Nip 23

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Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress” #23 Novembre/Dicembre 2014

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Paesaggio. Città. Architettura.Rivista bimestrale di paesaggio, architettura e cultura contemporanea.http://www.nipmagazine.it/

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Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress” #23 Novembre/Dicembre 2014

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www.nipmagazine.it

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con il patrocinio di:

Casa Editrice: ETS, P.za Carrara 16/19, PisaLegale rappresentante Casa Editrice: Mirella Mannucci Borghini

Network in ProgressIscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisan° 612/2012, periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress”

ISSN 2281-1176

Copertina originale a cura di:Federica Simonegraphic designer www.itacafreelancec.it

Editing and graphics:Vanessa LastrucciVirginia FirenzuoliChiara SalvadoriValerio Massaro

Enrico Falqui_ [email protected]

Direttore Responsabile

Stella [email protected]

Direttore Editoriale

Valerio [email protected]

Direttore Creativo

Francesca Calamita_ [email protected]

Responsabile attività culturali e formative

Paola Pavoni_ [email protected]

Responsabile network culturale

Vanessa Lastrucci_ [email protected]

Responsabile Social Networks

Ludovica Marinaro_ [email protected]

Responsabile Atelier, tirocini

Claudia Mezzapesa_ [email protected]

Responsabile programmazione pubblicitaria e traduzioni

Hanno collaborato a questo numero di NIP:Flavia Veronesi, Laura Malanchini, Nicoletta Cristiani, Virginia

Firenzuoli, Chiara Salvadori

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Editoriale

Le Miroir di Corajoud

Alcune settimane fa, ci ha lasciato uno dei

più grandi paesaggisti del-la nostra epoca, Michel Corajoud, autore di gran-de talento e insegnante infaticabile nella Scuola Nazionale Superiore del Paesaggio di Versailles, di cui è stato, insieme a Pier-re Donadieu e Bernard Lassus, uno dei fondatori.

Per chi come noi, non ha avuto il privilegio

di vivergli accanto nella sua attività professiona-le, ma ne ha seguito gli insegnamenti espressi

dal suo pensiero e incor-porati nei suoi straordi-nari progetti, l’emozione per il suo addio alla vita è pari al rimpianto di aver dovuto interrompere l’a-scolto delle sue frequenti e coraggiose esortazioni.Come quando, esortava i suoi allievi a rifiutare il fatto che le scienze del paesaggio fossero con-siderate, nella pratica quotidiana, nulla più che un’estensione dell’Urba-nistica, ricordando a tutti che "…le paysage est l’en-droit où le ciel et la terre se touchent".

Michel Corajoud ri-cordava, anche, nel-

le sue sempre affascinanti conferenze, che la sua ge-nerazione si era formata nella convinzione che la creatività e la fantasia fos-sero lo strumento per con-quistare il futuro e che la loro missione fosse costi-tuita dal creare, attraver-so il progetto, qualcosa di completamente nuovo ri-spetto al passato. Tuttavia, strada facendo, egli aveva compreso che "il processo storico, che è incorporato in ciascun luogo, fornisce la conoscenza necessaria al paesaggista per creare qualità nuova nel proget-to di trasformazione di uno spazio, che non è né amorfo né statico, bensì

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dinamico e in continuo divenire".

Il suo pensiero, così come il suo agire, era sempre

in costante movimento, mai facile, mai prevedi-bile. Aveva iniziato la sua carriera di Paesaggista (1974) nei quartieri peri-ferici di alcune città fran-cesi, proponendo parchi pubblici come fuochi di una nuova centralità ur-bana, come nel caso del Parco Jean Verlhac (20 ha) a Grenoble dove adottò un linguaggio popolare fon-dato su un’esegesi della cultura materiale tipica della campagna francese, o il Parco di Gerland (80

ha) a Lione, ideato e rea-lizzato con l’aiuto compe-tente e instancabile della moglie Claire, divenuto celebre per l’illuminazio-ne notturna del giardino “megaphorbiaie” che crea un’atmosfera cromatica struggente e onirica all’in-terno di un frequentatissi-mo luogo pubblico.

Questa esperienza è stata anticipatrice di

uno dei progetti più co-nosciuti di Corajoud, il Parco de Sausset en Sei-ne-St Denis (200 ha) che lo impegnò per oltre set-te anni fino al 2005, met-tendo fine alla stagione della progettazione dei

grandi parchi pubblici nei paesi mediterranei. In occasione di due viaggi a Parigi, uscendo dall’aere-oporto Charles De Gaulle, visitai con attenzione que-sto parco, immenso, dalle geometrie potenti e rigo-rose, che produce stupore, meraviglia e grande fasci-no per qualsiasi visitatore. L’invenzione creativa di Corajoud, in questo caso, è consistita nell’uso di piantagioni a crescita ra-pida alternate a quelle a crescita lenta, che hanno prodotto nel tempo una varietà di spazi, di scenari, di volumi che si contrap-pongono ai vuoti, dando ritmo e dinamismo alla

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percezione dello spazio. Una lezione impareggia-bile sulla dimensione "temporale" del paesag-gio, realizzata attraverso l’uso di specie vegetali che ritardano, accelera-no e modificano senza sosta il progetto di archi-tettura che si è concepito attraverso di esse.

Michel Corajoud era un uomo coraggio-

so, che affrontava a viso aperto anche le contesta-zioni di progetti di cui era autore, come i Giardini d’Eole (4,2 ha), realizzato a Parigi in un’area lascia-ta libera dallo smantel-lamento di un sistema

ferroviario nel quartiere densamente abitato di Montmartre.

Questi giardini erano stati fortemente vo-

luti dalla popolazione del quartiere e Corajoud ne aveva interpretato i desi-derata con grande accor-tezza, creando uno spazio pubblico vissuto e fun-zionante nei primi anni di vita ma che successi-vamente aveva cambiato progressivamente la com-posizione sociale dei suoi frequentatori, diventando un luogo abbandonato e pericoloso, lasciato in ba-lia di bande di casseurs e di spacciatori. Il grande

paesaggista francese non si era tirato indietro di fronte alle critiche di una parte della popolazione e dell’amministrazione parigina, difendendo con rigore e passione le sue scelte sull’organizzazio-ne degli spazi dei giardini, opponendosi allo stravol-gimento delle sue scelte originarie.

La celebrità mondiale gli era stata, però, attri-

buita dal progetto di spa-zio pubblico di nuova ge-nerazione della Place de la Bourse a Bordeaux sul lungofiume della Garon-na, realizzando dei par-terre policromi lineari e il

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Miroir d’Eau (la fon-tana più grande

in Europa), divenuta dal 2008 ad oggi un simbolo iconemico della Città, vi-sitata da milioni di turisti. Quest’estate ho passato uno splendido pomerig-gio assolato, nell’osser-vazione continua dello “spettacolo” popolare che si costruiva “dentro” e “fuori” dallo specchio d’acqua; le ombre degli insiders e degli outsiders di questo “teatro d’acqua”, si sovrapponevano sulla superficie acquatica alle immagini rovesciate degli edifici che circondano la Piazza, creando un effetto magico e sublime fatto di

controluce, di dissolvenze e di ibridazioni cromati-che in continuo divenire.

Le Miroir d’eau è il te-stamento di un pae-

saggista che non ha mai smesso di sorprenderci ed emozionarci con le sue “invenzioni” progettua-li, che non ha mai smes-so di “mettere in scena” le relazioni multiple che associano le cose del pa-esaggio. La sua dipartita dal mondo terreno fa par-te integrante del suo pro-gramma d’azione paesag-gista, che esprimeva con la celebre frase: “esplora-re i limiti, oltrepassarli”. Stavolta però, ne sono cer-

to, la sua anima si aggira ancora tra le ombre e le dissolvenze di Place de la Bourse, nel Miroir di Co-rajoud.

a cura di Enrico Falqui

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ContentsContents#23RUBRICHE

Architettura che non ci piace Expo Gate, la porta di ingresso di Expo 2015

di Laura Malanchini

FramesMilanoCittàAperta.

Cinque anni di narrazioni fotografiche indipendentia cura di MiCiAp e NIP magazine

FOCUS ONL’aperto e l’Agòn. Diagramma di un percorso di rigenerazione a Pristina.di Caterina Padoa Schioppa

INTERVISTAORTI DIPINTIIntervista a Giacomo Salizzoni a cura di Nicola Maggiaioli

IL PROGETTO

Waitangi: dove i luoghi diventano storia. In Nuova Zelanda un paesaggio straordinario celebra l’identità di un popolo. di Enrica Bizzarri

CREATIVITÀ URBANAUN’ESPERIENZA A MARRAKECH. Design per lo sviluppo sostenibile. di Giuseppe Lotti, foto di Itaca Freelance

LE RECENSIONI_il libro_

LA VITA DELL’ARCHITETTURA È FINITA. Buildings must die. A perverse view of architecture.

di Vanessa Lastrucci

p12

p15

p79

p67

p53

p37

p21

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Alla domanda “Che lavoro fai?”, in barba a Tyler Durden (al secolo Brad Pitt in Fight

Club) e al suo “Tu non sei il tuo lavoro...”, risponde sempre allo stesso modo: “SONO una grafica!” “SONO” e non faccio perché la grafica non si fa seduti alla scrivania dalle 9.00 alle 18.00 con pausa pranzo alle 13.00, non si fa attaccati ad un monitor intervallando un “salva con nome” ad un “mi piace” su Facebook. La grafica, quella vera, è come una storia d’amore che va curata e coltivata durante tutto l’arco della giornata, degli anni, della vita. Con questa convinzione a 14 anni, frequentando il non ama-to liceo classico, capisce che da grande vorrà ESSERE una grafica e trascorre ogni lezione a disegnare e colorare. Cer-to questo non aiuterà il rendimento ma la spingerà veloce come il vento, una volta diplomata, ad iscriversi prima all’I-stituto Italiano Design di Perugia e poi all’Istituto Europeo di Design di Milano.Proprio sul posto di lavoro incontrerà tante persone diver-sissime tra loro che daranno una forte impronta al suo per-corso: alcune atroci, come l’unico architetto di tutta Mila-no che osa ritenere il pile elegante e sbraita con tutti dalla mattina alla sera, altre invece qualificate e speciali che, ol-tre ad avere una conoscenza profonda della progettazione, non hanno paura di insegnare ed aiutare gli altri a crescere.Dopo tanti anni di lavoro trascorsi ad approfondire ciò che ama, incontra un bel ragazzo umbro, decide di amare anche lui e torna a Perugia. Qui riscopre il senso dell’avventura e si tuffa, insieme ad altri due folli come lei, in un progetto ancora in fasce: “Itaca”. A più di un anno da questo nuovo inizio, si commuove ve-dendo Itaca crescere come se fosse un figlio; si “avvelena” nel vedere la grafica bistrattata da quei professionisti (ge-ometri, artisti, architetti o non meglio qualificati) che non si limitano a fare il proprio lavoro ma si cimentano nel suo grande amore senza conoscerlo veramente; annaspa nel-la jungla dei social network e soprattutto si guarda in giro, fotografa, scarabocchia, curiosa, assaggia, prende appunti, cuce, incolla, insomma… È ancora una grafica!”

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Digitando “integrazione” su google è facile trovare immagini di puzzle e mani di diversi colori che si stringono, ci si imbatte spesso in notizie ansa che riguardano Lampedusa e in pagine di vari ministeri che parlano principalmente di immigrazione. Il vocabolario invece ci spiega che vuol dire “rendere intero, pieno, perfetto ciò che è in-completo, aggiungendo quanto è necessario...”. Non so perché ma ragionando su questa definizione mi è venuto in mente Escher: le sue “me-tamorfosi” sono un manifesto dell’evoluzione di un oggetto tramite l’aggiunta di elementi.La mia copertina, tra interpretazione personale di una definizione e tributo all’opera di Escher, vuole quindi suggerire come, partendo da una forma geometrica schematica e sta-tica, si possa arrivare ad una composizione piena, ricca e vitale solo aggiungendo nuovi ele-menti.Questa, per lo meno, è la mia idea di “integrazione”: un arricchimento positivo e vivace che ci permetta di remare contro all’arida serialità del consueto.

