembri un po’ strana.–mi chiese Alex – Nova tutto bene. Andiamo! – li risposi io con il mio tonopiù convincente. Bip. Presi il mio natel e lo spensi. Pen-savo che non mi sarebbe servito. Entammo nella casa.Si sentivano dei gridi di bambini. – AAAHA!!!! – gridai– È solo una ragnatela finta – mi disse ridendo Simone.Si vedevano teli che sembravano fantasmi. Tutti ride-vano e scherzavano. – Sembra tutto così reale!! – disseSare. –Vero, guarda davanti! – disse gilly. Sare stava an-dando a sbattere contro il muro. – Grazie! Per un pelo.– Dal soffitto cadde un ragno tutto peloso. – Cavolo checolpo! – disse Alex, ma... – Non è finto! Si sta muo-vendo! AAHA! – gridò Alex in preda al panico. – Dainon ci caschiamo – disse Gilly. Eravamo rimasti solo io,Alex e Gilly tutti gli altri erano andati avanti. – Te logiuro si sta muovendo, dentro la mia maglietta! Aiuta-temi a toglierlo – insisteva Alex. Andai a vedere: si muo-

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veva sul serio! Lo aiutai a togliersi la maglietta. La ma-glietta cadde per terra e il ragno uscì e risalì la parete. –Io non ci sto più qui.Io torno indietro.–disse Alex ritor-nando all’entrata. – Dove sono gli altri? – chiesi a Gilly.– No,saranno andati. Non si accorgeranno neanche chemanchiamo. – mi rispose.” Cavolo, quel ragno era vero,l’ho toccato. È un mistero.” pensai. Procedemmo. Nonsi sentivano più urla, si sentiva solo i nostri cuori batteree il nostro lieve sospiro. Eravamo in mezzo a una sala,piena di specchi, quando sentimmo un urlo terrificante.– Cosa è stato? – chiese Gilly, un po’ di paura ce l’avevaanche lei, e non era l’unica. Negli specchi si vedeva lanostra immagine riflessa... così d’un tratto comparve, ri-flessa sui tanti specchi, l’immagine di un licantropo. –Uao! Non avevo mai visto un licantropo così reale! – midisse, stupita, la mia compagna. Il licantropo si avvici-nava a noi, ma c’erano così tante immagini riflesse chenon sapevamo quale fosse in realtà il licantropo vero. –Qual è quello reale? –dissi in preda al panico. – Non neho... – non riuscì a finire la frase che il licantropo mi as-salì. Mi saltò addosso, io per fortuna riuscii a spostarein tempo. – Andiamo via! – gridai.Cercammo la viad’uscita per quell’inferno di specchi e riflessi. Il lican-tropo era in piedi, a cercarci. Trovammo l’uscita pocoprima che il licantropo trovasse noi. Eravamo in un cor-ridoio buio, i nostri cuori battevano all’impazzata. Cam-minammo per qualche minuto finché non entrammo inuna sala ampia con un divano al centro. Sul divano c’erauna persona. Non si muoveva e non respirava .Eramorta. – Andiamo a vedere? – chiese Gilly. – Ok–ci av-

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vicinammo. – AAAAHH! – gridammo. La donna si eraalzata di scatto.Io corsi verso l’angolo più vicino nellastanza,mentre Gilly corse dall’altra parte della stanza. Ladonna cominciò a parlare: – Come avete osato distur-bare il mio sonno? Adesso non uscirete mai più da que-sta stanza se non in bara! – concluse la sua frase con unarisata acuta.Vidi una porta tutta nera.Gilly mi guardavacon degli occhi spaventati, li indicai la porta. Sussurandoli dissi:–al mio tre – mi annui con la testa.–Uno, due e...tre – tutte e due corremmo verso la porta. Provai adaprirla. Pesava tantissimo,ma con un pò di forza riu-scimmo ad aprirla. Nell’altra stanza non c’era niente. –Che strana questa stanza... – dissi io. – Qui sembra chenon ci sia un’uscita. – disse Gilly. – È vero, forse è na-scosta,ma se non c’è dobbiamo tornare indietro, all’en-trata, ripercorrendo tutte le stanze. – il mio tono non eratanto convincente, ma ero sicura che Gilly si sarebbe ras-sicurata,ma non era la realtà. – Gilly,io non ce la facciopiù siamo dentro da più di mezz’ora.Pensavo che du-rasse al massimo dieci minuti!Voglio uscire da questoposto! – mi disse in tono molto sicuro e sincero.–Ancheio voglio uscire, è un incubo. – Cominciammo a cercareuna porta nelle pareti vuote. “Questo posto non è perniente bello, pensavo che sarebbe stato molto più diver-tente. Poi chissà dove saranno tutti gli altri. Mi sto co-minciando ad innervosire.” stavo pensando nella miamente. – Gilly! Ecco la porta! Vieni ad aiutarmi!! – michiamò la mia amica. Corsi subito da lei. La porta eramolto piccola ci passavo io a malapena. Entrai prima io:la stanza successiva sembra molto allegra, era gialla con

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diversi palloncini colorati in giro. – Che bella stanza! –dissi stupita. – Vero! È molto meglio delle altre! Poi sivede la porta! – Vero! Leggi sopra la porta! C’è scritto:USCITA! Evviva! – esultai. – Prendiamo un pallon-cino?–mi chiese Gilly tutta contenta. – Ok,io lo prendogiallo! — Io verde! – Andammo a prendere il palloncino,andammo alla porta, e... Quando varcammo la porta nonc’era quello che ci aspettavamo: eravamo uscite dalla casastregata, c’erano i nostri amici, ci avvicinammo a loroma loro non ci vedevano. Intorno alla casa stregata c’erail nastro giallo della polizia, i nostri genitori stavano pian-gendo. Io e Gilly ci guardammo e capimmo tutto. – Pro-viamo a rientrare, forse ritroveremo quello che abbiamoperso. – mi disse Gilly. – Ok,entriamo. Sei pronta? – cidemmo la mano e rientrammo nella casa stregata.

È la fine?

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Noir a scuolaPetros Michalopoulos

Ci sono momenti in cui si vorrebbe passare inosser-vati ma poi, neanche a farlo apposta, tutti ti cercano.

Nora si era appartata su di una panchina fermamente in-tenzionata a ripassare le lezioni di italiano. Aveva appenaletto la prima strofa della poesia che il professore Lironiaveva imposto alla classe di studiare a memoria, quandoecco avvicinarsi Stefania e Carlo. Erano la coppia piùglamour di tutto il Liceo 1 di Lugano. Sempre perfetti,sempre alla moda.

Che cosa vogliono questi due? Pensò infastiditaNora che non aveva tempo da perdere.

«Settimana prossima verrai al ballo?» le chiese Stefa-nia.

Per la prima volta, prendendo spunto dalle serie te-levisive americane, il comitato degli studenti aveva orga-nizzato un grande party di fine anno. Dopo lunghetrattative era riuscito a strappare al preside il permessodi adibire la palestra a discoteca. Il tema della festa eranogli anni venti e bisognava vestirsi in perfetto stile: vestitiflapper e abiti scivolati. Insomma, tutto quanto ricor-dasse i mitici anni ruggenti. Quella festa doveva entrarenella storia del Liceo.

A Nora sarebbe piaciuto andarci. Adorava ballare mararamente poteva uscire la sera. Aveva poche amiche eil finesettimana doveva aiutare la sua mamma. Papà nonc’era più.

La questione però, era che non osava chiedere i soldi

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per un nuovo vestito. E poi non aveva nemmeno un ca-valiere.

«Non so ancora» rispose senza alzare gli occhi. «Ci saranno tutti. Sarà una grande festa» disse Stefa-

nia, poi i due si allontanarono. Nora sentì che ridevanoe sentì anche suonare la campanella che annunciava lafine della ricreazione.

Il professor Lironi era in ritardo. Per un tipo precisocome lui, era alquanto sorprendente. In cinque anni nonera mai successo. Erano già passati dieci minuti e moltialunni stavano rimettendo libri e astucci negli zaini, felicidi avere evitato l’interrogazione, quando eccolo, trafe-lato, entrare in classe.

«Bene, iniziamo subito» disse mentre appoggiò lacartella sulla cattedra. Ma c’era qualcosa di strano. Ilnodo della cravatta era allentato, dettaglio inspiegabileper un perfezionista come lui che metteva i puntini suogni i. La fronte era un mare di rughe e soprattutto avevauno sguardo allucinato. O abbattuto. Nora, seduta inprima fila, notò una piccola macchia rossa sul collettodella camicia. Rossetto? Sangue?

«Vediamo chi interrogo oggi…» fece scorrere l’in-dice della mano destra lungo il registro e, siccome in quelgiorno dove voleva essere invisibile, tutti sembravanoavercela con lei, Nora fu chiamata alla lavagna. L’inter-rogazione non andò molto bene. Fece confusione conle figure retoriche presenti nella poesia. La sera ritornòtriste a casa dove sua madre aveva altri problemi che nonoccuparsi dell’andamento scolastico di sua figlia.

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La mattina seguente, con un inaspettato cambio diprogramma, la professoressa Dupuis lesse alla classe al-cune poesie della raccolta I fiori del male di Baudelaire.Per due ore parlò di amori proibiti. Nora si annoiò ma,per fortuna, poté poi sfogarsi con educazione fisica.Aveva lunghe gambe che usava volentieri per correre. Lepiaceva molto correre, così come ballare.

La classe fu accolta al centro della palestra dal pro-fessor Robustelli, un uomo dal fisico massiccio. Quellamattina aveva uno strano ghigno stampato in volto.

«Oggi andiamo a correre nel parco» ordinò.

Il parco Ciani si affaccia sul lago di Lugano ed è riccodi vialetti ideali per passeggiate e jogging all’ombra di al-beri secolari. Nora, come sempre, era la prima delgruppo. Faceva mangiare la polvere anche ai ragazzi.Stava concludendo il secondo giro quando una massascura nel lago attirò la sua attenzione. Deviò la corsa e,superata un’aiuola, si fermò sulla sponda. Con terrore siaccorse che la massa galleggiante che aveva notato adieci metri dalla riva non era un grosso tronco ma ilcorpo di una persona. Cacciò un urlo di paura.

Per recuperare il cadavere, oltre agli esperti dellascientifica, dovette intervenire la polizia lacuale. Unavolta portato sulla terra ferma, non fu difficile ricono-scere il corpo senza vita del professor Lironi. Nora persei sensi.

Il procuratore pubblico incaricato di seguire il casoordinò un’autopsia e la salma fu trasportata all’IstitutoCantonale di Patologia a Locarno. La dissezione fu ese-

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guita dal dottor Tagliaferri, medico legale, il quale, al dilà di un piccolo graffio sul collo, riscontrò unicamentela presenza d’acqua nei polmoni del professor Lironi. Lacausa della morte era chiara: annegamento.

«Di più non posso dire. D’altronde in situazioni diannegamento o di caduta in un burrone non si può maiaffermare con certezza se si tratta di incidente, omicidioo suicidio» sentenziò il dottore.

Nei giorni successivi furono svolte ampie indagini.Fu setacciato tutto il parco e furono interrogati allievi,docenti e parenti. Non si scoprì molto che potesse aiu-tare la polizia. Risultò che il professor Lironi viveva soloe che fosse considerato assai pedante. Da buon letteratonon tollerava una virgola fuori posto. Mai. E, strano mavero, non sapeva nuotare.

Con delusione degli alunni, in particolare di Stefaniache sperava di venir eletta regina del ballo, la festa di fineanno venne annullata. Solo Nora fu contenta di questadecisione.

Una mite mattina di metà giugno si tenne il funerale.C’era tutto il Liceo. Finita la cerimonia, Nora, mentre siallontanava in silenzio, non poté fare a meno di notarecome il professor Robustelli appoggiò una mano sullaspalla della professoressa Dupuis in un gesto che dovevaessere d’affetto ma che a lei sembrò di dominio. La pro-fessoressa Dupuis, in realtà, non sentiva nulla. Il suocuore era fermo al giorno precedente al ritrovamentodel cadavere del professor Lironi quando lui l’avevabloccata in aula confessandole in modo troppo aggres-

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sivo il suo amore obbligandola a difendersi, alzandoanche una mano, e a minacciarlo di dire tutto al suo for-zuto compagno. Ma questo segreto lo nascose dentro disé. Pour toujours.

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Mademoiselle Le Mercier e le steleChristiane Caneva

Era piccola, grassa, con i capelli biondi a caschetto,gli occhi blu e sporgenti, le labbra sottili e curve in

una smorfia di disprezzo. La professoressa Le Mercierera di cattivo umore. Sempre. Aveva una conoscenzadella letteratura francese sconfinata. Umanamente peròera un disastro. Nessuno l’aveva mai vista sorridere. Nes-suno l’aveva mai vista prendere un caffè o pranzare coni colleghi. Una volta la settimana leggeva i mail profes-sionali. Se doveva rispondervi, lo faceva con carta epenna. Redigeva lunghe lettere dalla retorica pomposa.Le gettava poi con disgusto tra le mani delle segretarie.Faceva una smorfia. Rizzava il naso e serrava strette lelabbra, come un “cul de poule” dicevano le segretarie.Gli allievi li trattava con disprezzo. Un paio di voltel’anno arrivava nel mio ufficio qualche ragazza in la-crime. Allora, riluttante, convocavo la professoressa, sa-pendo che non sarebbe servito a nulla. Quella volta,però, aveva oltrepassato i limiti. Se n’era resa conto. Sa-peva che sarebbe stata rimproverata. Non ricordava esat-tamente la successione degli avvenimenti, ma ricordavaquello che aveva provato: sollievo. Il silenzio di tombache era piombato di colpo nella classe le aveva però fattocapire che aveva esagerato. La direttrice aveva solo detto:“Sapevo che un giorno sarebbe successo.” Quel giornoero nel mio ufficio. D’un tratto qualcuno aveva bussatocon energia. Una testa bionda si era infilata nella porta

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socchiusa. Una studentessa con gli occhi umidi entrò emi disse tutto d’un fiato: “La Le Mercier è pazza! Sacos’ha fatto? Ho guardato l’ora sul telefonino. Lei si èinnervosita e voleva confiscarlo. Le ho detto che non neaveva il diritto. Allora me l’ha strappato di mano, è an-data alla finestra e l’ha scaraventato giù in cortile. Poi miha dato uno schiaffo!”

Sgranai gli occhi incredula. Rose Le Mercier stava la-vando meticolosamente la lavagna quando arrivai nellasua aula.

“Buongiorno” dissi. S’immobilizzò. Girò lentamentela testa. “Buongiorno” rispose freddamente riprendendoa lavare la lavagna.

“Ho parlato con una sua studentessa poco fa.”“Ines. Sarà venuta a piangere, povera piccola” ri-

spose sarcastica.“Ha dato uno schiaffo ad un’allieva!” dissi alzando

la voce. La professoressa si girò, stringendo la spugna efacendo cadere per terra delle gocce nerastre. Mi fissò.

“Stava usando il telefonino. È contrario al regola-mento.”

“Nel regolamento è forse scritto che si possono sca-raventare dalla finestra gli effetti personali di un allievoo schiaffeggiarlo?”

Impallidì.“Mi segua nel mio ufficio.” aggiunsi.“Ho un appuntamento ora. Verrò nel suo ufficio do-

mani.”L’indomani la professoressa era malata. Seduta nel

mio ufficio mi chiesi cosa le fosse passato per la testa

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quel giorno. Presi il dossier di Ines. Era una bella ragazzadai capelli biondi e gli occhi blu. Era nata a Chicago. Ilpapà era avvocato. La mamma pure. I voti ottimi. Aparte questo, niente di speciale. Quella sera, uscendo dalliceo, feci una passeggiata e mi ritrovai a Paradiso. Lì abi-tava la professoressa. Arrivata sotto il suo palazzo vidile luci accese a tutti i piani. Era in casa. Per una ragioneche ignoro, per una sorta di curiosità malsana, entrai.“Rose e Maria Le Mercier” lessi sulla buca lettere.Quarto piano. Salii e suonai il campanello. Sentii deipassi, lenti e strascicati. La porta si aprì e una signora an-ziana, dai capelli radi e bianchi, mi guardò stringendo gliocchi globulosi.

“Buonasera. Sono la vicedirettrice del liceo dove la-vora...” Esitai.

“Mia figlia Rose? Oh entri pure.” disse cordialmente.Mi chiesi se fosse una buona idea, ma ormai non po-

tevo più tornare indietro. Probabilmente la figlia non leaveva raccontato nulla. “Rose sta facendo la doccia” midisse. Il corridoio era stretto, buio, ricoperto di fotogra-fie. Sulle più recenti vi era una bella donna, elegante, suisessant’anni, con il marito, un uomo affascinante. Sualtre foto vi erano anche due ragazzi.

“Mia figlia Claire con suo marito e i suoi figli. Hannoappena finito il college.”

“Non sapevo che la Signora Le Mercier avesse unasorella.”

“Sì, una gemella. Non si vede, vero? Claire è un bril-lante avvocato, come suo marito. Abita a Chicago. Ci sonostata una volta. È sistemata bene, lei.” Fece una pausa.

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“Vuole bere un tè?”Era piccola e magra, aveva la schiena ricurva e cam-

minava con un bastone. Mi porse la zuccheriera. “Non posso prenderne io, di zucchero.” disse. “Dia-

bete. Da più di vent’anni ormai.”“Mi spiace.”Sollevò le spalle sospirando.“Maman? Tu parles toute seule?” urlò una voce dal

bagno.“Rose, on a des visites!”“Quoi?” esclamò allarmata.Dopo pochi minuti apparve la professoressa.

Guardò sua madre inquieta, poi mi gettò uno sguardomisto di odio e di vergogna.

“Je te laisse avec ton amie. Je vais appeler Claire”.La donna uscì dalla cucina. Rose mi fulminò con lo

sguardo.“È venuta a verificare se sono malata?”“No. Mi sono solo chiesta cosa le è passato per la

testa ieri.”Scoppiò in una risata sonora. Poi tutto ad un tratto

cessò di ridere.“Per trent’anni ho subito. Una madre malata. Una

sorella venerata da mia madre. Un lavoro che odio. Unavita di privazioni. Per cosa?”

Ero a disagio.“Sa cos’ho visto nel viso di Ines?” Tacque. Si alzò

lentamente. La seguii con lo sguardo. Andò davanti allafinestra e guardò il cielo.

“Quante stelle. Mille volte ho scrutato il cielo spe-

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rando di vedere una stella filante. Claire ne ha vista unada bambina. Mi ero precipitata anch’io davanti alla fine-stra. Troppo tardi. Aveva espresso un desiderio, lei. Iono, mai.” Sospirò. Sentii avvicinarsi dei passi strascicati.Rose spalancò la finestra e respirò a pieni polmoni l’ariafredda di dicembre. Un soffio d’aria mi fece rabbrividire.Ricordo ancora la sua sagoma davanti alla finestraaperta. La luce di un lampione illuminava il suo viso,pieno di rammarico.

All’improvviso udii urlare alle mie spalle “Rose!”. Poirimase solo la luce del lampione e il nero della notte.

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Alessandra la giovane investigatriceSara De Giorgis

Si sentì urlare: era il prof di mate che sgridava Ales-sandra. Per scusarsi ella riuscì soltanto a dire:

“Scusi!”. Il prof. disse: “Per questa volta chiudo un oc-chio, ma che sia l’ultima volta, okay?”. Alessandra annuìe il prof. continuo’ a fare lezione. Alessandra leggevamolti libri gialli e sognava di diventare un’investigatrice.

La mattinata passò in fretta, e arrivò l’ora di ginna-stica; mancavano circa 10 minuti alla fine della lezione,quando la docente disse ad Aurora: “Aurora vai a met-tere via i nastri, per favore.” Aurora annuì, prese i nastrie andò dall’altra parte della palestra. Improvvisamenteun urlo ruppe il silenzio della palestra, proveniva dalloscantinato, tutta la classe corse li. Videro Aurora in piedi,pallida, con la mano tremolante e con gli occhi sgranati.Indicava un angolo che non si vedeva dalla porta d’in-gresso, così tutti entrarono e videro una pozza di sanguee un corpo smembrato… era il prof di matematica.

Tutta la classe lanciò un urlo di terrore, erano in-torno al corpo, certi erano increduli, altri invece stavanoper svenire o per vomitare. In un attimo arrivò la poliziae anche l’ambulanza, caricarono su una barella il cada-vere e lo portarono via. La polizia interrogò la docentedi ginnastica e alcuni suoi compagni. Suonò la campa-nella e tutti andarono a casa, tranne Alessandra. Volevaa tutti i costi scoprire l’assassino, così si nascose senzafarsi notare e aspettò che anche l’ultima persona uscisse.

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A quel punto andò sulla scena del crimine: la palestra.Purtroppo la porta era chiusa con un lucchetto, per

sua fortuna aveva una spilletta per capelli, se la tolse,scassinò il lucchetto, la catena cadde a terra. Entrò nellapalestra, dominava l’oscurità e il silenzio. Andò nelloscantinato, accese la luce: c’erano solo degli attrezzi,niente di strano, ma laggiù notò qualcosa, sembrava unbottone, c’era anche un’impronta di sangue. Alessandramemorizzò l’impronta e prese il bottone in mano,c’erano due lettere: LS. Alessandra pensò:”Bene, sono abuon punto, devo solo scoprire a chi appartiene questobottone e il gioco è fatto. Mmmh, LS, credo di ricono-scere queste due iniziali, ma certo! Perchè non c’ho pen-sato prima: si tratta di Leslie Soppith, la docented’inglese, stasera le farò qualche domanda e se le rispostecombaciano avrò trovato l’assassino!!! Forse è meglioche vada.” Uscì dalla palestra, raggiunse il corridoio edinfine forzò la serratura per uscire e scappò.

Quando nel pomeriggio finirono le lezioni, Alessan-dra andò dalla signora Leslie Soppith. TOC TOC! Lavoce dall’altra parte della porta rispose: “Avanti.” Ales-sandra entrò. La signora Leslie (seduta sulla sua sedia)era una donna alta e magra, aveva gli occhi neri e i capelliargentati legati in uno chignon. Alessandra salutò edu-catamente: “Buongiorno signora Leslie, posso farle unpaio di domande?” La signora Leslie annuì sorpresa eAlessandra continuò: “Le stava antipatico il docente dimatematica?” “Perchè mi fa questa domanda?” Alessan-dra un po’ sospettosa incalzò: “Per caso è suo questobottone?” La docente prese in mano il bottone: “Dove

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l’ha preso?”. Alessandra rispose: “Rispondo alla do-manda con un’altra domanda: dov’era stamattina all’oradell’omicidio?”. La docente spalancò gli occhi: “Ero quia correggere i compiti!”. Alessandra sicura di sé le chiese:“Posso dare un’occhiata qui in giro?” La docente ghi-gnado rispose di sì. Alessandra guardò dentro l’armadio:c’era una scarpa con la suola sporca di sangue. MentreAlessandra analizzava la scarpa non si accorse che la do-cente aprì il cassetto, prese un coltello, si alzò dalla sedia,le si avvicinò: stava per accoltellarla. Alessandra si giròin tempo, sgusciò sotto le gambe della docente, che in-filzò la parete di legno con il coltello: “Non ti salveraiAlessandra!!” Alessandra andò verso la porta, era chiusa,cercò di aprirla ma non ci riuscì. “Ti ucciderò Alessan-dra!!” La ragazza urlò, ma la scuola era deserta. La do-cente corse verso Alessandra con il coltello in mano, mala giovane si buttò a terra e la docente sbattè contro laporta e svenne. Alessandra prese il coltello e ruppe lamaniglia, la porta si spalancò e Alessandra sgattaiolòfuori dall’aula, ma la prof. riprese conoscenza, riprese ainseguire Alessandra, che corse giù dalle scale, si girò, evide la docente che le era alle calcagna. Arrivata al pianoterra corse al blocco principale, cercò di aprire la portama era chiusa con un lucchetto e una catena. Si girò evide la docente con la fronte sanguinante per la botta diprima, aveva ancora il coltello in mano. Alessandra ledisse: “Ma perché ha ucciso il prof.di matematica?” Ladocente si fermò: “L’ho ucciso perché mi ha tradito!”Con tono tranquillo continuò: “Non potevo sopportareche stesse per spifferare il nostro segreto, quindi l’ho uc-

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ciso.” “Ma quale segreto?” “Sotto la scuola c’è una mi-niera d’oro, e io ogni notte venivo a scavare, purtroppoil tuo docente di matematica mi aveva scoperto e avevapromesso di non dire niente, ma infine stava per andarea dire tutto al direttore, e io l’ho addormentato, l’ho por-tato nello scantinato e l’ho sgozzato. Ti ho detto troppo,ciao ciao Alessandra!” La ragazza urlò, ma nessuno lasentì…

Alessandra pregò Dio.L’assassina era praticamente ad un metro di distanza,

le si stava avvicinando lentamente quando, improvvisa-mente, si accasciò a terra. Alessandra vide un’ombra die-tro il corpo svenuto della docente, e domandò: “Chisei?” L’ombra sorrise e le rispose: “Sono il tuo salvatore”e scomparve. Alessandra stupita prese il telefono,chiamò la polizia e quando arrivò spiegò loro tuttoquello che le era successo. I poliziotti arrestarono la si-gnora Leslie. I genitori, correndo verso Alessandra, laabbracciarono, la portarono verso l’auto, entrarono epartirono.

Alessandra si girò verso la scuola e disse: “GRAZIE”.

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Noir a scuolaMaria Grazia (Mery) Bello

Erano le 19:00 in punto quando la signora MadysonO’Neil rispose al telefono. Incredula e in preda al

panico fece cadere il tacchino ripieno che aveva in manoe il cuore le si fermò per un attimo. La notizia che la suaamata Odillie era morta le giunse come un fulmine a cielsereno. A casa con lei c’era la vicina Laurel Sullivan, chenon perse occasione per spettegolare con il vicinato dicose che neanche conosceva esattamente. Madysoncorse al piano superiore nella mera speranza di trovarela sua bimba in camera, dove l’aveva lasciata un oraprima, ma di lei nessuna traccia, solo la finestra aperta eil notebook sul pavimento. Neanche 10 minuti dopo,ecco che l’ispettore Jamey Cooper era a casa O’Neil perinterrogare brevemente la donna circa le abitudini dellafiglia, le persone che frequentava e per sapere se avessenotato qualcosa di strano negli ultimi tempi. Cooper ri-girò sottosopra la camera ma non trovò niente di ano-malo. Tra i vari effetti personali venne requisito anche ilportatile parzialmente rotto.

Odillie O’Neil, 15enne di famiglia modesta, bellapresenza, dal fisico esile e curato, lunghi capelli marronie profondi occhioni verde smeraldo, studentessa mo-dello e promessa della ginnastica ritmica, era stata trovatapriva di vita nel retro del cortile della scuola, con la testarasata, totalmente nuda e con polsi e gola lacerati dagrossi tagli.

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La notizia si sparse immediatamente e Odillie eranuovamente al centro dei pettegolezzi degli allievi dellaEmpire School di Seattle.

L’agente Cooper entrò nella classe di Odillie durantel’ora di informatica e avvertì un’inconsueta tranquillità,quasi come se niente fosse accaduto. Dopo vari pream-boli, Jamey interrogò uno ad uno i compagni di classedi Odillie tra i quali spiccavano gli animi ribelli dei ma-schietti Cohen, Brian e Austin, e la presunzione di Kas-sandra, Shirley e Walesca tra le femminucce. Rimasecolpito dalla freddezza di Chloe Sanders che a detta delladocente di classe, Mrs Dorothy Chapman, doveva esserequella che meglio conosceva la vittima. Dalle varie testi-monianze emerse che Odillie nel corso dell’anno scola-stico aveva avuto due brevi relazioni con Cohen e Ray,ma che ultimamente parlava spesso con il bel tenebrosoLovel Farrell, ragazzo 16enne di una classe superiore,molto riservato ma gettonato tra le adolescenti.

Una volta rientrato in Centrale, stanco e perplesso,Cooper contattò un esperto informatico per esaminarel’hard disk di Odillie e, dopo vari tentativi e abilità degnedi un hacker, ecco che finalmente recuperarono qualchetraccia interessante. Apparve dapprima un pseudo diarioche la ragazzina aveva salvato con il nome “nightmare”e tra le ultime cose scritte si evidenziavano frasi toccanticome “Ogni volta che riappare un mi piace, un com-mento e un condividi se ne va un pezzo della mia vita”oppure, qualche giorno prima della sua morte, la stessa

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scriveva “non ce la faccio più a sopportare tutto questo”;il resto altro non erano che episodi legati ai suoi successiginnici e scolastici, messaggi d’amore e immensa grati-tudine verso la madre, ma nulla v’era invece a riguardodelle sue amicizie o dei suoi presunti amori.

Quelle note portarono Cooper a direzionarsi suisocial network più popolari. Vennero a galla sconcer-tanti e raccapriccianti foto, frasi, ingiurie e minaccepubblicate sul profilo di un gruppo denominato “WeHate You” dove la gente descriveva la vittima comeuna “provinciale prostituta”, “lurida cagna che si ag-graziava i professori per ottenere voti alti” e dove vierano le più svariate e colorite affermazioni relativealle sua morte. Individui coperti da nickname espri-mevano gioia per l’accaduto e per la crudeltà rivoltaalla ragazza durante il supplizio e come se non ba-stasse sul profilo della ragazza era apparsa una foto incui era in una pozza di sangue con la didascalia “questaè la fine che meritavi”. Quella foto doveva per forzadi cose essere stata scattata subito dopo l’omicidiovisto che la scena del crimine era stata vietata e circo-scritta dagli agenti appena rinvenuto il cadavere. Dopoore di lavoro, Cooper scoprì che l’immagine risultavaessere caricata da un Wi–Fi pubblico di Kissimmeenella lontana Florida, ma che era stato dapprima uti-lizzato un proxy server, alfine di sviarne la prove-nienza. Chiunque avesse fatto ciò o era un abileinformatico o aveva delle ottime conoscenze con unodi essi.

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O’Neil cercò nuove deposizioni e nuovi indizi eparlò a lungo anche con Stacey Carter, 45enne, istrut-trice di ginnastica e personal trainer di Odillie, che avevamostrato grande disperazione alla notizia ma più chealtro perché aveva perso l’unica valida ginnasta in gradodi partecipare alle prossime Olimpiadi.

Nonostante Cooper fosse risalito a chi si nascon-desse dietro i nickname, ognuno degli indiziati aveva unvalido alibi e benché tutto portasse a pensare ad un casodi cyberbullismo, forse quella non era la pista giusta daseguire. Gli interrogativi che si poneva erano tanti: Comemai gli impegni di lavoro del padre di Odillie non gli per-mettevano di rientrare neanche per un fatto tanto grave?Cosa ci faceva Mrs Chapman alle 18:30 nel cortile dellascuola in un giorno in cui lei non aveva lezione? PerchéLovel Farrell era stato sospeso dall’Empire School pro-prio quell’infausto venerdì? Con chi doveva incontrarsiOdillie? Perché uscire di casa di nascosto? Perché ulti-mamente saltava le lezioni di ginnastica? Dov’erano finitii capelli mozzati e i vestiti della ragazza?

Di colpo Chloe Sanders, alias “Fata Nera”, bussò inlacrime alla porta di Cooper, mancava soltanto mezz’oraai funerali ma aveva qualcosa di interessante da mostrar-gli…

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Pulizie primaveriliAngelo Di Campli

Erano giorni frenetici al Liceo di Bellinzona, di lì apoco si sarebbero tenuti i famigerati esami finali.

Gli studenti si apprestavano ad iniziare la prima lezionedel pomeriggio dopo aver mangiato frettolosamente unkebab al baracchino dell’ambulante.

All’improvviso le chiacchere degli allievi furono zit-tite da una sirena proveniente dal parcheggio antistante.

La maggiorparte di loro pensò si trattasse del rumoredelle giostre presenti in quel periodo sul prato comunale,ma vennero subito smentiti dal Direttore che tramite l’al-toparlante, invitò i presenti a riunirsi immediatamente incaffetteria.

Nei corridoi cominciarono a girare voci infondatesull’operato della commissione d’esami, ma i dubbi du-rarono ben poco.

Il Capo della Polizia cittadina aveva indetto una riu-nione per comunicare loro, che la sera prima nell’atriodella palestra sotterranea era stato rinvenuto il corposenza vita della donna delle pulizie. Nella sala ci fu unattimo d’incredulità e commozione.

Maria „Piccola“, come la chiamavano gli studenti,era molto conosciuta nell’ambiente e lavorando lì daglianni ottanta aveva visto crescere generazioni di studentie professori.

Gli agenti mostrarono agli alunni uno zaino rosso ri-trovato a fianco alla vittima, ma sullo stesso non erano

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state riscontrate impronte e gli stessi erano alla ricercadi testimoni.

Nel frattempo in fondo alla sala due ragazzi di nomeMimmo e Milly, appoggiati al distributore automatico,vennero colti quasi da un malore e diventarono bianchicome le custodie dei loro telefonini.

Quell’oggetto era molto familiare ed erano certi disapere a chi appartenesse.

Appena finita la conferenza scapparono via sui loroscooter, raggiungendo in breve tempo la casa di un loroamico che abitava a pochi isolati.

Trafelati e sudati suonarono il campanello e pocodopo apparve Dica che li salutò calorosamente. Non sivedevano da tempo a causa dell’ assenza di Dica dascuola, dovuta ad un grave infortunio al ginocchio patitodurante una partita di calcio.

Gli raccontarono tutto velocemente, tralasciandoperò il dettaglio del ritrovamento.

Dica rimase molto scosso dall’accaduto e non pro-ferì parola. Pensare che anni prima aveva avuto una re-lazione con la figlia della donna uccisa che era duratapochi anni.

Con una scusa, Mimmo chiese a Dica di prestargli ilsuo zaino visto che l’aveva smarrito qualche giornoprima. Dica gli rispose che non poteva, visto che l’avevaappena regalato a sua cugina e che ne avrebbe compratouno nuovo con l’arrivo dei saldi.

Passate un paio di settimane, mentre la dinamicadell’assassinio era ancora avvolta nel mistero, arrivò il

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giorno tanto atteso degli esami.Dica arrivò presto e di buona lena, al contrario dei

suoi amici sempre più dubbiosi. L’esame iniziò in perfetto orario e mentre il tempo

passava inesorabile, ad un certo punto, si sentì bussareenergicamente alla porta dell’aula.

L’esaminatore stranito, aprì la porta e sull’uscio videdue poliziotti che chiesero

del Signor Di Carlo Massimo. Ci fu und attimo di silenzio generale in aula, Dica si

alzò dalla postazione e andò verso di loro, chiedendocosa fosse successo. Gli agenti non gli comunicarononulla e lo portarono via in men che non si dica.

Concluso l’esame del mattino, il tam tam mediaticodella notizia rimbalzò dalla radio alla televisione, da in-ternet ai social network e in poche ore fu di dominiopubblico.

Si vociferava che l’avesse fatto perché Maria mettevail bastone tra le ruote alla relazione con la figlia.

Passarono lunghi e tristi giorni di prigione per Dica,che non riusciva a capire cosa gli stesse succedendo.

Ormai era già trascorso un anno e senza accorger-sene stava per arrivare il giorno del giudizio. La popola-zione pretendeva una punizione esemplare e in queigiorni al Liceo si respirava un’aria strana, tutti sapevanoche l’aveva combinata grossa, ma non si capacitavanoche quel ragazzo avesse compiuto quell’atroce delitto.

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La sera prima del processo, un professore che si ap-prestava a tenere un corso serale presso la sala multiusoadiacente la palestra, cercando un vecchio dossier, trovòdentro una scatola d’archivio un oggetto avvolto in unostraccio sporco e maleodorante.

Tolto il panno scoprì che si trattava di una sculturain legno non ancora ultimata e che rappresentava un cal-ciatore. All’inizio fu tentato di scoprire a chi apparte-nesse, ma poi si accorse che sulla stessa era presente delsangue essiccato.

Capita la gravità della situazione telefonò subito alDirettore che allarmò la Polizia.

Dopo un paio di giorni d’indagini, la scientifica con-fermò che il sangue era proprio della vittima e che quellacreazione non ancora terminata, appartenesse a degli exalunni che l’anno prima, avevano frequentato il corso se-rale d’incisione nel legno.

Dalle interrogazioni poi, uscì fuori che gli stessiavrebbero voluto regalare la scultura ad una personamolto cara, come augurio per la ripresa agonistica.

Quella sera di Giugno in un momento la vita dei duealunni cambiò letteralmente. All’ultimo istante deciserodi aggiungere anche un paio di scarpe al loro dono, mavisto che le loro finanze scarseggiavano, pianificarono ilfurto delle quote d’iscrizione dalla cassa presente nellasala multiuso.

Allo stesso tempo, Maria „Piccola“ che stava effet-tuando le pulizie primaverili nella palestra adiacente,

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passò proprio di lì e vide qualcuno armeggiare con unoscalpello.

Colti sul fatto e con la paura di essere espulsi, spen-sero la luce per non farsi scorgere e tramortirono con laloro creazione la malcapitata sul viso.

Scappando via di corsa, dimenticarono lo zaino enon fecero bene i calcoli con la minuta donna, che spintavigorosamente, cadde su un attrezzo metallico della pa-lestra procurandosi la ferita mortale alla testa.

Mimmo e Milly non si accorsero di nulla e solo al-l’indomani durante la riunione in caffetteria scoprironoche quella sera successe qualcosa di grande, più grande

di loro e più grande della loro amicizia verso Dica.

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Noir a scuolaLelia Adamo

Le scuole private svizzere affrontano programmi diogni tipo, maturità internazionale livello A del si-

stema britannico, maturità tedesca. Un altro vantaggio èil plurilinguismo, infatti si vantano ragazzi provenientida Russia, Germania, Stati Uniti, Francia e Svizzera na-turalmente.

Sono scuole d’èlite, conosciute per la disciplina fer-rea, rispetto degli insegnanti quali figure di autorità.

Al Collège Parfait, nella Svizzera francese, è acca-duto, un aneddoto molto interessante.

I ragazzi dell’ultimo anno, erano in sedici, una classemista come tutte nel Collège Parfait, ragazzi germanici,Inglesi,francesi e anche provenienti dagli Stati Uniti, pro-prio su quest’ultimi voglio focalizzare l’attenzione, dueragazzi, molto attraenti, alti biondi dal fisico atletico,bravi in qualunque sport, ma decisamente negati per lostudio, sapevano le loro lacune e soprattutto sapevanoche i rispettivi genitori si aspettavano grandi risultati daloro.

Un giorno, il professore di geografia, per stimolarelo studio e i risultati degli studenti dell’ultimo anno, pro-pose di mettere in palio un premio per il migliore stu-dente, un orologio molto prezioso double–face,considerato l’orologio da polso più tecnologicamentesofisticato e perfetto della storia della maison svizzera,sul lato del quadrante indica il tempo solare medio e ilcalendario perpetuo, mentre sul lato fondo cassa con-

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sente di visualizzare la carta del cielo notturno, il movi-mento angolare della luna, le fasi lunari e l’ora siderale.Davvero un regalo pazzesco, certo, bisognava lavoraresodo per meritarselo.

I ragazzi statunitensi Yohn e Stuart, guardavano conodio il migliore della classe, il secchione dagli occhialispessi come fondi di bottiglia, inglese d’origine, semprecomposto e rispettoso, i suoi genitori, al contrario di tuttigli altri studenti, facevano grandi sacrifici per mantenerloagli studi. Edward lo sapeva bene e voleva non solo an-dare bene a scuola, ma essere il migliore, per premiare isuoi adorati genitori. Edward era un ragazzo orgogliosoe tenace, ora aveva l’opportunità di possedere un vero eproprio gioiello dell’orologeria svizzera, ma soprattuttorappresentava, un tributo, per il suo grande impegno .

I due ragazzi statunitensi sapevano che per loro sa-rebbe stato praticamente impossibile vincere, dovevanotrovare una soluzione, mettere fuori gioco Edward sem-brava l’unico modo per avere almeno una debole chance,ma come?

Yohn e Stuart avevano deciso di azionarsi in unpiano a loro dire diabolico, tutti pensavano di Edward ilmeglio, sembrava esserci solo lui in classe, ma se il carosecchione fosse stato un ladro, non solo si sarebbe rovi-nato la reputazione, ma molto probabilmente, sarebbestato espulso.

Yohn, per sondare il terreno, va dal professore digeografia a chiedere come le fasi lunari vengono rappre-sentate sull’orologio, il professore gentilmente colpitodall’interesse del ragazzo, cosa rara nel caso specifico,

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decide di farglielo vedere, era riposto in un cofanettochiuso a chiave, nulla di sofisticato, sarebbe stato sem-plice aprirlo, perfetto, ciò che voleva sapere l’aveva sco-perto .

La notte seguente, Yohn e Stuart decidono di rubarel’orologio, aprono con facilità la porta dello studio delprofessore, sono bravi ad ingegnarsi e poi guardando lascrivania, Yohn ricorda perfettamente il cassetto dov’èriposto il cofanetto, è il primo a destra, lo apre tenendoil fiato, sì, eccolo è chiuso a chiave e ben visibile, Stuartquasi non riesce a trattenere un boato di gioia, Yohn lofredda subito con parole dure, –che fai? Vuoi che ci sen-tano, cretino? Basta un piccolo rumore per attirare l’at-tenzione e addio orologio, ora cerca di stare zitto Stuart,capito?–

Il cofanetto che sembrava tanto semplice da aprirenon lo era affatto, malgrado Yohn avesse già aperto altreserrature simili, questa resisteva ad ogni colpo, non re-stava altro che forzarlo, così con un cacciavite riesce fi-nalmente ad aprirlo ed eccolo; in tutto il suo splendore: uno spettacolo d’orologeria svizzera, ora nelle loromani.

Bene la prima parte del piano è andata a segno, oradove potrebbero nascondere l’orologio in modo tale chesarà facile incolpare Edward? Nella loro grande capacitàintellettiva, pensano che sotto il materasso, sarebbe statoil posto giusto.

La mattina seguente, un rumore assordante nei cor-ridoi sveglia i ragazzi nelle rispettive camere, i professoriurlano di rimane tutti nelle loro stanze, ed è un ordine!

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Quando i professori di tutte le materie fanno irru-zione nella stanza di Edward lui era seduto sul letto tran-quillo, nell’attesa di spiegazioni su quanto stesseaccadendo, ma loro non parlavano erano solo intenti inuna strana ricerca tra le sue cose. Ed ecco un urlo spa-ventoso da parte della professoressa di storia, classico,una donna tende sempre ad urlare, così ovviamente l’in-tera scuola era lì, chi dentro la stanza, chi fuori accalcatoper cercare di capire cosa stesse accadendo. L’orologioera lì, chiaro e lampante chi fosse il colpevole, Edwardguardava la scena al rallentatore, non riusciva a parlarecome se la lingua si fosse seccata. Il professore di geo-grafia che da sempre aveva un debole per quello stu-dente, non poteva credere ai suoi occhi, doveva esserciuna spiegazione, prende in mano l’orologio e lo stringequasi volesse sapere la verità dall’orologio stesso. –Per-ché Edward?–questa era l’unica domanda che rintronavanelle orecchie di Edward, sentiva la testa girare come seil mondo avesse d’un tratto altre forme e dimensioni,prima guardava i professori, poi guardava Yohn e Stuartche ridevano soddisfatti e poi guardava l’orologio, d’untratto era tutto chiaro, era un’equazione elementare, lorol’avevano incastrato, possibile che quei due farabuttierano riusciti a metterlo alle corde? Possibile che non cisia una giustizia divina contro le ingiustizie?

Il professore stringeva forte l’orologio nella suagrande e forte mano mentre faceva un discorso a tuttigli alunni su quanto sia importante l’onestà e quantosiano deleterie le conseguenze di simili gesti, Edwardavrebbe avuto l’espulsione dalla scuola, è importante che

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gesti simili non si ripetano, sono semplicemente intolle-rabili. Ma ecco che un voce metallica fa bloccare il pro-fessore dal continuare a parlare, si sente:–che fai? Vuoiche ci sentano cretino? Basta un piccolo rumore per at-tirare l’attenzione e addio orologio, ora cerca di starezitto Stuart, capito?....una registrazione!, il professorestringendo la mano aveva toccato un minuscolo tasto,l’orologio aveva registrato le voci dei due veri colpevoli,e lì platealmente davanti a tutti le loro voci si erano sen-tite nitide, perfette. Tutte le teste si erano voltate nelladirezione di Yohn e Stuart che rossi in volto erano inpreda al panico e finalmente non ridevano più.

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La bambina che fingeva di russareCatherine DeCarli

“Anastasia, mi raccomando, rimani qui nella zonadel parco. Io rimango a parlare con il mio collega

Mina” Riferì la maestra in tono severo.“Ok, va bene” Rispose Anastasia correndo felice

dalle sue amichette.“Guarda caro, io vado un attimino in gabinetto. Mi

curi tu i piccini?”“Certo!” Disse il collega Mario sorridendole.“Eccomi, finalmente mi sono svuotata”.“C’hai messo tantissimo, si vede che eri proprio

piena!” Disse ridendo il collega di Mina.“Era proprio piena si!” Rispose ridendo Mina.Quella era una bellissima giornata di inizio prima-

vera. Mina decise così di uscire con la sua classe.“Ecco, finalmente una bella giornata all’insegna del

divertimento!” Disse Mina al suo collega.“Guarda, ci sono già alcune primule. Oh, tu non sai

quanto amo l’atmosfera primaverile: i fiori, il sole, gliodori,….

