Network in progress #10

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#10sett/ott 2012 ECHI DELLA BIENNALE Portale Suoli ALBERI E ARCHITETTURA La fine delle archistar e l’invenzione dell’architettura informale

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Rivista bimestrale su paesaggio, architettura, città e territorio

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#10sett/ott 2012

ECHI DELLA BIENNALEPortale Suoli

ALBERI E ARCHITETTURALa fine delle archistar e l’invenzione dell’architettura informale

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www.verdiananetwork.com

Direttore Responsabile della rivista_Alessandra Borghini..........................................sandra.borghini@edizioniets.com Presidente del Comitato di redazioneEnrico Falqui....................................................................... [email protected] Generale, Responsabile stage formativi e attività di tirocinio_arch. Francesca Calamita.........................................francesca.calamita@libero.itResponsabile editoria e comunicazioni_arch. Stella Verin...............................................................stellaverin@gmail.comResponsabile web e servizio inviato speciale_Valerio Massaro.......................................valerio.massaro@verdiananetwork.comResponsabile progetto di ricerca_dott.ssa Chiara Serenelli.......................................chiaras@verdiananetwork.com Responsabile progetti urbani_arch. Paola Pavoni...........................................................pavoni_paola@libero.it

Concept copertina: Valerio Massaro

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Presidente redazione e proprietario sito online: Enrico Falqui, via Lamarmora 38, Firenze

Iscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisa n° 612/2012, periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress”

ISSN 2281-1176

Responsabile editoriale: Stella Verin

Editing e grafica: Valerio Massaro

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Biennale di Venezia: La riscoperta del Territorio

ECHI DELLA BIENNALE parte IEDITORIALE

di Enrico Falqui

Padiglione ItaliaECHI DELLA BIENNALE parte II

di Enrico Falqui

Portale Suoli di Diana Giudici e Luca Tomasini

Informazioni, dati e indicatori per governare in modo sostenibile il territorio

PROGETTOCITTÀ APERTA

di Silvia Cama

LA NATURA COME MATERIA ARCHITETTONICAALBERI E ARCHITETTURA

Di Damiano GaleottiRECENSIONEScience du Paysage. Entre théories et pratiques

di Silvia Minichinodi Pierre Donadieu, Lavoisier Edition, 2012

RECENSIONI di Eventi7th European Biennial of Landscape Architecture

di Stella Verin

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La fine delle archistar e l’invenzione dell’architettura informale

di Valerio Massaro

SOMMARIO

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Terre di confine.

Lampedusa è un piano inclinato che affiora dal mare e rivolge il suo lato dolce verso l’A-frica. Ai quattro angoli, volti quasi con esattezza geografica verso i punti cardinali, quattro basi militari indirizzano antenne e sistemi di comunicazione verso una terraferma che non si vede mai, come un atto di fede; ovunque ci si giri mare. Dove siamo? Di qua, di là sono categorie che perdono significato e forse non ne hanno mai avuto qui, che è in mezzo, in mezzo al mare.Una leggenda vuole che tra i primi abitanti dell’isola vi fosse un eremita che, presso l’unica fonte d’acqua dolce (ora prosciugata), in una grotta incise la mezza luna e su un’altra la croce; così i naviganti che arrivavano venivano soccorsi, rifocillati, e si sentivano liberi di pregare chiunque volessero.

Fotografie e testi di Vanessa Lastrucci

PhotoStory

4 foto di Vanessa Lastrucci

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Foto di Carlo Ballatore, Fotografo freelance

Laureanda in Architettura

L’Architettura che mi piace L’Architettura che non mi piacedi Antonina Cremona

Rubrica

Il 22 aprile del 2012 è stata inaugurata la Chiesa di San Lorenzo a Mazara del Val-lo, progettata dall’ing. Bartolomeo Fontana e dall’arch. Francesco Scarpitta in un quartiere periferico nato negli anni ‘70 senza una regolamentazione urbanistica. La Chiesa è stata costruita per donare un luogo di culto agli abitanti che risiedono nella zona di Miragliano ed è una rivisitazione in stile moderno dell’architettura templare greca, differenziandosi così, con gli altri edifici di culto della Diocesi ma-zarese in stile barocco. Si presenta con un bianco sgargiante simile alle case di campagna della zona, nascondendo così, il colore del tufo che caratterizza l’ar-chitettura in Sicilia ed è costituita da un atrio attraverso il quale si arriva al portale di ingresso coronato da uno pseudo timpano. Il risultato è una Chiesa con le sem-bianze di un cimitero senza cipressi. In pratica, ciò che la storia dell’architettura ci insegna qui svanisce e il significato simbolico viene stravolto, confuso e nascosto.

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PhotoStory

foto di Vanessa Lastrucci

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Non è facile orientarsi, quest’anno, nella visita della 13° Mostra internazionale di Architettura, distribuita su 10.000 mq in un unico percorso espositivo dall’Arsena-le, ai Giardini fino al Padiglione Centrale, dove sono esposti 69 progetti per un totale di 119 autori ( tra architetti, paesaggisti, storici dell’arte, artisti e fotografi).David Chipperfield afferma di aver conce-pito la Mostra come “uno spazio in cui si realizza un pensiero e un sistema di rela-zioni tra architetture del Passato e archi-tetture del Presente, dentro al quale i pa-radigmi della Continuità, del Contesto e della Memoria tornano ad avere un signi-ficato preciso e centrale.”Tuttavia, l’impressione che se ne ricava è quella di non riuscire a seguire un “ Pen-siero” chiaro e nitido, bensì quella di im-mergersi in un “melting-pot”di messaggi e linguaggi estremamente differenziati tra di loro che sicuramente stimolano l’atten-zione del visitatore e ne provocano una reazione emotiva durante l’estenuante itinerario, ma che si volatilizzano al mo-mento della fuoriuscita dal perimetro della Biennale.

Biennale di Venezia: La riscoperta del Territorio

ECHI DELLA BIENNALE parte IEDITORIALE

di Enrico Falquidocente presso l’ Università degli Studi di Firenze, Direttore del laboratorio di ricerca in Architettura ed Ecologia del paesaggio (Lab AEP), Facoltà di Architettura di Firenze

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“COMMON GROUND” è la vera chia-ve interpretativa di questa Biennale dove il Monument for Modernism di Robert Burghardt (progetto per la contestata Sch-lossPlatz di Berlino) ci introduce, attraver-so il percorso della Memoria, a riflettere su chi siamo, da dove veniamo e come possiamo andare avanti, se riproponiamo l’Architettura come “uno” degli elementi del Common Ground e ricostruiamo nelle nostre città un rapporto dialettico con la Storia.Per avvalorare questo codice interpre-tativo, l’installazione di Norman Foster “Gateway”è il primo spazio dell’Arsenale che i visitatori incontrano, entrando den-tro una gigantesca “scatola nera” inonda-ta da centinaia di parole luminose che, dall’antichità ad oggi, hanno influenzato la concezione delle nostre città.L’impatto emotivo e comunicativo sul visi-tatore, prosegue attraverso i posters di Ber-nard Tschumy, con la loro ironica giustap-posizione di testo e immagine, il cui scopo è quello di “pubblicizzare” l’Architettura o, come dice l’Autore, “sono pensate per suscitare un desiderio di Architettura”.Proprio come succede con gli advertise-

ments che pubblicizzano una marca di sigarette o di whisky per suscitarne il de-siderio, Tschumy porta allo scoperto il tema della dissociazione tra l’immediatez-za dell’esperienza spaziale e la definizione analitica dei concetti teorici dell’Archi-tettura. “Dato che esistono pubblicità di prodotti architettonici (riviste e periodici), non potrebbero per logica esistere pub-blicità della produzione (e riproduzione) dell’Architettura?”

