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DANTE SVARCA N I K A La verità ti farà libero (estratto del libro) per informazioni su come avere tutto il libro: dante [email protected] Humana Editrice Ancona NIKA - 1

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Il libro ripercorre le tappe più significative della formazione spirituale del Gesù ribelle alla religione dei padri, deluso dal Dio di Abramo, crudele, vendicativo e contrario alla felicità dell’uomo. Buono solo per la casta sacerdotale.

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DANTE SVARCA

N I K ALa verità ti farà libero

(estratto del libro)

per informazioni su come avere tutto il libro:

dante [email protected]

Humana Editrice Ancona

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Presentazione

A cura del Prof. Massimo Raffaeli

Critico Letterario

La tradizione, o meglio l'ortodossia, cristiana è un corpus che i secoli hanno metabolizzato e ormai nor-

malizzato in una perfetta ufficialità interpretativa. E va aggiunto che ad esso, parallelo, si oppone un sottotrac-

cia eretico che muovendo dagli Apocrifi giunge diretto ad alcune sperimentazioni contemporanee, non esclusi i

nomi di atei quali Pasolini e Saramago.

Certo è che quella tradizione, ammessa l'anti-tradizione che ne fa un tutt'uno solidale, sembrerebbe im-

porre il silenzio o un vaniloquio mai in grado di scalfirla, di rettificarla.

Tuttavia, nicchie di erosione, possibili scalfiture, fenditure augurabili alla stregua di punti di fuga sono

ipotizzabili e, in qualche caso, almeno parzialmente possibili.

Il lavoro di Dante Svarca allude a una possibilità del genere, e a partire da una opzione strutturale che

è ambigua in quanto complessa, si direbbe auto-compensata: né filologia né fiction, né oggettività esegetica né

pura soggettività; in altri termini, né ortodossia né l'orgoglio della eterodossia.

Piuttosto, qualcosa d'altro: un genere di "frontiera" che, ereditando e compulsando liberamente l'ideale

e il messaggio cristiano, lo ridisegna a misura dell'uomo di oggi, l'uomo cui parrebbero negate tanto la speranza

quanto la certezza di solide verità. Ma non la possibilità di cercare e ancora interrogare, anzi di rivendicare

l'homo sum, del quale la pagina libera e cristiana di Svarca è una ennesima, per certi versi disperata, manifesta-

zione.

Massimo Raffaeli

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Premessa

"Quando morirò, sarò niente di niente e nulla di me sopravviverà. Non sono più giovane e amo la vita. Mi ri-

fiuto di vivere tremando di terrore al pensiero del nulla. La felicità non è meno vera perché deve finire, né il

pensiero e l’amore perdono il loro valore perché non sono immortali". Con queste parole Sir Bertrand Russell,

uno dei maggiori filosofi moderni, premio Nobel, riassume la sua ferma opinione di libero pensatore contro i

dogmi e le rinunce.

Ancora bambini scopriamo che la Befana e Babbo Natale non esistono. Poco dopo si scopre la differenza tra le

fiabe e la realtà.

Alcuni, poi, scoprono che è impossibile che esista un Dio, men che meno un Dio buono e giusto. E che non

esistono angeli o demoni, né qualcuno che possa compiere miracoli tranne, forse, noi stessi, con le nostre forze

e la nostra volontà. In ogni caso nessuno può far resuscitare i morti, può far spuntare una mano a chi ne è rima-

sto privo, può far tornare la vista a quelli a cui sono stati strappati gli occhi.

Altri, invece, continuano a credere in dogmi assurdi, rifiutano l’evidenza, credono in Dio e nel suo Diavolo,

credono nell'irrazionale.

Il diavolo è un'invenzione, un capro espiatorio necessario per dimostrare che tutto quello che il Creatore ha fat-

to è buono e se qualcosa non è andato seconda la sua volontà (il dolore, la morte, le guerre, i campi di stermi-

nio.... cioè tutto il male esistente nel mondo) la colpa non è del Creatore ma del Maligno.

Altri continuano a credere nei miracoli.

Il miracolo è il figlio più caro della fede, ma anche e soprattutto della superstizione. L'uomo sta compiendo il

suo percorso evolutivo magia-religione-scienza, ovvero animismo-divinità-uomo, e l'umanità si trova ad occu-

pare, contemporaneamente, i tre stadi evolutivi.

Molti uomini sono pronti al sorriso beffardo quando odono racconti, o leggono di divinità straniere che assumo-

no sembianze umane, o che scendono dal cielo per generare figli con esseri umani, o che compiono miracoli

strabilianti. Quando, invece, si parla della loro divinità, del Dio in cui sono abituati a credere fin da fanciulli,

capace di compiere o di aver compiuto ogni sorta di prodigio e di magia, non sono mossi ad ilarità alcuna. Ein-

stein affermava che è più semplice spaccare un atomo che un pregiudizio.

In tutte le religioni si hanno morti che resuscitano miracolosamente. Nell’Antico Testamento troviamo i profeti

Elia ed Eliseo che hanno resuscitato morti, come viene raccontato abbia fatto Gesù. E troviamo Elia ed Enoc

che non sono morti, ma sono saliti al cielo in carne e ossa, come viene raccontato abbia fatto Gesù. E moltissi -

mi demiurghi sono nati da donne vergini, unitesi a Dio, come viene raccontato sia avvenuto per Gesù.

I miracoli erano considerati un segno del divino che si manifestava nei profeti, nei taumaturghi. A Samaria,

poco lontano da dove predicava Gesù, un mago di nome Simone si era creato una fama quasi divina con i suoi

miracoli.

A quei tempi la facoltà di operare miracoli era un dono concesso da Dio ad alcuni uomini meritevoli, e ciò non

sorprendeva nessuno.

Il soprannaturale era del tutto naturale. Tutto dipendeva da Dio, poiché egli: "fa crescere i gigli e le erbe; i ca -

pelli sul capo degli uomini; nutre gli uccellini e nemmeno un passero cade a terra senza il suo volere".

La vita di tutti i grandi personaggi, sia religiosi che laici, era accompagnata da miracoli. Alla loro nascita e

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morte partecipava tutto l'universo. Si narra che la nascita di Buddha fu preceduta da una pioggia di fiori, le be-

stie feroci che vivevano sui monti scesero a valle per unirsi agli uomini e festeggiare l'evento. Anche di lui si

dice che fosse figlio di una vergine, come Ciro il Grande e Zoroastro (Zarathushtra).

Alessandro Magno sosteneva di avere Dio come padre e i faraoni d'Egitto avevano origine divina. Nella mitolo-

gia greca i figli di amori divini per gli umani si contavano a centinaia. Nell'antichità ogni grande uomo era con-

siderato figlio di Dio. Una traccia di quella credulità è rimasta fino al giorno d'oggi tanto che Re, Imperatori e

Dittatori vengono incoronati con la formula "Per Grazia di Dio.....".

In Grecia, all'epoca di Gesù, già da 500 anni le malattie si curavano in modo scientifico, ma così non avveniva

nel chiuso mondo giudaico. Lì la guarigione da una malattia era un fatto morale. La malattia era figlia del pec-

cato, era un castigo di Dio ed era naturale che la preghiera, la fede, o l’intervento di una persona santa potesse -

ro guarirla. Molte patologie psichiatriche erano scambiate per possessione dei demoni e la gente credeva che gli

esorcisti o taumaturghi, come Gesù, potessero guarirle. Ma oggi chi può crederci?

I miracoli non esistono, anche se qualche volta accadono. Nel senso che a volte accadono fatti al momento in-

spiegabili, impropriamente definiti miracoli. Un tempo anche il fulmine era considerato un prodigio miracoloso,

segno evidente della potenza divina. Ora non più.

Nell'antichità, ogni volta che si verificavano fenomeni strani o poco frequenti, la mancanza di conoscenze

scientifiche e la superstizione dilagante portavano a credere che si trattasse di eventi soprannaturali. Così nac-

quero le creature leggendarie e le divinità.

Non vi è religione che non nasca da una leggenda, da un mito, poiché l’uomo ha sete di giustizia e di immorta-

lità e, per ottenerle, accetta anche di essere ingannato.

Non esiste nulla, al di fuori del reale, che possa essere di una qualche utilità per il genere umano. Per "reale" in-

tendo tutto ciò che vive o esiste nell'universo materiale. Né vi è alcuna Entità alla quale l'uomo debba rendere

conto del proprio operato, sia in vita che da morto, tranne agli altri uomini.

Siamo soli.

Anche se abbiamo tanti compagni di viaggio durante la vita, ai quali dovremmo più rispetto e amore, l'uomo è

solo, con le proprie paure e le proprie speranze. E da soli dobbiamo organizzare la nostra vita, della quale dob-

biamo rendere conto a noi stessi ed alla comunità degli altri esseri viventi. Il mondo dovrebbe essere libero da

faziose incomprensioni, consapevole che la felicità per tutti nasce dalla collaborazione e dalla solidarietà, non

dalla discordia e dall’egoismo. Per poterlo fare dobbiamo liberarci dalla illusoria e falsa stampella della fede,

drizzare la spina dorsale e vivere da uomini.

Non v'è alcun fondamento nel credere in Dio e nella immortalità. E' irrazionale, pura superstizione, allo stesso

modo del credere negli dèi, negli idoli o in una delle tante religioni.

Le religioni, monoteiste o animiste o panteiste, grandi o piccole, le sette, il satanismo, la magia, il pensiero me-

tafisico, la fiaba e il sogno sono tutte illusioni a pari merito. E' solo il numero degli adepti, la ricchezza dell'or-

ganizzazione, la sontuosità delle cerimonie che le rende più o meno grandi.

L' "al di là" non esiste, è stato inventato solo per insozzare l'al di qua. E il giudizio divino dopo la morte, con

la premiazione dei buoni e la punizione dei cattivi, è solo "il dolce conforto della vendetta" per coloro che sof-

frono, come ha scritto Nietzsche.

Non è stato Dio a creare l'uomo, ma è stato l'uomo a creare e inventare l'idea di Dio, della divinità. Tanto che

ogni Dio porta il DNA del popolo che lo ha inventato.

Dio è solo un errore dell'uomo, il risultato delle sofferenze cerebrali di uomini paurosi che hanno posto l'indi-

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mostrato, il vuoto a fondamento del vero e del reale. L'inesistente come causa incausata, origine del tutto!

La paura delle forze ignote della natura, della fame, delle carestie, delle malattie e della morte ha indotto gli

uomini a chiedere aiuto agli spiriti.

Di certo v'è solo la nostra esistenza unita a quella di tutti gli altri esseri viventi, il nostro mondo, il nostro uni-

verso, vero e reale assieme a tutti gli altri infiniti universi. La vita è nello spazio infinito e si trasferisce da un

pianeta all'altro, da un sistema solare all'altro, da un universo all'altro, da sempre e per sempre.

Invece la paura e la speranza hanno dominato e dominano gran parte della nostra vita. La paura di fronte alla

natura e, sopra tutto, la paura della morte. La speranza in un mondo migliore e giusto. La religione è un tentati -

vo di vincere questa paura e dare credibilità al sogno. Già Aristotele diceva che: "La speranza è un sogno fatto

da svegli".

Partendo da queste premesse, cioè togliendo dai Vangeli, che sono degli scritti a scopo missionario e teologico,

i miracoli, il soprannaturale, il "mito" e le aggiunte dovute alla tradizione cherigmatica della comunità primiti-

va, comuni in tutte le religioni ma chiaramente leggendari e illusori, tenendo conto che nei Vangeli non si parla

mai di Gesù come seconda persona di una Trinità divina, né lui si definisce mai Messia, ho voluto esaminare

l'insegnamento di Gesù, soffermandomi solo su quanto appare razionalmente credibile.

Mi sono avvicinato a lui con semplicità e amore.

Nella ricostruzione storica della vita di Gesù ho dovuto riempire alcuni vuoti, necessari alla comprensione della

vita di Gesù, della sua formazione e della nascita del cristianesimo. Questo riempimento non è avvenuto per

semplice ricostruzione fantastica, bensì è frutto di meditata intuizione. Intuizione che nasce da lunga e diuturna

lettura dei testi, da meditazione continua, da familiarità con la meravigliosa figura di Gesù, da improvvisa com-

prensione, benché soggettiva e simile, per natura, alla rivelazione. Rivelazione non elargita dal cielo ma scatu-

rita dalla Terra.

Noi non sapremo mai se il pensiero di Gesù ci è giunto integro, mutilato o con aggiunte. Si può ragionevolmen-

te ritenere che gli apostoli, nei loro racconti orali, abbiano omesso molte cose e molte altre le abbiano modifica-

te o aggiunte per renderle coerenti con ciò che essi ritenevano essere stato l'insegnamento di Gesù.

Anche i quattro evangelisti principali, che non conobbero Gesù e si accinsero a scrivere i Vangeli molti anni

dopo la sua morte, verso l'anno 70 i primi tre e verso l'anno 100 il quarto, avranno apportato tutte quelle modi-

fiche che ritenevano necessarie per raggiungere lo scopo propagandistico che si erano prefissi nello scrivere i

Vangeli stessi: dimostrare agli Ebrei che il Cristo è il figlio di Davide, il Messia promesso, autore di tanti mira-

coli (Matteo); dimostrare ai pagani che Gesù è il figlio di Dio (Marco); dimostrare che il nuovo Regno predica-

to da Gesù non era riservato solo agli Ebrei ma anche ai pagani, in particolare ai poveri, secondo l’insegnamen-

to di Paolo (Luca); dimostrare l’origine divina di Gesù, per confutare gli eretici d’Asia, interpretare i fatti e det -

ti di Gesù alla luce della costruzione teologica che nel frattempo era venuta formandosi, rompendo definitiva-

mente il legame con l'ebraismo (Giovanni).

E' proprio il vangelo di Giovanni a segnare il passaggio dal Gesù quale Messia al Gesù quale "Incarnazione del

Logos", cioè della sapienza di Dio. Gesù non è ancora diventato la seconda persona della Trinità, ma è già un

essere divino.

Dai rimproveri che lo stesso Gesù mosse ai suoi discepoli, umili pescatori della Galilea, e dalle prime divergen-

ze di insegnamento sorte tra gli apostoli stessi, in particolare tra Pietro e Paolo, possiamo ritenere che certa-

mente la figura di questo grande uomo esce mutilata dai loro racconti.

Ma tant'è, non possiamo farci nulla. Dobbiamo esaminare l'insegnamento di Gesù così come ci è pervenuto,

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come se ogni cosa detta fosse stata detta da lui e altro non vi sia. Dobbiamo solo togliere dal suo insegnamento

il fantastico, l'irreale, il divino.

Perché farlo?

Per cercare di rendere attuale quell'insegnamento. Per renderlo compatibile con le conoscenze moderne. Per

renderlo credibile. Per renderlo attuabile.

Per attuarlo.

I secoli, lo sfruttamento commerciale di Gesù, il divino e magico, oggi non più credibili, hanno svuotato il suo

insegnamento della forza rivoluzionaria primitiva, di ogni capacità di modificare il mondo e di creare l’uomo

nuovo. L'insegnamento di Gesù è puro, nobile e semplice allo stesso tempo. Dobbiamo tornare ad avere fiducia

che seguendolo si può cambiare il mondo.

Una volontà di verità ci deve sorreggere, forte.

Non si può fondare l'educazione dei giovani, la loro condotta morale, sulla necessità e possibilità di meritare il

"paradiso", quando sappiamo che di lì a poco quei giovani scopriranno che non esiste nessun "paradiso", né al-

cun premio o castigo dopo la morte.

Appena i giovani comprendono che la loro educazione morale si basa su di una finzione, si smarriscono e ri -

mangono privi di ogni solido punto di riferimento. Proprio i giovani, nei quali è più forte il desiderio inquieto e

puro della conoscenza, della giustizia si ritrovano soli senza esservi stati preparati, e molti si perdono. Alcuni

continuano, anche da adulti, a far finta di credere nella religione, altri poi, pochi, vi credono veramente per tutta

la vita. Costoro meritano compassione più di ogni altro, poiché hanno sprecato la loro vita seguendo falsi idoli.

L'insegnamento della Chiesa è nemico della vita che ognuno ha il diritto di vivere pienamente, liberamente e

coscientemente.

Tutti i credenti, invece, sono sfruttati sia dai capi delle religioni che dai capi politici, in cambio di vuote pro-

messe. La vita dei più poveri e umili diventa più "tollerabile" solo perché è loro convinzione che vi sia un'ani -

ma immortale che riceverà un premio per le sofferenze che patiscono nell'attuale vita.

Ci sono religioni che convincono i propri giovani credenti a sacrificare la vita in un attacco suicida contro gente

inerme, provocando immani catastrofi e lutti atroci, con la promessa dell'immortalità, di un paradiso pieno di

piaceri, assieme ai loro cari.

Ci sono religioni che con l'identica promessa convincono migliaia di giovani, uomini e donne, a sacrificare tutta

la loro vita, a sprecarla, vivendola come non avrebbero mai fatto senza quella violenza morale.

E' difficile dire quale delle due sia più disumana.

In ogni epoca e in ogni continente l'intensità della fede religiosa è andata di pari passo con la crudeltà e la po-

vertà. Ciò è vero, soprattutto, per quelle religioni che basano la loro forza sulla paura: paura dell'occulto, pau-

ra del peccato, paura della morte, di tutto ciò che è ignoto, che produce in noi inquietudine e pena. E il deside -

rio di eliminarle. E una spiegazione qualsiasi, persino assurda, è meglio che nessuna spiegazione.

La società non è quella che dovrebbe essere, né quella che potrebbe nascere dall'unione di uomini maturi, liberi,

consapevoli, tesi a organizzare la vita dell'umanità nel modo migliore per tutti gli essere viventi; consapevoli

che ogni uomo è una parte dell'universo, come lo sono gli animali, le piante, i fiori e i sassi; consapevoli che

l’uomo è parte della natura, non qualcosa di superiore o contrastante ad essa; consapevoli, infine, che ogni vita

è un'esperienza meravigliosa, unica ed irripetibile.

Sprecare la propria vita o indurre altri a sprecarla è un delitto contro l'umanità.

Sono atterrito al solo pensiero della vita inumana di tanti sinceri credenti-creduli. Si pensi a quanti sacrifici,

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quante rinunce, quante lacerazioni sono costretti a sopportare alcuni di loro per delle vuote promesse, per meri-

tare il paradiso e la vita eterna, che non esistono.

Si pensi ai sacrifici dei giovani religiosi, uomini e donne, i quali, se non fossero stati plagiati con il miraggio

della vita eterna e del paradiso, avrebbero condotto una vita normale, umana, quella che avrebbero preferito,

amando la loro donna o il loro uomo, formando una famiglia, allevando i propri figli e godendo delle cose belle

di questo mondo, seguendo il loro istinto e le loro passioni.

"Stolti, che dalla fortuna ebbero la vita e per una vuota scommessa la persero!"

Se riuscissi, con questo mio lavoro, ad evitare che una sola vita umana sia vissuta in maniera diversa da come

lo sarebbe stato senza i condizionamenti dovuti alle false promesse, mi sentirei appagato e lo considererei un

successo.

L’uomo non sarà degno di chiamarsi Uomo fino a che non avrà il coraggio di dirsi padrone assoluto della pro-

pria esistenza, padrone dei propri comandamenti, senza la necessità di intermediari che lo uniscano a inesistenti

divinità, nel rispetto di tutti gli altri esseri viventi, compresi gli animali e le piante che vivono dello stesso sole,

sotto lo stesso cielo, respirando la stessa aria.

Anche S. Agostino ne era convinto, poiché era solito ripetere: "Nell'interno dell'uomo abita la verità".

L'uomo è parte della natura, come tutti gli altri esseri viventi. Frammento del Tutto. Di un eterno universo non

creato, privo di scopo, in continuo divenire.

Se solo riflettessimo sul fatto che l’aria che noi respiriamo è appena uscita dai polmoni di un altro uomo, o da

quelli del nostro cane, o di qualsiasi altro animale, certamente vedremmo la vita in modo diverso. E avremmo

ribrezzo della quotidiana, immensa carneficina cui assistiamo e a cui siamo costretti a partecipare.

Nell’uomo c’è il desiderio di credere in Dio per bisogno di sicurezza, di protezione, ma anche per orgoglio.

Ci consola pensare che l’uomo sia un essere con un destino particolare, che sia prediletto su tutti gli altri esseri

viventi. Che viva, dopo la morte.

Invece "non c'è vita dopo la morte". Con la morte è tutto finito.

Ci consola pensare che l'uomo sia di origine divina e immortale. Che un Dio buono e giusto faccia giustizia, al-

meno dopo la nostra morte.

Così abbiamo lanciato l'anima, i nostri ideali più belli, tra le stelle, negli spazi infiniti, alla ricerca di Dio. E

non ci siamo accorti che il granello di polvere che calpestiamo è esso stesso parte delle stelle, del cosmo infini-

to.

La divinità si manifesta quando l’uomo lotta per la giustizia, per la sua affermazione, per l’affrancamento dalle

paure che l’opprimono dentro e fuori, sia esso Adamo, Caino, Abele, Abramo, Budda, Socrate, Confucio, Lao-

Tse, Gesù, Maometto od ognuno di noi.

Gesù, il nostro grande fratello ebreo, in ciò è Uomo-Dio.

La divinità è dentro di noi.

Dentro ognuno di noi.

Dentro ogni essere vivente.

Questa è la buona novella, il vangelo, oggi come ieri.

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GESU’ DI NAZARETH

1 - La paternità

"Madre".

"Sì, figliolo".

"Chi è mio padre?".

Maria si sentì mancare.

Stava camminando per ritornare a Nazareth, assieme alle cugine e alle altre donne del paese. Erano state a Ge-

rusalemme per festeggiare la Pasqua e, come al solito, viaggiavano separate dagli uomini.

Si fermò un momento per riprendersi.

Erano dodici anni che aspettava e temeva quella domanda; ora che era arrivata si trovava impreparata.

Il tono di voce del figlio l'aveva sorpresa. "Madre" l'aveva chiamata, e non "mamma" come era solito fare. Era

stato duro Gesù, nel chiamarla così. Dalla voce traspariva evidente l'agitazione del figlio, la rabbia per il dubbio

appena manifestato, ma non nuovo, la freddezza del rapporto fino a quel momento tanto tenero e intenso.

Avevano un segreto, madre e figlio, che non si erano mai confidati, neanche con allusioni. Eppure ognuno sape-

va, in cuor suo, che anche l'altro ne era a conoscenza.

Gesù, fin da bambino, aveva capito che tra lui e i suoi fratelli c'era qualcosa di diverso. Lo vedeva dalle atten -

zioni della madre, con lui più premurosa e sempre piena di tenerezze. Lo intuiva, anche, dal comportamento di

Giuseppe.

Il padre, cioè Giuseppe, non lo accarezzava mai, non lo elogiava né lo rimproverava. Era come se quel figlio

per lui non esistesse.

Non c'erano state espressioni particolari o allusioni. Né Giuseppe, uomo mite e buono anche se giovane e vigo-

roso, lo aveva mai rimproverato o bastonato. Lo trattava come gli altri fratelli, all'apparenza, ma Gesù sentiva

che c'era qualcosa di diverso.

Sentiva che non poteva immedesimarsi in quel padre, non ne condivideva la rassegnazione, la passività, la su-

bordinazione a tutti. Da Giuseppe non aveva sentito, neanche in casa, al riparo dalle orecchie indiscrete dei de-

latori, una parola di odio, di disprezzo, di condanna per nessuno, neanche per le forze militari di occupazione:

gli odiati Romani.

In casa, chi decideva era Maria. Anche i lavori della bottega erano diretti da lei. Maria sapeva contrattare, sape-

va tener testa ai clienti, non si perdeva mai d'animo e, in sostanza, dirigeva la piccola bottega di famiglia.

Ma c'era di più. C'era qualcosa di sfuggevole, che non riusciva a spiegarsi. Era come se Maria avesse una sua

rendita personale, avesse soldi suoi propri e non dipendesse, in tutto e per tutto, dal lavoro di Giuseppe e dal ri -

cavato della bottega. Questo Gesù lo aveva intuito già da tempo, anche se non riusciva a darsene una spiegazio-

ne.

Maria, udita la domanda del figlio, si guardò attorno con finta noncuranza e rallentò il passo. Lasciò che le sue

cugine, Elisabetta e Rachele, con le quali tornava a casa da Gerusalemme, la superassero. Non voleva che udis-

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sero il colloquio con il figlio. Non è che si facesse illusioni. Tutti a Nazareth conoscevano quel segreto, anche

se nessuno ne parlava apertamente.