Mario stava per terminare la frase, quando una com-pagna di Anastasia si avvicinò di corsa.

“Maestra, Anastasia si è addormentata laggiù nelbosco. Abbiamo provato a svegliarla, ma non ci riu-sciamo.”

Mina rabbrividì al suono di quelle parole estrema-mente inquietanti ed immediatamente, cercando di man-

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tenere la calma, chiese alla compagna di Anastasia, Giu-lia, di portarla nel luogo in cui ella dormiva.

“Si trova qui” Disse indicando il corpicino inermedi Anastasia.

Anastasia era sdraiata in posizione fetale, le sue pic-cole mani erano posizionate all’altezza del bacino e latesta era leggermente rivoltata verso Mina. Spostando icapelli biondi, si vide che la gola era stata tagliata. La lin-gua era stata strappata a morsi e lasciata sotto un muc-chio di terriccio.

“Andatevene subito, non dovete vedere”. Disse scan-sando da parte Giulia e gli altri bambini che oramai giàerano stati attratti da quel movimento così frenetico nelbosco.

“È una bambina di sei anni, di origini russe e fre-quenta la prima elementare. I suoi compagni mi hannodetto che stava giocando a nascondino. L’hanno poi ri-trovata sdraiata coi capelli sfatti. È clinicamente dece-duta.” Disse un uomo della polizia scientifica.

L’investigatore si avvicinò al corpicino senza vita edaccarezzò i suoi capelli biondi. “Per fortuna i tuoi com-pagni non hanno veramente visto come sei ridotta. Tro-verò il colpevole, te lo giuro!”

“Ieri nel pomeriggio è stata trovato un corpo di unabambina senza vita. La bambina, di origini russe, stavagiocando a nascondino con i propri compagni quandouno di loro l’ha vista sdraiata all’inizio del bosco vicinoal parco in cui erano appostati. La maestra che era lì conloro non ha notato nulla di strano a riguardo. Potrebbeperò aggirarsi un pedofilo che riesce a passare inosser-

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vato e che riesce ad acquistarsi la fiducia dei bambini.Per ora le notizie terminano qua. Vi faremo sapere piùin dettaglio in seguito.”

“Come ho potuto lasciarla andare così, senza con-trollare?” Mina non riusciva a darsi pace. Il suo cuorebatteva all’impazzata per la rabbia. Si sentiva estrema-mente in colpa, come se fosse stata a lei ad ucciderla.Prese in mano un bicchiere da whisky e lo riempì di al-cool quasi fino all’orlo. Aveva bisogno di bere e dimen-ticare la sofferenza. Dopo due sorsi già si sentiva ebbra.Decise di accendere la TV.

“Sono state trovate delle tracce che possono ricon-durre all’omicida della bambina di origini russe. È statotrovato sul suo vestito un capello, probabilmente appar-tenente ad una donna. È possibile che l’omicida siadi sesso femminile e non maschile. Si scarta pertantol’ipotesi di un uomo. Si pensa che colei che ha effettuatoquesto efferato gesto sia una donna che lavora nell’am-biente scolastico, non si esclude nemmeno che possa la-vorare proprio a diretto contatto con i bambini. Si dovràancora capire il motivo del gesto, ma la polizia sta ancoraindagando più a fondo.”

Mina si svegliò di scatto dal suono del telefono. Sialzò, erano le 3 di mattino. “Chi chiama a quest’ora?”Pensò.

“Pronto?”“La signora Mina?”“Sì”“È la polizia al telefono. La invitiamo a venire nella

nostra sede, perché le dovremmo fare qualche domanda

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riguardante il caso di Anastasia.”Mina alzò lo sguardo, aprì la bocca e attaccò il tele-

fono. Si infilò velocemente i pantaloni e si avviò alla sededi polizia.

Quando Mina arrivò, l’investigatore era già ad atten-derla alla sua cattedra. Mina lo raggiunse col viso teso.

“Buongiorno, lei è la signora Mina?”“Sì”L’investigatore gettò sul tavolo delle fotografie.“Questo è il suo capello. E queste sono le sue im-

pronte sul suo vestito.”“Prima di andare al gabinetto Anastasia è venuta da

me e molto probabilmente le ho toccato il suo vestito.Mi creda io non ho ucciso quella bambina, per quale mo-tivo dovrei farlo?” Disse Mina tra le lacrime.

“Ma il suo capello e le sue impronte non sbaglianosignora Mina.”

“C’era anche un mio collega, Mario. Io dovevo an-dare al gabinetto, allora ho chiesto a lui di tenere sott’oc-chio i bambini. Non so cosa è successo nel mentre, glielogiuro.”

“Va bene, per ora la lasciamo andare. Dovrà rima-nere pronta per un prossimo appello.”

“Va bene.” Mina si alzò e se ne andò con lo sguardobasso e provato.

“La polizia ha interrogato oggi la Signora Mina, mae-stra di elementare di Anastasia. La maestra ha giurato dinon avere ucciso Anastasia, ma la polizia ha trovato di-versi elementi che porterebbero a lei. Nel momentodell’omicidio Mina ha detto di essersi assentata in gabi-

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netto e di aver lasciato i bambini sotto custodia tempo-ranea al suo collega. La polizia sembra sempre più con-vinta che la colpevole sia Mina, ma si avranno più avantiulteriori informazioni a riguardo.”

“Mina è ora in carcere. Secondo la polizia Mina èl’omicida. Sono state trovate molte fonti che riportanoa lei, pertanto la polizia ha deciso di metterla tempora-neamente dietro le sbarre. D’altro canto, il collega, sem-pre secondo la polizia, non è per nulla colpevole, maricerche su di lui non sono state mai sino ad ora effet-tuate. Per quale motivo? La polizia non ha espresso nullaa riguardo.”

“Nuovo colpo di scena! La polizia ha ricevuto ieriuna lettera anonima con scritto: “Sono io l’omicida”. Lapolizia è assai stupita da questa notizia che ha fatto tra-ballare tutto il caso di Anastasia. Chi potrebbe esserestato allora? La polizia continua sulle tracce di una pos-sibile donna, dato che gli elementi iniziali portavano adun omicida di sesso femminile.

La polizia il giorno dopo ricevette un altro indizio:“Un uomo–donna, invece, è il colpevole del reato”.

Come poteva essere un uomo–donna, se le traccetrovate appartenevano ad una donna? E il capello, a chiapparteneva realmente alla fine? Il caso di Anastasia siaffittì ancor di più. La polizia si ritrovò ad appellarsi atutti transgenici della zona e del paese in cui abitava Ana-stasia.

Le ricerche si fecero sempre più complesse. L’omi-cida era sempre più difficile da trovare. Nonostante tuttequelle lettere ricevute, la polizia non riuscì a trovare un

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colpevole e il caso di Anastasia fu archiviato, perché nonvi erano sufficienti prove.

Due anni dopo la morte di Anastasia“È stato riaperto e finalmente chiuso il caso di Ana-

stasia. Il suo omicida ha deciso di confessarsi alla poliziatramite un’ultima e sconvolgente lettera che rivela comeè stata uccisa Anastasia, e perché ha deciso di scrivere.Questo è quanto vi è scritto:

“Buongiorno, cara polizia. Dopo anni buttati via allanostra ricerca ci sentiamo in dovere di confessarci. Nonsiete mai riusciti a trovarci perché cambiavamo identità.Durante il giorno si manifesta il bravo Mario, docile edaffettuoso, soprattutto coi bambini. È proprio per que-sto motivo che Mario ha deciso di diventare un maestrodi elementari. La notte invece si manifesta Franca, la cat-tiva e maligna Franca, che non tollera nulla, sempre ar-rabbiata e rancorosa. Ma ora è Mario che parla, non vipreoccupate!

Oh certo, Mario si è perso in troppe parole. Veniamoad Anastasia. Era dolcissima con quei capelli color oro.Ed i suoi occhi erano la cosa più bella. Mario non volevaucciderla. È stata Franca a non tollerare ciò che le hadetto quando voleva semplicemente darle un bacio suquella bocca di rosa. Per quello le ha tagliato la gola estrappato a morsi la lingua. Voleva punirla per il suocomportamento immondo.

Ora Mario si ritrova su un letto di un ospedale, per-ché gli è stato diagnosticato un tumore fulminante al fe-gato, perciò gli rimarrà ancora poco da vivere. Eccoperché vi scrive. Franca è arrabbiatissima di questo. La

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malattia la rende ancor più rancorosa!Ora finalmente sai tutto. Vergogna a te, cara polizia,

per lo scarso lavoro attuato!Ah, un’ultima cosa: dì perfavore a Mina che Mario le voleva bene!”

Il caso fu chiuso, ma su come Franca si sia procuratail capello e le impronte di Mina rimase per sempre unmistero…

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La donna col camice biancoSilvia DeCarli

Chi è Michela? Non è una ragazza qualunque, ma in-somma, nemmeno così stravagante. Lei è semplice-

mente una liceale, carina, con gli occhi a mandorlaazzurri e i capelli neri lisci che le cadono sulle spalle pa-lestrate. Appunto, non è poi così strana, perché si stagiusto preparando per andare a scuola. Ancora il saccoe poi è pronta per partire. Voilà!

Come tutti i giorni, Michela prende la sua biciclettae pedala per tre chilometri verso il liceo San Agostino.Durante il tragitto ascolta sempre la sua bella musica chemai la lascia sola. Michela ama il genere dubstep. Diceche le mette un’energia positiva, in modo particolare alleotto di mattino, quando ancora è assonnata.

Quella mattina però si sente strana. Capisce di essereinseguita da qualcosa o qualcuno che non riesce a ve-dere, ma che sente molto vicino. È una strana presenzache le mette improvvisamente paura e che la spinge apedalare più velocemente. Delle immagini orribili dimorte si proiettano davanti ai suoi occhi. Ma è veroquello che vede e sente? Non lo sa nemmeno lei, ma sache tutto ciò che le sta succedendo è disgustoso. Michelacerca di pedalare più velocemente per cancellare quellescene da voltastomaco, i suoi occhi incominciano a la-crimare e le sue gambe ormai pedalano automaticamentesenza più sentire alcuna fatica.

“Ma quando arrivo? È infinitamente lunga questa

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strada” Pensa Michela mentre pedala ad alta velocità.Michela arriva a scuola prima del solito. Non c’è an-

cora nessuno. Le sue gambe tremano dalla fatica, maanche dalla paura. Il suo respiro è pesante e spezzettatodai deglutii continui. Finalmente arriva Sara, la sua amicadel cuore. Questa sua presenza le dà sollievo.

“Cosa c’hai Michi? Sembra che hai visto un mostro!”“L’ho visto sì”Sara non fa caso a questa affermazione e si incam-

mina con Michela in classe. È l’ora di matematica, l’orapiù odiata da Sara e Michela. Michela, annoiata a morte,guarda fuori dalla finestra con sguardo assente, ma im-provvisamente qualcosa attira la sua attenzione. Unadonna con un camice bianco sta camminando avanti edindietro nel giardino del liceo. Michela incuriosita si av-vicina alla finestra per vederla meglio. Con uno scattofurtivo la donna col camice si avvicina al viso di Michela,quasi a sfiorarlo. Michela si protegge mettendo le manisul viso e quando le toglie la donna è già sparita. Ma chiè quella donna? Perché è vestita con un camice bianco?E perché non indossa le scarpe? Come ha fatto a spo-starsi così velocemente dal giardino alla finestra dellaclasse di matematica?

Michela si risiede ancora col fiatone. Sara si avvicinachiedendole cosa le è successo.

“Michi, tutto bene? Sei strana oggi!”“Quella donna, l’hai vista anche tu?“Quale donna?”“Quella col camice bianco. Mi è venuta addosso ed

è sparita.”

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“Cosa?”Sara non crede alle parole di Michela, ma decide co-

munque di sostenerla.Michela non avrebbe pensato di poter vedere le per-

sone camminare così velocemente. E poi quella donnaè così pallida! Ed il freddo che ha provato quando ella siè avvicinata a lei, quello è un freddo che mai scorderà!

“Sara, vieni con me!”“E la lezione di mate?”“Chi se ne frega della lezione, tanto è noiosissima.

Devo scoprire chi è quella donna!”“Ma sei pazza?”“Ti fidi di me? Io l’ho vista, forse tu no, ma credimi,

io l’ho vista!”Michela e Sara dicono al professore che vanno al ga-

binetto ed escono quasi correndo dalla porta.“Oddio Sara, quel freddo. Ho sentito un gelido

vento quando lei si è avvicinata a me!”“Ma di cosa stai parlando?”“Tu non vuoi capire, io ho visto una donna col ca-

mice bianco, pallida in volto, sembrava morta.”“Tu mi fai paura, Michi!”“Andiamo in giardino, forse la rivediamo!”“Ok.”Arrivate, Michela e Sara aspettano che la figura ri-

torni, ma non si fa viva.“Michi, è da tre ore che siamo qui, per favore an-

diamo!”“Va bene, andiamo, ma domani ci ritorno ancora io.

Forse vuole vedere solamente me.”

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“Forse.” Dice Sara guardando Michela come se fossepazza.

“Tu pensi che io sia pazza, lo so!”“Michi, io non vedo nessuna donna col camice

bianco, cosa vuoi che pensi?”“Ok, allora continuerò da sola. Non ho bisogno di te.”“Scusami, ma non capisco che cosa vuoi sapere.”“Nemmeno io lo so, ma venendo a scuola in bici-

cletta mi sono apparse agli occhi immagini crudissime,di morte. Ecco perché ero così agitata.”

“Capisco, ma non voglio entrare in questa storia. Mifa troppo paura. Perdonami!”

“Non fa nulla, ma se scoprirò qualcosa mi dovrai re-galare quel cd dubstep che mi piace tanto!”

“Sarà fatto!”Michela il giorno seguente nemmeno va a scuola, ma

decide di presentarsi nel giardino del liceo, dove il giornoprima ha visto la donna col camice. Le ore passano, manessuna traccia di lei. Ad un certo punto però Michelasente dei brividi alla schiena. “È arrivata” Pensa impau-rita.

Si guarda attorno e finalmente la vede sulla sua de-stra che la guarda in modo assai arrabbiato.

“Tu mi devi aiutare” Dice spostandosi furtivamenteda un posto all’altro.

“Ti aiuto, ma dimmi chi sei prima”.“Questa scuola è maledetta! Non ci andare più!” Urla

a Michela con forte rabbia.“Cosa sei? Chi sei?”“Io… oh, io sono Michela.”

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“Hai scelto me, perché mi chiamo come te?”“Esatto! Tu potresti aiutarmi”“Che cosa sei?”“Sono un fantasma oramai! Questa scuola ha un pas-

sato colmo di violenza!”“Raccontami ti prego!” Chiede Michela incuriosita.“Questa prima non era una scuola. Era un ospedale

psichiatrico. Qui venivano torturati i malati mentali.”“Tu eri una malata mentale?”“Certo che no!”“Io ero colei che avrebbe dovuto torturare la gente,

ma mai l’ho fatto. Io ero colei che liberava questa gente!”“Come mai sei un’anima così agitata?”“Perché mi hanno torturata ed uccisa selvaggia-

mente! Ti prego aiutami a punire una persona.”“Chi?”“Quella persona è ancora in vita e lavora nella tua

scuola.”“Chi è?”“Il direttore.”“Il direttore? Che cosa gli devo fare per rimandarti

in pace?”“Ucciderlo, devi ucciderlo!” Dice a Michela con gli

occhi rossi dalla rabbia.“Ma stai scherzando? Io non uccido nessuno! Non

riuscirei ad uccidere nemmeno una mosca!”“Tu fallo, altrimenti sarai perseguitata per tutta la tua

vita.”“È tutto una grandissima cazzata! Lasciami in pace

e sparisci dalla mia vita.”

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La donna si avvicina penetrando aggressivamente inMichela.

Michela si piega indietro. Le sue braccia si tendonoall’indietro e il suo corpo si inarca. Michela è ora diven-tata la donna col camice bianco, assetata di vendetta.

La donna col camice bianco entra nella scuola sbat-tendo violentemente la porta. Si incammina furiosamenteverso l’ufficio del direttore. Non appena lo vede lo prendeper il collo e lo solleva di peso. Nel frattempo, incuriositadallo strano rumore, la segretaria chiede cosa sta succe-dendo. Non ricevendo risposta decide di andare a vedere.La donna col camice bianco sbatte violentemente al suoloil direttore che, con l’impatto al suolo, muore all’istante. Lasegretaria decide di aiutare il direttore ma la donna si giravelocemente bloccando con lo sguardo la porta dell’ufficio.Il direttore viene ripreso di peso e lanciato contro la scri-vania che si spacca a metà non appena il corpo oramai giàsenza vita la raggiunge. Il viso dell’uomo viene poi cosìstrappato orribilmente, gli occhi presi e gettati a terra, ed ilcuore, oramai fermo, afferrato di forza dal suo petto ed uti-lizzato come trofeo dalla donna.

Michela non capisce che cosa sia successo. “Cosa ètutto questo sangue?Oddio!” Urla tutta spaventata Mi-chela. La segretaria finalmente riesce ad aprire la portae davanti a lei si estende uno scenario alquanto macabroche la fa vomitare non appena lo vede.

“Michela, cosa hai fatto?” Dice riprendendosi dai co-nati di vomito.

“Nulla, è stata lei! La donna!” Dice indicando conl’indice verso il cielo.

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Il segreto di nonna CaterinaMarianna Beltrami

– Cavoli, nonna! Ma la dovevi proprio tenere tuttasta’ roba? – brontolo a voce alta.

Nonna Caterina era morta da sole tre settimane e,quale unica erede in buona salute, toccava a me vuotarela grande casa. A dire il vero la villa l’avrei tenuta più chevolentieri ma, con tutti i lavori di manutenzione chec’erano da eseguire e con quei due mostri succhia sangueancora agli studi, una casa così non potevo permetter-mela.

– Certo che il Corticiasca è proprio un gran rompi,poteva almeno concedermi qualche settimana in più. In-vece no, il signore la vuole subito la casa. – proseguo sem-pre più scazzata. – Povera Alice, mi sono ridotta a parlareda sola, si vede proprio che sono conciata male. –

Il Corticiasca sarebbe il medico di nonna Caterina,una brava persona per carità, anche se un tantino troppoprecisino per i miei gusti.

– Completamente svuotata e pulita! – sbuffo, ripe-tendo le parole del medico. – Come se fosse facile. D’ac-cordo, i clienti non si trovano sotto i cavoli però chepalle. –

Avevo deciso di incominciare a svuotare la casa dallasoffitta e, in due ore, mi ero già liberata di un bel po’ dicianfrusaglie. Con la nonna non si poteva mai sapere,aveva il vizio di nascondere soldi ovunque e quindi ognicosa andava controllata.

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Srotolo un tappeto che libera una nuvola di polverescura e mi trovo fra le mani una scatola di latta rettan-golare che era stata nascosta al suo interno. La vecchiascatola di Leckerli di Basilea custodiva un quaderno in-giallito dal tempo. Un diario vergato da una calligrafiaordinata, quasi infantile. Mi accomodo su di un baule eincomincio a leggerlo.

Una giovanissima nonna Caterina raccontava di unmisterioso amore che però, facendo i dovuti calcoli, nonpoteva essere il nonno. Ho sempre detestato gli impic-cioni e ficcare il naso nella vita privata della nonna nonè propriamente molto corretto, tuttavia . . . non riesco asmettere.

Guardando con attenzione scopro che il misteriosoamore della nonna incominciava con la lettera S, il restoera stato cancellato. Poco più che adolescente lei, uomomaturo, sposato con figli lui. Poi, fra le pagine del diario,tovo un ritaglio di giornale conservato chissà per qualemotivo.

– In data 16 novembre 1937, nella Scuola maggioree di disegno di Curiasca, nell’aula al primo piano, è statorinvenuto il cadavere di un neonato di appena poche ore.– leggo tutto d’un fiato.

Dal trafiletto risultava che ad avvisare la polizia erastato un certo Giovanni Mergoscia, bidello e tuttofaredel comune. Nessuna traccia dei genitori.

Incollata a metà quaderno una busta color crema; alsuo interno vi sono quattro capelli chiari, sottili, sottili.Quindici pagine di diario piene di ardore e di passioneche terminano improvvisamente con un ritaglio di gior-

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nale ed una busta. Poi più nulla, il vuoto.Io seguito a riordinare ed a rimuginare per tutta la

giornata. La notte dormo poco e male, la mia testa di ca-volo è sempre fra le pagine di quel diario che non avreidovuto leggere. La mattina mi alzo di buon’ora, spediscoi due mostri alle medie ed al liceo e ritorno alla villa. Apranzo rimangono in mensa, quindi ho tutta la giornataa disposizione. A mezzogiorno non ce la faccio più. Tor-mentata più dalla curiosità che dalla fame, decido discendere all’Osteria del Pepp. Per arrivare all’osteria,passo davvanti alla Scuola maggiore e di disegno che èin seguito diventata la Casa comunale.

A gestire l’antica osteria ora è il Massim, il figlio delPepp che d’estate si gode il sole nella cascina di Miglie-glia.

Come mi aspettavo, accanto al biliardo trovol’Idelma, la mamma del Massim. Generalmente facciodi tutto per evitarla ma questa volta ho bisogno di lei.Lesta di lingua e fine di testa, l’Idelma è la custode dellememorie o, meglio ancora, dei pettegolezzi del Malcan-tone.

– Da la nona Caterina o trovat... – poi proseguo initaliano perché con il dialetto mi incasino facilmente. –Un articolo di giornale del 1937, parla di un neonato tro-vato morto. –

L’Idelma ha un sussulto. – Brüt rop, brüt rop! – ri-sponde. E stranamente, da parte di una pettegola del suocalibro, non aggiunge nessun dettaglio.

Siccome io sono una che non molla provo a chiederedel Mergoscia, il bidello e tuttofare comunale. Di nuovo

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l’Idelma si rifiuta di risponderle. Ora è il Massim a spie-gare che il Mergoscia, detto – ul Bianchin – per via delsuo particolare attaccamento alla bottiglia, da anni risiedealla vicina Casa per anziani.

Le parole non dette dell’Idelma hanno attizzatoancor più la mia curiosità. Di risalire alla villa non ne hovoglia, perciò decido per una visita alla Casa per anziani.Della nonna Caterina, –ul Bianchin– se ne ricorda be-nissimo, quando però provo a chiedere del neonato del1937, incomincia ad innervosirsi e un’infermiera è co-stretta ad intervenire. Ul Giuvann ora è stanco ed agitatoe io sono gentilmente invitata ad andarmene. Sono giàalla porta quando il Mergoscia, parlando quasi a séstesso, farfuglia: – Spartaco! – La voce è affaticata macomprensibile. Poi l’infermiera gira la sedia a rotelle el’uomo sparisce definitivamente dalla mia vista. Istinti-vamente collego il nome Spartaco con la S corrispon-dente al misterioso amore della nonna.

Scendo verso al paese e, con la scusa di salutare lanonna, passo al cimitero. Di defunti di nome Spartacoal cimitero ve ne sono tre: due troppo anziani e uno chepuò essere stato l’amore maledetto della nonna. SpartacoTorriani se n’è andato nel 1943 e, sulla sua tomba da ga-lantuomo, un epitafio sbiadito ma ancora leggibile cheda solo mi fornisce tutte le informazioni che ancora mimancano:

– Qui giace Spartaco Torriani, maestro elementare,marito devoto e padre esemplare –

Ora sono davanti alla tomba dove, tre settimaneprima, nonna Caterina era stata seppellita. Fisso la croce

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provvisoria in legno che più avanti verrà sostituita conla lapide definitiva.

Le dedico un pensiero carico di nostalgia poi, con lemani nude, raccolgo una manciata di terra che infilo inun provvidenziale sacchetto di plastica.

Con il sacchetto della Coop, scendo fino a quella cheera stata la Scuola maggiore e di disegno. Là, spargo laterra nell’aiuola attigua all’edificio. Un gesto sicuramenteinutile ma per me simbolico. – Che almeno la stessa terravi unisca. – mormoro. – Madre e figlio, separati nella vitauniti nella morte. – aggiungo, ripetendo una citazioneconosciuta e letta chissà dove.

Sono molto stanca e decido di andarmene a casa, trapoco arriveranno i mostri. Un alito di vento mi scompi-glia i capelli, una brezza gentile che ha la delicatezza dellecarezze di nonna Carolina, una donna buona e gentileche non merita di essere giudicata. – Non ti preoccuparenonna, manterrò il tuo segreto. –

Domani avrei distrutto il diario, così doveva essere,così aveva voluto la vita.

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Noir a scuolaSabrina Mariani

Ore 8:00

Pierino Paolino era un alunno della 2 F. Come tutti ilunedì a quell’ora Pierino si preparava ad entrare a

scuola. Pierino era felice, quel giorno sarebbe stato in-terrogato in storia, si era preparato benissimo: aveva stu-diato per circa 3 ore, aveva così tanto ripetuto le stesse3 pagine che le aveva imparate a memoria. Pierino, anchese sapeva la lezione benissimo, era un po’ preoccupato,infatti, il venerdì precedente Pippo, suo compagno estretto amico, era stato interrogato in geografia. Pippoera molto agitato e, per sbaglio, disse aragosta a postodi Aragona. La prof. Fiorito si era molto arrabbiata e gliaveva messo 4. “E se succede anche a me ?” pensò Pie-rino.

La campanella squillò e Pierino si mise a correrenel corridoio: voleva arrivare per primo, si sarebbe na-scosto e avrebbe fatto uno scherzo a qualcuno. Appenaentrò Pippo, Pierino, che si era nascosto dietro la porta,urlò “Buh” e Pippo fece un grido, poi i due si miseroa ridere. Aspettando Caio, il professore di religione,Pierino si mise a chiacchierare con Sempronio delderby, se fosse più forte la Roma o la Lazio. Dopo unminuto Pierino capì che Sempronio non capiva nulladi calcio...

Alle 8:10 arrivò Caio che fece una lezione sull’indui-smo ma Pierino capì poco: aveva la testa piena di millepensieri, si ripeteva continuamente la lezione di storia .

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Ore 9:10

Pierino alle seconda ora aveva la verifica di arte checonsisteva in un disegno. Pierino non era proprio pre-occupato della verifica di arte, era bravissimo in disegno,secondo la Lampolla era il miglior alunno che aveva maiavuto nella sua carriera di insegnante. Pierino era orgo-glioso di andar bene in arte, poteva dire“ Sì, io sonobravo in almeno una materia”. Paolino,infatti, nell’altrematerie aveva la media del 6. Pierino prese 10 e lode aldisegno,ma gli importava poco.

Ore 10:10 Ricreazione

Pierino si divertì molto a ricreazione: giocò conPippo e con Giovannino a tennis con una pallina di cartacrespa, vinse tutte e due le partite 5–3 ottenendo il titolodi miglior giocatore al mondo di Cart–tennis (così Pie-rino aveva chiamato il gioco) .

Ore 10:20

Finalmente era arrivata l’ora di storia, ad Pierino eraarrivata la pelle d’oca quando entrò la Fiorito

“Buongiorno” dissero in coro gli alunni della 2 F. LaFiorito, molto frettolosa, si sedette e disse “Cominciamocon Sto.”. La Fiorito tagliava in due i nomi delle materie“Che razza di professoressa di italiano è?” si chiedevaPierino.

“Pierino vieni !”. Pierino, molto lentamente, si avvi-cinò alla cattedra. “Hai studiato?” chiese la professo-ressa.

“ Si, signora professoressa” disse Pierino con vocebassa. Cosa gli avrebbe chiesto la Fiorito? Pierino pen-sava che gli avrebbe domandato date, approfondimenti,

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approfondimenti degli approfondimenti …Pierino de-glutì.

“ Qual è la capitale dell’impero romano d’oriente?”“ E’ Costantinopoli” disse Pierino con molta sicu-

rezza: era per lui una domanda facilissima .“ Bene, Paolino, prendi una caramella, sono contenta

di questa buona interrogazione”“ Tutto qua?” pensò Pierino, 3 ore di studio e tante

preoccupazioni per una interrogazione di un minuto e30 secondi!

“Vabbe ho vinto una caramella e ho preso un buonvoto” si disse fra sé. Prese la caramella e se la mise inbocca, era buonissima. Pierino ne voleva delle altre perquanto erano buone e allora fece una cosa per cui ebberimorso per tutto l’anno: mentre nessuno guardava presela busta delle caramelle e la mise in cartella.

Ore 10:55

“Aspetta Martina che ti metto il voto, dove è la miapenna ? Aspetta ce l’ho nella borsa.” Disse la professo-ressa.

Pierino estrasse una penna rossa dall’astuccio e corseverso la professoressa.

“ Usi questa signora professoressa” . “ Non ti distur-bare Paolino, prendo la mia” rispose lei.

Pierino cominciò a pregare. La Fiorito prese la pennamise il voto a Martina (9) e non disse nulla . Evidente-mente non aveva notato l’assenza della busta contenentele caramelle. In quel momento squillò la campanella e laFiorito uscì dalla classe. Pierino si sentiva sollevato, fossestato scoperto molto probabilmente avrebbe preso una

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nota, ma l’aveva fatta franca. Ma, proprio in quel mo-mento rientrò la Fiorito e disse: “Ho dimenticato le ca-ramelle sulla cattedra” ma appena vide che sulla scrivanianon c’era la busta delle caramelle capì che qualcuno leaveva prese .

Pierino ansimava. Sapeva di non aver nessunoscampo: la professoressa l’avrebbe scoperto.

“ Per l’ultima volta, chi ha preso le caramelle, se chiha commesso il crimine si fa avanti non gli metterò lanota”.

Ma Pierino non aveva il coraggio di farsi avanti,aveva imparato da Sherlock Holmes che, di solito, il cri-minale dirige le ricerche del crimine da lui stesso com-messo in modo di incolpare qualcun altro.

“Signora professoressa credo di sapere chi è il col-pevole. Ho diversi candidati, secondo me o è statoGianni o Filippo o il nostro nuovo compagno Arcibaldo.Gianni non può mangiare zuccheri, infatti, la madre nonvuole perché si eccita troppo. Ma ora, la mamma nonc’è quindi secondo me ha preso una caramella e se l’èmangiata e preso dalla frenesia si è mangiato tutta labusta. Poi Filippo come tutti sapete, è un golosone men-tre Arcibaldo ha tendenze a rubare”,“Controlliamo neiloro zaini” urlò Francesco.

Ma, come sapeva benissimo Pierino, nei loro zaininon c’era nulla .

Pierino conosceva bene la Fiorito, sapeva che la pro-fessoressa sarebbe andata in fondo con la storia, decisedi confessare.

“Professoressa lo confesso sono stato io a rubare

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quelle buonissime caramelle, sono come la droga, miscuso con tutta la classe, ma erano così buone e ne vo-levo prendere solo due o tre, non sono riuscito a resi-stere, ma appena mi sono seduto al mio banco, sentivouna sensazione che non avevo mai provato, forse eraquesto il senso di colpa mi ero chiesto. Era la prima voltache lo sentivo, ho avuto molto rimorso,soprattuttoquando ho incolpato ingiustamente i miei compagni”.

Ora può anche mettermi la nota, ho fatto una cosasbagliata, è giusto che paghi”. Finito di parlare Pierinosi risedette al suo banco.

Appena Pierino finì, qualcuno applaudì gridando:“Bravo, hai fatto la cosa giusta”:

“Bravo Pierino che hai confessato per questo non timetterò la nota”

Pierino promise, che da quel giorno, non avrebbemai più rubato.

Morale: chi commette un peccato o una cosa brutta,se si pente, sarà perdonato da Dio e da tutti.

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Noir a scuolaDotta Cheyenne

Il direttore della Maiflorini era l’uomo più temutodella zona. Aveva due grossi baffi neri sotto il naso e lasua voce roca, come venuta dalla gola di un morto, fa-ceva sobbalzare l’intero istituto. Se ne stava tutto ilgiorno appisolato sulla sua sedia di pelle animale son-necchiando, ma non appena scopriva una cicca spiacci-cata sul piazzale o un graffito sui muri dell’istitutodiventava una belva.

Jimmy Paterson era un ragazzino spiccio, senzaamici, ed era talmente impopolare che viveva nell’obliodei suoi compagni di classe e dei maestri. E quandovenne chiamato in direzione per il controllo medico an-nuale, quel pomeriggio, nessuno si accorse del ragazzinoche usciva silenzioso tremando come una foglia.

Entrò dalla porta cigolante e prese posto alla catte-dra .

Lo studio era ricoperto dalla polvere perché anche ilbidello aveva il terrore di entraci a pulire; sugli scaffalitroneggiavano pile di richiami e sulle pareti filanti ragna-tele.

A un tratto la lampadina lampeggiò e infine si spenselasciando la direzione alla tenue luce del sole nascosto.Già da giorni faceva così e il direttore aveva chiamatol’elettricista che doveva arrivare a momenti. Poco dopola segretaria spalancò la porta avvisando Jimmy che il di-rettore era andato ad accogliere l’elettricista e poi se neandò . Jimmy cominciava ad avere la gola secca per l’agi-

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tazione e sul tavolo c’era un invitante bicchiere d’acqua.Spinto dalla sete lo trangugiò.

Poco dopo la segretaria irruppe di nuovo nella stanzama prima che potesse dire qualsiasi cosa lanciò un urlolacerante …– Qualcuno chiami il medico! –

La sagoma del ragazzo privo di sensi era distesa sulgrigio pavimento.

Fuori regnava il caos, i professori si erano accalcatil’uno sull’altro per vederci qualcosa e gli allievi arrampi-cati sulle loro schiene come selvaggi.

Finalmente arrivò il medico che si fece spazio nellamandria e riuscì a sbatterle la porta in faccia.

Quando uscì, il suo volto faceva pensare al peggio…Vi furono diverse indagini da parte della polizia che

però non condussero a niente.Due mesi dopo l’incidente, la donna delle pulizie si

apprestava a pulire i vetri dell’ufficio del direttore dopoesattamente due mesi che non lo faceva più.

Stava travasando il prodotto quando una goccia tra-boccò dal contenitore che corrose la cattedra creandoun buco. La donna sbiancò in volto e il giorno dopo silicenziò…

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Ti amo da morireBoris Cambrosio

Quella mattina il clima all’interno dell’aula era teso.Gli studenti iscritti alla Facoltà di medicina del

Polo Universitario di Bellinzona avrebbero assistito allaloro prima autopsia. Alcuni avevano accuratamente evi-tato di fare colazione, non sapendo come avrebbero rea-gito alla vista di quanto il professor Nicola Lobisturiavrebbe compiuto. In questo caso il sistema nervoso pa-rasimpatico avrebbe potuto avere reazioni che di simpa-tico poco avrebbero avuto.

Il nome del professore però aiutava, e non poco, asdrammatizzare la tensione. Gli allievi dicevano del pro-fessor Lobisturi che fosse tagliato per il lavoro che si erascelto, ed egli stesso non poche volte aveva la battutapronta, soprattutto durante le lezioni anche quella mat-tina decise di calcare la mano sulla sua vena sarcastica.

“Bene ragazzi, affronteremo oggi un passo fonda-mentale della vostra formazione. L’autopsia che andròa compiere in vostra presenza dimostrerà quanto unapersona possa essere bella dentro, anche se non bade-remo all’estetica. Se qualcuno di voi è del segno zodia-cale dei pesci potrebbe anche giovarne, poiché lapatologia è una branchia molto importante della medi-cina. Essa ci permette di aprire gli occhi, oltre che icorpi, sulle cause e le origini delle patologie ancora noncompletamente svelate in tutto il loro essere.

Dirò di più: colui, o colei, che andremo ad esaminareautopticamente, nella maggior parte dei casi è una per-

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sona con una formazione non accademica. Hanno sceltodi donare il loro corpo alla scienza, così almeno si puòdire di loro che sono stati all’Università.”

Nell’aula risuonò una risata, ma nemmeno tanto fra-gorosa.

“Siete pronti?... Bene. Andrò ora a prendere in cellafrigorifera un corpo privo di vita, ma non agitatevi;salma e sangue freddo.” Solo il professore trovò diver-tenti queste parole.

Quando il professor Lobisturi ritornò dopo pochiistanti, il silenzio in aula era aumentato di intensità anzi,di volume. Le ruote del carrello sottolinearono l’entratadello stesso con un cigolio. Una volta posizionatolo di-nanzi a sé, ancora una volta il professore non rinunciòad alleggerire la situazione e, parafrasando Mel Brooks,disse:

“Si – può – fare!”Alzando il lenzuolo per scoprire il corpo senza vita

destinato all’autopsia dimostrativa, il professor Lobisturinon compì il gesto integralmente. Rimase con il bracciodestro immobile a mezz’aria, e sul suo volto si dipinseun’espressione meravigliata, ed allo stesso tempo stranitaed interrogativa. Esitò a riporre il lenzuolo sul corpo e,mostrando un aplomb molto professionale, con voceferma e vuota di coinvolgimento, rivolgendosi agli allievidisse:

“Abbiamo un problema.”L’attenzione ed il rispettoso silenzio degli studenti

s’interruppe con un mormorio, rappresentato da un im-maginario punto di domanda sulle loro teste.

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Quando poi gli stessi studenti vennero fatti usciredall’aula, nei corridoi già c’era una certa agitazione fra ipresenti, in testa a tutti il Rettore dell’ateneo che nonsmetteva di credere a quello che il professor Lobisturigli raccontava in merito a quanto successo.

Meno di 20 minuti più tardi la polizia e le autoritàinquirenti erano già sul posto, ed iniziarono a circolarele prime voci su quanto accaduto.

In sostanza il corpo rinvenuto sul carrello autopticonon era di un volontario che si era donato alla scienza,bensì di una persona a tutti conosciuta ed alle dipen-denze dell’Università. La segretaria di direzione AnnieChilita. Un’affascinante donna di trent’anni compiuti dapoco, dai capelli biondi come il grano, e dai modi dolcie cordiali. Svolgeva il suo lavoro con passione e compe-tenza, ed era da tutti ben voluta.

Apparve evidente ai più che potesse trattarsi di undelitto. A nessuno sfiorava l’idea che una donna tantosorridente e serena, così almeno appariva Annie agli altri,si fosse tolta la vita; e in effetti non era accaduto ancheperché il corpo era intero.

Agli inquirenti due particolari apparvero interessantiper il prosieguo delle indagini: gli indumenti e gli effettipersonali della vittima vennero ritrovati in un compartoa estrazione della cella frigorifera; inoltre rilevarono dellemacchie di sangue pulite sommariamente, sempre all’in-terno della cella frigorifera. Pensarono quindi che il de-litto fosse stato commesso a freddo. In effetti venneriscontrata una profonda ferita di un’arma da taglio sullaschiena. Forse la vittima aveva tentato di fuggire ed è

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stata pugnalata alle spalle. Questa tesi era valorizzata dalfatto che non vi erano ferite che facessero pensare cheAnnie si fosse difesa.

Gli indumenti non erano però sporchi di sangue.Annie era nuda quando ricevette la pugnalata. Cosal’aveva costretta a rimanere senza vestiti in un ambientefreddo come quello della cella frigorifera? Cosa l’avevaspinta a scappare completamente spoglia e poi, per diri-gersi dove? Domande che non avrebbero trovato rispo-sta, se non in parte, almeno sino a quando gli inquirentinon avrebbero visionato il contenuto del computer diAnnie. Non quello personale, il personal computer,bensì quello al lavoro. Non dava certo un quadro precisodi quanto successo, ma era chiaro che il movente erastato passionale.

Messaggi nella chat del suo indirizzo di posta elet-tronica che non celavano dubbio alcuno su quanto av-venuto la notte precedente. La chiacchierata internauticaera avvenuta con un altro utente. Il nickname era CharlieChatlin, ed era evidente vi fosse una relazione fra Charlieed Annie. Messaggi che non davano spazio a dubbi chefra i due vi era una relazione intima, molto intima. Gliultimi messaggi davano indicazioni chiare.

Charlie Chatlin:“Ogni giorno ho sempre più il desiderio di stare con

te <3”Annie:“Il tuo calore mi scalda l’anima <3 Ho voglia di

stringerti <3”Charlie Chatlin:

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“Anche tu mi scaldi l’anima <3 e il cuore <3 Vedia-moci stasera <3 Vediamoci in cella frigorifera”

Annie:“Brrrr… già mi vengono i brividi :) ”Charlie Chatlin:“ :) A stasera <3”Annie:“A stasera <3 Ti amo da morire <3”Mai parole furono più profetiche.

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Noir a scuolaPiero Combi

Racconto tratto dalla mia esperienza nella modestaaula di frazione di un paese nel mendrisiotto. cor-

revano gli anni 60 andavamo a scuola elementare.unatrentina di alievi dalla prima alla quinta maschi e fem-mine in aula mista non era facile ma eravamo felici econtenti .tutto filava dritto giunti a fine autunno le gior-nate cominciano ad accorciarsi e si stava volentieri al co-perto di quel locale che era riscaldato con una pignia alegnia che per resistere ci tenevamo stretti a volte con ilfumo che bruciava gli occhi.una sera mentre uscivamoper rincasare notiamo un auto che si ferma nel piccolopiazzale con uno strano personaggio a bordo .il giornoseguente lo rivediamo sempre alla stessa ora e sembrache ci aspetta noi passiamo velocemente per la stradinaagricola a quel punto lui scende dalla vettura e ci vieneincontro . noi non potevamo in aula perche fermandocia giocare non ci accorgemmo che la maestra aveva giachiuso la porta ed era gia andata via .noi ci facciamo co-raggio e l afrontiamoma con la paura che ci assale .lui ciintrattiene ofendoci delle caramelle e altri dolci poi cimostra delle foto ma noi non accettammo niente ma luiinsistente ce le mostra .noi rimasti sconvolti il giorno se-guente confidiamo tutto ella maestra che interpella le au-torita e i gendarmi .il losco personaggio fu assicurato allagiustizia e noi rimanenno scossi e per molto tempo .perciungere in paese dovevamo attraversare un bosco e lasera le ombre basse degli alberi si allungavano fino a toc-

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carci e ci incuotevano ancora paura.io percorrevo il tra-gitto tutto di corsa con il cuore che mi arrivava fino ingola .non dimentichero mai questo brutto incontro fi-noche avro memoria e quando passo in quel luogo misembra di di rivivere la scena e credetemi non fu perniente una bella avventura.

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La forza dell’istintoSilvia Tagliabue

Tutti stavano rientrando in classe alla fine della pausamattutina. Angela invece, quando aveva lezione di

anatomia, procrastinava sempre il suo ritorno in aulafino all’ultimo momento. Non le piaceva affatto il pro-fessore Tagliabue, che tutti chiamavano scherzosamenteTagliatopi. Non sapeva esattamente il perché, era solouna sensazione che provava quando lo vedeva e doverascoltare la sua voce per cinquanta lunghi minuti era untormento. Nessun’altra persona le aveva mai provocatoquesti sentimenti e sapeva anche che erano contrari adogni logica giacché il professore si era sempre compor-tato normalmente.

Alla fine si decise ad entrare nell’edificio e si avviòverso l’aula di scienze. Mentre percorreva il corridoio,ormai quasi deserto perché la maggior parte degli allievisedeva già al proprio posto e si accingeva a seguire laprossima ora di lezione, la sensazione spiacevole si acu-tizzo ancor di più chiudendogli lo stomaco come una te-naglia. Provava un misto di ansia e paura che le gelava lemani e la faceva sudare freddo. Si sforzò allora di dareretta al suo buonsenso che in quel momento lottava perfarsi udire e, ripetendosi per l’ennesima volta che nonstava correndo alcun pericolo, varcò la porta del labora-torio di scienze.

Quando guadagnò in fretta il suo posto il professorTagliabue, che aveva già cominciato la lezione, inter-ruppe la sezione di quello che era stato un topolino

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bianco per guardarla ed inarcare un sopracciglio. Anchese tutto durò solo un paio di secondi, lei ne fu comple-tamente scombussolata e non riuscì più a concentrarsiper tutta l’ora che seguì. Si sentiva quei suoi occhi pene-tranti sulla pelle, anzi si sentiva trapassata e sezionata daquello sguardo. Il campanello che segnava la fine dellalezione fu liberatorio ed Angela, che era stata l’ultima adentrare in aula, fu ora la più lesta ad andarsene.

Mentre rincasava valutò se confidare i suoi timori asua madre, ma più ci pensava e più si convinceva che sa-rebbe apparsa ridicola o tutt’al più l’avrebbe fatta parlarecon qualche psicologo e lei di strizzacervelli non volevapiù saperne, aveva già avuto a che fare con loro quandola sua migliore amica Elisa era scomparsa sei mesi primanel nulla e nemmeno la polizia aveva saputo rintracciarla.Non aveva altre amiche con cui confidarsi come facevacon Elisa e quindi adesso si teneva tutto dentro. ConElisa aveva condiviso segreti, amori, paure e compiti,questi ultimi più che condividerli, se li faceva fare da leiche era la più brava della classe. Decise che quella seraavrebbe messo fine una volta per tutte a quel malessereche provava nei confronti del Tagliatopi. I suoi genitorierano invitati da amici, inoltre c’era il consiglio di classeper la fine del trimestre e il professor Tagliabue sarebbestato occupato a scuola fin verso le dieci, o almeno cosìsperava.

