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Nelle vene dell’America Omaggio a Leonard Bernstein a 100 anni dalla nascita Orchestra Giovanile Luigi Cherubini direttore Dennis Russell Davies Emanuele Arciuli pianoforte

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Nelle vene dell’America Omaggio a Leonard Bernstein a 100 anni dalla nascita

Orchestra Giovanile Luigi Cherubini

direttore

Dennis Russell Davies

Emanuele Arciuli pianoforte

2018

Orchestra Giovanile Luigi Cherubini direttore

Dennis Russell Daviespianoforte

Emanuele Arciuli

Palazzo Mauro De André16 giugno, ore 21

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Revisori dei contiGiovanni NonniMario BacigalupoAngelo Lo Rizzo

Nelle vene dell’America

Orchestra Giovanile Luigi Cherubini direttore

Dennis Russell Daviespianoforte

Emanuele Arciuli

Leonard Bernstein(1918-1990)Sinfonia n. 2 “The Age of Anxiety”

The Prologue: Lento moderato

The Seven Ages: Variations 1-7Variation 1 L’istesso tempoVariation 2 Poco più mossoVariation 3 Largamente, ma mossoVariation 4 Più mossoVariation 5 AgitatoVariation 6 Poco meno mossoVariation 7 L’istesso tempo

The Seven Stages: Variations 8-14Variation 8 Molto moderato, ma movendoVariation 9 Più mosso (Tempo di Valse)Variation 10 Più mossoVariation 11 L’istesso tempoVariation 12 Poco più vivaceVariation 13 L’istesso tempoVariation 14 Poco più vivace

The Dirge: Largo

The Masque: Extremely Fast

The Epilogue: Adagio, Andante, Con moto

Philip Glass(1937)Sinfonia n. 11 Movement 1Movement 2Movement 3

(prima nazionale)

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“My most American work”di Cristina Ghirardini

La musica americana di Leonard Bernstein[Stravinskij] is no longer disposed to say “I love you”, straight from the heart, or, for that matter, “I hate you”, “I miss you”, or even “I defy you”. Yet it’s all in his music, including some of the strongest emotional statements ever made in music: pride, submission, tenderness, the fear of death and the love of God. How is this possible, especially in his neoclassic music, which is the extreme case, the very model of that objectivity, that obliquity, that mask we have come to know so well? 1

(Leonard Bernstein, da The Poetry of Earth, in The Unanswered Question. Six Talks at Harvard, Cambridge Mass. and London, Harvard University Press, 1976, p. 379)

D’altronde, soltanto gli animali che sono al di sotto del livello civile e gli angeli che ne sono al di sopra possono essere sinceri. Gli esseri umani sono, di necessità, attori che non riescono a immedesimarsi in qualcosa se non tramite una prestabilita finzione; e li si potrebbe dividere non in ipocriti e sinceri, ma piuttosto in uomini normali che sanno recitare e pazzi che non lo sanno.(Wystan H. Auden, da L’età dell’ansia. Egloga barocca, traduzione di Lina Dessi e Antonio Rinaldi, Genova, Il melangolo, 1994, p. 223)

Secondo Leonard Bernstein, il Novecento è l’epoca della morte. Lo dice chiaramente nella quinta delle sue celebri Norton Lectures tenute a Harvard nel 1973, intitolata The Twentieth Century Crisis. Le due guerre mondiali, che hanno messo a dura prova la sopravvivenza del genere umano, ne sono solo la prova più concreta, e secondo Bernstein la lotta novecentesca contro la morte era stata annunciata da profeti quali Freud, Einstein, Marx, Wittgenstein, Rilke, da musicisti come Mahler, Schönberg e Stravinskij e pure da poeti, tra cui proprio Auden. Nella musica in particolare, i decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento sono caratterizzati dalla crisi del sistema tonale, per due secoli punto di riferimento della musica d’arte, anche quando se ne sperimentavano i limiti con tecniche compositive che facevano del cromatismo e dell’ambiguità tonale il loro tratto stilistico. Per Bernstein, il tormento di Mahler, che a malincuore sperimentava la morte della tonalità, la dodecafonia di Schönberg e la serialità altro non sono che un rivoluzionare dall’interno il sistema tonale e, come pure il neoclassicismo di Stravinskij, sono da annoverare tra i tentativi di rispondere alla grande domanda del tempo, quella che appunto Bernstein si poneva davanti agli studenti di Harvard: “quale musica oggi?”.