Il paese era piccolo, una borgata di poche case su una collina di fronte alla pianura d’Esdrelon e, a suo tempo,

la notizia fece scalpore e tutti, in gran segreto, ne parlarono. Col tempo, poi, il cicalio si acquietò, la cosa non

fu motivo di pubblico scandalo e la vicenda fu ricoperta da un velo di silenzio.

Tutti gli adulti sapevano, ma tacevano. Non avevano motivo di parlarne, specie ora che era passato tanto tempo.

All'epoca del fatto qualcuno, più zelante degli altri, voleva denunciare la vicenda alle autorità religiose. Ci fu

anche un’assemblea degli anziani, svoltasi in gran segreto, ma fu deciso che non era compito loro sollevare il

problema. Solo Giuseppe aveva il diritto di farlo e se lui taceva dovevano tacere anche gli altri.

Probabilmente sulla decisione di tutti, di Giuseppe e degli anziani, influì anche la possibilità di eventuali ritor-

sioni da parte delle forze d'occupazione romane, qualora fosse emerso lo scandalo e Maria fosse stata lapidata,

secondo le usanze. Forse influì anche il fatto che il capo religioso di Nazareth era rabbi Anna, zio di Maria.

"Non è Giuseppe".

Maria pronunciò la frase con un fil di voce.

Finalmente si era liberata di quel peso che la tormentava e la turbava, ma tante sensazioni le procurava ancora,

intense e piacevoli.

Ora era libera di raccontare al figlio prediletto, al primogenito, tutta la verità. Ella non si sentiva affatto in col-

pa, tutt’altro. Era la sua storia d'amore, incolpevole, forse incosciente. Si può essere pienamente coscienti a 17

anni?

Lo può essere una ragazza ingenua, inesperta, sensibile, curiosa e vivace quale lei era? Ed anche bella.

Ma in quel momento Maria non voleva indulgere ai ricordi. Il suo pensiero e il suo sguardo erano occupati a

scrutare il figlio. Ne osservava ogni mossa, ogni reazione. Controllava il delicato rossore del viso di Gesù, la

sua agitazione misurata, la rabbia facilmente frenata. Era come se la notizia non lo avesse colto proprio di sor-

presa, come se l'avesse attesa e, forse, anche desiderata.

Certamente qualcuno gli aveva parlato, qualcosa gli era stato detto. Il velo di silenzio voluto dagli anziani era

stato sollevato. Ma chi era stato? Per quale scopo? Quanto sapeva Gesù?

Maria, preso coraggio dalla reazione misurata del ragazzo, lo interrogò con decisione:

"Chi te l'ha detto"?

"E' stato Giose", rispose Gesù, pronto.

Dunque era stato suo fratello; era un pettegolezzo di ragazzi; i grandi non ne erano coinvolti.

Giose aveva nove anni. Era il terzogenito. Il secondo, Giacomo, ne aveva dieci. Poi c’erano Giuda e le due so-

relle.

Giose era il più irrequieto di tutti, il più coraggioso e anche il più intelligente, ma non sapeva cosa fosse la bon-

tà d'animo. Era vendicativo e spietato con chi non lo rispettava. Non era cattivo, ma si faceva temere. Nei gio-

chi dei ragazzi tutti lo volevano dalla loro parte e lo nominavano subito loro capo, soprattutto da quando fu sor-

preso a tirare sassi ai soldati romani.

Era successo l'anno prima. Alcuni soldati, dovendosi recare da Cana a Naim, passarono per Nazareth. Giose non

ci pensò due volte. Salito sul terrazzo di casa lanciò alcuni sassi contro di loro. Fu subito visto e preso. Sebbene

avesse solo otto anni i Romani lo portarono in piazza, gli tolsero gli indumenti e lo frustarono.

Il ragazzo si comportò con molto coraggio e orgoglio di fronte a tutto il paese. Anche i suoi genitori, i fratelli e

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le sorelle assistettero alla punizione.

Anzi, si disse, fu proprio per la presenza di sua madre che la punizione non fu tanto grave.

Giose non era mai andato d'accordo con Gesù. Erano due caratteri del tutto opposti. Tanto l'uno era di animo

buono e di carattere mite, tanto l'altro era vivace e irrequieto. Litigavano per ogni sciocchezza. Molte volte ve-

nivano alle mani e quasi sempre Giose, sebbene più piccolo, aveva la meglio sul fratello.

Evidentemente Giose, tornando da Gerusalemme dove era stato con tutti i parenti, era riuscito a sentire qualche

chiacchiera riguardo a sua madre e suo fratello più grande, il primogenito. Impulsivo qual era non aveva lascia-

to passare neanche un momento per aggredire e schernire Gesù.

Maria si rincuorò. Al figlio non era stato detto granché, erano state fatte solo allusioni sul suo vero padre. Me-

glio così. Era da tempo che voleva raccontargli tutto, non le piaceva che lo avesse appreso da altri. Nello stesso

tempo voleva ritardare il più possibile quel momento, che ora non si poteva più rinviare.

E così, preso in disparte il figlio, continuando a camminare verso Nazareth, gli confidò il suo segreto.

Esattamente un anno prima della sua nascita Maria era al pozzo per attingere acqua per la casa. Aveva diciasset -

te anni. Era una bella ragazza. Come ogni ragazza sognava di incontrare un principe che la sposasse e la por-

tasse a vivere lontano. Ma avrebbe sposato anche un forestiero qualsiasi pur di migliorare la propria vita, alla

sola condizione che fosse stato un bel giovane, innamorato di lei e possibilmente benestante.

I suoi sogni furono interrotti bruscamente dall'arrivo di una dozzina di militari romani a cavallo. Ne rimase at-

territa. Indecisa sul da farsi, come paralizzata, rimase ritta presso il pozzo, con la brocca in mano.

Era in quella posizione quando si fermò accanto a lei una biga trainata da due possenti cavalli bianchi. La con-

duceva un soldato romano e trasportava un altro militare che doveva essere un graduato. Maria non conosceva i

gradi dei soldati, ma dall'aspetto autoritario, dalla tunica di porpora, dalle armi, dal modo di sedere, con le gam-

be penzoloni fuori della biga, quello non poteva essere un soldato semplice.

Maria provò quella stessa sensazione che avranno provato, ai giorni nostri, tante ragazze vietnamite, o di altre

nazioni militarmente occupate, spaventate dallo stridio dei pneumatici di una jeep americana che si fermava ac-

canto a loro. Jeep guidata da un soldato che trasportava sui sedili posteriori qualche giovane e armatissimo

Rambo, con l'aria da padrone del mondo.

Il graduato romano, un centurione, era giovane e bello. Armato di tutto punto, sembrava un dio guerriero, forte

e invincibile, ma dagli occhi dolcissimi.

Maria lo guardò e rimase turbata.

Con gesto istintivo gli offrì la brocca piena d'acqua fresca. Il centurione, commosso dal gesto spontaneo, scese

e ne bevve a sazietà. Voleva ripartire subito, essendo proibito ai soldati di fraternizzare con gli Ebrei, perché

anche dietro il gesto più semplice di una giovinetta si poteva celare un’insidia, un tranello. Troppe volte era ca-

pitato che un soldato fosse attratto da una bella ragazza in un luogo appartato e poi sgozzato dagli Zeloti. Erano

pur sempre dei soldati stranieri che occupavano paesi lontani con la forza delle armi.

La propaganda romana cercava di far passare quella occupazione come la difesa di interessi vitali per Roma,

fatta con sacrificio di soldati romani in difesa della libertà dei popoli e dei commerci, ma non ci credeva nessu-

no. Tutta la popolazione era ostile ai Romani. Vi erano anche molte bande che li combattevano con le armi in

pugno e con attentati terroristici.

Ma quella giovane ebrea, sola, in piedi accanto al pozzo, con un sorriso disarmante non poteva avere collega-

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menti con i terroristi.

Pantera, così si chiamava il centurione romano, restituì la brocca e ringraziò la giovane con espressioni di cor-

tesia. Maria ricambiò con un sorriso appena accennato, e ognuno riprese la propria strada.

Due giorni dopo l'incontro si ripeté, sempre alla stessa ora, sempre vicino al pozzo. Questa volta Pantera ringra-

ziò per l'acqua lasciando alla giovane dei dolci, giuntigli da Roma, e i due si scambiarono qualche parola.

Maria assaggiò i dolci, sconosciuti in Galilea.

Il giorno dopo si incontrarono di nuovo, ma non fu più per caso, e si scambiarono qualche gesto di affetto.

Pantera scrisse ai propri genitori, a Roma, parlando loro di quella ragazza, della sua bellezza, delle sue virtù or-

mai sconosciute a Roma e della sua intenzione di sposarla.

Maria ne parlò a casa e si prese uno schiaffo. Il padre l'aveva promessa in sposa a Giuseppe.

Anche Giuseppe era un bel ragazzo, molto buono, ma senza arte né parte. Un palestinese disoccupato. In tutto

gli aveva parlato solo due volte, in piazza, anche se lo conosceva fin da bambina. A Nazareth si conoscevano

tutti. Ma Maria era affascinata dall'idea di andare a vivere in Italia, nazione ricca e padrona del mondo. Avrebbe

viaggiato, visitato tante città, condotto una vita da signora e, soprattutto, lasciato la Palestina. Non le piaceva

vivere in Palestina, perché gli Ebrei, il suo popolo, erano sempre in guerra con gli altri popoli palestinesi per

via della terra, non sufficiente per tutti. E agli Ebrei, a causa della loro religione e della gelosia del loro Dio,

non era permesso affratellarsi con gli altri popoli.

Era da poco iniziata la primavera quando, una sera, Pantera portò Maria a fare un giro sulla biga. Erano soli,

innamorati, fermamente decisi a sposarsi. Si amarono.

Il centurione chiese ai suoi superiori il permesso per sposare la giovane ebrea.

Non solo gli fu negato, ma fu trasferito a Gerusalemme, per un mese dovette rimanere agli arresti e gli proibiro-

no di rivedere la giovane ebrea.

Maria, giovanissima ragazza madre, cadde nella più profonda disperazione. Temeva di essere stata ingannata, di

non rivedere più Pantera, temeva lo scandalo, le leggi del suo popolo e, soprattutto, temeva il giudizio dei rab-

bini.

Dopo un mese Pantera mandò a Nazareth un centurione suo amico, con la solita biga da guerra condotta da un

soldato, anche lui armato come un Rambo. Con loro v'era Zecri, un sacerdote del tempio di Gerusalemme.

Il centurione e il sacerdote andarono direttamente alla sinagoga. Parlarono a lungo con i rabbini, con Anna il

loro capo e con gli anziani di Nazareth. Furono chiamati anche Giuseppe e i genitori della ragazza.

Giuseppe, suo promesso sposo, che era uomo giusto e non voleva esporla all’infamia, pensò di rimandarla se-

gretamente. Pensava cioè di consegnare a Maria l’atto di divorzio, segretamente, visto che ancora non erano an-

dati a vivere assieme.

Ma Anna e Zecri dimostrarono che era impossibile tenere nascosta una cosa simile e come fosse nell'interesse

di tutti, e in fondo anche giusto, che non ne nascesse uno scandalo per le inevitabili gravi conseguenze che ne

sarebbero derivate a Maria, ai suoi genitori, allo stesso Giuseppe e, forse, a tutta Nazareth.

Il centurione promise, a nome di Pantera, di aiutare Giuseppe ad aprire una bottega, così non sarebbe stato più

disoccupato e avrebbe potuto, volendo, anche andare a vivere subito con Maria. Promise che avrebbe provvedu-

to, per il futuro, alle necessità del nascituro. Con enfasi, come ispirato, il sacerdote venuto da Gerusalemme

profetizzò che il nascituro sarebbe stato di grande aiuto per costruire una pace duratura tra Ebrei e Romani.

Le promesse e le pressioni sortirono l'effetto desiderato e gli anziani, ma soprattutto Giuseppe, si convinsero

che la proposta poteva essere accettata.

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Maria disse a Gesù:

"Giuseppe fu molto buono e comprensivo, com'è nel suo carattere, e noi lo dobbiamo ringraziare. Quando ci

sposammo ero già incinta di due mesi e quando nascesti dicemmo a tutti che eri nato di sette mesi".

Pantera mantenne le sue promesse. Giuseppe aprì la sua bottega da falegname e Maria riceveva ogni tanto dei

soldi da Gerusalemme, per le necessità del figlio.

Per questo Gesù poteva frequentare la sinagoga e studiare, a differenza dei fratelli. Ma ciò non faceva che acui-

re l'astio e le incomprensioni tra loro.

Gesù ascoltò in silenzio il racconto della madre. Non traspariva dal suo volto alcuna emozione, ma era evidente

la sofferenza che turbava il suo animo.

Guardò la madre con durezza, con un’espressione di forte rimprovero e di orgoglio e, improvvisamente, la la-

sciò.

Maria lo seguì con lo sguardo e vide che si dirigeva verso il gruppo degli uomini dov'era Giuseppe con gli altri

figli. Continuò a camminare, sicura che Gesù non avrebbe fatto alcuna scenata ma avrebbe meditato a lungo su

quanto gli aveva detto.

Giunta la sera le donne si riunirono agli uomini per cenare e Maria si accorse che Gesù non c'era. Neanche Giu -

seppe sapeva dove fosse. Nessuno lo aveva più visto da parecchie ore.

Maria e Giuseppe affidarono gli altri figli a Elisabetta e tornarono indietro a cercarlo.

Nello stesso momento Gesù entrava nella città di Gerusalemme dalla porta ubicata nei pressi della Torre Anto-

nia.

Andò dritto verso il presidio dei Romani e, incontrato un soldato siriano, gli domandò del centurione Pantera. Il

mercenario lo indirizzò verso l'alloggio dell'ufficiale.

Pantera comprese immediatamente chi fosse quel ragazzo e il motivo della sua presenza. Lo abbracciò e si ap-

partarono.

Gesù rimase due giorni nella casa del padre.

Pantera lo trattò come si tratta un figlio che si ama e che non si vede da tanto tempo. Gli spiegò i motivi per i

quali non aveva potuto sposare sua madre, anche se l'amava più di ogni altra cosa. Gli spiegò i motivi per cui

non potevano frequentarsi. Lo rassicurò che avrebbe, in ogni caso, potuto contare su di lui. Avrebbe fatto tutto

quello che era in suo potere per aiutare il ragazzo. Lo portò a visitare Gerusalemme e gli mostrò le armi da

guerra di cui disponeva l'esercito romano. Era uno spettacolo terrificante. Il padre gli disse che in tre giorni i

Romani potevano distruggere tutta Gerusalemme, compreso il tempio.

Il ragazzo rimase impressionato dai soldati romani, dalle loro armi e sentì, per la prima volta, frasi irrispettose e

terribili bestemmie rivolte a tutti gli dèi.

L’esercito è sempre un luogo ideale per imparare bestemmie.

Al terzo giorno Pantera portò Gesù al tempio per consultarsi con Zecri, il sacerdote, e altri amici. Era necessa -

rio riportarlo a Nazareth senza creare scandalo.

Mentre erano intenti a discutere, arrivarono al tempio Giuseppe e Maria, da tre giorni in cerca del figlio.

E Maria gli disse:

"Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, andavamo in cerca di te".

Egli rispose loro:

"Perché mi cercavate? Non sapevate che io mi devo occupare di quanto riguarda mio padre?".

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I sacerdoti gli consigliarono di non sollevare scandalo e di tornare a casa con i genitori, desistendo dal frequen-

tare Pantera. Così egli fece e, tornato a Nazareth con Giuseppe e Maria, "stava loro sottomesso".

Ma in cuor suo non cessò un sol momento di pensare al padre.

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2 - La circoncisione

Otto giorni dopo la nascita al bambino venne imposto il nome di Jehoshù'a, Gesù, e il cognome (dal nome del

padre) ben-Josef. E venne circonciso. Il nome, assai comune, è un'alterazione del nome Giosuè.

Il sacerdote, Oded, con mano ferma e sicura, gli tagliò il prepuzio, cioè la pelle che circonda la parte terminale

del pene. L'anellino sanguinante venne mostrato con orgoglio e compiacimento ai presenti e subito gettato sul

fuoco. Il profumo di quella povera carne bruciata doveva salire subito al cielo per rallegrare Dio.

Il taglio fu così veloce e sicuro che Gesù fece appena uno strillo e riprese a dormire in braccio a Giuseppe.

La circoncisione era praticata dagli Ebrei fin dai tempi antichissimi. Era nata come pratica igienica, poiché vi-

vevano nel deserto, con penuria d'acqua, ma serviva anche a rendere difficoltosa la masturbazione ai giovanetti.

Un giorno il Patriarca Abramo, capostipite degli Ebrei, decise di attribuire a tale pratica un valore religioso e di

identificazione nazionale del popolo ebraico. Così stabilì che ogni maschio doveva essere circonciso, all'età di

otto giorni. Con questo vincolo mirava a tenere più unite le tribù nomadi del suo popolo. Diventava un segno

distintivo di appartenenza ad una razza, un patto sigillato con il sangue per tenere unita la comunità, affinché

non si confondesse con gli altri abitanti della Palestina.

Naturalmente vi erano anche altri popoli che praticavano la circoncisione. L'abilità di Abramo, imitata in se-

guito da Mosè e da tanti altri capi religiosi, fu di presentare la sua idea come un patto stabilito direttamente

con Dio. Così quella pratica comune a tanti popoli divenne per gli Ebrei un segno esclusivo di un legame unico

e particolare tra loro e Dio. Tra loro e il Dio più grande e più potente di tutti gli dèi.

Così gli Ebrei erano diventati il popolo eletto, il popolo prediletto da Dio. E poiché la circoncisione, per evi-

denti ragioni anatomiche, può essere praticata solo sui maschi, solo i maschi erano autorizzati a mantenere il

rapporto con Dio. E le donne, pertanto, non potevano godere di molta considerazione.

Quel Dio potente, misericordioso, geloso e vendicativo avrebbe rivelato il suo amore o il suo odio, donando

molti figli o la sterilità, mandando figli sordi, ciechi, sciagurati o meravigliosi rampolli. Mandando la salute e

la prosperità o le più tremende malattie e la povertà. Se gli Ebrei avessero rispettato ogni comandamento ed of-

ferto abbondanti sacrifici, Dio li avrebbe protetti dai nemici, li avrebbe fatti ricchi più di ogni altro popolo al

mondo e avrebbe finalmente dato loro, per sempre, la terra promessa.

Una terra fertile e rigogliosa, quella terra che non avevano mai posseduto in forma duratura. E nella Bibbia fu

scritto che Iddio onnipotente disse ad Abramo: "Darò a te e ai tuoi discendenti dopo di te la terra dove abiti

ora come forestiero, tutta la terra di Canaan in possesso perpetuo, e sarò loro Dio".

Un piccolo inconveniente, una banale distrazione compromise la riuscita di quel patto e fu causa, nei secoli suc-

cessivi, di tanti lutti e tanto dolore. Quel patto non venne stipulato in pubblico, né venne mai registrato, anche

per la mancanza di notai e testimoni. Gli altri abitanti della Palestina, infatti, che quella terra possedevano e

coltivavano da secoli, non furono né informati dell’esistenza di quel patto, né tanto meno consultati, per vedere

se erano d’accordo. Per questo non compresero mai la necessità di dover cedere la loro terra spontaneamente,

pacificamente e gratuitamente ai legittimi pretendenti, secondo la legge di Dio.

Fu un errore che ancor oggi si paga col sangue dei martiri, copioso, dei due popoli fratelli.

Disse ancora Iddio ad Abramo: "Osserverai il mio patto, tu e i tuoi discendenti nel corso delle loro generazioni.

E il patto che io fo tra me e voi, cioè i tuoi discendenti dopo di te, e che voi dovrete osservare, è questo: ogni

maschio tra voi sia circonciso. Voi circonciderete la carne del vostro prepuzio, e questo sarà il segno del patto

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fra me e voi; e nel corso delle vostre generazioni voi circonciderete ogni maschio all'età di otto giorni, sia

quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualsiasi forestiero, e che non sia della tua

progenie ....... E il mio patto nella vostra carne sarà patto perpetuo. Il maschio incirconciso, che non avrà reci-

so la carne del suo prepuzio, sia reciso dal suo popolo: egli ha violato il mio patto".

Secondo la Legge di Mosè, la Thora, dopo quaranta giorni dalla nascita lo portarono a Gerusalemme per offrirlo

al Signore, poiché sta scritto che: "Ogni primogenito maschio sarà consacrato al Signore. Ogni maschio che

apre per primo l'utero di sua madre, sarà chiamato santo di Dio".

Entrati nel tempio, Giuseppe comprò due colombi piccoli, perché era povero, per offrirli al Signore.

Consegnarono i piccioni e Gesù ai sacerdoti.

Il sacerdote Jakob s'incaricò della purificazione. Ogni puerpera è immonda per una settimana se ha partorito un

maschio, il doppio se ha partorito una femmina. Anche dopo tale periodo non può toccare niente di sacro né en-

trare nel tempio per 33 giorni nel primo caso, per 66 nel secondo. La donna, per purificarsi totalmente, deve of-

frire in sacrificio un agnello, come olocausto, e un colombo e un tortora, come espiazione. La Bibbia precisa

che: "se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi".

In più, se si tratta di un primogenito maschio, bisogna sacrificare un agnello in sostituzione dell'antichissimo

rito di sacrificare direttamente il bambino. Al posto dell'agnello si poteva sacrificare del denaro.

Il sacerdote, seguendo le minuziose istruzioni della Bibbia, prese dalle loro mani il primo colombo, gli troncò

la testa e la bruciò sull'altare. Poi spruzzò il sangue in modo che colasse ai lati dell'altare. Tolse le interiora e le

gettò a est, divise il colombo in due prendendolo per le ali, ma senza separarlo del tutto, infine lo bruciò " sul-

l'altare, sulla legna che è sul fuoco, come olocausto, sacrificio consumato dal fuoco, profumo soave per il Si-

gnore".

Al secondo colombo, invece, venne spaccata la testa senza staccarla e il sangue venne sparso nello stesso modo,

ma il colombo rimase al sacerdote per uso personale.

Ora Giuseppe poté consegnare l'offerta in denaro, più conveniente dell'agnello, per la consacrazione di Gesù.

Tornati a casa, Giuseppe e Maria allevarono con cura il loro figliolo primogenito, come avveniva in ogni povera

casa di Palestinesi, insegnandogli il rispetto della Legge del Signore.

Quelle cose Gesù imparava in casa sua, tra il suo popolo, nella sinagoga.

E, crescendo, ignaro come tutti di qualunque nozione di fisica credeva che, pregando, si potesse mutare il corso

delle nubi, arrestare una malattia e la morte stessa. Il miracolo era per lui una cosa del tutto naturale, essendo la

manifestazione del divino che regolava ogni evento.

Non aveva dubbi che quelle cose fossero vere. Come ogni altro Ebreo credente sentiva la presenza di Dio in

mezzo al popolo, il suo intervento in ogni avvenimento e se le cose non andavano bene, come sarebbe stato giu-

sto aspettarsi da tanta protezione, la colpa era della fede che vacillava, delle azioni degli Ebrei non conformi

alla Legge.

Erano i peccati del popolo ad allontanare la grazia divina. Questo dicevano i rabbini nella sinagoga e i profeti

per le strade e nel deserto.

I profeti sorgevano in continuazione.

Erano il prodotto della contraddizione tra quello che ognuno desiderava essere e quello che in realtà era, un ten-

tativo per conciliare i sogni con la realtà. A volte illuminati, a volte poeti, a volte ciarlatani, i profeti erano tol-

lerati dai sacerdoti e dal potere finché non disturbavano troppo. Però, se oltrepassavano i limiti, venivano messi

a tacere e, se non si poteva fare altrimenti, venivano uccisi.

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3 - La vita a Nazareth

L'incontro con Pantera non era stato solo un’emozione fortissima per Gesù, ma gli era servito anche per vedere

e scoprire tante cose, inimmaginabili a Nazareth. Gli aveva rivelato che oltre la Galilea esisteva un mondo va-

stissimo, anche più civile di Nazareth e Gerusalemme, dove viveva gente con idee, sistemi di governo, religio-

ni del tutto diverse da quelle da lui conosciute. Il suo modo di pensare e di vedere i fatti del mondo ne fu scon-

volto.

Il ragazzo aveva solo dodici anni, ma era già molto maturo. Frequentare costantemente la sinagoga con l'inten-

zione di diventare un rabbi, un dottore della Legge, lo aveva spinto a distaccarsi dai giochi dei coetanei per

spingerlo verso meditazioni profonde sul significato della vita, sull’origine dell'uomo e sul suo destino.