Verso le sette quando i genitori uscirono, Angela simise le scarpe e una giacca scura, prese il suo coltellinosvizzero e una torcia e partì alla volta dell’abitazione delprofessore. Percorse il tragitto cercando di restare calma

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e pensando che se avesse visto con i suoi occhi chequella casa non nascondeva nulla di brutto, forseavrebbe vinto la sua irrazionale paura.

Il professore abitava in una casetta di un solo piano,circondata da un piccolo giardino trascurato, che offrivadiversi possibili punti d’accesso. Angela trovò una fine-stra aperta che aveva però le persiane chiuse. Con l’aiutodella lama del suo coltellino riuscì a sganciare la barrettadi ferro che bloccava le due ante di legno. Ora potevaentrare facilmente ma il cuore cominciò a martellarle inpetto e il respiro divenne affannoso. Le ci vollero dieciminuti buoni per calmarsi e vincere la tentazione di dar-sela a gambe. Continuava a ripetersi che il consiglio diclasse era di sicuro ancora in pieno svolgimento e quindilei non correva alcun pericolo.

Scavalcò il davanzale e si ritrovò nella stanza da lettodel professore. Poi in un corridoio su cui davano alcunealtre porte. Percorse tutte le stanze velocemente peravere un’idea globale dell’interno dell’abitazione. Oltreche dalla camera da letto, il piano terra era composto daun elegante soggiorno, una ampia cucina, uno studio–biblioteca, un bagno e un ripostiglio. Angela vide dellescale che portavano a quello che avrebbe potuto essereun solaio, visto che il tetto era a falde spioventi e lasciavaquindi lo spazio per un locale mansardato.

Cominciò a salire i gradini e man mano che avanzavasentiva le gambe farsi molli e la paura impadronirsi dellasua mente. Quando arrivò davanti alla porta di legnoprovò ad aprirla ma era chiusa a chiave, accese la torciaper esaminare meglio la serratura perché in quell’angolo

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la luce del corridoio sottostante arrivava appena. Notòallora un chiodo sulla parete da parte alla porta dovestava appesa una chiave. Con mano tremante prese lachiave, la inserì nella serratura e girò.

La porta si aprì cigolando e lei venne investita da untanfo nauseabondo di escrementi di animali. Illuminòl’interno della stanza e scoprì centinaia di gabbiette con-tenenti migliaia di cavie bianche da laboratorio e poi, infondo al locale, sotto ad un tavolo scorse una figura diuna ragazza che dormiva raggomitolata per terra. Il suocuore saltò un battito, ma questa volta di felicità. Si trat-tava della sua amica Elisa scomparsa. La svegliò, si ab-bracciarono piangendo e uscirono in tutta fretta da quellugubre posto.

Il professor Tagliabue venne arrestato quella serastessa e si venne a sapere che aveva rapito la ragazza peravere una brava aiutante che badasse alle sue cavie chevendeva illegalmente a laboratori scientifici di ditte far-maceutiche internazionali. Elisa era sopravvissuta in quelsolaio tutti quei mesi mangiando solo qualche pezzo dipane e qualche topolino che arrostiva con un becco bun-sen.

Quando la polizia chiese ad Angela come avessefatto a capire che la sua amica si trovava in quella casa,lei rispose che aveva semplicemente ascoltato il suoistinto.

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La vittimaDaniele Spasciani

Un dolore acuto gli trapanava il cranio. Attorno, ilbuio. Poteva distinguere solamente la sottile linea

di luce che filtrava sotto la porta. Gli oggetti che lo cir-condavano erano tutti dello stesso colore e sfumavanoper gradi allontanandosi dalla fonte fioca. Il tatto loavrebbe guidato non appena avesse raggiunto la consa-pevolezza del luogo in cui giaceva, prono, su una super-ficie dura ed irregolare. Le fitte non erano localizzate inun punto soltanto, dopo il risveglio dal sonno malatopoteva percepire fastidiosi spasmi ovunque sul suocorpo immobilizzato. Non aveva memoria di quanto glifosse successo. Quanto era restato in quella posizione?Perché sdraiato? Qualcosa nelle sue sinapsi aveva fattocilecca. Con grande difficoltà liberò la mano destra e sitoccò la testa. Una protuberanza umida. Portò l’indicealla bocca. Sulla lingua il gusto dolciastro del sangue. Ri-pulì le dita sui pantaloni della tuta da ginnastica. Tentòdi alzarsi, ma le caviglie erano bloccate. Un peso le stri-tolava. Si sollevò sulle braccia. La base d’appoggio sfuggìe ricadde sui gomiti battendo la faccia su una sfera liscia.Cuoio. Una palla. Una palla da pallavolo. Sfilò i piedi eudì il tonfo sordo del trampolino sul pavimento. Eretto,ma ancora instabile, si mosse zoppicando verso il filo lu-minoso. Tastò in cerca della maniglia. La trovò e feceleva più volte con energia. Niente da fare. L’anta eramassiccia, non sarebbe stato in grado di buttarla giù aspallate nelle sue condizioni. Doveva gridare, qualcuno

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lo avrebbe sentito. Gli uscì dal petto un ruggito sovrau-mano, selvaggio e disperato. Sputò per terra i grumi disangue che dal naso gli erano scesi nella cavità orale. Sischiarì la gola e urlò ancora! Si trattava di inspirare e but-tar fuori tutto il fiato con violenza. Se solo a scuola cifosse stata un’anima, sarebbe stato subito soccorso. Ilquadrante illuminato dell’orologio gli diceva che studentie professori dovevano essere a casa già da un pezzo. Do-v’era il custode? La signora dell’impresa di pulizie? Urtògli scaffali. Un cesto si rovesciò e le clavette lo investi-rono. Imprecò picchiando i palmi sul muro. Si asciugò ilsudore con la prima cosa che trovò in tasca. Sembravacotone leggero. Il bordo era ruvido, graffiava. Un altrotentativo, si disse. Decise di strillare come se gli stesserostrappando la pelle di dosso.

D’un tratto ci fu un armeggiare di chiavi, poi un fa-scio bianco lo accecò. Grazie al cielo! Pensò barcollandoqualche metro sul campo da basket della palestra primadi lasciarsi crollare su un materassino dimenticato sullalunetta dei tiri liberi.

– Professor G., si sente bene?– la donna si era ingi-nocchiata su di lui.

– Non lo so. Io… Io ho un gran mal di testa, e…Diavolo! Non capisco, non capisco proprio…

– Vado a prendere bende e disinfettante in inferme-ria. Stia fermo dov’è.– disse la collega P. trottando versole scale

Aveva i brividi. Una strana paura si insinuava nei me-andri della sua mente ancora obnubilata dal colpo feroce.Già, era stato attaccato ed era svenuto. La ragione affio-

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rava gradualmente, la dinamica dell’aggressione subitasarebbe lentamente risultata più nitida.

La polizia. Avrebbe chiamato la polizia. L’autore diquel gesto scellerato non sarebbe scampato alla giustizia.Ne avrebbe ricordato il volto e il nome.

Prima del blackout cerebrale le lezioni erano già ter-minate, una ragazza di quinta B lo stava aiutando nel ma-gazzino. Una biondina. Le nebbie cominciavano adiradarsi. Se solo avesse avuto uno specchio, si sarebbecertamente osservato mentre la smorfia di disgusto an-dava dipingendosi sul suo volto, rigato di coagulo nero.Il cuore prese a battere rapido. Terrore o rimorso? Forseentrambi. Gli parve di affogare nel fango.

Affondò di nuovo le mani nelle tasche. Cotone leg-gero. Estrasse il ritaglio di tessuto strappato, lo guardòincredulo. Buttò indietro il capo in un gemito.

Che imbecille! Si morse il labbro inferiore. Serrò ipugni. Le nocche si imbiancarono.

– Mio Dio!– esclamò sgomento.Si sarebbe sciolto in pianto, ma la professoressa era

già di ritorno. Una simile debolezza suonava comeun’ammissione di colpa. Provò a cancellare il cattivo pre-sentimento di vedere gettati nel baratro dell’infamia annidi onesto lavoro e si rifugiò nella parte che avrebbe da lìin poi recitato per scagionarsi dalle accuse che il futurogli avrebbe riservato.

– Come va?– gli domandò lei.– Voglio andare a casa mia.– Non se ne parla. La porterò all’ospedale.– No. Sto meglio.

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– Chi le ha fatto questo?– Nessuno. Sono caduto. Semplicemente caduto.– Non mi inganna! È impossibile che si sia chiuso là

dentro da solo.– la donna passava una garza sterile sullaferita facendogli vedere le stelle.

– Piano, per favore.– Mi scusi. Crede di potersi alzare?– Sì. Tutto a posto. Vorrei solo fare una bella doccia

e mettere qualcosa sotto i denti.La P. lo squadrò sospettosa. Non c’era nulla di con-

fortante o di materno in quegli occhi. Solo dubbi. Dubbiche avrebbero dato vita a congetture. Le congetture sisarebbero trasformate in pettegolezzi e i pettegolezzi sa-rebbero giunti alle orecchie di tutti.

Scostò bruscamente la mano della professoressa che,vedendosi respinta, ebbe un moto di stizza.

– Ma dove va?– urlò a G. che stava dirigendosi al-l’uscita.

– Gliel’ho detto! A casa!– rispose nervosamentel’uomo.

– Perché non avverte la polizia?Non le diede retta. Contava di raggiungere in mez-

zora la sua abitazione. Quella sera avrebbe telefonato adun suo amico medico per farsi visitare l’indomani. Si sa-rebbe messo in malattia per un paio di settimane. Nonavrebbe sopportato di dover fornire spiegazioni sul suoaspetto ammaccato. Ma la cosa più importante sarebbestata accendere il caminetto del soggiorno. Il fuocoavrebbe incenerito le mutandine di pizzo e cotone cheil professore aveva strappato alla biondina di quinta B.

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La scuola si tinge di “Noir”Letizia Galli

Quella notte da far venire i brividi il signor Giacomoandò a portare a passeggio il cane Tobi. Appena fuoridal recinto di casa sua c’era una fitta foresta illuminatadalla luna piena e accompagnata dal rumore assordantedell’ululato dei lupi.

Era da più di cinquant’anni che viveva in quella ca-setta piccola ma accogliente con un cane e sette gatti,erano tutto quello che gli restava. Aveva perso la moglie,Julia, dieci anni prima della tragedia. Lei una gran belladonna, castana con i capelli lunghi, occhi scintillantiverdi, una semplice ragazza che appena vide Giacomose ne infatuò, fu amore a prima vista.

Avevano avuto un figlio, Simon, che a sua volta a 25anni si sposò e pochi anni dopo nacque Sofia. Giacomoera molto legato a sua nipote, non la vedeva spesso matutti i lunedì andava lui a prenderla a scuola, che pocodistava da casa sua e insieme facevano merenda, gioca-vano a carte e si raccontavano tante storie.

Ma quel fine settimana qualcosa andò storto. Allamattina della domenica di carnevale, Giacomo si svegliòe come da sua abitudine scese in cucina per dare da man-giare a Tobi e ai gatti, ma di quest’ultimi ne arrivaronosolo quattro. Gli gli altri tre li chiamò tutto il giorno maa casa non tornarono. Cominciò ad agitarsi, sollecitò su-bito suo figlio perché venisse ad aiutarlo a cercarli. Ma-gari si trattava di uno scherzo dei ragazzini della scuola,pensò. Niente da fare, i gatti era come se fossero spariti

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nel nulla. Passò la notte in bianco pensando a come aves-sero fatto a scappare, in tanti anni che vivevano lì non sierano mai allontanati, si doveva trattare di qualcosa dipiù grande e più grave. La mattina seguente andò conTobi nel bosco vicino a casa a controllare di nuovo. Iltempo passava ed era ora che Giacomo andasse a pren-dere Sofia a scuola. Raccontò la storia alla nipote e leigli disse di non preoccuparsi, che avrebbe ritrovato sanie salvi i suoi adorati gattini. Però le venne una strana sen-sazione. Giacomo intanto passò la settimana insonne,ogni notte faceva la stessa cosa, si addormentava permezzoretta sul divano poi sentiva dei rumori e di colposi alzava pensando fossero tornati. Ma quando si ren-deva conto che non c’erano diventava sempre più ma-linconico e angosciato infatti andò un po’ fuori di testa.

Era venerdì quando Simon telefonò al padre chie-dendo se potesse andare lui a prendere Sofia a scuola.Giacomo era felice di rivedere sua nipote ma era tal-mente turbato che appena arrivato a scuola sentì miago-lare, non si sa se era la sua immaginazione oppure fossevero. Aprì di corsa il portone principale della scuola egridò: “Fermi oppure sparo!”. Aveva con se una pistolafinta ma gli allievi, tutti tra gli undici e i dodici anni dietà, non capirono. Si misero ad urlare e tentarono di ri-fugiarsi in un’ aula. Giacomo a quel punto prese un ra-gazzino in ostaggio e si rinchiuse in bagno e sempre convoce tremante e forte gridava: “Ridatemi subito i gatti,non posso vivere senza di loro!”

I bambini non sapevano di cosa stesse parlandoquando finalmente arrivò la maestra con Sofia, che le

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aveva spiegato la situazione. La maestra pensò che l’an-ziano signore doveva davvero amare molto i suoi gattiper mettere in pericolo la sua vita e quella dei ragazzini.Provarono a farlo ragionare ma non ci fu verso, era coc-ciuto e spaventato quanto loro. Però nel frattempo inclasse arrivò il maestro di scienze che voleva cominciarela lezione; aveva con sé una scatola... Non sapendo chifosse quell’uomo, tirò fuori un gatto da essa per spiegareai ragazzini come fosse il corpo umano. Cominciò conun colpo alla nuca e il gatto, ormai privo di vita, cadde.Giacomo a quel punto si accasciò a terra, il suo cuorenon era in grado di resistere ad una scena di quel generedopo che Merlot, uno dei suoi tre gatti spariti, fu rapitocome esperimento di scienze. Sofia si accasciò subitoverso il nonno, gridando. La maestra chiamò un’ambu-lanza che in poco tempo era lì. Ma per il nonno nonc’era più niente da fare. Arrivò anche Simon, che nonriusciva a spiegarsi l’accaduto.

Quella notte in cui Giacomo uscì a far la passeggiatacon Tobi, furono proprio il maestro di scienze e il suocomplice, il giardiniere della scuola, a prendere uno deisuoi gatti. Si intrufolarono lentamente nel giardino diGiacomo, controllando che nessuno li vedesse. Ma es-sendo una casetta al largo della foresta, quasi certamentenessuno avrebbe visto. Presero dei biscotti per gatti perattirarli. Merlot fu il primo ad avvicinarsi pensando chefosse il suo padrone, era il più piccolo dei sette e ancoradoveva imparare a non farsi ingannare dagli umani. Pur-troppo ci misero poco a prenderlo, lo posarono subitoin una gabbia e in fretta misero in moto l’auto del giar-

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diniere, e via a scuola. Per fortuna che Giacomo era fuoria passeggiare con Tobi e non si accorse di nulla, altri-menti chissà cosa sarebbe successo.

Nel frattempo gli altri due erano tornati a casa. Sierano allontanati a cercare Merlot, ma purtroppo non lotrovarono. E purtroppo nemmeno il loro padrone era lìad accoglierli come solo lui sapeva fare...

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Armadietto 7Isabella Zappa

Dicono che è morto. L’hanno trovato in ginocchio,la faccia nel fango, dietro la scuola. Dicono che ha

dei segni sul collo, forse è stato strozzato. La polizia sta interrogando tutti, tutti quelli che po-

tevano avere un motivo per ucciderlo. Ma chi… chi po-teva desiderare la morte di un ragazzino? E in un modocosì crudele, per di più.

…Certo però che Max non era un ragazzino qualun-que: non aveva amici, a scuola non ci andava quasi mai,e a dire dei professori i risultati erano pessimi… Una fa-miglia già seguita dai servizi sociali, la madre che devefare due lavori, il padre sempre ubriaco… Prima o poisarebbe finita così, si sente dire…

Di certo il professor Borla, il docente di greco e la-tino, non verserà una lacrima per lui. La settimanascorsa, il professore aveva trovato nella sua cartella unabusta di plastica contenente una lingua di maiale ancorasanguinante e il messaggio “a lei che piacciono tanto lelingue morte!”… E lo scorso inverno, rincasando la seratardi, era stato aggredito alle spalle a colpi di bastone, esolo l’abbaiare dei cani l’aveva salvato…

Poi c’è Tobia, un ragazzino di prima, minuto, occhia-luto e spaventato, che avrebbe volentieri continuato afrequentare le elementari, se non le avesse terminate…Una volta, dopo la lezione di ginnastica, aveva trovato isuoi occhiali in fondo al gabinetto. Un’altra volta la suabicicletta spuntava dal container della scuola. Anche lui

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sarà di sicuro sollevato dalla fine di queste angherie!Quando hanno girato il corpo hanno visto che dalla

bocca gli spuntava qualcosa, un pezzo di nastro, forse.Più tardi l’autopsia rivelerà che è morto per soffoca-mento: nella trachea c’era una piccola chiave, con lascritta, ancora leggibile, armadietto 7. Le impronte sulcollo erano le sue, probabilmente il segno di un ultimo,vano, tentativo di liberarsi…

Ma perché un ragazzo di 5° si è messo in bocca lachiave del suo armadietto?

L’hanno aperto, l’armadietto. Dentro ci hanno tro-vato tre libri: una raccolta di poesie di Rilke, la Metamor-fosi di Kafka e Cecità, di Saramago. A far da segnalibrouna foto di mamma e papà, vicini e sorridenti, con luitra le braccia, scattata all’ospedale il giorno della sua na-scita.

E una lettera per Giulia.“Cara Giulia,scusa se ti scrivo, se mi permetto anche solo di avvi-

cinarmi a te col pensiero. Tu ed io veniamo da duemondi diversi, ti vedo andar a casa con tua madre, suquel grande suv, ho visto anche dove abiti, è proprio unabella casa, io… io, dopo la scuola non vado a casa subito,perchè non c’è nessuno ad aspettarmi: mamma rientraalle 22, papà… papà non sappiamo mai a che ora rientra,e poi… a volte vorrei che non rientrasse, perché se hala sbronza triste viene e si sfoga con mamma o conme… Tuo papà l’ho visto in televisione, era proprio ele-gante con quel completo grigio! Anch’io vorrei poterdire “mio papà fa l’avvocato”, e invece… Allora la sera

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vado in giro, cerco un albero sotto il quale sedermi eleggo.

Una sera ti ho vista, con quel bastone. Ti ho seguita,fino a casa dal professor Borla. Ma non preoccuparti,non dirò a nessuno quello che hai fatto. Ti voglio bene,o forse è qualcosa di più. Non so. Mamma dice che papàci vuole bene, anche se ci dà le botte. A me sembrastrano, ma voglio crederle. E’ meglio crederle. Ma a tevoglio bene davvero, tanto. E non te lo direi mai con lebotte, io.

Quando ti vedo nei corridoi mi sento svenire e devocorrer via da scuola. Vado nel bosco, mi siedo sotto glialberi e guardo il cielo tra le fronde. Il cielo è blu comei tuoi occhi, ma quello riesco a guardarlo senza sentirele gambe che tremano.

Oggi ho visto il ragazzino di prima, quel Tobia a cuifai un sacco di scherzi, che ti guardava di nascosto. Siiprudente, non vorrei che ti succedesse qualcosa. Io… iosono disposto a fare qualsiasi cosa per te, anche inghiot-tire la chiave del mio armadietto, se me lo chiedi.”

“Forse tutti i draghi della nostra vita sono princi-pesse

che attendono solo di vederci una volta belli e co-raggiosi”

Max

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Noir a scuolaGiorgio Dagostino

Frank Stüder professore di ginnastica delle scuolemedie di La Spezia, giovane trentenne d’origine Ba-

silese, il padre si trasferì a Lugano negli anni cinquanta,amante del bel canto entrò nel Männerchor compostoprevalentemente da svizzeri tedeschi, monitore di sci al-pino e alpinista apprezzato nell’ambito del CAS come ilfiglio Frank che gli somigliava molto anche fisicamente,le sue origini nordiche lo evidenziavano, alto e slanciatodi corporatura atletica, un volto: occhi azzurri con ri-flessi scuri sorridenti, labbra sottili marcate, baffettibiondi sovrastanti, capelli dello stesso colore ondulati.Larghe spalle braccia muscolose. La sua collega inse-gnante di italiano storia e geografia, si è innamorata dilui e coglie ogni opportunità per incontrarlo nella salaprofessori dove si intrattiene cercando di interessarlo allasua persona e non si accorge dall’atteggiamento di Frankun po’ distaccato di proposito, ché già lo ha fatto inna-morare con il suo innato fascino e la sua femminilità.Laura Prati trentunenne di famiglia ticinese da più ge-nerazioni, la sua bianca fronte accarezzata da scuri ca-pelli lucenti, occhi castani con riflessi azzurrati,sprizzano intelligenza e simpatia, lunghe ciglia nere e vel-lutate completano il suo bel volto. Corpo statuario dallelinee armoniose e sensuali, sempre vestita con moltobuon gusto. Una persona raffinata che inconsciamenteaffascina i colleghi anche quelli di una certa età a farlegalantemente un po’ di corte. E,fu proprio uno dei suoi

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colleghi insegnante di matematica ad innamorarsene,malgrado avesse moglie e due figli. Giovanni Bernasconicinquantenne caratterialmente un po’ strano, affetto dauna forma di depressione congenita che gli procura di-sturbi psicologici depressivi che manifesta anche in fa-miglia di cui la moglie ed i figli ne soffrono. Aiutato daglipsicofarmaci che il suo medico curante gli prescrive conuna certa leggerezza, reagisce cercando di uscire da queldiabolico labirinto depressivo che lo fa soffrire, aggrap-pandosi a sogni come il sentimento d’amore nato per labella collega. Il caso volle che al termine di una giornatadi scuola dove tutti i colleghi già erano usciti, si trovòsolo con Laura in sala professori mentre lei stava cor-reggendo i compiti. Cercò subito un pretesto per disto-glierla attirando la sua attenzione, con la sua innatacordialità ci riuscì al punto che con una certa disinvolturaguardandola fissa negli occhi, le disse in tono un po’scherzoso “sai Laura che credo di essermi seriamenteinnamorato di te”, lei perplessa immediatamente con ilsuo abituale severo tono come si trattasse di uno dei suoialunni, con determinazione gli rispose: “Giovanni mimeraviglio della tua leggerezza seppur con il tuo abitualetono scherzoso ti permetti certe battute, presumo che sitratti di una delle tue solite, per cui la prendo come talee non intendo ritornare sull’argomento, per cui tiprego… rimaniamo buoni colleghi” e subito si alzò dalsuo posto di lavoro raccolse i suoi libri gli porse la manoaugurandogli una buona serata. Giovanni rimase morti-ficato e vergognandosi della leggerezza con cui si era la-sciato andare, ben conscio della sua debolezza,

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soffrendone continuava a sentirsi attratto da quelladonna e temeva di non potersi sottrarre da quel senti-mento che malgrado tutto lo faceva sognare.L’anno scolastico volgeva verso il termine e come nor-malmente avveniva fu organizzata la gita scolastica. Fudeciso per l’itinerario da seguire per la meta: l’eremo diSanta Caterina del Sasso Ballaro, sulla sponda orientaledel lago Maggiore.

Il sabato mattino due grandi bus accolsero studentie insegnati, nel primo presero posto gli insegnati desi-gnati ad accompagnare le prime due classi: il professorFrank, il professor Bernasconi e la professoressa Laura.Frank alla partenza diede il benvenuto a tutta la scolare-sca e quale corista del coro Valgenziana annunciò chedurante il viaggio avrebbe intonato dei canti popolari ti-pici e che tutti avrebbero dovuto partecipare. Iniziò in-tonando il primo canto con la partecipazione generalecompresa la bella voce di Laura in perfetta armonia conla voce tenorile del direttore improvvisato. Il professorBernascone rimase silenzioso e in disparte per tutto ilviaggio, mentre Laura prese la parola fra un canto e l’al-tro per dare qualche ragguaglio sulla meta prevista, nedescrisse brevemente la storia che ben conosceva: “Sitratta di una costruzione del XII° secolo quando un talAlberto Besozzi mercante usuraio dell’epoca, scampatoda un naufragio durante una traversata del lago, avrebbefatto voto a Santa Caterina d’Alessandria di ritirarsi peril resto della sua vita in preghiera e solitudine in unagrotta in quel tratto di costa. Avrebbe poi fatto costruireuna cappella alla Santa ancor oggi individuabile nella

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chiesa dell’eremo dedicato a Santa Caterina del Sasso. Ilcomplesso monastico sorse intorno al XIV secolo conle due chiese a strapiombo sulla sponda del lago in ter-ritorio del comune di Leggiuno. Vedendo tutti molto at-tenti, Laura proseguì : “la facciata della chiesa conporticato a quattro archi sono conservati affreschi attri-buiti ad uno dei figli di Bernardino Luini e sempre a stra-piombo si erge la torre campanaria alta quindici metri,vedrete ragazzi il posto vi piacerà”, seguì un applausogenerale e un nuovo melodioso canto.

Giunti a destinazione si recarono a pranzo nel vicinoristorante dove Giovanni prese posto alla sinistra diLaura poiché la sua destra era già occupata da Frank. Idue giovani iniziarono a conversare fra di loro escluden-dolo, lui pur conscio di rendersi ridicolo si sporse versoLaura per cercare d’inserirsi nella conversazione, maLaura gli voltò il volto rivolgendosi verso Frank.

Si udirono i sorrisi maliziosi degli alunni che avevanoassistito attenti alla scena. Giovanni umiliato e mortifi-cato si chiuse in se stesso per tutta la durata del pasto.Al termine si alzò senza nulla dire avviandosi lentamentea testa bassa verso la balconata del ristorante che protettada un parapetto si trova a strapiombo sul lago, si tolsele scarpe che depose ordinate ai piedi del parapetto, sa-lendolo si fece il segno della croce e allargando le bracciasi lasciò cadere nel vuoto.–

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La chiusura del cerchioLinda Mariano

Aveva dato l’allarme la signora che ogni giorno, doposcuola, veniva ad aiutarlo a fare le pulizie. Lei puliva

un’ala della scuola, lui l’altra. Quando era andata a ri-porre la scopa nel ripostiglio l’aveva trovato.

Un taglio profondo incideva la testa e scendeva finoalla tempia e il cranio era spaccato. Era stato colpito vio-lentemente con l’aspirapolvere, sul quale risultavano solole sue impronte e quelle di lei, che mingherlina com’eranon poteva sicuramente essere l’assassina.

La scientifica aveva fatto un lavoro minuzioso, la po-lizia aveva indagato a fondo. Erano state interrogate nu-merose persone: amici, parenti, docenti, direttore,segretario. Quasi tutti avevano un alibi. Alcuni docentisi erano fermati in classe a correggere, ma a parte il fattoche erano persone a posto, mancava assolutamente unpossibile movente.

Tutti indistintamente, avevano parlato di lui come diuna persona speciale, laboriosa, gentile, allegra, sempredisponibile e molto discreta. Un bidello così è un dia-mante raro. Chi lo trova se lo tiene stretto e sa apprez-zarlo.

Le indagini non avevano portato all’assassino e nem-meno al movente.

Oggi ricorre il secondo anniversario della sua morte.Stasera nel ripostiglio troveranno un altro cadavere.

Lui era veramente una brava persona. Troppo. Daquand’era arrivato tre anni fa, si era conquistato tutti. I

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docenti si rivolgevano a lui per tutto e lui era semprecompetente e pronto ad aiutare, senza trascurare il suolavoro, perfino i genitori lo fermavano per fargli i com-plimenti per la gran pulizia. Gli allevi lo salutavano diecivolte al giorno e lo chiamavano da lontano, gli ex allievipassavano a trovarlo.

A me non è mai capitato che ex allievi tornassero asalutarmi.

Certo che di complimenti non ne ho ricevuti moltiin vita mia, nemmeno quando sono diventato docente,con una media discreta. Padre medico, madre avvocato,si aspettavano che l’unico figlio scegliesse una strada piùprestigiosa. A me piaceva insegnare. Ma l’entusiasmo èdurato poco.

È stressante fare il docente. Gli allievi diventanosempre più difficili, i genitori più egoisti e vedono soloi loro figli, oltretutto, secondo l’opinione comune, vistoche i docenti non fanno niente, dovrebbero trovare iltempo per dare tutti quei valori che la società e la fami-glia non danno più.

Così quando si è presentata la necessità di avere undirettore, mi sono proposto, anche perché mia mogliemi ha spinto. Dire di essere la moglie di un direttore ledava più soddisfazione.

Per me le cose non sono migliorate. I docenti pen-sando che un maestro mediocre non può essere un buondirettore non mi prendono molto in considerazione.Fanno, disfano, ma d’altronde me la sono cercata.Quando mi proponevano qualche attività, dicevo di pre-sentare un piano particolareggiato e poi di provvedere

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alla realizzazione. Così si sono abituati ad arrangiarsi dasoli… con l’aiuto del bidello.

Quando mi trovo qui in direzione da solo, a fare so-prattutto burocrazie, sento che mi spengo sempre di più.

Mia moglie per un po’ è stata appagata dal mio ruolodi direttore, poi ha ricominciato a recriminare su ognicosa.

I miei superiori mi hanno richiamato cinque volteperché tutti ormai sapevano che bevevo e l’ultima voltasono stato a un passo dal licenziamento. Allora mi sonodato una regolata. Più nessuno ha sentito odore di alcoolo mi ha visto bere. I docenti non mi hanno preso mag-giormente in considerazione, ma almeno mi hanno di-mostrato solidarietà, cordialità e mi hanno fattopartecipe delle loro chiacchierate.

Gli scaffali dell’archivio, mai nessuno li aveva puliti.Cos’è venuto in mente quel giorno al bidello di farlo?Quando sono entrato, l’ho trovato che, spostati i classi-ficatori, guardava la bottiglia, le cicche, il dentifricio e lospazzolino.

Si è voltato di scatto, mi ha fissato, non ha detto unaparola e ha rimesso i classificatori al loro posto.

Nei giorni seguenti cercavo di evitarlo. Quando in-crociavo il suo sguardo non vedevo riprovazione, masolo pietà.

Contavo sulla sua discrezione, ma mi chiedevo seavesse parlato con qualcuno. I docenti però erano sem-pre cordiali.

A poco a poco, mi è sembrato che qualcuno mi scru-

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tasse, l’ispettore e i superiori mi sembravano più freddi,quel giorno perfino il segretario era stato insofferentenei miei confronti.

Ho visto la signora delle pulizie uscire dal ripostiglio.Dopo un momento è entrato il bidello, l’ho seguito forsecon l’intenzione di parlare, ma quando ho visto l’aspira-polvere, ho preso uno straccio, gliel’ho avvolto attorno,l’ho sollevato e ho colpito.

Nessuno mi ha visto uscire. Ho chiuso la direzionee sono andato al bar a bere un succo. Mi sono sentito li-bero.

Non aveva parlato con nessuno, altrimenti durantegli interrogatori il fatto sarebbe emerso.

Sono cominciati gli incubi. Mi sveglio sempre terro-rizzato, mentre urlo.

Mia moglie ha capito, ma ha taciuto. Si vede che es-sere la moglie di un assassino non le conveniva.

Cinque mesi fa se ne è andata con un vero direttore.I soldi e i mobili devono restare a lei. Mi ha velata-

mente lasciato intendere che se faccio storie potrebbelasciarsi sfuggire qualche dubbio.

Oggi pomeriggio, dopo scuola viene qui per firmarele carte del divorzio.

Di sicuro i docenti lo sanno perché vanitosa com’ènon si è lasciata scappare l’occasione di far sapere a tuttiche sposa un direttore di banca.

Il veleno l’ho comperato in Italia, dicono che sia ra-pido e potente.

Le proporrò un ultimo brindisi col suo vino prefe-

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rito, alla sua nuova felicità. Io naturalmente non berrò alcool, ma un succo dalla

bottiglietta. Quando se ne andrà verserò vino e veleno nel bic-

chiere con le sue impronte e tracannerò tutto d’un fiato.Andrò nel ripostiglio e aspetterò la morte.

Sarà molto doloroso, ma sicuramente meno di que-sto rimorso e di questa vita.

Forse capiranno e non la condanneranno, ma qual-che brutto momento lo passerà.

Che l’ultima soddisfazione della mia vita sia questa,è la conferma che non c’era altra soluzione che chiuderedefinitivamente.

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Inchiostro RossoLinda Attivissimo

Il professor Müller si stiracchiò pigramente, guardandoleggermente scocciato la pila di compiti che doveva

ancora correggere. La lancetta dei minuti sembrava continuare a correre,

e lui faticava a starci dietro. Inoltre, il dover stare rin-chiuso nella scuola fino a tardi non gli andava partico-larmente a genio. D’altronde, la polizia gli dava un buoncontributo per questo lavoretto supplementare.

Decise così di mettersi all’opera, inforcando conconvinzione la sua stilografica.

S’interruppe subito sobbalzando. Aveva sentito deipassi di corsa attraversare riecheggiando il corridoio. Sialzò di scatto aprendo la porta, senza trovare però animaviva in giro.

Si chiese perplesso se per caso qualcuno fosse rima-sto a scuola a svolgere dei compiti oltre a lui, ricontrol-lando il corridoio e le zone vicine, non trovando ancoranessuno. Gli venne in mente all’improvviso l’incidentedi due anni fa...

Il freddo mattino d’inverno si faceva sentire fin den-tro alle ossa, costringendo il docente ad affrettare ilpasso, facendogli sfuggire le macchine della polizia par-cheggiate fuori dalla scuola. Entrando nell’edificio si sen-tiva un gran vociare ma non si vedeva nessuno nell’atrio.Müller seguì il suono e fu guidato verso l’aula di scienze,circondata da tutta la scuola e da numerosi agenti, intenti

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a mantenere la calma ed allontanare i curiosi dalla scenadel crimine. Ancora non riusciva a capire cosa fosse suc-cesso, ma doveva essere qualcosa di davvero grave peruna scena del genere. L’unica cosa che intravvide fu unagrossa “S” con una “X” sovrapposta, scritta sul muro.Riuscì a cogliere qualche stralcio di conversazione diqualche ragazza: “sei riuscita a vederlo? Povero Mer-tucci...” “sono arrivata troppo tardi, quando lo avevanogià portato via, ma chissà che schifo..” “acido solforico?Brutta roba”

Acido solforico? Mertucci? Forse era meglio non sa-perlo, ma il tragico evento gli venne rinfacciato più voltedurante i numerosi interrogatori dell’ispettore. La seraprima c’era stata una festa per i vincitori di un torneo diqualche tipo (non aveva molta importanza in quel mo-mento), e nessuno sembrava essersi accorto dell’improv-visa scomparsa del docente.

La polizia non sapeva da che parte girarsi.Qualche settimana dopo, venne a sapere che il pro-

fessor Castagni era stato preso in custodia per il fatto diessere il sospetto più plausibile. Ma non durò a lungo lasua custodia.

Il docente si grattò inquieto il collo. Riprese a cor-reggere i compiti di tedesco rimasti, cercando di finire illavoro in fretta per andarsene al più presto da quel posto.Al diavolo la polizia, non ce la faceva a stare in quell’edi-ficio. Gli sembrava di sentire un leggero sussurrio aleg-giare per l’aula, ma aveva già visto che non c’era nessunocon lui...

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Ma poteva esserne certo?Non poté fare a meno di pensare alla tremenda sorte

della sua collega, un anno e mezzo fa.

Il professor Castagni era stato rilasciato, perché eraovvio che non era lui il colpevole.

C’era stato un altro incidente. Quella volta era toc-cato alla docente di latino Ferrini, trovata crocifissa agliscaffali della biblioteca scolastica. Anche se degli agentierano stati messi a guardia dell’edificio, il delitto era riu-scito a compiersi. Anche a controllare chi entrava perstudiare era inutile, perché a quanto dicevano le guardianessuno era entrato in quella scuola, a parte la docentemorta.

Nessuno si era fermato per più di dieci minuti allascena del crimine, come se si aspettassero che ormai di-ventasse una routine vedere professori venir uccisi. Lapolizia brancolava ancora del buio, e molti ragazzi e do-centi avevano una paura tremenda di entrare in quellascuola, che sembrava maledetta.

Altri interrogatori, altre domande senza risposte.Ancora una volta, spiccava la firma a “S”.

Si riprese dal flashback con un urlo quando sentìgraffiare alla finestra, urlando più forte vedendo il pro-fondo segno sul vetro incrinato. Quell’aula lo mettevain ansia, e probabilmente non era sicuro rimanere lì, per-ciò decise di rimandare al giorno dopo la correzione edi lasciarli nello scaffale dell’aula docenti, per tornarsenea casa a riposare. Si spostò verso l’aula, più isolata ri-

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spetto alle altre. Entrando, vide ancora le tracce di nastrogiallo che la polizia aveva lasciato per il caso Meletti, fre-sco di qualche mese prima.

Meletti era stato trovato in tremende condizioninell’aula docenti la sera dopo la festa di carnevale dellascuola, quando si pensava che vi fosse tornata la calma.Lo aveva visto per prima la professoressa Fiore, svenutaper la vista tremenda. Il direttore dell’istituto e il caposquadra della polizia si stavano mettendo le mani nei ca-pelli. La solita firma, nessun sospetto.

Furono nuovamente interrogati tutti, ma nuova-mente nessuno dava segno di essere coinvolto negli omi-cidi, che avevano in comune la ormai ben nota firma.

Müller si mise a correre senza pensarci due volteverso l’uscita della scuola, solo per trovarla chiusa. Provòanche le altre, tutte quelle che riuscì a trovare nel suo pa-nico isterico. Tutte chiuse. Quando si staccò dall’ultima,strillò terrorizzato leggendo una scritta inquietante inrosso sul muro dietro di sé. “STANOTTE TOCCA ATE”

Si udì un impercettibile sibilo trafiggere l’aria, poi ilcollo del docente intrappolato. Il suo corpo cadde ine-sorabile sul pavimento sporco della scuola, spargendoovunque i compiti. Gli occhi vitrei lanciavano unosguardo disperato alla porta che bastava spingere conpiù forza invece che tirare. Il sangue colava dal taglioslabbrato, tingendo i compiti sotto al cadavere, di inchio-stro rosso sangue.

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LoroMelissa Parolini

“Un rivolo di sangue mi squarciava il viso, il cuorerimbombava nel mio petto e scandiva gli ultimi

minuti della mia vita. Continuavo a correre in quel cor-ridoio bagnato, ma Loro mi seguivano, potevo sentire iloro respiri affannati dietro di me…”.

18 settembre 2003, ore 6:34 del mattino.

Da una settimana avevo deciso che avrei portato lamia classe, la 4a, a cercare funghi nel bosco. Andai in cu-cina dove vi trovai, come al solito, il pendolo che mi fa-ceva “compagnia”. Mi preparai due panini al prosciuttoe li misi nel sacco. Salii in macchina, quando arrivai ascuola erano già lì ad aspettarmi, salimmo velocementesul pulmino che ci avrebbe portato a destinazione. Dopoun breve viaggio arrivammo e ci inoltrammo immedia-tamente nella foresta. C’erano molti uccellini che cin-guettavano e una miriade di altri rumori tipici del boscomescolati alle risatine degli alunni. Tutto ciò mi mettevaallegria e una sorta di pace interiore. Il sole cominciavaa farsi spazio tra le cime degli alberi creando cosi zoneombrose e altre luminose e dando un aspetto ancora piùmagico al luogo. Dopodiché cominciai a volgere la miaattenzione verso i funghi e al loro profumo, ne trovai su-bito due.

Un sasso contornato da porcini catturò immediata-mente il mio interesse, così mi avvicinai. Iniziai a racco-glierli e intanto osservavo il masso che era cosparso da

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strani simboli a me sconosciuti. Non so perché ma decisistupidamente di spostarla. Allora, con un misto di pauraed eccitazione smossi la pietra. Con grande orrore sottovi trovai una fossa con decine e decine di corpi. Alcunierano solo resti di ossa, altri avevano ancora qualchebrandello di carne attaccato avidamente dalle formichee altri insetti. Conati di vomito pervasero il mio essereche si tramutò in un lungo e straziante rigetto. Mi voltaileggermente e fui certo di vedere Carl, un mio allievoche mi guardava con aria grave, ma poi svenni. Quandomi risvegliai, trovai venti facce che mi fissavano preoc-cupate, erano i miei allievi. Si erano molto spaventati maio li rassicurai inventando una banale scusa, sembrò fun-zionare. Dissi loro di incamminarsi verso il pulmino eche io li avrei raggiunti. Mentre loro si avviavano io cer-cavo di dare un senso alla vicenda, ma quando mi guar-dai attorno notai che non ero nello stesso punto in cuiero svenuto…. Quei rumori che ritenevo tanto rassicu-ranti, ora m’inquietavano e tutta la foresta aveva assuntoun’aria sinistra.

Raggiunsi il più velocemente possibile i ragazzi equando fui sul bus ero convinto di essere finalmente alsicuro. Tornati a scuola salutai i miei allievi e guidai di-strattamente fino a casa, ancora sotto shock. Estrassi lechiavi e aprii la porta, non mi accorsi che era già aperta.La casa era stranamente silenziosa, niente rumore di elet-trodomestici, nemmeno l’orologio a pendolo della cu-cina che, in compenso, si era fermato, 19:10. Era moltostrano, ma mi convinsi che fossi preoccupato a causa delritrovamento, e per calmarmi mi misi davanti alla TV

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con una ciotola di patatine in una mano e una birraghiacciata nell’altra. Nonostante solitamente la combi-nazione delle due mi rilassasse, quel senso d’inquietudinenon voleva andarsene. Chiusi gli occhi e feci un pisolinopopolato da incubi terribili. Quei corpi, quelle ossa, in-setti, ancora corpi… Quando mi svegliai decisi, nono-stante l’orario, di andare a scuola per correggere qualchetema. Quando vi arrivai, andai nell’aula di cucina cosiche se avessi avuto fame avrei potuto prepararmi qual-cosa, e mi misi a leggerne uno.

Tum, tum questo rumore proveniente dalla mia auladi classe, che era esattamente sopra la mia testa, mi tor-mentava. Controllai velocemente l’orologio appeso almuro:19:00.

Fuori era ormai buio. Il rumore persisteva e brivididi freddo percorsero ogni centimetro del mio corpo.Frugai in un cassetto e presi il coltello più lungo e ta-gliente che c’era. Per sicurezza, lo affilai ancora. Mi tre-mavano le mani. Salii lentamente le scale e le mie scarpedi gomma scricchiolavano. I rumori avevano lasciatospazio a dei bisbigli, udii due voci, da uomo che dice-vano: “Il segreto non è più al sicuro”. L’altro: “Già,l’orologio l’ha avvertito”. Seguito da una risata maleficadei due ma mi sembrava di riconoscere una voce più gio-vane. Qualcuno esordi: “È ora, facciamolo!”.

Smisi di respirare, letteralmente. Volevo fuggire mai miei arti inferiori erano come paralizzati, non rispon-devano ai miei comandi. Solo quando i due uscirono dal-l’aula indossando una maschera da bambola con occhiporcini, di ghiaccio e le labbra piegate in un ghigno che

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lasciava intravedere piccoli denti aguzzi mi accorsi chedietro di loro c’era un ragazzo. Fui subito certo che fosseCarl ma non mi lasciai prendere da questi pensieri e lan-ciai così un urlo da far accapponare la pelle e mi fiondaigiù dalle scale, seguito a ruota dai tre, da Loro. Corsi inquel corridoio che fino a poche ore prima era stato pienodi vita, ma ora era deserto. Ero solo con Loro.

Erano le 19:05, le donne delle pulizie avevano ap-pena pulito e quindi le mie scarpe non aderivano beneal suolo, scivolai. Erano sempre più vicini. Durante lacaduta mi tagliai la fronte con il coltello, un rivolo di san-gue mi squarciava il viso, il cuore rimbombava nel miopetto e scandiva gli ultimi minuti della mia vita. Conti-nuavo a correre in quel corridoio bagnato, ma Loro miseguivano, potevo sentire i loro respiri affannati dietrodi me. La stanchezza era diventata insostenibile, così co-minciai a rallentare. Mi raggiunsero. Il coltello ora eranelle loro mani, pensare che la mia arma di difesa miavrebbe ucciso era stranamente ironico.

Il ghigno delle maschere fu l’ultima cosa che vidiprima di essere assassinato. Fui subito certo che sarei fi-nito sotto quella pietra, esattamente come quelle altrepersone, brutalmente uccise da Loro, senza scrupoli purdi nascondere quell’oscuro segreto di cui Carl facevaparte e che io non avevo avuto il tempo di scoprire.19:10.

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La supplenteAntonino Mauceri

Cosa ci faceva seduto su quella sedia scomoda, inquella stanza tetra, davanti a degli sconosciuti. Non

aveva avuto neppure il tempo di radersi.Lavorava in una scuola come ce ne sono tante, e

quella mattina si era presentata un’avvenente maestra, icapelli biondi raccolti in uno chignon anni ’60 e due oc-chioni blu incorniciati in un rimmel che ti bruciavanol’anima al solo guardarli, per prendere in consegna la 4adel maestro Pindacchio, che non aveva saputo fare dimeglio che fratturarsi la gamba sciando. Toccava così alui metterci una pezza e cercare in fretta e furia un sup-plente.