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Federica Simone ©

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Architettura che ci piace/ non ci piace

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Expo Gate, la porta d’ingresso di Expo 2015 di Laura Malanchini

«Prima si vedeva il Castello, adesso solo questi due “stendipanni” bianchi» È questa la frase che ricorrentemente si sente pronunciare da diversi mesi a Mi-lano da cittadini e turisti che passano in Largo Beltrami. Si riferiscono ad Expo-Gate, il progetto di ScandurraStudio che ha vinto il concorso per l’Infopoint Expo 2015, luogo di informazione e intratteni-mento che dovrebbe essere il biglietto da visita dell’Esposizione Universale a cui la città si sta preparando. Si tratta di due “caselli” simmetrici, in vetro e tubi di acciaio modulari, con una piazza cen-trale attrezzabile.

La zona del Castello Sforzesco, fin dal Pia-no Regolatore del 1884, è sempre stata tra le più delicate della città, suscitando lunghi dibattiti a causa del forte valore identitario che il monumento riveste per i milanesi. Il vuoto urbano incorniciato dai fronti dei circus di Foro Bonaparte, è il teatro della complessa relazione tra questi, l’asse Duomo-Dante-Castello ed il suo fondale prospettico, che trova due fulcri d’eccezione nel complesso eque-stre dedicato a Garibaldi e nella splendi-da Torre del Filarete.

Ciò che crea spaesamento nei cittadi-ni rispetto ai due nuovi ospiti di questa porzione di città è la mancata corrispon-denza tra le finalità, concettuali e forma-li, con cui questi sono nati ed il risultato finale. ExpoGate è stata concepita infat-ti come installazione temporanea, che doveva simboleggiare i temi dell’Expo: il cibo e la crisi ecologica planetaria. La giuria e lo stesso Scandurra, inoltre, mo-tivano le proprie scelte con la volontà di inserirsi nel contesto in modo “leggero” e “non protagonista”, rispettando l’asse preesistente e creando un’apertura sul Castello.

Fin da una prima occhiata, però, la strut-tura risulta un’architettura invadente che, oltre ad utilizzare materiali e cro-mie estranei al sapore ottocentesco del luogo, va a sottolineare la prospettiva già

esistente, forzando in un’unica direzio-ne la complessa trama di interazioni che conformano quello spazio e togliendo il focus dell’attenzione dal monumento in cui la città si riconosce, per portarlo su di sé. Sul piano concettuale, poi, la “stona-tura” rispetto al tema di Expo2015 “Nu-trire il Pianeta, Energia per la Vita” è an-cora più evidente.

Per quanto sia vero che i padiglioni met-tono in scena, settimana dopo settimana, vari eventi che raccontano la storia di Milano e nuove tendenze culturali le-gate ai temi dell’alimentazione e della sostenibilità, la struttura che li accoglie è fuoriscala - e fuoriluogo - rispetto al ruolo che svolge. La poca attenzione per le tematiche proprie dell’Expo si ritrova nel metodo di utilizzo delle risorse: i 18 metri di altezza delle vele laterali ven-gono sfruttati, infatti, solo con funzione di grossi megaschermi, che non giusti-ficano l’utilizzo di ulteriori materiali e denaro, mentre al piano terra, lo shop, che avrebbe potuto contenere gadget di Expo e segni di identità meneghina (per-ché no?) legati alla produzione agrico-la, si configura invece come “trappola” commerciale per turisti, degna del mi-glior negozio di cianfrusaglie brandizza-te dei nostri tempi.

Inoltre, il rischio concreto, conferma-

Architettura che ci piace/ non ci piace

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to dall’amministrazione comunale, è che questa installazione non si limiti al perio-do dell’Expo, ma venga mantenuta come architettura permanente anche dopo il suo termine. Paura fondata, poiché già in fase di cantiere sono state poste fondazio-ni altrimenti illogiche, in quanto preve-dono costi elevatissimi per un eventuale smontaggio. Già i 5 milioni di euro circa che sono stati spesi, sebbene non siano molti per un’opera di architettura defini-tiva, sarebbero infatti uno spreco enorme se essa fosse un’installazione che sarà ri-mossa alla fine della manifestazione, e ci si chiederebbe allora perché tali risorse non siano state destinate ad operazioni più co-erenti rispetto alle tematiche trattate da Expo2015, ad esempio alla riqualificazione di una delle innumerevoli cascine milane-si abbandonate, che racchiudono in sé la storia dell’agricoltura italiana ed europea.

D’altra parte, se la struttura non sarà ri-mossa, non è dato sapere quali funzioni ospiterà all’interno di quello spazio che Scandurra definisce come “pubblico e flessibile”: quale finalità le verrà attribuita “a posteriori” che possa giustificare la sua presenza in quel luogo e in quel contesto?

ExpoGate, in conclusione, a causa dell’al-to grado di incertezza ed ambiguità con cui è stata progettata e con cui si parla del suo futuro, sembra un’ulteriore riprova di quanto sia ancora poco considerata l’im-portanza di un’attenta e motivata pianifi-cazione e di quanto, come spesso accade oggi, le parole-chiave che muovono ammi-nistrazioni e progettisti (sostenibilità, iden-tità, integrazione, trasparenza) non trovino poi una trasposizione coerente nelle scelte adottate per le trasformazioni urbane.

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“...Dichiariamo così finalmente Milano “città aperta” e accettiamo la nostra guerra all’interno del divenire caotico della città. Questa stessa città che, in quanto fotografi, desideriamo conoscere e far conoscere. E far conoscere per poter cambiare.” (testo tratto dal MANIFESTO di MiCiAp, www.miciap.com)MilanoCittàAperta è un progetto di: Alberto Locatelli - Alfredo Bosco - Isacco Loconte - Nicola Bertasi - Roberta Levi - Simone Keremidtschiev - Thomas PaganiPer informazioni scrivere a [email protected]

MilanoCittàAperta

JOURNAL OF URBAN PHOTOGRAPHY

www.miciap.com

foto di Nicola Bertasi

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MilanoCittàAperta5 anni di narrazioni fotografiche indipendentia cura della redazione di Miciap, journal of urban photography (www.miciap.com) in collaborazione con la Redazione di NipMagazine

Sono passati cinque anni da quando ci siamo incontrati per la prima volta in un piccolo appartamento del Ticinese: cercavamo dei racconti per immagini che aggiungessero senso alla nostra città.

Abbiamo pubblicato 20 numeri, al ritmo delle stagioni che passano. Sono moltissimi i fotografi che ci hanno dato fiducia, alcuni famosi e altri sconosciuti; e poi grafici, web designer, giornalisti, photoeditor, professori universitari, musicisti, gestori di locali e di spazi espositivi. Con loro siamo cresciuti, ma vogliamo continuare a raccontare Milano, con le sue storie e i suoi luoghi, quelli che spesso non si vedono, come fossero celati dietro una spessa nebbia. Desideriamo che questa nebbia si diradi sempre di piu.

Noi di Miciap crediamo che la rivista debba essere un luogo aperto, di scambio e di arricchimento. Crediamo nello spirito di collaborazione: ogni membro della redazione lavora per realizzare ogni trimestre una pubblicazione di grande qualità.

Crediamo nella curiosità. Guardare lontano, verso traguardi ambiziosi, non deve allontanare lo sguardo dalle piccole cose che sono spesso le piu importanti.

Crediamo che la fotografia sia una narrazione. Crediamo nella gentilezza, nel rispetto, nell’onestà e nell’accoglienza.

Il progetto MilanoCittàAperta ha mantenuto un alto livello qualitativo durante questi cinque anni di intensa attività. Siamo molto contenti dei risultati raggiunti ma vogliamo fare ancora di piu. Vorremmo costruire una rete in Italia che permetta presto al progetto di radicarsi in altri lidi.

Lanciamo qui su NIP magazine un appello caloroso agli amici fotografi, photoeditors, curatori e giornalisti, per creare insieme a noi e altre CittàAperte.

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Andrea Kunkltratto dalla serie: Incendio grigio ISSUE #14 - WINTER/2013

Un viaggio attraverso il paesaggio interiore delle terre agricole lombarde, mi-nacciate dall’avanzata del cemento e dagli espropri per la costruzione di una nuova tangenziale esterna.

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Annalisa Cimmino

tratto dalla serie: Riverside

ISSUE #14 - WINTER/2013

Un orizzonte immaginario segue il fiume Lambro e circonda una Milano inaspettata.

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di Caterina Padoa Schioppa

l’aperto E L’aGòN: Diagramma di

un percorso di rigenerazione

a Pristina 1

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In basso: Pristina: Palazzo della Gioventù e dello Sport ©Filippo Romano Prishtina 2013/14

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SPORT DI REGIME A PRISTINA

Oscura, provocante, assurda. Ferita, efferata. Pristina oggi me-

dita sull’eredità materiale, politica e sociale della recente guerra civile. Se esiste un’unicità delle storie, l’uni-versalità della Storia permette di rac-contare alcune vicende, forse troppo complesse per essere comprese, attra-verso una sintesi di linguaggio – la fo-tografia ci riesce benissimo – che non cerca e non dà spiegazioni.

Nelle sue viscere Pristina, come al-tre regioni post-belliche o nuove

aree metropolitane, mostra quello che nella teoria della complessità è defi-nito un comportamento emergente, un comportamento adattivo che in condizioni di equilibrio instabile ga-rantisce la sopravvivenza del sistema. Gli effetti sono inequivocabili: la pro-liferazione di sistemi informali (sia or-ganizzativi che spaziali), la “balcanizza-zione” dello stile, e per finire la perdita di una forma urbis riconoscibile2. La Storia ci insegna che, in assenza di una strategia sistemica, proprio queste for-

me di adattamento – qui generate da un’incontinente e generica urbanizza-zione – costituiscono più di ogni altro segno il potenziale urbano su cui lavo-rare per dare inizio a un processo di ri-generazione3.

In questo senso Pristina è un pretesto per interrogarsi sul ruolo del proget-

to di architettura e di paesaggio che è non solo dispositivo politico e spaziale, ma anche strumento di conoscenza e di invenzione capace di dare una forma al materiale vitale, cresciuto come l’erba sull’asfalto, e di riciclare e di imprime-re nuovi significati al patrimonio che una forma, seppur mistificata, ce l’ha. Il tentativo è di costituire un common ground4, uno spazio fisico e ideale di condivisione di storie, di esperienze e di saperi che possa sovvertire la figura-zione retorica del progetto dello spazio – tipica del regime comunista e di tutti i regimi totalitari – senza necessaria-mente rinunciare alla funzione simbo-lica dello spazio pubblico cittadino.

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In alto: Pristina: Palazzo della Gioventù e dello Sport ©Filippo Romano Prishtina 2013/14.

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Per questo è sensato chiedersi se le ca-tegorie “deboli” con le quali siamo abi-tuati oggi a pensare le città che, all’op-posto, si sciolgono e si sparpagliano5, siano le più adatte per fabbricare l’os-satura morfologica di un corpo urbano ancora troppo molle. Per il “Newborn Kosovo”6 costituire questo spazio – au-tentico ground zero – può diventare una macchina di riconciliazione con una storia difficile e piena di contrad-dizioni prima ancora che macchina di rigenerazione urbana. Anche qui, per iniziare la metamorfosi estetica e cul-turale, è essenziale aggrapparsi alle ra-dici, ai “fondamentali”: pescare nelle forme del paesaggio, nelle tradizioni costruttive, nelle storie mitiche con-divise, quelle per esempio del periodo Ottomano, ma anche nell’architettura che il regime ha lasciato in eredità.

Il Pallati i Rinisë dhe i Sporteve (Palaz-zo della Gioventù e dello Sport) è una

delle più spettacolari architetture del

regime comunista, con le quali la città ha stabilito un rapporto ambivalente. Costruito tra il 1977 e il 1981, rimasto in-compiuto per gli stravolgimenti politi-ci, e poi danneggiato in un incendio che nel 2000 ne distrusse una parte consi-stente, il Palazzo dello Sport è oggi una strana contaminazione di usi, un gene-re ibrido a suo modo “tipico” a Pristina7.