Di questa sua differenza e superiorità Gesù si sentiva orgoglioso e, sebbene non lo facesse pesare, ciò era moti-

vo di invidia, gelosia e contrapposizione con gli altri ragazzi, soprattutto con i fratelli e con Giose in particola-

re.

E così, mentre cresceva dedicandosi allo studio delle cose di Dio, coltivando la naturale bontà d'animo e la pre-

disposizione a fare del bene, si isolava sempre più dai suoi fratelli e compagni d'infanzia.

La scoperta del suo vero padre accentuò questo processo di isolamento, di meditazione e di maturazione.

Era orgoglioso di essere figlio di Pantera, Centurione ricco e potente. Ma Pantera era anche un militare romano,

l'odiato nemico degli Ebrei.

Come poteva conciliare i sentimenti di rispetto e amore che sentiva uscire spontanei dal suo cuore con i senti-

menti di odio e di disprezzo che avrebbe dovuto provare per essere in sintonia con la sua gente e con la Legge

che studiava nella sinagoga?

Anche verso Giuseppe nutriva sentimenti contrastanti. Era stato sempre trattato bene da lui e ora, che conosce-

va la verità sul suo vero padre, gli voleva anche più bene. Quanti uomini, nelle stesse condizioni, avrebbero fat-

to quello che aveva fatto Giuseppe: prendersi cura di un figlio non suo, trattarlo come un vero figlio, accudirlo,

allevarlo con le stesse attenzioni di quante ne poteva riservare ai figli veri?

Nonostante questi sentimenti, l'aver appreso la verità inevitabilmente produsse un’incomprensione sempre più

profonda tra lui e Giuseppe.

La stessa cosa avveniva con i fratelli. Gesù voleva loro bene, eppure non c'era verso di andarci d'accordo, ora

più che mai.

Loro lo vedevano come un estraneo e, per giunta, privilegiato. Anziché lavorare tutto il giorno in bottega, egli

se ne stava sempre più spesso a chiacchierare inutilmente con i rabbini in sinagoga, e si permetteva anche di ci-

tare la Bibbia, per dimostrare che quello che faceva era benedetto e preferito da Dio.

Si riproducevano gli stessi sentimenti che dovevano aver provato Caino e Abele, anche se in forma meno accen-

tuata.

Gesù amava Maria, sua madre. Con lei c'era stato sempre un rapporto meraviglioso fatto di confidenza, di com-

prensione e stima. Di tante attenzioni, di gesti d'affetto, d'intesa inespressa e pure percepita forte e sicura. Di

fiducia totale.

Eppure ora una frattura si stava insinuando tra loro. Il ragazzo si domandava se era giusto quello che aveva fat-

to sua madre.

Lui non voleva giudicarla, figuriamoci! Lui era convinto che non si potesse giudicare nessuno; come poteva

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pensare di giudicare sua madre! Tuttavia era sorto un disagio tra loro, che si accentuava. La madre si comporta-

va come se Pantera non esistesse, come se non fosse mai esistito. Gesù, invece, lo pensava sempre; era il padre

suo, del quale si voleva occupare.

Più Maria insisteva, sebbene con dolcezza e comprensione, nel convincere il ragazzo che il mondo di Pantera

era un altro mondo, senza possibilità di contatto con il loro, più l'incomprensione tra loro aumentava. Più Maria

cercava di fargli dimenticare il padre, più lui vi pensava. Questa sottile ma perenne contesa aveva creato una

certa frattura tra i due, tanto che Gesù, quando si rivolgeva a Maria, aveva consolidato l’abitudine di chiamarla

"madre" e non "mamma", come a voler rendere evidente il distacco.

Era costantemente occupato a conciliare sentimenti contrapposti e inconciliabili. Stava maturando e diventando

grande sia fisicamente che, soprattutto, nello spirito.

Egli maturava conservando interamente la religiosità del popolo ebraico, anche se conosceva e studiava altre

religioni, altri filosofi con opinioni diverse da quelle degli Ebrei. Egli, come tutto il suo popolo, era fermamen-

te convinto della presenza immanente di Dio, del rapporto privilegiato ed esclusivo di Dio con gli Ebrei.

Come tutti gli Ebrei pensava che potessero esistere altre divinità ma, in ogni caso, il suo Dio era il più forte e

potente di tutti gli dèi e non doveva credere o avere fiducia in altre divinità che non fossero l'unico e vero Dio:

Javhè. Il suo Dio era anche un Dio geloso, molto geloso e vendicativo: guai ad offenderlo!

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4 - Sacrificio della gelosia

Poco lontano da Nazareth, oltre le colline che chiudevano la valle, iniziava il deserto. Nella vita degli Ebrei il

deserto ha esercitato sempre, fin dall’antichità, un richiamo irresistibile.

Il deserto era considerato poco meno che terra sacra, come alcune montagne legate ai ricordi ancestrali di Israe-

le. Nel deserto si recavano gli uomini timorati di Dio per meditare in silenzio, per essere più vicini alla natura e

a contatto con la divinità.

Nel deserto si recava, di tanto in tanto, anche Gesù per stare solo con i suoi pensieri e trovare una risposta ai

suoi dubbi. All'inizio erano solo delle passeggiate, ma col passare del tempo la permanenza si faceva sempre

più lunga. Solo nel silenzio del deserto poteva sentire la piccola voce che gli parlava in continuazione da den-

tro.

Aveva circa venticinque anni quando si recò nel deserto, sconvolto da un grave fatto.

Giorni prima Tobia aveva condotto la sua giovane moglie Rebecca dal sacerdote, nel tempio, a Gerusalemme.

Egli sospettava che sua moglie l'avesse tradito. Non v'erano prove del tradimento, né testimoni, né tanto meno

la poveretta era stata sorpresa in atteggiamenti sconvenienti con chicchessia. Ma Tobia era stato preso dal so-

spetto ed era diventato geloso.

Profondamente devoto e rispettoso della Legge che Dio aveva dato a Mosè, tormentato dal dubbio, aveva deciso

di invocare su di lei il giudizio divino.

La Bibbia prevede, in questi casi, un apposito rituale denominato: "Sacrificio della gelosia".

Tobia, dunque, desideroso di liberarsi dal dubbio che non lo faceva più vivere, salì al tempio di Gerusalemme

con Rebecca e si presentò al sacerdote con i cinque chili di farina d'orzo, quale offerta in sacrificio. Gesù e

Edit, sua moglie, accompagnavano la sventurata.

Il sacerdote fece avvicinare Rebecca e la fece stare in piedi davanti al Signore. Prese dell'acqua santa in un vaso

di terra, prese della polvere dal pavimento del Tabernacolo e la mise nell'acqua. Fece scoprire il capo a Rebecca

e le pose sulle palme l'offerta dell'attestazione, mentre egli teneva in mano l'acqua amara di maledizione.

Il sacerdote fece fare a Rebecca il giuramento e le disse: "Se nessun uomo si è giaciuto con te e se tu non ti sei

sviata da tuo marito, contaminandoti, quest'acqua amara di maledizione non ti faccia alcun danno! Ma se tu ti

sei sviata da tuo marito e ti sei contaminata, ed altri, che non sia tuo marito, si è giaciuto con te, il Signore ti

renda oggetto di maledizione e d'esecrazione in mezzo al tuo popolo, ti faccia avvizzire il sesso e gonfiare il

ventre!".

Rebecca gridò: "Amen! Amen!". Il sacerdote scrisse queste imprecazioni e poi, immergendole, le diluì nell'ac-

qua amara di maledizione. Fece quindi bere quell'acqua alla donna.

Tobia aspettò con preoccupazione il giudizio di Dio. Gli era venuto il dubbio che avesse fatto male a chiederlo

e che, forse, era stato troppo impulsivo.

Rebecca era terrorizzata, bianca in volto, prossima a perdere i sensi.

Non temeva il giudizio di Dio, ma quello degli uomini.

La gente aspettava curiosa e impaziente.

Il sacerdote era eccitato e nervoso.

Gesù era sereno e fiducioso in Dio.

Non passò molto che Rebecca cominciò a sentire dei piccoli dolori al ventre. Pensò che era solo frutto dell'emo-

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zione e cercò di stare calma. Più il tempo passava e più sentiva dolore. Era convinta che ormai tutti se ne fosse-

ro accorti e non poteva più trattenersi dal portare le mani al ventre, per comprimerlo. Tutto era ormai inutile. I

dolori erano insopportabili.

Uscì dal tempio e corse per la strada. Sopraffatta dal dolore e dalla vergogna si accasciò a terra e vomitò a lun-

go. Quando si riprese il ventre era tornato normale, non aveva più i dolori e il sesso non si era avvizzito.

Ma lei avrebbe portato per sempre la pena della sua iniquità.

Gesù rimase sconvolto.

Non dormì tutta la notte e al mattino, di buonora, si incamminò verso il deserto. Aveva bisogno di riflettere.

Egli sapeva che Rebecca era innocente.

Gesù era ormai considerato un rabbino colto e autorevole. Parlava con sicurezza della Legge, dei profeti e di

Dio. Non temeva di affrontare discussioni nella sinagoga e in pubblico. Era tenuto in molta considerazione per

la sua saggezza, cultura e bontà d'animo. Molti si rivolgevano a lui per essere consigliati.

A lui si era rivolta, molte volte, anche Rebecca, sorella di Edit. Ambedue le sorelle erano sterili. Ogni volta che

Gesù la incontrava lei era in compagnia di sua sorella. Aveva molti problemi con Tobia, suo marito, e sia Edit

che Gesù cercavano di aiutarla.

Giose, sempre astioso con Gesù, non perdeva occasione per metterlo in cattiva luce. Così fece in modo di far

sapere a Tobia che sua moglie si incontrava in segreto con Gesù. La gelosia e la pochezza di Tobia fecero il re-

sto.

Gesù prima di lasciare il tempio aveva chiesto spiegazioni al sacerdote che aveva praticato il sacrificio della ge-

losia.

Ottenne una risposta ambigua. "A volte" disse il sacerdote, " Dio deve manifestarsi con durezza per mantenere

la fede".

Ma Gesù gli replicò: "Ella è innocente, io lo so".

Il sacerdote, come colto da improvviso furore, si scagliò contro Gesù e gli gridò: "Non bestemmiare il Dio San-

to. Non dubitare del giudizio divino. Prega e pentiti delle parole che hai pronunciato!".

Ora Gesù, solo nel deserto, meditava su quanto era accaduto.

Dio non poteva essersi sbagliato. Dunque non era stato Dio a far venire il mal di pancia alla povera Rebecca,

ma era stato il sacerdote. Sicuramente in previsione del sacrificio della gelosia egli aveva mescolato alla polve-

re del pavimento del Tabernacolo della polvere di ginestra o d'altro, capace di provocare un immediato e forte

mal di pancia.

Perché l'aveva fatto? Per colpire Rebecca? Non ve n'era motivo. E allora perché?

Erano tanti anni che un sacrificio della gelosia non dava esito positivo. Forse, pensandoci bene, una volta era

successo. Ne aveva sentito parlare quando era ancora un fanciullo. Ma se ne ricordava vagamente.

Erano passati tanti anni. Perché proprio ora, con Rebecca innocente, il giudizio divino era tornato a manifestar-

si? Forse il motivo era proprio quello, che erano passati tanti anni senza un giudizio positivo e si sentiva la ne-

cessità di averne uno, affinché la gente continuasse ad aver fede nel giudizio divino.

Ciò era capitato con Rebecca, strumento inconsapevole e innocente della necessità di mantenere salda la fede;

una donna sconosciuta, arrivata al tempio dalle lontane campagne della Galilea.

Gesù era afflitto e turbato.

Se lui fosse stato al posto di Dio non avrebbe permesso a nessun sacerdote una simile mistificazione, ma lui

non era Dio.

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Tuttavia disapprovò, disgustato, il comportamento del sacerdote che, per mantenere salda la fede in Dio, si so-

stituiva a Lui nel dare responsi, incurante delle sofferenze che spargeva sulle persone innocenti, giuste, pie e ti-

morate di Dio. E si domandava, perplesso, perché Dio non era intervenuto subito.

Erano passati un intero giorno e un'intera notte da che Gesù era arrivato nel deserto. Non aveva toccato né cibo

né acqua, ma ora si sentiva più sicuro e più forte di quando era arrivato, poiché aveva preso una decisione : Re -

becca sarebbe andata a vivere nella sua casa, assieme alla sorella.

La decisione era di una gravità senza precedenti. Agli occhi della gente, e soprattutto agli occhi dei sacerdoti e

dei rabbini, Gesù non avrebbe rispettato il comandamento: "Che Rebecca sia oggetto di maledizione in mezzo

al suo popolo", ma Gesù era buono e giusto e non temeva le conseguenze del suo retto operare.

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5 - I sacrifici

La vita di Gesù a Nazareth si faceva sempre più difficile. I rapporti con i suoi familiari erano sempre più tesi e

il suo modo di comportarsi era oggetto di severe critiche da parte dei concittadini. La decisione di accogliere in

casa Rebecca gli aveva alienato anche l'appoggio dei pochi amici che aveva. Era sempre più solo.

Trascurava il lavoro e si aggirava per il paese e le campagne in cerca di poveri e ammalati ai quali offriva vo-

lentieri aiuto e ristoro, quando poteva.

Si rattristava enormemente quando incontrava dei poveri che elemosinavano e si accorgeva che pochi avevano

compassione delle loro sofferenze, e quei pochi erano quasi sempre le persone più umili e povere del paese.

Un sabato, nel recarsi in sinagoga, seppe che Samuele, povero e ammalato, che viveva dell'elemosina della gen-

te del paese e dei dintorni, era morto di stenti la notte avanti.

Come ogni sabato la sinagoga era gremita di gente.

Un rabbino srotolò le sacre scritture e lesse le disposizioni date da Dio per i sacrifici.

Per il sacrificio quotidiano il Signore parlò a Mosè dicendo: "Parla ai figli d'Israele e di’ loro: Abbiate cura di

offrirmi nel tempo stabilito l'offerta a me dovuta, il mio nutrimento, mediante sacrifici di soave profumo, con-

sumati col fuoco. E dirai loro: Questo è il sacrificio da ardere che offrirete al Signore, ogni giorno, in olocau-

sto perpetuo: due agnelli nati nell'anno, senza difetti. Uno di essi l'offrirai la mattina, e l'altro alla sera sul-

l'imbrunire; e insieme a ciascuno offrirai pure la decima parte di un’efa di fior di farina, intrisa con la quarta

parte di un hin di olio vergine. E' questo l'olocausto perpetuo, già offerto sul monte Sinai, sacrificio consumato

con il fuoco in odore soave al Signore. La libagione di questo sacrificio sarà un quarto di hin per ciascun

agnello; e spargerai nel luogo sacro la libagione di vino puro in onore del Signore. L'altro agnello lo offrirai

alla sera sull'imbrunire con l'oblazione e la libagione, come hai fatto la mattina: è un sacrificio consumato con

il fuoco in odore soave al Signore".

Il rabbino spiegò ai fedeli che Dio era come una persona umana, poiché noi siamo stati fatti a sua immagine e

somiglianza, e aveva necessità di nutrirsi del sacrificio offerto dal suo popolo due volte al giorno. Questi erano

i patti e per ottenere la Sua protezione e predilezione dovevano essere mantenuti, altrimenti si incorreva nella

Sua tremenda collera.

Nel giorno di sabato, oltre all'olocausto di ogni giorno, si dovevano offrire altri due agnelli, nati nell'anno e

senza difetti, e "due decimi" di fior di farina intrisa con olio, come oblazione insieme alla libagione.

Al primo di ogni mese si dovevano offrire in olocausto al Signore due giovenchi, un montone e sette agnelli

nati nell'anno, senza difetti e, in aggiunta, il proporzionale corredo di farina e vino. In più, oltre l'olocausto per-

petuo e la sua libagione, si doveva pure sacrificare al Signore un capro, come sacrificio d'espiazione per il pec -

cato.

Gesù uscì dalla sinagoga e si avviò di nuovo verso il deserto. Era triste, turbato e non aveva voglia di sentire il

lungo elenco degli altri sacrifici previsti per tutte le feste dell'anno.

A Pasqua: due giovenchi, un montone e sette agnelli, nati nell'anno, senza difetti, più la solita farina e vino.

A Pentecoste: come a Pasqua.

Per le feste d'autunno, più di dieci, un turbinio di sacrifici: dodici giovenchi, due montoni, quattordici agnelli,

nati nell'anno, senza difetti, con le rispettive oblazioni e libagioni, più il solito capro per il peccato, per ogni

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giorno di festa.

Altri sacrifici erano previsti per purificarsi dalle varie contaminazioni.

Con raccapriccio pensò che Salomone, per dedicare il Tempio al Signore, immolò "come sacrificio pacifico

ventiduemila buoi e centoventiduemila pecore".

"Troppi", pensò Gesù, "Sono troppi. Non è possibile. Queste sono invenzioni dei sacerdoti. Hanno inventato

tutto per mantenere il loro potere e arricchire. Dio non vuole i sacrifici, vuole l'amore delle persone. Loro, i cu-

stodi dei libri sacri, vi hanno aggiunto quello che faceva loro comodo. E per dare un sicuro fondamento al loro

potere hanno fatto credere che sia stato Dio in persona a dare quelle disposizioni e quelle sulle dimensioni del

tempio".

Con un leggero sorriso sulle labbra Gesù pensò ai sacrifici che avrebbe dovuto offrire nel caso avesse avuto un

figlio. Il Signore parlò a Mosè e gli disse: "Ordina ai figli d’Israele: Quando una donna sarà rimasta incinta e

avrà dato alla luce un maschio, sarà impura per sette giorni, tanti quanti per il tempo della sua impurità me-

struale. L’ottavo giorno si circoncida la carne del bambino, e la mamma resterà ancora altri trentatré giorni

ritirata a purificarsi del suo sangue: non tocchi alcun oggetto sacro, né vada al Santuario, finché non siano

compiuti i giorni della sua purificazione.

Se invece dà alla luce una bambina, sarà impura per due settimane, come nei sette giorni delle sue mestruazio-

ni, e resterà per altri sessantasei giorni ritirata a purificarsi del suo sangue. Compiuti i giorni della sua purifi -

cazione, sia per un figlio che per una figlia, porti al sacerdote, all’ingresso del tabernacolo di convegno, un

agnello di un anno per l’olocausto, e un colombo o una tortora, per il sacrificio di espiazione del peccato. Egli

li offrirà davanti al Signore e farà l’espiazione per lei, ed essa sarà purificata del suo flusso di sangue. Questa

è la legge per la donna che dà alla luce un bambino, o una bambina. Se ella non ha mezzi per procurarsi un

agnello da offrire, prenda due tortore o due colombi: uno per l’olocausto, l’altro per il sacrificio di espiazione

del peccato".

La giornata era bella, il sole era limpido, non faceva troppo caldo.

Dopo due ore di cammino Gesù si fermò all'ombra di una roccia che delimitava, verso ponente, il deserto.

S'inginocchiò e levò lo sguardo al cielo. Rimase a lungo a fissare il cielo limpido e poi si curvò a terra con la

fronte sulla sabbia.

Era fermamente deciso a non muoversi da quella posizione se prima non avesse sentito la voce di Dio.

"Tu mi devi parlare", disse ad alta voce. "Io devo sapere cosa pensi e cosa vuoi. Io non capisco. Tu non puoi

pretendere un olocausto soave ogni giorno, mattina e sera, e lasciare che i tuoi servi migliori muoiano di fame e

stenti. Tu devi dirmi perché hai lasciato che Samuele morisse di fame. Egli era buono, rispettava la legge e non

aveva peccati. Perché non l'hai sfamato? Non me ne vado da qui se non mi darai risposta".

Verso sera sentì un rumore tra i massi. Subito corse a vedere e cercò, ma invano. Era solo una lepre. Dio non si

manifestò.

Passò la notte insonne a scrutare la luna e le stelle che, indifferenti ai pensieri e al dolore dell'uomo, percorre-

vano le loro strade. E non ebbe risposta.

Si domandò perché Dio aveva permesso che la sua creazione fosse rovinata dall'intervento ingannatore del Ma-

ligno. Avrebbe potuto facilmente evitarlo.

Ma non ebbe risposta.

Non ebbe risposta neanche il giorno appresso, né la notte seguente.

E Gesù continuava a domandarsi perché il suo Dio, il Dio d'Israele, si nutriva di sacrifici e placava la sua ira

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con l’offerta di sangue e di grasso.

Ma non ebbe risposta.

Si domandava se fosse stato meglio utilizzare l'agnello dell'olocausto giornaliero per sfamare Samuele invece di

bruciarlo con odore soave per il Signore.

Ma non ebbe risposta.

Si domandò anche per quale motivo la lepre che aveva vista la sera avanti dovesse essere considerata un anima-

le immondo.

Ma non ebbe risposta.

Gli vennero in mente le parole delle scritture: "Il Signore rivolse la sua parola a Mosè ed Aronne, dicendo:

Parlate ai figli di Israele e dite loro: Questi sono gli animali che potete mangiare fra tutti quelli che sono sulla

terra. Ogni animale che ha il piede forcuto, l’unghia spaccata e rumina, potete mangiarlo. Ma fra quelli che,

pur avendo il piede forcuto, o ruminano, non mangerete i seguenti: il cammello, che se pur rumina, non ha

però l’unghia spaccata, sia per voi immondo. La lepre, che, pur dando l’impressione di ruminare, non ha però

l’unghia fessa, sia per voi immonda. Così il porco, che pur avendo l’unghia fessa, tuttavia non rumina, sia per

voi immondo. Non vi cibate delle loro carni e non toccate i loro corpi morti: siano per voi immondi........"

Seguiva l’elenco degli animali mondi e immondi relativo ai pesci, agli uccelli, agli insetti e ad altre specie di

ignare creature.

Gesù comprendeva che una certa distinzione tra animali puri e impuri era necessaria per l’igiene del popolo, ma

non riusciva proprio a capire l’esclusione di certi animali, come la lepre, dagli animali puri.

Allora pensò di essere un peccatore, al quale Dio non si sarebbe manifestato mai. Esaminò a fondo la propria

vita, si pentì dei peccati e promise fermamente, in cuor suo, di dedicarsi solo alla predicazione della parola di

Dio, affinché la Sua volontà potesse compiersi su tutta la terra d’Israele.

Ma per fare questo era necessario un segno divino. Come poteva intraprendere una vita di apostolato profetico

senza un segnale da parte di Dio?

Si inginocchiò di nuovo, piegò la schiena fino a toccare la terra con la fronte e in quella posizione fece nuova-

mente voto di rimanere fino a che Dio non gli si fosse manifestato.

Innumerevoli volte il Dio di Abramo si era manifestato al suo popolo. Lui sarebbe rimasto in quella posizione

finché non fosse stato degno di meritare la parola viva del Dio d’Abramo.

A Dio tutto è possibile, perciò era possibile che gli si manifestasse anche lì, in mezzo al deserto.

D'altronde, se fosse stato necessario un roveto non sarebbe stato difficile, per Dio, farlo comparire anche in

mezzo al deserto.

Il tempo passava e nulla accadeva. Gesù cominciò a dubitare.

Perché il suo Dio era così misterioso? Perché si celava ai più per manifestarsi solo a pochi? Come sceglieva i

suoi messaggeri? Come si può essere sicuri che coloro che dicono di aver parlato con lui non mentano? Perché

un roveto ardente non rimane sempre ardente in mezzo al suo popolo per cui tutti possano vederlo e credere in

Dio? Perché non far sorgere un roveto ardente vicino ad ogni sinagoga? Perché non far sentire direttamente la

parola di Dio a tutto il popolo senza l’aiuto di intermediari? Come riconoscere gli intermediari dagli impostori?

Gesù fu colto dalla stanchezza e dal digiuno e, senza avvedersene, si lasciò andare e si adagiò sulla sabbia. Si

addormentò pensando che Dio non dimostrava molto amore nel rimanere nascosto e nel disinteressarsi di lui.

Forse perché, non conoscendo la sofferenza, non è sensibile al dolore altrui, pensò.

Le prime luci dell'alba lo trovarono ancora assopito. Il fruscìo di un animale selvatico lo destò. Si sedette su di

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una pietra, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese il capo tra le mani. Era stremato, confuso, avvilito.