Quella donna lo aveva folgorato dal primo istante.Quando quella mattina entrò nel suo ufficio, indossavaun abito tipo chimono di color panna con manica a trequarti,

orlato da bande nere sulla veste e sulle maniche. Unacollana con charm swarovsky a forma di teiera le cingevail collo diafano. Aveva unghie lunghe e nere con frenchbeige e piccoli brillantini rosa. Ai piedi scarpe con tacco,in pelle nera, aperte leggermente in punta, completavanoil quadro stupefacente. Non riusciva più a toglierseladalla mente.

Entrati in classe, gli scolari tornarono in un balenoognuno al proprio posto. Era fiero dell’effetto che la suasola presenza esercitava su di loro. Un fare gentile ma

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fermo, che non lasciava adito a fraintendimenti su chigestisse il potere in quella scuola. Era una bella carta davisita da offrire alla donna. Si congedò e il sole che fa-ceva capolino dalle vetrate antistanti lo convinse chequella sarebbe stata una giornata speciale.

Mentre tornava in ufficio, sentiva ancora la cadenzasincopata dei suoi passi e ne percepiva la scia odorosa.Indugiò un istante a inalare l’aria impregata del suo pro-fumo, dolce e agro ad un tempo.

Ma cosa poteva interessare a quei due uomini, chegli stavano seduti di fronte, quanto quella donna avessesollecitato i suoi sensi. Eppure lo ascoltavano famelici elo invitavano ad andare oltre. Uno dei due scriveva.

La mattina trascorse senza particolari sussulti, qual-che telefonata, la dettatura di alcune lettere e soprattuttoalcune congetture sul pranzo imminente. Era il primogiorno di lavoro e certamente la supplente avrebbe ap-prezzato la sua compagnia. Avrebbero mangiato inmensa e le avrebbe presentato i colleghi, indicandolequelli di cui poteva fidarsi e quelli che era meglio evitare,come il maestro Capezzoli, impenitente fedifrago e im-placabile seduttore. Non era sua consuetudine svelare leproprie preferenze ai subalterni, ma quella donna eraspeciale e voleva risparmiarle spiacevoli incontri.

Come aveva trascorso il pomeriggio e soprattutto ache ora aveva abbandonato l’istituto, gli domandòl’unico dei due uomini che gli rivolgeva la parola. Chegliene importava delle sue abitudini, e quale poteva es-sere la ragione di tutte quelle domande.

Era rimasto in ufficio fin quando la maestra trafelata

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entrò senza bussare. Aveva il viso adirato, e a lui parveancor più bella. La classe era in subbuglio e lei non riu-sciva a riprenderne il controllo. Gli chiedeva aiuto e luifu ben lieto di darglielo. Utilizzò tutta la propria autore-volezza per ricomporre l’ordine tra la marmaglia. E perevitare alla donna ulteriori tensioni che avrebbero potutometterla di cattivo umore e mandare all’aria il suo pro-getto, decise di rimanere in classe fino al suono dellacampanella di fine giornata. L’avrebbe poi invitata a bereun aperitivo. Un modo informale per fare il punto sullasua prima giornata e mettere le basi per un’amicizia chesperava duratura.

Fu allora che l’uomo dotato di parola gli rivelò di es-sere un Commissario di polizia e che la sera prima, nel-l’aula docenti, era stato rinvenuto il cadavere del maestroCapezzoli riverso sul pavimento in un lago di sangue conil cuore trafitto da un tagliacarte. La Scientifica vi avevarinvenuto le impronte della supplente.

La pista era quella dell’omicidio passionale, la sua do-veva essere la testimonianza decisiva, poiché era statol’ultimo a parlare con l’indiziata prima che uscisse dal-l’istituto.

La donna confessò di avere da tempo una relazionecon il Capezzoli, relazione che lui avrebbe voluto tron-care, ma lei si opponeva ostinatamente alla rottura e cer-cava in tutti i modi di ricucire lo strappo. Nel cellularedel cadavere erano stati rinvenuti messaggi della donnacon i quali lo supplicava di non abbandonarla.

Incalzata dalle domande, svelò di sentirsi impotentee stanca, stanca di una vita priva di amore e di serenità,

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sempre alla ricerca di qualcosa che alla fine non trovavamai. E’ vero non aveva più nulla da perdere e forse il suodestino era segnato, non potendo più immaginare unavita senza quell’uomo, ma non era stata lei ad ucciderlo.

La voce del Commissario era ora pacata, quasi per-cepisse l’affetto che lui provava per quella donna. Fu al-lora che lo lasciarono andare. Gli mancavano le forze equasi non riusciva ad alzarsi dalla maledetta sedia.

Gli sembrava di impazzire, tutto era dunque finitocon quella donna, o forse mai cominciato, se non nellasua fervida immaginazione. L’aveva persa per sempre.

Fuori dalla Questura, una notte senza stelle incom-beva sulla città. Sentiva un impellente bisogno di cam-minare e di respirare aria fresca, avrebbe raggiunto ilproprio appartamento a piedi. Durante l’interrogatorio,grazie alle lunghe notti trascorse a giocare a poker, dalsuo viso non trasparì alcuna emozione che lui non vo-lesse. La supplente l’aveva respinto e aveva lasciatol’istituto poco dopo il suono della campanella, comu-nicandogli che il suo cuore apparteneva già a Capez-zoli. Il Commissario aveva risolto rapidamente il casoe lui gli aveva dato una mano decisiva indossandoguanti di lattice, gli stessi che utilizzava per medicarele escoriazioni degli allievi più vivaci, prima d’impu-gnare il tagliacarte. Passo dopo passo, tornava ad essereuna formichina del grande formicaio che era la suacittà, una formichina insignificante di cui nessuno sisarebbe più curato. Con Capezzoli, era certo, si sareb-bero rivisti all’inferno.

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Concepimento mortaleFabiano Mancini

Il professore di matematica Igor Castellini avevapronto il solito trucco che metteva ormai in pratica

da anni di esperienza nell’insegnamento. Come da suosolito si accingeva a fornire informazioni fondamentaliai fini della riuscita dei test intermedi degli studenti, pro-prio durante gli ultimi istanti di lezione quando ormaipiù nessuno, o quasi, ascoltava perché già tutti pronti ascattare verso l’uscita dall’aula non appena la campanellaavrebbe suonato.

Igor Castellini insegnava matematica in quella scuolada ormai più di 20 anni ed era una vera e propria istitu-zione tra i colleghi docenti che ne ammiravano l’entu-siasmo nell’insegnare. Per Igor l’insegnamento eraun’arte; l’arte di trasmettere dei concetti a delle giovanie fresche menti che presto avrebbero a loro volta tra-smesso dei concetti alle generazioni future. Lo stessoidentico principio che i saggi delle tribù primitive usa-vano per tramandare le tradizioni ed usanze del propriopopolo alle giovani leve.

La mattina seguente Piero, il portinaio ultrasessan-tenne della scuola, come tutte le mattine da 38 anni aquesta parte, si stava accingendo ad aprire le porte dellascuola per accogliere gli studenti ed i professori per unanuova giornata quando si accorse che stranamente laporta non era chiusa a chiave.

–Molto insolito.– pensò Piero –Chissà perché Erica

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ha dimenticato di chiudere la porta, non succede mai.–Durante il suo solito giro di controllo mattutino,

Piero entrò nell’aula dei docenti e si lasciò scappare ungrido di terrore.

L’ispettore di polizia Tommaso Lurati capì subitoche non si trattava di un professionista, ma di qualcunoche aveva agito per vendetta. Un professionista nonavrebbe lasciato l’arma del delitto sulla scena del crimine;avrebbe perlomeno tentato di nasconderla.

Il professor Castellini venne colpito a morte con lasua stessa valigetta nella quale teneva i documenti e i testintermedi, che erano ora sparsi in tutta l’aula e ricopertidel sangue dello stesso Castellini, che probabilmente nontentò nemmeno di difendersi.

I segni sulla testa di Castellini facevano intuire chefosse stato colpito una prima volta alle spalle ed in se-guito ripetutamente sulla parte sinistra della testa e dellafaccia non appena si accasciò a terra. Secondo la scien-tifica Castellini era stato ucciso la sera prima.

L’ispettore Lurati notò nell’aula dei docenti, oltre alnormale materiale che vi si trova, una di quelle forcineper capelli di colore rosa che si usano per le bambine ese la mise in tasca dopo averla attentamente riposta inun sacchetto di plastica.

Enrico Delcò, studente all’ultimo anno, quella mat-tina fu ovviamente molto contento del fatto che unavolta arrivato a scuola tutti gli studenti vennero rispeditia casa, senza una spiegazione chiara, con l’invito di te-

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nere il telefonino acceso e di ripresentarsi il mattino se-guente per la ripresa delle lezioni. Ciò gli permetteva didedicare la giornata alla piccola Emilia, sua figlia di quasi3 anni che vedeva poco a causa delle intense giornate ascuola e le parecchie ore passate a studiare nei fine set-timana in vista degli esami scolastici finali.

Enrico fu meno contento quando ricevette una te-lefonata dalla polizia che lo invitava a recarsi in centraleper un interrogatorio.

Quando circa venti minuti più tardi arrivò in centraledi polizia con Emilia nel passeggino, venne invitato adaccomodarsi in una stanza piccola con due sedie ed untavolo e a consegnare sua figlia momentaneamente incustodia ad un’agente di polizia, la quale fu ben lieta delladistrazione che le permetteva di prendersi una pausadalla stesura di noiosissimi verbali.

L’ispettore Lurati fece attendere Enrico qualche mi-nuto e quando entrò nella stanza dove stava aspettandonon fece altro che gettare sul tavolo il sacchetto di pla-stica con la forcina rosa, identica a quella indossata pro-prio in quel momento da Emilia.

Quando Erica Barbarossa aprì la porta dell’apparta-mento dove viveva con i suoi genitori e si trovò davantidue poliziotti che la invitarono a salire sulla volante conlei, chiese con voce quasi isterica quale fosse il motivo eche lei non aveva fatto niente e che aveva da studiare.Alla fine dovette cedere e salire in auto con i due poli-ziotti che la portarono in centrale. Anche Erica era stu-dentessa all’ultimo anno e quindi piuttosto sotto

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pressione nonostante fosse molto brillante e la mediadelle sue note si avvicinava al 6. Dopo la fine della scuolasi sarebbe iscritta in una qualche facoltà di legge; sapevagià di voler diventare avvocato ed in seguito candidarsiper un posto di procuratore pubblico.

Ma i piani di Erica non si sarebbero mai avverati, eracertamente una brillante studentessa, ma una pessimabugiarda.

L’ispettore Lurati chiese:–Che cosa ci faceva ieri sera dopo le lezioni ancora

a scuola?––Finivo i lavori assegnatici dai docenti come faccio

ogni giorno dopo scuola.– rispose Erica.–Come fa ad uscire dall’istituto visto che il custode

chiude le porte ogni sera al termine delle ultime lezioni?––La direzione della scuola mi ha consegnato una

chiave per aprire e chiudere la porta principale visto chemi fermo spesso dopo la scuola, anche Piero lo sa.

–E perché questa mattina Piero ha trovato la portaaperta ma lei non c’era?– chiese nuovamente Lurati.

–Impossibile! Non dimentico mai di chiuderla, ostate insinuando che sono stata io a uccidere il professorCastellini?–

Nessuno fece trapelare la notizia che Castellini erastato ucciso. L’unico, oltre al custode ed alla direzionedella scuola, ad esserne informato era Enrico, interro-gato nella stanza accanto perché sul luogo del delitto erastata trovata una forcina rosa uguale a quelle che indossa

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sempre sua figlia Emilia.

Erica ammise di aver lasciato la forcina sul posto perdepistare le indagini e far incolpare Enrico; reo di avertradito Erica con la sua migliore amica. Un tradimentoche portò involontariamente al concepimento di Emi-lia.

Un concepimento, paradossalmente, mortale.

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Con un pugno di moscheTanja Rianda

Lo scenario che l’ispettore Bukota si trovò davantiagli occhi era macabro: il corpo squartato di una gio-

vane donna giaceva scomposto sopra un pianoforte acoda.

L’ispettore Bukota era stato chiamato dalla Direttricedella scuola, Mirela Solfado che da quasi vent’anni ge-stiva e finanziava l’istituto di musica per ragazzi talen-tuosi dove ordine e disciplina erano fondamentali.

L’ispettore era un poliziotto della vecchia guardia,non si fidava dell’elettronica, preferiva immedesimarsicon la scena del crimine imprimendosi mentalmenteogni singolo dettaglio. Il corpo della ragazza presentavadiverse ferite da taglio all’altezza dell’addome. Le viscereerano fuoriuscite e scendevano come un piccolo ruscelloverso il pavimento. Conficcato nel cuore c’era un ar-chetto di violino; ma ancora più agghiacciante era il sot-tofondo musicale: la “Sinfonia dei giocattoli” che con lesue note disperse nell’etere, faceva da sfondo invisibile.

Dopo aver preso qualche appunto lasciò la scena,voleva fare delle domande ai ragazzi della scuola che perl’occasione si erano riuniti nella caffetteria.

Una cinquantina di adolescenti vestiti di blu stavanoseduti in assoluto silenzio, tanto da sembrare bambo-lotti.

Venne a conoscenza che in quei giorni a scuola, sidisputava un concorso assai ambito di musica.

A contendersi la finale erano rimasti due concor-

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renti, Mélodie la ragazza uccisa e Mika. Mélodie avevadiciotto anni ed era la figlia segreta della Direttrice. Pic-colissima aveva cominciato a suonare il violino, stru-mento che sapeva armeggiare con un’eleganza fuori dalcomune. Non c’era nota che non uscisse perfetta dallequattro corde. A chi l’ascoltava regalava grandi emozioniche prendevano direttamente il cuore.

Mika anche lui diciottenne era orfano ma moltobravo col pianoforte. Se Mélodie era l’eleganza in per-sona, lui era l’esatto contrario: rude e impertinente. Maquando le sue dita si posavano sui tasti in avorio di unpianoforte a coda sembravano impazzire; correvano di-sordinate sulla tastiera ma l’effetto prodotto era una me-lodia lancinante che trafiggeva anche i cuori più duri.

L’ispettore decise di recarsi nelle camere dove i ra-gazzi dormivano. Cominciò dalla ragazza. Non condivi-deva la stanza con nessuno e tutto era perfettamente inordine. Chissà che rapporto aveva con la madre? Rovistòun po’ in giro e con grande sorpresa, nella custodia delsuo violino, trovò un libricino. Era convinto che i gio-vani scrivessero al computer i loro pensieri e non su undiario. Si sedette sul letto e cominciò a leggere. L’ultimapagina era del giorno prima.

… sono felice perché sono in finale ma anche tristeperché non so cosa fare. Devo parlare a mamma e dirledel bambino…

Quindi Mélodie era incinta, ma chi era il padre? Isuoi compagni l’avevano descritta come una ragazza in-troversa e timida. Però di sicuro si era confidata conqualcuno, e forse quella persona non aveva gradito?

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L’ispettore decise di dare un’occhiata anche alla ca-mera di Mika. Lì regnava il caos totale: vestiti e spartitiovunque, appesi alle pareti c’erano poster di Eminem eMozart, non certo due stili comparabili.

Sopra la scrivania c’era un vecchio dipinto incorni-ciato: raffigurava un pianoforte con delle note che usci-vano dalla cassa. Incuriosito l’ispettore lo tolse dallacornice e lo voltò, c’era una dedica: “con tutto l’amoreche posso”, mamma.

Quindi il ragazzo aveva un passato. Doveva parlarecon la Direttrice.

Andò a cercarla e la trovò seduta su un piccolo di-vano nel suo ufficio.

L’ispettore le si sedette accanto.“La stavo aspettando! Penso che dopo le sue indagini

abbia saputo che Mélodie era mia figlia. L’ho avutamolto giovane e subito è stata affidata ad una zia. Avevouna sorella gemella Solla, un talento del violino ma cheper un banale incidente ha perso una mano. Sotto pres-sione dei miei genitori ho dovuto fare carriera con il pia-noforte. Ma quello che io non sapevo era che Mélodieaveva un gemello alla nascita; me l’hanno nascosto! Ècresciuto con mia sorella e ha studiato pianoforte. Nonso che piano avesse mia sorella, ma il ragazzo è arrivatoqui alla scuola e non è stato difficile riconoscerlo. Final-mente la mia famiglia era di nuovo riunita ma tenni il se-greto per me. Poi ieri sera…Mélodie e Mika son venutida me. Pensavo volessero parlarmi della finale, invece…Mélodie mi disse che era incinta e che Mika era il padre.Mika?? Forse sono stata un po’ brutale, ma guardandoli

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entrambi negli occhi ho semplicemente detto loro chenon potevano continuare la loro storia perché…eranofratelli!

Se ne sono andati via scioccati ed arrabbiati con me.Capisce? Ho dovuto dirglielo, ma come mi giustificheròdavanti ai miei allievi? Loro non sanno nulla. Per loropiangerò un’allieva ma dentro me…una figlia, e Mika?Sono sicura che sia stato lui ad ammazzarla quando hasaputo la verità!” L’ispettore lasciò che si calmasse poidisse: “All’inizio avevo pensato anche io che l’omicidafosse il padre del bambino perché non desiderato, masono sicuro che Mika amava veramente Mélodie purignorando i fatti, in buona fede ha raccontato tutto a suasorella Solla.

Prima dell’incidente sua sorella era una violinista ditalento e suonava con un archetto costruito con un par-ticolare tipo di legno, il Piratinera Guianensis o più co-munemente chiamato legno ferro. È un legno che ainostri giorni non si usa più perché la fibra di carbonio oil pernambuco hanno preso il suo posto. Ebbene nelcuore di sua figlia infilzato c’era l’archetto di sua sorella.Questo è abbastanza per mandarla in prigione. È giàstata arrestata, non ha ancora confessato ma lo farà. Adogni musicista il suo archetto!! Il caso è chiuso! Le con-siglio di chiarirsi presto con suo figlio e in seguito con isuoi allievi se non vuole veramente ritrovarsi con unpugno di mosche!”

Si alzò, salutò e lasciò la stanza con un sorriso sor-nione stampato sulla faccia e canticchiando… la “Sin-fonia dei giocattoli”.

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Anatomia di un assassinoBrian Bernardi

“Erano trascorsi diversi semestri da quando la fa-coltà di medicina, Carl Maria, era entrata nel mi-

rino di ogni cronista della regione, da “L’ inno delpopolo” per arrivare a scadenti formati televisivi di cro-naca nera. Nessuna testata giornalistica si risparmiavaquello che, per molti, era considerato lo scoop più caldodegli ultimi decenni! L’efferato omicidio di una giovanelaureanda, privata oltre che dalla dignità anche dalla suastessa vita, avrebbe fatto grande scalpore mediatico neimolti mesi a venire.”

Rameau, ex detective crogiolato sulla sua poltronada diverso tempo, passava le sue giornate a scrivere ecancellare questo breve paragrafo. Erano ricordi che lotormentavano nel sonno e spesso si ritrovava a svegliarsinel cuore della notte, accendeva una Parisienne e ripren-deva a scrivere con la penna salda nella mano destra eun whiskey in quella sinistra.

Una delle tante sere, mentre il tempo impazzava, Ra-meau ebbe modo di trovare ispirazione, oltre che dalfondo della bottiglia, anche dalle testimonianze datedalle persone presenti in quel fatidico giorno. Prese unvecchio quaderno dal cassetto del comodino e iniziò ascrivere.

“…era una tetra giornata invernale, la neve si era po-sata da qualche giorno e i cieli non davano segni di ri-presa. Elisa, passando le delicate dita fra le ciocche deisuoi capelli; scrutava il bianco piazzale dell’istituto il

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quale, lentamente, riacquistava i suoi caratteristici coloriurbani. La ragazza, piano piano si smarriva nei suoi pen-sieri e la voce del professor Telemann non richiamavapiù la sua attenzione. Le enormi e malandate vetrate da-vano modo alla luce mattutina di penetrare ed inondarel’aula del professore filo–tedesco impegnato, come disua abitudine in un lento monologo. La soporifera le-zione fu interrotta da un’agghiacciante urlo, il quale rie-cheggiò nei corridoi dell’ottocentesca struttura edisarcionò l’insegnante di anatomia dalla sua sedia.

In men che non si dica, le porte usurate da anni dionesto servizio iniziarono a scricchiolare freneticamentee i lussuosi pavimenti in marmo rimbombarono per ipassi del corpo studentesco al pian terreno fino al quartopiano della struttura universitaria. Elisa, venne strappatadalla sua catalessi interiore e, con uno scatto felino, af-ferrò borsa e cappotto. Prontamente iniziò a seguire laclasse che già si era diretta verso l’aula magna, luogo dacui era giunto quell’urlo terrificante. Affianco all’immensaporta in legno massiccio, si trovava seduta la rettrice, inevidente stato di choc. “Chissà quale brutto scherzo leavranno fatto i ragazzi per ridurla così”, disse Elisa, men-tre dalla sua borsa tirava fuori un taccuino e una penna.La giovane, giornalista della testata universitaria, si aspet-tava di vedere l’ennesima burla di qualche buontemponema, quando riuscì con fatica a varcare la porta della sala,si ritrovò dinanzi uno scenario già vissuto dal Carl Mariatre anni prima. Fece giusto in tempo a memorizzare lascena e a scrivere qualche riga prima che il custode del-l’infrastruttura la trascinasse di peso fuori dall’aula.

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Non ci volle molto prima che la polizia giungesseper indagare e, nel mentre, Elisa aveva già iniziato a scri-vere di come una giovane donna, ancora sconosciuta,fosse stata trovata priva dei vestiti mentre galleggiava inuna pozza di sangue. Per qualche giorno tutti i corsi ven-nero annullati, ma lei, motivata nel voler riportare all’an-tica gloria il giornale universitario, non abbandonò il suopiccolo ufficio, situato nei dormitori dell’ala ovest. Ilcaffè liscio era diventato il suo fido compagno notturnoed il bagliore della luna le infondeva ispirazione, mentreammirava il viale scarsamente illuminato che conducevanel boschetto limitrofo. Pubblicato finalmente l’articolo,passarono diversi giorni in cui ci fu un andirivieni di de-tective, peggio di locuste in un campo di grano, i qualispolpavano ogni metro quadro della struttura. Unaprova bislacca e neanche tanto convincente venne rin-venuta e un giovane ragazzo, del secondo anno, fu trattoin arresto. La stampa specializzata, di canto suo, esultavae a gran voce archiviava l’evento come un probabile omi-cidio passionale.

Giorni dopo, una giovane laureanda era stata ritro-vata appesa per il collo al soffitto della sua camera. Nellasua mano destra stringeva un articolo di giornale maipubblicato, dove dichiarava come l’atroce omicidio eraavvenuto per mano sua…”

Rameau si fermò quando un tuono distolse la sua at-tenzione dal racconto, posò la penna, stracciò le ultimepagine del suo manoscritto, si riaccese una sigaretta e ri-prese a scrivere.

“Erano trascorsi diversi semestri da quando la fa-

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coltà di medicina, Carl Maria, era entrata nel mirino diogni cronista della regione. Elisa, giovane laureanda erastata privata della dignità e della vita da un assassino ce-lato fra le persone. È stata trasformata e colpevolizzatain mostro, quando il vero mostro si celava fra i suoi com-pagni di studi, i quali l’hanno assassinata con una dellearmi più dolorose per un giovane: Il bullismo.”

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Tutti pazzi per ValérieFilippo Bellini

Quando Vincent arrivò davanti all’entrata principaledel liceo “Millefiori” era fin troppo tardi. La polizia

era già arrivata sul luogo del crimine e aveva subito re-cintato la zona del delitto con un lungo striscione di co-lore arancio per evitare l’intromissione di qualche allievoo docente della scuola. L’atrio del liceo è un freneticovia vai di alunni e docenti lacrimanti e spaventati. Sul pa-vimento giace il corpo di una donna con i vestiti strap-pati e zeppi di sangue. La recinzione della poliziaimpedisce ai non autorizzati di varcare la soglia dellamorte. Vincent si ferma ad osservare quel pallido corposenza vita. È Valérie, la segretaria della scuola. Gli occhigli schizzano fuori dalle orbita, le mani gli balzano tra icapelli e la bocca si spalanca come alla vista di un fanta-sma. Può ancora sentire il suo odore sulle mani, il suorespiro affannoso sul collo e il sapore delle sue labbra.Da tempo ormai Vincent e Valérie si frequentavano se-gretamente, perché lei era la segretaria della scuola e que-sta relazione avrebbe potuto compromettere il suolavoro. Ma soprattutto perchè Valérie aveva un fidanzatoche l’aspettava a casa ogni sera.

La notte scorsa lei e Vincent si trovavano all’internodell’ufficio del rettore della scuola. Valérie era in pos-sesso di una copia delle chiavi, e quando i suoi impulsisessuali svegliavano il suo animo seducente e selvaggio,ci si recava in compagnia di Vincent. Solo qualche oraprima i due amanti stavano facendo l’amore sulla scri-

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vania del rettore, e ora di lei non rimane altro che sangue,dolore e mistero. Il ragazzo non ha idea di cosa possaessere successo. Cerca di pensare ad un motivo e ad unapossibile causa a questo tragico omicidio, ma nella suamente soccombe il vuoto. Le lezioni vengono sospese,gli alunni e i docenti tornano a casa sconvolti, mentre lapolizia indaga sulla scena del crimine. Vincent abban-dona l’istituto, cammina solitario, non vuole parlare connessuno, la sua mente viaggia a mille all’ora ma senzauna precisa meta. C’è solo il vuoto.

Il rettore della scuola, un uomo robusto dai linea-menti marcati, i capelli folti e lunghi e un sorriso scaltrostampato sul viso, viene avvertito dalla polizia intornoalle ore 18.20 di una notizia estremamente importante:è stata trovata una lettera d’amore anonima nel cassettodella scrivania della segretaria. Il rettore termina al volodi bere l’ennesimo bicchiere di whisky della giornata esi reca immediatamente da casa sua al liceo “Millefiori”

“Dunque quello che mi ha appena detto è tuttoquello che sa riguardo alla signorina Rossi?” Chiede unagente di polizia.

Il rettore mantiene lo sguardo rivolto sulla lettera cheha tra le mani, mentre l’agente di polizia che sta in piedidi fronte a lui attende una risposta.

“Signor Lorenzi? Ha capito la mia domanda?”Il rettore alza lo sguardo, sorride maliziosamente e

consegna la lettera nelle mani dell’agente di polizia.“Non ho propria idea di chi abbia potuto scrivere

questa lettera, agente. E riguardo la signorina Rossi leho già detto tutto quello che so. Mi dispiace.”

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I due si stringono la mano e il rettore esce dallastanza stringendo forte i pugni, pensando alla sua pros-sima mossa.

Ore 22.15. La notte è calata sulla città. Vincent sitrova nuovamente davanti all’entrata principale dellascuola. Il cuore batte all’impazzata, il respiro si fa semprepiù affannoso ad ogni secondo che passa. Il rettore l’hachiamato a casa un paio d’ore fa per chiedergli di rag-giungerlo dopo le ore 22 nel suo ufficio a scuola. Il tonodella sua voce era calmo e rassicurante, forse perché habisogno solo di qualche informazione da parte sua sulcaso. Ma come mai proprio Vincent? Nessuno è al cor-rente della relazione amorosa che aveva con Valérie.Come potrebbe mai aiutarlo?

Il custode della scuola gli apre la porta d’ingresso,scrutandolo malamente dal capo ai piedi. La polizia haabbandonato l’edificio. Nella scuola rimangono soltantolui, il custode e il rettore. Vincent attraversa il corridoiofino ad arrivare all’ufficio del signor Lorenzi. La porta èsocchiusa. Fa un profondo respiro ed entra nella stanza.

“Grazie per avermi raggiunto con così poco preav-viso, Vincent. Prego, siediti pure.” Esordisce il rettore.

Vincent nota subito le guance rosse del rettore acausa dell’abuso di alcol, i capelli scomposti e la cravattain disordine. Sicuramente sa qualcosa che non avrebbevoluto scoprire.

“Per quanti anni ti ho avuto come mio alunno, Vin-cent?”

“Se non sbaglio per tre anni.” Risponde Vincent ti-moroso dell’ambiguità della domanda.

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“Bravo. Te lo ricordi bene. Perché io di te ricordo lapeggior calligrafia che abbia mai visto, e cosa più impor-tante, il tuo ricorrente errore nel dimenticare di metterel’apostrofo nelle tue frasi. Ad ogni esperimento scrittoti facevo notare questo errore, ma tu m’ignoravi. Anchequesto te lo ricordi?” Chiede il rettore alzando il tonodella voce.

Certo, me lo ricordo. Ora sono migliorato però, ret-tore. Ma perché mi fa questa domanda?”

“Oltre che un gran bastardo, sei pure un bugiardo!”Recita con disprezzo guardando Vincent con i suoi occhicolor sangue.

Estrae velocemente dal cassetto della sua scrivaniauna pistola, la punta verso Vincent e preme il grilletto.Due colpi alla fronte e uno al petto.

La dinamica dell’omicidio fu chiara e la polizia im-piegò solo un paio di giorni per arrestare l’assassino. Siscoprì in seguito all’arresto che Valérie era l’amante delrettor Lorenzi, ma nessuno lo sapeva, poiché egli ha mo-glie e figli. Tuttavia il caso di Valérie Rossi fu archiviatodefinitivamente a causa d’insufficienza di prove. Eppurequalcuno di molto vicino al liceo “Millefiori” deve averarchitettato bene il suo piano di morte. L’unico signoreche è sempre presente nella scuola, giorno e notte. Un’al-tra vittima della pazzia d’amore per Valérie. L’unico chel’ha fatta franca.

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Giallo all’accademiaNicola Finke e Bruno Bera

In quel freddo mattino nebbioso, era il 6 ottobre del1979, all´accademia dell´Esercito della Repubblica

Democratica Tedesca di Dresda, il cadavere del rettore,il Maggiore Generale Wilhem Unterbezahlt, giaceva sullapiazza d´armi. La sera prima c´erano state le prove ge-nerali per il festeggiamento dei trent´anni della RDT, maqualcosa era andato storto. Quando Unterbezahlt avevaazionato il cannone, come segnale per la partenzadell´inno nazionale, la bocca da fuoco era esplosa la-sciando esanime il povero Generale. Appena accadutala tragedia, la Polizia (Volkspolizei) aveva verificato cheil cannone era stato ostruito da uno straccio imbevutod´ammoniaca; chiaramente si trattava di un omicidio.Dal momento che Unterbezahlt era un alto graduatodell´Esercito, l´indagine era stata affidata alla STASI (lapolizia segreta) .

Il Colonnello della STASI Ernst Hoffmann arrivòall´accademia in bicicletta. Hoffmann era vestito con unavecchia divisa completa di cappello da ufficiale. Quandoraggiunse la piazza d´armi si mise ad ispezionare il ca-davere, in quel momento gli si avvicinò il Commissariodi Polizia Adolf Hürlimann e gli disse:

–Ha visto Colonnello, i nemici del popolo hannocolpito ancora!E tutto ciò è colpa vostra! È inaccettabileche certi valorosi compagni non godano della prote-zione che gli è dovuta da parte vostra, voi che siete laPolizia politica!–

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–Non si scaldi Hürlimann!– disse il Colonnello. –Questo non è un omicidio politico!–

Ed estrasse dalla canna del cannone un nastrinoarancione e nero, per mostrarlo al Commissario:

–Chiunque sia l´attentatore, ha combattuto nella re-sistenza ed ha aiutato l´Armata Rossa, questo che ho trale mie mani è un lembo del nastro d´onorificenza dellaGrande Guerra Patriottica, è una decorazione Sovietica!Si tratta dunque di un militare!

–In quel momento, dietro di loro, si fece largo l´an-ziano vice–direttore dell´Accademia, il Tenente Colon-nello Rudolf Löwenheld, figura di spessore dell´Esercitoe fondatore dell´Istituto, che disse:

–Colonnello Hoffmann, glielo dico io, quello non èun nastro Sovietico, è piuttosto uno scampolo di qualchecamicia!–

Ed Hürlimann intervenne:–Se lo dice il compagno Löwenheld, io ci credo!– –Compagni, io ho bisogno di ragionarci sopra!– Ed Hoffmann se ne andó senza salutare. Il giorno dopo il Colonnello della STASI si recó dal

vecchio Löwenheld, nella sua residenza nell´Accademia.Hoffmann bussó alla porta e disse:

–Buongiorno compagno!––Salve colonnello Hoffmann!– ribatté Löwenheld.–Sono qui per farle qualche domanda sull´Accade-

mia! ––Entri pure, si sieda al tavolo in salotto!–Hoffmann entró e si sedette cominciando a guar-

darsi intorno; il televisore era sintonizzato sul discorso

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del Presidente del Consiglio di Stato, Erich Honecker,che divulgava da Alexanderplatz, in centro a Berlino, ilsuo messaggio per i festeggiamenti dei trent´anni dellaRDT, in occasione della festa nazionale del 7 ottobre.

– Colonnello, vuole una birra?!?– Chiese Löwenheld. – Grazie, molto gentile!– Ringrazió Hoffmann.Mentre il Tenente Colonnello andó a prendere la

birre, l´ufficiale della STASI individuó ció che cercava:un bidone d´ammoniaca da cinque litri, nascosto dietroal divano ed un nastro arancione e nero abbastanza ro-vinato, posto sul caminetto accanto ad una medaglia So-vietica. Quando Löwenheld arrivò, i due cominciaronoa bere e a parlare della vittima. Dopo dieci minuti Hoff-mann se ne andó, diretto al commissariato. Arrivato daHürlimann spiegò l´esito delle sue ricerche: Löwenheldaveva ucciso il suo superiore poiché volela prendere ilsuo posto. All´inizio il Commissario di Polizia non cre-deva alla tesi di Hoffmann, ma quest´ultimo gli mostròdei documenti che dimostravano che Löwenheld, seb-bene fosse uno dei fondatori dell ´Accademia, era statoscartato piú volte dal posto di Rettore per opportunismoed infedeltà alla causa, ma ora figurava come sostitutonel caso che Unterbezahlt fosse inabile al lavoro. A quelpunto anche Hürlimann si convinse ed andó assieme alColonnello della STASI e ad una pattuglia di polizia,dall´assassino.

Quando Löwenheld aprí la porta e si trovó davantilo schieramento, capí di essere stato scoperto.

Hoffmann disse:–La dichiaro in arresto, compagno Tenente Colon-

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nello, per l´omicidio del Maggiore Generale Wilhem Un-terbezahlt!–

Con uno scatto fulmineo Löwenheld si rinchiuse inbagno, dove ingoiò una pastiglia di cianuro, prima di tra-scinarsi alla finestra dalla quale si buttó sulla piazzad´Armi, luogo dove il giorno prima aveva compiuto ildelitto.

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Era un bravo ragazzoGiuseppe Mimmo

Non aveva mai pianto così tanto in vita sua. Gli ba-starono pochi attimi per imparare a familiarizzare

con il gusto amaro della sofferenza e a danzare sullecupe note del dolore. Chissà quante volte aveva scher-zato con la morte: aveva goduto nell’infliggerla smanet-tando con il suo joystick in uno dei tanti videogiochi diguerra o di mafia che riempivano le mensole della suastanzetta; aveva imparato a sbeffeggiarla, prendendosigioco di quei poveri cristi – di cui tanto parlano i giornali– che avevano abbandonato il palcoscenico della vita inmodo paradossalmente comico. Con suo grande sgo-mento, scoprì presto che la morte aveva pronta l’occa-sione di esigere da lui il dovuto rispetto. Non aveva maiprovato una particolare simpatia verso il Bernini, il bo-rioso compagno di classe che sapeva come rubargli lascena; ma il vederlo lì a terra, immerso in una pozza disangue e vetri rotti, aveva terribilmente mutato il conte-nuto dei suoi sogni notturni.

Da ormai tre giorni l’edificio della scuola era statorecintato e trasformato in scena del delitto, precludendoil normale svolgimento delle lezioni. L’ispettore Poretti,coadiuvato dal pool di esperti della Scientifica, si attivòsin da subito alla ricerca di indizi che potessero aiutarloa risolvere quel complicato enigma. Chissà quantoavrebbe desiderato trovare qualche traccia di colpevo-lezza che lo conducesse dritto al Preside della scuola: lasua continua ingerenza nello svolgimento delle indagini

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aveva reso alquanto indigesta la sua presenza sul luogodel misfatto.

“Avete scoperto qualcosa? Posso esservi d’aiuto? Sa-pete, ho tutto l’interesse affinché questa faccenda si con-cluda il più presto possibile e con la cattura di quelfarabutto”

“Stiamo facendo il possibile, lei non si preoccupi.Perché non torna a casa dai suoi cari e si riposa un at-timo? Le prometto che la terrò aggiornata”.

“Lei non si preoccupi per me. Voglio essere presentequando prenderete quel farabutto”.

Il detective iniziò a odiare il suono della parola ‘fa-rabutto’ che usciva dalle sue carnose labbra e giurò a séstesso che alla prima occasione buona gli avrebbe strap-pato la lingua con la forza.

In realtà non c’era ancora una lista di indiziati perl’omicidio dello sfortunato quattordicenne seppureun’ombra di sospetto pendeva sulla testa del bidello, ilsignor Tacchini, un uomo piuttosto virulento, che piùvolte aveva minacciato di impartire lezioni corporali aitipacci strafottenti che lo deridevano per la sua enormepancia. Ma chi lo conosceva bene lo descriveva come unuomo severo ma affettuoso, incapace persino di distur-bare il sonno di una mosca. E poi era certo di avere unalibi di ferro: nel lasso di tempo in cui l’omicidio venivaconsumato stava discutendo animatamente di calcio conil professore di scienze e –sempre a suo dire– almenoaltri tre docenti erano pronti a testimoniarlo.

Il detective Poretti si convinse che l’unico modo persbrogliare la situazione fosse quella di interrogare sin-

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golarmente i compagni di classe della vittima, alla ricercadi un qualcosa che potesse sbloccare le indagini. Nonche fosse un’idea geniale quella! Qualsiasi detective chesi rispetti avrebbe fatto lo stesso. Avrebbe DOVUTOfare lo stesso.

La girandola di paure e confessioni ebbe inizio in-torno alle nove di un afoso martedì di fine marzo. Quellache pareva essere più una riunione dei genitori di finesemestre che un momento di attesa prima della proces-sione dei testimoni si trasformò ben presto in un’occa-sione di rivolta delle autorità parentali contro leistituzioni e contro il sistema:

“Trattano i nostri bambini come se fossero dei cri-minali” urlò senza remore il padre del mite Bernasconi.

“Ma la colpa è di quel buzzurro del Tacchini, misembra ovvio!” rincarò la dose la sanguigna signora To-netto.

L’ispettore Poretti riportò la calma tra i presenti conla sola presenza fisica. La maestosa mascella e le callosemani, solide come rocce, avrebbero intimorito persinoil Jack LaMotta dei tempi migliori. Seguendo il consuetoordine alfabetico, nel giro di un paio d’ore si esaurì quasidel tutto il valzer delle testimonianze. Lettera V, VincenziStefano. L’ultimo della lista. Il giovane, tenendo la manodestra in una tasca quasi a voler nascondere il leggerotremolio che non accennava a lasciarlo in pace, entròcon passo felpato nella stanza delle torture (o perlomenoè così che lui la immaginava). Timido, quasi impacciato,si sedette sulla sedia così maldestramente da rischiare ungoffo capitombolo. Anche per lui la classica domanda:

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“Puoi dirci qualcosa che potrebbe aiutarci con le inda-gini?”. Su sedici ragazzi, ben quindici avevano già rispo-sto con un vago “non so, non credo, Bernini era unbravo ragazzo”. Ma al sedicesimo tentativo la rispostamutò: “Si, certo!”.

Il detective sgranò gli occhi, non aspettandosi un epi-logo simile, poi lo invitò ad essere più preciso. “E’ statoil signor Tacchini. Ero lì con Marco quando lo ha aggre-dito con un coltello da cucina ed ha ferito anche me aduna mano. Avevo paura a dirlo prima, il signor Tacchiniè così cattivo”. Allora tolse la sua mano destra dalla tascae la mostrò al suo interlocutore, scioccato dalla tremendascoperta. Dopo aver spiegato le dinamiche dell’incidenteil ragazzo venne congedato; il cielo sembrava finalmenteschiarirsi.

Con la stanchezza dipinta sul volto, Stefano rientròa casa poco dopo le quindici. Sua madre, avvisata deifatti dal marito, gli corse incontro e gli buttò le bracciaal collo bloccandogli per un attimo il respiro. Poi si di-resse silenziosamente verso la cucina.

Nonostante quella coraggiosa deposizione Stefanonon riusciva a godere della meritata dose di tranquillità.D’altronde, come poteva? Finché l’arma del delittoavrebbe continuato a giacere in mezzo a quel mucchioselvaggio di videogiochi di guerra e di mafia la partitanon poteva ancora considerarsi conclusa. “E’ stato il si-gnor Tacchini”, sussurrò a bassa voce mentre una la-crima franava sul suo sorriso ancora carico di odio…

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Giallo gelosiadi Maria Spadea

Ero a lezione di educazione fisica. Il professore miordinò di andare a prendere nel ripostiglio degli at-

trezzi un pallone per giocare a pallacanestro. Quandoentrai vidi qualcosa di insolito; era tutto a soqquadro.Pensai a come fosse successo, ebbi una traumatica sor-presa: vidi steso sul pavimento di resina color betoncino,il corpo di Jennifer. In quell’istante il cuore fece un salto,i brividi salirono freddi dalle mani e dai piedi paralizzan-domi per alcuni secondi. Un urlo acutissimo uscì esitantedopo essere rimasto bloccato in gola. Tutti i miei com-pagni compreso il docente corsero verso l’angusta stanzain cui ero, dopo avere sentito quel grido di paura e or-rore. Rimasero tutti muti, come se avessero perso lavoce, era la loro espressione a parlare. Era viva, fu tra-sportata in infermeria.

Rinvenne dopo circa un’ora, i suoi genitori eranostati chiamati dalla direttrice e corsero a scuola. Subitol’intera scuola era venuta a sapere dell’accaduto, anchese non si sapeva chi, come, quando e perché mise Jennynello sgabuzzino in quello stato. I genitori e la direttricele chiesero cosa era successo: disse il mio nome: Maria.Ero una ragazza semplice ma particolare allo stessotempo. Mi convocarono in direzione, appena entrai i ge-nitori di Jenny mi fulminarono con lo sguardo. La diret-trice mi invitò a sedermi, cominciò a camminare avantie indietro. Senza fermarsi mi disse che Jenny aveva par-lato. Io le chiesi di cosa avessero discusso. Mi accusò di

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averle dato una botta in testa, di averle fatto un iniezionedi sonnifero e di averla poi trascinata nello sgabuzzinola sera prima a causa di una lite. Dissi di non aver fattonulla di simile, non mi credettero. Chiamarono i miei ge-nitori, li avvisarono e raccontarono loro l’apparente ver-sione dei fatti, i miei erano sbigottiti, chiesero ilpermesso di portarmi a casa, ma fu loro negato.

Arrabbiata e preoccupata tornai in classe aspettandola fine della lezione pensando a cosa fare. Sarei corsa acasa per spiegare le cose ai miei genitori, ma prima do-vevo fare una chiacchieratina con Jenny e capire perchéaveva fatto il mio nome, siccome martedì sera ero almare a nuotare. La vidi, ma non potei avvicinarmi per-ché c’erano i suoi genitori. Corsi a casa più in fretta pos-sibile, quando entrai in casa c’era un silenzio tombale.Chiamai i miei genitori e gli spiegai la mia versione deifatti. Mi credettero, mi diedero fiducia, consigliarono dinon parlare da sola con Jenny perché sarebbe potutosembrare che la minacciassi. Ero triste perché io e leieravamo migliori amiche e condividevamo parecchiepassioni. Adoravamo andare a cavallo sulle colline, usci-vamo spesso con gli amici e ci raccontavamo tutto. Era-vamo entrambe fidanzate, da tre mesi Jenny stavainsieme al mio migliore amico, Emanuele. Andavamo inclasse assieme fin dall’asilo. Io invece ero assieme ad An-drea. Noi eravamo assieme solo da due settimane.

Il giorno dopo, a scuola, andai da Jenny, non seguivomai i consigli dei miei. Era triste, le chiesi perché avevadetto quelle cose, ma mi rispose solo “mi dispiace”. Lasostenevano tutti, notai che una ragazza in particolare

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stava vicino a Jenny come per controllarla, si chiamavaStefania, non era molto simpatica ed era parecchio vol-gare. Tutti, compresa lei, mi guardavano dalla testa aipiedi e viceversa pensando fossi stata io, l’ unico che micredeva era Andrea. Al pomeriggio lo salutai e andai acasa mentre lui si fermava con gli amici per andare a gio-care a calcio. Mi girai per guardarlo un ultima volta e vidiche Stefi gli stava parlando gesticolando esageratamente.Mi girai cercando di fare finta di niente. Andai a casa conassoluta calma.

Di colpo mi venne in mente una possibile versionedei fatti: Jennifer non avrebbe mai voluto che finissi neiguai o stessi male e sapeva che non ero stata io a farledel male, doveva sicuramente essere stata costretta dachi l’aveva rinchiusa. Doveva essere stata una femminaperché nessun maschio avrebbe avuto un motivo, pensaia una ragazza gelosa del rapporto tra Jenny ed Ema-nuele. Ma ciò non spiegava perché aveva detto il mionome, così pensai che indirettamente sarebbe potuta es-sere una pianificazione contro di me. Dunque Jenny erastata ricattata… ma da chi? Non ne avevo idea. Di nottepensai a Stefania ed ad Andrea, su cosa avevano potutoparlare.