Pochi metri più avanti, però uno straor-dinario video di Luigi Snozzi, architetto della scuola ticinese di Mario Botta, Livio Vacchini e Max Frisch, ci spiega con mag-giore chiarezza quali siano gli obiettivi di questa “rivoluzione culturale” che riguarda le nostre città contemporanee.“Tutte le città europee necessitano di nuovi limiti di crescita, spazialmente riconoscibi-li” e per farlo, afferma Snozzi, è necessaria “una vera e propria rifondazione della città contemporanea per cercare nuove regole che possano dare un significato compiuto al Contesto, nel quale, le opere collettive e gli edifici pubblici siano nuovamente un momento di ordinamento e di organizza-zione del territorio.”L’architetto ticinese ci spiega, attraverso la sperimentazione realizzata nel progetto “Delta Metro Polis” in Olanda, che la cit-tà europea necessita di tre fasi consecutive nel suo processo rifondativo. Una prima fase in cui si progettano “strutture rigene-rative” legate a una geometria spaziale, una seconda fase in cui le strutture generative si estendono al sistema delle “dominanti” ambientali e paesaggistiche; e, infine una terza fase, quella della svolta urbana, nella quale la città metropolitana si costituisce come “rete di nodi densi strategici”, ricre-ando nuove centralità attraverso un proces-so analogo che ha portato alla definizione della città storica. L’ingresso nelle Corderie dell’Arsenale ci impone una multiforme interpretazione del tema della Biennale; “Common Ground” è una declinazione plurale di nuove relazioni, di innovative connessioni sia fisiche che concettuali nel-

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lo spazio urbano, ma è anche un nuovo approccio culturale tra discipline diverse coinvolte nei processi di trasformazione dello spazio e dei luoghi della città.

Lo spazio pubblico è un’importante de-clinazione di tale termine e ne abbiamo un’immediata conferma attraverso le in-stallazioni di due studi di architettura fiamminghi “Robbrecht and Daem” e “Josè Van Hee”, che hanno elaborato due progetti nella città belga di Ghent, utiliz-zando per uno di essi un’opera dell’artista spagnola Cristina Iglesias.La collaborazione progettuale tra i due stu-di ha prodotto un risultato di notevole ri-lievo, soprattutto per chi vive in città dove lo spazio pubblico centrale corrisponde all’antico centro storico. I due architetti operano con una notevole e rigorosa at-tenzione nei confronti del delicatissimo equilibrio storico-monumentale del cen-tro di Ghent; Paul Robbrecht ci consegna un quesito importante, chiedendosi, nel realizzare questo nuovo spazio pubblico, “quale sia il ruolo del sentimento in Archi-tettura e quanto esso influenzi l’opera pro-gettuale”. Ma proprio questo suggestivo quesito, ci fa comprendere la vera essenza del lavoro dei due architetti fiamminghi: quel che conta, ad esempio nel progetto che riguarda la storica centralità di Piaz-za Leopold de Wael ad Anversa, è l’attenta analisi del sistema delle relazioni che tiene unito il compatto quartiere centrale di An-versa.La brillante intuizione concettuale del Pro-getto scaturisce proprio da questa “risco-

perta” delle connessioni sociali e culturali tra luoghi storicamente compatti ma che i processi urbani contemporanei hanno reso separati e di difficile accessibilità.

In maniera analoga, il progetto di riuso di vecchi magazzini ideato da Herzog&De Meuron nel centro dell’Hafen City di Am-burgo, manifesta una “nuova”concezione del modo di creare “centralità” in un luogo ben conosciuto dagli abitanti ma divenu-to, nel corso dello sviluppo urbano, inac-cessibile e progressivamente dimenticato.L’architettura forte, quasi distaccata, del-la collina del Kaispeicher fornisce un sor-prendente, ideale supporto per la nuova sala dell ‘Elbphilarmonie. Il “Common ground”, in questo progetto, è comuni-cato dalla perfetta fusione di architettura ed urbanistica, il cui dialogo nell’idea-zione progettuale ha costruito un nuovo sistema di relazioni tra funzione urbane e una nuova centralità attraverso l’impo-nente progetto di architettura. Per questi motivi,nonostante le furibonde reazioni di molti esponenti dei ceti intellettuali am-

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burghesi apparse sui giornali della città, i progettisti scommettono che esso possa diventare un nuovo centro di vita sociale, culturale e quotidiana, non solo per gli abitanti di Amburgo, ma per i visitatori di tutto il mondo.

Il visitatore di questa Biennale si accorge, a conclusione del suo percorso negli splen-didi ambienti restaurati dell’Arsenale, che il “Common ground” è un’efficace oppor-tunità per riscoprire un nuovo “sistema di rapporti” col territorio, per rigenerare, at-traverso la potenza espressiva e simbolica dell’Architettura, il significato identitario dei luoghi nei nuovi scenari di sviluppo della città contemporanea. Oppure, a im-maginare una forma completamente libera della pianificazione urbana, come nel caso di due progetti presentati dal gruppo di architetti olandesi “MVRDV” per la città di Almère nei Paesi Bassi, guidati dal Why Factor elaborato presso la Delpht Univer-sity of Tecnology e il Berlage Institute di Rotterdam.Si tratta di un modello rivoluzionario di pianificazione urbanistica, che, discostan-dosi dalle direttive pianificatorie governa-tive, propone una crescita urbana integrata stimolata dalle iniziative dei cittadini nella progettazione e gestione del verde pubbli-co, dell’approvvigionamento energetico, nella gestione delle acque e dei rifiuti, nella promozione dell’agricoltura urbana e del sistema di accessibilità urbana pubblica e privata.

In sintonia con queste esperienze pro-

gettuali, è anche il Padiglione Italia, “Le Quattro Stagioni”, mostra curata da Luca Zevi, ( di cui parleremo più avanti) che riscopre la straordinaria attualità del pen-siero e dell’azione di Adriano Olivetti, in-terpretata come prima stagione del made in Italy e come occasione sprecata di un incontro possibile tra le ragioni dell’Ar-chitettura, del Paesaggio, dell’Ambiente e quelle dello sviluppo economico.Luca Zevi interpreta bene la necessità che quella occasione, sprecata in Italia negli anni 50, diventi una vera e propria stra-tegia nell’epoca contemporanea, mettendo in evidenza che la quarta stagione (quella che stiamo vivendo) ha proprio il compito di riconciliare architettura e pianificazione del paesaggio con le nuove tendenze della Green Economy, i cui contenuti e le cui attività saranno rappresentati nell’EXPO di Milano del 2015.Il “Common Ground”, in questo caso, è costituito dalla ricostruzione di un sapien-te sistema di relazioni e rapporti con il Territorio, le cui vocazioni, identità e cul-ture, diventano il “valore aggiunto” con il quale i prodotti dell’economia acquistano maggiore competitività a livello mondiale. Questo visione dello sviluppo (sostenibile) impone anche all’Architettura e alla Piani-ficazione Urbanistica la ricerca rigorosa di una nuova “ qualità” dello spazio urbano e dei sistemi territoriali.