Il sole saliva, alto, all'orizzonte. La terra si riscaldava e i segni della vita apparivano d'intorno. Osservando la

natura che lo circondava Gesù pensò che ogni cosa esistente vive. Vive l'uomo, il gatto, la lepre, il leone, la

pianta, il fiore, il filo d'erba, il sasso. Sì, anche le pietre vivono. Quella pietra sulla quale era seduto, ieri era di-

versa da oggi, e domani sarà ancora diversa. Fino a che, con il passare dei secoli, si ridurrà ad un granello di

polvere che il vento disperderà.

D'improvviso si accorse che intorno a lui v'erano tante formiche. Seguendo la fila scoprì anche dove era il loro

nido. Le osservò mentre si annusavano, per riconoscersi, prima di infilarsi nella loro città sotterranea.

"Rispondimi, Signore", disse Gesù, "perché tu che non lasci perire neanche l'ultima di queste formiche hai la-

sciato morire Samuele?".

Non ebbe risposta, ma sentì forte il desiderio di osservare più a fondo le formiche. Si concentrò talmente sulle

formiche che una stanchezza, dolce, pervase ogni parte del suo corpo. Non passò molto tempo che, nuovamente

assopito, sognò di essere diventato una formica, in fila con le altre, in attesa di entrare nel nido, sotto terra. Con

grande fatica trasportava, ben ritto sulla testa, un piccolo frammento di foglia. Le formiche di sentinella la scru-

tarono, diffidenti. Una le si avvicinò per annusarla. Riconosciuta che l'ebbe, si scostò e la lasciò entrare.

Percorse tutta la galleria di destra e arrivò al magazzino delle foglie dove depositò il suo carico. Tornò subito

indietro per recarsi con le altre formiche a consumare la frugale cena.

Appena terminata, il suono dei tamburi annunciò la visita della Regina madre. Tutte le formiche, in silenzio, si

radunarono nel salone centrale dove ogni sera si svolgeva l'incontro. Come al solito la regina parlò dei problemi

della colonia, della produzione, della necessità di aumentare le scorte e così via. Al termine il Gran Sacerdote

tenne un sermone sulla natura di Dio. Con parole accorate spronò tutte le formiche alla fede e al sacrificio. Il

nostro Dio, disse, è il più forte e potente tra tutti gli dèi, più forte persino del Dio dei formichieri.

Noi siamo state create a sua immagine e somiglianza e se seguiremo attentamente i suoi insegnamenti godremo

della vita eterna. Diventeremo come Lui, la Grande Formica, e parteciperemo della Sua vita, eternamente. Se,

invece, vivremo senza seguire gli insegnamenti e i comandamenti ci aspetterà il giudizio divino e la condanna

senza fine.

Questo è il patto che Dio ha fatto con la Regina, alla quale si è più volte manifestato, e che tutti i componenti

della colonia devono rispettare.

Seguì la preghiera affinché il termitaio vicino potesse essere distrutto con l’aiuto divino e vennero benedetti

tutti i soldati schierati in battaglia, pronti ad attaccare il nemico, l’indomani.

Gesù si svegliò, agitato, con la fronte piena di sudore. Le formiche continuavano, incuranti, a camminargli ac-

canto.

Egli sollevò lo sguardo al cielo, turbato, e si avviò verso casa, barcollante, più confuso di quando era arrivato.

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6 - La Terra promessa

Mosè fu il più grande pofeta degli Ebrei. Condusse il suo popolo fuori dall'Egitto, gli diede la Legge e lo guidò

verso la Terra Promessa. In realtà rappresentava un movimento religioso sorto in Egitto, inviso al potere e poi

emigrato alla ricerca di una propria terra. Questo movimento religioso si rifaceva al tentativo del faraone Ekh-

naton (Amenofi IV) di costruire un monoteismo basato sulla supremazia del dio Aton, il dio Sole.

La similitudine del dio di Mosè definitosi nella Bibbia "Io sono colui che è" da quello che risulta dalla scritta

sulla piramide di Sais "Io sono tutto ciò che è" è molto significativa.

In ogni caso Mosè riuscì a tenere unito il popolo, composto da numerose tribù, nei quarant’anni passati ai confi-

ni del deserto, in attesa della conquista della terra dove vivere stabilmente, divenuta Terra Promessa, mediante

la sua autorità, i suoi prodigi e la sua stupenda familiarità con Dio.

Mosè parlava faccia a faccia con Dio, almeno così faceva credere, e da Lui riceveva gli ordini che il popolo do-

veva eseguire, senza tentennamenti.

Qualcuno che tentennava e si opponeva c'era sempre, ma l'abilità di Mosè fu quella di riuscire a dominare tutti

gli oppositori mediante la propria autorità, la convinzione generale che fosse il Profeta di Dio, un'organizzazio-

ne ferrea e gerarchica della vita della comunità. Disponeva di un nucleo di soldati fedelissimi, armati di tutto

punto, pronti a qualsiasi missione.

Il suo popolo, quando uscì dall'Egitto, contava circa centocinquantamila persone. Molti Ebrei rimasero in Egitto

e non lo seguirono, specialmente quelli anziani e vecchi, sia per loro scelta che per calcolo di Mosè, previo ac-

cordo con il Faraone. Convennero, infatti, che solo un terzo degli Ebrei potesse lasciare l'Egitto, ma Mosè ot-

tenne di poter portare con sé in maggioranza maschi e femmine di età inferiore ai trent'anni. Le privazioni e le

tribolazioni cui sarebbero andati sicuramente incontro nella lunga migrazione e nel deserto non avrebbero con-

sentito la sopravvivenza se non a persone sane e giovani.

Il suo progetto era di rimanere fuori della Palestina, la Terra Promessa e voluta, per il tempo necessario a prepa-

rare con successo l'invasione e la conquista. Durante la sua permanenza in Egitto per ben due volte aveva effet -

tuato minuziosi sopralluoghi lungo tutto il percorso che avrebbe dovuto seguire con il suo popolo. Aveva attra-

versato il Mar Rosso, conosceva tutti i guadi del Giordano e conosceva anche le città e i popoli della Palestina

che avrebbe voluto conquistare e distruggere. La sua mira non era il dominio su alcuni popoli palestinesi, ma la

conquista delle terre, cacciandone gli originari abitanti, ad eccezione di quelli che sarebbero serviti per i lavori,

come schiavi.

Ci vollero quarant’anni dedicati interamente a preparare la conquista nei minimi particolari, a costruire gli ar-

mamenti, a forgiare i soldati. Mosè aveva ideato il piano quando ancora era alla corte del Faraone. Dall'esercito

egizio attinse l'arte della guerra, la strategia, la tattica, le macchine da guerra, gli stratagemmi, gli inganni. In

particolare si convinse del ruolo indispensabile che aveva la minuziosa raccolta di informazioni sul nemico. Lo

spionaggio era un'arma di prim’ordine, potente quanto la cavalleria e consentiva di attaccare solo quando si era

sicuri di vincere, impiegando solo le forze necessarie. Più si conosceva bene il nemico e più ci si poteva prepa-

rare per vincerlo. Un ruolo particolare doveva essere svolto dalla propaganda, dall'effetto sorpresa, dal terrore

delle rappresaglie. Per questo alle prime conquiste fatte nella Terra Promessa seguirono spietati stermini della

popolazione civile, donne e bambini compresi. Altro elemento fondamentale della macchina da guerra ideata da

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Mosè fu l'addestramento, il morale dei soldati, la cieca fiducia nella vittoria finale, propiziata dal Dio invincibi-

le d'Israele, legato al suo popolo con un patto indissolubile, materializzato nell'Arca Santa dell'alleanza.

Il piano di Mosè prevedeva che l'esercito per la conquista della Terra Promessa fosse composto esclusivamente

da uomini nati dopo l'uscita dall'Egitto. Voleva che i soldati, fin dall’infanzia, fossero stati allevati nel più rigo-

roso rispetto della Legge, consapevoli del legame particolare che li univa al loro Dio, immuni dalle ideologie

bizzarre che potevano aver appreso in Egitto, sicuri della invincibilità e della vittoria finale.

Abituati a vivere nelle tende, a spostarsi in continuazione, a sacrifici infiniti, venivano allevati con l'unico sco-

po e desiderio di conquistare la Terra Promessa dove, si diceva, scorresse abbondante l'acqua, dove i pascoli

erano sempre verdi, dove la vita, finalmente, sarebbe stata simile a quella vissuta da Adamo ed Eva nel paradiso

terrestre.

Sempre in Egitto Mosè imparò i vantaggi di tenere distinti i soldati dal resto della popolazione e organizzò il

proprio esercito su questo modello.

Già alla partenza dall'Egitto aveva calcolato quale numero di soldati sarebbe stato necessario per portare a ter-

mine la conquista. Aveva calcolato anche i costi necessari all'impresa. Erano spaventosi. Per questo, lasciando

l'Egitto, curò di portarsi via enormi ricchezze che aveva accumulato stando alla corte del Faraone per tanto tem-

po. Tuttavia, risultando quelle insufficienti, fu costretto a servirsi anche dei tesori dello Stato. Quando il Farao-

ne se ne accorse ordinò all'esercito di inseguirli, ma Mosè aveva già attraversato il Mar Rosso, utilizzando gua-

di che risultavano accessibili solo con particolari basse maree, sconosciuti all'esercito egiziano e, in ogni caso,

non più praticabili dopo il transito degli Ebrei, per molte lune.

Nei quarant’anni passati a preparare l'invasione il popolo crebbe e si moltiplicò. Al tempo della conquista della

Palestina il popolo d'Israele comandato da Mosè aveva raggiunto le cinquecentomila persone, di cui centocin-

quantamila atte alle armi. Un esercito forte, determinato e senza rivali. Metà rimase a difendere la Transgiorda-

nia da eventuali aggressioni, la terra dove avevano vissuto senza farsi notare troppo in quei quaranta anni, e

metà attraversò il Giordano per andare alla conquista della Terra Promessa.

Erano tutti giovani dai sedici ai quaranta anni, forti, bene addestrati, armati di tutto punto, audaci, spietati, pro-

grammati solo per quell'impresa, desiderosi di conquistare la terra "promessa" e abbandonare la vita seminoma-

de e clandestina, piena di stenti e privazioni.

Queste cose Gesù intuiva quando leggeva il libro di Giosuè, anche se tutta la narrazione era avvolta e nascosta

dalla poesia, dall'epopea e dal miracolo.

Il libro di Giosuè era il suo libro preferito, poiché era il libro dell’azione e non della meditazione. Lui voleva

imitare Giosuè, abbandonare le meditazioni, i dubbi e dedicarsi totalmente alla sua missione, che ancora non

aveva chiara.

Conosceva a memoria quel libro, ma ogni volta che lo leggeva provava delle sensazioni diverse, ed anche nuovi

dubbi e nuove idee.

Gesù credeva fermamente che la Terra Promessa appartenesse al suo popolo, dall'antichità, per disposizione di-

vina. Se gli Ebrei ne erano stati cacciati, era stato a causa delle loro iniquità, poiché troppo spesso si dimentica-

vano di seguire la Legge, diventavano empi, si confondevano con gli altri popoli, adorando i loro idoli.

La conquista della Terra Promessa era considerata da Gesù come il naturale adempimento delle scritture, l'at-

tuazione della volontà di Dio.

Come ogni Ebreo, Gesù fin dalla primissima infanzia aveva appreso del particolare legame del suo popolo con

Dio. Non era un dogma a cui credere, era una verità evidente. Vi era un solo Dio e quel Dio prediligeva, tra tut -

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ti, il suo popolo. La logica conseguenza era che il suo popolo era il migliore di tutti. L’orgoglio di essere Ebreo,

e per giunta maschio, si alimentava ogni giorno con la preghiera del mattino:

"Benedetto tu, Signore Dio nostro, re del mondo, che non mi hai fatto nascere pagano. Benedetto tu, Signore

Dio nostro, re del mondo, che non mi hai fatto nascere donna".

Le donne, con modestia mista a rassegnazione, pregavano Dio dicendo:

"Signore sia fatta la tua volontà".

Ad Abramo Dio aveva promesso una "posterità numerosa come le stelle", ricca di grandi beni e una vecchiaia

felice.

Anche a Giacobbe Dio aveva promesso "terra e straordinaria fecondità".

La vita degli Ebrei è tutta intessuta di una rivelazione continua di Dio che si manifesta ai profeti, ai re, alla gen-

te comune per guidare il popolo in tutte le occasioni importanti e per elevarlo sulla via della rettitudine. Il fine

di tutto era la liberazione dalle sofferenze della schiavitù in Egitto, per entrare nella "terra promessa", una terra

dove "scorrono latte e miele".

Là "benedirà il tuo pane e la tua acqua, e allontanerà da te la malattia. Nessuna donna, nel tuo paese, aborti-

rà, e nessuna sarà sterile".

La Legge data da Dio per mezzo di Mosè ripete continuamente: "Osserva le sue leggi e i suoi comandamenti

che oggi ti prescrivo, al fine di avere, tu e i tuoi figli, felicità e lunga vita sulla terra che Jahvè tuo Dio ti dà

per sempre".

Essendo stato Giosuè a portare gli Ebrei nella Terra Promessa, Giosuè era il suo eroe e Gesù lo amava e ammi-

rava più di Mosè. Quando leggeva brani su Mosè sentiva un certo malessere; il saperlo così in confidenza con

Dio gli provocava una certa invidia, nascosta, ma insistente e fastidiosa. Si sentiva a disagio. Invece Giosuè era

un eroe più umano, era il suo modello, quello che avrebbe voluto imitare, era il condottiero che guidava il suo

popolo alla vittoria e alla salvezza.

Tuttavia, studiando il libro di Giosuè, quello che narrava le sue gesta, Gesù trovava alcuni fatti difficili da com-

prendere ed accettare, a causa della sua indole mite e buona.

Infatti nel libro stava scritto che Giosuè ordinò al popolo di prepararsi all’invasione della Palestina, la Terra

Promessa. Inviò segretamente due esploratori affinché facessero un ultimo sopralluogo nella città di Gerico e

nella regione circostante.

Essi andarono e giunti alla casa di una prostituta di nome Rahab, vi si riposarono. Il re di Gerico, informato del-

la presenza delle due spie, mandò i soldati a cercarle nella casa di Rahab. Ma la donna le nascose ai soldati e le

salvò. In cambio ottenne la promessa di aver salva la sua vita e quella di tutti coloro che si sarebbero trovati in

casa sua al momento della caduta della città, a condizione che avesse favorito l'ingresso di alcuni soldati d'I-

sraele, attraverso la finestra della sua casa che dava sulle mura di cinta, al momento dell'attacco alla città. E

così avvenne.

L'esercito penetrò nella città e s'impadronì di Gerico. Nel libro sta scritto:

"E votarono allo sterminio tutto ciò che vi era nella città: uomini e donne, fanciulli e vecchi, persino buoi, pe-

core ed asini, tutto passarono a fil di spada".

Salvarono solo Rahab, tutta la sua roba e i suoi parenti.

Gesù, fin dalla fanciullezza, provava orrore nel leggere questo passo della Bibbia. Si domandava continuamente

il motivo di tanta violenza. Perché uccidere tanti fanciulli, donne, vecchi e persino neonati? Che male avevano

fatto? Qual era la loro colpa? Avevano peccato i loro padri nell'occupare la Terra destinata agli Ebrei e le loro

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colpe ricadevano sui figli. Ma era giusto? E i loro padri sapevano che quella terra era stata assegnata da Dio

agli Ebrei? Gli abitanti di Gerico conoscevano il Dio d'Israele? Non poteva il Dio d'Israele allontanare gli abi -

tanti dalla Terra Promessa in modo pacifico? Perché non aveva condotto i re palestinesi sul monte Sinai, di

fronte al roveto ardente, assieme a Mosè, per far sentire loro, direttamente dalla Sua voce, la promessa fatta al

popolo d'Israele? Oppure non poteva far sorgere in mezzo alle terre allora abitate dai Palestinesi una nuova ter-

ra, fertile e disabitata, per darla al suo popolo?

A Dio nulla è impossibile.

E quando nell'Esodo leggeva le parole di Mosè: "Tu divorerai tutti i popoli i quali dal Signore Dio tuo saran

dati in tuo potere. Non s'impietosisca sopra di essi il tuo occhio...." scuoteva il capo e non comprendeva il sen-

so di quelle parole.

Gesù non riusciva a comprendere e giustificare nessuna violenza, neanche quella narrata nella Bibbia.

Rimaneva sconcertato e sconvolto quando leggeva che durante il saccheggio della città di Gerico, appena con-

quistata, avvenne che Acar, figlio d'Israele, anziché consegnare tutto il bottino al tesoro della casa del Signore

si tenne per sé il manto di Sennaar, molto bello, e duecento sicli d'argento con un lingotto d'oro del peso di cin-

quanta sicli.

Scoperto, Acar insieme con i suoi figli e le sue figlie, fu condotto con i buoi, gli asini, le pecore, la tenda e tutto

ciò che gli apparteneva, nella valle di Acor. E Giosuè gli disse: "Perché tu hai fatto del male a noi, il Signore fa

del male a te in questo giorno".

E tutta Israele lapidò lui e tutti i suoi, poi li dettero alle fiamme.

Così si placò lo sdegno del Signore.

Un altro brano del Libro di Giosuè, che Gesù non riusciva a capire e a giustificare e, nel meditarlo provava for-

te sofferenza, recita: "Fu volere di Dio che quelle città si ostinassero a combattere affinché gli Israeliti potesse-

ro sterminarle senza usar loro pietà".

Leggendo questi brani Gesù si sentiva ancora più confuso.

Non riusciva a capire perché ad ogni conquista fatta da Giosuè, in tutte le guerre di Palestina, verso Sud e verso

Nord, seguiva immancabilmente lo sterminio di tutte le persone senza che più restasse anima viva. Alla conqui-

sta di ogni città seguiva, violenta, la repressione con l'uccisione di tutti gli esseri viventi, compresi i vecchi, le

donne e i bambini. E addirittura sembrava che quegli stermini fossero avvenuti per esplicito volere di Dio poi-

ché fu lui a indurre le città da conquistare a non arrendersi.

Quante volte in ginocchio, nella sinagoga, Gesù aveva chiesto a Dio il motivo di tanta crudeltà!

Mai gli era giunta una risposta che potesse placare la sua ansia e i suoi dubbi.

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7 - La morte di Edit e di Rebecca

Accadde che Pantera, il padre di Gesù, venne richiamato a Roma per consultazioni sulla situazione della Pale-

stina. Pensò di portare con sé Gesù.

Quando glielo propose Gesù ne fu entusiasta.

Viaggiare, vedere Roma, la capitale dell'Impero, città grande, ricca e potente; vedere Atene, conoscere altri po-

poli, lasciare Nazareth e la sua povera casa natale era quanto di meglio egli potesse desiderare. I Romani e i

Greci disprezzavano gli Ebrei, è vero, ma si erano spinti quanto più lontano era possibile sulla via della cono-

scenza e del dominio delle arti e della scienza. Visitare le loro città sarebbe stato utilissimo.

S’imbarcarono a Cesarea. Fecero tappa a Tiro, a Sidone, a Mira in Licia, ad Efeso e ad Atene dove furono co-

stretti a rimanere fermi due mesi, per consentire alla delegazione romana di trattare questioni militari e territo-

riali ed eseguire riparazioni urgenti alla nave.

Gesù, completamente libero, utilizzò tutto il tempo per conoscere la città, la cultura e la religione greca. Visitò

numerosi templi eretti in onore delle divinità greche.

Rimase sbalordito e affascinato dalla raffinata cultura greca. Politicamente il mondo era dominato dai Romani

ma culturalmente dai Greci. Ovunque le classi colte parlavano il greco e chi non lo parlava era considerato

come un barbaro. Un detto attribuito a Socrate recita: "Ringrazio la dea Fortuna di essere nato uomo e non ani-

male, uomo e non donna, greco e non barbaro".

Gesù rimase, invece, fortemente deluso della religione greca. Gli dèi erano troppi e con troppe, evidenti carat -

teristiche umane per essere paragonati al superiore e onnipotente Dio Unico d'Israele, al Dio dal pensiero subli-

me e accessibile all’uomo solo con la rivelazione.

La gente frequentava i templi, faceva offerte e rispettava gli insegnamenti religiosi. La religione era la base del -

la vita morale del popolo, tuttavia molti sorridevano apertamente di certi eccessi di credulità collegabili a pas-

sioni umane trasferite negli dèi.

La religione degli antichi Greci sorse, rozza e mostruosa, ad opera di uomini primitivi in tempi in cui lo spirito

umano era avvolto dalla superstizione e dal terrore.

La prima idea che il popolo greco si fece del mondo fu questa: intorno a noi è tutta una lotta di mostri enormi,

potenti e feroci, che possiedono e si disputano la terra e il cielo, il mare e le montagne, l’aria e il fuoco che tut-

to distrugge. L’uomo, piccola creatura, nulla può contro quelle potenze terribili, ostili, misteriose e malvagie.

Cerchiamo, allora, di placare la loro collera e di propiziarcele con preghiere e sacrifici.

Così si adorarono gli Spiriti di cui si credevano animati gli elementi, le stelle, le cose, le piante e gli animali: e

per la loro stessa crudeltà si divinizzarono il fulmine, la fiamma, la nube che si scioglie in grandine, il vento

che abbatte, le belve che dilaniano. Altri animali furono deificati per la loro forza e bellezza: il toro, l’aquila, il

pavone.

Era quella una religione inconscia e primordiale, fatta di paura più che di pietà, propria dell’infanzia di tutti i

popoli.

Più tardi, migliorate le condizioni della vita e perfezionatesi le facoltà dell’intelletto, gli uomini sentirono, oltre

la pericolosa potenza degli elementi, la loro grandiosa bellezza, il dono della vita che nasce dal combinarsi del-

le forze dell’universo.

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Così alla concezione superstiziosa subentrò la concezione poetica e veramente religiosa, che ha un contenuto di

commozione, estasi, stupore e riconoscenza, e che fonda la morale sul culto degli dèi. Lo spirito che permeava

ogni cosa: pietra, montagna, fiume, albero o animale, fu prerogativa solo dell’uomo e degli dèi.

Interpretando l’anima delle folle, i poeti crearono allora quelle favole piene d’allegorie e di significati nascosti,

nelle quali l’umanità che non possedeva la minima nozione scientifica affidava alla poesia l’incarico di spiegare

l’origine e la natura del mondo.

I Greci, popolo dall’immaginazione armoniosa e dotato di sentimento artistico, con una spiegazione immagina-

ria ma di meravigliosa bellezza poetica, crearono gli dèi a propria immagine e somiglianza, ingigantirono e tra-

sfigurarono in essi la natura d’uomo, li colmarono di ogni perfezione fisica e di ogni felicità. Li rendevano pro-

pizi non più con pratiche torve e sacrifici cruenti, ma con un culto fatto di preghiere e canti, con offerte di can -

dide statue marmoree e di possenti templi.

Ogni elemento, ogni sentimento, ogni virtù o qualità fisica, ogni attività o mestiere ebbe il suo Dio. I vari dei,

infatti, altro non sono che "specialisti", chiamati a presiedere i vari ambiti della realtà.

La giustizia, la legge, la patria, la famiglia, la pietà per gli avi furono simboleggiati da divinità che con grande

saggezza premiavano il bene e punivano il male.

E così le favole narrate dagli ispirati poeti, pastori e musici, sorreggevano la vita morale e politica delle nazio-

ni.

Gli uomini si chiesero come sorse dal nulla questo mondo meraviglioso e come furono generati gli dèi immorta-

li, e non seppero cosa rispondersi. Ma i poeti, che allora custodivano gli armenti sulle verdi pendici delle mon-

tagne, narrarono loro questa ingenua e sublime leggenda.

Prima vi era il Caos, massa informe d’aria e di roccia, di fuoco e di terra, d’acqua e di vapore, dove regnavano

le tenebre. Dal Caos balzarono fuori due esseri belli e potenti: Gea, la Terra, piena d’ogni fecondità ed Eros,

principio dell’amore che crea la vita. Da quel momento il Caos si trasformò in armonia degli elementi.

Da Gea nacquero: la Notte, l’Etere, Urano, che è il cielo stellato e fu il primo Signore del mondo, l’Oceano, i

Monti, i Ciclopi, i Giganti e i feroci Titani. Il più giovane di questi, Cronos, il Tempo, figlio di Gea e di Urano,

mutilò e scacciò dal trono suo padre.

Cronos, dalle nozze con Rea, generò le divinità maggiori, compreso Zeus che, a sua volta, gli carpì lo scettro

del mondo.

Annientati col fulmine gli altri Titani ribelli, Zeus cominciò il suo regno incontrastato e glorioso sull’universo,

sugli dèi e sugli uomini, che durerà in eterno.