La mattina seguente andai da lui e gli chiesi di cheavevano discusso, mi disse che gli aveva fatto una sortadi ramanzina sul fatto che doveva lasciarmi per quelloche “avevo fatto” a Jenny. Le aveva risposto di andarseneda un altra parte a dire quelle stupidaggini perché nonl’avrebbe ascoltata. Mi raccontò che Stefi se ne era an-data come se a quelle parole le fosse venuto un tic da

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schizofrenia. Mi venne un sospetto… andai da Jenny. Lechiesi se Stefania la ricattava, annui, scoppiò in lacrime.Mi raccontò che l’aveva minacciata di dire ai suoi geni-tori che non veniva a dormire da me, ma che invece an-dava a casa di Emanuele, che avrebbe detto alla direttriceche era stata lei a pitturare le porte del bagno e cheavrebbe detto ad Ema che lo tradiva, anche se tutto ciòera falso. Jenny spaventata aveva ceduto per paura di per-dere i suoi genitori e il suo ragazzo ed essere magariespulsa.

Infuriata andai da Stefania, la trovai in pochi secondi,la spinsi sempre più indietro fin che non andò a sbatterecontro un muro, le gridai quello che mi aveva dettoJenny, negò. Insistetti minacciando di picchiarla, negòancora, alzai la mano per tirarle una schiaffo e mi sup-plico di non farlo. Restai in bilico e le gridai di confes-sare. Piangendo mi raccontò come aveva fatto e perché;era gelosa del rapporto che c’era tra me ed il mio fidan-zato, provava qualcosa per Andrea da quando lo avevaconosciuto. Rimasi dispiaciuta… la abbracciai, senten-domi la causa di tutta la vicenda.

Tutto si chiarì, Stefi non venne espulsa perché ormail’anno era finito, si mise con Andrea, già… ci lasciammo,non era destino che stessimo assieme.

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Dio salvi la reginaNicola Quadri

ABuckingham Palace tutto sembrava normale. La re-gina si svegliò di buon’ora, come di sua consuetu-

dine; fece un’abbondante colazione. Poi, prima diiniziare a lavorare, si concesse un bel bagno caldo, o cosìcredette.

Intanto, una classe universitaria stava per visitareproprio quel palazzo. Dopo cinque minuti di visita ungiovane si assentò per circa un quarto d’ora.

Ecco che ora la regina si stava immergendo nellavasca reale (come faceva ogni mattina sempre allo stessoorario) che era riempita per metà da acqua calda. Ilbagno era una delle cose che lei preferiva fare durantetutta la giornata. Ad un certo punto cominciò ad avver-tire dolori atroci e lancinanti lungo tutta la superficie cor-porea.

Lo studente, intanto, aveva appena introdotto unasoluzione di acido cloridrico (HCl) e acido fluoro anti-monico (HF6Sb) nei tubi idrici che portavano diretta-mente nel bagno della regina; salì le sfarzose scale epugnalò il suo complice, che lo aspettava dato che erauna guardia del palazzo e gli aveva dato le informazioninecessarie per uccidere la regina e le chiavi del locale tec-nico. Si vestì con gli indumenti del defunto complice edentrò nel bagno della regina Elisabetta II ormai corrosaviva dalla mortale soluzione, ne prese la testa, che eral’unica cosa rimasta del corpo e la mise nel suo zaino.Per eliminare le tracce del aiutante morto lo buttò nella

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soluzione della vasca. Tornò e rimise i vestiti della exguardia e tornò veloce come la luce dalla comitiva dovenessuno si accorse della sua assenza.

Il giorno seguente il giovane killer entrò nelle doccedella palestra dell’università di Oxford e vi appese la testadella regina con un amo da pesca. Subito dopo si diresseverso il bosco adiacente alla scuola e arse lo zaino. Tornòalle lezioni con la sua classe. Quando rincasò lesse il gior-nale e vide la notizia che aveva creato stupore, incredulitàe soprattutto sconcerto tra la gente che si chiedeva comepotesse essere possibile violare l’autorità della regina edi Buckingham Palace. Quella informazione aveva ormaifatto il giro del globo e tutti i telegiornali ne parlavano.

L’omicida aveva capelli corti e biondi, occhi azzur-rissimi come il cielo e ottimi voti a scuola.

Era uno studente non molto alto, e aveva una cor-poratura snellissima. Non faceva quasi mai sport, eccettoche nelle ore scolastiche di ginnastica. In quel periodone faceva ancora di meno perché si era rotto solo unmese prima la gamba destra, e aveva tolto il gesso dasolo due giorni, quindi zoppicava ancora. Lui fumavamolto, e passava quasi tutta la sua giornata a studiare,anche fino alle tarde ore della notte, con una thermos dicaffè che lo aiutava a restare sveglio.

La polizia trovò sulla scena del delitto i due barattolidi acido, ma non trovò nessuna impronta digitale. I duebarattoli appartenevano all’università di Oxford, datoche il commercio di sostanze chimiche pericolose eracontrollato dalla polizia, marchiando ogni sostanza con

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un’incisione al laser con impresso un numero che corri-spondeva al destinatario.

Era quasi arrivata la fine della primavera e quindipioveva abbastanza spesso; anche se la pioggia era alter-nata da momenti di tempo sereno, comunque sia il ter-reno rimaneva sempre umido e bagnato e le improntelasciate da suole di scarpe rimanevano nel terreno. Eccoperché la polizia che aveva trovato nel palazzo improntecomposte da terra lasciate da una persona che zoppicava,fece dei controlli fra gli studenti di Oxford che consiste-vano nel osservare la lunghezza e il tipo di passo di ognistudente o professore.

Quando doveva essere il turno dell’omicida unagente trovò la testa della regina durante la sua ispezionedella palestra che era rimasta chiusa tutta la mattina equindi tutti gli sbirri si diressero a vedere la raccapric-ciante scena dimenticandosi di controllare il passo del-l’omicida. La palestra era grande, come d’altronde eratutto l’edificio, e aveva pavimenti di colore blu compostida una specie di gomma che sembrava mollica di pane.Nella scuola c’erano circa tre dozzine di aule, adibite allamateria che doveva essere insegnata.

La polizia controllò anche le abitazioni del campusin cerca di sigarette Milit (sigarette fumate nella secondaguerra mondiale e prodotte in Italia) che era stato tro-vato nel locale tecnico del palazzo reale.

Quando stavano avvenendo le perquisizioni alle casedegli studenti essi erano ancora in classe. Le casette delcampus avevano tutte stesse fondamenta e scheletro che

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comprendeva struttura dei muri esterni e portanti,e lefinstre si affacciavano tutte sullo stesso panorama. Il pa-norama era caratterizzato da un bosco composto preva-lentemente da conifere tra cui pini e abeti. In mezzo allaveduta si vedeva l’imponente edificio universitario, checontinuava alla sinistra con giardini e aiuole fiorite di tuttii colori. In lontananza si scorgeva la città di Oxford chepossedeva numerosi palazzi tra cui anche qualche grat-tacielo.

Nell’abitazione del killer erano presenti, nascostedietro un mobiletto dei pacchetti di sigarette Milit, chesuo nonno possedeva dato che aveva combattuto la se-conda guerra mondiale e aveva partecipato a qualchebattaglia proprio in Italia, dove si era procurato i tabac-chi. All’omicida, quindi, restava solo una soluzione: scap-pare. Perciò scappò a Londra immedesimandosi nelpersonaggio del suo complice. Tutto filò liscio per unasettimana fino a che il nipote della regina notò unostrano e sospettoso passo zoppicante. Fu per questomotivo che il principe assunse un investigatore privatoche avrebbe avuto il compito di pedinare e controllarele abitudini del giovane.

Infatti scoprì delle Milit.L’omicida si rese conto che il telegiornale lo cercava,

dunque preparò i bagagli per scappare all’ estero. Pro-prio quando stava per aprire la porta di casa trovò ventiagenti circondati dalla stampa che stavano per sfondarela porta. Alla polizia che stava per aprire la porta aspet-tava uno spettacolo osceno, infatti il giovane immerse lasua testa in un catino pieno della soluzione di acido già

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usata da lui per l’omicidio della regina e spirò. Si suicidòperché non aveva intenzione di passare la sua vita in unagabbia. Infondo l’idea dell’omicidio non fu poi così in-telligente, anche se odiava la monarchia inglese e cosìtanti soldi che essa prendeva.

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Noir a scuolaSamuel Morelli

Negli spogliatoi del liceo Vans la porta era semprechiusa a chiave dopo le 16.30, ma quel giorno era

accostata e fu Lory Harrison (allieva della 4d) che eratornata per prendere la borsetta che aveva dimenticatoa vedere un fascio di luce che filtrava dall’ingresso; pensòche era stata fortunata ad aver trovato la porta aperta maquando entrò vide la sua amica Sarah distesa a terra cir-condata da un’ enorme pozza di sangue che sgorgavadal capo. La ragazza terrorizzata corse a chiamare qual-cuno, arrivò alla direzione in lacrime e il direttore lechiese cosa fosse successo ma la ragazza stentava a par-lare e riuscì solo a balbettare qualche parola confusa; ildirettore non avendo capito, le chiese di ripetere benequello che aveva detto e lei più convinta ripeté:

– Sarah è priva di sensi nello spogliatoio –.Il direttore corse subito in palestra ma quando arrivò

la ragazza non era solo priva di sensi ma per lei ormainon c’era più nulla da fare.

Chiamarono l’ambulanza, la polizia e la madre dellagiovane e dieci minuti dopo erano tutti presenti. La madredi Sarah Teresa, non si dava pace e seguì l’ambulanza chestava portando via la figlia mentre la polizia interrogavaLory. Il giorno seguente la madre si presentò dal direttoree si fece dare una lista delle ragazze che facevano ginna-stica prima del ritrovamento del cadavere per poi andarea casa di ognuna a parlare con loro e scoprì che la figliaaveva una relazione con un ragazzo di nome Ryan che il

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giorno stesso aveva avuto una discussione con Sarah enello stesso momento ricevette una chiamata dalla poliziache le disse che doveva passare in commissariato. Quandoarrivò, un poliziotto le comunicò:

– Abbiamo trovato acqua sulle scarpe di sua figliaquando è stata portata in ospedale perciò la spiegazionepiù logica é che la ragazza sia scivolata e abbia battuto latesta –.

Teresa a queste parole non voleva credere e perciòdecise di non dire nulla della sua indagine. Tornò ascuola per aspettare Ryan ma il ragazzo non aveva par-tecipato alle lezioni quel giorno e non si presentò per ledue successive settimane. Teresa non sapendo che fareandò nella segreteria della scuola a chiedere del ragazzoma le risposero che non erano tenuti a dare queste in-formazione.

Un giorno suonarono alla porta, Teresa aprì subito,era una ragazza giovane,alta con occhi castani e capellicorvini; la signora capì subito che doveva trattarsi di un’amica di Sarah, così a fece accomodare in casa e le chieseil motivo della visita…

La ragazza spiegò che Ryan era tornato a scuola eche lo aveva sentito parlare di Sarah con un amico e chesi erano dati appuntamento alla vecchia stazione in viaPiemonti 79.

Teresa accompagnò la ragazza a casa e poi andò atutto gas verso la vecchia stazione.

Uscì dalla macchina e in lontananza vide due ragazzi:uno era biondo e di media di altezza l’altro invece ca-

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stano e un po’ più alto; la signora si nascose dietro unalbero che si trovava di fianco a lei e cominciò a spiare idue giovani. Ascoltando la loro conversazione sentì cheil ragazzo biondo parlava del fatto che avesse uccisoqualcuno e doveva scappare. Piano piano Teresa si av-vicinò ma sempre “rimanendo nell’ombra” ma nel muo-versi lentamente fece un rumore brusco eimprovvisamente i due si girarono ma per fortuna ladonna non si

fece scoprire però i ragazzi insospettiti si guardaronointorno e cominciarono a camminare nella direzionedella donna, la quale scappò senza farsi vedere, entrandoin macchina per tornarsene a casa .

Sulla strada vide un negozio Fai–Da–Te, vi entrò ecomprò una corda e del veleno per topi, il commessonon riusciva a spiegarsi a cosa servissero quelle cose alladonna e le disse solo:

– 35 dollari e 90 per piacere –.La donna diede i soldi al commesso e se ne tornò a

casa.Il giorno seguente andò a scuola per parlare con

Ryan; quando vide il ragazzo lo fermò e fece finta diavere un’ aria triste e disse che era distrutta per la mortedi Sarah e voleva parlarne con lui. Il ragazzo rispose chenon aveva tempo, allora lei lo invitò a cena dicendo dipresentarsi alle 20.00. Arrivò a casa e preparò una bellacenetta sostanziosa, e aggiunse quello che aveva prece-dentemente comperato.

Alle 19.55 Ryan era già davanti alla porta suonò e ladonna aprì, lui entrò ma non ne uscì più…

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Le chiamate misterioseMargot Picchizzolu

In un gelido e piovoso giorno di inverno CourtneyJonson si trovava nella piccola e polverosa biblioteca

della prestigiosa scuola di Londra, chiacchierando conEmily.

Poco più tardi arrivò il “The Times” con in coper-tina una notizia shock. Ma non fecero in tempo a leg-gerla, perché un urlo le interruppe. Le due ragazzecorsero nell’atrio come fecero gli altri allievi, corsero tuttinel luogo dove proveniva l’urlo e trovarono una bella ra-gazza che giaceva distesa a terra nel bel mezzo di unagrande pozza di sangue. I docenti ordinarono agli allievidi ritornare nelle rispettive aule. E cercano di capire chiavesse compiuto tale gesto nei confronti di quella gio-vane e taciturna ragazza.

Courtney si trovava dietro all’armadietto,quando sentì la conversazione tra la prof. Scarlett e

Christine, la sua compagna di banco.Lei rimase lì ad ascoltare e la prof diceva:– Allora? Ci stai? Dove hai messo il telefono?–La ragazza mugugnò e le rispose che lo avrebbe ri-

trovato.La campanella suonò per chiamare tutti i docenti in

riunione, presso la Direzione della signorina Watson.Mentre stavano confabulando il telefono squillò, delladirettrice, che rispose con tono garbato:

–Pronto, college Oxford, chi parla?–La direttrice ascoltava, ma un suono di dita regolare

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che batteva sul tavolo le confondeva le idee. Era la profScarlett che tamburellava sul tavolo con le sue lungheunghie rosse, solito da lei.

– Prof Scarlett la smetta con il suo tic!–La direttrice adesso con l’ aula piena di silenzio riu-

sciva a concentrarsi e a capire quello che diceva la voce.– È morta! So chi è stat…––Pronto?–– Catherine James.–La direttrice un po’ snervata voleva attaccare ma la

chiamata continuò… Alla direttrice continuavano a pas-sargli per la testa tali parole: è morta, è morta. Poco dopodecise di porre fine alla chiamata, e così fu.

Alla fine la ragazza deceduta era proprio il nome ci-tato al telefono.

E di nuovo un’altra chiamata, sta volta la direttricepassò la cornetta al vice preside che rispose:

– Pronto?–La prof Scarlett iniziò il suo nervosissimo tic.– Pronto?– disse il vice preside.La voce misteriosa disse:–Io lo so! So chi è stato!Drinnn! La campanella suonò, i docenti ritornarono

alle loro abitazioni, tranne la direttrice che contattòl’ispettor Edward Robinson.

L’ispettore arrivò qualche istante dopo, per ispezio-nare l’intero edificio.

La direttrice fece chiudere l’antico portone dell’en-trata della scuola, e si mise a cercare indizi con l’ispettore.Decisero di scendere al pian terreno nell’ locale caldaia.

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La direttrice non si dava pace voleva sapere. Giuntial locale caldaia trovarono un telefono, la direttrice sichiese tra lei e lei: –Ma se le chiamate provengono daquesto telefono, chi può mai essere così stolto da dimen-ticarselo?–

L’ ispettore con un occhio più attento trovò ancheun pezzo di un unghia rossa.

L’indomani portarono il telefono in polizia, dove sa-rebbero risaliti al proprietario, e così fu, il poliziotto disseche dai tabulati telefonici e le ultime chiamate erano di-rette proprio alla scuola.

Courtney andò in Direzione dicendo di aver sentitouna conversazione insolita tra la prof Scarlett e Chri-stine.

L’ altoparlante disse:–La prof Scarlett è attesa in Direzione.–La prof entrò, l’aula era completamente buia sem-

brava quasi un’ interrogatorio, la direttrice disse:– Buongiorno Lucy Scarlett, le sembra famigliare

questo cellulare?–La prof parlò solo dopo qualche istante:– E va bene le confesso cosa è successo. Il cellulare

è di Christine, l’ ha uccisa lei Catherine, non so bene perquale motivo però subito dopo l’accaduto è corsa da mee ha confessato tutto disperata, si pentiva di quello cheaveva fatto.–

La direttrice chiamò la ragazza e sentì anche la suaversione:

– Cosa io? No non ho mai fatto una cosa del generee mai la farò. Lo giuro non sono stata io! Era anche una

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mia amica, lo ammetto litigavamo spesso,ma non fareimai una cosa simile.

La direttrice pensò e poi arrivo alla conclusione.Chiamò la Scarlett nel suo ufficio.

Quando entrò c’era solo un unghia rossa sul tavoloe due agenti della polizia che entrarono dopo di lei dallaporta.

– Perché?–– Era la figlia dell’amante di mio marito– disse in la-

crime la prof.– Perché hai coinvolto Christine?– Litigava spesso con la ragazza, così pensavo che

sarebbe stato un gioco da ragazzi incolparla.––Ho solo una cosa da dirti: Sei diventata docente per

amare i tuoi allievi, anche se si ha preferenze, gli allievisono tutti uguali. Aveva il diritto di vivere come tutti glialtri. Lei non aveva colpa se tuo marito aveva un’amante,sei stata tu a dargliela.–

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Amori confusiSara Talayman

Il ragazzo correva a più non posso verso la Direzionecon le lacrime agli occhi, lacrime calde, appena uscite,

piene di paura. Si aspettava di trovare il direttore, invecetrovò la prof di italiano, la Rosselli. Il ragazzo ansimavamentre parlava, ma si poteva benissimo comprenderequello che diceva; quando finì di raccontare quello cheaveva visto, la prof restò di sasso, non sapeva cosa dire,cosa molto strana da lei, che aveva sempre una rispostapronta. Le solite pettegole lo vennero subito a sapere equella notizia, anche se tragica, venne pubblicata sul loroblog. ”Federico trovato morto sul tetto della palazzinapiù vecchia del liceo”. Chi l’aveva trovato era il suo mi-gliore amico Andrea, che in lacrime si gettò tra le bracciadi Lucia, la sua ragazza, che cercava di consolarlo, senzaperò riuscirci. Anche Francesca, la ragazza della vittima,era stravolta, non era più uscita dal bagno da quando lanotizia si era diffusa. La Rosselli e il direttore stavanoparlando con la polizia. Esaminarono il corpo, che pre-sentava un taglio molto esteso sul petto, vicino al cuoredel povero ragazzo, un bel ragazzo, alto e magro; sim-patico e dolce era quello che si poteva desumere daicommenti dei suoi compagni sconvolti. La Rosselli erapensierosa e insieme ad un agente della polizia interro-gava tutte le persone che avevano un legame con Fede-rico. Nel frattempo due ragazze nel corridoio iniziaronouna discussione tutt’ altro che serena…

–Ti hanno già interrogata?–

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–Non ancora, tra un’ora esatta mi hanno detto–.–La Rosselli ne sa tanto di giallo, non fare scemenze,

non tremare mentre parli e se la guardi negli occhi, guar-dala intensamente, per farle credere che stai veramentemale. Nessuno deve sapere che io ho avuto una storiacon Federico. Creati un’ alibi. Sai al gioco e dì quello cheabbiamo ripetuto più volte!–

–Sì, va bene, ma sta attenta anche tu–.Una delle ragazze a cui non sfuggiva nulla era dietro

gli armadietti e aveva sentito l’ ultima parte del discorso.Intanto i ragazzi che potevano essere implicati nella vi-cenda stavano entrando uno per volta nella grande aula deidocenti, dove si teneva l’interrogatorio. Arrivò pure il turnodi Lucia e Francesca. Dopo averle interrogate, alcune frasipronunciate dalle ragazze presero a rimbombare ossessi-vamente nella testa dell’ insegnante. Una aveva detto: “ èstato il ragazzo che ho amato di più, il ragazzo perfetto”.L’ altra: ” è stato l’ amico al quale ho voluto più bene, l’amico perfetto.” L’ arrivo di una e–mail riportò la profRosselli alla realtà, il cui sguardo ora era rivolto al suo com-puter. Non guardava mai il blog della scuola, ma questavolta decise che era forse meglio dare un’ occhiata. Venneincuriosita dalla frase scritta in grassetto:” Lucia e il poveroFede avevano una storia”. Per l’ agente di polizia questa fula dimostrazione che cercava per incolpare Andrea, l’amicoche aveva trovato il cadavere. Il ragazzo spinto dalla gelosiadel tradimento doveva essere uscito di testa… Tuttavia laRosselli non era convinta…

Andrea era stravolto, il suo migliore amico era morto,la sua ragazza l’ aveva tradito e tutte le accuse per l’ omici-

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dio cadevano su di lui. Voleva risposte, risposte su tuttoquanto. Quindi decise di andare da una persona di cui sifidava.

– Lei non può credere che sia stato io, io… Era il miomigliore amico non avrei mai fatto una cosa del genere,anche se aveva una storia con la mia ragazza–.

La prof stava pensando, era una donna sempre sullenuvole, sembrava quasi che non lo ascoltasse, e proprioquesto fece perdere la pazienza ad Andrea:

– Prof mi ascolta?!–– Sì, sì Andrea certo che ti ascolto, tranquillo, fidati, io

ti credo, ma dobbiamo parlare con alcune persone per farechiarezza–.

Vennero chiamate nell’ aula, che ormai era diventataun commissariato, Lucia e Francesca. Erano agitate, siguardarono negli occhi, che erano già lucidi, pieni di rim-proveri a loro stesse; si erano vendicate, ma le loro co-scienze non potevano reggere un peso così grande…Videro la prof Rosselli e due agenti della polizia. Era finita.Improvvisamente dal fondo dell’ aula si udì una voce cupa.

– È andata così, vero? Lui diceva che amava profon-damente tutte e due, voi, dopo averlo scoperto vi siete vo-lute vendicare. Conoscevo molto bene lui e conosco anchevoi. Ma arrivare a ucciderlo, non me lo sarei mai aspettato–.

Era una voce triste ma piena di rabbia. Un po’ malin-conica forse. Francesca era impaurita e non aveva ancoracapito di chi fosse, a Lucia invece cadevano grosse lacrimesulle guancie che si creavano un passaggio tra il fondotinta;lei invece lo sapeva molto bene a chi apparteneva…

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L’inizio della sagaElas Achler

“Il giallo è un genere che credo conosciate già graziealla TV. Esistono il giallo d’enigma e quello di su-

spense, e…”Josh era molto interessato all’argomento, lo appas-

sionava, ad ogni racconto che leggeva si sentiva più coin-volto. Suonata la campanella, come al solito, rimase inclasse ancora cinque minuti per fare una domanda allamaestra. Era una donna alta e snella, i suoi occhi celesticontrastavano con il colore dei capelli corvini mentre identi bianchi e le labbra sottili le accentuavano un sor-riso già smagliante. Josh le chiese: “Scusi professoressa,mi potrebbe elencare qualche possibile giallo da pren-dere in prestito in biblioteca?” “ Puoi provare con deiracconti di Edgar Allen Poe”, rispose orgogliosa lei. Joshprotestò: “Mi raccomando, devono essere thriller!”“Certamente.” Confermò lei con aria interrogativa.

Soddisfatto si recò in biblioteca per ritirare un paiodi libri dell’autore consigliato. L’ispirazione lo portò ascegliere “L’uomo finito” e “Silenzio”, di cui lesse subitola trama tornando a casa. Non fece in tempo a salutaresua madre che era già in camera per iniziare a leggere“L’uomo finito”. Gli bastò un fine settimana per divo-rare i suoi due volumi. Era ossessionato dai gialli di su-spense, ormai non gli bastava più leggere racconti diquesto genere, voleva farne parte! Cominciò ad appun-tarsi tipiche frasi da omicida trovate nei suoi libri e il lu-nedì, andando a scuola, ordinò mentalmente il testo che

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avrebbe dovuto recitare più tardi. Arrivato a scuola co-minciò con due ore di italiano: “ Josh, non dirmi che haigià letto un libro di Poe?” domandò la docente. “Noprof, ne ho letti due.” “Wow, e ti sono piaciuti?” “Unsacco, ma ora credo che cambierò attività, leggere non èabbastanza emozionante.”

Scienze era la materia delle due ore successive, an-ch’essa lo incuriosiva molto ma la passione per i “thril-ler” era incontrastabile. Dopo una lunga e interessantelezione sulle varie sostanze chimiche, Josh chiese al pro-fessore, un uomo di media altezza con i capelli grigi intinta con la barba ben rasata e il maglione, se gli era ri-masto del cloroformio. “Il maestro un po’ sorpreso ri-spose: “Sì, dovrebbe essermene rimasto un po’.” Aprìl’armadio e gliene presentò una boccetta davanti. Joshla prese e già che il docente era impegnato a richiamareun paio di allievi casinisti, intinse nella sostanza lo strac-cio che aveva furtivamente rubato poco tempo prima. “La ringrazio per la sua disponibilità”, disse cortesementeil ragazzo restituendo la sostanza in questione, e, mentreil maestro rimetteva al suo posto il cloroformio, si allon-tanò con lo straccio nello zaino. Ormai era ora di tornarea casa per il pranzo, ma questo non rientrava nei suoipiani. Josh vide un ragazzo di media altezza, snello, coni capelli bruni e la pelle abbronzata, insomma un bel ra-gazzo; si avvicinò e gli chiese: “Come mai sei ancora ascuola a quest’ora?” “Devo fare una ricerca e resterò quianche all’ora di pranzo, perché?” chiese lui. “ Per inte-resse personale.” Replico Josh. Il ragazzo, anche se nonsoddisfatto della risposta andò nel’aula di informatica,

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mentre Josh andò alla toilette, cioè il locale più vicino aquello del ragazzo, e aspettò lì, nascosto, fino al mo-mento in cui sentì il rumore di una maniglia che si ab-bassava… era il momento! Pedinò il ragazzo per qualcheistante, poi estrasse lo straccio dallo zaino e glielo pre-mette sul volto, aspettando che i suoi splendidi occhiverdi si spegnessero per farlo cadere in un sonno pro-fondo.

Quando si svegliò, il ragazzo era legato a una sedia,e ancora un po’ stordito chiese a Josh, che era in piedidavanti a lui: “Dove sono? Dove mi hai portato?”

“Sei nello scantinato della tua scuola”, chiese tran-quillamente Josh.

“Cosa ci faccio qui? Cosa vuoi da me?” continuò adomandare terrorizzato il ragazzo.

“Non ho niente contro di te, sei solo il povero sfor-tunato che oggi è rimasto a scuola anche all’ora dipranzo”, rispose Josh.

Quello che ti succederà sarà solo per colpa tua……a proposito, non mi hai ancora detto il tuo nome!” ag-giunse ridacchiando mentre gli infilava un pezzo distoffa in bocca.

“Allora, come mi consigli di ucciderti?” gli chieseJosh.

“Mhmhmhmhmh… Mhmhmhm” mugugnò spa-ventato lui.

“Sono assolutamente d’accordo con te!” Josh girò attorno al ragazzo e cominciò a recitare la

parte in cui l’assassino dice il movente alla vittima: “Sonosempre stato un tipo emarginato, non ho mai avuto

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amici.” Nel frattempo strisciava di piatto la lama di uncoltello sulla sua guancia.

“Quando, invece, tu pensi di essere così carino.”Il coltello ruotò e solcò la guancia del ragazzo, il

quale si lamentò afflitto.“Così intelligente.”Questa volta tagliò parte del naso e il ragazzo si la-

mentò sempre più straziato.“Così popolare.”I lamenti dopo il terzo taglio erano insopportabili.“Ma in realtà sei solamente… morto!”La testa del ragazzo cadde pesante alla base del collo,

dondolava a destra e a sinistra.

Dopo la campanella tutti rientrarono a scuola ma illoro tragitto terminò prima del previsto. Erano tutti pie-trificati davanti alla scena di Andrew morto, nell’atrioprincipale, con la gola mozzata, guardandolo annegarenel suo stesso sangue, il quale era stato anche usato perscrivere sulla parete:

“VOLUME N°1.”

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Noir a scuolaAlberto Jelmini

Ora Aldo non è più tanto sicuro! Dì un po’ che seistato tu!

Aldo, allievo, molti anni fa, di terza elementare nellascuola di un villaggio alpino, fissando la maestra negliocchi (la nonna non diceva sempre che la verità escedagli occhi?), continuava a ripetere:

No, non sono stato io! –La maestra, inflessibile, puntò il dito contro di lui:– Perché mi guardi così? Sei stato tu, dillo una buona

volta! –Nell’aula c’era silenzio, un silenzio percorso da sca-

riche elettriche. Aldo, in piedi accanto al tavolo dellamaestra, ne era impaurito e non osava guardare verso icompagni, dai quali sperava ancora nel profondo del-l’animo, di ricevere un aiuto, fosse solo uno sguardo disostegno, di comprensione; soprattutto dai due compa-gni di classe, un ragazzo, Carlo, del quale in verità nonera molto amico, e una ragazza dalle treccine, Lidia,molto vivace e creativa. Ma in quel momento erano tuttizitti e lontani. Non solo, ma i piccolini di prima e di se-conda erano visibilmente spaventati, perché non sape-vano che cosa in realtà fosse capitato nel piccologabinetto freddo e spoglio della scuola. Quanto ai piùgrandicelli, di sicuro qualcuno stava facendo un rapidoesame di coscienza, non volendo di certo trovarsi alposto di Aldo.

Questi, sempre più smarrito e incredulo, con le forze

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che gli rimanevano cercava di trasmettere la verità delsuo piccolo mondo. Nello stesso tempo però la maestrainfieriva con la domanda diventata ritornello:

– Sei stato tu! Dì che sei stato tu! –Ad ogni risposta negativa seguiva un silenzio che ad

Aldo pareva non dovesse mai terminare. Eppure non di-stoglieva lo sguardo dal viso della maestra, disperata-mente convinto che ad un certo punto avrebbe dovutoaccorgersi che diceva la verità! Invece, evidentementecontrariata, ad un tratto si alzò, fece lentamente il girodel tavolo, fissando severamente la dozzina di allievi egridò:

– Allora, è forse stato qualcuno di voi? Su, parlate!–, senza rendersi conto che nessuno, salvo l’eventualevero colpevole e l’allieva più grande che le aveva appenariportato quanto scoperto, poteva sapere di che cosa sitrattasse. Rimasta immobile per qualche istante, in attesadi una risposta che non sarebbe mai giunta, prendendoin mano, quasi per caso, un quaderno dei compiti, sog-giunse :

– E questo sangue sulla copertina del tuo quaderno,Carlo?

La risposta fu pronta:– Mi è venuto sangue da naso! –La maestra lo guardò per un attimo in silenzio, poi,

rapida, tornò a sedersi. Fattasi gentile e quasi melliflua,riprese:

– Perché non vuoi dire che sei stato tu? Sei l’unicoche ieri pomeriggio mi ha chiesto di andare al gabinetto!–

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Era vero, ma non aveva notato nulla di strano ed erarientrato tranquillamente in classe.

– No! No!... –Stanco dell’assurdo interrogatorio, ora rispondeva

solo a monosillabi, con la voce tremante.La maestra se ne accorse e riprese il tono severo e

inquisitore:– Sei stato tu! Vedo nei tuoi occhi che sei stato tu!

Dì che sei stato tu! Ti trema la voce perché sei stanco didire bugie! –

Il silenzio nell’aula era diventato opprimente. Tuttitacevano, dominati dalla paura, ma nello stesso tempoin aspettativa di qualche informazione su quanto capi-tato. Invece, come una mazzata, era giunto il ricatto.

– Un bravo allievo come te non dice bugie! –E poi subito, ridiventata aggressiva:– Dì una buona volta la verità! Dì che sei stato tu! –La maestra avvicinò il proprio viso alla faccia di

Aldo, e scandendo le parole gli disse, feroce:– Sei stato tu! –Al ragazzo girava la testa, non udiva più nulla, salvo

il rintronare di un ritornello dentro la testa “Sei stato tu!;sei stato tu...”, ma soprattutto sentiva precipitate nelvuoto quelle che credeva le sue certezze. Per un attimotrovò ancora la forza di guardare verso i compagni: mu-tismo generale, occhi spalancati e trepidanti, con unmisto di curiosità in quelli dei due compagni di classe,che sembravano aspettare con interesse e apprensionela sua risposta. Ad ogni modo non gli venne nessunaiuto, per cui, oltre alla sensazione di trovarsi terribil-

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mente solo, capì di non essere più in grado di sopportarequella situazione. Cercò un’ultima volta di spiegarsi, male forze gli vennero meno, per cui all’ultimo, imperioso:

– Sei stato tu?–, sentendosi l’acqua alla gola, con unavoce che non riconobbe più come sua, lasciò uscire undebole:

– Sì... –La maestra era visibilmente soddisfatta:– Finalmente! Ci voleva tanto! Dillo più forte! –E allora Aldo, provando dopo molto tempo un

senso di sollievo, ripeté il suo “Sì!”

Giunto a casa con un biglietto della maestra, Aldotremava al pensiero di subire un secondo interrogatorio.Ma la mamma, dopo aver sentito il desolato “Non sonostato io” di suo figlio, gli credette, aiutata dal fatto di co-noscere assai bene i compagni di classe, simpaticissimi,ma birbe, capaci di qualsiasi colpo gobbo.

Sebbene fosse già quasi notte, scese al villaggio sot-tostante, decisa a vederci chiaro. Dalle poche parole agi-tate e sconnesse del figlio non le era parso corretto ilmodo con cui era stato trattato. Stava già preparandomentalmente le parole da dirsi, quando l’anziana mae-stra, in paese da pochi giorni per una supplenza, appenaaperta la porta, l’accolse con una certa eccitazione:

–Immagino il motivo che la conduce qui, e mi scusoperché ho paura di essermi sbagliata col povero Aldo.Stavo correggendo i compiti assegnati ieri sera e sentache cosa mi scrive Lidia. –

Aveva in mano un quaderno, e dopo averlo aperto

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sull’ultima pagina, seguendo col dito le parole che la ra-gazzina aveva scritto sul foglio quadrettato, lesse il terzo“pensierino”:

“Questa sera Carlo, in gabinetto e si è fatto male allamano ed è venuto fuori tanto sangue”.

La maestra era dispiaciuta e dopo una chiacchierata,congedando la mamma, promise:

– Non me l’aspettavo, perché nessuno ha il per-messo di scendere in gabinetto dopo scuola, ma domanimattina voglio proprio vedere chi ha spaccato i bicchieridi cristallo e rovinato l’intonaco del lavandino! –

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I frammenti di metalloMichela Ferri

Era il 16 giugno 1996, mancavano tre giorni alla finedella scuola. Quel martedì si respirava aria d’estate

ma per qualcuno… odore di morte.Il professor Formula stava facendo una delle sue no-

iosissime lezioni mentre gli allievi facevano altro; c’erachi stava appoggiato con la testa sul banco, chi parlavad’altro, chi si dondolava con le sedie, ma niente di tuttociò dava fastidio al prof. Un unico ragazzo aveva il poterdi innervosirlo: era Ludovico, un ragazzo magro, basso,lentigginoso, amante degli insetti, che però quel giornoassente.

Nico, uno dei pochi amici di Ludovico, si accorsedella sua mancanza e lo disse al professore, che subitodopo aver appreso la notizia impallidì e cominciò a mor-dere nervosamente la penna.

Le lezioni terminarono, i ragazzi uscirono ma il prof.rimase in classe a fissare il muro bianco. Nico lo guardòe chiese perché fosse così pallido ma lui non gli rispose,prese la sua valigetta e corse via.

“Dove scappa prof? Si fermi, voglio solo parlarle!”Gridò Nico, ma ormai il professore era già fuori dall’isti-tuto.

Nico cominciò a fare mille domande a tutti: “Avetevisto Ludovico?” “Qualcuno di voi sa se è malato.” Sem-brava che a nessuno interessasse la mancanza di questoragazzo, sempre presente e che quando mancava avvi-sava sempre.

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Nico andò a casa molto preoccupato e pensieroso,tanto che quella notte non dormì molto. Al mattino partìpresto da casa con l’intenzione di scoprire dove era statoil giorno prima Ludovico.

Arrivato davanti al piazzale scolastico, trovò moltemacchine della polizia e una miriade di poliziotti chemolto freneticamente entravano e uscivano dalla scuola.

Il povero Nico chiedeva a tutti quelli che incontrava:“Cos’è successo?”

“Perché tutta questa polizia?”Nessuno gli rispondeva.Finalmente un giovane poliziotto gli si avvicinò:“Carissimo, come ti chiami?”“Nico” rispose.“Frequenti questa scuola, se un compagno di Ludo-

vico?”Dopo aver risposto a queste piccole domande gli dis-

sero che avevano trovato il corpo esanime di Ludovico,nel locale caldaie con un proiettile infilato nel cuore. Leindagini erano in corso, il corpo speciale della poliziaaveva già rilevato degli indizi importanti: un pezzo di ca-mice bianco incastrato in una valvola e dei frammenti dimetallo. Durante una perquisizione approfondita in un’aula trovarono un altro corpo senza vita, quello dellavice direttrice; il caso divenne ancora più intricato e mi-sterioso.

Tutti i ragazzi della scuola dovettero rispondere amolte domande e gli interrogatori furono pesanti.

“Dove ti trovavi ieri mattina?”“ Qualcuno può testimoniare che eri in quel posto a

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quell’ora?”“In che rapporti eri con le vittime?”Dopo aver finito con gli alunni passarono in rasse-

gna gli insegnanti e tutti gli indizi portavano verso il si-gnor Formula, docente di scienze, che non si trovava insede in quel momento. Decisero di andare nella suaclasse per vedere se trovavano qualcosa. E lì purtroppofecero un’altra brutta scoperta: il corpo corroso del prof.Formula,

vicino al cadavere trovarono una lettera e una botti-glietta contenente una soluzione di acido solforico.

Gli agenti presero la busta, la aprirono e scoprironocosa era successo:

“Stavo lavorando nel mio laboratorio, trafugavo ma-teriali molto preziosi e dei dati segretissimi, che nonavrei dovuto divulgare al di fuori del mio lavoro. (Hoconosciuto delle persone senza scrupoli, disposte a pa-gare molto bene le mie scoperte e la mia nuova inven-zione, il ragno meccanico, ed io in un momento difragilità ho accettato i loro soldi).

Ludovico mi vide e capì subito cosa stavo combi-nando, corse velocemente a comunicarlo alla vice diret-trice. In quel momento ho perso la testa e non ho capitopiù nulla. Sono andato a cercarlo e con una scusa banalesono riuscito a trascinarlo nel locale caldaie e con il mioragno meccanico, brevettato da me, ucciderlo è stato ungioco da ragazzi. Non appena Ludovico ha aperto laporta delle caldaie, il ragno, dalla sua bocca speciale,sparò il colpo mortale; vedendo che il mio brevetto fun-zionava mi sono esaltato all’inverosimile e senza ragio-

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nare passai all’azione per eliminare la vice direttrice, nonpotevo lasciare che la scuola scoprisse il mio tradimento.Decisi di avvicinarmi alla vice direttrice con la scusa chevolevo confessare tutto, la invitai in mensa per un caffè;misi una dose letale di sonnifero nel suo caffè e appenasi addormentò, la portai nella prima aula che trovai.

Tornato nella mia aula, calmatomi un po’, ho capitocosa avevo combinato e che nulla al mondo valeva lamorte di due persone. Il pentimento, il rimorso e la ver-gogna hanno avuto il sopravvento e per questo ho de-ciso di compiere questo gesto.

Prima di andarmene voglio almeno chiedere scusa eperdono a tutti per il male che ho fatto.

Il professor Formula “.Nella scuola scese un silenzio spaventoso, nessuno

parlava, nessuno chiedeva, tutti restarono nel palazzoscolastico senza avere il coraggio di tornare a casa.

Che il prof. Formula fosse un po’ strano, chiuso,schivo lo sapevano tutti ma che potesse arrivare a tantonessuno lo pensava…

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Occhi di ghiaccioValentina Balmelli

Ero seduta al banco con la mia mini gonna nera,quando vidi Asael attraverso la finestra correre

verso lo scuolabus. Forse dopo la nostra discussioneaveva capito e preso la decisione di confessare tutto. Suopadre lavorava nella squadra anticrimine della città e suamadre se ne era andata quando lui aveva 3 anni. Nonl’aveva mai conosciuta, ma era stata proprio lei a sce-gliere il suo nome di battesimo, Asael uno degli angelipiù importanti tra gli angeli vigilanti.

Tutto quello che pensava e che sentiva, non conci-liava con le sue azioni.

Lui era Burbero e sempre pronto a puntare il ditosolo perché il mondo non rispecchiava il suo colore in-teriore. Discutevamo; lui si sentiva di color amaranto,giallo scuolabus, terra d’ombra bruciata e rosso sangue.Io gli dissi che era difficile da dire per quanti colori po-tessero esistere al mondo, i colori sono infiniti cometutte le tonalità e le sfumature di noi esseri umani.

Asael era di un colore incolore, l’insieme di tutti i co-lori del mondo…

Il Nero, the Black, il Noir…A volte si divertiva a spaventare gli insegnanti con

scherzi macabri e di cattivo gusto. Un giorno si presentoa scuola con la pistola di suo padre,me la fece vederecon orgoglio e mi disse che il giorno prima era andatocon suo padre allo stand di tiro per allenarsi.

Veniva a scuola solo per un motivo. Si era invaghito

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della nostra professoressa di Botanica, la signorina Flo-rence, una donna molto misteriosa, sicura di se, con lesue sigarette lunghe e fini proprio da vamp.

Era scomparsa!Il direttore ci informò dell’accaduto. La polizia arrivò

per interrogare tutti i professori e per ispezionare lascuola. Era stata la sorella di Florence ad accorgersi dellascomparsa.

Il padre di Asael dirigeva le indagini, ma non trova-rono nulla, la polizia era ad un punto morto.

Il giorno successivo tornai a scuola con il mal di testaa causa delle mille domande che mi feci quella notte eforse con le mille risposte senza senso. Era lui che inqualche modo aveva a che fare con la scomparsa dellaprof., oppure era quel terribile mal di testa che mi man-dava fuori strada. Il banco di Asael era vuoto, non si erapresentato alla lezione di botanica. Il laboratorio si tro-vava all’ultimo piano, pieno di piante di ogni genere, lamia preferita era il taxus bacata, detta anche tasso co-mune o albero della morte. Il direttore ci aveva infor-mato che una nuova insegnante avrebbe sostituito lasignorina Florence.Camminavo ansiosa verso l’aula dibotanica e prima di entrare un urlo mi fece capire chequalcosa era successo.

Dopo alcuni giorni la notizia; sul giornale; l’articolodiceva che l’avevano finalmente trovata sotterrata in unvaso. Il mignolo spuntava dalla terra bagnata, comel’erba appena seminata. Dopo l’autopsia trovarono 7semi velenosi di una pianta comune nello stomaco dellaprofessoressa.

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Mi diressi verso casa, la notte era già alle porte, erostata per ore a pensare, ai sette semi assassini, a cosa do-vevo fare, a dove diavolo fosse finito Asael. Decisi dichiamare la polizia e di confessare tutto. Non riuscivopiù a dormire, continuavo a pensare ad Asael, ai suoisplendidi occhi di ghiaccio, perché non mi chiamava,perché non si faceva sentire.

Erano passati tre giorni di interrogatorio ed Asaelnon si era ancora fatto vedere alla centrale di polizia.

Era il 7 Gennaio 2010 quando mi svegliai con labocca asciutta, aprendo gli occhi vidi soltando un colore.Il grigio era tutto attorno a me e non capivo dove dia-volo fossi finita. Era forse un incubo. Trovai il giornalesul letto, in prima pagina c’era scritto che avevano inca-strato l’omicida della professoressa Florence, il moventeera la pura gelosia.

Mi resi conto dopo che l’assassino della giovane pro-fessoressa Florence era proprio davanti ai miei occhi.Nella stanza c’éra soltanto un letto bianco ed un piccolospecchio rotto attaccato alla parete.

Rifletteva la mia immagine.

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Sfilata a sorpresaMartina Soldati

“Perché mi trattano in questo modo? Cos’ho fattodi male? Proprio non capisco…” é questo che

Alice si chiede tutti i giorni.Alice soffre, e nessuno se ne accorge… A scuola

tutti la deridono e parlano male di lei, solo perché nellasua scuola la moda è la cosa più importante di tutte: ap-parire prima dell’essere. Lei è soltanto sé stessa, e perquesto viene reputata diversa, strana; ma è pur sempreuna ragazza diciottenne stupenda. È vero, è un po’ fuoridalle righe e il suo abbigliamento in stile gotico lo ac-centua; ed é per questo motivo che viene esclusa dalresto delle ragazze e da ogni gruppo. È una giovanedonna molto intelligente e con molte passioni, una diqueste è la lettura, mangia libri per sopravvivere, si rin-chiude nel mondo surreale della storia che sta leggendo.