Questa Biennale segna anche un’impor-tante linea di separazione dal ruolo predo-minante, avuto nelle precedenti edizioni, delle più celebri archistars e dalla conce-

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zione estrema dell’Architettura “beyond the context”. Tuttavia, uscendo dai luoghi dell’Arsenale e del Padiglione Italia, e vi-sitando le installazioni dei 55 Paesi par-tecipanti, si ha l’impressione che le varie declinazioni del “Common Ground”, ivi presentate, siano ancora sintonizzate su al-tre lunghezze d’onda, di significato ambi-guo o antitetico rispetto al messaggio uni-ficante di riscoperta del Territorio, quale centralità condivisa per lo sviluppo soste-nibile, che proviene dal Padiglione Italia e dalle significative esperienze progettuali prima illustrate.Da questo punto di vista, appare assai si-gnificativa la mostra intitolata “Spain, mon amour”, dove 10 giovani architetti (7 uomini e tre donne cinquantenni) presen-tano 15 diversi progetti in 15 diverse città spagnole, realizzati tra il 1990 e il 2008, quando la bolla immobiliare, in Spagna, ha tagliato la produzione di unità abitative dalla quota di 800.000 all’anno a quella attuale di 80.000. Questa Mostra è la cele-brazione di un periodo, dei suoi architetti ed edifici, ma anche l’elegia di un tempo che è giunto al suo termine, un manife-sto di architetti spagnoli “disoccupati” e un invito, (provocatoriamente illustrato da circa 200 studenti di architettura di Madrid venuti alla mostra per donare ai visitatori i modelli dei progetti che hanno intenzione di realizzare) a pensare al futu-ro in maniera diversa.

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foto di Vanessa Lastrucci

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Il Padiglione Italia merita, quest’anno, un approfondimento, poiché partendo dalla “memoria” del Progetto territoriale d’im-presa di Adriano Olivetti, ci suggerisce un vero e proprio palinsesto programmatico per lo sviluppo economico del nostro Pae-se, dando vita alla “ seconda ricostruzione “ del territorio e delle nostre città, dopo le “tre stagioni” di sviluppo che hanno sot-terrato l’utopia economico-territoriale di Adriano Olivetti.Dopo un lunghissimo periodo di oblio, in questa Mostra, Olivetti è ricordato non solo come imprenditore innovativo ma anche come architetto, urbanista, poliedri-co uomo di cultura, che ha reso concreta l’idea dell’elevazione materiale, culturale e sociale della propria comunità ( il territorio di Ivrea), attraverso il successo commercia-le nel mercato, allora poco dinamico, delle macchine da scrivere e di quelle di calcolo. Nei primissimi anni del dopoguerra, tra il 1951 e il 1959, l’azienda Olivetti riesce a collocarsi ai vertici del settore internazio-nale dell’elettronica.

Padiglione ItaliaECHI DELLA BIENNALE parte II

di Enrico Falquidocente presso l’ Università degli Studi di Firenze, Direttore del laboratorio di ricerca in Architettura ed Ecologia del paesaggio (Lab AEP), Facoltà di Architettura di Firenze

Adriano Olivetti, 1901-1960

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Il segreto di questo successo ed anche la straordinaria novità del progetto dell’im-prenditore Canavese, consiste nel fatto che Olivetti connetteva indissolubilmen-te la pianificazione economico-sociale alla pianificazione urbanistica e del territorio, aprendo le porte al pensiero della pro-grammazione dei sistemi complessi.

Nella mostra installata nel padiglione Ita-lia, l’esempio più significativo è costituito dall’ illustrazione “del come” Olivetti im-maginò e fece progettare il sistema insedia-tivo per i propri dipendenti nella Comuni-tà di Ivrea.Tra il 1951 e il 1959 furono realizzati 597 alloggi, variamente distribuiti in differenti tipi edilizi. Come ha scritto Geno Pam-paloni al riguardo “..ciò che premeva ad Olivetti, in primo luogo, non era dar vita a pezzi architettonici da antologia, bensì creare la possibilità di un’ “ architettura sociale” qualitativa che nasceva privata ma

si proiettava naturalmente in una dimen-sione pubblica.”Quel progetto realizzato, visibile ancora oggi a Ivrea e soprattutto “esportabile” da quella Comunità del Canavese a tutta l’I-talia, fece paura ai grandi attori della “ ri-costruzione post-bellica”.Adriano Olivetti divenne un nemico ana-logo, a quello che fu, proprio in quegli anni, Enrico Mattei per le multinazionali petrolifere americane, la cui pericolosità colpiva in modo “trasversale” i multiformi interessi speculativi che si stavano organiz-zando per colonizzare, attraverso gli impo-nenti flussi di mezzadri del centro-nord in fuga dalle campagne e le povere famiglie di “cafoni “ in fuga dal latifondo impro-

duttivo del Sud, gli ampi spazi aperti e a buon mercato che circondavano le più im-portanti aree urbane del centro-nord del Paese.Nella mostra Olivettiana del padiglione Italia è esposto un repertorio di manufat-ti edilizi progettati dagli architetti di Ivrea per “ permettere ai dipendenti dell’impresa di scegliere l’unità di abitazione più soddi-sfacente, indicando, successivamente, per ciascuno di essi, alcuni gradi di personaliz-zazione della propria abitazione.”

Quegli anni 50, apparentemente così di-stanti da noi, erano gli anni, per dirla con Rossi Doria “ in cui il territorio era l’Os-so mentre la Polpa era la fabbrica, l’attesa a Sud delle fabbriche del Nord, la Cassa del Mezzogiorno”, l’orizzonte di un capi-

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talismo assistito dallo Stato che si è man-tenuto in Italia fino alla nascita dell’euro, al momento in cui è nata l’Europa dei 27 Paesi membri.La Mostra ci fa capire che “ un’altra Italia “ era possibile negli anni dell’utopia di Oli-vetti, negli anni della Comunità di Danilo Dolci a Partinico e della sua lotta per l’ac-qua come “bene comune”, negli anni del progetto ENI di Mattei e della concezione planetaria di sviluppo “equo e solidale” tra i popoli di Aurelio Peccei e di Ernesto Bal-ducci e Giorgio La Pira. Dobbiamo pensare, come alcuni feroci critici di Luca Zevi hanno affermato, che questo Padiglione “evoca solo una visione nostalgica e celebrativa del nostro passato

recente”?La migliore risposta a queste effimere e superficiali critiche viene dalle parole del sociologo Aldo Bonomi, che ha curato lo splendido volume ( Le quattro stagioni) che accompagna la visita del padiglione, nel quale egli spiega il senso assolutamen-te moderno ed attuale del messaggio Oli-vettiano : “ Oggi, si tratta di pensare ad una terza rivoluzione industriale che abbia come scopo quello di spingere in avanti la frontiera della discontinuità tecnologi-ca, soprattutto nel campo energetico e nel campo della rigenerazione delle nostre cit-tà e delle nostre infrastrutture.Tutto ciò è possibile se si ha il coraggio di ripensare il ruolo del “Sistema pubblico”, declinandolo a cavallo tra centro e peri-feria del sistema in modo che la “Green Economy”possa sostituire progressiva-mente il modello economico fordista che in tutto il mondo sta cadendo a pezzi.”