La dimora degli dèi si ergeva sulle cime eccelse dell’Olimpo, il più alto monte della Grecia. Non era dato ad

occhio umano di scorgere le immense logge e le scintillanti cupole del radioso palazzo degli dèi, simile ad un

diamante, a causa della grande altezza della montagna e del mantello di nubi sempre disteso su quelle vette.

Al centro dei divini palazzi v’era la sterminata sala ove i dodici dèi immortali sedevano a banchetto intorno a

Zeus, Signore del mondo, tracannando fiumi di biondo nèttare, e mangiando in piatti d’oro l’ambrosia che tiene

lontana la morte.

Mentre il popolo credeva nella esistenza degli dèi e nella loro presenza accanto agli uomini, le persone ricche e

colte non facevano mistero del loro scetticismo, anzi se ne compiacevano. Sostenevano che la religione era un

mezzo per tenere a freno i giovani e il popolo, indispensabile ausilio ai governanti, ai poteri costituiti, nella

loro opera di educazione e governo. Loro preferivano frequentare le accademie e cimentarsi nelle più ardite

speculazioni filosofiche.

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Gesù rimase favorevolmente impressionato dalle scuole di pensiero che conobbe e frequentò, nonché dalla filo-

sofia greca.

Approfondì la conoscenza di Socrate e trovò conferma alle sue idee quando apprese che Socrate aveva lasciato

questi insegnamenti: "Uomini ateniesi, vi onoro e vi amo; ma obbedirò a Dio piuttosto che a voi, e finché avrò

vita e forza non cesserò mai di praticare e di insegnare la filosofia perché, sappiate, questo è il comando di

Dio".

Apprese anche del processo a Socrate così come venne tramandato da Platone e gli rimasero impressi alcuni

brani:

"Sappiate adunque, che uccidendo me, che sono qual vi dico, il maggior danno sarà vostro, non mio. Io credo

che ripugni alla giustizia che il più buono sia danneggiato dal più tristo. Potrà forse questi uccidere, bandire,

oltraggiare; cose tutte che per costui e per altri saranno forse grandi mali; non già per me, che stimo maggior

male far ciò che egli fa, tentando di uccidere ingiustamente un uomo".

"E' per la salvezza dei miei giudici che io parlo, e non per la mia".

"Nell'altro mondo non mettono a morte un uomo ponendogli delle domande; sicuramente no. Perché oltre ad

essere più felici di noi, essi sono immortali, se ciò che si dice è vero...".

"E' giunta l'ora di andare, e ciascuno di noi va per la propria strada: io a morire, voi a vivere. Che cosa sia

meglio, Dio solo lo sa".

Il modello di uomo immaginato da Socrate era quello di un uomo colto, sicuro di sé, d'alta intelligenza, indiffe-

rente al successo mondano, convinto di essere guidato da una voce divina. La sua padronanza sulle passioni

umane doveva essere totale e nel dualismo tra l'anima celeste e il corpo terreno, l'anima aveva raggiunto la

completa superiorità sul corpo. La sua indifferenza verso la morte negli ultimi istanti è la prova finale di questa

superiorità.

Gesù condivideva quasi tutto ad eccezione del fatto che l'uomo per essere virtuoso doveva essere colto; egli ri-

teneva, invece, che per essere virtuoso fosse necessario avere un cuore puro. Ed era più facile che ciò si verifi -

casse in un uomo povero di spirito che in un uomo colto. Per gli Ebrei l'uomo colto era l'esperto delle sacre

scritture, dipendendo tutte le conoscenze politiche, filosofiche e scientifiche dalla religione.

Come Socrate riteneva, invece, che il fine a cui doveva tendere ogni uomo fosse il Bene.

Come Platone, riteneva che Dio non fosse l'autore di tutte le cose, ma lo fosse solo di quelle buone.

Stando ad Atene conobbe anche le filosofie orientali. Apprese della vita e dell'insegnamento di Zarathushtra,

che visse in Persia sei o sette secoli prima. Zarathushtra iniziò la sua predicazione dopo che un angelo, mandato

da Dio, gli rivelò quale fosse la sua missione. Per lui esisteva un solo Dio e si oppose strenuamente ai sacerdoti

politeisti del suo tempo e ai loro cruenti sacrifici di animali sugli altari. Egli riteneva che fin dalla creazione si

fronteggiassero due opposte forze: quelle del bene e quelle del male. In questa lotta cosmica l'uomo doveva sce-

gliere da che parte stare.

In particolare Gesù fu colpito da un precetto formulato cinque o sei secoli prima da Lao-Tze e da Buddha: "Non

contrastate al male, anzi se qualcuno ti percuote su una guancia, tu porgigli anche l'altra".

Era un precetto che condivideva intimamente. Tuttavia il suo animo percepiva un certo disagio se a quel precet-

to abbinava l'occupazione romana della Palestina.

Ugualmente provava disagio quando sentiva dire dai filosofi greci che il mondo era sempre esistito e il compito

della divinità era solo quello di regolarne lo sviluppo. Lui credeva che la Creazione fosse avvenuta, come si ri-

cavava dalla genealogia di Adamo contenuta nei Libri Sacri, alle nove del mattino del 23 ottobre di 4.004 anni

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prima. In proposito ebbe una disputa molto serrata con alcuni dotti Ateniesi i quali sostenevano che esistevano

opere, costruite dall’uomo, vecchie di almeno ventimila anni. In seguito, ripensando alla discussione, gli sorse-

ro dubbi sulle sue convinzioni.

Quando giunse il momento di partire da Atene, Gesù fu molto triste. Aveva conosciuto molti filosofi e avrebbe

voluto coltivare più a lungo la loro amicizia e discutere con loro.

Tuttavia fu costretto a partire alla volta di Roma.

Fece scalo a Malta, Siracusa, Reggio Calabria, Pozzuoli e, infine, raggiunse Roma.

La vista di Roma lo inebriò e lo annichilì.

Fu colpito dalla potenza dell'impero romano, dalla sua insuperabile organizzazione politica e militare, dalla ric-

chezza della città, dall'agiatezza della vita dei Romani.

Roma era l’incarnazione del potere. I Romani vivevano, come ogni popolo che domina il mondo, per il potere e

per il denaro che bramavano e afferravano con cupidigia e avidità, con cieca ostinazione.

Fu deluso dalla rilassatezza dei costumi, dal disinteresse della gente per la religione e per i loro dèi, soprattutto

da parte della gente ricca, colta e dei governanti. La licenziosità dei costumi morali era talmente diffusa che

Augusto tentò di porvi rimedio, ma inutilmente, emanando leggi protettive della famiglia e punendo severamen-

te il divorzio, l'adulterio e l'aborto.

Gesù vide che l'unico vero Dio venerato dai Romani era il denaro, osservò, inorridito, la crudeltà dei potenti, la

corruzione della corte imperiale, il disinteresse della povera gente, desiderosa solo di "panem et circenses".

Roma era impreziosita da numerosi e magnifici templi, ma la gente li frequentava poco e con distacco. Più volte

gli era capitato di sentire gente del popolo beffeggiare gli dèi e sfidarli. Gli aristocratici non nascondevano il

loro interesse e la loro preferenza per le divinità greche e per la filosofia greca.

La religione, a Roma, era una mera formalità ed era più un'occasione di festa che la corale partecipazione della

gente ad un rito mistico che le consentiva di unirsi agli dèi. L’abbandono delle originarie divinità latine per

quelle greche aveva contribuito molto alla dissacrazione del divino. La maggior parte degli dèi a quel tempo ve-

nerati, infatti, era di origine greca.

Gli dèi romani erano capricciosi e possenti personaggi che assistevano i fedeli nell’ammassare beni e ricchezze.

L’intero scopo della fede di Roma consisteva nell’ingraziarsi gli dèi mediante riti, cerimonie e nell’iniziare im-

portanti affari soltanto allorché essi erano d’umore atto a favorirli. La devozione dei Romani si prefiggeva di

rendere ricco l’uomo, non migliore.

Gesù capì che a Roma, come in tutto il mondo, gli dèi si trovano nel luogo dove stanno sempre le divinità: la

mente dell’uomo. Egli sapeva che quegli dèi erano falsi, che dietro i loro simulacri non v'era nulla, eppure la

gente li adorava e li credeva veri e reali.

Nei templi erano venerati con cerimonie religiose, preghiere, musiche, canti, processioni e la gente che vi parte-

cipava mostrava grande devozione. Anche le autorità, che in privato deridevano gli dèi e dichiaravano di non

credere nella loro esistenza, partecipavano alle cerimonie mostrando interesse. Gesù comprese allora che anche

le false religioni possono servire per mantenere buono e sottomesso il popolo, convogliare il desiderio di pace e

giustizia della gente in un mondo futuro anziché in quello presente.

Pensando al Dio d’Israele, al Dio dei suoi padri, al Dio delle Scritture, all'unico vero Dio, lo vide per la prima

volta come un piccolo Dio locale, all’inizio geloso delle altre divinità, misericordioso e violento, farsi sempre

più forte e divenire il Dio di tutto il creato.

A Roma, grazie all'autorità delle divinità, venivano mantenuti i giuramenti, rispettati i contratti, pagati i debiti,

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e nella società romana gli affari venivano svolti lealmente. Anche se gli dèi erano rozzi e avidi di doni, serviva-

no egregiamente per far rispettare al popolo le regole più elementari della vita in comune.

I Romani si avvalevano dell’opera degli àuguri, una casta sacerdotale, che aveva il compito di informare i citta-

dini circa il pensiero delle divinità.

Nei tempi antichi i Latini avevano una specie di animismo astratto che venerava la presenza e la protezione di

dèi o Geni in tutte le cose e in tutti i luoghi, nelle istituzioni e nei costumi. Poi vennero i miti e le leggende gre-

che che si dividevano la fede e la tradizione con la tradizione e i culti locali. Una mitologia romana vera e pro-

pria non esisteva, perché i Romani non fecero che adattare quella greca alle loro esigenze. Roma fu sempre di

una grande tolleranza religiosa e lasciò che il suo complesso di credenze si accrescesse col tempo d’un infinito

numero di divinità, anche orientali e barbare.

I principali dèi venerati a Roma erano:

Giove o Juppiter (Zeus per i Greci), la divinità suprema, signore del cielo e della luce, patrono dello Stato e

delle sue istituzioni. Viveva nell'Olimpo e da lì governava il mondo e le cose del mondo. Ebbe molti amori dai

quali nacquero molte divinità. Era aiutato da altri dèi negli affari quotidiani. Ma anche a Giove, sebbene poten-

tissimo, non tutto era permesso. I suoi sacerdoti erano i più numerosi di tutti.

Giunone (Era per i Greci), sorella e moglie di Giove, e come tale regina degli dèi. Protettrice dei matrimoni e

dei parti. In suo onore si celebravano feste il 1° marzo e il 7 luglio. Aveva templi e sacerdoti in moltissime città.

Nettuno (Poseidone per i Greci), signore del mare. Il 23 luglio venivano celebrate, in suo onore, le feste Neptu-

nalia.

Mercurio (Ermete per i Greci), figlio di Giove, era il dio dei commercianti, dei ladri e delle invenzioni.

Apollo, figlio di Giove e di Latona, inventore della cetra, divinità della poesia e della profezia. Il primo tempio

in suo onore era stato innalzato a Roma da soli 70 anni.

Marte (Ares per i Greci), figlio di Giove e Giunone, dio della guerra. Una delle principali divinità. Avendo ge-

nerato Romolo, era considerato come padre dei Romani.

Vulcano, figlio di Giove e Giunone, dio del fuoco. La sua festa si celebrava il 23 agosto.

Venere (Afrodite per i Greci), dea dell’amore e della bellezza.

Diana (Artemide per i Greci), sorella di Apollo, dea della caccia.

Vesta (Estia per i Greci), dea del focolare domestico. Era la protettrice della pace familiare. Il fuoco sacro era

mantenuto nel suo tempio da sei sacerdotesse, dette Vestali, che godevano di speciali privilegi, ma dovevano

mantenere intatta la loro verginità, sotto pena di essere sepolte vive. Le Vestali erano scelte dal Sommo Pontefi-

ce tra fanciulle dai 6 ai 10 anni. Il loro servizio al tempio durava 30 anni e poi erano libere da ogni vincolo. Le

feste in onore di Vesta, le Vestalia, si celebravano a Roma il 9 giugno.

Minerva (Atena per i Greci), nacque armata dalla testa di Giove, dea della guerra e della intelligenza. Era ve-

nerata in moltissime città e la sua festa principale si celebrava dal 19 al 23 marzo.

Cerere (Gea per i Greci), rappresentava la Terra e la madre di tutti gli esseri viventi; personificava la forza ge-

neratrice della terra.

Plutone (Ades per i Greci), signore del regno sotterraneo. Divinità benefica che dalle profondità della terra

mandava prosperità, fertilità, ricchezze.

Esculapio, dio della salute, sostituì le divinità romane: Strenua, Salus, Cardea, Febris. Gli erano dedicati molti

templi e molte statue.

Bacco, dio del vino e della gioia di vivere. Le gioiose feste in suo onore erano chiamate "baccanali".

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Ercole, eroe mortale, fu portato da Giove, in un fragore di fulmini, sull’Olimpo e divenne immortale. Ora vive-

va in cielo, col suo corpo eternamente giovane. Era molto venerato e in suo onore erano stati costruiti molti

templi.

Cupido, dio dell’amore. Uno dei più antichi dèi, contemporaneo del Caos e della Terra.

Giano, divinità esclusivamente romana, il più antico degli dèi latini: il dio degli dèi. Fu immaginato con due

facce, proteggeva l’entrata e l’uscita delle case.

Saturno, antica divinità italica delle sementi, verso il quale i Romani professavano un culto particolare.

Fortuna, dea del destino e della fortuna, era venerata con grandi feste il 24 giugno. Molto venerate e pregate

anche le altre divinità: Giovinezza, Salute, Vittoria.

Gesù non trovò, come ad Atene, delle vivaci e seguite scuole di pensiero, poiché a Roma ci si interessava solo

di politica, di affari, di guerre, di diritto e, soprattutto, di godere la vita.

I Romani vivevano nel lusso e nell'ozio. La maggior parte del lavoro era svolto dagli schiavi. Per loro qualsiasi

cosa risultasse utile a Roma e ai Romani era un gesto nobile.

E’ un concetto insito in tutte le nazioni dominatrici. Più depredano, più diventano forti; più forti diventano, più

depredano. Questa riflessione gli ricordava la sua terra di Galilea.

Gesù si meravigliò molto nel vedere il grande numero di piscine termali esistenti nella capitale, i teatri, i circhi

e molti altri luoghi di spettacolo e di svago. Era come se i Romani pensassero solo a mangiare e divertirsi.

Inorridiva quando sentiva la gente parlare di Cesare come di un Dio. Il popolo lo credeva veramente figlio di

Venere e come tale lo adorava, e la sua autorità si fondava su questa fede. Per un Ebreo che considerava Dio

come l’Inaccessibile, l’Inconoscibile, il Santo dei Santi, di cui era vietata qualsiasi raffigurazione, di cui era

proibito pronunciare il nome, ciò rappresentava un sacrilegio, una bestemmia. Il luogo più sacro, all’interno del

tempio di Gerusalemme, dove nessuno poteva entrare, dove dimorava il Dio vivente, era una stanza completa-

mente vuota.

Si convinse ancor più che la fine del mondo era imminente. Pensò al suo popolo, prediletto dal Dio vivente, cir-

condato da pagani che adoravano altri dèi, e con terrore pensò alla parola di Dio contenuta nelle Sacre Scrittu-

re:

"Non seguite gli altri dèi, quegli dèi che sono adorati dai popoli che vi circondano, perché il Signore, Iddio

tuo, che sta in mezzo a te, è un Dio geloso. L’ira del Signore, Iddio tuo, si accenderebbe contro di te e ti stermi-

nerebbe dalla faccia della terra".

Capì che le religioni, fuori dalla Palestina, erano l'equivalente delle favole per i bambini. Servivano ai gover-

nanti, ai ricchi, alle persone colte per tenere buono il popolo e approfittare della povera gente, degli umili, dei

bisognosi. Servivano per convincere il popolo ad essere virtuoso, nonostante il comportamento dei potenti, dei

ricchi, dei sacerdoti.

Si meravigliò soprattutto di due cose: dell’ipocrisia degli uomini del potere i quali in pubblico si dimostravano

devotissimi di ogni divinità, anche di quelle dei popoli barbari, mentre in privato non facevano che prendersi

beffe di quelle stesse divinità e dei loro devoti. E si meravigliò che nell’Olimpo pagano, dove stavano le mag-

giori divinità, vi fossero sei divinità maschili e sei divinità femminili. Giove, infatti, sedeva a capotavola con

sua moglie Giunone, e negli altri due lati del tavolo sedevano: Nettuno, Mercurio, Apollo, Marte e Vulcano da

un lato e dall’altro Venere, Diana, Vesta, Minerva e Cerere.

Gesù fu colpito dall’eguale numero di divinità tra i due sessi che rispecchiava anche la grande considerazione

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in cui erano tenute le donne a Roma, del tutto sconosciuta in Palestina.

Ebbe anche l'avventura di vedere una corsa di carri e la lotta dei gladiatori nel Circo. In due ore di spettacolo

furono uccisi dieci gladiatori. Rimase disgustato. E il suo disprezzo per i ricchi, i potenti e i gaudenti aumentò

di pari passo all'amore e alla compassione per i poveri.

Non era tollerabile che delle persone venissero uccise per il solo divertimento di altre. Il mondo era proprio da

cambiare!

Decise che al ritorno in Palestina avrebbe lasciato tutto e si sarebbe dedicato alla predicazione. Un vecchio

mondo stava per finire e ne doveva nascere uno nuovo. Ne avrebbe parlato con suo cugino Giovanni il Battista,

che già da tempo si era ritirato nel deserto a predicare la imminente fine del mondo e ad esortare la gente a pen-

tirsi dei peccati per meritare la salvezza.

Senza cambiare nulla delle Sacre Scritture era necessario darne una nuova interpretazione, per mettere al primo

posto l'uomo, quello umile, povero, senza cultura, che viveva del sudore della propria fronte.

Gesù pensava alla religione del Figlio dell'uomo, fatta per gli uomini sinceri, di buona volontà, puri di cuore,

privi di potere. E ricordava gli insegnamenti ricevuti nei due anni passati con gli Esseni, sulle rive del Mar

Morto.

Il suo progetto, la sua missione si stava delineando sempre più nitidamente nella sua mente.

Pantera ebbe un importante incarico a Roma e non poté rientrare in Palestina. Gesù dovette fare il viaggio di ri-

torno da solo.

Pantera fu molto premuroso e assicurò a Gesù che il suo interessamento per lui sarebbe continuato anche da

Roma. A Gerusalemme aveva tanti amici fidati ai quali avrebbe dato l'incarico di seguirlo e aiutarlo, in caso di

bisogno.

Gesù lasciò Roma con un accresciuto senso di timore e avversione per i Romani, per i potenti e per i gaudenti.

Considerava Roma alla stregua di Sodoma e Gomorra.

Quando sbarcò a Cesarea erano passati tredici mesi dal giorno in cui aveva lasciato la Palestina.

Si mise subito in viaggio per Nazareth, desideroso di rivedere la sua famiglia.

Giunto che fu nei pressi del suo paese natale, l'animo suo fu pervaso da un crescente senso di malessere e ap-

prensione. Alle porte di Nazareth sentì, forte, un presagio di morte e distruzione. Il suo animo fu pervaso dall'a-

gitazione.

Un terribile terremoto si era abbattuto sulla sua gente. I segni della distruzione erano ovunque. Più gli edifici

erano stati costruiti in maniera robusta, più erano stati rovinati. Solo le misere capanne erano state risparmiate.

Correndo verso casa passò davanti alla sinagoga. Anch'essa era stata devastata dal terremoto e quasi del tutto

crollata.

Giunto innanzi alla bottega di Giuseppe, trovò Giose, intento a riparare il muro di cinta. La casa era stata già

quasi del tutto riparata.

Giose non gli consentì neanche di mettere piede nel cortile. Lo affrontò minaccioso: "Dove sei stato tutto que-

sto tempo?"

Gesù chiese: "Cosa è successo alla mia famiglia?".

Giose rispose: "Vattene. Qui non c'è più posto per te. Edit è morta e Rebecca pure. Torna dai Romani".

Una tristezza immensa e una profonda desolazione si impadronì dell'animo suo. Non volle affrontare il fratello

e si allontanò da casa sua e dal suo paese.

Lungo la strada, da un viandante, seppe del terremoto avvenuto una anno prima. Era stata una cosa terribile.

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Edit e Rebecca erano morte mentre erano nella sinagoga intente a pregare. Assieme a tante altre persone timora-

te di Dio si erano radunate nella sinagoga per una veglia di preghiera. Imploravano Dio affinché mandasse la

pioggia necessaria per non far morire gli uomini e le bestie. Arrivò, invece, il terremoto e il tetto della sinagoga

cadde su di loro. Perirono in molti e tra i morti vi furono anche Anna, il rabbino, e alcuni bambini.

Gesù rimase sconvolto e si rifugiò nel deserto.

Passò giorni e notti a pregare Dio e a interrogarlo. Perché lasciava che morissero degli innocenti? Perché la -

sciava che i figli del suo popolo prediletto, dei bambini, morissero mentre erano nel tempio intenti a pregarlo?

Perché non proteggeva neanche la sinagoga, la casa della sua parola, dalla forze del male? Se neanche nella

casa del Signore si era più sicuri, su chi si doveva confidare? Chi era più potente, il suo Dio o le forze del

male? Se il suo Dio era infinitamente potente perché non aveva sconfitto Satana in maniera definitiva? Anzi,

perché aveva creato quell'angelo ribelle, che tanti guai ha procurato all'umanità e a Dio stesso, se ancor prima

di crearlo sapeva che si sarebbe ribellato?

Gesù alzò lo sguardo al cielo alla ricerca di Dio, di un segno. Il cielo era così limpido, terso e brillante di stelle

che sembrava liquido. Ma nessun segno gli giunse ed egli riprese ad interrogarsi sui motivi della sofferenza.

Perché l’uomo deve soffrire? Perché per meritare un premio si deve passare attraverso la sofferenza? E gli ani-

mali, che soffrono più degli uomini, avranno anche loro un premio per le sofferenze patite?

Per quarant'anni gli Ebrei dovettero errare nel deserto prima di entrare nel Regno promesso da Dio; per quaran-

ta giorni Mosè dovette rimanere sul monte per ascoltare le sue leggi; per quaranta giorni Elia dovette cammina-

re nel deserto per sfuggire la vendetta della regina.

Quaranta giorni e quaranta notti passò Gesù nel deserto montagnoso a pregare e a interrogarsi su cosa fare. I

suoi legami con la famiglia, già deboli nel passato, si erano del tutto sciolti. A Nazareth non voleva e non pote-

va più ritornare.

E una voce sentì, sempre più forte, farsi strada nel suo cuore. Una voce antica, tante volte affacciatasi e tante

volte ricacciata indietro, per timore. Una voce che gli diceva: "Tu hai una missione da compiere. Tu devi salva -

re l'uomo. Dio lo vuole".

La voce, dapprima come una tenera pianticella, attecchì e si irrobustì cibandosi del suo dolore e della sua soli-

tudine.

Decise di lasciare tutto e tutti: la sua casa, i pochi beni, i suoi fratelli, le sue sorelle, sua madre, suo padre Pan-

tera, suo padre Giuseppe. Decise di confidare solo in Dio, suo vero ed unico padre e di parlare alla sua gente,

per salvarla.

Presa che ebbe la decisione, si sentì pieno di una forza mai provata fino ad allora, pieno di entusiasmo e di si -

curezza, fermamente convinto che Dio lo avrebbe guidato e aiutato nella sua missione, che era la missione che

Dio affida ai Profeti: guidare gli uomini sulla retta via, la via che porta alla salvezza.

Aveva capito che né le ricchezze di questo mondo, né il potere potevano rendere felici gli uomini. La felicità e,

quindi, la salvezza stavano in noi stessi, nel nostro retto modo di operare, nel nostro rapporto personale con

Dio.

Si sentì partecipe della natura di Dio. Si sentì Figlio di Dio e Dio egli stesso.

Comprese quanto sterile fosse affannarsi a riflettere se il male che esiste sulla terra provenga da Dio o dagli uo-

mini. Il male esiste solo nel cuore degli uomini.

Anzi, il "male" in senso assoluto non esiste.