Ne costituisce il basamento un vario-pinto centro commerciale che con

il suo brulicare di vita sembra compen-sare il vuoto spettrale che regna nella piazza antistante l’ingresso al monu-mento. Al suo interno un’arena centra-le per lo sport e lo spettacolo, e conti-gui, enormi spazi abbandonati, adibiti temporaneamente a parcheggio, a fie-re ed esposizioni per artisti. Al di là, in-trappolato tra il palazzo e la ferrovia, un altro territorio vacuo, grande come due campi da calcio, oggi abusivamente oc-cupato dalle automobili e dai pullman.

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In basso: Pristina: Palazzo della Gioventù e dello Sport ©Filippo Romano Prishtina 2013/14.

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Con la sua forza espressiva e la sua spigolosa geometria, questo gigan-

te manifesto per la celebrazione del corpo e della disciplina evoca la fun-zione solenne di una cattedrale in una città medievale. Progettato per essere percepito e riconosciuto dalle colline che circondano la città, il Palazzo dello Sport non è solo un esempio paradig-matico di architettura di regime, ma è anche il diagramma spaziale di un mec-canismo coercitivo, ridondante perciò di messaggi occulti.

Un monumento che è anche un am-monimento. Un’anatomia urbana

che è anche una “meccanica del potere”. Come fece notare Michel Foucault, lo sport è una macchina pedago-gica simile a q uella mili-tare, che non a caso sceglie il corpo come oggetto e bersaglio del potere. Il corpo che “si manipola, che si allena,

che obbedisce, che risponde, che divie-ne abile”8.

Lo sport nei paesi comunisti, come anche nei regimi nazisti e fascisti,

era un sistema centralizzato9. Confina-ti nello spazio e nel tempo, gli sport di gruppo erano caratterizzati da una rigi-da routine, che doveva rivelare non tan-to il carattere individuale del singolo atleta, ma piuttosto il carattere comuni-tario e associativo della morale sociali-sta10. D’altra parte, fin dal mondo greco-romano, e poi nelle società borghesi e in tutti i regimi totalitari del Novecento, lo sport fu un formidabile dispositivo me-diatico, di controllo e di propaganda po-litica, abilmente trasformato in gioco. Già nel VII secolo a.C., infatti, l’inven-zione dei Giochi Olimpici è il “trionfo di un comunicare non verbale e tran-sculturale”11 che permette di abbando-nare momentaneamente il sistema di regole e uscire dai confini – il portarsi

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In alto: Pristina: Palazzo della Gioventù e dello Sport ©Filippo Romano Prishtina 2013/14

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lontano che l’etimologia del ter-mine sport contiene12 – per cono-scere la tregua politica e religiosa, e dare spazio alla costruzione del mito, da immortalare in narrazio-ni epiche e prodigiose opere d’arte. L’eccezionalità dell’evento ha sem-pre avuto come specchio un’ar-chitettura fastosa, pioniera, ardita. Ancora oggi per le città di tutto il pia-neta le Olimpiadi sono un’occasione unica per investire in grandi opere di architettura e per grandi processi di ri-generazione urbana.

L’APERTO COME SPAZIO DELLE POSSIBILITÀ INATTIVE

Esiste poi un’altra, forse antitetica, mi-tologia legata allo sport e che non a caso fabbrica paesaggi più rarefatti e più eversivi. È quella descritta per esempio nelle pagine di Roland Barthes13, quan-do parla del Tour, la corsa in bicicletta, in cui il corpo è ancora protagonista ma di un contatto carnale con l’aperto. Un viaggio, a tratti angoscioso, in cui si sta-bilisce un legame con la natura. Come l’eroe omerico, nel suo movimento va-gabondo “il corridore trova nella Natu-ra un ambiente animato col quale man-tiene scambi di

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In basso: Pristina: Diagramma di un percorso di rigenerazione ©SPgroup 2013/2014 ©SPgroup sigla che indica “Sporting Loop” titolo del progetto del gruppo di studenti G.A. Ca-rosini, C. Cemplini, C. Cotado, G. D’alpaos, V. Dall’orto, D. Desnica, L. Gege, I. Mastro, P. Muñoz Montaner, D. Savarrkar, M. Scaccabarozzi del Corso “Common Ground Laboratory Pristhina” presso il Politecnico di Milano nell’a.a. 2013-2014.

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nutrimento e di soggezione”. E come in ogni epopea, a un tempo “periplo di prove ed esplorazione totale dei limiti terrestri”14, l’uomo che compie tali sfor-zi sovrumani, e che conosce il proprio stato più bestiale, per affrontare meglio la natura e liberarsene più facilmente, la umanizza, la personifica.

Questo rovesciamento di ruoli e di significati tra uomo e natura, che

lo sport all’aperto sembra rendere possibile, spiega lo spessore antropo-logico dell’esperienza dell’aperto15, come luogo dell’incontro tra le due condizioni imprescindibili dell’uomo, la sua animalitas e la sua humanitas. Martin Heidegger parla di questo luo-go come una zona di non-conoscenza tra l’essere e il nulla dove si fa l’espe-rienza del “vuoto profondo”, della sospensione, grazie alla quale “acca-de l’emergere delle possibilità [che] giacciono inattive”, similmente al campo che viene lasciato a maggese per essere seminato un altro anno16.

La dimensione fisica dove le possibili-tà giacciono inattive è per lo sportivo quella di uno spazio esteso, senza limiti, che nei paesaggi urbani può significare resti di natura che lambiscono, o pene-trano e intersecano l’abitato, sentieri che inanellano territori negletti, spazi abbandonati e inselvatichiti, infrastrut-ture obsolete – ferrovie, gazometri, fab-briche, depositi etc. – dove tutto giace inattivo e dove esiste pur tuttavia una vitalità latente.

Di questa vitalità si sono accorti da tempo architetti e paesaggisti, im-

maginando operazioni di riciclo at-traverso processi a bassa intensità, talvolta consistenti solo in un sistema di segni che traccia nuove relazioni e modifica il significato degli oggetti. “Paesaggi grafici” vengono chiama-ti, anche se, per la verità, è sempre attraverso la grafia che il paesag-gio riceve la propria legittimazione. È di-segnandolo che un paesaggio può essere inteso e forgiato.

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In alto: Pristina: Diagramma di un percorso di rigenerazione ©SPgroup 2013/2014 ©SPgroup sigla che indica “Sporting Loop” titolo del progetto del gruppo di studenti G.A. Ca-rosini, C. Cemplini, C. Cotado, G. D’alpaos, V. Dall’orto, D. Desnica, L. Gege, I. Mastro, P. Muñoz Montaner, D. Savarrkar, M. Scaccabarozzi del Corso “Common Ground Laboratory Pristhina” presso il Politecnico di Milano nell’a.a. 2013-2014.

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Lo sport, che è uno dei primari arti-fici per fondare il common ground

– nelle società antiche come in quel-le moderne – non a caso è funzione essenziale anche per la rivitalizza-zione e la sublimazione di siti distur-bati, o marginali. Ma come si è visto, gli scenari che la pratica dello sport può delineare sono contrapposti, e le geometrie dello spazio inverse.

Il primo scenario celebra l’evento pubblico attraverso un processo di

concentrazione nello spazio, di ar-chitetture e di spettatori, e nel fare questo consolida la struttura gerar-chica e la geometria classica della cit-tà. Nel secondo scenario la conquista del grande vuoto – condizione corpo-rea e psichica – avviene attraverso la deriva, l’antievento per eccellenza17, cioè il dispiegamento di un movi-mento caotico e solitario all’aperto. Anche questo secondo scenario strut-tura lo spazio, ma in modo labile, usan-do geometrie fluide e complesse.

I due scenari non sono incompatibili o alternativi. Il più delle volte si sovrap-

pongono e si avvicendano, si spartisco-no lo spazio e si alternano in popolarità. Ma in posti come Pristina, negli anni del regime e in quelli della guerra, lo sport all’aperto non si è potuto praticare. Ciò che altrove è gesto ordinario e istintuale – il camminare, correre e pedalare liberamente – qui a lungo è stato oggetto di un’interdizione, di cui il Palazzo dello Sport, baluardo in ro-vina di un sistema di potere ormai de-caduto, rappresenta ancora lo spettro. Per questo il recupero del Palazzo del-lo Sport non sembra possibile se non dentro un quadro più ampio, una scala fisica e temporale più articolata, che in-cluda la deriva nello spazio cittadino, la conquista del grande vuoto come tra-guardo di un nuovo common ground. È l’occasione per scavare in un territo-rio dimenticato o volutamente celato, già pieno di insidie ma anche di pos-sibilità che giacciono inattive, traccia-ti per camminare, correre e pedalare.Tracciati per ricordare.

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SPAZIO MOBILE PER LO SPORT E PER LA COMMEMORAZIONE

Alla radicalità dell’operazione, cor-risponde tuttavia la limitatezza del

segno. Il segno senza il quale un vasto territorio non sarebbe riannodato per una lunghezza di circa 40 km (il tem-po di una maratona) è una linea, non una superficie immacolata, una ta-bula rasa, un campo senza direzioni dove tutti i movimenti sono leciti. Una linea scandita da increspature che ne alterano la levigatezza, e che rintraccia grandi riserve di natura, architetture minori per lo sport, archeologie mo-derne – dalle cave alle superfici sinteti-che dei parcheggi – per trasformarle in frammenti di un nastro illustrato, acca-vallato al centro nell’area intorno al Pa-lazzo dello Sport. Una linea che incide il suolo e definisce uno spazio mobile per lo sport e per la commemorazione (ancorché priva di sacralità e di obiet-tivi precisi), simile a quello di un pelle-grinaggio che, come spiega Paul Con-nerton18, racconta bene il cerimoniale di un corpo che si muove in maniera prestabilita all’interno di un perimetro e che attraversa un sistema stabile di loci, intesi nell’accezione ciceroniana come segni mnemonici capaci di solle-citare l’emotività nell’arte della memo-ria.

Emerge la figura di un circuito ad anelli concentrici, un labirinto line-

are, una “deriva organizzata” per cam-minatori e ciclisti, attraverso un sistema di luoghi rimediati, riscoperti, che fun-gono da memoriali e da terrazze belve-dere, dalle quali conoscere la città con sguardo diverso. Dentro questo corri-doio urbano è proprio la percezione ad

essere alterata: diradata, diluita, arcaica come in un film in bianco e nero, essa è estranea all’“estetica della sparizione” tipica della percezione istantanea del guidatore di automobile, percezione quest’ultima in cui tutto è “già visto e immediatamente dimenticato”19. Uno spazio, dunque, che sembra contraddi-re il trionfo dell’oblio sulla memoria di cui la città contemporanea è artefice. Resta equivoca la nozione di aperto cui l’abitante di Pristina è esposto.

Da un lato questo processo rigenera-tivo scardina un limite, che è insie-

me fisico e mentale, e come un fluido urente scongela un organismo iberna-to, scompiglia abitudini calcificate dalla paura e dall’insicurezza che l’assenza di libertà ha generato. Dall’altro, esso ad-densa un materiale disperso e costru-isce una topografia stabile che sembra negare l‘apertura appena acquisita. Per sciogliere l’equivoco è bene ripen-sare all’aperto come luogo delle pos-sibilità, come esperienza relativa, non misurabile, irripetibile, definita da una relazione tra due mondi, quello inte-riore e quello esteriore. Inteso così, il segno che evoca metaforicamente l’infinito è ciò che si intende per “dia-gramma”, un campo vettoriale cui sia stata assegnata una direzione, ma dove frequenza e intensità sono ignote e in continuo cambiamento; un nastro di Moebius, una superficie allungata non orientabile, infinitamente deformabile, espandibile e modificabile dove giac-ciono inattive le potenzialità dei futuri sportivi a Pristina.