La sfida vera per realizzare quella “crescita” di cui parlano a sproposito tanti personag-gi della classe dirigente attuale, sta proprio nella riscoperta del “ valore aggiunto” del-le risorse naturali, umane e culturali del Territorio. E’ un Territorio, prosegue an-cora Bonomi, “ cui bisogna saper guarda-

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re con una visione nuova dello Sviluppo, riscoprendo i sistemi relazionali culturali, sociali e paesaggistiche, lo straordinario bacino di risorse naturali ed umane che hanno dato vita ,negli ultimi anni, ad un tessuto produttivo diffuso “ costituito da sei milioni di capitalisti molecolari trainati da quattromila medie imprese leader”.Questa è la nostra Tennessee Valley, diffusa in ogni regione italiana, capace di “ ridi-segnare il paesaggio che verrà, con meno capannoni e più colline di Solomeo, più chilometro zero in agricoltura, più EatI-taly per commercializzare il made in Italy dei territori e più terra-madre per un vive-re di sobrietà.”( A.Bonomi)

Si tratta di uno sforzo immane per il no-stro Paese, che riguarda soprattutto le nuove generazioni ma che è, oggi, l’unica strada possibile ; a condizione che proli-feri e si diffonda una cultura del Progetto affidato ad una nuova generazione socia-le e imprenditoriale, che sappia intrec-ciare il saper fare, con il ripensare merci e consumi,forme dei lavori e stili di vita nelle nostre città e nelle nostre campagne, proprio come in questo padiglione Italia della Biennale di Architettura si è cercato di rappresentare.

UNIFI @ 13. Mostra Internazionale di ArchitetturaQuest’anno la 13. Mostra Internazionale di Architettura, offre la possibilità ad Università, Accademie di Belle Arti e Istituti di formazione e di ricerca di partecipare attivamente agli eventi della mostra. La Facoltà di Architettura di Firenze parteciperà all’interno della se-zione “Biennale Sessions” con un evento nei giorni 2-3-4 Novembre 2012, in cui verranno presentati i lavori dei Laboratori dell’A.A. 2011/2012, lo spazio sarà allestito con un video in cui inserire i contributi di tutti i Laboratori dei docenti che hanno aderito all’iniziativa.Agli studenti verrà inoltre data la possibilità di partecipare ad un un workshop di studio sul tema della Biennale di quest’anno, e la possibilità di seguire la sessione “Meetings on Architecture “ con Ricky Burdett, Randall Bourscheidt, Jacques Herzog e Pierre de Meu-ron che discutono sul tema “ il futuro dell’Architettura in un mondo di eventi culturali decentrati e frammentati.”

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foto di Vanessa Lastrucci

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foto di Vanessa Lastrucci

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foto di Vanessa Lastrucci

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Portale Suoli di Diana Giudici e Luca Tomasini*

Informazioni, dati e indicatori per governare in modo sostenibile il territorio

È on line la prima banca dati liberamente consultabile e interrogabile relativa alle coperture e agli usi del suolo: il portale suoli raccoglie informazioni, dati e indicatori necessari per pianificare e governare in modo sostenibile il territorio. Il sito www.portalesuoli.it è stato sviluppato da una start up (we4land) composta da giovani professionisti impegnati nel mondo della ricerca universitaria (presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano) sui temi del suolo, del consumo di suolo, degli effetti ambientali delle trasformazioni di copertura/uso del suolo e nello sviluppo di strategie e tecniche di pianificazione finalizzate alla limitazione (e al progressivo annullamento) del consumo di suolo.Il tema del consumo di suolo è sempre più presente nelle discussioni politiche e nelle deli-bere degli enti che si occupano di pianificazione (a tutti i livelli amministrativi), ma cosa si intende per consumo di suolo? Dal punto di vista tecnico e scientifico può essere spiegato in maniera semplice ed efficace avvalendosi del cosiddetto triangolo delle transizioni.

Esso schematizza le transizioni più comuni (considerando semplicisticamente tre tipologie di copertura/uso del suolo), ovvero quelle che interessano le superfici urbanizzate, le aree agricole e i territori boscati mostrando la maggiore o minore probabilità (quindi frequen-za) di accadimento delle trasformazioni. Il passaggio di stato è rappresentato da frecce, ma non tutte le trasformazioni accadono con la medesima probabilità. Alcune trasformazio-ni sono sostanzialmente impossibili o richiedono tempi molto lunghi per il loro accadi-mento, tanto da poter essere considerate irreversibili. Le trasformazioni irreversibili sono, sostanzialmente, quelle che comportano consumo di suolo: il caso tipico è, ad esempio, l’urbanizzazione di aree agricole o naturali. La sigillatura, cementificazione, impermeabi-lizzazione di un’area agricola è un processo difficilmente/non reversibile ed è un tipico caso di consumo di suolo per causa antropica.

Triangolo delle transizioni - Elaborazione grafica a partire da EEA Report No 11/2006, Towards integrated land and ecosystem accounting

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È possibile descrivere lo stato in cui riversa un territorio dal punto di vista dell’uso del suolo mediante opportuni set di indicatori ma è anche possibile analizzare l’evoluzione nel tempo delle coperture del suolo, valutare i consumi di suolo avvenuti su un determinato orizzonte temporale e stimare gli effetti ambientali dovuti alle trasformazioni occorse e previste. Il calcolo di dati e indicatori si basa sull’elaborazione di informazioni contenute in basi dati delle coperture e degli usi del suolo.L’osservazione dall’alto del territorio (mediante riprese aeree o satellitari) debitamente in-terpretata, permette di costruire basi dati delle coperture e usi del suolo, che costituiscono una rappresentazione della realtà (più o meno precisa/semplificata) e contengono la con-figurazione delle coperture e degli usi del suolo in riferimento ad un determinato istante temporale. Per analizzare usi e coperture dei suoli è necessario disporre di una base dati delle coperture del suolo aggiornata (ad un preciso istante temporale). Per contabilizzare e valutare le trasformazioni è necessario disporre di basi dati, fra loro confrontabili e coeren-ti, in riferimento (almeno) a due soglie temporali.

Ortofoto 2000, Castel San Pietro (BO) - Servizio WMS fornito dal Geoportale Nazionale, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare

Nuova superficie urbanizzata in Provincia di Milano tra 1999 e 2007 - Elaborazione grafica a partire da basi dati DUSAF, Geoportale della Lombardia

Ortofoto 2006, Castel San Pietro (BO) - Servizio WMS fornito dal Geoportale Nazionale, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare

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Ortofoto 2006, Castel San Pietro (BO) - Servizio WMS fornito dal Geoportale Nazionale, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare

A scala nazionale esiste la base dati denominata Corine Land Cover (CLC), relativa agli anni 1990, 2000 e 2006. Poiché la superficie minima mappata è pari a 25 ettari, tale base dati non è adatta per analisi a scala locale. I dati e gli indicatori consultabili sul portale suoli non sono stati calcolati a partire da Corine Land Cover ma sulla base di mappe di copertu-ra del suolo implementate a livello regionale che consentono di acquisire dati ed elaborare indicatori alla scala locale, ovvero alla scala ove in Italia vengono assunte le decisioni che riguardano gli usi del suolo. L’utilizzo di basi dati regionali nasconde diversi problemi, tra cui i principali sono i seguenti: non esistono metodologie e specifiche tecniche uniche “imposte” per la loro redazione, non sono previste scadenze (uguali per tutte le regioni) per l’aggiornamento. Il portale suoli pur nella consapevolezza di tali limitazioni, propone metodologie di trattamento ed elaborazione delle basi dati univoche per tutte le regioni, così da giungere al calcolo di indicatori confrontabili nelle diverse unità di analisi. Il portale suoli risponde prioritariamente alla necessità di conoscenza e di accessibilità dell’informazione, all’esigenza di rendere disponibili informazioni, dati e indicatori neces-sari per conoscere, per decidere, per pianificare e per governare il territorio e la risorsa suo-lo in maniera sostenibile e rispettosa delle funzioni che essa svolge e dei delicati equilibri ambientali in cui è coinvolta (ciclo idrologico, ciclo del carbonio, funzioni ecosistemiche, etc.). Il portale suoli permette inoltre di contestualizzare le dinamiche che accadono a scala locale in un più vasto contesto territoriale, nella consapevolezza che gli effetti che con-seguono all’attività di governo del suolo si manifestano a più scale, non necessariamente coincidenti con i limiti amministrativi. Anche in virtù di questo si rileva la necessità di disporre per il territorio nazionale di dati e indicatori omogenei, frutto dell’applicazione di