Esistono azioni, anche le più violente e terribili, come l’omicidio, di per sé indifferenti dal punto vista etico,

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ma suscettibili di essere catalogate tra le azioni "buone" o "cattive" solo in relazione alle intenzioni di chi le

compie.

Il leone che divora l’agnello non compie un’azione malvagia.

L’uomo che uccide il nemico in battaglia, per difendersi da una aggressione, non compie un’azione malvagia.

Un uomo che guarda con disprezzo un altro uomo compie un’azione malvagia.

Il Signore del "bene" e del "male" è l’uomo.

Nel cuore dell’uomo, nel più recondito anfratto della sua mente sta la chiave per classificare le sue azioni.

Come nessun uomo può conoscere i pensieri di un altro uomo, così nessun uomo può giudicare un suo simile,

né gli altri esseri viventi.

Solo diventando consci del nostro "immenso potere" possiamo adoperarlo con saggezza maturando uno alla vol-

ta, ognuno per sé, fino a maturare tutti.

Gesù si convinse che solo questa poteva essere la strada della salvezza, sia individuale che collettiva, la strada

che avrebbe portato l’uomo nuovo e il suo regno: il regno dell’uomo.

Questa era la buona novella che si sentiva di annunciare agli uomini.

Ma tanti e forti erano i dubbi che ancora lo tormentavano e la visione complessiva non era ancora del tutto chia-

ra.

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8 - Incontro con Giovanni il Battista

Dopo il lungo tempo trascorso nel deserto in preghiera, meditazione e macerazione, Gesù era smunto, lacero,

affamato, con la barba lunga e incolta. Rappresentava, anche visivamente, un modello di profeta tanto caro agli

Ebrei, molto comune, impersonato anche da Giovanni, detto il Battista, suo cugino, figlio di Zaccaria e di Eli-

sabetta.

Tanta era la somiglianza con Giovanni che molti lo scambiavano per lui. Questa circostanza indusse Gesù a re-

carsi nel deserto della Giudea per incontrarlo e farsi battezzare. Voleva diventare suo discepolo e unirsi a lui

nella predicazione. Era da tanto che coltivava questo proposito.

Da piccoli si vedevano spesso e stavano molto bene assieme, giocando spensierati ma, divenuti adulti, si erano

persi di vista.

Giovanni, di stirpe sacerdotale, fin dall’infanzia fu un nazir, cioè puro, obbligato per voto a certe astinenze: non

doveva mai radersi i capelli, né bere vino, né toccare una donna.

Asceta tutto fuoco e passione, iniziò la predicazione molto giovane e Gesù, allora, sebbene attratto da quella

vita, non se la sentì di seguirlo. Tante volte avevano parlato, interrompendo anche i giochi della fanciullezza, di

Dio e della salvezza degli uomini.

Giovanni era convinto che la situazione in cui si trovava il popolo d'Israele, sotto il dominio straniero e gover-

nato da un despota come Erode Antipa, dimentico dei precetti di Dio, nel generale peccato, consentisse di inter-

pretare quel tempo come il tempo della fine, il tempo delle doglie messianiche previsto dalla Sacre Scritture.

Egli rappresentò un vero pericolo sia per il potere religioso che per quello politico.

Il Battista, come i monaci di Qumran che si erano ritirati a vivere nel deserto per attendere il nuovo regno, era

il fautore di un movimento messianico ed esortava gli Ebrei alla penitenza in attesa dell’arrivo del Messia. In

quel tempo, per la verità, molti erano coloro che predicavano l’arrivo della fine dei tempi.

Si erano verificate anche sommosse, ispirate da falsi Messia, prontamente soffocate nel sangue dai soldati ro-

mani.

Sia Giovanni Battista che Gesù avevano conosciuto un certo Giuda, della città di Gamala, sul lago di Tiberiade.

Egli, e un fariseo di nome Sadok, negando la legittimità delle imposte pretese dai Romani, raccolsero intorno a

loro numerosi discepoli e il movimento sfociò in aperta ribellione a Roma. Il procuratore Coponio schiacciò

quella sedizione, ma la scuola sopravvisse. Infatti, era ancora attivissima nelle ultime lotte degli Ebrei contro i

Romani, guidata da Menahem, figlio del fondatore.

L’insuccesso di Giuda fece meditare a lungo Gesù sul Messia e sulla natura del Regno preconizzato dalle Scrit-

ture.

In quei giorni molti abitanti di Gerusalemme, di tutta la Giudea e di tutto il paese intorno al Giordano accorre-

vano da Giovanni e, confessando i loro peccati, si facevano battezzare da lui immergendosi nel fiume. Ciò rap-

presentava una catarsi, una purificazione spirituale, una rinascita.

Giovanni ripeteva incessantemente a tutti quelli che lo avvicinavano:

"Pentitevi, perché il regno dei cieli è vicino".

Faceva confessare loro i propri peccati, li faceva immergere nelle acque del Giordano, per simboleggiare la pu-

rificazione, anche materiale, e li battezzava. I suoi modi erano molto bruschi e il suo atteggiamento troppo se-

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vero. Era solito chiamare coloro che a lui si avvicinavano con espressioni poco lusinghiere come: "Razza di vi-

pere" o simili.

Molta gente era veramente convinta che i tempi erano maturi per la fine del mondo e per l'avvento del regno dei

cieli, cioè il regno di Dio sulla terra. Così non si poteva più andare avanti. Tanta tribolazione e tanti peccati non

potevano rimanere senza un'adeguata risposta da parte di Dio. La misura era colma.

Gesù vide Giovanni che era immerso nelle acque del Giordano fino al ginocchio, intento a battezzare e a predi-

care: "Pentitevi, perché il regno dei cieli è vicino". Gli si avvicinò. Giovanni subito lo riconobbe. Si abbraccia-

rono.

Gesù chiese di essere battezzato. Giovanni oppose un rifiuto dicendo: "Cugino, io ti conosco. Tu sei uomo giu-

sto; sono io che dovrei essere battezzato da te". Ma Gesù insistette e Giovanni lo battezzò.

Uscirono assieme dal fiume e si incamminarono verso il deserto. Giovanni aveva una veste di peli di cammello

e una cintura di cuoio ai fianchi. Si nutriva di locuste e di miele selvatico.

Gesù ascoltò con attenzione le idee di suo cugino e in alcune cose concordava con lui. In particolare ambedue

erano fermamente convinti della imminente fine del mondo, della necessità di pentirsi, di cambiare vita e di ab-

bandonare le cose del mondo, per ottenere la salvezza. Le loro idee non concordavano, invece, sulla natura del

Messia. Giovanni lo prevedeva come un restauratore del Regno d’Israele, Gesù era meno convinto.

Come Giovanni, anche Gesù riteneva che i beni del mondo non davano la felicità e, anzi, erano d'impedimento

per seguire la via della salvezza del mondo.

Rimase con Giovanni per qualche tempo e fu suo discepolo, apprendendo molto da lui.

La considerazione per Giovanni, però, diminuì sempre più a causa della limitatezza della sua predicazione volta

solo alla penitenza, senza una prospettiva propria, ed anche per la mania di Giovanni di digiunare due volte la

settimana, il lunedì e il giovedì, di vestire con misere e maleodoranti vesti, di essere sempre d’aspetto incolto

e sgradevole. Il giogo imposto da Giovanni era troppo pesante.

Gesù si convinse che quel modo di predicare, di battezzare, di vestire e di nutrirsi non avvicinava la gente, ma

l'allontanava e decise di non seguirlo su quella strada. Gesù, infatti, smise ben presto di praticare il battesimo,

vestiva sempre con cura, mangiava con gusto, sempre e con tutti. Egli fece sua l’espressione del Salmo: "Servi-

te il Signore con gioia". In opposizione a Giovanni predicava: "Venite a me voi tutti che siete affaticati ed op-

pressi, io vi ristorerò. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, poiché io sono mite e umile di cuore, e

troverete ristoro per le vostre anime, poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero".

Non era necessario essere scostanti, laceri, maleodoranti e malandati per convincere la gente della imminente

fine del mondo, della necessità di salvarsi mutando vita per entrare nel nuovo regno.

Così decise di lasciare Giovanni, quel magnetico e solitario selvaggio, col corpo bruciato dal sole del deserto e

con l'anima bruciata dal desiderio del Regno.

Decise di seguire la propria strada senza curarsi di quel che dicevano Giovanni o gli altri predicatori. Tanto ci

sarebbe stato sempre qualcuno che, in ogni caso, avrebbe avuto modo di criticarlo.

Giovanni era troppo intransigente, con se stesso e con gli altri; coltivava un odio profondo e viscerale per Erode

e per i Romani che lo tenevano sul trono e occupavano la Terra Promessa contro il volere di Javhè. Ma il suo

progetto di salvezza non era chiaro. No, non era possibile predicare assieme a Giovanni.

Gesù decise che avrebbe iniziato la predicazione da solo. Il suo messaggio e la sua missione dovevano essere

unici, diversi da quelli dei profeti del presente e del passato. Dopo l’immersione nel Giordano e le lunghe notti

passate a discutere e meditare con Giovanni si sentì un uomo nuovo, rinato, rigenerato.

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Pensò che non fosse necessario liberare il popolo né dalla schiavitù dell'esercito romano, né da Erode. Non c’e-

ra tempo. La fine era vicina, la scure era già alle radici dell'albero. Occorreva liberare l’uomo dal peccato, dal

male. Occorreva purificare il cuore dell’uomo poiché Dio stava per realizzare il suo regno sulla terra e bisogna-

va essere pronti. Tutto il resto passava in secondo piano. Questo era il suo compito, la sua missione. Ne era si -

curo.

C'era solo il tempo per predicare la buona novella, per far conoscere alla gente quello che doveva fare per en-

trare nel nuovo regno e per salvarsi nell'imminente giudizio finale. Il Signore stava per separare definitivamente

i buoni dai cattivi, gli agnelli dai capri. Non c'era tempo per fare altro che non fosse la divulgazione di questa

novità.

Le Sacre Scritture lo avevano previsto da tempo, ma nessuno ancora aveva osato proporsi come il Messia della

salvezza interiore, quella dei cuori puri e delle menti pure. Neanche lui era sicuro di esserlo, ma voleva provar-

ci, voleva iniziare un percorso sconosciuto, pieno di speranza e di timore, convinto che, se fosse stato nel giu-

sto, Dio non avrebbe mancato di sorreggerlo, incoraggiarlo, guidarlo. Se poi Dio voleva dal Messia anche altro,

lui era pronto. Dio non doveva fare altro che manifestarsi.

Gesù convinse due discepoli del Battista: Giovanni, figlio di Zebedeo, e Andrea, due pescatori nati a Betsaida,

in Galilea, a seguirlo. Nei giorni seguenti Andrea presentò a Gesù suo fratello Simone. Anche lui abbandonò

gli insegnamenti del Battista e si fece seguace di Gesù, che da quel giorno lo chiamò Cefa, cioè Pietro.

Molti altri abbandonarono Giovanni per quel nuovo profeta, attratti dalla sua eloquenza e dal suo modo di com-

portarsi. Anziché appartarsi nel deserto come Giovanni, Gesù iniziò la sua predicazione nel più mite e gradevo-

le paesaggio del lago di Genezareth, il più ameno dell’intera regione.

Si mescolava ogni giorno con tutti coloro che venivano ad ascoltarlo e non gli importava niente se tra loro ci

fossero anche i pubblicani, le prostitute, i poveri, i dissoluti. Non si rifiutava di bere, mangiare e ridere con

loro, quando poteva.

I più felici, nell'ascoltarlo, erano proprio i poveri. I contadini, i pescatori, gli operai, i pastori, la gente semplice

e umile, la gente avvezza a subire soprusi, gli ammalati, i vecchi, i bisognosi non staccavano mai gli occhi da

Gesù. Avrebbero voluto che seguitasse ancora a parlare, che rivelasse il giorno del nuovo Regno, perché potes-

sero anche loro riaversi di tutta quella miseria e rifarsi delle tribolazioni.

Immagini di vendemmie, di banchetti, di abbondanza invadevano le loro anime e si sentivano sollevati.

Poco dopo Giovanni fu arrestato dai soldati di Erode; i suoi discepoli si dispersero e molti si unirono a Gesù.

Questo lo spronò a dedicarsi ancor più attivamente alla predicazione e, nello stesso tempo, a farsi più cauto, li-

mitando l’aspetto messianico sempre più alla sfera interiore.

Scelse i suoi discepoli tra la gente della sua terra di Galilea, per lo più incolti contadini e pescatori del lago di

Genezareth, pomposamente detto "mare di Galilea"; gente semplice, dotata di una religiosità popolare, molto

diversa da quella dei Farisei, dei sacerdoti di Gerusalemme e degli abitanti delle città.

La Galilea era nota per essere la terra dei pagani poiché vi vivevano Fenici, Siri, Arabi ed anche Greci. Non

erano rare neanche le conversioni di costoro al giudaismo.

Per comprendere il significato della scelta dei discepoli fatta da Gesù, di grande rottura e molto provocatoria, è

necessario ricordare che gli Scribi consideravano il popolo incolto alla stregua di animali. Giunsero a equipara-

re il matrimonio che uno di loro avesse contratto con la figlia di uno del popolo ai rapporti sessuali con gli ani-

mali, puniti con la morte.

Questa scelta di rottura con la tradizione, come tante altre che farà in seguito, procurò a Gesù molti nemici tra i

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detentori del potere, sia civile che religioso, fedeli all'ortodossia più intransigente, timorosi di ogni novità.

Per Gesù non c’era più tempo da perdere; coloro che volevano salvarsi dovevano mondare i loro cuori e abban-

donare le cose del mondo, i beni terreni. Anche i legami affettivi, nell’imminenza dell’ultima ora, non contava-

no più nulla, neanche quelli con i genitori, le mogli e i figli.

Questa era la sua missione: comunicare a tutto il popolo l'imminente fine del mondo e il modo di comportarsi

per salvarsi dalla morte e meritare la felicità perpetua. Il nuovo mondo, da tempo profetizzato, stava per avere

inizio.

L'uomo nuovo, completamente trasformato, stava per nascere. Anzi era già nato con lui e doveva solo convince-

re gli altri ad imitarlo. Doveva convincerli che il nuovo Regno era prossimo e che tutto ciò era vero e possibile.

Doveva suscitare fiducia: la fede.

Senza la fede la Buona Novella non si sarebbe avverata.

Gesù pensava in continuazione alla profezia di Isaia con la quale si annuncia la venuta del re giusto, del Mes-

sia:

"Il lupo abita con l’agnello, la pantera si sdraia accanto al capretto, un vitello e un leoncino pascolano assie-

me sotto la guida di un fanciullo. La vacca e l’orsa sono in amicizia, i loro piccoli si coricano assieme. Il leone

mangia la paglia come il bue. Il lattante gioca sulla tana del serpente, il bambino mette la mano sulla buca

della vipera".

Ed anche:

"Delle loro spade faranno vomeri e delle loro lance, falci. Le nazioni non alzeranno più la spada l’una contro

l’altra e non ci si eserciterà più alla guerra. Ma ciascuno se ne starà seduto sotto la sua vigna e sotto il suo

fico, senza che nessuno l’inquieti".

Come pure pensava al profeta Ezechiele che, 600 anni prima, deportato a Babilonia, per consolare gli esuli

Ebrei dispersi nel mondo e far mantenere loro salda la fede aveva profetizzato:

"Figlio d’uomo, ora profetizza in favore dei monti d’Israele....Così parla il Signore Dio: Appunto perché voi

siete stati devastati, e calpestati da ogni parte e siete ora in possesso di altre nazioni, formando l’oggetto dei

discorsi e degli insulti della gente..... Così parla il Signore Dio ai monti e alle colline, ai burroni e alle valli,

alle rovine deserte e alle città distrutte, che furono preda e scherno dei popoli circonvicini.... Sì, lo giuro, nel-

l’ardore della mia gelosia, io mi rivolgo alle popolazioni rimaste dei paesi confinanti e a tutta l’Idumea, i quali

si sono attribuiti il possesso della mia terra, con la gioia nel cuore e il disprezzo nell’anima, per farne loro

preda......Eccomi! Nella mia gelosia e nel mio furore io ho detto: poiché voi siete stati esposti all’obbrobrio

delle genti, così parla il Signore Dio, io alzo la mia mano e giuro che le genti circonvicine subiranno il loro

obbrobrio.... E voi, o monti d’Israele, gettate i vostri rami e riproducete i vostri frutti per il mio popolo, Israe-

le, perché è vicino il suo ritorno".

"E se Dio avesse scelto proprio me come Messia?" andava pensando Gesù. E si rattristava perché la volontà di

Dio non si manifestava in lui chiaramente. "Forse a causa dei miei peccati", pensava.

Con ciò i dubbi tornavano, di nuovo, prepotenti. Qual era la sua vera missione? Guidare il suo popolo verso il

nuovo regno, come aveva fatto Mosè o cacciare i Romani dalla sua patria come aveva fatto Giosuè?

Dio non si pronunciava.

E se avessero avuto ragione certi filosofi greci, quelli che pensavano a un Dio unico, perfetto e immobile, sem-

pre lo stesso, sia nel passato, che nel presente, che nel futuro? Un Dio perfetto e pago di se stesso, del tutto in-

differente alle vicende umane?

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Subito Gesù scacciava questi pensieri. Il Dio d’Israele non poteva non mantenere le promesse fatte al suo popo-

lo. La fine dei tempi era vicina, il nuovo regno stava per iniziare.

In Giudea l’aspettativa era al colmo. Santi uomini vivevano la loro vita intorno al tempio, digiunando e pregan-

do perché piacesse a Dio non richiamarli dal mondo prima che avessero veduto compiersi le speranze d’Israele.

L’idea che Gesù coltivava con più assiduità, di cui sentiva profondamente l’imminenza, era l’instaurazione del

regno di Dio. Quello che ancora non riusciva a vedere con chiarezza era in che modo questo nuovo regno si sa -

rebbe avverato. Poteva essere semplicemente il regno dei poveri e dei diseredati. Poteva essere il regno dei san-

ti, delle apocalittiche e grandiose visioni di Daniele e di Enoch, ma poteva essere anche il regno delle anime, e

l'imminente redenzione significare la rinascita spirituale, una nuova interpretazione della legge.

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9 - Ritorno a Nazareth e fuga

Ora Gesù, avendo udito che Giovanni era stato messo in carcere, per prudenza, si ritirò in Galilea.

Egli insegnava nelle sinagoghe, apprezzato da tutti. E la sua fama di conferenziere e guaritore, di taumaturgo ed

esorcista si diffuse per tutto il paese.

Egli predicava il Vangelo di Dio dicendo:

"Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; pentitevi e credete al Vangelo".

Un giorno alcuni suoi discepoli lo pregarono di recarsi a predicare anche a Nazareth.

Rimase dubbioso e incerto sul da farsi. Temeva che i suoi compaesani, che lo avevano conosciuto fanciullo e

visto crescere nella bottega del padre, non lo accettassero quale maestro e profeta. Tuttavia desiderava predicare

la buona novella anche tra i suoi compaesani.

Decise così di tornare a Nazareth, dove era stato allevato e, secondo il suo costume, entrò nella sinagoga in

giorno di sabato per fare la lettura e il commento della parola di Dio.

Nella sinagoga la parola di Dio veniva letta e spiegata dagli Scribi, laici esperti nella Legge. La sinagoga era un

luogo democratico, a differenza del tempio di Gerusalemme, dove il servizio divino aveva un carattere gerar-

chico- sacrale, ed era celebrato da sacerdoti. Il punto culminante del culto si aveva con il sacrificio cruento di

un animale, in mezzo a fumi di incenso e canti liturgici accompagnati da musiche.

Nel suo paese natale Gesù era noto come esperto della Legge e gli fu presentato il rotolo del profeta Isaia e,

svolto che l'ebbe, trovò il passo dov'era scritto:

"Lo spirito di Dio il Signore è sopra di me, poiché il Signore mi ha unto. Mi ha mandato a predicare ai poveri,

a fasciare i cuori spezzati, ad annunciare ai prigionieri la libertà, ai rinchiusi che verrà loro aperto, ad annun-

ciare un anno di grazia del Signore e un giorno di vendetta del nostro Dio, a consolare tutti gli afflitti".

Restituito il libro al ministro si sedette e iniziò a parlare. Egli si esprimeva molto bene; tutta la gente era mera-

vigliata delle sue parole e lo ascoltava con piacere.

Ma quando disse:

"Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete udito poco fa coi vostri orecchi", un mormorio si levò nell'a-

ria.

Alcuni esclamarono: "Non è lui il figlio di Giuseppe?".

Nella sinagoga erano presenti anche i fratelli di Gesù: Giacomo, Giose e Giuda, nonché le sue due sorelle, Mel-

ca ed Escha, nel recinto riservato alle donne, con Maria.

Le donne erano entrate nella sinagoga dalla porta laterale, come prescritto.

Giose non perse l'occasione per intervenire. Con aria sprezzante ricordò a tutti che la fama di suo fratello era

giunta anche a Nazareth. Si sapeva dei miracoli, delle guarigioni e dei prodigi compiuti a Cafarnao. Rivolgen-

dosi direttamente a Gesù lo sfidò: "Ebbene, se sei capace di compiere prodigi, falli anche qui, nella tua patria.

Anzi, nostro padre è a casa in fin di vita, vai e guariscilo".

Ma egli disse loro:

"In verità vi dico: nessun profeta è bene accetto in patria sua".

E ricordò come al tempo di Elia ci fu una terribile carestia e molte vedove d'Israele soffrivano la fame, ma Elia

moltiplicò la farina e l'olio della sola vedova di Sarefta, nel territorio di Sidone, e ne risuscitò il figlio.

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Ricordò anche che al tempo del profeta Eliseo vi erano molti lebbrosi in Israele, ma nessuno di loro fu monda-

to, eccetto il Siro Naaman.

Come un seme per nascere ha bisogno di terra fertile, così il miracolo ha bisogno di fede. In un ambiente ostile

nessuno può compiere miracoli. Il "miracolo" nasce dalla forza di suggestione e di autosuggestione e nelle ma-

lattie dello spirito più del medico può il taumaturgo, il carismatico. Se la gente ha fede in lui.

"Poiché non avete fede e non credete in me io non posso fare nessun miracolo", disse Gesù.

All'udir queste parole tutti i presenti nella sinagoga si sentirono pieni di sdegno e, levatisi, lo cacciarono fuori

dalla città e lo condussero fin sopra una rupe del colle su cui la loro città era edificata, per precipitarlo di sotto.

Ma lui, passando in mezzo alla folla, se ne andò assicurando che non avrebbe mai più messo piede a Nazareth.

Era triste e molto dispiaciuto. Aveva temuto il ritorno a Nazareth ma, sperando che la sua fama l'avesse prece-

duto, aveva confidato in un'accoglienza migliore.

Ma a Nazareth erano troppo conosciuti, sia lui che la sua modesta famiglia. L’uomo di cui ogni giorno la gente

vedeva per strada i fratelli, le sorelle, i cognati, non poteva essere ritenuto il figlio di Davide. La sua autorità

venne messa in discussione, la gente non credette in lui, e Gesù non poté compiere alcun miracolo.

Gesù sapeva che Giuseppe era in fin di vita e avrebbe voluto rivederlo. Soprattutto avrebbe voluto rivedere sua

madre. Ella era senz'altro informata della sua predicazione e dei suoi successi, e Gesù desiderava tanto poterle

parlare e abbracciarla. Era passato tanto tempo da quando se n'era andato e molte cose erano cambiate. Ma non

gli fu possibile.

Allontanandosi da Nazareth Gesù lasciò detto che sarebbe andato ad abitare a Cafarnao, in riva al lago di Tibe -

riade, il mare di Galilea per gli Ebrei, sperando che andasse a fargli visita la madre.

La sua abituale dimora era presso la casa di due fratelli, Simone, detto Pietro, e Andrea, figli di Giona. Pietro

era sposato ed aveva figli; con lui abitava anche la suocera. I due fratelli, pescatori, seguirono Gesù ma conti-

nuarono a svolgere anche la loro professione per tutto il tempo della predicazione di Gesù.

A Cafarnao v’era anche la casa di Zebedeo, pescatore agiato e padrone di numerose barche, padre di Giacomo e

del giovanissimo Giovanni, anche loro zelanti seguaci del Nazareno. A causa del loro eccessivo zelo Gesù li

chiamava "figli del tuono", poiché se avessero potuto disporre della folgore l’avrebbero usata in ogni occasio-

ne. Soprattutto contro i Romani, essendo Zeloti.

Seguivano assiduamente il maestro anche Filippo di Betsaida, Natanaele di Cana, Matteo, Tommaso o Didimo.