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1_Questo articolo è il frutto di una riflessione cominciata con gli studenti del Corso “Com-mon Ground Laboratory Pristhina” presso il Politecnico di Milano nell’a.a. 2013-2014. Si ringraziano gli studenti: G.A. Carosini, C. Cemplini, C. Cotado, G. D’alpaos, V. Dall’or-to, D. Desnica, L. Gege, I. Mastro, P. Muñoz Montaner, D. Savarrkar, M. Scaccabarozzi, che hanno sviluppato il progetto intorno al Palazzo della Gioventù e dello Sport. Nell’ar-ticolo le immagini da loro prodotte portano la sigla ©SPgroup (“Sporting Loop Group”).

2_Per un approfondimento si consigliano: K. Voeckler, Prishtina Is Everywhere. Turbo Urbanism: the Aftermath of a Crisis, Am-sterdam: Architectura & Natura Press, 2008; Kosovo 2.0, Public Space, n.5/2013

3_Pensiamo alla Berlino che, dopo la Caduta del Muro nel 1989, ha fatto della sua “deca-denza” l’elemento di attrazione. Investendo nella tecnologia, nei servizi, nel turismo e nei cosiddetti settori creativi – con il famo-so motto del suo Sindaco Klaus Wowereit “Berlino capitale povera ma sexy”– in pochi anni ha visto crescere la propria economia in modo esponenziale.

4_Common Ground è l’espressione ambigua che ha dato il nome alla 13° Mostra Inter-nazionale di Architettura della Biennale di Venezia, curata dall’architetto inglese David Chipperfield. Delle molteplici interpretazioni che que-sta espressione può avere – approfondite nell’editoriale di Luca Molinari su il Post del 28.082012 (http://www.ilpost.it/lucamolina-ri/2012/08/28/common-ground-la-13-mo-stra-internazionale-darchitettura-divene-zia/)– in questo ambito si vuole insistere sulla funzione dell’architettura della città come strumento di scavo e di interpretazio-ne delle radici comuni, della Storia e delle tradizioni nella costruzione di spazi pubblici e abitativi. Per un approfondimento si con-siglia: D. Chipperfield (a cura di), Common Ground: a critical reader, Venezia: Marsilio Editori, 2012

5_Cfr. A. Branzi, Modernità Debole e Diffusa, Ginevra-Milano: Skira, 2006

6_Con “Newborn Kosovo” si intese la nascita del nuovo stato indipendente del Kosovo, il 17 febbraio 2008. Fu allora eretto il monumen-to-scritta Newborn, scultura urbana di Fi-snik Ismaili e l’agenzia Ogilvy Kosova, posta davanti alla piazza sopraelevata del Palazzo della Gioventù e dello Sport.

7_Il “genere ibrido” è molto diffuso a Pristi-na, anche in architetture importanti e sim-

boliche, come nel caso di una delle Moschee nel quartiere commerciale del Bazaar, in parte occupata da un supermercato.

8 _Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino: Einaudi, 1976

9_Già il regime fascista in Italia, con l’Ope-ra Balilla e le Associazione della Gioventù Italiana Littorio – considerati da alcuni il più gigantesco esperimento di educazione di sta-to che la storia ricordi – ha usato la retorica del corpo e della disciplina associata all’ad-destramento sportivo come potentissimo strumento di massificazione culturale.

10_Cfr. V. Girginov, M. Collins (a cura di), Sport in Eastern European Society: Past and Present, London: Taylor & Francis, 2004

11_Cfr. G. Anceschi, Lo spettacolo planetario dello Sport, in Navigator, Ambiente Sportivo, n.9/2004

12_Il termine sport è l’abbreviazione della parola inglese disport che significa diverti-mento, deriva. Dal latino deportare, compo-sizione della parola de, che significa allon-tanamento, e portare stava a significare portarsi lontano, ovvero allontanarsi, uscire fuori porta dalle mura cittadine per svolgere attività fisiche.

13_Cfr. R. Barthes, Miti d’oggi, Torino: Einau-di, 2005

14_Ibidem

15_Cfr. G. Agamben, L’aperto, Torino: Bollati Boringhieri, 2002

16_Citazione presa da G. Agamben, L’aperto, cit.

17_Nel concetto di deriva situazionista, l’evento è per definizione non-pianificato. L’intenzione è infatti quella di smarrirsi per provare emozioni forti e per innescare un’a-zione artistica e catartica, prima ancora che politica. Per un approfondimento si consi-glia: G. Débord, La società dello spettacolo, Milano: Baldini Castoldi Dalai, 2001

18_Cfr. P. Connerton, Come la modernità dimentica, Torino: Einaudi, 2010

19_Concetto di Paul Virilio approfondito in P. Connerton, Come la modernità dimentica, cit.

NOTE

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Il Multiverso

tratto dalla serie: Naviglio, cuore di Milano

ISSUE #8 - SUMMER/2011

La Milano “città dell’acqua” rivive in queste immagini allo stesso tempo surreali e storiche. Non tanto per ricordare il passato, quanto per auspi-care un futuro ancora possibile.

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Mara Costantini tratto dalla serie: 5 miglia di braccia milanesiISSUE #10 - WINTER/2012

Cos’è diventata la Milano agricola di un tempo? Una ricerca fotografica sui luoghi dove sorgevano un tempo cascine e dove si lavorava la terra.

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Matteo Scarpellini / ALMA Photostratto dalla serie GradientsPREVIEW ISSUE #22 - AUTUMN/2015Giussago, Dicembre 2013

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Andrea Mariani e Roberta Levi / A13 Studio tratto dalla serie SovrastrutturePREVIEW ISSUE #22 - AUTUMN/20158 giugno 2014, TEM - Lotto C - Collegamento A1, Melegnano

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The first urban garden of Florence was born almost a year ago, inaugurated by then mayor, Matteo Renzi. Started under the impetus of Giacomo Salizzoni, a renaissance man (architect, designer, photographer) with a passion for Guerrilla Gardening.It is an organic garden in which the core coordinators work together with a large group of volunteers to grow vegetables, herbs, fruits and flowers, using a combination of rediscovered ancient practices and innovative technologies.The movement is also about the recovery of unused parts of the city as the garden is located on an abandoned running track in the center of Florence.

Nicola Maggiaioli (1973), architetto, dal 2006 è uno dei due fondatori e partner dello studio di architettura MOA di Firenze, con esperienza nell’interior design sia commerciale che [email protected]

Orti Dipinti è un laboratorio a cielo aperto dove praticare orticoltura urbana, scambiare conoscenze e integrarsi socialmente anche con i più emarginati. Ortaggi, aromatiche e frutti crescono insieme alle idee su ambiente, sostenibilità e sovranità alimentare.http://[email protected]

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Orti Dipinti è un laboratorio a cielo aperto dove praticare orticoltura urbana, scambiare conoscenze e integrarsi socialmente anche con i più emarginati. Ortaggi, aromatiche e frutti crescono insieme alle idee su ambiente, sostenibilità e sovranità alimentare.Il primo orto urbano di Firenze è nato quasi un anno fa, inaugurato dell’allora sindaco Matteo Renzi, sotto la spinta di Giacomo Salizzoni, creativo poliedrico (architetto, designer, fotografo) con la passione per il Guerrilla Gardening.Si tratta di un orto-giardino biologico in cui il gruppo organizzatore, assieme ad un folto gruppo di cittadini volontari, coltiva ortaggi, piante aromatiche, frutti e fiori, con un misto di riscoperte tecniche antiche e tecnologie innovative.Ma si tratta anche di un recupero di una parte abbandonata della città in quanto l’orto sorge su di una vecchia pista di atletica in disuso, nel centro di Firenze.

ORTI DIPINTIIntervista a Giacomo Salizzonia cura di Nicola Maggiaioli

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2. There is an increasing interest in cultivation in cities. Is there a difference between Community Garden, Urban Garden, Shared, Disseminated and Didactic?

With regard to Italy, the “social urban gardens” have existed since the 60s and 70s, depending on the city. They are places within the city equipped for growing in the ground, usually with small plots of 60 square meters each, handled by individuals or families. The “shared gardens” are run by groups of people or organizations, sometimes they coincide with the “Community Garden”, where citizens normally do not have their own individual space, but in fact share with other people. Some of these gardens are open to visits by school groups, tourists or general public; they serve a didactic function as well as productive. Urban gardening’s latest design takes into account this educational aspect, since the growing space is limited and so is production, it is imperative to also offer other social and educational activities. In fact, I like to talk about it as Community Garden 2.0.

1. Orti Dipinti, what’s the origin of the name you have chosen for the Community Garden?

My friend Luciano Artusi, an expert of Florentine history, revealed to me when we were beginning the project the etymological origin of the street name, Borgo Pinti.Since the late Middle Ages, the street had, and still has, many convents with orchards and gardens. The landscape was beautiful and several artists of the time were living on the street and often portrayed it in their paintings. From that the road took the name of Borgo Pinti.It came naturally, therefore, to use the name “Orti Dipinti” to recall the street’s story and to help remember the location of the garden. The athletics track is situated in an area that was once a part of the Orto dei Salviati, which was a garden of huge importance, producing botanical selections long before the advent of the first botanical garden, and an incubator for many cultivars of vegetables, which would later become typical of Tuscany. I still remember the excitement when we discovered the beautiful heritage of the place.

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2. C’è un interesse crescente nei confronti della coltivazione in città. C’è differenza tra Community Garden, orto urbano, condiviso, diffuso, didattico?

Per quanto riguarda l’Italia, gli “orti urbani sociali” esistono dagli anni ’60-’70, a seconda delle città. Sono luoghi della città attrezzati alla coltivazione in terra, con piccoli appezzamenti solitamente da 60 mq ciascuno, gestiti da singoli cittadini o nuclei famigliari. Gli "orti condivisi" sono invece gestiti da gruppi di persone o associazioni, a volte coincidono con i "Community Garden", dove di norma i cittadini non hanno singoli spazi propri, ma condivisi appunto con altre persone. Alcuni di questi orti si aprono a visite di scolaresche, di turisti o persone qualunque, svolgendo una funzione didattica, oltre che produttiva. Gli orti urbani di ultima concezione tengono molto in considerazione quest’aspetto informativo, dal momento che gli spazi esigui per coltivare, essendo poco produttivi, suggeriscono altre attività sociali e didattiche. Infatti mi piace parlare di Community Garden 2.0.

1. Orti Dipinti, qual è l’origine del nome che avete scelto per il Community garden?

L’amico Luciano Artusi, grande conoscitore della storia fiorentina, mi svelò a suo tempo l’origine etimologica della via “borgo Pinti”.Fin dal basso medioevo la via aveva, e ha tuttora, molti conventi con relativi orti e giardini. Il paesaggio era dunque splendido, tanto da convincere diversi artisti del tempo che, piazzati sulla via, lo ritraevano nei loro dipinti. Da lì la via prese appunto il nome di Borgo Pinti.È venuto spontaneo, dunque, dare il nome “Orti Dipinti”, per la memoria di questa storia e per aiutare a ricordare la posizione del giardino.La pista di atletica è situata in un’area che un tempo faceva parte del grande Orto dei Salviati, che fu di grande importanza perchè faceva già selezioni botaniche ben prima della nascita del primo orto botanico, e fece da incubatrice per molti cultivar di ortaggi divenuti poi tipici della Toscana. Ricordo ancora l’emozione, quando scoprimmo questa bella eredità del luogo.

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3. How did you come up with the idea of creating a Community Garden and how did you get to involve sponsors and authorities?

As an architect I have always looked with admiration at the ability of our greatest teachers to transform places apparently degraded, abandoned and “ugly” into something new, useful and “beautiful”. My father is one of these people. I was inspired to look for a place to turn into an extreme edible garden. I was aware of many international examples in this style, and I liked the idea of being able to achieve something similar here in Italy, in Florence, adding the Italian strong points: good food and an agricultural tradition. I started looking for a suitable space, through Google map, starting from my neighborhood, Sant’Ambrogio, and when, after several surveys, I ran into what later became Orti Dipinti I stopped because I thought it was perfect: a former athletics track in disuse since the ‘80.First we submitted a rough draft of our proposal to convince the users of the space (the Institute Gaetano Barberi, who offer recreational activities for young people with difficulties) and the property owners, the City of Florence, of the value of our initiative. We then contacted associations, companies, private institutions, and raised the necessary amount to start the garden, opening officially last October.As one of our main objectives was the benefit of the community, we have involved residents of the area from the beginning, a fact that has determined the success of Orti Dipinti, where similar projects have failed.