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La stessa domanda senza risposta (The Unanswered Question) che Charles Ives, dal Connecticut nel 1908, ignaro di Schönberg e di ciò che stava succedendo a Vienna (come ricorda lo stesso Bernstein), affidava alla tromba, con una frase non tonale che si sovrappone alle triadi diatoniche degli archi.

Questa domanda Bernstein se l’è posta per tutta la vita. Proprio a Harvard, poco più di trent’anni prima delle Norton Lectures, nel 1939, aveva presentato una dissertazione dal titolo The Absorption of Race Elements into American Music, nella quale proponeva una possibile musica nazionale americana basata sull’assimilazione della musica dei neri d’America, in particolare del jazz, dove avevano finito per confluire i numerosi stili giunti negli Stati Uniti dall’Africa, dall’Europa e dall’America Latina.

La Sinfonia n. 2 The Age of Anxiety nasce nel 1949, lo stesso anno in cui si svolge a New York, all’Hotel Waldorf-Astoria, la Cultural and Scientific Conference for World Peace. Vi partecipa, come ospite speciale, Dmitri Šostakovič, a cui era stato imposto di leggere una relazione sui pericoli dell’influenza fascista nella musica che gli era stata preparata, ricevendo aspre critiche, un’umiliazione che lo segna profondamente. Vi partecipa inoltre Aaron Copland, che in quella sede denuncia gli effetti della Guerra Fredda sull’arte: gli artisti odiano tutte le guerre, afferma Copland, ma in un clima carico di ostilità come quello dell’epoca, permeato di paura e di ansia, il suo gesto affermativo, cioè la creazione, non può che morire prima ancora di nascere. Anche Bernstein prende parte alla Waldorf Conference ed è difficile pensare che il concetto di ansia a cui la Sinfonia n. 2 fa riferimento non sia da ricondurre proprio al clima di quegli anni e che proprio questa Sinfonia non sia in realtà un tentativo di realizzare quel gesto affermativo, così difficile in un periodo di Guerra Fredda e nel contesto che preludeva al maccartismo, di cui soprattutto Copland, ma anche Bernstein, hanno subito le conseguenze.

Figlio di genitori di origini russe e di religione ebraica emigrati negli Stati Uniti, Bernstein ritiene che nel Nuovo Mondo ci siano i requisiti per proseguire la tradizione sinfonica europea, sfida resa ancora più interessante dalla possibilità di consolidare uno stile “americano”. Del resto, non si deve dimenticare che l’emigrazione di musicisti europei negli Stati Uniti è un dato di fatto già all’epoca di Dvorák e che l’avvento del nazismo ha favorito il trasferimento in America di importanti esponenti della cultura europea, che hanno potuto innestare sul suolo americano, già da secoli luogo di incontro di tradizioni musicali e artistiche di origine diversissima, forme musicali e tradizioni compositive del Vecchio Continente.

Premio Pulitzer nel 1948, The Age of Anxiety di Wystan H. Auden, poeta di origine inglese (York, 1907 - Vienna 1973), che negli anni Quaranta aveva ottenuto la cittadinanza americana, ha come sottotitolo A Baroque Eclogue. Si tratta di un poema, con