Tutti erano pescatori, di animo semplice e credevano fermamente negli spettri e negli spiriti. Unica eccezione

Matteo, che era stato pubblicano, cioè un agente che lavorava per conto degli esattori delle tasse di Roma, i

pubblicani.

In nessun paese questa professione è stata popolare, ma tra i Giudei era considerata un crimine. Pagare l’impo-

sta non era considerato solo un segno di indegno vassallaggio, ma un vero proprio atto di paganesimo. Gli Ebrei

che accettavano tali funzioni erano scomunicati, non potevano fare testamento, la loro casa era maledetta e ve-

nivano messi al bando dalla società.

Gesù accettò di partecipare a un pranzo proprio a casa di Matteo. Fu uno scandalo: il maestro che gozzovigliava

con i pubblicani e i peccatori! Ma Gesù si curava poco del parere dei benpensanti, dei loro pregiudizi e cercava

di alleviare le sofferenze dei più umili.

Facevano parte della comitiva anche Giacomo e Giuda, figli di Maria Cleofe, cugini di Gesù. Dei fratelli e so-

relle di Gesù nessuno volle seguirlo, né volle seguirlo Maria, sua madre. Solo Giacomo dimostrava interesse

per la sua predicazione e condivideva le sue idee, ma solo raramente si allontanava da Nazareth.

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Tra tutti i discepoli ve ne era uno solo non galileo, Giuda figlio di Simone, della città di Keriot, una città all’e-

stremità meridionale della tribù di Giuda, una giornata di cammino al di là di Hebron. Colui che lo tradì.

Tra i discepoli, quelli in maggiore intimità con Gesù erano: Pietro e i due fratelli Giacomo e Giovanni, che era-

no anche soci di Pietro nell’attività di pesca. A loro Gesù si rivolgeva nei momenti difficili, li consultava, li te-

neva in grande confidenza.

Tra coloro che seguivano costantemente Gesù v’erano anche alcune donne galilee. Una di esse, Maria di Mag-

dala, che tanto famoso rese nel mondo il nome della sua povera borgata, sembra fosse dotata di una sfrenata

fantasia. Secondo il linguaggio di allora, era stata posseduta da sette demoni, cioè affetta da malattie nervose,

all'apparenza inesplicabili. La dolcezza di Gesù calmò quell’organismo sconvolto. Maddalena gli restò fedele

fino al Golgota e fu lo strumento principale con cui fu stabilita, dagli evangelisti, la fede nella resurrezione di

Gesù.

Altre donne lo seguivano e lo servivano, alcune di esse erano anche ricche e con la loro fortuna davano modo al

giovane profeta di vivere senza esercitare il mestiere di falegname sino ad allora svolto.

Tutti erano irresistibilmente attratti e conquistati dalla parola di questo rivoluzionario predicatore. Egli era dol-

ce e soave, ispirava pace e serenità. Un alone di mistero lo circondava, e lui cercava di alimentarlo facendo cre-

dere che una rivelazione dall’alto gli svelasse i segreti delle persone che lo circondavano. Alcuni credevano che

quando si appartava sulle montagne parlasse con Mosè ed Elia, altri che gli angeli venissero a fargli visita. Una

sua parola di conforto, una carezza, uno sguardo dolce avevano il potere di rendere la pace a persone tormentate

e inquiete.

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10 - Discorso della montagna

Molti discepoli seguivano Gesù per ascoltare la sua parola. Alcuni erano più assidui degli altri.

Un giorno Gesù salì con loro sul monte a pregare e, dopo una notte di preghiera, chiamò Apostoli quelli rimasti

con lui.

La sua intenzione era di istruirli più profondamente degli altri in modo da poterli mandare, a due a due, a predi-

care da soli la buona novella. La fine dei tempi era vicina e l’annuncio del Vangelo doveva essere portato a tut-

to Israele.

Mentre scendevano si fermarono e alcuni gli chiesero:

"I discepoli di Giovanni, come pure quelli dei farisei, digiunano spesso e fanno delle preghiere, mentre i tuoi

mangiano e bevono".

Egli rispose loro:

"Potete voi far digiunare gli amici dello sposo mentre lo sposo è con loro?".

Io sono venuto ad annunciare la buona novella ai poveri, ai miserabili, agli analfabeti, ai derelitti. Sono venuto

ad annunciare la fine delle loro tribolazioni, perché mai dovrei caricarli di altre privazioni oltre quelle che già

hanno?

Per noi, come per ogni povero, è già difficile trovare di che sfamarci; perché mai dovremmo digiunare quando

troviamo chi ci offre del cibo?

Non è con il digiuno che vi guadagnerete la salvezza, né con il digiuno entrerete nel Regno del Figlio dell'Uo-

mo!

Ogni uomo è figlio di Dio. Ogni figlio è simile al Padre. Ogni uomo sarà Re, nel mio regno.

Si fermò in un ripiano dove c'erano altri discepoli ed anche altra gente e, sollevando lo sguardo sopra di essi,

riassumendo tutto il suo insegnamento e tutte le condizioni necessarie per entrare nel nuovo Regno, con espres -

sione ispirata e rapita disse:

"Beati i poveri di spirito, poiché loro è il regno dei cieli!"

"Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati!"

"Beati voi, che ora piangete, perché riderete!"

"Beati i puri di cuore, poiché vedranno Dio!"

"Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati!"

"Beati i miti, poiché possederanno il regno della terra!"

"Beati sarete quando gli uomini vi odieranno, quando sarete espulsi e vi insulteranno e il vostro nome sarà

proscritto come infame a causa del Figlio dell'uomo!"

Il volto di Gesù era radioso quando annunciava ai poveri la fine delle loro sventure. Egli si trasfigurava, sogna-

va, credeva in un mondo nuovo e predicava e lavorava per realizzarlo.

E i suoi comandamenti li voleva incidere sui cuori delle persone che lo ascoltavano, non sulla pietra, fredda e

insensibile, né sulla carta, appannaggio degli Scribi colti e aridi.

Gesù aveva imparato sin da bambino a disprezzare la ricchezza, i beni materiali posseduti da pochi per lo più a

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scapito di altri, essendo stata la fonte dei litigi con Giose. In seguito aveva acuito questo modo di pensare stan-

do nel deserto con Giovanni e con i monaci di Qumran. Nel lodare i poveri di spirito intendeva esaltare gli in -

colti a danno degli Scribi.

Giuda, invece, rimase molto male nel sentire che venivano esaltati i miti e dubitò del suo Messia. Non sembra-

va più lo stesso. Prima predicava: "Io non sono venuto a portare la pace ma la spada" ed anche: "Io sono venu-

to ad accendere un fuoco sulla terra" ed ora sembrava rassegnato.

Gesù fece pochi passi e tra la folla vide un certo Simeone, noto proprietario di terre, di servi, di garzoni, ricco e

avaro.

Gli sembrò che stesse sorridendo, con sarcasmo. Subito Gesù si fermò e riprese a parlare:

"Ma guai a voi, o ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione!"

"Guai a voi, che ora siete sazi, perché patirete la fame!"

"Guai a voi che ora ridete, perché sarete nel dolore e nel pianto!"

"Piangete, urlate sulle sciagure che stanno per colpirvi. La vostra ricchezza è imputridita, le vostre vesti sono

divorate dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine. Avete accumulato tesori

per l’ultimo giorno! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terra grida; e

le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi

siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage".

"Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. La venuta del Signore è prossima. Il giudice è alle

porte".

Simeone, con i suoi servi, si allontanò sdegnato.

Pietro, il primo degli apostoli per dedizione e presenza alle riunioni, non comprese bene cosa volesse intendere

Gesù e domandò a Giuda Iscariota, l'apostolo che avrebbe tradito Gesù, cosa volesse dire il Maestro.

Giuda, che si era unito ai discepoli convinto che, prima o poi, Gesù avrebbe sollevato il popolo contro i Romani

e conquistato il Regno d'Israele, dividendo con gli apostoli il potere, gli spiegò così il discorso di Gesù: "Il

Maestro ha detto che dobbiamo consolare i poveri, promettendo loro tutte le felicità possibili nel nuovo regno, a

condizione che ora ci seguano e facciano quello che noi gli diciamo. Mentre i ricchi, se vogliono salvarsi, deb-

bono donarci tutte le loro ricchezze. Noi le utilizzeremo per rendere forte e potente la nostra comunità di fede-

li".

Giuda Iscariota era il cassiere della comunità nascente intorno a Gesù, il cassiere della prima Chiesa.

Simon Pietro non dimenticò mai le parole di Gesù, così come le apprese attraverso Giuda, e così le tramandò ai

suoi successori.

Gesù, incurante del brusio intorno a lui, continuò l'esposizione dei suoi precetti per entrare nel regno del Figlio

dell'Uomo:

"Amate i vostri nemici; fate del bene a quelli che vi odiano; benedite quelli che vi maledicono; pregate per i

vostri calunniatori".

"A chi ti percuote su una guancia , porgi anche l'altra".

"A chi ti porta via il mantello, non impedire di prenderti anche la veste".

"Come volete che gli uomini facciano a voi, così voi fate a loro".

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Gesù sapeva che nessun uomo, prima di lui, si era spinto a insegnare in maniera così radicale l'amore per i ne -

mici. Egli ripeteva sempre: "Amate i vostri nemici, fate del bene, date in prestito senza sperar niente; allora la

vostra ricompensa sarà grande".

Questo sogno meraviglioso Gesù l'ha avuto guardando e vivendo tra i poveri, gli oppressi, i perseguitati, i con-

dannati. Lo ha coltivato meditando in solitudine nel deserto. Lo ha invigorito osservando il comportamento dei

potenti e dei prepotenti. E lo ha reso precetto di vita quotidiana, l'unico capace di mutare gli uomini. Anzi, ca-

pace di rendere gli uomini superiori agli dèi. Con questa sublime intuizione, praticata fino alle estreme conse-

guenze, egli ha superato lo stesso concetto che fino allora il mondo aveva di Dio. Ogni Dio, infatti, e in modo

particolare quello ebraico, era geloso e vendicativo, puniva coloro che non seguivano i suoi comandi e premia-

va gli altri. Il Dio degli ebrei non aveva forse cacciato per sempre dal paradiso l'angelo ribelle, il nemico, l'irri-

ducibile satana? Alla richiesta di Lucifero Dio non ha mostrato l'altra guancia, non gli ha dato il doppio di

quanto chiedeva. E con Adamo non ha fatto lo stesso? Gesù, invece, insegnava l'amore per i nemici e questa

folle idea, felice intuizione capace di cambiare il mondo, lo riempiva di gioia, lo trasformava, lo inebriava, lo

trasfigurava.

E continuava ad ammaestrare dicendo:

"Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati".

"Perché mi chiamate Signore, Signore! e poi non fate quello che dico? Ognuno che viene a me , ascolta le mie

parole e le mette in pratica".

"Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto ad abolire, ma a completare".

"E' stato detto: chiunque rimanda la propria moglie, le dia il libello del ripudio; ma io vi dico: Chi manda via

la sua moglie, eccetto in caso di fornicazione, l'espone all'adulterio; e chi sposa la ripudiata, commette pure

adulterio".

"Sapete che fu detto agli antichi: non spergiurare. Io però vi dico di non giurare mai. Ma sia il vostro parlare:

sì, sì; no, no; quel che è di più appartiene al male".

"Voi sapete che è stato detto: occhio per occhio, dente per dente. Ma io vi dico di non resistere al malvagio.

Anzi se uno ti percuote nella guancia destra, porgigli anche l'altra".

"Voi sapete che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici,

pregate per coloro che vi perseguitano".

"Come volete che la gente faccia a voi, così fate voi a loro. Questa è la Legge e i Profeti".

"Quando tu fai elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle chiese e nelle stra-

de, per essere onorati dagli uomini".

"E quando pregate, non fate come gli ipocriti, i quali hanno piacere di pregare in piedi nelle chiese o sugli an-

goli delle piazze, per essere veduti dagli uomini. In verità vi dico han già ricevuto la loro ricompensa.

Ma tu quando vuoi pregare, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è nel segreto; e il

Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. E quando pregate, non moltiplicate vane parole,

come i pagani, che credono di essere esauditi a forza di parole. Il Padre vostro sa di che cosa avete bisogno,

prima che gliela chiediate".

Gesù elimina così un altro rituale tanto caro ai preti: la preghiera. Anzi elimina sia il tempio, cioè la chiesa, che

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i sacerdoti. Il rapporto di ogni persona, di ogni figlio di Dio, deve essere immediato e diretto con il proprio pa -

dre. La casa di Dio è l'universo intero e per pregarlo non c'è bisogno di recarsi in un luogo particolare. Anzi,

per pregare bene ognuno deve isolarsi dal mondo per poter aprire completamente il proprio cuore a Dio. La sal-

vezza consiste nel libero rapporto d'amore con Dio. Non sono ammessi intermediari, non servono le formule

stereotipate, non serve la liturgia, non servono le offerte né le decime e, tanto meno, i preti.

Tuttavia gli apostoli insistettero a lungo affinché il Maestro insegnasse loro almeno una preghiera e Gesù, so-

spirando, distratto e di malavoglia, disse:

"Voi dunque pregate così: Padre mio che sei nei cieli, venga il tuo regno; io farò la tua volontà".

Una preghiera semplice, l'invocazione di un figlio al padre, del tutto personale, da pronunciare nel chiuso del

proprio cuore, senza che altri ci odano, a tu per tu con Dio. Poiché Egli conosce i nostri bisogni e i nostri desi-

deri non è necessario ricordarglieli.

Gesù continuò dicendo:

"Quando digiunate non prendete un'aria melanconica, come gli ipocriti. Ma tu, quando digiuni, profumati il

capo e lavati la faccia, per non mostrare agli uomini che tu digiuni".

"Non vogliate accumulare tesori sulla terra, ma accumulateli in cielo".

" Non giudicate per non essere giudicati.

"Perché osservi la paglia nell’occhio del tuo fratello, e non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?".

Gli apostoli rimasero perplessi. Il brusio tra i discepoli aumentò. La vecchia Legge non poteva essere capovolta

con parole più chiare e assolute. La riforma dell'uomo non poteva essere più totale. L'uomo nuovo è l'uomo in-

teriore, solo davanti a se stesso e a Dio.

Molti, tra quelli che lo avevano ascoltato, se ne andavano via scuotendo il capo, contrariati.

Simon Pietro, incredulo, confuso e allarmato più del solito dalle parole di Gesù, chiese a Giuda Iscariota se do-

vevano essere messi in pratica proprio tutti quei precetti per meritare la salvezza e per entrare nel regno del Si-

gnore.

Giuda, sorridendo, rassicurò Pietro: "No Simone, no! Il Maestro ha detto quello che noi, suoi apostoli, dobbia-

mo predicare alla gente, al popolo. Noi siamo i Ministri del nuovo Regno. Noi dobbiamo solo spronare ed esor-

tare il popolo al rispetto dei nuovi precetti".

Simon Pietro non dimenticò mai gli insegnamenti di Gesù, come li apprese attraverso Giuda, e così li tramandò

ai suoi successori.

Mentre stavano scendendo verso Cafarnao, furono raggiunti da due garzoni di Zebedeo, padre degli apostoli

Giacomo e Giovanni, il prediletto di Gesù.

Zebedeo, pescatore, aveva avuto una pesca straordinaria e pensò di mandare a Gesù e ai suoi discepoli due ceste

di pesce e tre di pane. Portarono anche l'occorrente per arrostirlo alla brace.

Simon Pietro si mise subito al lavoro e tutti ne mangiarono a sazietà.

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11 - Le parabole

Gesù non insegnò solamente per mezzo dell'esempio e della predicazione, ma anche per mezzo delle parabole,

alla maniera degli Scribi.

Le aveva apprese, assieme agli aforismi, dai libri dell’Antico Testamento; altre da più moderni saggi, partico-

larmente da Antigono di Soco e Gesù figlio di Sirach, giunte fino a lui come proverbi spesso ripetuti nella sina-

goga e tra la gente.

Dal rabbino Hillel, il grande Hillel maestro di Gamaliele, vissuto pochi anni prima, aveva appreso: "Non fare

agli altri ciò che a te non piace: questa è tutta la legge, il resto non è che commento".

Le parabole erano il mezzo migliore per comprendere la parola di Dio. Venivano prese dal paesaggio e dalla

vita quotidiana della campagna.

In quel tempo la poligamia era ancora in uso in Israele tanto che v’era una scherzosa parabola di un uomo che

aveva due mogli, una giovane e una vecchia. La giovane gli strappava i peli bianchi dalla barba, la vecchia

quelli neri, sicché alla fine egli rimase sbarbato.

Dalla gran quantità di parabole, per lo più comprensibili anche ai fanciulli, emergono quella del buon samarita-

no, che si riferisce ai doveri di ogni uomo verso il prossimo ed è collegata al primo ed al più grande dei coman-

damenti, quello dell’amore per il prossimo, e la parabola del "ricco".

Un dottore della legge chiede a Gesù che cosa deve fare per meritare la vita eterna. Secondo lo stile tipico dei

dibattiti ebraici e orientali, Gesù risponde alla domanda con un’altra domanda: "Che cosa sta scritto nella To-

rah?". Lo scriba risponde citando il comandamento dell’amore per Dio e il comandamento dell’amore per il

prossimo.

Ma il dottore della legge si trova ora di fronte all’interrogativo: chi è il mio prossimo?

"Gesù rispondendo disse: Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti; questi lo spo-

gliarono e lo percossero e se ne andarono e lo lasciarono mezzo morto. Accadde per caso che un sacerdote

scendesse per quella stessa strada; e quando lo vide, passò oltre. E così pure un levita; quando venne in quel

luogo e lo vide, passò oltre. Ma un samaritano era in viaggio e giunse lì; e quando lo vide, ne ebbe compassio-

ne, gli si avvicinò, versò olio e vino sulle sue ferite e gliele fasciò e lo coricò sul suo animale e lo portò in una

locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo estrasse due denari d’argento e li diede all’oste e gli disse: Pren-

diti cura di lui; e ciò che spenderai di più, te lo ripagherò al mio ritorno.

Chi di questi tre pensi che sia stato il prossimo di colui che era incappato nei briganti? Egli disse: Colui che

gli usò misericordia. Allora Gesù gli disse: Va’ e fa’ lo stesso!".

Per gli orgogliosi Ebrei, che solevano ripetere "la salvezza viene dagli Ebrei", era proibito avere rapporti con i

Samaritani ai quali era stato proibito di frequentare il tempio a Gerusalemme. E Gesù, ebreo, dottore della leg-

ge, addita ad un altro dottore della legge il comportamento di un samaritano come corretto adempimento della

legge.

Ciò costituiva indubbiamente uno scandalo anche perché i Samaritani erano considerati infidi e sospettati di se-

greta idolatria. L’inaudita e intollerabile provocazione diviene chiara solo se si tiene presente che un dottore

della legge viene invitato a prendere per proprio modello un samaritano e ad apprendere da lui l’esatta interpre-

tazione della legge.

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Questa parabola è una delle più belle e non perde mai la propria attualità. L’uomo che soffre, indipendentemen-

te dal motivo per cui soffre, è il nostro prossimo. Ed è la carità, non la fede religiosa, a stabilire la vera fratel-

lanza fra gli uomini.

La parabola del ricco dice:

"V’era un uomo ricco, il quale vestiva di porpora e di bisso e faceva ogni giorno sontuosi banchetti. E v’era un

mendicante di nome Lazzaro, il quale, coperto d’ulcere, giaceva sull’uscio di lui, bramoso di sfamarsi delle

briciole che cadevano dalla mensa del ricco. E i cani andavano a leccargli le piaghe. Or avvenne che il povero

morì, e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco, e fu sepolto. E dal fondo dell’inferno,

essendo nei tormenti, levò gli occhi e vide da lontano Abramo e Lazzaro nel suo seno. E gridò e disse: Padre

Abramo, abbi misericordia di me e manda Lazzaro perché intinga la punta del suo dito nell’acqua per rinfre-

scare la mia lingua, poiché io soffro crudelmente in questa fiamma. E Abramo gli rispose: Figliuolo, ricordati

che in vita tu hai ricevuto la tua parte di bene, e Lazzaro la sua di male. Adesso egli è consolato e tu nei tor-

menti".

Cosa potevano desiderare di più giusto gli ascoltatori di Gesù? Il ricco è condannato per il solo fatto di essere

ricco, per non essersi privato dei suoi beni a favore dei poveri e della comunità.

Ma non tutti erano d’accordo, infatti l’evangelista aggiunge: "E i Farisei, ch’erano avari, udivano queste cose

e di lui si beffavano".

Tuttavia alcune parabole ed alcune espressioni risultavano incomprensibili e lasciavano perplessi, come la para-

bola del fico: "Egli ebbe fame; e vedendo di lontano un fico fronzuto, andò a vedere se vi fosse anche frutto;

ma essendosi avvicinato, non vi trovò che foglie; perché non era la stagione dei fichi. E Gesù prese a dire al

fico: ‘Nessuno mangi più del tuo frutto’ " E Pietro gli disse: "Maestro, il fico che tu maledicesti, è seccato".

Quale colpa aveva l’albero se non era la stagione dei fichi?

C'è l'episodio dei maiali di Gerasa: i demoni furono costretti a entrare nel corpo dei maiali che, poi, precipitaro-

no nel mare. Una violenza nei confronti dei maiali del tutto inutile. I demoni potevano essere scacciati senza far

soffrire altre creature.

Alcune espressioni, molto dure, rivolte alla madre lasciavano ancor più interdetti: "Che v'è fra me e te, o

donna?" Oppure: "Io sono venuto a mettere in discordia il figliuolo con il padre, la figliuola con la madre, la

nuora con la suocera. Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me".

Che dire della graziosa parabola del figliuol prodigo, dove chi ha peccato risulta privilegiato rispetto a colui

che fu sempre giusto? Della parabola dei vignaioli, dove coloro che lavorarono l'intero giorno furono pagati

allo stesso modo di quelli che lavorarono una sola ora? E della parabola delle monete d'oro dove un uomo, che

doveva fare un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi averi, secondo le loro capacità.

Quando, dopo molto tempo, il padrone tornò fece i conti e fece partecipare alla sua gioia i servi che ebbero fat-

to fruttare a dovere i soldi avuti. Punì, invece, il servo cui lasciò poco perché scarse erano le sue capacità e, di

conseguenza, non fece fruttare a dovere quanto avuto con queste misteriose parole: "chi ha molto riceverà an-

cor di più e sarà nell'abbondanza; chi ha poco, gli porteranno via anche quel poco che ha. Così sarà il regno

di Dio".

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12 - Le istruzioni per la predicazione

Era già passato un anno da quando Gesù aveva iniziato la predicazione, visitando le città e i villaggi, predican-

do il "vangelo" cioè la "bella notizia", la "buona novella", parlando in ogni sinagoga, di sabato. La sua "religio-

ne" era la semplice religione del cuore, senza riti, senza alcuna pratica religiosa, e la preghiera doveva essere

solo quella spontanea, non codificata. L'unica preghiera suggerita da Gesù ai suoi discepoli, dietro loro insi -

stenza, è stata il Padre Nostro: una preghiera senza letteratura e senza teologia. L'invocazione di un figlio al pa-

dre. E non mancò di raccomandare preghiere corte e, soprattutto, segrete.

L’autorità del giovane maestro cresceva ogni giorno e più gli altri credevano in lui, più egli credeva in se stes -

so.

I discepoli che lo avevano seguito e ascoltato più degli altri, quelli più fidati, erano già pronti per essere inviati

a predicare da soli la buona novella, l'avvento del Regno. Così vennero inviati quali "messaggeri", cioè "aposto-

li", a parlare del nuovo regno, a fare propaganda e a preparare la successiva visita del Maestro.

Gesù li inviò dicendo di predicare: "Il Regno dei cieli è vicino".

Raccomandò loro di limitare la predicazione della buona novella al solo popolo ebraico e di non portare ap-

presso né oro, né argento, né moneta, né borsa, né vestiti e scarpe di ricambio e disse:

"Non andate fra i gentili e non entrate nelle città dei Samaritani; ma andate piuttosto alle pecore perdute della

casa d’Israele".

"La salvezza viene dagli Ebrei".

"Ma, Signore, come faremo per mangiare e per dormire?", domandarono preoccupati gli apostoli.

E Gesù disse: "In qualunque città o villaggio entrerete, informatevi se vi è qualcuno degno e dimorate presso

di lui, fino alla vostra partenza. E se qualcuno non vi riceve, né ascolta le vostre parole, uscendo da quella

casa o da quella città, scuotete la polvere dai vostri piedi. In verità vi dico: nel giorno del giudizio il paese di

Sodoma e di Gomorra sarà trattato meglio di quella città".