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3. Come ti è venuta in mente l’idea di realizzare un Community Garden e come sei riuscito a coinvolgere sponsor e autorità?

Da architetto ho sempre guardato con ammirazione la capacità dei nostri maestri di trasformare luoghi in apparenza degradati, abbandonati e “brutti”, in qualcosa di nuovo, utile e “bello”. Mio padre è uno di questi. Ero alla ricerca di uno spazio urbano estremo da tramutare in un giardino commestibile. Ero al corrente di molte realtà internazionali in questo senso, e mi piaceva l’idea di poter realizzare qualcosa di simile anche da noi in Italia, a Firenze, aggiungendo i punti di forza italiani: il buon cibo e la tradizione agricola. Ho iniziato a cercare uno spazio adeguato partendo dal mio quartiere, S. Ambrogio, e quando dopo diversi sopralluoghi sono incappato in quello che poi è diventato Orti Dipinti mi sono fermato, perchè mi è sembrato perfetto: una ex pista di atletica in disuso dagli anni ‘80.Convinti i fruitori dello spazio (l’istituto Gaetano Barbieri, che si occupa di attività ricreative per ragazzi con difficoltà) e la proprietà, ossia il Comune di Firenze, della bontà della nostra iniziativa attraverso un progetto di massima, abbiamo contattato associazioni, imprese, privati, istituzioni, e siamo riusciti a raccogliere la cifra necessaria ad iniziare l’attività, inaugurando lo scorso ottobre. Essendo uno dei nostri obiettivi l’aspetto sociale, abbiamo fin dall’inizio coinvolto i residenti della zona, fatto che ha decretato il successo di Orti Dipinti laddove altri progetti simili hanno fallito.

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4. How is the renovation project of the area being developed and what effects is it having in terms of the neighborhood?

This entire area has historically been used for conventional vegetable gardens, so our intervention in a sense returns the area to its original function even if in a contemporary twist.Based on the feedback received from residents, on the site’s physical characteristics and on the likely costs, we developed the basic project, which still continues to evolve.The choice of preserving the tarmac in the athletics track was strategic for several reasons: it allows for the easy mobility of the crates within which we cultivate, which are moved depending on need with the pallet lifter, the possibility of wheelchair access, and also the play aspect (bikes, skateboards). The heat, which it absorbs, and returns, is useful to grow vegetables, even during the cold winter.Also having the garden in the crates allows more ergonomic and less tiring cultivation.The impact on the neighborhood has been really positive and beyond our imagination.The alternatives for this space were to restore the track, build residential buildings, or a parking lot. With this in mind, everyone agreed on the superiority of the idea of having an urban garden where they could eventually participate, (even if just leaving food refuse which we can transform into compost, a great fertilizer), and the chance to involve young people with disabilities in our activities.The results for now are very positive; the flow of people who are interested and involved is rising continuously. At first they were young people, then the ladies of the district, and even some farmers are now coming to see how we get such a great production. It is also frequented by people who come just to meet, read, paint, take pictures, or rest.

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4. Come è stato sviluppato il progetto di recupero dell’area e che effetti ha avuto in termini di riqualificazione del quartiere?

Tutta questa zona è storicamente sempre stata usata come orti conventuali, per cui il nostro intervento in un certo senso restituisce all’area la sua antica funzione anche se in chiave contemporanea.Sulla base dei feedback ricevuti dai residenti, delle caratteristiche fisiche del luogo e dei possibili costi, abbiamo realizzato una base di progetto che ancora oggi continua ad evolvere.La scelta di preservare il tartan della pista di atletica è stata strategica per diverse ragioni: la estrema mobilità delle casse all’interno delle quali coltiviamo, che vengono spostate a seconda delle esigenze con il transpallet; la possibilità di deambulazione con sedie a rotelle; l’aspetto ludico (bici, skateboard). Anche il calore che assorbe e restituisce è utile agli ortaggi, che crescono più rigogliosi, anche durante il freddo invernale.Inoltre avere l’orto nelle casse permette una coltivazione più ergonomica e meno faticosa.Gli effetti sul quartiere sono stati davvero positivi e al di sopra di qualunque immaginazione. Le alternative per questo spazio erano ripristinare la pista di atletica, costruire edifici residenziali, oppure un parcheggio auto. Con queste prospettive l’idea di avere un orto urbano a cui eventualmente partecipare anche solo lasciando i residui alimentari (che utilizziamo come fertilizzante), e coinvolgere i ragazzi disabili nelle nostre attività, ha messo d’accordo tutti.Il bilancio per adesso è assolutamente positivo, il flusso di persone che si interessano e si coinvolgono sta salendo continuamente. All’inizio venivano giovani, poi le signore del quartiere, adesso vengono anche contadini a chiederci come facciamo ad avere una produzione così eccezionale. Ma vengono anche persone a leggere, dipingere, fare foto, riposarsi.

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5. There are many associations with an interest in urban gardens; what are your references? Do you belong to a larger network?

There are many associations that have something to do with urban gardens. They are emerging more and more, fortunately, and each time more focused on this issue.We at Orti Dipinti are members of several groups. For example Campagna Amica, Coldiretti, Ixorto, Slow Food, Italia Nostra and Grow The Planet to name a few.Networking is important, as long as you do not compromise the freedom of expression of each urban garden. You just need to clarify right away what are the common values shared with these groups: short reckonings make long friends.

Our references are also beyond national borders. We tend to look around because these phenomena, in other countries such as Anglo-Saxon ones, have developed before and have a lot to teach us. In large cities like London, Paris and Berlin they are gearing up beautifully. They have less sun and less agricultural tradition but they are better than us.

5. Sono molte le associazioni che si interessano di orti urbani; quali sono i vostri riferimenti? Fate parte di una rete più ampia?

Ci sono molte associazioni che hanno a che fare con gli orti urbani. Ne stanno nascendo sempre di più, fortunatamente, e ogni volta più focalizzate su questo tema.Noi di Orti Dipinti facciamo parte di alcuni gruppi associati. Ad esempio Campagna Amica, Coldiretti, Ixorto, Orti Urbani di Italia Nostra e Grow The Planet solo per citarne alcuni.Fare rete è importante, a patto che non si pregiudichi la libertà di espressione del singolo orto. Bisogna solo trovare i valori che accomunano tutti questi interventi, e sottoscriverli per chiarirsi fin da subito: patti chiari, amicizia lunga.

I nostri riferimenti sono anche oltre ai confini nazionali. Tendiamo a guardarci attorno perchè questi fenomeni in altri paesi, ad esempio quelli anglosassoni, si sono sviluppati prima e hanno tanto da insegnarci. In grandi città come Londra, Parigi, Berlino si stanno organizzando splendidamente. Hanno meno sole e meno tradizione agricola ma sono più bravi di noi.

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6. Next year Expo 2015 will develop the theme of nutrition for the planet in a sustainable way, and they will talk about biodiversity, waste, food chain etc. Do you think that the activities of Community Gardens will offer a contribution?

The demand to meet and talk about the future of our food is a priority: agriculture is the main cause of global warming, pollution of aquifers and deforestation. The global population is increasing and we will soon face the challenge of making nutrition more healthy and sustainable.For major productivity of food any Community Garden is meaningless in this context, but like all small seeds, if they are left to grow they can give great results. Their main job is not in fact to nourish the stomach, but the mind, trying to plant one or more seeds of environmental awareness. We are the true roots of the Community Garden and our task is to grow and spread our good fruit around the world.As a Chinese proverb says “do not give me a fish but teach me to fish”: the community garden is giving people the opportunity to learn to “fish”; it gives us food sovereignty, breaking the chain with those multinationals which offer us food to them more convenient to cultivate, transport and trade. The products also are collected before reaching maturation (which occurs in travel in terms of pigment, but not on nutrients and organoleptic level): a tomato from the supermarket compared to a cultivated tomato and eaten at maturation can have an amount of iron up to two thousand times lower.

We also rely a lot on biodiversity and this allows us to avoid using treatments on plants because, considering the variety, they are “defending themselves.” Moreover we cultivate vegetables that are not common on the market, such as yellow tomatoes, purple potatoes, white eggplants, yellow zucchini, red basil, and very interesting among the herbs we will soon have the strawberry, pineapple, orange and ginger mint, among the others. Among our projects there is also to set up a greenhouse in which to plant seeds already checked in January and therefore to save costs on vegetables.

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6. L’anno prossimo l’Expo 2015 svilupperà il tema del nutrimento per il pianeta in chiave sostenibile, e si parlerà di biodiversità, spreco, catena alimentare ecc. Credi che l’attività dei Community Garden possa dare il suo contributo?

L’esigenza di incontrarsi e parlare tutti del futuro del nostro cibo è prioritaria: l’agricoltura è la principale causa di riscaldamento globale, inquinamento delle falde acquifere e disboscamento. La popolazione globale sta aumentando e dovremo presto affrontare la sfida dell’alimentazione rendendola più sana e sostenibile. Per la produttività di cibo qualunque Community Garden è insignificante in quest’ottica, ma come tutti i piccoli semi, se fatto crescere può dare grandi soddisfazioni. Il suo compito infatti non è nutrire lo stomaco, ma la mente, cercando di installare uno o più semi di consapevolezza alimentare e ambientale. Siamo noi le vere piante dei Community Garden e abbiamo il compito di crescere e spargere i nostri buoni frutti per il mondo. Come dice un proverbio cinese “non darmi il pesce ma insegnami a pescare”: il community garden è dare alle persone la possibilità di imparare a “pescare”; ci offrono la sovranità alimentare, spezzando la catena con le multinazionali che ci propongono alimenti per loro più convenienti da coltivare, trasportare, commerciare. I prodotti inoltre vengono raccolti prima della raggiunta maturazione (che avviene in viaggio in termini di pigmento, ma non a livello di sostanze nutritive ed organolettiche): un pomodoro del supermercato rispetto ad un pomodoro coltivato e mangiato nel momento della maturazione può avere una quantità di ferro fino a duemila volte inferiore.

Puntiamo molto anche sulla biodiversità e questo ci permette di non usare alcun trattamento sulle piante perchè, data la loro varietà, si “autodifendono”. Inoltre coltiviamo verdure che non si trovano normalmente in commercio, come pomodori gialli, patate a pasta viola, melanzane bianche, zucchine gialle, basilico rosso, e molto interessanti tra le piante aromatiche avremo presto la menta alla fragola, ananas, arancio e zenzero fra le altre. Tra i nostri progetti c’è anche quello di allestire una serra in cui poter piantare semi controllati già a gennaio e risparmiare dunque nei costi degli ortaggi.

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7. Coltivate in città: che impatto ha l’inquinamento sui prodotti coltivati?

Di una pianta, quello che noi mangiamo, viene processato perlopiù attraverso le radici, perchè la foglia ha quasi solo la funzione di assorbire i raggi solari. La sostanza del prodotto finale dipende dall’interno, quindi il terreno, il fertilizzante, l’acqua e il modo in cui la pianta si sviluppa, incidono in modo maggiore rispetto a sostanze inquinanti che si possono depositare esternamente; è sufficiente lavare bene prima di consumare. Questa tecnica permette agli ortaggi di svilupparsi in maniera più sana e rigogliosa, consumando meno acqua e meno fertilizzante e impedendo a molte erbacce di crescere indesideratamente.I cassoni in legno sono prodotti con legno da deforestazione intelligente, senza trattamenti chimici; sono costituiti in modo da lasciare delle fessure che permettono aerazione al terreno, che è molto positiva per le piante anche se disidrata maggiormente il terreno. Le ampolle inserite nel terreno, essendo umide, limitano questo fenomeno.Il binomio calore-umidità però sembra funzionare bene perchè i nostri ortaggi sono già molto produttivi, e in anticipo rispetto a quelli di altri orti su terra.