brevi parti in prosa, in sei parti (Prologo, Le sette età, I sette stadi, Il canto funebre, La recita, Epilogo) di grande virtuosismo linguistico e che propone un uso rinnovato e sperimentale della metrica classica. Narra l’incontro in un bar di New York, la notte dei Morti di un anno durante la Seconda guerra mondiale, di quattro personaggi: tre uomini, Quant, un addetto alle spedizioni, Malin, un ufficiale dell’Aviazione Canadese, Emble, un giovane appena arruolato in marina, e una donna, Rosetta, addetta all’ufficio acquisti di un grande magazzino. Sconosciuti, sentono il bisogno di cominciare a parlarsi quando la radio comunica le ultime notizie dalla guerra. I quattro personaggi iniziano dunque un dialogo che li porta a fare, a turno, considerazioni sulle sette età della vita e a vivere un sogno comune (forse l’idillio a cui fa riferimento il termine “egloga”), i “sette stadi”. Una volta risvegliati, decidono di trasferirsi a casa di Rosetta, dove Emble e la ragazza ballano e dove sembrerebbe iniziare la relazione amorosa tra i due che già si intuiva nei Sette stadi. La relazione è tuttavia troncata sul nascere poiché, mentre Rosetta congeda Malin e Quant, Emble si accascia sul letto della camera da letto della donna, addormentato e provato dall’alcol. Malin e Quant, infine, si salutano sulla strada con la promessa di rivedersi, ma con la consapevolezza che non si incontreranno mai più. Se dunque l’egloga si apre con l’idea che in tempo di guerra, “quando ciascuno è ridotto allo stato ansioso di persona equivoca o di profugo”, sia possibile instaurare un rapporto di solidarietà e di improvviso interesse reciproco tra estranei, in realtà i quattro personaggi non raggiungono mai realmente un rapporto di intesa, tranne, forse, nel sogno comune, in cui attraversano a coppie, a piedi, in bicicletta, in barca o su altri veicoli, paesaggi immaginari fatti di ambienti naturali, di città e di cimiteri, in cui si riflettono i loro pensieri:

Un fenomeno tuttavia meno conosciuto e più significativo è il modo in cui la nostra fede nell’esistenza di altri esseri, di solito piuttosto instabile, è straordinariamente rafforzata e pronta ad accettare ( forse proprio perché, per una volta tanto, il dubbio è stato così totalmente superato) le più impensate giustificazioni. Può accadere infatti, qualora le circostanze siano propizie, che i membri di un gruppo in tali condizioni stabiliscano un rapporto nel quale la comunicazione di sentimenti e pensieri è così precisa e istantanea che essi sembrano funzionare come un unico organismo. Questo appunto si verificò mentre essi cercavano quello stato di felicità preistorica che, dagli esseri umani, può essere immaginato soltanto in termini di un paesaggio che abbia in sé una simbolica rassomiglianza con il corpo umano. E quanto più i nostri quattro dimenticavano l’ambiente che li circondava e perdevano il senso personale del tempo, tanto più sensibilmente divenivano consapevoli l’uno dell’altro, finché portarono a compimento nel sogno quella società straordinaria che altrimenti si può raggiungere solo in condizioni di estrema lucidità.2

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Israele nel suo monologo alla fine della quinta parte del poema, La recita, e che Malin invece si aspetta dal Dio dei cristiani al termine dell’Epilogo.

Possiamo immaginare che, oltre a considerare Auden, come Stravinskij, uno dei profeti del Novecento, Bernstein lo paragonasse al compositore russo anche per il suo neoclassicismo (tra l’altro Auden è l’autore del libretto di The Rake’s Progress), per la fiducia nelle forme e nella metrica del passato in un momento in cui la scrittura musicale e i linguaggi poetici attraversano profonde trasformazioni. Di certo, all’epoca Bernstein persegue l’obiettivo di scrivere una sinfonia “americana” e, stando agli appunti relativi a una trasmissione radiofonica del 1959 dedicata alla musica americana conservati alla Library of Congress, avrebbe affermato che proprio The Age of Anxiety è il suo “most American work”.4 Egli però non riprende il contenuto del poema di Auden nella Sinfonia n. 2, lo afferma chiaramente nella prefazione alla partitura: il poema serve da punto di partenza formale, nel quale mettere in atto procedimenti compositivi che solo a posteriori rivelano inconsce relazioni programmatiche col testo:

I had not planned a “meaningful” work, at least not in the sense of a piece whose meaning relied on details of programmatic implication. I was merely writing a symphony inspired by a poem and following the general form of that poem. Yet, when each section was finished I discovered, upon re-reading, detail after detail of programmatic relation to the poem – details that had “written themselves”. Since I trust the unconscious implicitly, finding it a sure source of wisdom and the dictator of the condign in artistic matters, I am content to leave these details in the score.5