Dopo un fine settimana, è ora di tornare a studiaresui banchi di scuola, la Scuola di Abbigliamento e Modadi Cottwool, la SAMC. La classe di Alice è composta dasole undici ragazze e quel giorno Natalie è assente, nes-suno ne conosce il motivo, ma tutti credono sia a casamalata.

È quel giorno che dall’aula di lavori sartoriali, il si-gnor Widdall, il docente di cucito, dopo pochi minuti daquando era entrato, ne esce con una faccia meditabondae si dirige a passo svelto verso le scale che portano al

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piano superiore della scuola, dove si trovano la direzionee la segreteria. Il custode, avendo visto il professor Wid-dall salire sconvolto, aspettò il suo ritorno nell’atrio. Pas-sarono giusto pochi minuti, quando udì lo scricchioliodella porta della segreteria, segno che l’olio che ci avevamesso la settimana passata, non era stato sufficiente.Non fece in tempo a parlare che il direttor Eric Sapp glifece cenno con la mano di seguirlo; e così lui fece. Wid-dall indicò un tavolo imprecisato sul lato sinistro del-l’aula, quello lontano dalle finestre. Sapp stava perdomandare a Nolan Widdall quale tavolo con esattezzaavesse indicato, ma questo non fu necessario… perchévide… Riuscì a trattenere a malapena un gridolino, manessuno ci fece caso, da meno il signor Widdall cheaveva avuto la medesima reazione a quella scena.

Non era più quel color panna a causa dell’uso, maera quasi completamente sporco di rosso, di quella to-nalità del sangue; e sul bordo destro del banco era statolasciato un forbicione di proprietà della scuola, anch’essocon evidenti tracce dello stesso colore che non miglio-rava di certo il panorama.

Qualche ora dopo giunge la polizia. Domande a de-stra e a manca, dai membri della direzione ai professorie perfino ad alcune alunne; la polizia brancola nel buio…Sembra sangue, ma al momento le squadre della scien-tifica sono tutte impegnate con dei rilevamenti di casipiù importanti rispetto a quello di un banco sporco inuna scuola della periferia.

La classe viene così soltanto chiusa a chiave, in attesadella prossima visita del commissariato.

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La prima cosa a cui il direttore, molto in ansia,pensò; fu di contattare, dopo la polizia, tutti gli assentio la loro famiglia in cerca della conferma fossero a casasani e salvi. Telefonò dapprima a Elisa, una ragazzadell’ultimo anno con alcuni problemi di salute, e lamadre confermò che la figlia aveva avuto un forte at-tacco di asma e perciò era rimasta a casa per riprendersi.La chiamata successiva fu per Natalie, la compagna diclasse di Alice. Dall’altra parte del telefono però non cifu nessuna risposta e il nervosismo del direttore au-mentò notevolmente.

Mentre Alice si sta recando nell’aula della lezione delpomeriggio, la numero 8 di conoscenze professionali,tutte le ragazze che stavano spettegolando ai lati del cor-ridoio, si zittirono immediatamente e la guardarono disbieco.

«Cosa può essere successo?»«Non lo so, non lasciano entrare nessuno in classe.

Il signor Widdall e il direttore, quando sono usciti dal la-boratorio prima di chiuderlo, sembrava avessero appenavisto un fantasma. Gira la voce che un banco e una for-bice fossero insanguinati. Non so proprio cosa possa es-sere successo là dentro.»

«Secondo me c’entra lei! È troppo strana, e poi haivisto come si veste! Mi fa paura.» e puntò l’indice drittosu Alice. Lei, accortasi della situazione, non fece altroche velocizzare il passo.

Tutti sapevano, tutti tranne lei… Tutti continuavano

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a domandarsi “È stato un omicidio? Se é così, dov’è ilcorpo?”. Nessuno però aveva il coraggio di dirlo ad altavoce.

Il signor direttore, seduto sulla sedia di pelle del suoufficio, continuava a rigirarsi tra le mani una delle pennecon il logo della scuola, e ogni cinque minuti alzava lacornetta del telefono e provava a richiamare Natalie peravere sue notizie, ma niente da fare, entrava sempre infunzione la segreteria telefonica.

Dopo due giorni, quel mercoledì sera, era giunto ilmomento dell’anno che tutte le famiglie degli studentiaspettano, la “sfilata a sorpresa” dove veniva dato un la-voro alle ragazze e dovevano svilupparlo creando unabito da presentare ai genitori per mostrare tutto ciò chela scuola insegnava alle iscritte e quanto tutte loro fos-sero piene di talento.

«Natalie!» urlò Fracesca nel backstage e le corse in-contro. A quell’esclamazione il direttore Sapp riuscì aprendere finalmente un sospiro di sollievo e le rughesulla fronte che gli erano comparse nei giorni precedentisvanirono in un istante. Natalie non era in piena forma,ma non voleva mancare a quell’attesissimo evento ed eraansiosa i vedere sfilare in passerella l’abito creato da lei.

Sfilarono molti abiti –uno per ogni studentessa dellascuola– fatti di pregiati tessuti di seta e fu un arcobalenodi colori. E poi eccolo… Ecco il corpo del reato, unosplendido abito da sera monospalla bordeaux, drappeg-giato sul seno che cadeva morbido lungo i fianchi perpoi scendere fino a toccare terra. L’orlo e il piccolo stra-

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scico erano umidi per conferire all’abito un look un pocomisterioso e gotico. Il presentatore annunciò che quel-l’abito era di Alice Vrendis.

Ora, tutti la videro… una striscia rosso sangue per-correva tutta la passerella, tutti gli spettatori pensaronoche era un effetto voluto, ed era così. Ma il corpo docentie la direzione misero insieme tutti i pezzi del puzzle.

Era stato il vestito di Alice a macchiare il tavolo del-l’aula di cucito…

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Un fantasma a scuolaPatrick Acquadro

“Allora cosa abbiamo Invernizzi?” chiese il com-missario.

“Ehm, in realtà sarebbe un omicidio, quindi nonso…”

“Invernizzi, non complichiamoci la vita che ho giàmal di testa. Chi abbiamo?”

“Si tratta di un vagabondo capa.”“Chiamami commissario, Invernizzi, te l’ho detto

mille volte.”“Sissignora!” La donna si massaggiò la fronte. “Lasciamo perdere.

Cosa gli è successo.” “Gli hanno inferto una serie di colpi di forbice.”“Colpi di forbice, d’accordo...” fece il commissario

perplessa. “Però c’è sangue solo lì per terra dove si trovaora.”

“Ha ragione lei… egli, sì insomma tu commissaria,”balbettò Invernizzi. “Probabilmente lo hanno sorpresomentre dormiva. Sembrava bene organizzato, potrebbedarsi che passasse qua tutte le notti.”

‘Si spiegherebbero un po’ di cose,’ pensò il commis-sario annuendo. Sua figlia frequentava infatti la terza ele-mentare in quella stessa scuola e le aveva raccontatospesso del fantasma che ogni notte spostava i banchi,rubava le giacche dimenticate e lasciava le proprieenormi orme in giro per i corridoi.

Il commissario guardò le scarpe logore della vittima:

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portava come minimo un 44. “Di chi è questo ufficio Invernizzi?” chiese come

scrollandosi da un sogno.“Del direttore. È stato proprio lui a trovare il cada-

vere.”“Era pulito e in ordine quando l’hai interrogato?”“Come un damerino.”Il commossario lo fulminò con lo sguardo. “Inver-

nizzi!” urlò nell’istante in cui si accorse di uno stranoodore, come di fritto. In effetti la figlia le aveva parlatoanche di quel profumo così particolare emanato dal fan-tasma: a lei e ai suoi compagni piaceva tanto perché gliricordava le patatine.

“A chi poteva dare fastidio un povero barbone?”chiese Invernizzi.

“Un senzatetto,” lo corresse il commissario. “Unsenzatetto che sporca… Magari al bidello!”

“Dunque signor Galli, lei conosceva la vittima?”“Certo,” rispose senza esitazioni il bidello. “Chi

crede che gliele abbia date le chiavi per entrare? Sì d’ac-cordo, sporcava, ma mi faceva pena. Inoltre ai bambinipiaceva parlarne. Era diventato un po’ come la mascottedella scuola, anche se invisibile o quasi.”

“E non aveva paura che il direttore potesse sco-prirla?”

“Chi, quel damerino?” Il commissarrio vide Inver-nizzi che tratteneva un sorriso grande così. “Quello ègià bello che si sia accorto del cadavere. E comunque iotra poche settimane vado in pensione, non avevo nulla

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da perdere.” “Capisco. E da quanto andava avanti questa storia?”“Da un paio di mesi. Ogni tanto ci chiacchieravo

anche, con il barbone intendo, ma era molto riservato enon mi ha mai raccontato i suoi problemi. Prima o poisperavo l’avrebbe fatto.”

“Va bene,” tagliò corto il commissario. “Per ora puòandare. Arrivederla signor Galli.” Poi si voltò verso In-vernizzi. “Chi resta da sentire?”

“La segretaria, la signora Noir, ma non penso c’entrinulla, è così piccolina e indifesa...”

“Invernizzi, certe considerazioni tienile per te. Cosaaspetti, valla a chiamare.”

La mattina seguente il commissario entrò in ufficiopensando alla delusione della figlia quando avrebbe sco-perto che il fantasma non c’era più. Invernizzi le si av-vicinò a capo chino. “Abbiamo una confessione,” disse.

“Come sarebbe a dire?” chiese incredula il commis-sario.

“Abbiamo scoperto l’identità del barb, ehm, del sen-zatetto… Era l’ex marito della segretaria Noir.”

“Quella minuta e innocente?”“Esattamente,” arrossì Invernizzi. “Siamo andati a

prenderla e non ha retto, si è sciolta come una statua dighiaccio ai Caraibi.”

Il commissario sorrise brevemente. “Bella immagine.E perché l’avrebbe assassinato?”

“Per non rischiare che lui dicesse al bidello o al di-rettore chi era. L’avrebbe messa in cattiva luce e di certo

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accusata di essere una poco di buono che gli aveva toltotutto quanto. E aveva probabilmente scelto di dormireproprio lì a scuola per perseguitarla. Lei era così ansiosache non riusciva più a chiudere occhio, così ieri all’albaè andata a scuola e l’ha ucciso.”

“Ora è tutto chiaro. Bravo Invernizzi, hai fatto unbuon lavoro.”

“Grazie commissaria–o… Ma mi ero sbagliato sulconto della signora.”

“Non fa niente, nemmeno io mi ero accorta che na-scondesse qualcosa. E poi sbagliando si impara.”

“Sì capa.”“Invernizzi!”

Oggi la figlia del commissario fa la quinta elementaree racconta spesso di come i banchi continuino a spo-starsi da soli e le giacche scompaiano nel nulla. Persinoquell’odore di fritto tanto buono è ancora percepibile,anche se forse leggermente meno acuto di una volta.Solo la segretaria e il bidello sono cambiati, e le orme gi-ganti in giro per i corridoi non si vedono più.

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Noir a scuolaChiara Rizza

Tutto cominciò quel piovoso e nebbioso pomeriggiodi ottobre. I miei genitori avevano da poco perso il

lavoro, ed io avrei dovuto passare due interi anni dai mieizii paterni. Mamma arrivò, mi diede un bacio sulla frontee si diresse verso l’automobile che mi avrebbe portatodagli zii. Papà, era un uomo formidabile che cercava intutti i modi di rendere felici le persone, ma quel pome-riggio era così turbato, che si poteva quasi scorgere neisuoi profondi occhi neri un leggero tocco di tristezza.Stava lì, appoggiato all’auto gialla, come una statua disale, col capo chino sulle sue scarpe fradice. Sospirai,alzai da terra le mie due misere valigie da viaggio e senzaneanche voltare lo sguardo entrai nel veicolo chiudendola portiera alle mie spalle.

Il paese degli zii era strano e non vi era anima viva.L’autista mi lasciò vicino al cancello, scaricò le valigie

e senza una parola ripartì con l’automobile. “Perfetto…” aggiunsi. Mia zia Jane arrivò dopo

qualche minuto, salutandomi e scortandomi dentro casa.Zio Mike arrivò per l’ora di cena e non fece altro chedomandarmi sul mio profitto scolastico. “Le scuole quisono molto prestigiose, potrai avere un’educazione dav-vero raffinata” mi disse. Ah giusto. La scuola... “Non tipreoccupare” aggiunse zia Jane. “Ti troverai benissimoqui con noi, e ti farai molti amici”. Ero davvero stufa ditutte quelle raccomandazioni e domande, così finii piùin fretta possibile la zuppa e me ne andai a dormire. Ar-

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rivata in camera, m’infilai sotto le coperte del letto e presiil cellulare. “Gli zii sono OK, ti chiamerò domani” scrissialla mamma.

“Penso che due anni qui mi ammazzeranno. Pen-sami, ne ho bisogno”, scrissi alla mia migliore amica.

Arrivò lunedì e mi preparai per la scuola. La zia mici accompagnò in macchina, attraversammo il bosco evidi un grande edificio scolastico che poteva contenerecirca duecento ragazzi. “Non fare tardi; il bosco è peri-coloso di sera. Divertiti” mi raccomandò lei.

Feci subito amicizia con Josh, un ragazzino che siera anche lui stabilito lì da poco, e legai molto con il pro-fessore di scienze, il signor Johnson. Tutto andò per ilverso giusto, finché un giorno arrivò a scuola il nuovodirettore. Era un uomo grosso, basso, e con delle stranecicatrici sulla faccia rugosa. Entrò nella nostra classe du-rante un’ora di scienze, portò fuori dall’aula il signor Joh-nson e tornò dopo mezz’ora. “Ebbene, sono il nuovodirettore Edward Cratch e da oggi in poi sarò anche ilvostro insegnante di scienze” ci disse. Io mi voltai versoJosh e lo guardai sbalordita. “Dov’è il signor Johnson?”chiesi io. Il direttore mi lanciò uno sguardo terribile, do-podiché prese un gesso e scrisse sulla lavagna “Ricercasu leggende e miti del mio paese”.

Nel pomeriggio aspettai Josh per iniziare la ricerca.Trovammo –in particolare– un articolo che parlava diun incendio di una casa nel bosco. La leggenda narra cheuno scienziato abitava in quella casa, amava la scienza,la natura. Un giorno però, un suo esperimento andòmale e lui divenne pazzo. Si dice che si buttò nel camino

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acceso insieme a tutti i suoi risultati di ricerche falliti. “Cratch..” dissi. “Che cosa vuoi dire?” chiese Josh.“Lui disse che in anni passati fu anche scienziato! E

poi non ti ricordi di tutte quelle cicatrici e bruciature cheha sulle braccia e sulla faccia?” esclamai io convinta.

“Non essere sciocca” concluse lui.Il giorno seguente ci fu data una notizia orribile. Il

signor Johnson era morto in un incidente d’auto. Nes-suno di noi poteva crederci e quando il direttore arrivòtutto contento per la sua ora di scienze, io lanciai unosguardo d’intesa a Josh. Alle 15.10 del pomeriggio se-guente, io e Josh ci incamminammo insieme per scoprirequalcosa in più su quel mistero. Arrivati nel cuore dellaforesta, vedemmo una casa completamente rasa al suolodalle fiamme: ne era rimasto solo un rudere di quella cheanni fa sarebbe stata una grande casa di uno scienziato.Facemmo il giro e scoprimmo una porta nascosta da ar-busti che dava al seminterrato. Vi entrammo, e con cau-tela accesi la torcia del telefono per far luce. Era unagrande stanza polverosa e molto disordinata, traboc-cante di tavoli in legno, fogli sparsi con calcoli, ricerchee teorie. Mi girai verso Josh quando il mio piede calpestòuna fotografia di un uomo in camice bianco: era giovane,solenne e fiero di sé; era il direttore della scuola.

“Josh! Dobbiamo assolutamente smascherareCratch, e sono pronta a scommettere che è lui il colpe-vole dell’omicidio di Johnson!”

L’indomani a scuola spingemmo il direttore dentrol’aula di aritmetica e chiudemmo la porta. Gli mostrai la

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fotografia. “Era lei. Era lei, non è vero? Lei era lo scien-ziato dato per morto, e lei ha ucciso il signor Johnson!Perché?” gridai io.

Il direttore rispose “Ebbene sì ragazzi, ma dovete sa-pere che fu proprio Johnson a valutare inesatti le mie ri-cerche e i miei esperimenti che in realtà erano assai piùche convincenti! Così mi spacciai per morto tra lefiamme, ma da quel giorno non vivo che per vendi-carmi”. Senza tanti giri di parole, chiamammo la poliziache arrivò all’istante e imprigionò lo scienziato farabutto.Io e Josh eravamo felici, ora che il mistero era stato sve-lato.

Passò qualche mese, quando mia zia mi disse “Te-soro sei grande adesso, potresti iniziare a lettere i gior-nali, no?”

Non era una brutta idea dopotutto avevo sedici anni.Andai in cucina e lessi in prima pagina “Scappato di ga-lera con un messaggio” – “Vi troverò, voi che mi aveterovinato la vita – Gaia Mergola”.

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Noir a scuolaStjepo Andjelic

Mi trovo in un’aula adibita per le riunioni dei do-centi, stringo la mano a Pièrre, ex collega con il

quale ho lavorato anni fa per la polizia ginevrina, primache diventassi insegnante di francese, prima che acca-desse quel tragico evento che pose fine alla mia carrierada detective; evento che non riuscii a superare. La vi-sione di quel piccolo bambino disteso sulla strada miaveva scioccato, e decisi così di lasciarmi alle spalle lavita in centrale per dedicarmi all’istruzione.

Dopo un abbraccio amichevole, Pièrre rompe ilghiaccio:

“Son venuto qua, Pascal, perché come forse hai sa-puto, c’è stata una scomparsa nella tua scuola, ed un po’per ricordare i vecchi tempi nei quali lavoravamo in-sieme, ti volevo chiedere se fossi disposto a farmi daconsulente esterno“.

La proposta mi sorprende, ma ho un certo timoreche mi blocca, così decido inconsciamente di erigere unmuro. “Guarda, ti ringrazio dell’offerta ma…”

“Aspetta prima di rifiutare, sappiamo che ormai la-vori in questa scuola da sette anni, e pensavo potessi es-sermi d’aiuto nel muovermi tra le mura di quest’istituto,e poi perché da quando ci siamo lasciati, non ti ho piùsentito e non sapevo come stessi, se fossi riuscito a su-perare l’accaduto.”

Ha ragione, come confermato dalla mia psicotera-peuta, avevo tagliato tutti i ponti che potevano ricon-

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durmi a quella parte della mia vita, rinchiudendomi inuna campana di vetro, impaurito e deciso a non volerpiù soffrire tanto. “Sì, adesso sto bene, però ti preghereidi non rivangare troppo su quell’episodio, adesso pre-occupiamoci di trovare il ragazzino”

“Come vuoi.. presumo quindi che il tuo sia un s씓Mm..” Glielo confermo con un cenno di capo.“Okay, allora.. “ riprende lui, tirando fuori dalla tasca

del giaccone un piccolo taccuino..”ti riassumo breve-mente cos’ho raccolto fin’ora, non molto a dir la verità:il bambino si chiama Bernard, va in prima media, è figliounico,…”. Lo interrompo, “lo so, ho avuto modo di co-noscere i genitori nella riunione con gli insegnanti, unacoppia molto affiatata”.

“Povera signora, il marito è via per lavoro” mi in-forma Pièrre, “ed in un momento come questo avrebbesicuramente bisogno di conforto”.

“Dovremmo farle visita il prima possibile” pro-pongo io “prima che si offuschi la mente da cattivi pen-sieri e conclusioni affrettate, bisogna scoprire chi equando ha visto il bambino per l’ultima volta”.

Dandomi una pacca sulla spalla, Pièrre mi incoraggiadicendomi: “ti è bastata una rispolverata che eccoti giàin pista ed attivo come ai vecchi tempi”.

Guardo l’orologio, sta per cominciare la mia ora difrancese, dopo la quale avrò il pomeriggio libero: “oradevo andare, ti chiamo fra un’ora, mi aspetti vero?”

“Certo!” conferma lui.Prima di rientrare in classe, vedo nei volti degli allievi

uno sguardo di sgomento, ora toccherà a me, insegnante

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ed adulto, cercare di rincuorarli e dargli quella speranzache aiuta a superare situazioni di questo genere. Entrandoin classe, diversamente dal solito, c’è un silenzio tale chesento le lancette dell’orologio affisso sopra la porta scan-dire i secondi. Per distrarli decido di tirar fuori un dvddalla mia scrivania “chiudete i libri, oggi guardiamo ‘la ri-cerca della felicità’, la grammatica francese può aspettare”.

Tornando in macchina dall’incontro con Julie, lamadre di Bernard, penso che di primo acchito non ci haportato molti elementi utili su cui lavorare. La notte dellascomparsa del figlio era stata chiamata d’urgenza in ospe-dale, in quanto unica chirurga ortopedica dell’ospedale.Aveva dovuto operare un giovane ragazzo, Mario, che perarrotondare, consegna pizze a domicilio; si era fratturatoil femore cadendo dallo scooter prima che potesse arrivarea destinazione.

Decidiamo di fermarci per bere un caffè e mangiareuna ciambella. Pièrre tira fuori il suo block notes e comin-cia ad annotare quanto raccolto, e sogghignando gli dico:“Ah già che scrivi col sinistro, nel redigere i rapporti incentrale sporcavi sempre i fogli“.

Nel pronunciare queste parole, come un fulmine miattraversa la mente. Mi ricordo che Bernard è mancino, eche pure lui, insistendo nell’usare quella maledetta pennastilografica, mi rendeva la vita impossibile durante la cor-rezione dei compiti in classe! Non riuscivo mai a capirese sbagliava o meno gli accenti sulle parole, dato che cipassava sopra con il pugno della mano e finiva col pastic-ciare l’intero foglio!

Quasi tornando in me, mi rendo conto che ciò che

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prima era soltanto una supposizione, ora era diventata unacertezza. Me lo aveva anticipato lo psicologo, credeva sof-frissi di un disturbo bipolare.

Interrompo Pièrre, rivolgendomi a lui con voce tre-mante: “Julie dove ha detto che è caduto il ragazzo?”

“Rue de la Prulay, su una curva stretta, la temperaturaera scesa sotto lo zero e c’era la strada ghiacciata a causadei depositi d’acqua situati nelle buche dell’asfalto” mi ri-sponde lui “strano però, non piove da giorni”, riflette,senza staccare gli occhi dal foglio. “Forse non lo sai, masono diventato vegetariano” lo informo io.

“Cosa c’entra?” mi chiede lui.“Eh, mi son ricordato ora di una cosa alquanto sin-

golare; stamattina nel buttare l’immondizia, ho notato uncartone di pizza” che non ricordavo d’aver ordinato “condentro un avanzo, era un trancio al prosciutto, inoltre inbagno c’era anche un secchio con dentro dell’acqua”, in-calzo io. Lui cessa di scrivere, credo d’aver attirato la suaattenzione.

“Vedi, quello che sto cercando di dirti, è che non sonoio, il tuo amico “Pascal”, ad aver ordinato la pizza, ma èstata l’altra parte di me ad averlo fatto, si impossessa dimente e corpo senza che possa farci nulla. Quest’entità sache lavoro fa Julie, così ha bagnato la strada sotto casamia, ha ordinato una pizza ore dopo, ha sperato che Mariocadesse in scooter e si rompesse un osso (era Lui il suocliente), in modo che dall’ospedale chiamassero Julie, cosìda poter rapire il figlio in sua assenza. Lui vuole insegnargliuna volta per tutte a scrivere con la mano destra! Lui odiai mancini!”.

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Noir a scuolaMaurizio Rusconi

Il campus USI brulicava di persone. Una leggeranebbia ramata aleggiava, dipingendo l’aria e riempiendoil naso del suo odore. Dopo la contesa fra Lugano e Bel-linzona era deciso, ora la facoltà di medicina aveva uncampus e una sede.

Mancava qualche ora alla prossima lezione e ne ap-profittasti per correre lungo il parco. In quel momentoincrociasti il suo sguardo. Rapito, il fiato corto, con pa-role mute rimase a osservarti con i suoi occhi verdi.Stava camminando piano, il susseguirsi armonico deipassi legato ai suoi pensieri. Una sciarpa gli cingeva ilcollo, riparandolo dal vento, non ancora mordente comenei mesi a venire. Stava quasi per non accorgersene, tiavvertì distrattamente. Un breve istante ed eccoti, bella,bellissima, travolgente come una tempesta. In un mo-mento diventò avido di esperienze di vita non ancoraaccadute con pensieri pulsanti, impetuosi. Aveva vistoin te quella luce in fondo agli occhi, che riscalda comeuna giornata estiva e quell’umile dolcezza che ti contrad-distingue. Se gli avessi lasciato il tempo, ti avrebbe men-tito, avrebbe cercato di conquistarti con falsità che sisarebbero tramutate in verità non appena affermate, poi-ché lo avresti cambiato, sarebbe diventato migliore. Macontinuasti a correre.

Quando arrivasti al laboratorio di anatomia, ti giunseun brusio indistinto. Tutti quei ragazzi e ragazze pienidi sogni e speranze aspettavano te, le tue lezioni, le tue

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spiegazioni, per formare i mattoni del loro futuro. Sic-come eri l’assistente del professore, non rimasero sor-presi di vederti, però tu sì. Eccolo lì, proprio lui chequalche ora prima ti guardava correre. Ma certo! Era ilgenio intervistato la settimana scorsa, adesso con gli oc-chiali lo avevi riconosciuto. Un po’ lo invidiavi, un po’lo compativi, così famoso già al secondo anno. Avrebbesopportato quella pressione? Gli avevano chiesto seavesse un motto e citò Svevo: “Bisogna avere il tempoper essere malati”.

Si presentava come una giornata abituale, infatti,verso sera la luce del monitor incominciava a darti fasti-dio agli occhi. Avresti voluto chiuderli ed essere già acasa a farti coccolare dall’acqua calda della vasca, rapitadal mondo sconfinato della tua mente. La voce di un po-liziotto ti riportò alla realtà. Ti chiese di seguirlo in cen-trale. Senza alcuna domanda e un po’ intimorita andasticon lui. Le domande te le posero loro: era sparito un ca-davere dal laboratorio e, dai primi controlli sul posto,erano risultate tracce di droga. Come mai non eri stataavvisata? Un attimo prima stavi preparando una lezionee ora eri lì catapultata in un incubo, dove ti dicono chel’unica registrazione d’accesso è stata fatta con la tuachiave magnetica, la stessa che hai in tasca. Non vorrestirendertene conto, la giornata ti è sfuggita di mano, tistanno accusando di furto di cadavere e spaccio di droga!

Tre interrogatori, stesse domande, uguali risposte.Non vuoi l’avvocato, sai di essere innocente e lo vuoi di-mostrare anche così.

Fino a quel giorno le indagini le avevi viste sola-

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mente in Tv, non facevano sicuramente parte dei fram-menti scontati della tua vita.

La tua prigione è quella stanza, l’armadio, il tavolo,le sedie; l’atmosfera triste, spezzata, claustrofobica; nonla cella, lì ti puoi rilassare, gli occhi non ti scrutano, puoiguardare dalla piccola finestrella, dove nuvole disegnanofavole nel cielo.

Sei abituata, dopo anni di lavoro, alla vista dei cada-veri ma ora la foto del corpo, nel frattempo ritrovato,vìola la tua sfera personale. La morte aveva addentato lasua anima, nessuna fortificazione l’aveva messo al riparodallo scempio che qualcuno aveva commesso su di lui.

Parlano di perquisire casa tua. Se un’eventualità nonl’hai presa in considerazione, non ci pensi e non t’inti-morisce, però nel momento in cui bussa alla tua porta,senti un fremito pervaderti e non puoi farne a meno. Laparte più intima dell’anima, quella dove sei nuda, ti at-tende. Il tuo primo pensiero è al disordine, ma scuoti latesta, non sono amici invitati per cena con cui vuoi farebella figura. Esangue, perdi la nozione del tempo, ormaimutevole e pressoché dominato dalla tua condizione.

Stava per iniziare il quarto interrogatorio, quando ar-rivò un personaggio mai visto prima. Uscirono tuttiqualche minuto e al ritorno ti spiegarono che uno stu-dente aveva visto tutto: un teppista di loro conoscenzaera stato notato dal ragazzo mentre maneggiava una pi-stola come se fosse uno strumento divino, che gli per-metteva di decidere il destino degli altri. Erano in due;l’altro aveva una piattina scanalata in metallo, costruitaappositamente per aprire la finestra del laboratorio.

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Senza lasciar traccia hanno trafugato il cadavere, il qualeera stato usato come “involucro” per contenere la drogae dovevano farlo sparire prima che qualcuno se ne ac-corgesse.

“Lei è libera”, ecco le parole che aspettavi con ansia,violenta arrivò quella frase sussurrata. In corridoio in-contrasti di nuovo quegli occhioni verdi. Sì era lui, luiche ha visto tutto, il tuo salvatore.

È contento perché ti ha salvato, ha scoperto il piùbel fiore e l’ha protetto dal vento e dalla tempesta.

Ti dà una lettera, chiedendoti di aprirla dopo.Fuori i colori della mattina ormai sopraggiunta sono

più accesi, vivaci. Speri di ricordare questo momentoinalterato; ogni variazione gli farebbe perdere quellaforza dirompente, la sua perfezione.

Qualche minuto e le parole della lettera ti sono sve-late. Impaziente, non aspetti, il tempo ricomincia a scor-rere normalmente. Hai ripreso in mano la tua vita equalsiasi preoccupazione sfuma sotto l’influenza di que-sta forza.

Il foglio contiene un’unica frase, scritta in corsivocon una bella grafia:

“Vorrei inventare uno specchio deformante per fartivedere la mia vera essenza e percorrere con te il sentierodi un lungo viaggio”.

Con titolo: “Un albero rinchiuso in un bonsai”.La sera parlerà di te con sua madre e lei sorriderà;

suo figlio si è innamorato della “maestra”. Anche i bam-bini prodigio di 13 anni lo fanno.

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SamElena Giacometti

Sto camminando. Il mio cuore batte forte e sentomancarmi il respiro. È il primo di maggio. Una notte d’estate, l’aria è mite.

In sottofondo il frinio dei grilli. In cielo splendono alcune stelle, c’è calma, il villaggio

è addormentato. Percorro i vicoli bui senza inciampare,ormai li conosco a memoria. Da piccolo giocavo sempretra queste viuzze. Mi sento come una mosca che sta percadere nella trappola del ragno. Sono consapevole delrischio che sto per correre. Vorrei tornare indietro, mail mio corpo procede da solo, come se il mio cervellonon riuscisse più a padroneggiarlo.

All’improvviso mi ritrovo lì, davanti alla porta. L’in-segna è sbiadita, riporta a lettere cubitali “Scuola muni-cipale”. La porta è socchiusa, sento il mio fiatoaffannoso, la spingo lentamente e mi faccio spazio nelbuio del corridoio. C’è odore di muffa e di colori acrilici,un odore rimasto impresso nella mia memoria e nell’in-tonaco dell’edificio. Il messaggio parla chiaro: “Trovia-moci venerdì alle 22:00 al terzo piano della scuola”.Devo soltanto salire le scale e varcare la soglia dell’aulaabbandonata. Mi faccio coraggio e mi aggrappo alla rin-ghiera. Mentre salgo i gradini, uno dopo l’altro riaffio-rano lentamente i ricordi di un’infanzia lontana, fatta digiochi spensierati e corse all’aria aperta; pensieri imme-diatamente rabbuiati da un episodio tragico sepolto datempo.

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Sam era un bambino diverso dagli altri, era piccolo,magro, il volto pallido e gli occhi scavati, le maniche dellesue camicie di seconda mano erano sempre troppo lun-ghe. Sem aveva un segreto. Gli adulti cercavano di av-volgere la sua vita in un alone di mistero, noi riuscivamoa carpire soltanto poche parole e mezze verità. Non neparlavamo con lui, eravamo ancora piccoli. Forse nonriuscivamo nemmeno a comprendere. Poi Sam è scom-parso senza lasciare traccia. Ricordo la polizia, le divise,tante domande. Il tempo passava e Sam non tornava.Nessuno seppe dirci dove e perchè se n’era andato, cosìall’improvviso. Sentivamo la sua mancanza, ma poi conil tempo ci scordammo di lui. Anche la polizia sembròdimenticarsene. Poi a distanza di anni e dopo una laureain giornalismo la questione tornò a galla e decisi di aprireun’inchiesta partendo con degli articoli sul giornale lo-cale. In seguito alle mie dichiarazioni ricevetti un mes-saggio in segreteria: “Troviamoci venerdì alle 22:00 alterzo piano della scuola”.

Chi avrebbe potuto lasciare un messaggio del ge-nere? Non lo so ma tra pochi secondi lo scoprirò.

Davanti alla porta dell’aula mi sembra di esserel’alunno che trenta anni prima aspettava impazientel’orario della lezione con la cartella sulle spalle, la manoche aggrappava la maniglia e bussava timidamente allaporta. Mi tremano le mani. Istintivamente mi appoggioalla porta come il guerriero che si protegge con il suoscudo. All’interno appaiono immediatamente alla fine-stra i profili e le ombre degli animali impagliati che ac-compagnavano le nostre lezioni di biologia. Premo

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l’interruttore ma le luci non si accendono. Mi prendeuna forte ansia da bambino che ha paura del buio. Frugonelle tasche dei jeans, estraggo il cellulare e attivo la tor-cia. Davanti a me si presentano banchi di scuola copertida lenzuola, mappe arrotolate, cartolari e scatoloni, car-telloni e disegni appesi alla parete, la nostra vecchia la-vagna. All’improvviso le luci si accendono. Davanti a mec’è un uomo dai tratti famigliari.

– E tu chi sei? – chiedo– Non mi riconosci? – risponde lui con tono pacatoNella mia mente condizionata dai romanzi polizie-

schi già fantasticavo l’incontro con qualche ricattatoresenza scrupoli, invece mi sento sollevato nel riconoscereRoman, il vecchio bidello della scuola.

– Sei stato tu a lasciarmi il messaggio? – Sì Stefano, sono stato io. Voglio parlarti di una cosa

– si alza dalla sedia e avanza verso la lavagna. Si schiariscela voce e mi guarda negli occhi.

– L’ho trovato tanti anni fa – dice – pochi giorniprima che la scuola chiudesse i battenti. All’epoca nongli diedi molta importanza ma ora credo che potrebbeaiutarti a risolvere il caso. Me lo ricordo Sam, era un ra-gazzo tranquillo e tanto sfortunato. Suo padre aveva pro-blemi con la giustizia. Dicono sia tornato in Croaziadopo la scomparsa del figlio.

Roman solleva il perno che unisce la piattaforma an-teriore a quella posteriore della lavagna. Dietro la lavagnacompare in un angolo un testo poco appariscente dallacalligrafia infantile. Recita la seguente frase: “CercateGoran Mesic a Zagabria”

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– Zagabria è in Croazia, probabilmente ha a che farecon questa storia. Non so chi sia questo Goran Mesicma credo che tu riuscirai a scoprirlo.

– Puoi contarci!Roman era il nostro bidello ai tempi delle elementari,

un ragazzo stralunato e non particolarmente amante delproprio lavoro. Sognava di diventare famoso ma finì perfare il bidello fino alla chiusura della scuola. Poi si misead allevare pecore. Una stretta di mano e la promessa dirisolvere il caso.

Sto frugando tra gli elenchi telefonici croati ma nes-suna traccia di questo nome, Goran Mesic, non riesco atogliermelo dalla testa. Qualcosa dentro di me mi dicedi contattare il padre di Sam, ma nemmeno questa saràun’impresa facile, considerando il fatto che quest’ultimoha scelto di lasciare il paese. La madre di Sam vive ancoraqui, ma dicono sia depressa e ormai dipendente da psi-cofarmaci. Decido di farle visita e comunicarle la sco-perta di Roman.

Carmen vive relegata in casa in compagnia di unadecina di gatti. Appena varcata la soglia, l’odore è acre,l’appartamento caotico e disordinato. Carmen è sedutasul divano avvolta in uno scialle di lana, lo sguardo fissonel vuoto.

– Sei tu Stefano?– Buonasera Carmen – Avanti, siediti!Prendo uno sgabello e mi avvicino lentamente alla

donna. Il suo volto solcato dalle rughe, i capelli, untempo neri, ora sono diventati grigi.

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– Sei qui per parlare di mio figlio, non è vero? – ungatto si avvicina amichevolmente e si struscia contro lemie gambe. Lo accarezzo in mezzo alle orecchie e sor-rido a Carmen.

– Sì signora, sono qui per parlare di Sam. Se io ledico Goran Mesic le viene in mente qualcosa?

Carmen mi fissa, la sua reazione è difficile da inter-pretare. Dopo qualche istante inizia a parlare.

– Goran Mesic, è il marito di mia cognata, la sorelladi mio marito. Perchè mi parli di lui?

– Roman il bidello ha trovato questo nome sulla la-vagna della scuola. “Cercate Goran Mesic a Zagabria”.Crede sia stato Sam a scriverlo.

Carmen trasale, sembra scossa. – Non ne ho idea Stefano, io ho provato in tutti i

modi a contattare mio marito in Croazia ma sembrascomparso nel nulla, i suoi parenti non li ho mai più sen-titi. Ho sempre avuto la sensazione che avessero a chefare con questa storia, ma la polizia non era del mio pa-rere...

– Secondo lei suo marito potrebbe avere a che farecon questa storia?

– Non so che dire, a questo punto dobbiamo asso-lutamente cercare di contattare mio marito o sua sorellaNikica!

Carmen si alza e inizia a camminare avanti e indietro,le dita appoggiate sulla bocca, la fronte corrugata.

– Dobbiamo trovarlo Stefano! Decido di contattare l’Ufficio federale di polizia.

Purtroppo il caso di Sam non adempie i criteri della

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Convenzione dell’Aia sul rapimento dei minori. Assumoun investigatore privato che conosce il croato per rin-tracciare la famiglia Mesic in Croazia. Herman si pre-senta a casa mia il 12 luglio. È un uomo sullacinquantina, basso e grassoccio, il doppiomento e unpaio di occhialini. Sotto il braccio una mappa di pelle.Dopo aver discusso il caso, decidiamo di provare a rin-tracciare i parenti croati e se necessario raggiungerli aZagabria. Dopo qualche settimana arriva la telefonatache aspettavo da tempo.

– Li ho trovati Stefano! Li ho trovati!Non posso crederci. Chiedo a Herman di raggiun-

germi e decidiamo di eseguire insieme la chiamata conil vivavoce, sperando che qualcuno risponda. Il telefonosuona a lungo. Alla fine, quando Herman sta per riattac-care, all’improvviso risponde una voce maschile.

– Da? – Herman esita qualche secondo, poi chiedein croato informazioni su un uomo di 37 anni nato ecresciuto in Svizzera. La persona dall’altra parte dellacornetta sembra indugiare. Alla fine dopo un lungo so-spiro dice a Herman in croato:

– Signore, credo che l’uomo che lei sta cercando sono io.Non appena Herman mi riferisce la frase pronun-

ciata dall’interlocutore, non riesco a resistere e inizio achiamarlo per nome:

– Sam, sei tu Sam?– Sì, così mi chiamavo. Ma tu chi sei?– Sono Stefano Sam, mi riconosci?Dopo una lunga conversazione emerge finalmente

la verità, la risposta a tutte le domande.

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Il padre di Sam in conflitto con la moglie e soprat-tutto nei guai con la giustizia, aveva deciso di tornare inCroazia. Non voleva rinunciare al figlio Sam ma sapevache nessuno gli avrebbe permesso di portarlo con sé.Allora con i parenti di Zagabria organizzò tutto tramitedei passaporti falsi ottenuti chissà dove. Sam il giorno incui fu prelevato intuì da una telefonata del padre che sa-rebbe andato a vivere dagli zii di Zagabria, a insaputadella madre. Dopo l’ultima lezione lo zio Goran loavrebbe aspettato all’ingresso e lo avrebbe portato conlui in Croazia. A questo punto Sam prima di lasciarel’aula scrisse sulla lavagna la fatidica frase: “CercateGoran Mesic a Zagabria”.

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Noir a scuolaNaïma Wanshe

Ormai era troppo tardi... Quando la porta si aprì sa-pevo che nessuno avrebbe creduto alla mia ver-

sione. Avrei potuto dire quello che volevo ma nonsarebbe servito a niente. Però c’era una cosa che non ca-pivo. Perché io? Perché proprio io?

–“Ciao Ben!”, mi disse Nelly all’uscita della scuolavenerdì pomeriggio. “Domani vado al lago con Tara eCedric, vieni con noi?” Mi sarebbe talmente piaciuto maa causa di quella stupida Carla sapevo che non avrei po-tuto.

–Ciao! No mi dispiace ma domani non posso.–E come mai? Hai un appuntamento con una bella ra-gazza?

–Eh ormai no, sarebbe bello se fosse così. La veraragione è che ho ancora litigato con Carla in classe. Nonso che cos’ha contro di me ma mi sa che vuole propriofarmi perdere i nervi.

–Si, beh tutti sanno che Carla è proprio una scema.Ma non capisco cosa ti impedisce di venire con noi do-mani?

–C’era la signora Filippini in classe e dunque per pu-nizione mi ha dato quattro ore supplementari domanimattina. E conoscendo i miei genitori mi sa che nonpotrò uscire per un bel po’...

–Uffa! Questa Filippini è proprio una str... una stu-pida. Peccato per il lago! E buona fortuna per domani!

–Grazie...

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Come previsto quando tornai a casa mio padre michiese il mio quaderno e vedendo il commento cheaveva messo la Filippini mi sgridò e mi privò di uscireper n mese.

Quando mi svegliai, guardando il bel tempo nonavevo proprio voglia di andare a rinchiudermi in una salaper quattro ore... Malgrado ciò feci la mia colazione, unadoccia e mi preparai per andare a scuola. Una volta ar-rivato a destinazione andai verso la biblioteca. C’eranogià due allievi, uno si chiamava Valentino ed era un ab-bonato alle punizioni del sabato mattina. Era grande, unpo’ grassottello ed era il bullo della scuola. Tutti lo co-noscevano e vi assicuro che era meglio non avere pro-blemi con lui. La seconda era una ragazza. Si chiamavaVick ed era il suo primo anno in questa scuola. Non laconoscevo veramente ma sapevo che era un po’ strana.Era alta con i capelli neri lunghi e ondulati, aveva un totallook nero, anche il suo rossetto era scuro. Quando ebbifinito di esaminare i miei due “colleghi” ne arrivaronoaltri tre. Due ragazze e un ragazzo. Una delle ragazze eracompletamente l’opposto dell’altra, una era alta e l’altrapiccola, una era bionda e l’altra rossa, una sembrava unpo’ smaliziata e l’altra era la perfetta allieva modello, in-somma aveano una sola cosa in comune, le loro madrierano tutte e due famose. La madre di Livia, la bionda,era una grande agente per le star e la mamma di Alessiala rossa, era una grande avvocatessa che si era occupatadi alcuni casi famosi. Il ragazzo, lui era alto, con uncorpo atletico e aveva una gamba ingessata. Si chiamavaNick e non mi piaceva tanto. Era il genere di tipo che

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aveva tutte le ragazze che voleva e aveva un’aria propriosnob.

Finalmente arrivò il Signor Walter con la sua solitatazza di caffè.

–Okay ragazzi! Oggi trascorrerete quattro ore dellavostra bellissima giornata nella biblioteca perché misono reso conto che è da tanto che non faccio ordine.Mi raccomando, niente guai o ci rivediamo sabato pros-simo!

Walter aprì la grande porta e ci fece segno di entrare.La sala era immensa e il disordine era tale che anche sefossimo stati in trenta non avremmo potuto sistemaretutto in sole quattro ore.

–Ah! E stavo per dimenticare, disse partendo, nientetelefonini!

Appena chiuse la porta a chiave tutti cominciaronoa discutere, ridere o fare gli stupidi lanciando libri dap-pertutto.

–Ehi ragazzi! Che ne dite se facciamo una piccolaseduta spiritica? Chiese Vick.

–Che dice ancora quella la? Piantala non vedi chenessuno ti ascolta?? Le rispose Livia.

–E che c’è? Hai paura Livietta?–Piantala!! Se ti sento ancora una volta parlare di me

cosi ti...–A me va bene! La interroppe Valentino.–Grazie! Gli disse Vick.Vedendo che Vick non avrebbe cambiato idea finché

non si fosse fatta questa seduta, Alessia andò a spegnerela luce e ci sedemmo tutti attorno ad un tavolo nell’oscu-

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rità completa. Vick ci fece segno di darci la mano e dichiudere gli occhi.

–Spiriti, spiriti, dove siete nascosti? Se mi sentite, fa-temi un segno!

Livia e Alessia cominciarono a ridere e Nick nontardò a raggiungerle.