7. You cultivate inside the City: What impact has pollution had on grown products?

On a plant, what we eat is processed mainly through the roots, because the leaf has the almost exclusive function of absorbing the sun’s rays. The substance of the final product depends mainly on the soil, fertilizer, water and the way in which the plant grows; it is sufficient to wash well before consuming to avoid those pollutants that may be deposited externally. This technique allows the vegetables to grow in a more healthy and lush way, consuming less water and less fertilizer and preventing many weeds from growing undesirably.The wooden boxes are made with wood from intelligent deforestation, without chemical treatments; they are constituted in order to leave cracks that enables ventilation to the soil, which is very positive for the plants although it does mean more dehydrates of the soil. The ampoules inserted into the ground limit this phenomenon.The combination of heat and moisture, however, seems to work well because our vegetables are already very productive, and ripen earlier than those of other vegetable gardens in the ground.

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8. You have compared the activity of Orti Dipinti to an Iceberg, the tip of which is the vegetable garden and the hidden part consists of projects under construction. What are these projects about?

The ambition of Orti Dipinti is to become a kind of open-air contemporary laboratory, to exchange information on certain issues and grow together towards collective objectives. In part it is already like that and it will be more complete when we will realize our upcoming projects: Internet, lighting, a sound system, projector, kitchen, ‘covered’ areas.In our program there is also the idea of setting up a market for local products and produce, every first Saturday of the month. We would like to build a small “green” library, which citizens can use freely. There is the desire to create games for children, shaded areas, a tree house, and an intelligent system of rainwater collection and automatic distribution to the plants. For this reason we are engaging new sponsors and searching for others, ensuring them visibility locally and online.We would like to create, in short, a school, that may set an example to others, demonstrating that it is possible to create a self-sustainable model in the field of “green”, able to train people and professionals, with high social impact and therapeutic value, encouraging the reusing of abandoned or degraded spaces.Together we are building an ark that will take us far. We do not know where we will arrive, but the route is already clear and the boat already robust.

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8. Hai paragonato l’attività di Orti Dipinti ad un Iceberg, di cui la punta è l’orto e la parte nascosta è costituita da progetti in via di realizzazione. Di che si tratta?

L’ambizione di Orti Dipinti è di diventare una sorta di laboratorio contemporaneo a cielo aperto, dove scambiarsi informazioni su certi temi e crescere insieme verso obiettivi comunitari. In parte lo è già e lo sarà più compiutamente quando realizzeremo i nostri prossimi progetti: connessione internet, illuminazione notturna, sound system, videoproiettore, cucina, spazi protetti dalle piogge. In programma c’è anche l’idea di allestire un mercato di prodotti locali e d’eccellenza, ogni primo sabato del mese. Vorremmo costruire una piccola biblioteca “verde”, che i cittadini possono usare liberamente. C’è la voglia di creare giochi per bambini, zone d’ombra, una casa sull’albero, un sistema intelligente di raccolta d’acqua piovana e distribuzione automatica alle piante. Per questo stiamo coinvolgendo nuovi sponsor e cercandone altri, garantendo loro visibilità in loco e online.Vorremmo in sintesi creare una scuola, che sia di esempio per altre realtà, dimostrando che è possibile creare un modello autosostenibile nel settore del “verde”, in grado di formare persone e professionalità, con alto valore sociale e terapeutico, riusando spazi abbandonati o degradati.Insieme stiamo costruendo una barca-arca che ci porterà lontano. Non sappiamo dove arriveremo, ma la rotta è certa e la barca già solida.

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Marco Garofalo

tratto dalla serie: Il vuoto riempito

ISSUE #8 - SUMMER/2011

Lavoro di documentazione del mutamento di un paesaggio, di un quartiere, di un pezzo di città smontato e rimontato secondo logiche economiche.

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Luca Rotondo

tratto dalla serie: Cattedrale nel deserto

Due giganti a confronto: Torre UniCredit, palazzo più alto d’Italia, ritratta dalla Torre Solaria, l’edificio residenziale più alto d’Europa.

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Enrica Bizzarri Libera professionista, si occupa di progettazione e restauro di giardini e aree verdi, in ambito pubblico e privato. Laureata in Lettere, diplomata presso la Scuola di Architettura del Paesaggio di Villa Montalto a Firenze, perfezionata in Restauro dei giardini presso l’U.I.A. di Firenze e in Progettazione del verde nelle strutture di cura presso l’Università di Milano. Docente a contratto alla Facoltà di Agraria-Università di Perugia dal 2003 al 2008. Socia AIAPP dal 1999, attualmente è Vicepresidente della Sezione Centrale. Vive tra l’Italia e la Nuova Zelanda. www.enricabizzarri.net

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Waitangi: dove i luoghi diventano storia.In Nuova Zelanda un paesaggio straordinario celebra l’identità di un popolo.di Enrica Bizzarri

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I grandi prati che precedono l’arrivo all’ingresso del Waitangi National Trust estate.

Siamo sempre stati abituati a ricordare eventi storici impor-tanti, più spesso trattati di pace, dal nome delle località in cui questi patti venivano stipulati o questi avvenimenti ac-

cadevano (l’incontro di Teano, il trattato di Yalta, la pace di Cam-brai), ma quasi mai i luoghi in quanto tali vengono ricordati per le loro caratteristiche particolari, essendo di solito località per lo più anonime, scelte casualmente, per motivi strategici o di riso-nanza. Ma ce n’è almeno uno dove la risonanza dell’evento è a stento pari alla magia del sito: Waitangi, il luogo e il momento in cui comincia la storia della Nuova Zelanda.

Non si tratta di una città, di un villaggio o di un mausoleo, Waitangi è un immenso, bellissimo lembo di terra, un pa-esaggio incorniciato tra mare, cielo e foresta, affacciato

sulla spettacolare Bay of Island. Osservando queste colline dal lato opposto della baia durante una tempesta, con le onde che si frangono sulla scogliera sottostante contornando con i loro bianchi spruzzi il promontorio, si percepisce un luogo di grande potenza, fisica ed emotiva. Waitangi è da sempre un sito sacro per i Maori, luogo di incontri e di cerimonie, ed è lì che questo popolo ben saldo nelle sue tradizioni neolitiche, che aveva com-piuto il miracolo di giungere in Aotearoa, l’isola della grande nuvola bianca, su fragili canoe pochi secoli prima, ha incontra-to l’occidente e si è confrontato con esso, dopo un periodo di scontri anche sanguinosi inevitabili come sempre quando due civiltà vengono a contatto. A Waitangi un paese occidentale alla testa del mondo industriale di allora ha incontrato, cono-sciuto e riconosciuto una cultura aborigena del tutto aliena.

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Il vialetto che sale verso la Treaty House, fiancheggiato da esemplari di pohutukawa

(Metrosideros excelsa), al piede del primo è visibile la

targa che ricorda il dono di un illustre visitatore.

We have always been used to remember important hi-storical events, especially peace treaties, through the names of the places they were made or important

facts took place (i.e. the meeting at Teano, the Treaty of Yalta, the Peace of Cambrai), but it rarely happens that these places are remembered because of their peculiarities, as they are usually anonymous locations, randomly chosen, for strategic reasons or resonance. But there is at least one where the resonance of the event is hardly equal to the magic of the site: Waitangi, the place and the time when the history of New Zealand begins.

It is not a city, a village or a mausoleum: Waitangi is an im-mense, wonderful strip of land, a landscape framed by the sea, sky and forest and overlooking the spectacular Bay of

Island. Looking at these hills from the opposite site of the bay during a storm, with the waves breaking on the reef below and skirting the headland with their white spray, one senses a place of great physical and emotional strength. Waitangi has always been a sacred site for the Maori, a place for meetings and ce-remonies and from here these people so stuck with their Ne-olithic traditions, managed to reach Aotearoa, the island of the big white cloud, in their fragile canoes a few centuries before. In Waitangi they met the West and dealt with it after a period of unavoidable and sometimes bloody clashes, as it happens when two cultures come into touch. In Waitangi a western country that was the industrial leader at that time met, knew and reco-gnized a completely alien aboriginal culture.

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Il percorso coperto, snodandosi tra scarpate ricoperte di felci, conduce al museo e al parco.

A Waitangi il 6 febbraio 1840 i maggiori capi Maori e l’e-missario della Corona Britannica si sono incontrati e hanno concordato una pace che da allora ha consentito

convivenza e sviluppo, un percorso comune che vede oggi la Nuova Zelanda ai vertici mondiali per qualità della vita.

Un luogo remoto, lontano centinaia di chilometri dalla ca-pitale Wellington e dalla metropoli cosmopolita di Auc-kland, dove però capi di stato da tutto il mondo e membri

della famiglia reale inglese arrivano e piantano nuovi alberi a testimonianza del loro passaggio. Perché oggi i veri protagonisti di Waitangi sono gli alberi, maestosi esemplari isolati e grandi gruppi, che segnalano il luogo dal mare, punteggiando le grandi distese di prato.

L’ingresso al memoriale si raggiunge dopo un lungo percor-so tra prati verdissimi e masse di vegetazione. Le architet-ture del centro visita con annesso museo, progettate negli

anni ‘80 dal celebre architetto maori John Scott, sono state rin-novate e ampliate nel 2009, su progetto di Grant Harris. Soste-nuti da imponenti pali di legno e costruiti con materiali locali come il profumato legno di Cupressus macrocarpa, gli edifici ampi e ariosi richiamano in un’ottica contemporanea la tradi-zione maori della wharenui (spazio comune dedicato agli in-contri), ma anche i rustici ripari dei primi coloni. Le pareti sono costituite da grandi vetrate che consentono un’illuminazione naturale e conferiscono una consistenza trasparente agli edifici che, completamente immersi nella vegetazione, si inseriscono con naturalezza nel paesaggio coniugando funzione, estetica e attenzione all’ambiente.

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Il percorso verso l’edificio dei servizi: la trincea è rivestita

con tronchi di felce (Cyathea dealbata - Ponga).

The most important Maori chiefs and the British Crown emissaries met in Waitangi on February 6th 1840, and agreed on a peaceful co-existence that allowed the mu-

tual development and today New Zealand is at the top in the world for the quality of life.

Even if it is a remote place, hundreds of kilometers away from the capital city Wellington and from the cosmopo-litan Auckland, every time heads of state from around the

world and members of the British Royal Family come to Wai-tangi, they plant new trees as evidence of their passage. Today the trees are the real stars in Waitangi: majestic isolated speci-mens and large groups mark the place from the sea, dotting the large meadows.

The entrance at the mausoleum is after a long path among green meadows and vegetation. The visitor centre and the attached museum’s architecture were designed by

the Maori architect John Scott in the eighties and then renewed and enlarged in 2009 by Grant Harris. The wide and airy buil-dings are made of local material such as the smelly Cupressus macrocarpa wood, and supported by massive wooden poles. They refer to the Maori tradition of the wharenui (public me-eting place) in a contemporary style, but they also remind us of the rough shelters of the first settlers. The wide glass walls pro-vide natural light and give a transparent texture to the buildings that, fully plugged into the nature, fit naturally into the landsca-pe combining function, aesthetics and concern for natural envi-ronment.

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Il sistema di passerelle e scale, costruito completamente in legno, attraversa la forra consentendo la visione ravvicinata della volta arborea. Un percorso alternativo privo di barriere consente comunque la completa accessibilità del sito.

Il percorso di visita inizia con un pergolato che corre quasi in trincea, tra basse scarpate rivestite di felci. Poi, una volta superato l’edificio che ospita museo e servizi, si trasforma in

un’ampia passerella costruita completamente in legno che at-traversa in quota una gola densamente vegetata, snodandosi a mezza altezza tra le felci arboree che formano una volta inter-media, appena al di sotto delle chiome degli alberi più alti. Le felci arboree presenti in Nuova Zelanda appartengono a due gruppi distinti, Cyathea e Dicksonia, note rispettivamente con il nome comune di Ponga e Wheki. Cyathea dealbata o Silver fern e Cyathea medullaris o Black tree fern, detta anche Mama-ku, sono tra le più diffuse e iconiche. Tra le seconde, la Dickso-nia fibrosa è caratteristica per la corona di foglie secche che ne rivestono il tronco.