Nuova superficie urbanizzata in Lombardia tra 1999 e 2007 - Elaborazione grafica a partire da basi dati DUSAF, Geoportale della Lombardia

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*Diana GiudiciPianificatore territoriale, si occupa di ambiente e di gestione sostenibile del territorio. È stata assegnista di ri-cerca presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, occupandosi di analisi dei cambiamenti di uso e copertura del suolo e conseguenti effetti ambientali. Fa parte del gruppo di ricerca VENTO del Politecnico di Milano.

Luca TomasiniIngegnere per l’Ambiente e il Territorio, si occupa di ecologia del paesaggio. È stato assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, ove ha svolto analisi sui cambiamenti di copertura/uso del suolo e sugli effetti ambientali dei consumi di suolo. Collabora all’attività didattica e fa parte del gruppo di ricerca VENTO del Politecnico di Milano.

http://www.we4land.it

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medesime metodologie. Gli indicatori disponibili sul portale suoli (sono liberamente accessibili a scala regionale e provinciale, a richiesta a scala comunale) rappresentano una prima selezione di quello che potrebbe essere un set di indicatori a supporto della redazione degli strumenti di piano. Tra gli indicatori si prevede di includere indici per la quantificazione degli effetti ambientali delle trasformazioni di uso e copertura del suolo occorse e/o previste dai piani. Tali indi-catori potrebbero costituire tasselli fondamentali del processo di Valutazione Ambientale Strategica.Oggi, guidati da una crescente consapevolezza ambientale, risulta di fondamentale im-portanza conoscere per governare il territorio in maniera sostenibile, orientati al risparmio nell’uso delle risorse e, in primis, della risorsa suolo.

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foto di Vanessa Lastrucci

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foto di Vanessa Lastrucci

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Il 29 Luglio 2012, nell’ambito della mani-festazione “TRAVOLTI DAGLI EVEN-TI”, organizzato dall’associazione Ponente che balla a Genova-Voltri, è stato presenta-to il progetto “Città aperta” che, nell’am-bito del Municipio VII Ponente (Pegli-Pra’-Voltri) ha vinto il primo premio del concorso “Giovani per i giovani”, bandito dal Comune di Genova. Il progetto CIT-TA’ APERTA è stato ideato e realizzato dall’Associazione Ponente che Balla insie-me al laboratorio di progettazione [zero-zoone].Il progetto Città aperta mira alla creazione di un laboratorio che monitorizza, analizza e propone iniziative che possano soddisfare sia la creazione di nuove imprese che l’ag-gregazione sociale attraverso la creazione di una rete che metta in relazione le risor-se umane e materiali/logistico presenti sul territorio dell’estremo ponente della città di Genova ed in particolare del Municipio VII Ponente.

PROGETTO/CITTÀ APERTAdi Silvia Cama

architetto

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Questo territorio è vivacizzato da un nu-mero notevole di associazioni e gruppi di persone che dedicano tempo e professio-nalità ad arricchire e rivitalizzare il terri-torio. Gli strumenti creati da CITTA’ APERTA sono: il sito/data base www.cittaaperta.eu che sarà linkato al sito del Municipio VII Ponente e del Comune di Genova; mappe cartacee del territorio, che sono state con-segnate ai cittadini, in cui vengono indi-viduati luoghi di incontro e azione delle associazioni. Inoltre per rendere visibili e riconoscibili le diverse realtà inserite nella rete della banca dati, ogni sede associativa è simbolicamen-te riconoscibile attraverso un “linguaggio naturale” rappresentato dalla collocazione di alberi di limone che sono stati distri-buiti a ciascuna associazione partecipante. Questo intervento ha realizzato una map-patura del territorio percepibile da tutti come segno di appartenenza a questa rete integrata del Municipio VII Ponente. Mediante questi strumenti si potrà avere una triplice lettura del territorio: multime-diale, bidimensionale e tridimensionale.

Città aperta vuole creare:

- Una piattaforma comune che concentri le caratteristiche di ciascuna realtà e le metta in comunicazione tra loro per monitora-re le problematiche di interesse comune e formulare risposte attraverso la raccolta di idee ed esigenze riguardanti tematiche di comune interesse come: organizzazione spazi pubblici, ambiente, mobilità, assi-stenza sociale o altro.

- Un modello sperimentale di monito-raggio e di gestione coordinata delle pro-blematiche e delle esigenze del territorio legate a questioni ambientali, sociali, ar-chitettoniche e urbanistiche formulando idee che mirino alla valorizzazione del ter-ritorio e nel contempo all’aggregazione so-ciale e alla creazione di nuove imprese.

- Una rete di informazioni che confluisca

in una vera e propria banca dati www.cit-taaperta.eu, che raccolga e cataloghi tutte le informazioni sulle risorse disponibili sul territorio coinvolgenti le associazioni di volontariato, le associazioni culturali, di solidarietà, le realtà imprenditoriali, gli ar-tigiani, artisti…

La finalità del progetto CITTA’ APERTA è quella di fare in modo che le risorse del territorio, umane e materiali, costituisca-no un sistema fruibile per proporre nuo-ve idee/progetti, risolvere problematiche e soddisfare esigenze territoriali di interesse pubblico rendendo partecipi i singoli cit-tadini alla realizzazione di un progetto col-lettivo. Con il progetto città aperta si vuole attiva-re un processo virtuoso che riesca a incen-tivare i giovani a partecipare e cooperare allo sviluppo di progetti comuni svilup-pando un nuovo sentimento di identità collettiva.Le risorse che l’associazione Ponente che balla e il laboratorio di progettazione [ze-

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rozoone] mettono a disposizione per la re-alizzazione del progetto sono le competen-ze e le professionalità di cui dispongono oltre che l’entusiasmo e la voglia di aggre-gazione.Attraverso il progetto si attiveranno molte-plici collaborazioni che stimoleranno una sinergia fra le associazioni per produrre una risposta forte o addirittura risolutiva a problemi comuni.

architettura/spazio/luogo/ tempo/partecipazione

Laboratorio di progettazione[zerozoone]

Il Laboratorio di progettazione[z erozoo-ne] è un collettivo variabile in numero e tipologie di elementi di cui è composto, un contenitore aperto per la ricerca e la progettazione di luoghi, oggetti e spazi. Lavora sviluppando architetture e paesag-gi modificabili nel tempo, realizzando pa-esaggi mutevoli ai cambiamenti.Sperimenta un’architettura innovativa in cui l’ambiente (inteso come ciò che ci cir-

conda) è generatore di stimoli che creano forme utili.[Zerozoone] progetta spazi pubblici attra-verso il coinvolgimento diretto di coloro che ne usufruiranno.La ricerca di [zerozoone] intende scoprire e immaginare le possibili relazioni quantiche tra cose, persone, spazi e luoghi. Relazioni fisiche ma anche relazioni mentali, come quelle tra individui, coindividui, gruppi sociali, famiglie; in rapporto tra loro e con la fisicità dei luoghi dell’Universo. Scopo di [zerozoone] è scoprire Territori inesplo-rati e renderli parte della disciplina del progetto, inteso come mezzo e strumento di ricerca più che come metodo di defini-zione della misura. Scopo di [zerozoone] è rendere virtuoso il rapporto tra artificiale e naturale nei territori del pianeta. Scopo di [zerozoone] è la ricerca di limiti sui qua-li costruire e sperimentare spazi materici Scopo di [zerozoone] è l’intimità, e il so-ciale. Scopo di [zerozoone] è l’estensione.