–State zitti! Gridai.Vick ricominciò ma questa volta qualcosa di strano

successe, come un soffio, il respiro di qualcuno. Ad untratto sentii qualcuno gridare vicino a me e la mano diVick lasciò la mia. Non capivo proprio cosa stava suc-cedendo, tutto era cosi strano, eravamo tutti impauriti,Livia e Alessia gridavano e Nick e Valentino tentavanodi restare calmi ma sentivo che avevano paura quantome. Poi, tutto andò molto svelto. Sentii un rumore divetro rotto e poi qualcuno strillare, e un altro, e un altro,e ancora un altro! Ad un tratto la luce si accese e una vi-sione di orrore apparse davanti ai miei occhi: C’era san-gue dappertutto ma non c’era piu nessuno. Non vedevol’ombra di nessuno. Ero terrorizzato. Questa visione disangue rosso mi dava i brividi. In mezzo alla sala, c’eraun martello. Un martello pieno di sangue. In quel mo-mento non so cosa mi passò per la testa. Avvanzai versoil martello e lo raccolsi. Subito dopo sentii la porta aprirsisotto lo choc di un grande colpo.

Ormai era troppo tardi... Quando la porta si aprì sa-pevo che nessuno avrebbe creduto alla mia versione.Avrei potuto dire quello che volevo ma non sarebbe ser-vito. Però c’era una cosa che non capivo. Perché me?Perché proprio me? Nella sala, tutto quello che la polizia

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vide era un ragazzo, in piedi in mezzo ad un bagno disangue, con un martello nella mano.

Nessuna inchiesta era necessaria. Il colpevole ero io...

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Misterioso omicidio al collegio PapioEstelle Jelmoni

«Ahhh!»Si sentì un urlo proveniente dalla chiesa del col-

legio Papio, era la docente di italiano Vanessa Ferrari,aveva trovato il cadavere del rettore, Don patrizio Fo-letti.

Drinn!«Pronto!»«Buongiorno investigatrice Bentley, purtroppo ab-

biamo trovato il rettore in fin di vita, pensiamo sia statoassassinato, può venire a dare un’occhiata?»

«Sì arrivo subito!»Terminai la telefonata, chiamai il medico legale, e mi

recai al Collegio.Quanto arrivai al Collegio c’era già ad aspettarmi la

dottoressa Elisa Bianchi, entrammo nella chiesa, Elisaandò a esaminare il cadavere, mentre io andai a interro-gare una certa professoressa Ferrari, che aveva trovatoil corpo del rettore.

È una persona molto gentile, disposta a collaborare,non molto alta, sulla trentina, capelli neri, occhi marroni.Quel giorno indossava degli abiti scuri, prevalentementeneri, una collana rossa, degli occhiali arancioni e ai piediportava delle scarpe rosse.

«A che ora trovò il cadavere?»«Circa alle nove!»«Per quale motivo si trovava in chiesa?»

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«Stavo cercando Don Stefano, l’ho cercato dapper-tutto, non lo trovavo allora bussai alla porta della sacre-stia della chiesa. Sentii qualcuno scappare, aprii di scattola porta e trovai solo il cadavere del nostro rettore sulpavimento. Gridai fortissimo. Arrivò la segretaria a ve-dere e poi chiamò subito la polizia e lei.»

«Ha per caso trovato un’arma?»«No, niente!»«Grazie per l’aiuto. Arrivederci!»«Arrivederci!»Andai in sacrestia, per chiedere a che punto era Elisa.Mi raccontò un po’ di dettagli: era un prete, non è

molto alto, ha i capelli marroni, gli occhi marroni, nonera malato, aveva circa sessant’anni, non è morto di in-farto, ma a causa di avvelenamento e aveva anche unafrattura al cranio causata da una forte botta in testa.

Elisa analizzò un piccolo campione di saliva del ret-tore, con apparecchio apposta e scoprì che aveva inge-rito un prodotto per oliare le rotaie dei modellini.

Elisa e i poliziotti portarono il corpo nello studio pa-tologico per altri esami.

Uscii dalla chiesa, andai in segreteria, bussai allaporta ed entrai.

«Buongiorno, saprebbe dirmi chi potrebbe usare unprodotto per oliare i modellini con rotaie?»

«Potrebbe usarlo il vicerettore Don Giacomo poichéha un modellino nel suo studio!»

«In questo momento Don Giacomo ha lezione?»«Sì, nell’aula di 3°A, la numero 131.»Ringraziai la segretaria e andai a cercare l’aula nu-

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mero 131.Siccome nell’aula c’era una lezione aspettai fuori e

ragionai con i pochi indizi che avevo.Mentre aspettavo fuori si aprì la porta è uscì una ra-

gazzina, si chiamava Alessia, gli chiesi se in classe c’eraDon Giacomo, lei mi rispose di sì, allora le feci alcunedomande.

Scoprii che adorava i misteri e che stava indagandosull’omicidio del rettore, aveva origliato in chiesa e sa-peva anche del veleno, il suo sospettato principale eraDon Giacomo, che usava lo Spinatex per oliare le rotaiedel suo modellino.

Era abbastanza grande, era un modellino con treni,la sua passione, Alessia c’era già stata e aveva già vistolo Spinatex.

Alessia era uscita per andare a chiedere una lista deiragazzi di 3°A, allora la accompagnai. Ci siamo anchefissate appuntamento nella pausa pranzo.

Suonò la campanella, allora feci alcune domande aDon Donato.

Riuscii solo ricavare che dalle 8:00 alle 9.35 era a ma-novrare il suo modellino, che usa lo Spinatex poi squillòil telefono e suonò anche la campanella.

Non avevo niente da fare allora cercai su internet loSpinatex, era velenoso.

Don Giacomo è abbastanza alto e severo, ha i capellicorti, marroni e gli occhi marroni, porta un paio di oc-chiali.

Allora chiamai Elisa:«Ciao hai novità? Io ho scoperto che l’arma è lo Spi-

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natex.»«Si hai ragione Eve, io ho scoperto che la ferita in

testa che fratturò il cranio del rettore era stata fatta conun tappo curvo di metallo, come quello dello Spinatex.»

«Oggi ho incontrato una ragazza di nome Alessia, sadiverse cose che potrebbero servirci, allora ho deciso dicollaborare con lei; pranzeremo assieme. Fammi saperese scopri qualcos’altro.»

«Ok ti farò sapere. Ciao!»«Ciao!»Passai a prendere Alessia e andammo a mangiare alla

Manor di Ascona.Mangiammo e parlammo molto dei possibili indi-

ziati.Nella Lista dei sospettati di Alessia c’erano tre per-

sone: Don Giacomo perché aveva lo Spinatex, nessunopuò confermare il suo alibi e sapeva che se il rettore sa-rebbe morto lui avrebbe preso il suo posto, la professo-ressa Ferrari perché aveva chiesto un aumento dellostipendio che il rettore non gli aveva concesso e infine ilpiù improbabile, Alberto Rossi perché il rettore avevaminacciato di licenziarlo se non avrebbe imparato acomportarsi bene con gli allievi.

Chiesi ad Alessia di descrivermi il professor Rossi:abbastanza alto, capelli grigi, si sa poco di lui, è moltoriservato, urla spesso e accusa gli allievi.

Tornammo a scuola, salutai Alessia e quando inizia-rono le lezioni andai a curiosare per la scuola, mi fermaidavanti alla porta dello studio di Don Giacomo, la portaera socchiusa e si sentivano litigare due persone, registrai

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tutto. Stavano per uscire e feci appena in tempo nascon-dermi vicino alle scale, dall’ ufficio vidi uscire la profes-soressa Ferrari e Don Giacomo, entrambi arrabbiati.

Andai in biblioteca, riascoltai la registrazione, Laprof. Ferrari accusava Don Giacomo di averle fatto uc-cidere il rettore che volevano solo stordire, lui ribattéche è stato costretto visto che lo Spinatex che le avevadato lei non era abbastanza.

Feci convocare i docenti e gli allievi in aula magna,grazie all’aiuto di Alessia e di un registratore avevo ri-solto il caso.

Quando arrivarono gli allievi feci partire la registra-zione, tutti rimasero a bocca aperta.

Arrestai la professoressa Ferrari e Don Giacomo.Mentre la polizia li portava via io ringraziai Alessia e

ci scambiammo i numeri di telefono, così potremo col-laborare in futuro con un qualche caso.

FINE!

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Penombra lunareLeonardo Boffini

Le mie dita esili erano pervase da un tremore impla-cabile mentre stringevano una gelida penna poggiata

su un foglio che risplendeva di un candore abbacinantealla luce tenue della luna. Osservai quel disco perfettoattraverso le sbarre del carcere minorile in cui ero segre-gato e constatai che stava per essere lentamente inghiot-tito oltre la sottile linea dell’orizzonte. Avevo ben pocotempo prima che i secondini mi venissero a ritirare percondurmi nel cortile a spaccar pietre, ma prima di alloradovevo assolutamente riuscire a descrivere la tremendavicenda che mi aveva catapultato qui, fra queste tetremura di mattoni grigiastri, altrimenti l’indomani il mar-tello che utilizzavo per frantumare i massi sarebbe di-ventato l’indiscusso artefice del mio suicidio. Dovevoalmeno tentare. Dopodiché mi sarebbe bastato farlo leg-gere a qualcuno prima del mio processo e sarei stato li-bero come una volta, per spiccare il volo e lasciarmitrasportare dal vento tiepido e rassicurante della pura le-tizia, planando al di sopra di immensi campi ricoperti dastuoli di fiori dalle tinte sgargianti. Presi un respiro pro-fondo e mi preparai a narrare l’ineluttabile evento di cuiero stato protagonista.

Era una giornata come molte altre e la frenesia mo-notona delle forme indistinte, che si muovevano rapideai margini dei miei occhi, non mi sfiorava minimamentementre mi apprestavo a giungere in prossimità del mioarmadietto. Quest’ultimo necessitava di un’immediata ri-

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verniciatura, per via del rosso smunto che andava via viasbiadendo rivelando il grigio metallico originale, o piut-tosto di essere sostituito, riempito com’era di minuscoleconche laddove i bulli della scuola mi ci avevano scara-ventato contro. E, sebbene credessi fino a quel mo-mento che la mia vita fosse stata un susseguirsi dicatastrofi e delusioni angoscianti, di lì a poco la mia esi-stenza avrebbe subito un declino ancor più devastante eradicale.

Inserii la chiave del lucchetto arrugginito e roso daltempo e feci per aprire l’armadietto, ma qualcosa mibloccò . Una strana sensazione ancestrale mi pervase emi raggelò le ossa e non seppi spiegarmi il motivo. Spa-lancai con un gesto secco l’anta e quello che vi trovai al-l’interno fece affiorare sul mio viso un muto urlo diterrore. Una testa, con miriadi di rigagnoli di sangue rap-preso che le attraversavano il volto e colavano sopra leorbite vuote e biancastre, mi sorrideva beffardamentecon le sue labbra sghembe, quasi mi ridesse in faccia pervia della mia espressione allibita e orripilata al tempostesso.

In quel momentaneo attimo di smarrimento, l’istintoebbe il sopravvento sulla ragione e, senza quasi render-mene conto, mi ritrovai lanciato a velocità esorbitantelungo il corridoio caotico. Corsi concitatamente, la realtàche sfumava e perdeva senso man mano procedevo allaceca, investendo ragazzi e ragazze ignari dell’atroce de-litto compiutosi quel giorno. Mi arrestai unicamentequando, dinanzi a me, potei scorgere una folla di personeriunita intorno ad un cadavere decapitato. Tutti quanti,

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attirati dal mio arrivo, si voltarono verso di me e vidichiaramente che uno dei presenti teneva in mano un og-getto dalla foggia assai familiare e mi fissava con gli occhisbarrati e increduli.

L’arnese in questione era un coltellino svizzero, sulquale si stagliavano nitidi i caratteri dorati che compo-nevano il mio nome. Quell’utensile tramandatomi damio nonno, che avevo mostrato e di cui mi ero pavo-neggiato in più d’una occasione, mi avrebbe catapultatodritto dritto sulle assi marce e consunte del patibolo.

Mi voltai e feci per sgattaiolare via il più lontano pos-sibile, ma mi ritrovai la strada sbarrata da alcuni ragazziparticolarmente robusti che, senza alcun indugio, mi im-mobilizzarono in una morsa ferrea e mi stordirono conun colpo in testa.

* * *Posai la penna mentre un crampo improvviso mi at-

tanagliava la mano. Ero incredibilmente riuscito a de-scrivere la mia rocambolesca vicenda, ma era ora di tirarele conclusioni. Perché ad una conclusione ero giunto,benché non avessi la più pallida idea di quale moventeavesse potuto spingere quell’uomo a farlo, a compiereuna follia di quel calibro…

Un improvviso rumore di passi mi riportò alla realtà.Stavano arrivando, ma io necessitavo di più tempo perterminare e nascondere il mio scritto. Mi gettai con fogasul foglio, con i passi dei secondini che gravavano sem-pre più sopra al mio cuore impazzito, calpestandolosenza pietà alcuna.

Il colpevole di quell’atrocità immonda era una per-

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sona che, seppur non essendo un allievo era onnipre-sente nella sede scolastica.

Voci concitate proferivano da oltre la soglia, sottililame fredde e gelide come la morte stessa…

Un adulto sì, e tra le tante cose l’unico a possedereuna copia completa delle chiavi degli armadietti degliscolari.

Le voci si trasformavano in grida, potevo sentire ilmio nome citato a gran voce ma non me ne curavo...

Colui che si occupava di ripulire il parco della scuolae di redarguire i soliti monelli di turno.

La porta della cella sbatté e le guardie irruppero al-l’interno. Mi presero per le braccia e mi trascinarono viadi peso, mentre vedevo il frutto delle mie elucubrazioniandare totalmente in fumo…

Qualcuno che veniva spesso deriso per il suo aspettoa tratti ripugnante.

Perché mi hai fatto questo? Perché hai deciso di sbri-ciolarmi l’esistenza, dannato bidello?

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Incendio a CadenazzoFrancesco Zappa

Sono le 18.15 del 13 marzo 2014, a casa Rossetti scattal’ allarme! Valentina non è ancora rientrata. E pen-

sare che la casa dista 20 metri dalla scuola elementare diCadenazzo: Valentina deve solo traversare la strada persalire al secondo piano della palazzina di fronte. Ma saràrientrata in classe dopo il pranzo con Lilla, la mamma?Al telefono è percettibile il disagio del Professor Visbini,il docente di classe. Balbetta un “non ricordo esatta-mente…”, quando la mamma di Valentina lo chiama acasa. “Ma come non ricorda !?! Mi sta dicendo che nonricorda se mia figlia oggi pomeriggio era in classe? Ma ache razza di professori sono affidati i nostri bambini !?!”.La disperazione di Lilla aumenta, e con questa l’angosciache qualcosa di grave possa essere capitato. “Chiamo lapolizia? Che faccio? Ma sì! Vittoria, la migliore amica diValentina! Vittoria deve sicuramente sapere…”. Chiama,non risponde nessuno a casa Trapetti... Si ricordasse unsolo altro nome, uno solo! Lei e Valentina si sono tra-sferiti da pochi mesi a Cadenazzo, e non c’è stato ungran che ti tempo per fare conoscenze...La mamma diValentina esce di corsa di casa. Lì di fronte la scuola,dove la luce è ancora accesa. Corre sulla gradinata edentra senza neanche accertarsi se la porta è aperta. E’aperta. Entra. ” Valentina! Valentina!...”.

Niente. Silenzio. Corre verso la sua aula: chiusa.Corre di sopra, di sotto, chiama ancora. “Ma non c’ènessuno? ”. Sto sudando freddo–pensa– devo control-

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larmi altrimenti perdo i sensi. Non sarebbe la primavolta, le è capitato spesso per molto, molto meno, di per-dere i sensi....molti non si sono mai chiesti perché suomarito un bel giorno l’aveva lasciata. “Sei un’isterica, iste-rica, isterica !!!!...”. Queste parole le aveva sentite tantevolte da suo marito. E non solo lei. I vicini, quei pochiamici…non poteva più continuare così… E ora Valen-tina se n’è andata anche lei –pensa–ma certo, avrà rag-giunto suo papà. Come ho fatto a non pensarci prima.Quell’imbecille dal sorrisetto complice e dal regalino fa-cile. Ma adesso mi sente, poteva almeno chiamarmi. Lochiama lei:“ Paolo, è con te Valentina?”. Paolo abita aContone. Parlando al cellulare Lilla si è già infilata lungola strada di campagna che porta a casa di Paolo, e già siimmagina la scena. Primo: un bel scapaccione a Valen-tina! “La spiga va raddrizzata finché è giovane”, dicevail nonno. E poi si dedicherà a Paolo, alla sua infantile in-coscienza e superficialità. Mi dia ancora dell’isterica–pensa– se solo osa!.

“ Pronto Lilla, che c’è ?”. “ Cosa che c’è?!? Dì a Va-lentina di prepararsi che sto arrivando a prenderla! E poiparliamo, noi due! Ho traslocato per non averti più trai piedi, Paolo, ma così non mi aiuti proprio!” .

“ Ma Lilla, calmati, cosa succede, Valentina non ècon me…”. Il sangue le si raggela nelle vene. E’ comese all’improvviso fosse diventata un cubetto di ghiaccio.Non riesce più ad andare ne avanti ne indietro. È para-lizzata. La voce di Paolo sembra arrivare da infinita-mente lontano.... “Devo tornare a casa. Devo sedermiun attimo e poi chiamare la polizia. Non posso farcela

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da sola”. Si gira per tornare sui suoi passi. Dopo pochimetri vede dei bagliori che attirano la sua attenzioneverso la palazzina dove abita. Fiamme? Del fumo stauscendo proprio dalla finestra della sua terrazza al se-condo piano. Comincia a correre. Un incendio–pensa–in casa sua, e se nel frattempo Valentina fosse rientrata?Oh mio Dio!…E io, la mamma, non c’ero, non ero li!.Col cuore che le martella nel cervello sale le scale a duea due, arriva al secondo piano, da sotto la porta esce delfumo. Grida: “Valentina!!!!! Valentina!!!!!!” Entra in casa,attraverso il fumo identifica subito la fonte delle fiamme:un cestino pieno di carta straccia sta bruciando. “Macos’è questo rumore?...”. Si avvicina di più, tirandosi sula maglietta per coprirsi bocca e naso. E’ preoccupataper il divano che si trova proprio dietro al cestino, è inmateriale sintetico, se prende fuoco è finita. E ancoraquesto rumore... Ma cos’è !?! Inciampa. Un filo. Un cavoelettrico. Cosa ci fa un cavo elettrico in mezzo alla sala?Panico. Non cade per un pelo. Il rumore è cessato. Ilcavo elettrico si è staccato dalla spina. Lo tira, e da sottoil divano, tra il fumo, compare...l’asciugacapelli! I battitidel cuore aumentano vertiginosamente. Se le fiammeavessero raggiunto l’asciugacapelli, pensa, chissà cosapoteva succedere. Una esplosione. Un black–out su tuttaCadenazzo. “Valentina! C’è qualcuno?!?! Vi prego, nonfatemi del male! Prendete quello che volete!”. Il fumoadagio adagio comincia a diradarsi. Il fuoco, non più ali-mentato dall’asciugacapelli, si spegne da solo. Dei pochifogli nel cestino resta solo cenere. Un rumore! ... C’èqualcosa che si muove! Viene da sotto il divano. C’è

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qualcuno. Paura. Indietreggia. Deve lasciare l’apparta-mento. Deve fuggire. Si gira verso la porta quando al-l’improvviso qualcosa si avventa su di lei. Grida contutto il fiato che ancora le esce dalla gola. “Aiuto!!!!!!Aiuto!!!!!! “.

“Mammina, sono io. Oggi a scuola ci hanno inse-gnato a giocare col fuoco. E’ stato bello sai?”.

Sono le 19.10.

Pochi minuti dopo, ore 19.15, al Quotidiano RSI1:“Sono le 15.30 del 13 marzo 2014 quando un incendiodivampa nel locale tecnico delle scuole elementari di Ca-denazzo. 120 allievi sono evacuati. Tutto si svolge senzaproblemi. Nei mesi precedenti i professori avevano piùvolte affrontato il tema del fuoco e della sicurezza: nonaver panico, non spingere i compagni...ecco alcuni degliinsegnamenti impartiti. Ma anche che non bisogna maigiocare con il fuoco e che col fuoco non si scherza. Maniente paura: l’allarme si rivela una esercitazione. Benriuscita, secondo i primi accertamenti.”

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Noir a scuolaKatia Danelon

Nell’istituto scolastico di Bodio, dove nulla accade,ma tutto è possibile, il bidello sembrava in totale

delirio.“Chiamate la polizia, hanno ucciso la direttrice! Mary

è morta!” questo è quanto andava urlando per i corridoi.Con le mani tremanti compose il 117 e, nel giro di pochiminuti, gli agenti giunsero sul posto.

Al loro arrivo trovarono gli alunni in evidente statodi eccitazione. Si spintonavano nell’intento di vedere unosquarcio della drammatica scenetta che si parava davantiai loro occhi increduli.

Chi l’aveva uccisa?“Non toccate niente!” disse l’ispettore Roniter, “Al-

lontanatevi!”Mary si trovava seduta sulla sedia nel suo ufficio. La

testa riversa all’indietro in forma sgraziata, lasciava pre-sagire che la morte fosse avvenuta per mano di un as-sassino spietato, che non le aveva lasciato granché libertàdi scelta, se non quella di morire in maniera indignitosa.Sulle sue gambe giaceva un libro. Roniter lo prese e ri-mase stupito nel vedere che si trattava di un diario. Ap-parteneva alla vittima? Bisognava controllare, perché, secosì era, molte risposte si sarebbero potute trovate làdentro.

“Fate il confronto grafologico” ordinò agli agenti,“Voglio un riscontro immediato”.

Accertato che il manoscritto appartenesse a Mary,

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Roniter lo sfogliò. Lesse alcune pagine e si lasciò tra-sportare da quella vita non sua, fatta di segreti, tradi-menti e inganni.

Mary era una donna colta e intenzionata a fare car-riera. Sposata giovanissima per volere dei suoi genitori,si trovò a dover convivere con un uomo che non amava.Antonio era spesso lontano per lavoro, così lei ne ap-profittava per uscire con le amiche. Si avvicinò a Marc,direttore della scuola dove anche Mary insegnava. Si fre-quentarono di nascosto per lungo tempo, perché en-trambi sposati. Erano felici, finché un tragico incidentele portò via il suo amore clandestino. Per combattere ildolore si candidò per il posto vacante come direttrice evenne assunta. Tutto l’ufficio le ricordava Marc. Quellequattro mura scialbe erano permeate del suo odore. Lomaledì, perché l’aveva abbandonata nel momento in cuiaveva maggiormente bisogno di lui. Non aveva fatto intempo a rivelargli che il frutto del loro amore stava cre-scendo dentro di lei. Si trovò quindi a doversela sbrigareda sola. Non poteva assolutamente confidarsi con An-tonio, ne sarebbe conseguito un enorme scandalo. Persua fortuna il marito era spesso assente, cosicché nondoveva preoccuparsi di nascondere il ventre ormai ri-gonfio. Quando lui rincasava, lei trovava una scusa peruscire. Non avevano più una vita di coppia da lungotempo. Come copertura per il parto inventò un meetingdi lavoro. Nacque Damian, figlio dell’adulterio. Avevapianificato tutto: l’avrebbe nascosto nel deposito sulretro della scuola e, per la sua buona crescita, assunto imigliori docenti, pagandoli profumatamente per svol-

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gere il loro lavoro e non fare domande.Il figlio crebbe, e così anche la strepitosa somiglianza

con il padre: capelli rossi ricci e occhi verdi. Guai se qual-cuno lo avesse visto. Nessuno doveva sapere, vedere, masoprattutto alludere.

Roniter venne richiamato alla realtà da urla assor-danti provenienti dall’aula accanto.

“Che cavolo… Andate a vedere cosa succede!”“Ispettore corra!” gridò un agente.Roniter entrò spedito nell’aula. Rannicchiato a terra

c’era un ragazzo pallido dai capelli rossi ricci che urlavacercando di infliggersi dolore mediante un tagliacarte.Non ebbe alcun dubbio.

“Ciao Damian, sono l’ispettore Roniter. Io e te dob-biamo fare una chiacchierata”.

L’adolescente non oppose resistenza e gli raccontòche Mary lo aveva rinchiuso in uno sgabuzzino fin dallanascita, facendogli credere che era affetto da una raramalattia. Che un giorno, assieme ai libri di testo e persbadataggine della madre, ricevette un manoscritto. Ri-conobbe la calligrafia e, incuriosito, si mise a leggerlo dinascosto. Cominciò gradatamente a dare senso e corpoal suo personaggio. Menzogne e tradimenti facevano disua madre, che tanto aveva amato, una squallida donnac-cia, che per difendere l’immagine ed evitare scandali, nonsi era fatta scrupoli nel posteggiarlo in un lerciume efarlo crescere con false verità, pur di apparire ai suoiocchi una buona mamma. Rinchiuso e imprigionatocome un ratto di fogna per tutti quegli anni per colpa didue bastardi che si erano divertiti senza prendere pre-

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cauzioni! La rabbia verso quella donna crebbe giornodopo giorno in maniera esponenziale. Aveva fatto par-venza di niente fino a oggi, momento in cui era riuscitoa fuggire ed era andato alla ricerca della madre. Barcol-lante per la poca struttura muscolare, percorse in lungoe in largo l’edificio scolastico a gran fatica, finché latrovò nel suo ufficio.

“Mia madre era dapprima sorpresa nel vedermi e inseguito spaventata per l’espressione di odio che leggevasul mio viso. Cercò di farmi ragionare sdrammatizzandol’accaduto, ma la situazione le stava sfuggendo di mano.Era abituata ad avere il controllo su tutti, tuttavia in quelmomento si sentì impotente! Avemmo un’accesa discus-sione e io, accecato dalla rabbia, le presi la testa fra lemani e gliela girai violentemente dicendole: grazie, mam-mina cara!”

Nell’istante in cui confessava il suo reato, un rivoloumido gli scivolò lungo la guancia. Lacrime apparente-mente piccole, ma dal peso emotivo troppo enorme dareggere.

“Poi, schifato, le scaraventai addosso il diario e andaia nascondermi nell’aula accanto. Mi creda ispettore, eroin panico! Conscio della mia brutalità, cominciai a inflig-germi dolore, perché il gesto che avevo compiuto nonera giustificato. Ho ucciso mia madre!

“Va bene, Damian. Apprezzo la tua sincerità. Ora al-zati! ” gli porse una penna stilografica e gli fece firmarela confessione.

Lo ammanettarono e, sotto gli occhi sbalorditi deglialunni, lo accompagnarono fuori dall’edificio scolastico.

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Roniter si appartò per ripensare a questa storia as-surda e immaginò il povero Damian in viaggio verso laprigione…La sua nuova prigione!

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Noir a scuolaPrisca Reali

Monsieur Gorsch. Per tutti “Il Maestro”. All’appa-renza un tipetto nervoso. Forse a causa del suo

continuo scrutare gli alunni, gli inverosimili battiti di pal-pebre e il tamburellare della matita sulla cattedra.

Ogni mattina, in perfetto orario, lo vedono svoltarenella via principale della scuola e tutti lo riconoscono.

Movenza lenta ma ben coordinata. Da qualche tempo non è più lo stesso Monsieur

Gorsch. Da qualche tempo sempre più stanco Monsieur

Gorsch.Con rispetto, lo osservano, cenni di saluto, un mo-

vimento della testa ma niente più. Gli ultimi scaliniprima di arrivare nell’immenso ingresso vittoriano e fi-nalmente entra in quello che lui definisce il suo santua-rio.

Da quel momento le cose cambiano. I ragazzi si ag-girano per i corridoi allegri. Li sente chiacchierare, rideree discutere delle loro ‘faccende da adolescenti ’, a voltecon imbarazzo, a volte con la tipica irriverenza della lorogiovane età. Questa volta è lui ad osservare mentre pianosi dirige verso la sua aula. Li ascolta, li scruta. Gira a de-stra ed oltrepassa la porta. Si avvicina alla cattedra, togliei libri, le penne, i quaderni. Ordinatamente li pone sullascrivania e si siede ad aspettare. Il suono della campanella.Chi correndo, chi trascinandosi svogliatamente, chi an-cora assonnato e, ad uno ad uno, prendono i loro posti.

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Monsieur Gorsch. “Il Maestro” da più di trent’anni.I ragazzi, da tutte le passate generazioni, lo adorano elui contraccambia. Quel giorno sembra esserci qualcosadi diverso. Egli apre il libro di scienze davanti a lui a cui,poi, faranno seguito quelli di matematica e letteratura.Beve un sorso d’acqua... Si ferma. E’ stanco. Prima neicassetti, poi nella cartella. Non trova quello che cerca.Lentamente alza il viso e guarda i suoi alunni, a loro voltaincuriositi da questa nuova attitudine. Li guarda, nonparla. Vorrebbe farlo ma non vi riesce. Li conosce aduno ad uno. Ne conosce i genitori precedentemente neiloro stessi banchi. Con gli stessi timori, sogni e ambi-zioni. Ripensa, Monsieur Gorsch, agli anni felici dedicati,vissuti, voluti. Gli occhi incavati, solcati da un alonenero. La pelle sempre più bianca. Ancora un ultimosguardo, un accenno di un sorriso, ed il suo ultimo cantosi disperde in silenzio.

Attoniti, impietriti. Non sanno cosa fare. Sguardipreoccupati. S’incrociano, si cercano. I primi sussurri arompere quel momento surreale. Qualcuno corre, in-ciampa, si scaraventa fuori dalla porta per poi scompa-rire nel suo stesso eco. Nessuno osa fiatare. Nessunovuole farlo, perché forse, questo potrebbe cambiare lecose. E’ lì, Monsieur Gorsch, chino sui suoi amati tesoridi conoscenza, cultura, arte, scienza. Forse ora rialzeràil capo. Forse ora riprenderà a picchiettare. Forse ora tor-nerà a regalarci la sua infinita sapienza. Forse ora…

Non lo farà, Monsieur Gorsch. Non lo farà più.Gli echi nel corridoio riprendono. Si avvicinano. Ar-

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rivano il preside, il medico, i primi suoi colleghi… ora ècosa da adulti. Hanno saputo. Qualcuno ha parlato…

E’ passato un giorno, un altro ancora e MonsieurGorsch non è tornato. Ancora lo aspettano ma non èavvenuto. Un anonimo supplente ne ha preso il postoed ora, per i suoi amati discenti, temporaneamente tra-slocati in un’ala ovest dell’edificio, non vi è pace. Dov’è“Lui”. Cosa gli è successo. Perché…

Omicidio! Assassinio! Parole che riecheggiano comefrustate. Com’è possibile. Chi. Perché. Nei giorni a se-guire una lunga serie di indagini. Un via vai di agentidella scientifica, ispettori, giornalisti. L’intero corpo in-segnanti impotente ed incredulo. Il loro amico, esempiodi dedizione, mentore di tecniche d’insegnamento spe-rimentali, spesso sempre più spesso lontano dagli ste-reotipi e dai cliché standard della sua materia. Venneroeseguite analisi chimiche del bicchiere utilizzato, il li-quido in esso contenuto. Misero a sigillo l’intera sezioneper perdersi in mille controlli, ispezioni, verifiche, con-getture. Mentre tutti si affaccendavano a cercare, analiz-zare, trovare le cause dell’incomprensibile accaduto gliallievi, i suoi allievi, iniziarono a porsi delle domande. Siritrovarono tutti nel giardino secolare all’ombra di unasbalorditiva camelia. Era primavera. Il sole troneggiavasplendente. La temperatura oramai mite aveva iniziato atappezzare il prato nei suoi più inverosimili colori. Ep-pure, tra loro, l’umore sfumato di grigio. Non capivanoe non se ne davano una ragione. Osservavano l’impaz-zito andirivieni e non lo comprendevano. Perché cercare

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lì. Perché persistere in esami insensati. Tutti lo amavano.Tutti lo ammiravano. Chi mai lo avrebbe voluto vederemorto… e allora: perché.

Un agente portò all’attenzione dell’ispettore capouna lettera trovata seminascosta tra gli scaffali della se-greteria di Madame Montière. Persona di fiducia, cre-sciuta nella scuola e parte integrante di essa. Unadichiarazione d’amore, chissà se mai spedita e forse, perquesto, sempre quell’aria sommessa, infelice, un’ombradi sé stessa. Nuove rivelazioni. Frenesia!

Le indagini cambiano di direzione. Forse un delittopassionale. Una nuvola informe di tutori della legge siammassa attorno a lei fagocitandola in un’ interminabiletesta a testa di domande, inquisizioni e lei piange. Il capoabbassato. Incapace di sostenere gli opprimenti interro-gatori. Troppo fragile. Già da tempo, ormai, abbattutadai suoi sogni, quelli più puri, primari. La sua colpa?L’aver desiderato, voluto essere amata e non aver maiavuto il coraggio di confessarlo a colui che ormai più leavrebbe, seppur platonicamente, gratificata di un leggerosorriso ad accarezzarle il cuore.

Ma allora chi? La tensione è palpabile, cresce il ner-vosismo per l’incapacità di denudare la verità.

All’esterno, nel frattempo, i ragazzi continuano apensare. Gli occhi stanchi contornati d’opaco. Quegliocchi! Gli stessi, che loro già videro nel giorno “DelMaestro”… ed allora compresero!

Monsieur Gorsch. “Il Maestro”. La sua ultima crea-

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zione. Tra tutte le dottrine negli anni utilizzate, all’unicoscopo di eternare la sua cultura, il suo patrimonio di co-noscenza, questa la più audace, la più temeraria. Comeancora lo poteva fare…?

Sbalorditi, esterrefatti spalancarono gli occhi. Il suoultimo capolavoro. Quando null’altro più a cui attingeresembrava potesse esistere. La sua ultima risorsa… sestesso… e nel rinunciare alla sua esistenza tutto il suosapere fu regalato…

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Il perdonoAnda Claudia Dutescu

La direttrice del liceo cantonale aveva appena telefo-nato alla polizia giudiziaria per annunciare il ritro-

vamento del corpo senza vita di un loro studente . Unquarto d’ora più tardi, il commissario Nardi incaricatodi questo caso si trovava nell’ufficio della direttrice delliceo.

Il medico legale affermò che la morte era avvenutain seguito ad un trauma alla testa dovuta alla caduta diun peso della palestra e che l’autopsia potrà fornire in-dicazioni più dettagliate. Il peso sembra essersi staccatomentre il ragazzo si allenava. Non si tratta però di unacaduta accidentale; il peso è stato staccato apposta.

“Mi racconti tutto quello che sa di questo ragazzo”disse Nardi alla signora Weber, la direttrice.

“Leo si era trasferito da poco nel nostro liceo. Nonaveva molti amici, era un ragazzo introverso che non hamai creato problemi. Non saprei chi poteva odiarlo cositanto da ucciderlo.”

“Vorrei vedere la classe di Leo, con ogni studente se-duto al suo posto” chiese Nardi alla fine del colloquio.

Qualche minuto più tardi il giovane commissarioentrò nell’aula dove venti studenti della terza lo fissavanocon curiosità. Non si aspettavano di vedere un commis-sario che sembrava avere quasi la loro età e qualche se-condo più tardi l’aula si animò e Nardi difficilmenteriuscì a mantenere il silenzio.

Chiese loro quale era il posto di Leo. Guardò con in-

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teresse ogni studente, fece domande a caso ed in seguitoscelse qualcuno per parlarne separatamente.

Da questo primo interrogatorio scoprì che Leo fuvittima di bullismo e che furono pubblicate delle fotocompromettenti su Facebook. Il bullo era Max, un com-pagno di classe che infastidiva tutti, ma soprattutto ilnuovo arrivato.

Max confessò che in passato aveva preso in giro lavittima, ma negò di averlo ucciso. Disse che non avevanessun motivo di ucciderlo e che i suoi scherzi sonosempre stati innocui. Negò anche di aver litigato con lavittima.

In seguito il commissario Nardi interrogò Lara, la fi-danzata di Max. La discussione con la ragazza non rivelòniente di insolito tranne che i due stavano insieme tantoper non annoiarsi. Ma nonostante questo, Max era ge-loso anche se lei diceva che non ne aveva motivo. In-somma una coppia di quelle che stanno insieme perchénon hanno niente di meglio da fare.

Seguì Ivan che disse di aver sentito una lite fra Leoe Max subito dopo la lezione di ginnastica. In seguitoanche altri studenti confermarono di aver sentito i duelitigando nella palestra. Leo era vestito ancora in tuta,quindi si presume che la morte sia avvenuta subito dopola lezione di ginnastica. Dopo c’era il pranzo e in effettinessuno l’aveva visto pranzare in mensa. Ma solamentealla lezione di italiano che era la prima ora di pomeriggio,notarono la sua mancanza e nello stesso momento un’al-tra classe che doveva fare ginnastica si trovò davanti allamacabra scoperta del corpo con il cranio fracassato.

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Nardi si mise al lavoro, ma nessuno agevolava i suoicompiti: dalla direttrice che sembrava rendersi conto im-provvisamente di quanto fosse giovane e presumibil-mente inesperto il commissario, dai docenti che ancheloro lo guardavano perplessi, dai studenti che ridevanodietro e dai genitori appostati per vedere chi e come sioccupa delle indagini.

Al secondo interrogatorio Max non negò più di averlitigato con Leo, ma affermò con veemenza di essere an-dato via mentre Leo si allenava coi pesi. Ma le provecontro di lui erano incomputabili.

Il caso era risolto ed il ragazzo fu portato nel carcerein attesa del processo.

La tranquillità tornò nelle aule del liceo cantonale,ma il commissario Nardi ogni tanto tornava e spiava lesagome dietro la siepe.

Lara era seduta su una panchina e accanto a lei c’eraIvan. Lei guardava le sue mani.

“Cosa ti sei fatto qui ?” chiese Lara scoprendo le ci-catrici sui polsi di Ivan.

“Niente, preferisco non parlare” disse Ivan co-prendo i polsi.

Il ricordo di quel tentativo di suicidio incombeva sudi lui ogni volta che guardava quelle cicatrici e ogni voltasentiva la sua solitudine davanti al mondo intero: lui, dasolo con i suoi polsi sanguinanti. Lo avevano trovatoagonizzante, ma ancora con un filo di vita nel corpostanco. La famiglia ha fatto in modo che non si sapessee quando era tornato a scuola tutti sapevano che avevaavuto una brutta polmonite.

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Ma adesso aveva paura e voleva sapere. Doveva andare in carcere e parlare con Max. Il bullo rimase sorpreso quando lo vide.Non riusciva proprio a capire perché questo ragazzo

che per tanto tempo ha preso in giro veniva a trovarloin carcere.

“ E allora cosa sei venuto a fare? Non sarai mica ve-nuto per prendermi in giro ? “chiese Max.

“No. Volevo dirti solamente che mi dispiace.”“Adesso che l’hai detto te ne puoi anche andare!”“E volevo dirti che ti ho perdonato” aggiunse Ivan.“E per che cosa mi hai perdonato ?” chiese stupito

Max.“Per questo !” disse Ivan mostrando i polsi.“E’ stato un momento in cui volevo morire. Per

colpa tua, per tutto quello che mi hai fatto. Ma ora ti per-dono” aggiunse Ivan andando via.

Max rimase in silenzio. Solo quando rimase da solocommentò con rabbia: “Guarda questo stupido per checosa è venuto. Me ne frego del tuo perdono, poveroscemo ! “ disse Max mentre veniva accompagnato incella.

Adesso Ivan aveva saputo quello che voleva saperee non aveva più paura. Max non sospettava niente. Nonsapeva che Ivan aveva nascosto lo spago che Leo avevausato per suicidarsi, pur sapendo che in questo modo ilsuicidio di Leo sarebbe sembrato un omicidio e che Maxsarebbe stato il primo sospettato.

L’aveva fatto perché in realtà non aveva mai perdo-nato Max per averlo portato sull’orlo del suicidio. E per-

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ché già allora era innamorato di Lara.Il commissario Nardi guardava Ivan mentre si allon-

tanava. Aveva richiesto la registrazione della conversa-zione dei due ragazzi appena aveva saputo che Ivanaveva fatto la domanda per visitare Max.

C’era qualcosa che non lo convinceva ed era certoche presto l’avrebbe scoperto.

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Noir a scuolaAnna Maspoli

Ecco, arriva, sento i passi avvicinarsi, è a pochi scalinidalla porta; trattengo il respiro, lo tratteniamo tutti

sperando che questa volta… Scricchiola come d’abitu-dine il penultimo scalino, quello che ci salva spesso av-vertendoci del pericolo imminente, l’abbiamo chiamatoBennett come la prima signora del faro. Noi bambinidella scuola abbiamo la fortuna di sottrarci una voltal’anno alle sgrinfie delle bacchettone, di “beneficiare perqualche ora della balsamica aria salmastra e di preziosiinsegnamenti”, come definiscono loro il pomeriggio allabaia. Fesserie. Libertà, mascalzonate e, sopra ogni cosa,racconti fantastici e misteriosi di quei lupi di mare chele suore, nostre istruttrici e carceriere, chiamano genti-luomini. Pozzi di incredibili storie di paura e magia, chepoi ci raccontiamo a vicenda per tenerle vive e spaven-tare i più piccoli.

Circolava da tempo anche la vicenda di Mary JaneBennett, figlia di emigrati Gallesi giunti in Nuova Ze-landa l’anno 1841. La bella Mary, innamoratasi di un gio-vane marinaio del posto, lo pianse in mare dopo soli dueanni di matrimonio; col dolore nel cuore ma una forzaereditata dalle possenti coste del suo paese d’origine, di-venne nel 1858 guardiana del primo faro del nostropaese, eretto sulle falesie meridionali dell’Isola del Nord.

È analoga la funzione del già citato gradino Bennett,che sempre segnala l’arrivo di una delle converse e cipermette di rassettarci rapidamente e sfoderare i sorrisi.

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Evitare che ci scoprano a leggere fumetti di contrab-bando, a giocare a carte o intenti in altre simili attivitàpeccaminose è la nostra unica preoccupazione e coltempo la nostra astuzia si è affinata parecchio. Da qual-che tempo c’era un altro motivo per cui ella veniva messaalla prova: era una notte di temporale estivo, di quellidove la natura pare vendicarsi di anni di silenziosa sop-portazione e reagisce con una forza tale che il cielo sem-bra esplodere. Notti così capitano una o due volte astagione ed è uno spettacolo di tale bellezza ed energiache non manco mai di godermi interamente, appoggiataal bordo della finestra, con uno spiraglio aperto per re-spirare la pioggia.

Nella nostra piccola scuola, al limitare di una fitta fo-resta di abeti, siamo una cinquantina di ragazzi e la man-sarda – rigorosamente divisa, maschi da una parte efemmine dall’altra – funge da dormitorio. Il giardino èdominato da un vecchio, enorme acero, i quali rami siestendono fino quasi a toccare la casa. Era proprio suuno di quei rami che quella notte vidi un qualcosa dinero che cercava malamente di restare aggrappato, men-tre vento e pioggia lo sbatacchiavano di qua e di là, comeuno straccio impolverato. Quando all’improvviso i suoiocchi, gialli come lampi, incontrarono i miei non espri-mevano terrore come mi sarei aspettata; parevano quasidivertiti, come se non ci fosse niente di più interessanteche starsene in balia della tempesta. Un attimo dopo unaviolenta raffica di vento spalancò la finestra e in unistante il gatto spiccò un balzo e mi atterrò addosso. Ria-perti gli occhi dopo lo spavento, incontrai il suo sguardo

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serafico. Dopo una bella tempesta, niente di meglio cheun caldo abbraccio umano di cui servirsi.

Nei giorni seguenti il micio divenne l’attrazione prin-cipale, a lezione non vedevamo l’ora di tornare in cameradove appariva per giocare, farsi coccolare e parteciparealle nostre marachelle. Era il più scaltro di tutti e parevadivertirsi quanto noi a far prendere spaventi alle suore oa rubare cibo dalla cucina, da dove poi tornava con quelsuo sguardo divertito e maligno che lo contraddistin-gueva. Sembrava sempre tramare qualcosa e quando lovedevamo sgusciar fuori ci eravamo abituati a non pre-occuparci che venisse scoperto, era infatti più intelligentedi tutti noi messi assieme. Lo adoravamo, ma non nellamaniera in cui un bambino vuole bene al suo cucciolo egli è affezionato, bensì ammirandone l’ombroso carisma,con rispetto e lealtà.

Successe soltanto una volta, un giorno, che la servalo vide mentre sgattaiolava fuori dalla cucina; lei cacciòun urlo, che per fortuna le suore non sentirono essendouscite al mercato, e da come lui arrivò a siluro correndoa nascondersi in un angolo intuimmo il malfatto. Ri-cordo che mi avvicinai al nascondiglio dove si era rag-gomitolato. Sentendomi vicina si voltò – e il mio cuoreebbe un sussulto: il pelo era ritto e i suoi occhi, primagiallo–dorati, parevano due braci ardenti, pieni di turba-mento e ira. Fu selvatico il giorno seguente, e quelli dopoancora; si faceva vedere raramente, aveva preso l’abitu-dine di soffiare a qualunque rumore improvviso. Nonsoltanto il vederlo così ci intristiva, aveva preso infatti atutti uno strano malessere interiore come se noi tutti fos-

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simo stati tremendamente ingiuriati e il vivere in quelposto ci fosse diventato un insulto. Non potevamo piùsopportare la vista della serva. Neanche la prospettivadella gita alla baia riuscì a toglierci dall’animo quel buiomaligno, quella rabbia; partimmo il mattino di buon’ora,con l’umore spento e gelido come le nuvole gonfie d’ac-qua sopra la nostra testa.