Tra gli alberi più alti, che formano la vera e propria cano-pia, si notano in particolare la Nikau palm (Rhopalostylis sapida) unica palma endemica della Nuova Zelanda, il

bellissimo Puriri (Vitex lucens), carico contemporaneamente di fiori rosa e frutti simili a ciliegie, il gigantesco Kauri (Agathis australis), antichissima conifera endemica come anche il Rimu (Dacrydium cupressinum), podocarpacea dalla chioma vaporo-sa, formata di minutissime foglie simili a scaglie appuntite.

Usciti dal lembo di foresta e costeggiando il delizioso caffè costruito sull’acqua, il percorso conduce fino a una pic-cola spiaggia dove si trovano alcune canoe rituali, tipica

espressione delle abilità nautiche e artistiche maori o fino all’e-dificio decorato dove giovani locali coltivano musica e danza, così importanti in questa cultura tribale, cui la sorte ha riservato miglior fortuna che a tante altre.

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L’edificio che ospita il caffè-ristorante, in legno e vetro, si

trova al centro del laghetto tra felci e vegetazione acquatica.

The visit tour starts with a pergola that runs like a trench, between low slopes covered with ferns. Then, once you pass the museum and facilities building, it turns into a

wide wooden walkway that goes through a densely vegetated gorge, running at half height among the tree ferns that make a vault just below the highest trees’ crowns. The tree ferns in New Zealand belong to two different species, Cyathea and Dicksonia, known by the common name of Ponga and Wheki. Cyathea de-albata or Silver fern and Cyathea medullaris or Black tree fern, also known as Mamaku, are the most popular and iconic. Among the second ones, the Dicksonia fibrosa is characteristic for the dry leaves that cover the trunk.

Among the highest trees that form the canopy, you notice the Nikau palm (Rhopalostylis sapida), the only endemic palm in New Zealand, the beautiful Puriri (Vitex lucens),

full at the same time of pink flowers and fruits similar to cher-ries, and the huge Kauri (Agathis australis), a very old endemic coniferous such as the Rimu (Dacrydium cupressinum) with its hairy foliage made of very small awl-shaped leaves.

Off the edge of the forest, walking by the picturesque café built on the water, the path leads to a small beach where you can find some ritual canoes that represent the typi-

cal expression of the Maori artistic and nautical skills. You can also reach the decorated building where local young people can practice music and dance, that are so important for this more lucky than others tribal culture.

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Canoe rituali Maori esposte nei prati che lambiscono le rive della Bay of Island.

Il percorso in legno che si addentra nel mangrovieto, alla foce del Waitangi River.

Risalendo la collina si raggiunge il vastissimo prato che co-stituisce il Treaty Ground, dove si fronteggiano i due edi-fici simbolo dell’accordo di Waitangi: la Treaty House,

prima residenza inglese sul territorio, e la Whare Runanga, tra-dizionale costruzione maori in legno intagliato, sempre affollati di turisti e scolaresche. Ma anche qui la presenza degli alberi si impone allo sguardo, sovrastando le architetture. Il gigantesco pino del Norfolk (Araucaria heterophylla), piantato all’epoca del trattato, è alto 43 metri e ruba la scena al vicino Flagstaff, il pennone di 35 metri su cui sventola la bandiera con la Croce del Sud. Enormi querce quasi nascondono alla vista la Whare Ru-nanga mentre, salendo verso la Treaty House, il sentiero è af-fiancato da grandi Pohutukawa (Metrosideros excelsa), tra gli alberi preferiti dalle personalità in visita da portare in dono.

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Nel giardino in stile formale che circonda la Treaty house

convivono specie europee e autoctone, come il cabbage tree

(Cordyline australis).

Maori in abbigliamento tradizionale che giocano

a cricket sul grande prato del Flagstaff affacciato

sulla baia, un esempio di integrazione tipicamente

neozelandese.

Climbing the hill you reach the Treaty Ground, an immen-se lawn where the two buildings symbolizing the Wai-tangi Treaty face each other: the Treaty House, the first

English residence in the territory, and the Whare Runanga, the traditional Maori construction made of carved wood; these bu-ildings are always full of tourists and school children. But even here the presence of the trees stands above the architectures and catches the eye. The gigantic Norfolk pine (Araucaria hete-rophylla), that was planted at the time of the treaty, is 43 meters high and steals the show to the nearby Flagstaff, the 35 meters high flagpole where the South Cross flag waves. Enormous oak trees nearly hide the Whare Runanga sight, while big Pohutuka-wa (Metrosideros excelsa), the favorite trees chosen as a gift by personalities visiting the place, are alongside the path that leads to the Treaty House.

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Un giovane, altissimo esemplare di kauri (Agathis australis) richiama a Waitangi le antiche foreste di queste possenti conifere autoctone, decimate durante la colonizzazione della Nuova Zelanda e oggi severamente protette.

La residenza di tipo coloniale della Treaty House, un tem-po chiamata semplicemente “Residency” è circondata da un curioso giardino, in perfetto stile cottage garden, in cui

rose, lavande, dalie ed erbacee perenni della tradizione inglese si mescolano a piante indigene come Koromiko (Hebe stricta), Toi-Cabbage tree (Cordyline indivisa) e Manuka (Leptosper-mum scoparium).

Il Waitangi Treaty Grounds costituisce oggi un complesso memoriale che si estende per quasi 5 ettari di prati e giardini ed è compreso a sua volta nel Waitangi National Trust Estate,

oltre 500 ettari di coste rocciose e spiagge, prati, un fiume e una foresta. Luoghi dove terra e mare si incontrano, intrico di isole, piccole baie e bracci di mare, con un clima subtropicale e una ricchezza di vita affascinante, per celebrare la memoria e l’iden-tità di un popolo e di un Paese che riconosce nel patrimonio na-turale, paesaggistico e culturale uno dei propri valori fondanti.

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Donna Maori in abito rituale, alle sue spalle il gigantesco esemplare

di Norfolk pine (Araucaria heterophylla), piantato dal

rappresentante della Corona James Busby e da sua moglie

Agnes, intorno al 1830.

The residence of the Treaty House, once simply called “Re-sidency” is in the colonial style and it is surrounded by an intriguing cottage-style garden where roses, lavenders,

dahlias and perennials according to English tradition mix with local plants such as Koromiko (Hebe stricta), Toi-Cabbage tree (Cordyline indivisa) and Manuka (Leptospermum scoparium).

Today the Waitangi Treaty Grounds represents a memo-rial complex that covers nearly 12 acres with lawns and gardens and it is included in the Waitangi National Trust

Estate, more than 1,000 acres of rocky shores, beaches, lawns, a river and a forest. Places where the earth and the sea meet, a maze of islands, small bays and sea arms, with subtropical clima-te and wealth of fascinating life, to celebrate the memory and identity of a people and a country that is aware of the great fun-damental value of the natural, cultural and landscape heritage.

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Claudio Vitale

tratto dalla serie: Homeless

ISSUE #11 - SPRING/2012

Questo lavoro, che risale a più di una ventina di anni fa, propone fotografie crude ma gentili, che vanno dritte al soggetto. Dal 1989 i senza tetto delle stazioni milanesi ci sorridono. Un po’ sarcastici.

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Virgilio Carnisio

tratto dalla serie: Isola Untitled

ISSUE #8 - SUMMER/2011

Il passato non torna. Eccetto che nella memoria di chi ricorda, con o senza rimpianti, ciò che del quartiere Isola era un tempo e che oggi non è più.

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Giuseppe Lotti Professore associato del DIDA di Firenze, è Vice-Presidente del Corso di laurea in Disegno Industriale e Responsabile (Università di Firenze) dell’International’s Master degree in Design for the cooperation and sustainalble Development , insieme all’IUAV di Venezia e alla Facoltà di Architettura di Genova. E’ stato dal 1996 al 2010, Presidente del Centro Studi Giovanni Klaus Konig ed attualmente dirige il Gruppo di ricerca “ Immagine e Comunicazione della Facoltà di Architettura di Firenze”.

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Design per lo sviluppo locale sostenibile.

Un’esperienza a Marrakech

di Giuseppe Lottifoto di Itaca Freelance

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Il Dipartimento di Architettura – DIDA dell’Università di Firenze ha recen-temente promosso un Corso di per-

fezionamento in Design per lo sviluppo locale sostenibile che si è tenuto nello scorso mese di settembre a Marrakech. Il Corso, promosso in collaborazione con ESAV – Ecole Superieure des Arts Visuels, mette a sistema le esperienze precedentemente condotte – a livello di obiettivi, metodologie e strumenti di lavoro.

L’organizzazione del corso ha inevi-tabilmente richiesto una riflessio-ne sui concetti alla base del corso.

Quello di sviluppo locale – una defini-zione non univoca - con conseguente debolezza e forza del concetto; di finali-tà: lo sviluppo sociale si concretizza nel soddisfacimento dei bisogni fondamen-tali, il miglioramento del futuro econo-mico… e della qualità di vita, la valoriz-zazione delle risorse locali, la creazione di un ambiente favorevole per le attività economiche; di sostenibilità, un concet-

to che è cambiato con il tempo nell’otti-ca di un’attenzione non solo legata agli aspetti di natura ambientale, investen-do aspetti di natura sociale e culturale. Relativamente ai contenuti del corso, il design – nelle sue molteplici sfaccetta-ture – è uno degli agenti dello sviluppo locale sostenibile. Per un lavoro che si sviluppa a più livelli, dal progetto del prodotto – dalla valorizzazione delle produzioni locali al merchandising, a quello della comunicazione (a più livel-li: segnaletica, cartacea, internet, video design…) al servizio.

Come Corso di Perfezionamento in Design per lo sviluppo locale sostenibile abbiamo dovuto ope-

rare delle scelte – data la brevità del lavoro. Come focus centrale del Corso è stato individuato quello del Design come strumento di valorizzazione del-le attività produttive manifatturiere. A livello operativo sono state fornite agli studenti indicazioni da rispettare nella fase di progettazione.

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in basso e nella pagine precedente:Palazzo El Badi.©ITACAfreelance

1 Ezio Manzini, op.cit., pp.104-105.2 www.wikipedia.it

1La relazione tra prodotti e luoghi come valore aggiunto – citando i casi della Denominazione di origine

protetta, i marchi a livello territoriale, l’esempio di Slow Food, rilevando come il rapporto tra produzioni e territorio sia più semplice per il settore agroali-mentare legato alle specificità del cli-ma, della terra…

2Il rapporto tra prodotti e società – citando, tra l’altro il caso del com-mercio equo e solidale che si basa

sulla individuazione di diritti per chi produce. Così Ezio Manzini con estre-ma lucidità: “…se vi sono prodotti che portano con sé lo spirito del luogo, la qualità di questo luogo (e della comu-nità che lo caratterizza) deve anch’essa essere garantita… In una battuta: i pro-dotti di origine controllata richiedono dei luoghi e delle comunità di quali-tà garantita…” Ed ancora: la seconda componente strategica dello sviluppo locale è “quella legata al tema delle ri-sorse… per esistere, e durare nel tem-po, una risorsa richiede di essere sco-perta, valorizzata ed opportunamente coltivata… Ed infine, affinché questa ri-sorsa così valorizzata non si consumi o degradi, occorre usarla nei limiti delle sue possibilità di rigenerazione.”1

3L’importanza del concetto di capi-tale sociale, termine con diversi si-gnificati, dalla natura multidimen-

sionale. In sociologia utilizzato “per indicare l’insieme delle relazioni inter-personali formali e informali essenziali anche per il funzionamento di società complesse ed altamente organizzate. Esistono relazioni ben definite fra capi-tale umano, capitale sociale e sviluppo economico di una cultura, sia essa un territorio, una regione o una nazione.”2

4Il rapporto tra cultura materiale e cultura immateriale. Come recita la Convenzione tra la salvaguardia

del patrimonio culturale e immateriale

UNESCO – Article 2: Le “patrimoine culturel immatériel”… se manifeste notamment dans les domaines sui-vants: (a) les traditions et expressions orales, y compris la langue comme vecteur du patrimoine culturel im-matériel; (b) les arts du spectacle; (c) les praticulturel immatériel ; (b) les arts du spectacle; (c) les prati ques sociales, ri-tuels et événements festifs; (d) les con-naissances et pratiques concernant la nature et l’univers; (e) les savoir-faire liés à l’artisanat traditionnel. sociales, rituels et événements festifs; (d) les connaissances et pratiques concernant la nature et l’univers; (e) les savoir-fai-re liés à l’artisanat traditionnel.