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promozione sociale/eventi/spettacoli/cultura

Associazione Ponente che balla

E’ una Associazione culturale di promo-zione sociale senza scopo di lucro che per-segue fini di utilità sociale. L’Associazione nasce di fatto nell’estate del 2008 in cor-rispondenza dell’ imminente inaugurazio-ne della passeggiata “Roberto Bruzzone” a Genova _ Voltri.L’obiettivo dell’associazione è quello di ri-vitalizzare il territorio del Ponente geno-vese, carente in termini di attrattive per i giovani, attraverso l’organizzazione di concerti, laboratori ed iniziative di diversa natura .Ponente che balla promuovere la solida-rietà e la “cittadinanza attiva”, la coopera-zione con le altre associazioni presenti sul territorio e con le istituzioni locali.L’associazione organizza eventi per sensi-bilizzare la cittadinanza su tematiche in campo urbanistico, paesaggistico, cultu-rale, sociale, sportivo, ricreativo e ludico

fornendo un palcoscenico ai giovani artisti e professionisti.L’associazione, in collaborazione con grup-pi di professionisti come il laboratorio di progettazione[zerozoone], formula propo-ste e progetti per la riqualificazione della periferia di ponente del capoluogo geno-vese. Ponente che balla crede che lo sviluppo di un territorio e delle nostre vite si costrui-sca partendo dalla conoscenza e dalla par-tecipazione, crede che la comprensione di ciò che ci sta intorno avvenga proponendo interventi fattibili, avvalendosi di quanti più contributi possibili (tecnici, culturali, etc..) in un’ottica di continua collaborazio-ne con il contesto locale attraverso la dia-lettica, l’entusiasmo e il divertimento.

natura[diffusa]

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Quale ruolo per un architetto?Forse é tautologia ma é finita l’epoca delle “archistar”; qualcuno potrebbe non esser-sene ancora accorto, ma il processo di dis-soluzione di questa figura é già in atto ed é irreversibile.É necessario però un passo indietro: come si é creata questa figura?

Ripercorrendo l’evoluzione del ruolo degli architetti in modo estremamente sinteti-co potrei affermare che un tempo (antico) essi fossero degli scultori “megalomani”, tanto megalomani da concepire sculture abitabili al cui interno potevano avvenire una grande quantità di attività. Questa provocatoria concezione giustificherebbe la grande adattabilità di queste “sculture” che sono giunte fino ad oggi evolvendo in contenuti (funzioni). Poi tutto é cambiato: gli architetti sono stati chiamati a “risolvere problemi”, in una società mutata in cui dare forma a nuove funzioni ed organizzare la “nuova città industriale” era l’ imperativo. Da qui

La fine delle archistar e l’invenzione dell’architettura informale

di Valerio MassaroDott. Arch.

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la prosopopeica iperbole degli architetti che arrivarono a progettare ed immaginare non solo città, quartieri ed abitazioni ma anche la vita degli uomini che avrebbero dovuto abitarle.Il resto é storia. Come é stato possibile arrivare allora all’attuale stereotipo di archistar? Architet-ti tanto megalomani da riproporsi di nuo-vo con il ruolo da scultori che il passato tributava loro, ma troppo poco coraggiosi per continuare ad immaginare intere città assoggettandosi rassegnatamente al (non)modello “contemporaneo”. La distanza tra progetto urbano e progetto architettoni-co ad un certo punto della storia recente é sembrata irrecuperabile, avvalorata da una progressiva consapevolezza della non sostenibilità di un’espansione ulteriore delle città (perlomeno quelle occidentali) che sembra aver relegato il ruolo dell’ar-chitettura a quello del singolo edificio: un edificio bello, scultoreo, dotato delle più straordinarie tecnologie, ovviamente eco sostenibile, grande come una città o minu-scolo, ma pur sempre un singolo edificio.Il motivo per cui tale modello di architettu-ra e di “architetti” é in crisi é l’ineluttabili-tà dei problemi del modo contemporaneo: problemi pregressi ma apparentemente solo ora manifesti.Gli ultimi 60 anni di storia degli esseri umani hanno visto una produzione edili-zia pari e superiore a quella del resto della storia umana, la popolazione del pianeta é quintuplicata in un cinquantennio e la maggior parte degli esseri umani vive in città.

Le stime dell’ONU indicano con un 25% del totale il patrimonio edilizio mondiale frutto della non pianificazione: un miliar-do e mezzo di esseri umani (la popolazione del pianeta all’inizio del secolo scorso) vive in una condizione di abusivismo.Gli slum, le baraccopoli e le sterminate periferie delle metropoli sono la città in-formale per definizione, e sempre di più stanno diventando il paradigma delle pro-blematiche teoriche dell’architettura con-temporanea.Perché? Perché un problema che fino a poco tempo fa era relegato ad una gene-rica casistica di problematiche del “terzo mondo” é diventato una tematica tra le più interessanti e più toccate dal mondo accademico internazionale? Cosa rappre-sentano queste città informali costituite da architetture informali? La risposta é che esse rappresentano in realtà il quadro di riferimento più ampio della condizione della città e della metro-poli contemporanea: la crescita demogra-fica e urbana non parallela ad una crescita economica; la pianificazione tradizionale che sempre di più cede il passo ad una ge-nerica azione di mitigazione dell’urbanisti-ca di “mercato”; movimenti di migranti e nuove condizioni di rapporti tra comunità che interrogano gli assetti spaziali delle cit-tà; la sempre maggiore carenza percepita di spazio pubblico come spazio di relazione e connessione.Le città occidentali, a seguito di una im-provvisa epifania, hanno scoperto che queste sono le tematiche che le interessano oggi: problematiche sociali, spazi in ab-

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bandono e necessità di riconnessioni urba-ne sono i problemi che dal terzo mondo hanno raggiunto ogni altro tipo di mondo.In tre parole l’”incertezza nel futuro” é il tema del presente, perché questa condizio-ne non ha precedenti nella storia dell’uo-mo, e perché nessuno di noi può sapere quello che accadrà da oggi a 50 anni. Sia-mo tutti sempre più consapevoli di quan-to l’immensa mole di edilizia prodotta nell’ultimo secolo (per lo più in cemento armato) sia vulnerabile al tempo, ai disa-stri naturali e all’incuria degli uomini.