Gli apostoli rimasero turbati.

Pietro, temendo di non aver capito bene, chiese a Giuda: "E’ vero che se una casa non ci accoglie o una città

non ci ascolta noi dobbiamo lanciare la maledizione e nel giorno del giudizio saranno trattate in maniera peg-

giore di Sodoma e Gomorra?

Ma com’è possibile? Solo pochi giorni fa ci ha detto di amare i nemici, di fare del bene a quelli che ci odiano,

di benedire quelli che ci maledicono. Perché ora ci insegna diversamente?"

Giuda Iscariota, per nulla turbato da quelle contraddizioni, posando il braccio destro sulle larghe e possenti

spalle di Pietro gli confidò all'orecchio: "Non ti ho forse detto che quell'insegnamento era rivolto al popolo e

non era rivolto a noi? Perché non mi ascolti? Noi siamo i Ministri del suo nuovo Regno e dobbiamo essere

ascoltati e giudicati per quel che diciamo e non per quel che facciamo. Noi dobbiamo avere autorità sul

popolo". Pietro annuì, convinto.

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Gesù continuò nelle raccomandazioni ed aggiunse:

"Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un'altra. Poiché vi dico in verità: non finirete le città d'I-

sraele, prima che venga il Figlio dell'uomo".

"Te lo dicevo", disse Giuda a Pietro, "entro pochi mesi il Figlio dell'uomo conquisterà il potere e noi con lui. E

inizierà il suo Regno, il nostro Regno".

Giuda fece coppia con Pietro e, assieme, andarono a predicare la buona novella. Parlando tra loro dell’immi-

nente conquista del Regno si convinsero che era opportuno armarsi per non farsi trovare impreparati in caso di

pericolo o di necessità. Giuda era già armato di un pugnale, mentre Pietro acquistò una spada che, da quel mo-

mento, portò sempre nascosta sotto la tunica.

Pietro non sapeva che Giuda era in contatto con gli Zeloti, una setta di sicari o pii assassini che si erano imposti

l’obbligo di uccidere chiunque violasse la Legge al loro cospetto. Erano armati sempre di un corto pugnale ed

erano considerati anche dei partigiani che si preparavano a insorgere con le armi contro i Romani, profanatori

della Legge per eccellenza. Gli Zeloti, tramite Giuda, volevano fare di Gesù il loro capo, il Messia che li avreb-

be dovuti guidare nella sollevazione contro i Romani. Gesù era un predicatore e taumaturgo itinerante molto se-

guito e per gli Zeloti poteva rappresentare un capo ideale. Anche gli Zeloti, come gli Esseni, si opponevano alla

crescente concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi aristocratici, che vivevano nelle città, e alle mise-

rabili condizioni di vita nelle campagne e nei villaggi.

Gli apostoli, nei primi tempi, la sera tornavano nelle loro case, a Cafarnao.

Uscivano una o due volte la settimana. Ogni sabato si ritrovavano con Gesù in qualche sinagoga dove ascolta-

vano la sua parola e dove riferivano sull'andamento della predicazione, ricevendo consigli e suggerimenti.

Col passare del tempo, e con la maggiore esperienza di predicatori, le missioni degli apostoli si fecero più lun-

ghe e impegnative.

Tutti gli apostoli furono colpiti dalla disponibilità della gente ad ascoltarli, aiutarli e a credere alle loro parole.

Giuda riferì che, forse, era riuscito a compiere anche qualche miracolo. Gli altri discepoli si meravigliarono

molto e lo guardarono, increduli. Pietro rimase in silenzio.

Però molte persone si meravigliavano che i discepoli di Gesù mangiassero e bevessero con tutti, mentre Gio-

vanni imponeva ai propri discepoli il digiuno.

Lo riferirono a Gesù che disse loro di non curarsi troppo di quel che dice la gente. Infatti, di Giovanni, che non

mangia e non beve, dicono: "Ha un demonio".

Di me, il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, dicono: "Ecco un mangione e un bevitore, amico degli odiati

esattori delle tasse per conto dei Romani e dei peccatori. Ma voi non dovete preoccuparvi perché gli alberi si

giudicano dai loro frutti e dalle mie opere è stata resa giustizia alla sapienza".

Però queste critiche lo indisposero e lo fecero andare in collera".

Allora egli cominciò a rimproverare le città nelle quali era stata operata la maggior parte dei suoi miracoli, per-

ché non si eran pentite:

"Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida! perché se a Tiro e Sidone fossero avvenuti i miracoli compiuti in

mezzo a voi, già da gran tempo avrebbero fatto penitenza. Perciò vi dico: nel giorno del giudizio Tiro e Sidone

saranno trattate meno severamente di voi. E tu Cafarnao, sarai esaltata fino al cielo? No, tu discenderai sino

all'inferno: perché se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli operati in te, essa oggi ancora esisterebbe".

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Gli apostoli: Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni e Filippo, tutti nati a Betsaida, rimasero molto male all’udire

quelle parole. Non fu di consolazione sapere che Cafarnao, dove risiedeva Gesù e luogo di ritrovo della comu-

nità apostolica, era stata trattata anche peggio.

Ma si sa, nessuno è profeta in patria.

E Gesù disse ancora:

"Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose ai dotti ed ai sapienti e

le hai rivelate ai piccoli".

Però Gesù rimase turbato da queste contrarietà. Nel suo intimo era sicuro della chiamata di Dio, ma non riusci-

va a comprendere bene quale dovesse essere la sua vera missione.

Un giorno "Mentre era solo a pregare e solamente i suoi discepoli erano con lui, egli chiese loro dicendo: La

gente chi dice che io sia? Rispondendo dissero: Giovanni Battista; altri Elia; per altri ancora è risorto uno de-

gli antichi profeti".

Gesù non rimase soddisfatto da queste risposte. Cercava la conferma ai suoi desideri di essere il Messia, spera-

va di ottenerla dalla voce del popolo e con essa la forza e lo sprone per proseguire, ma rimase deluso.

Allora pensò di cercarla nella cerchia più ristretta dei suoi discepoli,

"Egli disse loro: Ma voi chi dite che io sia?"

Gli apostoli si guardarono l’un l’altro, smarriti, e non seppero cosa rispondere.

Gesù cercava conferme alle sue aspirazioni, ma non le otteneva. Neanche gli apostoli gli erano di alcun aiuto,

pur essendo assidui nel frequentarlo, pur vivendo con lui. Gesù era solo e con la solitudine aumentavano lo

smarrimento, i dubbi e più forte si faceva l’invocazione al Padre perché gli indicasse chiaramente la via, la sua

missione. Ogni volta che rimaneva solo, con gli occhi rivolti al cielo, ripeteva la domanda: "Chi sono io? Sono

io quello?". Mai nessuna risposta gli giunse.

Egli sapeva di essere figlio dell’uomo, come tutti gli uomini, e come tale figlio di Dio, ma voleva conoscere da

Dio, con sicurezza, quale era lo scopo della sua vita.

Ma il giovane e perplesso ebreo di Nazareth non otterrà mai la risposta poiché il silenzio di Dio sarà su di lui

per tutta la vita.

In quel tempo Gesù attraversò dei campi di grano in giorno di sabato. I discepoli, che avevano fame, si misero a

raccogliere delle spighe e a mangiarle. I Farisei, avendo veduto ciò gli dissero: "Guarda, i tuoi discepoli fanno

quello che non è permesso fare di sabato". Ma egli ricordò loro che anche Davide non aveva rispettato la Leg-

ge, per necessità, quando si era cibato assieme ai suoi dei dodici pani che ogni sabato venivano posti sulla tavo-

la d’oro del tabernacolo di cui potevano cibarsi solo i sacerdoti e concluse: "Il Figlio dell’uomo è padrone an-

che del sabato".

Gesù riteneva che il rapporto con Dio e con la Legge fosse un fatto interiore e personale di ognuno di noi e l’a-

more doveva costituire l’elemento decisivo e propulsivo di tutta la vita degli uomini.

Quale importanza poteva avere, ai fini della salvezza eterna, il formale rispetto di alcune prescrizioni comporta-

mentali? Si potevano superare senza con ciò peccare. Dio ha fatto il sabato per l’uomo e non viceversa. Quindi

è l’uomo che deve decidere, in piena autonomia e con purezza di intenti, se una cosa si può fare o no, senza al-

cun intervento dei sacerdoti quali intermediari.

Ognuno di noi deve sapere se quello che sta per compiere risponde ad un'esigenza morale o no, se lo compie

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per amore del prossimo o per un proprio vantaggio. Qualsiasi comportamento, in situazioni particolari ed estre-

me, può essere giustificato. Ma tale giustificazione può essere data solamente dalla purezza del nostro intento,

che solo noi e Dio possiamo conoscere. Qualsiasi azione può essere una buona azione. Non è l’azione in sé ad

essere buona o cattiva, a costituire "bene" o "male", ma è l’intento con la quale si compie.

Gesù pensava che il Figlio dell’Uomo doveva essere padrone del bene e del male e che l'antica legge era supe-

rata, soffocata dal vuoto e superficiale formalismo. Forse anche Dio poteva essere superato, se il figlio dell'uo-

mo diventava padrone del bene e del male. Per poterlo diventare Gesù chiedeva ai suoi seguaci una sola cosa:

che lo imitassero. La millenaria opera di educazione dell'uomo andava ricominciata da capo.

Gesù disse poi ad un altro:

"Seguimi. Ma questi rispose: Signore permettimi che prima vada a seppellire mio padre. Gesù gli disse: Lascia

che i morti seppelliscano i loro morti, tu va’ ad annunziare il regno di Dio".

Un fremito di sdegno si alzò tra la folla. Gesù esortava un figlio maschio a non adempiere alle prescrizioni del-

la legge, a non compiere il rituale sacro della sepoltura. Era compito tassativo del figlio maschio chiudere gli

occhi al padre defunto, stracciarsi le vesti in segno di lutto, dirigere le preghiere in casa per una settimana, la

settimana di lutto. Non erano solo doveri religiosi e morali, erano prescrizioni espressamente previste dalla leg-

ge.

Un altro tabu veniva abbattuto, e il pensiero di Gesù andò a Pantera, lontano. I legami di sangue, tanto impor-

tanti per il popolo ebraico, per il ribelle Gesù non dovevano contare più nulla. Nell'imminente regno contava

solo il rapporto interiore di ognuno con Dio.

Un altro che lo ascoltava disse:

"Ti seguirò, Signore, ma prima permettimi di congedarmi da quei di casa. Gli rispose Gesù: Nessuno che pone

mano all’aratro e guarda indietro è atto al regno di Dio".

E, rivolto agli apostoli, disse:

"Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me, e chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno

di me" ed ancora "Sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera. Ne-

mici dell’uomo saranno i suoi familiari".

Per Gesù contava solo il regno di Dio. La famiglia, l’amicizia, la patria non avevano più senso. Egli non era più

il dolce maestro del "Discorso sulla montagna", il quale non aveva incontrato ancora resistenze e difficoltà. La

passione che era in fondo al suo animo ora si mostrava palese. Ora non era un filosofo, ma un uomo d’azione,

senza dubbi e tentennamenti, era un uomo che aveva una missione da compiere, con urgenza.

Mentre si rivolgeva ancora a loro, gli apostoli avvertirono Gesù che, fuori, c'erano sua madre e i suoi fratelli.

E uno gli disse: "Ecco, tua madre e i tuoi fratelli son là fuori e desiderano parlarti".

Ma egli, rispondendo a chi gli aveva parlato, disse:

"Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli?"

Poi, stendendo la mano verso i suoi discepoli, disse:

"Ecco là mia madre e i miei parenti. Perché chi fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, egli è mio fratello e

mia sorella e mia madre".

I discepoli rimasero sconcertati e si guardavano l’un l’altro senza parlare. Qualcuno ricordò anche l’altra rispo-

sta sgarbata che, si diceva, Gesù avesse dato a sua madre durante la festa di nozze a Cana, in Galilea: "Donna,

che cosa abbiamo in comune io e te?".

Anzi, pensavano, più che una risposta sgarbata era una violazione del comandamento di onorare i genitori, spe-

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cialmente la madre. Era una vera e propria ingiuria. D’altronde non predicava:

"Chi non abbandona suo padre e sua madre non è mio discepolo"?

I discepoli rinunciarono a capirlo. Il suo comportamento, a volte, era troppo rivoluzionario.

Ma anche stavolta, come a Cana, poco dopo Gesù cambiò atteggiamento, uscì e andò incontro alla madre e ai

suoi fratelli.

Erano venuti a cercarlo perché circolavano strane voci sul suo conto e volevano essere rassicurati.

Da alcuni era considerato un maestro, un rabbi, preparato e competente, un profeta che predicava la parola di

Dio in modo nuovo e più vicino al popolo. Si diceva che compisse anche miracoli e prodigi senza pari.

Ma altri dicevano che era un falso profeta, che non si curava di rispettare la legge di Mosè come tutti gli Ebrei

dovevano fare, profanava il sabato, mangiava e beveva con i pubblicani e le prostitute, non predicava l’amore

per i genitori e per i figli, non rispettava la sacralità della morte, non teneva in considerazione la famiglia, men-

tre teneva in troppa considerazione le donne e i bambini.

Altri ancora dicevano che preparava una sommossa per scacciare i Romani dalla terra d'Israele ed altri che vo-

leva conquistare il Regno della Palestina e spodestare Erode dal trono, perché costui era stato nominato dall’im-

peratore romano e non era stato eletto dal popolo.

A casa sua, a Nazareth, era arrivato un soldato inviato da Pantera per avvertire la famiglia che i sacerdoti a Ge-

rusalemme avevano informato Ponzio Pilato della pericolosità della banda che seguiva Gesù e gli avevano chie-

sto che intervenisse a tutela dell'ordine pubblico.

Sua madre era preoccupata di quello che poteva accadere al figlio, ora che Pantera era lontano.

I suoi fratelli erano preoccupati di quello che poteva accadere loro, per rappresaglia, se fosse risultato vero che

Gesù preparava degli attentati contro i Romani.

Nei giorni seguenti alcuni Scribi e Farisei, venuti da Gerusalemme, si avvicinarono a Gesù e gli dissero:

"Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Infatti, non si lavano le mani quando man-

giano il pane".

Il rispetto della purità formale era per gli Ebrei un obbligo legale tassativo. Nessuno poteva toccare il cibo sen-

za essersi prima lavato le mani.

Ma egli rispose loro dicendo:

"Non quello che entra per la bocca contamina l’uomo, ma quello che esce dalla bocca contamina l’uomo.

Quel che esce dalla bocca viene dal cuore ed è questo che contamina, poiché dal cuore vengono i cattivi pen-

sieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Io non sono venuto

per abolire la Legge e i Profeti, ma per completarli".

In realtà Gesù stava abolendo molte delle prescrizioni contenute nella legge di Mosè, ma non poteva dirlo aper-

tamente poiché, se lo avesse fatto, sarebbe stato subito lapidato come bestemmiatore e sovvertitore della legge

di Mosè e dello Stato. L'opera di rottura con il passato, la trasformazione, doveva avvenire in modo graduale,

per piccoli passi e a coloro che non lo comprendevano non dava spiegazioni ma diceva: "Chi ha orecchie per

intendere intenda".

Poi, presi in disparte i discepoli, tornò a spiegare che il rapporto di ogni persona con Dio era un fatto del tutto

privato, che non era necessario rispettare le prescrizioni imposte dagli Scribi, o andare alla sinagoga e al tempio

per pregare, anzi, era meglio chiudersi a chiave nella propria camera, in solitudine. Dio non vuole case di pietra

per abitazione, ma cuori puri. Dio abita solo nel cuore dell’uomo, non abita nelle chiese.

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Lo Scriba era "l’uomo del Libro". Dopo l’esilio in Babilonia il popolo ebreo che era tornato in Palestina parlava

l’aramaico e non comprendeva più l’ebraico, la lingua sacra. Questa lingua era riservata allo Scriba. Gli Ebrei

della diaspora, invece, parlavano il greco, la lingua allora universale.

Gli Scribi, gli odierni Rabbini, formavano il partito dei Farisei, mentre dall’ambiente dei sacerdoti nacque il

partito dei Sadducei, partito conservatore e collaborazionista. I Farisei erano un partito religioso di stretta os-

servanza, al quale aderivano i poveri, mentre i Sadducei erano il partito dei ricchi sacerdoti e degli aristocrati-

ci.

La differenza tra i due schieramenti consisteva nel fatto che i Farisei cercavano di osservare la legge con gran-

de zelo, in misura maggiore dei semplici fedeli, ed avevano elaborato un insegnamento che era una logica con-

seguenza della legge e prevedeva anche prescrizioni non previste nella legge stessa. I Sadducei, invece, rifiuta-

vano qualsiasi aggiunta alla legge mosaica.

Gesù, essendo di umili origini, si opponeva energicamente ai Sadducei, che zittiva inesorabilmente, ma contra-

stava anche i Farisei per l’ipocrisia che v’era nel loro insegnamento eccessivamente formalista.

Dal punto di vista teologico i Farisei credevano nella risurrezione dei morti, nel premio per i giusti dopo la

morte, e negli angeli. I Sadducei respingevano tali insegnamenti perché assenti nei libri antichi. Gesù era un fa-

riseo e il suo insegnamento si ispirava a quella dottrina, ma non ne condivideva la degenerazione consistente

nel rinchiudere il credente in una gabbia fatta di 613 comandamenti e divieti i quali uccidevano la fede viva an-

ziché fortificarla e mortificavano la "libertà dei figli di Dio".

Gesù poteva essere definito un sacerdote laico, fortemente innovatore nell’interpretazione della Legge mosaica

e del rapporto dell’uomo con Dio.

Gesù, partito di là, si ritirò per qualche giorno verso Tiro e Sidone. Una donna siriana si presentò a lui chieden-

dogli di avere pietà di lei e di guarirle la figlia posseduta dal demonio. Egli non le rivolse neppure la parola e

disse ai suoi:

"Non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele".

La donna allora si inginocchiò davanti a Gesù implorando aiuto ed egli le rispose:

"Non è bene prendere il pane dei figliuoli e gettarlo ai cagnolini".

Da quel momento Gesù incominciò a dire ai suoi discepoli com’era necessario che egli andasse a Gerusalemme

per affrontare i grandi sacerdoti e gli Scribi. S’era deciso a rompere gli indugi e a parlar chiaro: il popolo lo se-

guiva e lui voleva affrontare il potere religioso affinché i suoi discepoli potessero evangelizzare tutta la Nazio-

ne e rinnovare la Legge di Mosè. Gesù conosceva perfettamente i rischi cui andava incontro. I capi religiosi sta-

vano con il potere, sostenevano Erode e da questi erano sostenuti, ed erano tollerati dal potere romano. Non

avrebbero accettato, senza opporsi strenuamente, l’intrusione di altri, fosse stato anche un Maestro rispettato e

seguito, un profeta.

Ma i tempi erano maturi e la sua predicazione doveva avere una conclusione, anche se ciò comportava seri ri-

schi, poiché la conclusione non poteva che consistere nella conquista di Gerusalemme.

Gesù stava per abbandonare definitivamente ogni idea di ribellione a Roma e ad Erode e mirava solo ad annun-

ciare la buona novella ai poveri. Era sempre più convinto che la fine del mondo era imminente e non si poteva

attendere oltre. La sua missione profetica gli imponeva di affrontare qualsiasi rischio, pur di annunciare quello

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che il Dio d’Israele gli ispirava. Lui si sentiva il Figlio dell’uomo divenuto figlio di Dio per aver ricevuto la ri -

velazione e, quindi, Dio egli stesso, partecipe della sua divina essenza.

Manifestò i suoi propositi agli apostoli avvertendoli che andando a Gerusalemme avrebbe corso dei rischi, anzi

c’era il pericolo che venisse messo a morte.

Ma Pietro, trattolo a sé, temendo per la propria vita e temendo per la riuscita dei progetti che aveva fatto sul -

l’imminente regno, cominciò a fargli rimostranze, dicendo:

"Deh, che non sia, Signore; questo non ti avverrà giammai". Ma egli, rivoltosi, disse a Pietro: "Va’ lontano da

me, Satana! Tu mi sei scandalo; perché non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini".

Gli apostoli non avevano ancora capito che Gesù non predicava più un regno terreno, ma mirava a salvare le

anime degli uomini, ritenute ben più importanti del corpo e dei beni terreni.

Allora Gesù disse ai suoi discepoli:

"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Poiché chi vorrà sal -

vare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio, la troverà. Che gioverebbe a un uomo

guadagnare tutto il mondo, se perdesse l’anima sua? Il Figlio dell’uomo, infatti, verrà nella gloria del Padre

suo e allora renderà a ciascuno secondo le sue opere".

All’udir queste parole un brusio di incomprensione si levò tra gli apostoli. Per molti era la fine di ogni speranza

di conquistare potere e gloria nell’imminente regno. Uno scoraggiamento grande serpeggiava tra loro. Il regno

promesso non era più il regno del Messia di cui avevano parlato i profeti. Il nuovo regno riguardava solo il cuo-

re, l'anima delle persone.

Gesù soffrì molto a causa della insensibilità dei suoi discepoli e delle loro mire terrene. Cercò di consolarli pro-

mettendo loro che questo nuovo regno sarebbe arrivato molto presto:

"In verità vi dico che vi sono alcuni fra i qui presenti, che non gusteranno la morte, prima di aver veduto il Fi-

glio dell’uomo venire nel suo regno".

Gli apostoli si sentirono un poco rinfrancati.

Giuda prese Pietro in disparte e gli disse: "Lui deve parlare così perché ci sono spie dappertutto. Teme di essere

tradito e arrestato; non può svelare appieno i suoi piani. I sommi sacerdoti lo vogliono morto. Ma il suo obiet-

tivo rimane lo stesso: attraverso la fede, la fiducia della gente, conquisterà il popolo e poi il potere".

Gli apostoli erano così esaltati dalla sicurezza dell’imminente inizio del nuovo regno che cominciarono a discu-

tere su chi di loro sarebbe stato il più grande nel prossimo regno dei cieli e, non trovandosi d’accordo, si avvi-

cinarono a Gesù e gli dissero:

"Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?" Gesù, chiamato a sé un fanciullo, disse: "In verità vi dico: se

voi non vi convertite e non diventate come i fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli".

Allora Pietro si avvicinò a lui e gli disse: "Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca con-

tro di me? Fino a sette volte?" Gesù gli rispose: "Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Se

non perdonerete non sarete perdonati. Così il mio Padre celeste farà a voi, se con tutto il cuore, ognun di voi

non perdona al proprio fratello".

Giovanni Battista, dal carcere, udite le cose meravigliose che gli venivano raccontate sulla predicazione di

Gesù, chiese ad alcuni discepoli rimastigli fedeli:

"Andate dal predicatore nazareno e chiedetegli se è veramente lui il Messia atteso dalla scritture o se dobbia-

mo aspettarne un altro".

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per informazioni su come avere tutto il libro:

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Indice

Gesù di Nazareth

1 - La paternità .....................................

2 - La circoncisione................................

3 - La vita a Nazareth..............................

4 - Sacrificio della gelosia.......................

5 - I sacrifici..........................................

6 - La Terra Promessa............................

7 - La morte di Edit e di Rebecca............

8 - Incontro con Giovanni il Battista.......

9 - Ritorno a Nazareth e fuga...................

10 - Discorso della montagna...................

11 - Le parabole.......................................

12 - Istruzioni per la predicazione.............

13 - Ministero in Giudea...........................

14 - Ultimi giorni......................................

15 - Gesù nel sepolcro..............................

16 - Profeta o falso Profeta?......................

17 - Gli apostoli dopo la crocifissione........

La nascita del cristianesimo

1 - L’apostolo delle Genti........................

2 - Paolo contro Pietro............................

3 - Paolo ad Atene..................................

4 - Lo scandalo della croce.....................

5 - Paolo a Roma....................................

Il segreto dei Papi

1 - Pietro a Roma...................................

2 - La tomba sotto l’edicola....................

3 - La tomba di Gesù..............................

4 - Ama i nemici …................................

pag. 8

pag. 14

pag. 16

pag. 18

pag. 21

pag. 25

pag. 29

pag. 38

pag. 43

pag. 46

pag. 50

pag. 52

pag. 59

pag. 67

pag. 78

pag. 80

pag. 85

pag. 88

pag. 93

pag. 99

pag. 103

pag. 106

pag. 109

pag. 113

pag. 118

pag. 134

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