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sotto:Jardin Majoreille. ©ITACAfreelance

sotto:minareto della Moschea Koutoubia.

©ITACAfreelance

Nella consapevolezza che, proprio al design può spettare il ruolo di tenere insieme questa moltepli-

cità di aspetti – il rapporto tra prodotti e luoghi, tra prodotti e società, la cultura materiale e quella immateriale, la valo-rizzazione del capitale sociale.

Per vocazione e formazione il design svolge da sempre un importante ruolo proprio come connettore e

catalizzatore di contributi disciplinari, conoscenze, saperi diversi che concor-rono a definire l’innovazione. Il design svolge appieno una funzione di “media-tore e integratore di saperi”3 di prove-nienza diversa a livello disciplinare ed extradisciplinare “le tradizionali com-petenze delle imprese”, territoriale “con una crescente importanza assunta dalle reti di conoscenza a livello globale, muovendo dalle peculiarità dei luoghi”, tra settori vicini e lontani.

Un lavoro “con” i luoghi, dunque.Con la necessità di cercare di capire i luoghi. Di qui, nel caso

specifico, la necessità di interrogarsi sull’identità culturale di Marrakech, contesto di riferimento del Corso. Mar-rakech, come ogni luogo del turismo, a rischio di divenire una città prodotto, una città cartolina, una città Disneyland ma anche, per tradizione, luogo dell’in-contro e dunque dello scambio. Incro-cio tra tradizione modernità, scambio tra culture, fulcro di attraversamenti tra Africa ed Europa di cui la piazza Ja-maa el Fna è l’emblema.

La piazza nella Liste répresentative du patrimoine culturel immatéri-el dell’UNESCO, 2008 - “veritable

theatre en plein air”. “La place Jemaa el-Fna est l’un des principaux espaces culturels de Marrakech.

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3 Claudio Germak, Introduzione, in Claudio Germak (a cura di), Uomo al centro del progetto. Design per un nuovo umanesimo, Umberto Allemandi & C, Torino, 2008, p.4.

in alto a sinistra:Madersa Ben Youssef.in alto a destra:

Medina. ©ITACAfreelance

Devenue l’un des symboles de la ville depuis sa fondation au on-zième siècle, elle offre une con-

centration exceptionnelle de traditions culturelles populaires marocaines qui s’expriment à travers la musique, la religion et diverses expressions artisti-ques… Les expressions orales étaient autrefois continuellement renouvelées par les bardes (imayazen) qui parcou-raient les territoires berbères. Aujou-rd’hui encore, ils mêlent le geste à la parole pour enseigner, divertir et char-mer le public. Ils tendent désormais à adapter leur art au monde contempo-rain en improvisant sur la trame d’un texte ancien, rendant ainsi leurs récits accessibles à un plus large public.”

Marrakech, dunque, come esempio di società intercultu-rale, vero laboratorio della vita

contemporanea. Con il design che si fa veicolo dell’intercultura, caricandosi di significati di carattere sociale.

Tutto ciò nella consapevolezza che in un tale scenario l’Italia può giocare un importante ruolo. Per

la sua posizione geografica: in mezzo al mare di mezzo.

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sotto: Piazza Jama’a el Fnaa. ©ITACAfreelance

4 Danilo Zolo, “La questione mediterranea”, in ivi., p.21.

Con il Mediterraneo da sempre luogo di confronto tra mondi, modelli di sviluppo e culture di-

versi. Mediterraneo come mare di mez-zo, non solo tra terre, ma tra due modelli di sviluppo:

- quello comunemente definito come occidentale che ha portato mediamen-te a benessere economico ma che pecca sul piano della sostenibilità ambientale, nella disparità nei confronti di realtà a più basso tasso di sviluppo e non appa-re generalizzabile perché porterebbe in breve al tracollo del pianeta;

- quello proprio della riva sud, sicura-

mente eccessivamente lento, soggetto alla minaccia di una occidentalizzazio-ne incontrollata, ma che si esprime in continuità con il territorio, in rapporto con la tradizione, in legami ancora forti tra le persone.

Il tutto a prefigurare una alternativa mediterranea che “…vorrebbe va-lorizzare, piuttosto, la cultura del li-

mes, dei molti dei, delle molte lingue e delle molte civiltà, del mare fra le terre estraneo alla dimensione monista, co-smopolitica e umanitaria delle potenze oceaniche.”4 Mediterraneo come luogo di incontro con l’altro.

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sopra: Piazza Jama’a el Fnaa. ©ITACAfreelance

5 Roberto Gritti, Patrizia Laurano, Marco Bruno, “Introduzione”, in Roberto Gritti, Patrizia Laurano, Marco Bruno, Oltre l’Orientalismo e l’Occidentalismo. La rappresentazione dell’Altro nello spazio euro-mediterraneo, Guerini associatu, Milano, 2009, p.126 Enzo Scandurra, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città Aperta Edizioni, Troina (En), 2007, p.106.

“Se il Mediterraneo è senza dub-bio la culla dell’Occidente, esso è

però anche il luogo di intersezione tra l’Occidente e il suo Altro, o almeno ciò che esso ha ritenuto essere il suo Altro, in particolar modo la cultura arabo-mu-sulmana.”5

Con Scandurra: “Così è per il Me-diterraneo, luogo dismesso e pure d’incontro di storie metic-

ciate, di ibridismi e non di guerre, di ri-

conoscimento conflittuale di alterità. Il Mediterraneo, che si oppone al fonda-mentalismo della visione unica, della cultura unica, della fede religiosa unica. Un luogo pluriverso, plurimo, plurale. Il luogo dove non è dato a nessuna cultu-ra prevalere sulle altre.”6

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Maria Vittoria Trovato

tratto dalla serie: Isola

ISSUE #9 - AUTUMN/2011

Il quartiere Isola aveva una storia a sé nella geografia milanese, come se ci fosse il mare attorno. Oggi il ponte sacrifica, per interessi immobiliari, la sua complessa iden-tità.

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Daniele Pennati

tratto dalla serie: Ex Sisas

ISSUE #8 - SUMMER/2011

Tra la speranza di una nuova vita e il baratro del disastro ambientale, l’ex polo chimico SISAS si offre all’obbiettivo fotografico nel suo desolante e inquietante abbandono.

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Alfredo Bosco

tratto dalla serie: Fenomenologia a due

ISSUE #5 - AUTUMN/2010

Seguendo le date di un calendario segreto, appassionati tangueri si riuniscono la sera per ripopolare una Piazza Affari, altrimenti deserta.

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Buildings must die. A perverse view of architecture. Stephen Cairns, Jane M. Jacobs

The MIT press 2014 Cambridge-Massachussests, London-England

Vanessa Lastrucci architetto, Responsabile social media per NIP magazine.

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il lib

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La vita dell’Architettura è finita.di Vanessa Lastrucci

“Architecture carries within itself the traces of future destruction, the already past future, futu-re perfect, of its ruin... it is haunted, indeed signed, by the spectral silhouette of this ruin, at work even in the pedestal of its stone, in its metal or its glass”. Derrida in “Buildings must die”.

L’etica in architettura ha solitamente per sogget-to il progettista, che, con le sue scelte rende l’edi-

ficio più o meno sostenibile, più o meno riciclabile, più o meno conforme a determinati principi di valo-re dettati dalle variazioni del tempo e delle società. Ma è possibile ribaltare il soggetto? Si può parla-re di etica nell’edificio in sé? Probabilmente sì, ci rispondono Stephen Cairns e Jane M. Jacobs, se è così comune assumere che l’architettura abbia una “vita”, un certo “comportamento” e “reazione” a vari fattori, una propria “membrana” e via dicendo. Non si tratta solo di un linguaggio di recente invenzio-ne, gli accostamenti dell’architettura ai sistemi biolo-gici, o alla costituzione umana datano nel tempo a Le Corbusier e Frank Lloyd Wright, il Filarete e l’Alber-ti, per arrivare a Vitruvio e probabilmente anticiparlo ancora indietro, ma di questo non si hanno testimo-nianze certe.

Se queste, fino ad alcuni anni fa, erano soltanto metafore, oggi si è passati ad una traduzione qua-

si letterale della somiglianza alla vita nell’edificio: le biotecnologie hanno permesso di ampliare il nu-mero di elementi che danno la vita, enfatizzando il biomorfismo e l’antropomorfismo dell’architettura. Gli esempi della tendenza si sprecano, ma è semplice pensare a due strutture ben note, come l’Institut du Monde Arabe di Jean Nouvel dove i diaframmi, che si comportano esattamente come le pupille dell’occhio umano, si allargano o stringono in base alla quantità di luce che li tocca; o la chiesa di Tor Tre Teste di Meyer,

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Le recensioni di

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che ha nell’impasto del cemento una particella che permette di eliminare le patine che si formano a cau-sa degli agenti atmosferici, come eliminare le scaglie di pelle morta.

L’etica dell’edificio è però monca se ci si riferisce soltanto alla vita. Eppure l’aspetto speculare, la

morte, non è altrettanto dibattuto nel mondo dell’ar-chitettura. Quale è la relazione dell’architettura con la morte, come si pone nei confronti di concetti ad essa correlati come spreco, rovina, distruzione, deterio-ramento e decomposizione? Con questa domanda si entra nel cuore del testo, di cui ci vengono chiariti gli intenti: “arricchire la categoria del design per espan-derne l’orizzonte etico e per capire come l’architettu-ra possa imparare a convivere con i fattori che la in-vecchiano e la deformano”.

È proprio a partire da questi fattori che i due autori studiano il concetto con una larga base teorico-fi-

losofica ed empirica, affrontando la ricerca per cate-gorie. Citando solo le più affascinanti:

Dross_ come definito da Alain Berger è il paesaggio dello scarto, dei terreni di risulta, degli spazi intersti-ziali e delle soglie. Pur indicatore di una “sana crescita urbana” è un paesaggio liminale. Ma se si è al limite, si è vicini alla morte.

Rust_ La condizione più tipica della città contempora-nea, è lo scenario formato da edifici costruiti per pura utilità quali ponti, centrali termiche, manifatture che, superati nell’uso, si trovano oggi in contesti in cui ven-gono rivestiti di intenzioni estetizzanti (la più banale: loft conversion) e rappresentano dei veri e propri “morti viventi”.

Subtraction_ vista come perdita, è la demolizione o rimozione a cui tanto si fa resistenza, in tutto il mondo.

Obsolecence_ che definisce le architetture che “ri-mangono al loro posto, ma accumulano ritardo” come edifici non finiti, poco utilizzati, o carcasse.

Non ci si può ridurre solo a questa semplificazione: le categorie non possono essere drasticamente

separate, ognuna influenza l’altra e in numerose pos-sono affliggere uno stesso edificio, originando sovrap-posizioni ambivalenti e perverse.

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Certe volte l’estetica della decadenza è ricercata. Una patina di sporco può essere intenzionalmente

inserita nel design in materiali come il corten o altre superfici che reagiscono alle caratteristiche atmosfe-riche, definendo un’architettura che si costituisce at-traverso l’interazione con le condizioni del contesto. Il testo investiga soprattutto in questo: come si sono confrontati e comportati architetti ed edifici riguardo i fattori distruttivi, spesso lenti, diffusi, ed indistinti, offrendo una riflessione ampia e sfaccettata sulla du-rabilità e la programmazione della vita dell’edificio. Se l’architettura è cosciente dei propri limiti tempora-li, riuscirà anche ad affrontare la propria morte.

Stephen Cairns e Jane M. Jacobs scrivono che ogni metafora con la vita cade quando si avvicina la fine

di un edificio. Al contrario, penso che la morte non faccia che rinforzarla: la vita dell’architettura è finita, proprio come l’umana.

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