Nel nostro paese viene stimato il 15% di edilizia abusiva, ed i problemi relativi all’uso degli spazi pubblici e le riconversio-ni di intere porzioni di città sono proble-matiche vive.L’architettura informale é quella che ha a che fare con tutto questo, perché sempre di più i problemi non sono formali e strut-turali. Riqualificare un quartiere e recupe-rare tessuti sociali che rischiano di spari-re per sempre sono azioni che richiedono specifiche scelte.La scelta, la decisione programmatica, la coniugazione di tempi e funzioni sono sempre di più problemi architettonici, ed essi sono problemi informali perché privi di materia costruita ma non per questo privi di sostanza.Cedric Price aveva intuito in un suo pro-getto chiamato The Generator queste con-seguenze per l’architettura contemporanea con decenni di anticipo.La mia modestissima opinione é che l’ar-chitettura necessaria a questo mondo di-venterà nel tempo sempre più informale, e che forse acquisirà (o ri-acquisirà) la A maiuscola.

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Lavorare con la natura e per la natura, in un mondo sopraffatto dalla disattenzione dei più, rappresenta oggi una necessità ol-tre che una sfida.L’uomo, da sempre parte del “mondo na-turale”, ha saputo sfruttare a proprio van-taggio i materiali (“risorse”) che riusciva a trovare intorno a se, sviluppando tecniche costruttive diverse in relazione non solo alle risorse ma anche alle diverse carat-teristiche ambientali in cui le stesse era-no presenti. Per fare un esempio, le tipi-che costruzioni su palafitta che venivano e vengono tutt’oggi costruite con pali di legno, sono legate ad ambienti acquatici, ma la presenza del legno come materiale da costruzione, in ambienti diversi ha por-tato, in linea generale a tipologie costrut-tive diverse. Seguendo ancora una visione puramente materialista, dal legno era inol-tre possibile ricavare tavole per rivestire pareti e realizzare pavimenti, scandole per coprire tetti e ripararsi dalla pioggia, travi,

LA NATURA COME MATERIA ARCHITETTONICA

ALBERI E ARCHITETTURA

Di Damiano GaleottiPaesaggista

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pilastri e altri elementi lignei con funzioni strutturali.

Ma l’albero, simbolo per eccellenza del mondo vegetale, ha sempre affascinato e al tempo stesso ispirato l’uomo con la sua “forma” e la sua struttura, esulando da semplice fonte di materiale prezioso.Nella simbologia Celtica è l’albero della vita, collegamento fra i due mondi del cie-lo e della terra. Nella pittura, assume va-rie forme e rappresentazioni, dall’albero di Jesse, all’albero della vita di G. Klimt. La sua forza e il suo richiamo ancestrale per l’uomo, sono evidenti nella rappresen-tazione della casa sull’albero (o nell’albe-ro) simbolo di protezione dai pericoli del mondo terreno; lo stesso J.R.R. Tolkien, in “The Lord of the Rings”, descrive la foresta di Loríen dove gli elfi silvani vivono una “città” costruita sugli alberi. Anche nella realtà cinematografica, come ad esempio in “Avatar”, la popolazione locale abita e trova riparo in un albero. Nella Bibbia è il frutto dell’albero che diventa simbolo e custode della conoscenza e del discerni-mento fra bene e male.

Così l’albero e il suo “materiale” hanno da sempre ispirato la fantasia di architet-ti e artisti, e proprio in riferimento all’ar-chitettura, se fino ad ora la tendenza era quella di vedere la foresta come un luogo dove prelevare materiale prezioso per le co-struzioni, oggi “fioriscono” nuove correnti come “la bio-architettura o architettura or-ganica” e la “Vegetecture” ultima frontiera

dell’architettura verde, dove l’idea guida mette in relazione lo stare bene, e quindi la qualità della vita, con il bisogno dell’uomo di vivere l’esterno in pieno contatto con la natura. Maurizio Corrado, architetto e curatore della mostra itinerante “AAA - Agricoltura Alimentazione Architettura”, attraverso la quale viene fatto il punto sul-la situazione della Vegetecture nel mondo, afferma che “l’idea, non e’ quella nostal-gica di tornare a vivere nella natura, ma di portare la natura nella citta’”, affidando in un certo senso alla vegetazione, che di-venta così protagonista ed elemento strut-turante e non solo di servizio, la possibi-lità di “conquistare”, anche se in maniera

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guidata, spazi fino ad ora mineralizzati, come nel caso del verde pensile o del ver-de verticale, “eliminando quelli che sono i confini fra spazio della natura e spazio del costruito”.

Nella bio-architettura come nella eco-ar-chitettura, la vegetazione conquista anche il ruolo di elemento strutturale vivente, passando così dall’idea di casa sull’albe-ro, in cui quest’ultimo svolge solo il ruo-lo di sostegno di una struttura fuori da se e quindi estranea a se, al concetto di casa vivente, in cui l’albero (o comunque la forma biologica scelta nella costruzione, in quanto più forme, da quella arborea a quella lianosa possono essere integrate fra di loro) può essere adattato o meglio gui-dato per la costruzione di “arbostrutture” portanti di veri e propri edifici viventi. L’ “edificio” è saldamente ancorato al terre-no attraverso l’apparato radicale dei suoi elementi strutturali (radici e fusto) e dal terreno ricava sostanze nutritive per il suo sostentamento, allo stesso tempo attraver-so il suo apparato aereo (chioma) migliora la qualità dell’aria attraverso la produzione di ossigeno e la captazione dell’anidride

carbonica e delle polveri sottili mitigando inoltre gli sbalzi termici attraverso l’eva-potraspirazione fogliare. L’edificio vegeta-le così formato, rappresenterebbe inoltre la “casa” non solo per l’uomo, ma anche per altre numerose specie di esseri viventi, fra cui insetti, svariati micromammiferi, rettili e uccelli. Il processo produttivo di questo tipo di strutture si trova, comun-que, ancora in una fase prettamente speri-mentale, causa principale la naturale len-tezza nella crescita dell’elemento vegetale “albero”. Ad oggi si trovano invece nu-merosi esempi di edifici “verdi” costruiti con salici viventi (alcuni esempi: il palazzo Auerworld (Auerworldpalast), la cattedra-le di salice (weidendom), e il padiglione delle rose (rosenpavillon)), che nel com-plesso rappresentano comunque strutture dal carattere temporaneo (essendo strut-ture viventi), se paragonate alle classiche strutture pesanti. La filosofia fondante che sta alla base delle architetture viventi può essere riassunta nei “cantieri sociali”, che permettono di rafforzare il legame “comu-nitario-territoriale”, attraverso un’attività esperienziale che mette in moto processi ludico-architettonici favorendo così l’inte-

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grazione sociale e rendendo comprensibi-li e accessibili a tutti i processi costruttivi che, di norma, sono di pertinenza esclu-siva di esperti”.L’albero, quindi, in queste nuove e an-tiche correnti di “art-chitettura” con-temporanea (l’arte di piegare, topiare e guidare le fronde nasce nel passato), pla-smato e adattato nella forma alle esigenze dall’uomo, diventa per dirla all’inglese “house”, perdendo in parte un po’ della propria identità e riconoscibilità formale che lo faceva percepire come “home” in quel piccolo angolo della memoria antica dell’uomo. Ma quest’ultima è solo un’o-pinione personale.