– Mi raccomando, non allontanatevi dal paese. Edate retta a Josephine, sappiate che mi riferirà ogni com-portamento non adeguato e provvederò…

Tornammo a casa che era quasi buio, i racconti deipescatori ancora nelle orecchie e i vestiti inzuppati dellapioggia che da metà pomeriggio cadeva fitta. Le suoreci aspettavano sulla soglia con sguardi gravi, alle lorospalle due agenti della polizia cittadina. Suor Margareth,la superiora, si fece avanti pallida in volto e indebolitatutt’un tratto, lei che solitamente era il terrore della casa:

– La serva… Josephine… in fondo agli scogli. Po-vero dolce viso, povera anima.

Ricordo che i nostri volti non mutarono espressione,immagino sembrassimo tutti sotto shock… anchequando, alzato lo sguardo alla finestra della mansarda eincontrato due occhi gialli nel buio ci sentimmo tutti ras-sicurare. Sembravano dire “ben fatto”.

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Alle 18 nel piazzale del liceoMarica Iannuzzi

–Ma no! Ti ho detto che non puoi usare quellaproprietà dei logaritmi!– dissi io.

–Vuoi stare zitto, Simo? Ho ragione io!– gridò in rispo-sta Arianna.–Volete un mio parere? Non credo che il venerdì serasia il momento migliore per mettersi a fare la serie dimate…––Guarda che ho fatto giusto io!– sbraitò lei convinta,senza badare a quello che Luca aveva appena detto.–Ciao ragazzi…– Una voce femminile interruppe la discussione matema-tica. Quelle parole erano state sufficienti per far capireai tre amici che cosa dovessero fare in quel momento.Erano già arrivate le 17.30: l’orario in cui le donne di pu-lizie arrivavano agli armadietti che dovevano essere la-sciati liberi per le pulizie. –Mi spiace farvi traslocare…– disse la donna, sfilandosiuna cuffietta dalle orecchie. Ormai eravamo abituati adoverci trasferire in un altro posto del liceo quando ar-rivava un certo orario. Così, mentre Luca ammassava di-sordinatamente i fogli, Sandra era intenta a svuotare lasua borsa sbarazzandosi dei libri inutili. –Sempre la solita storia!– borbottai io. –Cosa hai da lamentarti sempre?– chiese Arianna mentrecercava di far ingoiare all’armadietto il manuale di storia. –Come al solito il mio armadietto non si chiude!– sbruf-

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fai io. E mentre litigavo con la serratura, dal fondo del corri-doio, il rumore metallico provocato dalle rotelle dei car-relli si faceva sempre più nitido. –Va beh, vorrà dire che mi porterò a casa le cose di mateanche se non mi servono…– dissi in modo rammaricato.Senza che me ne fossi accorto, Luca e Arianna eranopronti ad andare: mancavo solo io. A farmi accorgere diquesto fu una voce maschile che mi era familiare:–Ragazzi, potete andare in buvette? Noi dobbiamo pu-lire.– comunicò il bidello con tono seccato.–Sì, ci scusi…– acconsentì subito Arianna. In fretta efuria ce ne andammo, lasciandoci alle spalle non solo gliarmadietti, ma pure il frastuono delle aspirapolvere.Mentre ci stavamo dirigendo al pianterreno, nessuno dinoi tre aprì bocca, come se avessimo paura di respirarequel tanfo acre di chi disinfetta anche gli angoli più im-pensabili .–Ma io mi chiedo che senso abbia lavare le scale se poidopo puzzano più di prima!– disapprovò Luca, gestico-lando nell’intento di tapparsi il naso.–Ma io invece mi chiedo perché fanno lavorare quiquello lì…– si lamentò Arianna riferendosi al bidello. –Come se di gente antipatica in questo liceo non ce nefosse già abbastanza.– continuò, facendo riferimentoquesta volta ad alcuni professori. Come d’abitudine ioacconsentii a quello che i miei due amici stavano di-cendo, senza però averli ascoltati veramente.–Tu invece perché non dici niente?– domandò Luca,mentre era intento a sbriciolare giù per le scale un pezzo

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di Balisto per fare un dispetto alle donne delle pulizie.–Ehm… veramente io…– mi bloccai, perché non vo-levo che i miei amici si accorgessero che realmente nonli stavo ascoltando. –Veramente io… cosa?– chiese un po’innervositaArianna, mentre controllava sul display del suo telefonose le fosse colato il mascara.–No… è che non mi ricordo dove ho lasciato il mio for-mulario di mate…– farfugliai io. –Non dirai sul serio, Simo!– dissentirono in coro Lucae Arianna. –Ma…– tentai invano di proseguire io. –Guarda, tu sei davvero un caso perso…– lo compatìArianna. –Poi Luca, hai quasi finito tu con quel Balisto?–lo rimproverò lei. –Se vuoi fare una cosa falla bene al-meno!– e con un sorrisetto tirò fuori una monoporzionedi cereali integrali che aveva in borsa. Sulle labbra di Luca si disegnò un sorrisetto: –Sei ge–nia–le, Ari!– scandì Luca mentre stava già cospargendoper le scale i cereali come un contadino intento a semi-nare.Io li guardavo fare, disapprovando tutto quello che sta-vano facendo. Detto francamente, avevo altro cui pen-sare e altro con cui divertirmi. Nonostante questo eranomiei amici e non riuscii a reprimere l’intenzione di direloro:–Se vi becca una donna delle pulizie…– non feci nem-meno in tempo a finire la frase che i miei due amici laripeterono come pappagalli.–Piantala dai, Simo! In testa tu hai solo la matematica!–

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mi derise Luca.E quando raggiungemmo l’atrio della scuola, Luca eArianna andarono in direzione dell’uscita, mentre iosvoltai in direzione della buvette.–E ora che fai?– chiese sbigottita Arianna –non vienicon noi a prendere il bus?– –Ehm… no, passo prima a prendermi un caffè e poi...––E poi finisco la serie di mate da bravo bambino.– loanticipò Luca scotendo la testa.–Forza dai, andiamo… Io ho di meglio da fare. Non vo-glio mica perdere il bus. – disse Arianna tirando la ma-nica del giubbotto di Luca.–Ci si vede. Buon divertimento con i tuoi logaritmi.–Arianna nemmeno mi salutò e li vidi allontanarsi nel cor-tile.

Nella buvette regnava il silenzio. L’unico rumore chesentivo era il ronzio del distributore che era in penom-bra; infatti, era accesa una fila sola di neon. Tutti i tavolierano vuoti. Ero da solo. Guardai di sfuggita dalla fine-stra a forma di oblò che aveva la vista sul piazzale delliceo. Luca e Arianna non c’erano più. Il cielo era diven-tato un manto nero e a illuminare quella sera alle 17.45c’era solo la luce artificiale del lampione vicino al po-steggio per le biciclette. Le mie scarpe Adidas facevanorumore ad ogni passo. Prima di sedermi, mi presi uncaffè. Tirai fuori la calcolatrice e la serie di esercizi e mirituffai nel mondo della matematica. D’un tratto sentiidei passi e poco dopo vidi un’ombra disegnarsi sullemura. Rimasi come pietrificato a fissare il fumo cheusciva dal mio cappuccino.

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–È tuo questo?– mi voltai di scatto. Era il bidello con in mano il mio formulario di ma-

tematica.–Sì… grazie…– furono le uniche parole che riuscii

a dire. Lo afferrai e un brivido mi attraversò la schiena: sul

retro c’erano dei cereali incrostati di… sangue.Impallidii. E la risposta del bidello mi arrivò con

l’eco della sua voce:–Da lunedì niente più briciole.–

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Noir a scuolaAndrea Panichi

Per il professor Marco Ghisi insegnante di educa-zione fisica al liceo, la morte del figlio Alberto per

overdose, era stato un colpo terribile da cui non era riu-scito a riprendersi. Separato dalla moglie, pochi contatticol figlio che era rimasto a vivere con la madre, non siera accorto che il ragazzo si drogava e quindi non avevamai fatto nulla. E questa consapevolezza lo faceva sen-tire colpevole e non riusciva a darsi pace.

Dopo alcuni mesi si era pure ammalato. Aveva co-minciato a tossire, era andato a farsi visitare e il medicogli aveva diagnosticato un cancro al polmone sinistro:gli restava un anno di vita.

C’è chi collega l’insorgere di una malattia grave a unfatto doloroso della vita. Il professore si era convintoche così fosse capitato anche a lui.

Ora l’unico scopo del resto della sua esistenza eraquello di scoprire chi aveva fornito la droga a suo figlioper fargliela pagare. Riteneva che anche certi ragazzi ascuola si drogavano. Aveva notato che un paio di allievinelle lezioni di nuoto dimostravano una resistenza inacqua davvero impressionante e nuotavano a un ritmoinsostenibile per tutti gli altri. Certamente assumevanoquanto meno degli stimolanti se non droghe vere e pro-prie. Anche altri ragazzi talvolta avevano atteggiamentistrani, passavano da fasi di grande euforia ad altri di de-pressione senza motivo apparente: manifestazioni tipi-che di chi assume stimolanti. Prendevano forse cocaina?

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C’era qualcuno che la smerciava anche a scuola? I suoi sospetti si erano appuntati su Ivan, un ragazzo

che veniva a scuola in Porsche. Come poteva permettersiun’auto così costosa, lui che era di famiglia modesta? Isuoi genitori avevano un negozietto di frutta e verdura!Si era ripromesso di tenere d’occhio il ragazzo soprat-tutto nei rapporti con gli altri nella speranza di coglierequalche indizio rivelatore.

Giorno dopo giorno la sua malattia, che non avevaancora rivelato a nessuno, si aggravava, la sua tosse di-ventava sempre più insistente e dolorosa. E lui conti-nuava a lavorare. I suoi colleghi lo avevano più volteconsigliato di restare a casa e di curarsi. Ma lui si era datauna missione e voleva portarla a termine. E poi curarsi,fare la chemio per avere qualche settimana in più di ago-nia? Tanto la sua fine ormai era segnata!

Finalmente una sera ebbe la prova che cercava.Mentre gli allievi sguazzavano nella vasca in piscina, siera intrufolato nello spogliatoio a rovistare tra gli indu-menti di Ivan. Era quasi buio – l’oscurità là sotto arrivapresto d’inverno – ma per precauzione non aveva ac-ceso la luce. Frugando fra gli indumenti del ragazzoaveva trovato in una tasca nascosta all’interno dei suoipantaloni, chiusa da una lampo, tre bustine che al tattosembrava contenessero una polvere fine: “cocaina”pensò il professore mettendole in una tasca della suatuta da ginnastica.

Ritornò in piscina, si avvicinò a Ivan dicendogli chedoveva parlargli e gli chiese di aspettarlo nello spoglia-toio.

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Dopo aver verificato che tutti gli allievi fosserousciti, il professore entrò silenziosamente nello spo-gliatoio. Il ragazzo indossava ancora solo gli slip e lacanottiera, teneva in mano i pantaloni e frugava nelletasche. Il professore, mentre estraeva le bustine dallatasca della sua tuta non riuscì a trattenere uno di quegliimprovvisi attacchi di tosse che lo scuotevano tutto.

Il ragazzo si girò di scatto verso di lui, sorpreso.– Cerchi queste? – riuscì comunque a dire il pro-

fessore mostrando le bustine che teneva nella mano de-stra. – Sei tu che vendi questa merda, vero?

– Io, io… sono loro che me la chiedono. Io nonimpongo niente a nessuno – cercò di giustificarsi il ra-gazzo.

– L’hai venduta anche ad Alberto, vero?– Non mi ricordo, non lo so.– Non negare con me, voglio sapere la verità.

Gliel’hai venduta tu quella merda che l’ha ucciso? – Ilprofessore si era avvicinato minaccioso al ragazzo eaveva passato dalla mano destra alla sinistra le tre bu-stine.

– Forse… ma è stata colpa sua, è lui che se la iniet-tava invece di sniffare come fanno…

Non riuscì a terminare la frase: il professore locolpì rabbiosamente con un corto gancio destro allabocca dello stomaco. Lui che da giovane aveva prati-cato anche la boxe sapeva che quello era un colpo dak.o. perché ti toglie il fiato. Infatti il ragazzo si piegòsu e stesso, poi, a bocca aperta, scivolò lentamente aterra sbattendo la faccia contro il pavimento.

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Verso le otto di sera il custode del liceo ricevette una te-lefonata dal papà di Ivan che diceva di essere preoccupatoperché il ragazzo non era ancora rincasato. Il suo iphonesuonava ma lui non rispondeva. Poteva, per favore, andarea vedere a scuola? Forse era successo qualcosa, magari si erafatto male… poteva essere rimasto chiuso dentro… Nel-l’ultima ora aveva avuto una lezione di ginnastica…

Il custode cercò di tranquillizzare il genitore e lo assicuròche sarebbe andato a controllare immediatamente. Infatti sirecò subito a scuola. Vide che l’auto del ragazzo era ancoraparcheggiata al solito posto, ma dentro non c’era nessuno.Entrò nell’edificio, accese le luci del corridoio, domandò avoce alta:

– C’è qualcuno? Ivan, sei qui? C’è qualcuno? – ripeté.Nessuno rispose.Scese rapidamente le scale che conducevano nel semin-

terrato, entrò in palestra, accese le luci e lo vide immediata-mente. Il ragazzo era vicino alla parete destra, penzoloni,tra il quadrato svedese e le pertiche, con il collo avvoltostretto da una delle funi e i piedi a pochi centimetri da terra.Praticamente impiccato.

In bocca aveva tre bustine.

Il medico legale stabilì che si trattava di un chiaro casodi omicidio. Il ragazzo era morto per strangolamento, maprima era stato pure picchiato.

Nessuno aveva visto nulla. Solo la donna delle puliziesi ricordò che verso le cinque, mentre passava uno stracciosul pavimento di un’aula a pianterreno, aveva udito qualcunoche saliva al buio le scale della palestra. E tossiva…tossiva…

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La SciarpaSilvana Candeloro

“Mi devo affrettare” penso mentre attraverso l’ul-timo passaggio pedonale che mi porta alle

Scuole Superiori. Il ritardo potrebbe costarmi anche il portone d’in-

gresso sbarrato, visto che l’attuale custode è burbero escreanzato.

Torno un attimo ai tempi passati quando da altro in-gresso frequentavo le medie, sempre in quel caos dicomplesso scolastico.

Tra due ali di nuovi edifici e facciate dei vecchi cherichiamavano l’originale di tante aule frequentate ancheda mia madre.

Ci si scusava del ritardo con motivi vari ed il custodeli accettava, anche se con un sorriso ambiguo e sguardiche ti spogliavano. Lui un tipo diverso da quello pre-sente. Capelli neri ricci, portamento dignitoso più daprofessore che semplice bidello.

Forse era poi passato ad altre mansioni vista la suaimprovvisa sparizione.

Noi ragazzine lo guardavamo con un certo interessededicandogli sottovoce degli attributi.

Ogni anno scolastico comportava nuovi impegni, ac-compagnati parimenti da risvegli di sentimenti che por-tano a prediligere e scegliere un compagno di classe colquale scambiare particolari conversazioni, per poi finirea contatti e confidenze amorose.

Così per timidezza prima, ma soprattutto per sfug-

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gire a pettegolezzi e giudizi maliziosi (le colleghe si sa-ziano di questo) CARLO mi convince un giorno a se-guirlo mano nella mano, fino alle rampe dei uno deivecchi edifici ormai in disuso.

I pochi gradini ci portano ad un atrio buio.Solo il sole entrato a strisce tra le fessure di bocchette

di ventilazione, illumina la massiccia porta di entrata delrifugio antiaereo.

Un grosso manufatto in cemento armato con largacornice in ferro color rosso sbiadito e lunga stanga diacciaio quale maniglia d’apertura.

Carlo mi abbraccia forte e a lungo, tanto che mi ri-trovo con il viso appiccicato alla sua spalla.

Ed è proprio allora che noto in basso a quell’agglo-merato una lista di stoffa decorata da una ramatura, maanche di macchie scure.

Può succedere che a distanza di qualche anno un ri-cordo ti si rinfacci come realtà da vivere in quel mo-mento??

Si, perché improvviso e nitido io ritrovo davanti ame una sciarpa con fondo bianco e nella lunghezza ra-matura di fiori di pesco, che era stata motivo di discus-sione tra noi allieve sia per il motivo del disegno, maanche per la suddivisione della quota di partecipazionealle spese d’acquisto.

Ritenuto dovuto questo omaggio alla professoressadi lettere, signorina Maestro, che ci aveva seguito edanche affascinato con un programma letterario, con testianche di sua inventiva che parlavano di drammi amo-rosi.

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Il fatto di essere precaria l’aveva poi decisa ad accet-tare un posto fisso altrove per cui molto sentito il com-miato, con la consegna dell’oggetto da lei gradito.

Pensavamo rivederla nel futuro, ma invece nessun ri-torno.

Oblio o forti impegni magari anche familiari, vistoche era una bellissima ragazza acqua e sapone, ammiratae riverita ai passaggi nei corridoi da colleghi, personalee maliziosamente pure da qualche allievo.

Con uno strattone mi divincolo dal mio ragazzo, in-ginocchiandomi all’angolo di quell’ammasso di cementosvergolato ai lati, visto che la chiusura non è certo er-metica.

Allungo la mano per prendere un lembo della stoffae la stessa si allunga mostrando altre macchie scure. San-gue???

Mi sento offesa pensando alla venerazione da noidata a quell’oggetto al momento dell’acquisto.

Nessun dubbio trattarsi dell’originale, poiché comegaranzia di motivo unico era pure stato dato un marchiodi certificazione.

Poi però subito raccapriccio per la realtà di quellapresenza in quel luogo.

Supposizioni infinite si accavallano anche in Carlo,che alla fine decide di chiamare sul cellulare un numerodella Polizia.

Dapprima tentennamenti, obiezioni, ma quando allafine gli incaricati addetti si decidono ad intervenire edaprire anche con certa facilità l’ingresso ormai defor-mato, all’interno del rifugio (a quei tempi obbligatorio e

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munito di attrezzature atti a protezione in eventuali ipo-tetici casi di guerra), l’unica impensata e sconcertantepresenza: il corpo mummificato di una persona.

Controlli, ipotesi, verifiche da parte dei vari repartioperanti.

Analisi che lasciano adito a tante supposizioni ed in-terrogativi, ma niente di fatto.

Ci si muove ora tra personaggi sbiaditi, altri riemer-genti nella fissa della tua mente.

Prendi ad esempio quel baldo giovane, semplice bi-dello, così riverente verso i soggetti femminili.

Pronto tante volte ad offrirsi per il trasporto di car-telle e pile di libri fino all’appartamento dell’insegnante,limitrofo alle scuole.

L’invito che egli stesso offriva alle ragazze per un gi-retto con la sua moto, un veicolo Giapponese tra i primiin Europa.

Proprio dai dati dell’immatricolazione di quell’auto-mezzo le ricerche arrivano sino a lui che vive in Germa-nia, ma ora sarà sottoposto a rogatoria e poi tradotto perprelievi ematici, ecc.

Si riparte pure dai dati in possesso della direzionescolastica.

La professoressa quale indirizzo ha lasciato quellodella sua residenza di origine: un paesello della Toscanain cui risulta proprietaria di una semplice casetta.

Le autorità del posto la ritengono irraggiungibileanche per situazioni debitorie che un immobile com-porta.

Ma di lei nessun ulteriore domicilio.

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Resta ora il percorso d’identificazione del corpo sco-perto.

Per me tutto lavoro inutile. La certezza si tratti di Miriam Maestro che ha dato

tanto in parole ed esempi, ma anche con amore ai propriallievi.

Verrà smascherato il colpevole? ….come e quandonon si sa.

Fossimo entrati allora a fondo nell’intricato delle suecomposizioni amorose, ma anche drammatiche i cui testisono andati persi. Tranne il contenuto di quello posteg-giato nitido da anni nella mia mente e testimonianzacerta di accusa. Ma chi mi crederebbe?

Avremmo potuto collaborare senza interventi giuri-dici, per deviare un percorso che lei stava “vivendo”prima di un’atroce finale.

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Il ritrattoEmanuela Crivelli–Selcioni

Il corso d’arte volgeva al termine. Dopo decine e de-cine di ritratti a manichini in pose ed espressioni di-

verse, con parrucche e abiti di ogni foggia, era giunto ilmomento di cimentarsi con un modello in carne ed ossa.

La prof. Rivi lavorava con passione. L’ambiente erapiacevole, spesso divertente. Alcuni ritratti suscitavanol’ilarità collettiva, senza che nessuno si offendesse! Anzi,motivo in più per affinare la tecnica, ricevere consigli,informazioni e dettagli che avrebbero dato più o menorisalto.

La vigilia della prova finale, gli allievi arrivarono incortile tutti in contemporanea, piuttosto agitati. Non sa-pevano chi fosse la o il modella/o da ritrarre. Conosce-vano il tema: “un personaggio storico”.

La prof. Rivi entrò in aula, salutò gli alunni, aprì iltendone del piccolo palco e disse: “Ecco qui il perso-naggio che dovrete ritrarre. La modella si chiama Elena,una mia ex compagna di liceo e carissima amica. Hoscelto lei per non creare gelosie fra di voi. Avrete mododi conoscervi alla fine della prova. Buon lavoro”

Il volto degli allievi rivelò un’espressione di piacevolesorpresa. Fra tutti i possibili personaggi storici che ave-vano elencato, tale idea non li aveva nemmeno sfiorati.

Sul palco videro Nefertiti, la regina egiziana dotatadi una bellezza stupenda, un fascino irresistibile, regalee minaccioso al tempo stesso. Il suo nome significava“la bella che giunge”. Appositamente per lei era stata di-

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segnata la corona alta e stretta, con al centro un aspide.La portava con fierezza, incutendo timore e riverenzaservile ai sudditi.

La truccatrice – scelta dall’esperto – aveva realizzatoun capolavoro. Sembrava davvero che la sposa del fa-raone Akhenaton, si fosse materializzata dall’antichità!

Dopo essersi scambiati qualche commento e gli au-guri di rito, si misero all’opera di buona lena, accompa-gnati da un sottofondo musicale di chitarra acustica,adatto a rilassare la mente, acuendo la concentrazione.

Essendo chiusa la mensa dell’istituto, pranzarono alsacco sul prato adiacente. L’aria mite ed i raggi di soleche occhieggiavano dai rami resero la pausa molto gra-devole.

Nel pomeriggio ripresero a lavorare con rinnovatovigore. Sofia Rivi era molto soddisfatta.

Raccomandò a tutti di riposare bene. L’indomaniavrebbero ricevuto i risultati.

Attesero che Nefertiti lasciasse di nuovo il posto adElena ed uscirono tutti assieme. Romana si fece porta-voce di tutti invitando la prof e la modella, alla cena cheavevano organizzato per il giorno dopo.

Accettarono con evidente piacere, si accomiataronoed ognuno prese la strada di casa.

Quando al mattino dopo la prof. Rivi varcò la sogliadell’aula non credette ai suoi occhi! Nascose il viso frale mani e pianse a dirotto. Tutte le tele degli alunni eranostate imbrattate di pittura nera, i cavalletti ridotti a pezzisparsi sul pavimento, i pennelli tagliuzzati. Ma chi potevaessere l’autore del disastro? Sofia percorse il lungo cor-

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ridoio chiamando a gran voce il prof. Pastori, espertod’esame, il quale– assieme al direttore della scuola – salìdi corsa i tre piani di scale, preoccupato dalle grida. Laprof era seduta sullo scalino, pallida come un cencio etremante di rabbia. Senza proferir parola fece segno alprof. Pastori ed al direttore di avanzare fino all’aula pre-posta per l’esame del corso d’arte.

Intanto nelle scale risuonavano le voci ed i passi af-frettati degli allievi che salivano. La Rivi non si era mossa.Vedendola così si scambiarono occhiate interrogative.

“Ragazzi – disse Sofia facendosi forza – i vostri la-vori sono stati irrimediabilmente distrutti Non capiscoil perché. Non ho nessun’idea di chi possa aver com-piuto un tale scempio. Sono costernata!”

Si levò un “Noo” disperato all’unisono. Si trascina-rono verso l’aula.

Entrarono. Il direttore espresse loro il dispiacere uni-tamente al sostegno, rassicurandoli che avrebbero po-tuto ricuperare l’esame. Importante ora, era scovare ilcolpevole.

Mark domandò come mai Elena non era presente.Già! Nel trambusto nessuno aveva pensato alla modella.Inoltre aggiunse: “Ma quando è successo tutto questo?Nell’istituto c’eravamo noi, la sezione del corso di teatroe lei direttore. Siamo usciti praticamente tutti assieme.

È sicuro di aver chiuso il portone del palazzo ierisera?”

Il direttore rispose affermativamente; averto apertolui stesso ed era sicuro di non aver notato nessun segnod’effrazione.

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Paola si avvicinò al palco e scostò il tendone. Un urloacuto fece girare tutti di scatto.

Legata al trono, Elena–Nefertiti era inerme. Il capochino sul petto. La corona caduta in grembo. A terra unatazza frantumata nei resti di un liquido giallastro.

“Non toccate nulla – ordinò sconvolto il direttore –andate in sala mensa. Sofia avvisi il prof. Zuri di raggiun-gervi. Chiamo la polizia.”

La scientifica salì al terzo piano. L’ispettore in salamensa per gli interrogatori. Lo psicologo assisteva. Unagente camminava in lungo ed in largo osservando at-tentamente ognuno, esperto nel cogliere espressioni delviso, dello sguardo, movimenti del corpo. Un ispettorestava interrogando. L’agente lo interruppe facendocenno di avvicinarsi. Gli comunicò qualcosa a bassavoce. Entrò l’ uomo della scientifica con una provettaed uno scritto che mostrò loro. L’ispettore disse: “La vit-tima è stata avvelenata. L’agente ha un sospetto…” Nonfinì la frase. Una ragazza si alzò di scatto gridando comeun’ossessa: “Sì sono stata io! Dovevo essere io la mo-della. Ne avevo pieno diritto. Sofia assisteva spesso allelezioni di teatro dicendo che ero la migliore. Bugiarda!Diceva che mi calavo alla perfezione nel personaggiostorico. Ipocrita! Cosa c’entrava Elena? Più bella vero?Elena che ha già avuto tutto. Io no! Io ho sudato peravere un ruolo. Lei no. Per lei è sempre stato facile! Bella,ricca, famosa. Sarà lei ad avere rimorso prof ! È tuttacolpa sua . Ora conosce il mio valore!”

La delirante confessione si concluse con una risataisterica, mentre l’agente arrestava Lucrezia Borgia.

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Mistery of Cambridge SchoolMariam Soliman e Giorgia Sulmoni

In una serata fredda e piovosa Marilyn, una bellissimaragazza dai capelli rosso fuoco, aspettava paziente-

mente il bus delle 18:30.I suoi occhi verdi brillavano alla luce dei lampioni,

che in quella serata erano stati accesi anticipatamente.L’orologio del Big–Ben segnava le 18:25 sebbene la lucenaturale era già scomparsa dietro l’orizzonte. Il bus sifermò bruscamente davanti a lei e qualche schizzo d’ac-qua si posò sul suo cappotto espandendosi lentamentelungo il bordo ricamato. Accanto al suo sedile il giornale“The Times” aspettava di essere sfogliato. Era un po’sciupato dalla pioggia, infatti i caratteri erano un po’sbiaditi ed era difficile riuscire a distinguere certe parole.Nell’angolo destro della pagina compariva la scritta:–Giornate da paura nell’università di Cambridge, ragazzavent’enne uccisa a coltellate, la polizia indaga ma senzaalcun risultato–. Marilyn era sempre stata brava nel tro-vare indizi ma non aveva mai colto l’occasione per risol-vere un caso, scese alla fermata vicino a casa sua epercorrendo un breve tratto di strada si fermò davantialla sua abitazione. Il giorno seguente Marilyn ricevetteuna chiamata che la lasciò senza fiato, era stata appenaassunta come “aiutante investigatrice” dopo aver messol’annuncio sul giornale e aver spiegato le sue abilità de-duttive. Non vedeva l’ora di iniziare la sua nuova pro-fessione quindi il suo primo compito fu quello di aiutare

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l’investigatrice Taylor nel crimine della scuola. Secondo i primi indizi la ragazza faceva parte della

squadra di cheerleader e ne era il capo perché attorno alcollo teneva un fischietto d’argento mentre le altre neerano sprovviste. Nella tasca destra dell’uniforme eracomparso un bigliettino scritto con l’indelebile nero chediceva:–La mia vendetta è caduta su di te e non mi pentodi averti uccisa, anzi, così capirai il dolore e la tristezzache quel giorno mi hai fatto provare–. Era una calligrafiainfantile mai vista prima e quindi non le potè far capirechi era stato ad ucciderla. Il preside aveva già contattatotutte le famiglie della squadra di cheerleader tranne una,la famiglia Collins, la loro figlia Eleonor, era stata assentedurante le ore dell’allenamento e non si era fatta vivafino al giorno seguente. Il bidello aveva avvisato il pre-side che la ragazza si aggirava furtivamente lungo il cor-ridoio durante un’ora di lezione. Alicia Powell (la vittima)provava un grande odio nei confronti di Eleonor perchélei aveva tentato più volte di rubarle Rydian (il suo ra-gazzo) dopo i loro vari litigi, il rapporto tra le due ra-gazze non era mai stato dei migliori. Intanto nellospogliatoio Marilyn, era in cerca di indizi quando l’oc-chio le si posò su un breve testo che risultava essere statoscritto proprio il giorno prima e sembrava non essersiancora asciugato. Non era ben chiaro quello che volevadire però Marilyn si accorse che la scritta era esattamentela stessa che c’era sul bigliettino trovato nella tasca del-l’uniforme. A quanto pareva quello era l’unico indizio,così decisero di interpellare Sally Smith una delle cheer-leader. La ragazza si presentò nell’ufficio del preside e

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Marilyn le diede la parola:–Dimmi cara, sai per caso chiha scritto questo?–. le mostrò il fogliettino e una fotoscattata che rappresentava la stessa scritta, però sullaporta. Lei rispose timidamente:–Non ne sono sicura maho visto la mia compagna Eleonor che scriveva su unfoglio appoggiata ad una porta e oltretutto scriveva conun indelebile nero–. Marilyn rispose scattante:–Ma certo,come ho fatto a non pensarci prima, l’indelebile dovevaessere talmente forte da oltrepassare il fogliettino equello che c’era scritto doveva essersi stampato sullaporta, però Eleonor non se n’è accorta–. Il preside in-tervenne dicendo:–Penso sia il caso di contattarla perchiederle conferma, in questo caso sappiamo chi è il col-pevole–. Marilyn disse:–Ma perché dovrebbe averla uc-cisa?–.L’ispettrice Taylor rispose:–Per gelosia,suppongo–. In quel momento si sentirono delle urla nelcorridoio e tutti si precipitarono a vedere cosa fosse ac-caduto. Eleonor era distesa a terra e il sangue colava inin-terrottamente dalla mano e dalla gamba, l’unicomovimento che fece fu quello di indicare il suo arma-dietto e dopo svenne. Mentre l’ambulanza la portava via,Sally aprì l’armadietto e trovò un altro bigliettino che di-ceva:–Ciao Eleonor, ci vediamo alla terza ora nell’atrioper vedere cosa faremo del cadavere, se mi lasci solo,farai la sua stessa fine–. Dopo che il preside ebbe lettoattentamente il biglietto, tutti decisero di riunirsi nell’auladocenti per discutere della situazione,

tranne Marilyn che voleva cogliere di sorpresa il cri-minale. Era sicura che l’omicida avrebbe fatto di tuttoper eliminare le prove che avrebbero potuto incastrarlo.

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Fece in tempo a nascondersi sotto la scrivania quandoun’ombra si avvicinò all’ingresso della direzione e spa-lancò la porta, il rumore di una lama riecheggiò nellastanza e una goccia di sangue cadde lentamente sulsuolo. L’individuo si avvicinò alla scrivania e aprì un cas-setto per cercare il fogliettino che aveva accuratamentedepositato nell’armadietto di Eleonor. Marilyn a quelgesto fece partire l’allarme situato dietro la scrivania e inun attimo la polizia bloccò le uscite della stanza. Il cri-minale venne catturato da Marilyn che con grande abilitàgli bloccò le mani. La polizia accorse velocemente peraiutarla e il criminale non ebbe via di scampo. QuandoSally lo vide urlò il suo nome con disprezzo:– Rydian,come hai potuto!–. Lui girando il capo rispose con unavoce fioca:–Mi ha lasciato…–. Egli si lasciò portarenell’atrio e quando il suo sguardo truce intercettò quellodi Sally fu come una scossa, si fece cadere con le ginoc-chia a terra e con un grido soffocato rimpianse il suodolore.

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Noir a scuolaKaryn Giovannini

Isa aveva da poco compiuto 30 anni, era una donnabella e affascinante. Piaceva agli uomini anche perché

sapeva come sedurli e poi non sentiva la necessità di le-garsi con qualcuno e questo intrigava molto le personeche frequentava.

Un solo incontro le rimase in mente; faceva parte delsuo vissuto più romantico. Cinque anni prima, duranteun viaggio di lavoro a Bruxelles, conobbe Jake, un ra-gazzo che all’epoca aveva trent’anni. Il ragazzo in se nonera particolarmente attraente sebbene fosse alto e slan-ciato, ma Isa rimase affascinata dai suoi modi eleganti,dal suo sguardo intelligente e dalla gentilezza con cui sirivolse a lei.

I due giovani, si incontrarono casualmente al bar del-l’hotel dove si raccontarono e trascorsero dei momentipieni di emozioni.

Alla fine della serata, si salutarono senza scambiarsii numeri di telefono.

Passarono diversi mesi e Isa lesse, su un noto quoti-diano inglese, un insolito annuncio accompagnato dauna foto di un casale immenso in stile georgiano al norddell’Inghilterra, nello Yorkshire.

Il proprietario di quel possedimento, cercava unadonna di bella presenza, sulla trentina, intraprendente,con esperienza nel settore delle pubbliche relazioni persvolgere alcuni compiti di rappresentanza.

Oltre ad un lauto stipendio, offrivano anche l’allog-

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gio in una parte indipendente del castello e un corso di“society etiquette”.

Infatti, parte dell’immensa proprietà era la sede diuna rinomata scuola fondata nel 1769 da John Debrettdove, come tradizione, molti giovani aristocratici, primadi andare al college frequentavano i suoi corsi per impa-rare il bon ton dell’alta società.

L’attività consisteva nel gestire eventi mondani connotabili di alto rango.

Isa, da tempo cercava un altro lavoro e decise di con-tattare la persona che scrisse l’annuncio. Era proprio lui!Jake la assunse subito.

Fu bellissimo il primo istante in cui i loro sguardi siincrociarono. La magia dei momenti trascorsi insieme aBruxelles era ancora presente nei ricordi di Isa.

Iniziò a frequentare i corsi del Professor Murphy,specializzato sullo stile di vita della nobiltà e sull’etichettabritannica. Era una persona di mondo che frequentavai salotti dell’alta società inglese. A lui, il padre di Jake,dopo la morte improvvisa della madre, affidò l’educa-zione dei gemelli Jake e Barnaby.

Isa chiese notizie del padre e del fratello gemello aJake e lui le raccontò che la madre morì molto giovaneed il padre si ricostruì una nuova vita e non fece più ri-torno. Poi, parlò anche del Professor Murphy e disse cheera un ficcanaso e lo irritava poiché si sentiva osservato.Infatti, anche Isa aveva notato quanto il Professore fosseaccorto e premuroso nei suoi confronti. E Jake non losopportava.

Quel giorno Isa notò una foto su un bel mobile

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d’epoca nella biblioteca della residenza. L’immagine rap-presentava la madre con i figli piccoli che giocavano abadminton insieme al Professor Murphy…i due adultiavevano l’aria spensierata e felice come i bambini. Sem-bravano una vera famiglia! Ma perché proprio quellafoto incorniciata e non una che rappresentasse l’interafamiglia con il padre?

Il tempo trascorse piacevolmente, anche se Isa notòdegli stati d’animo contrastanti in Jake. Intercalava attimidi felicità estrema con momenti di violenza e aggressi-vità.

Per contro, il corso di cultura e protocollo inglesel’affascinava. Il professor Murphy aveva già una vene-randa età e conosceva molto bene la famiglia di Jake. In-fatti, le disse che Jake era particolarmente attento albenessere di Barnaby e lo rendeva partecipe dei suoi rac-conti e della sua vita privata.

Una mattina come le altre, Isa si recò a scuola e unavolta spalancata la porta dell’aula, vide il Professor Mur-phy disteso al suolo, esanime, con la testa sanguinante,gli occhi rovesciati indietro e semi aperti.

Presa dal panico, gridò con tutta l’aria che aveva neipolmoni il nome di Jake e sentì una voce flebile che pro-veniva dal solaio. Notò che c’era una vecchia chiave nellatoppa, si fece forza ed aprì. Vide Jake, Jake?, legato cheera riuscito a togliersi un bavaglio dalla bocca. Sbigottita,ci mise un po’ a capire poiché l’altro Jake le aveva dettoche si sarebbe assentato per tutta la settimana per lavoro.

Solo dopo i racconti di Jake, Isa capì che uno dei ge-melli, ebbe un’adolescenza problematica e difficile, con

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seri problemi comportamentali; si trattava di Barnaby!Era, con molta probabilità, affetto dagli stessi sintomidi schizofrenia della madre, ma mai, ufficialmente, si eb-bero conferme al riguardo.

Barnaby non accettò mai che il fratello fosse più in-telligente di lui e mai avrebbe tollerato che sarebbe anchestato il più felice grazie a Isa. I suoi pensieri sconnessi edisordinati lo indussero a nascondere il fratello nella sof-fitta della scuola, legarlo ed imbavagliarlo. Solo a finegiornata andava a portargli un po’ di cibo e acqua.L’amore che provava per il proprio fratello, gli impedìdi ucciderlo, ma l’idea era quella di isolarlo dal mondoed imprigionarlo. E l’unica soluzione era fingere di es-sere Jake.

Purtroppo, il Professor Murphy, iniziò ad insospet-tirsi e decise di affrontare Barnaby. Capì il suo statod’animo e pensò fosse arrivato il momento di raccon-targli la verità. Dirgli che era il suo vero padre.

La madre, per non perdere i benefici della ricchezzadel marito, non volle mai si sapesse e questo creò a lei edi conseguenza anche a Barnaby, bambino molto sensi-bile agli atteggiamenti di frustrazione della madre, ungrande malessere psicotico.

Purtroppo, il Professor Murphy, non fece in tempoa spiegargli e in uno scatto d’ira improvviso, Barnaby locolpì con un pesante candelabro.

Quando Barnaby vide dalla finestra il sopraggiun-gere di Isa non poté far altro che far perdere le proprietracce.

Il più grande rammarico di Barnaby, quando venne

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a conoscenza della vera identità del buono e amorevoletutore, fu quello di non aver mai intuito che fosse l’ago-gnato e premuroso padre che pensava lo avesse abban-donato da piccolo.

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I corsi notturni di Red HollowFilippo Cesana

Il piazzale della scuola era un cielo di cemento costel-lato da macchie di sangue. Al centro del piazzale c’era

il corpo di un ragazzo. Lo sguardo assente era indirizzatoverso la notte. Le gambe divaricate e le braccia aperteerano come quelle di un bambino che con il corpo dise-gna un angelo nella neve. Ma non era un angelo quelloche il ragazzo disegnava con il sangue fuoriuscito dalventre squarciato, era una creatura scura, deforme, pro-veniente da un posto buio e lontano.

Non c’era luna o stella quella notte, solo le luci deilampioni e dei palazzi in lontananza colmavano il buio.

“C’è troppo sangue in questo piazzale” disse Ne-mobi e scattò una foto a una grossa macchia di sanguedistante un passo dalla testa del cadavere. “La vittimanon è stata l’unica ad averne perso”.

Guardando le scalinate occupate da bottiglie di vinovuote e mozziconi di sigaretta, Borioli disse: “Una festaandata a male, forse hanno squarciato il corpo della vit-tima con una bottiglia di vetro rotta.”

Le scalinate conducevano a un portone in legno,l’entrata della scuola. Qualcuno si era seduto su quellescale e forse aveva banchettato allegramente mentre unodegli invitati veniva squarciato da una parte all’altra delventre. Ai lati del portone in legno si estendevano file difinestre che nell’oscurità sembravano i numerosi occhidi un mostro di cemento. La scuola. Quegli occhi scru-

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tavano il corpo senza vita, impassibili, riflettendo le sa-gome sbiadite e surreali dei due agenti.

Tredici anni prima anche Nemobi aveva frequentatoquella scuola. Alcuni ragazzi nelle pause si radunavanosulle gradinate del piazzale e bisbigliavano di una festachiamata Red Hollow.

“Andavi a molte feste quando frequentavi il liceo?”chiese Nemobi.

C’era un volantino che circolava tra gli studenti sullafesta di Red Hollow. Le lettere erano ritagliate dai gior-nali e incollate su carta reciclata. Nemobi non aveva maiscordato quelle parole. ‘Venite a Red Hollow, la scuolaabbandonata nei bassifondi della nostra metropoli. Unluogo dove il marcio e lo schifo che ci sono dentro divoi non saranno fonte di vergogna, ma di unione. Veniteai nostri corsi notturni’.

“Eccome se ci andavo, alle feste” disse Borioli. “Hocominciato a uscire alla sera proprio al liceo”. Disse:“Quando diavolo arrivano quelli della scientifica?”.

“Anch’io” disse Nemobi e senza calpestare le mac-chie di sangue più grosse si avvicinò al cadavere e scattòuna foto immortalando sulla pellicola il ventre squarciatoe le budella. “Ricordo le feste dei maggiorenni, a quellesi beveva di più per sembrare più grandi. E ogni tantoqualche figlio di papà della scuola privata organizzavauna festa e noi della pubblica provavamo a imbucarci”.

Borioli guardò il corpo privo di vita al centro delpiazzale e poi cercò lo sguardo di Nemobi, che avevaterminato di scattare fotografie e si avvicinava a lui. “Anessuna festa a cui sono andato è scappato un morto,

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però. Qualche coma etilico e qualche rissa, ma nessunmaledetto morto”.

Da lontano il suono delle sirene sovrastò il brusiodel traffico notturno.

“Finalmente arriva la cavalleria” disse Borioli e si ac-cese una sigaretta. Il fumo aleggiò verso la notte, comel’anima informe del corpo disteso al centro della piazza.Un’anima intenta ad abbondonare lo squallore di quellascuola. Un viaggio di sola andata che portasse sufficien-temente lontano da sfuggire a tutti i luoghi bui della me-tropoli.

“Tra non molto gli andremo incontro” disse Ne-mobi e le parole del volantino risuonarono nei suoi pen-sieri come una dolce cantilena. ‘Venite a Red Hollow, lascuola creata dall’ex capo della polizia. Il nostro fonda-tore. Il nostro finanziatore. E per i suoi soldi non scor-date di ringraziare la moglie. Era lei quella ricca primadi crepare per un’overdose. Ogni tanto qualcuno muorein questo giro. Ma per le nottate a Red Hollow ci pren-diamo tutti il rischio. Tutte le persone schifose e marcese lo prendono, questo rischio’.

“Avremo una settimana ricca d’interrogatori” disseBorioli. “Qualche ragazzo della scuola crollerà e ci rac-conterà l’accaduto. Forse lo stesso che ha chiamato incentrale”.

‘Giungete in pochi a Red Hollow. Seguite le ormedel serial killer quando vagabondate nelle fogne. Ascol-tate il bisbiglio graffiante dei ratti e annusate la puzza difeci. Venite a trovarci, studenti schifosi. Venite ai nostricorsi notturni’.

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“Cosa ti fa pensare che ci fossero ragazzi di questascuola?” chiese Nemobi. “Magari è gente che arriva dafuori, qualcuno può essersi ritrovato qui per sbaglio,qualcuno forse non era mai stato qui”.

La sirena aveva interrotto le sue grida. Quelli dellascientifica erano arrivati. Il vento accarezzò gelido il visodi Nemobi e spazzò via l’anima dannata che abbando-nava la sigaretta del collega.

“Se c’è stata una festa, qualcuno della scuola deveaverne sentito parlare. Perché non dovrebbe esserecosì?” disse Borioli.

‘Venite a Red Hollow, sghignazzate nella notte comeiene di una savana di cemento e ululate allo splendoredel teatro notturno di una festa senza fine. Guardate ilserial killer che sceglie la sua vittima e la pone al centrodel palco. Guardate come la trasforma in un angelo dellamorte vestito di sangue’.

“Lo sai?“ disse Nemobi, con lo sguardo puntato sulcadavere. “Da ragazzo non sono mai riuscito a imbu-carmi alle feste dei figli di papà”.

Borioli sorrise. “Nemmeno io”.E avviandosi ad accogliere quelli della scientifica, i

due agenti erano avvolti dalle tenebre della notte. I pen-sieri di Nemobi erano ombre fuggenti. Da ragazzo so-gnava una festa diversa dalle altre. Una festa speciale.

Quel volantino su Red Hollow...Sorrise. Era servito un intero pomeriggio immerso nei gior-

nali per ritagliare quelle piccole lettere.

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UN’OMBRA «NOIR»SULLA SCUOLA

Edizione

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La raccolta dei racconti del concorso«Cooperazione Noir 2014»

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