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Pierre Donadieu è geografo, professore a l’Ecole nationale supérieure de paysage de Versaille-Marseille. Questo libro mette in fila le parti del suo complesso ragionamen-to, che ponendo al centro il paesaggio, si interroga su quale sia il ruolo di coloro che, da professionisti, se ne occupano. La domanda che Donadieu pone è sul cosa effettivamente debbano fare i paesaggisti e soprattutto che cosa potrebbero fare in futuro. Il problema delle competenze e delle at-titudini professionali potrebbe sembrare una questione da confinare all’interno di un dibattito, puramente disciplinare, sul ruolo dell’Architettura del Paesaggio. In-vece l’autore pone l’accento su come chia-rire obiettivi e procedure sia il passo da compiere per comprendere, sia nel campo della ricerca teorica che nella professione, quale sia la reale utilità del paesaggio. Il paesaggio e la sua polisemia viene af-

RECENSIONE

Science du Paysage. Entre théories et pratiquesdi Silvia Minichinodi Pierre Donadieu, Lavoisier Edition, 2012

Phd Candidate

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frontata nel libro dal punto di vista delle molteplici conoscenze che il termine stes-so chiama in causa: architettura, urbanisti-ca, ecologia, geografia, storia, agronomia, orticultura economia e infine politica. La dimensione politica del paesaggio è in-trodotta dalla Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze 2000) ed si esplicita nelle politiche pubbliche, e non solo, che si sono servite di questo nuovo concetto giuridico per pensare lo spazio; lo scopo è quello di migliorare le qualità del vive-re quotidiano. L’autore si chiede: su quali basi scientifiche i politici, nella costruzio-ne delle loro scelte, dovrebbero decidere di affidarsi ai professionisti del paesaggio?In questo quadro viene proposta una sciences du paysage cioè una epistemolo-gia che renda chiari i processi di acquisi-zione di conoscenze e ne definisca il cam-po di applicazione. Questo può avvenire, sempre secondo l’autore, se si prende per vera l’ipotesi che il paesaggio sia una ca-tegoria progettuale. La seconda parte del libro si occupa di chiarire questo concetto passando in rassegna l’evoluzione de la conception d’un projet du paysages. Nel raccontare secondo quali meccanismi vie-ne concepito un progetto di paesaggio, la forma déduite, la forme induite, la forme abductive, e quali strategie progettua-li sono messe in atto dai professionisti - progettisti, design paysagiste, médiatrices, mixtes, Pierre Donadieu spiega la sua po-sizione riguardo al significato di approccio paesaggistico ad un progetto, a qualsiasi scala questo si voglia intendere: da questo punto pone le basi per una vera e propria epistemologia del paesaggio.

Il libro mette nero su bianco una moltitu-dine di argomenti con l’intento di spie-gare e di definire a che cosa possa servire il paesaggio, e quindi cosa possano fare i paesaggisti, senza pretendere di dare una definizione del termine univoca quanto infruttuosa. La conclusione è una propo-sta: dopo l’epistemologia del paesaggio il passo è quello verso un’ etica del paesaggio e del paesaggista. Il paesaggio come pro-

getto, progetto dello spazio, è il pensiero fondante dei ragionamenti del libro. L’au-tore sostiene la tesi dell’utilità, se non del ruolo indispensabile del paesaggio stesso, nel concepire progetti di qualità. In questa ultima parte il paesaggio diventa la cate-goria che, secondo principi che dovrebbe-ro essere noti e condivisi da attori pubblici e privati, apre alla questione di chi a che fare con il paesaggio ma non è un profes-sionista, punto controverso dell’articola-zione della relazione tra politiche, progetti e percezione.

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RECENSIONI di Eventi

7th European Biennial of Landscape Architecturedi Stella Verin

Architetto

Tre intense giornate per parlare di pae-saggio, attraverso presentazioni, papers, premi, tavole rotonde, discussioni, mostre e feste. Tutto questo è avvenuto alla 7th European Biennial of Landscape Architec-ture, che si è tenuta nella cosmopolita cor-nice di Barcellona dal 27 al 29 Settembre 2012.

L’evento si è configurato come un cataliz-zatore degli approcci e punti di vista dif-ferenti sull’architettura del Paesaggio in Europa. Professionisti e membri di diversi atenei europei hanno discusso insieme su competenze, approcci per aggiungere un tassello alla definizione della professione dell’architetto paesaggisa. Il titolo del con-vegno era Biennial VS Biennial per stimo-lare il dibattito sul percorso di evoluzione intrapreso dall’architettura del paesaggio e configurarne un nuovo futuro attraverso il

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quale si possa affermare un ruolo sempre più centrale di questa disciplina.Per individuare nuovi stimoli e buone pra-tiche da seguire è stato consegnato il Rosa Barba European Landscape Prize, che è andato a Martì French(EMF)+ Ton Arde-vol (J/T Ardevol Associates) per il progetto di ristrutturazione di Tudela-Culip Club Med nel Parco Naturale di Cap de Creus , Girona, Spagna; hanno partecipato con presentazioni nomi illustri come Stefan Tisher, Manuel Ruisànchez, Herbert Drei-steil o Kathrin Gustafson, accanto ai con-tributi degli studenti dei corsi di Paesaggio delle principali Università Europee e non solo.

http://www.coac.net/landscape/default_e.html

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VerdianaNetwork

VerdianaNetwork

Associazione di promozione sociale senza fini di lucro che diffonde una cultura della sostenibilità dello sviluppo urbano e territoriale, della conservazione e gestione del paesaggio e del patrimonio naturale e culturale, secondo i principi della Convenzione Europea sul Paesaggio (Firenze, ottobre 2000) e il modello di città creativa definito dallo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE, Potsdam, maggio 1999). Verdiana Network svolge progetti di ricerca, formazione e sensibilizzazione sui parchi, le aree protette e le reti ecolo-giche, gli itinerari culturali, gli ecomusei, i distretti culturali, la riqualificazione dei quartieri urbani e periurbani, la Valutazio-ne Ambientale Stategica (VAS) e la pianificazione urbana e territoriale a partecipazione pubblica, anche in collaborazio-ne con Università, Istituti di ricerca ed Enti pubblici, con la possibilità di coinvolgere studenti e giovani laureati attraver-so tirocini e stage formativi. Verdiana Network offre al pubblico interessato la possibili-tà di riflettere e creare dibattiti sugli argomenti oggetto della propria attività tramite la pubblicazione periodica di articoli scientifici e divulgativi nella rivista on-line Network in Pro-gress.

Nel territorio di Marche e Umbria, in collaborazione con le Fondazioni Cassa di Risparmio di Loreto, Macerata, Foligno e Perugia, Verdiana Network ha svolto un progetto di ricer-ca per il recupero dei cammini di pellegrinaggio al Santuario di Loreto e la sua menzione a Itinerario Culturale Europeo, unendo all’indagine storiografica e cartografica un approc-cio paesaggistico alla progettazione.In Lunigiana (Toscana), con la collaborazione dei Comuni di Fivizzano, Aulla, Bagnone, Fosdinovo, Licciana Nardi e Vil-lafranca, il patrocinio della Regione Toscana, Verdiana Net-work ha promosso e coordinato il Corso di Formazione e Aggiornamento professionale Parchi naturali, aree protette e reti ecologiche per lo sviluppo del territorio, che ha porta-to all’elaborazione e all’esposizione di interessanti proposte progettuali per il territorio.Per la città di Firenze Verdiana Network è impegnata in un’i-niziativa, denominata Progetto Cartoline, di sensibilizzazio-ne al tema del degrado, dell’abbandono e della necessità del recupero degli spazi della città contemporanea, nata all’interno della ricerca per un Urban Center nell’area me-tropolitana fiorentina, oggetto di pubblicazioni convegni ed esposizioni.

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