Nella Sinfonia di Bernstein, pensata per orchestra e pianoforte, le sei sezioni del poema di Auden sono raggruppate in due parti, di cui il Prologo e quattordici variazioni costituiscono la prima, il Canto funebre, La recita e l’Epilogo la seconda. Dopo il breve Prologo, sette variazioni corrispondono alle Sette età, seguite senza soluzione di continuità dalle altre sette variazioni corrispondenti ai Sette stadi. Il perentorio Canto funebre (il viaggio in taxi verso l’appartamento di Rosetta in cui si piange la perdita di una figura paterna) è aperto da una serie di dodici suoni ascendenti al pianoforte e si stempera nella Recita (il tempo trascorso a casa della donna bevendo e ballando), un movimento in stile jazzistico costruito come un dialogo tra il pianoforte e le percussioni. Chiude la Sinfonia un Epilogo in cui torna l’orchestra, riprendendo a tratti il clima jazz della Recita e il tema iniziale del Prologo. Nella versione del 1949, l’Epilogo riserva un ruolo estremamente limitato al pianoforte, che tace per gran parte del movimento per tornare solo nell’accordo finale; solo nel 1965 Bernstein, in occasione di una revisione dell’opera, vi aggiungerà una cadenza per il pianoforte.

The Age of Anxiety è stata letta con un’attenzione agli interessi di Auden per la psicanalisi. Auden conosceva bene gli scritti di Freud e a lui aveva dedicato un poema nel 1939, in occasione della morte, ma conosceva pure le teorie sui tipi psicologici di Jung, le cui idee sul mito e sugli archetipi sembrerebbero avere avuto un impatto più immediato nella sua poesia. Secondo Alan Jacobs, che ha recentemente curato un’edizione critica di The Age of Anxiety,3 i quattro personaggi rappresenterebbero rispettivamente quattro facoltà umane di matrice junghiana, che Auden aveva già indagato in For the Time Being, poema redatto a partire dal 1941: intuizione (Quant), sentimento (Rosetta), sensazione (fisica, contrapposta al sentimento interiore, Emble), pensiero (Malin).

Inoltre, in The Age of Anxiety, temi come lo spaesamento, il sogno, la memoria, la guerra, i “fanatici nazisti” di cui i quattro personaggi vengono a conoscenza tramite la radio (forse il quinto protagonista del poema e che fa da contrappunto drammatico, ironico e sarcastico, ai pensieri e ai discorsi di Quant, Malin, Emble e Rosetta) si intrecciano con la riflessione su una possibile salvezza messianica, che Rosetta intravede attraverso il Dio di

Leonard Bernstein con Serge Koussevitzky a New York nel 1949. © Edward Zwerin

Alla pagina 8, Ritratto di Leonard Bernstein. © Mike Evans

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l’ironia: “My original idea was to produce a mockery of faith, a phony faith”.7 Dopo aver richiamato i temi precedenti della Sinfonia e congedato il pianoforte, l’Epilogo lascia agli archi e ai flauti un gioco melodico privo di dialettica dal punto di vista armonico che, sebbene interrotto dall’orchestrazione esuberante alla maniera di Koussevitzky, priva il movimento finale del trionfalismo che ci si potrebbe aspettare in una conclusione sinfonica.

Dopo The Age of Anxiety, Bernstein scrive solo un’altra sinfonia, divenendo invece noto per la sua musica per il teatro. Non sappiamo se abbia finito per farsi convincere dall’impresario di Broadway con cui nel novembre 1954 scambia lettere e telegrammi sul tema Che ne è della grande sinfonia americana? pubblicati nelle Conversazioni immaginarie nel volume La gioia della musica. L’impresario sosteneva che il futuro della musica americana fosse nel teatro, non certo nella sinfonia, di cui, a suo avviso, si è persa la necessità storica. Bernstein ribatte con varie argomentazioni, tra cui la differenza sostanziale tra la naturalezza dei compositori nella Germania all’epoca del Singspiel e quelli americani, che conoscono cosa è successo nei 250 anni seguenti. Il problema tuttavia non cambia molto nella sinfonia o nel teatro, e riguarda in ogni caso la possibilità di comporre “musica americana”, che rimane per Bernstein, una necessità interiore:

Se è vero che l’America si trova, ai giorni nostri, nella stessa situazione della Germania del Singspiel, è anche vero che ha il vantaggio di poter conoscere in anticipo lo sviluppo avutosi nei 250 anni che seguirono. C’è una bella differenza, dopotutto! Non s’accorge che il grande sviluppo musicale in Germania è dipeso proprio dalla naturalezza, dalla spontaneità dei suoi inizi? I compositori americani di oggi non potranno mai avere la stessa naturalezza, la stessa innocenza perché compongono dopo che al mondo sono venuti Mozart, Strauss, Debussy, Schönberg. Essi sono, probabilmente, condannati a essere epigoni e a seguire nella direzione loro indicata dalla ultrasviluppata Europa. Non è forse più tanto stimolante comporre musica oggi quanto poteva esserlo nel 1850. È una constatazione triste ma è vero. Comunque, che cosa vuole che facciano tutti i compositori americani? Debbono trasferirsi in massa nell’industria delle calzature? Se scrivono musica è per una loro necessità interiore, e questo significa che la loro produzione non può mancare di una certa validità sostanziale; si possa essa spiegare o no con la sua teoria.8

Teatro e sinfonia, del resto, non sono così lontani, lo aveva confessato lo stesso Bernstein nella prefazione alla partitura di The Age of Anxiety:

If the charge of “theatricality” in a symphonic work is a valid one, I am willing to plead guilty. I have a deep suspicion that every work I write, for whatever medium, is really theatre music in some way.9

La Sinfonia è composta nel periodo tra il 1948 e il 1949, quando Serge Koussevitzky dà a Bernstein la possibilità di eseguire un’opera con la Boston Symphony Orchestra. Viene infatti eseguita per la prima volta a Boston l’8 aprile 1949, diretta dallo stesso Koussevitzky che festeggia i suoi 25 anni con la Boston Symphony, al pianoforte lo stesso Leonard Bernstein.

La figura di Koussevitzky rientra pienamente in quella riflessione sulla musica americana avviata sin dai tempi degli studi ad Harvard. Egli, infatti, emigrato dalla Russia attraverso la Francia, portava con sé le tecniche di orchestrazione ereditate dallo stile sinfonico di Šostakovič e (benché anticomunista) fu uno dei protagonisti degli scambi, più o meno clandestini, che avvenivano tra il regime sovietico e gli Stati Uniti, e che consentirono per esempio di far eseguire la Quinta Sinfonia di Roy Harris, diretta appunto da Koussevitzky, in occasione del venticinquesimo anniversario dell’Armata Rossa nel 1942, e di far arrivare negli Stati Uniti i microfilm della Settima di Šostakovič, dove, lo stesso anno, fu diretta prima da Toscanini e poi dallo stesso Koussevitzky.

L’orchestrazione del maestro di origine russa di Bernstein e il neoclassicismo di Stravinskij sono due dei poli attorno a cui è costruita la Sinfonia n. 2, che tuttavia ambisce a far propria anche la capacità di assimilazione degli stili del jazz (evitando banali imitazioni e manierismi) che Bernstein riconosceva in particolare ad Aron Copland. Dal punto di vista della scrittura pianistica, invece, Bernstein aveva tra i suoi punti di riferimento John Mehegan, formatosi alla Juilliard School e a Yale, ma attivo anche nei jazz club, e George Gershwin, evocato nel dialogo tra il pianoforte e le percussioni nella Recita, dove la celesta, afferma Bernstein stesso, richiama il rintocco dell’orologio che ricorda ai personaggi l’ora tarda della notte.

Il poema di Auden finisce con un anticlimax, annunciato appena Rosetta ha accompagnato all’ascensore Malin e Quant:

Poi scompaiono allo sguardo di lei. Rientrata nel suo appartamento, s’accorge che Emble se n’è andato nella camera da letto ed è svenuto, ubriaco. Lo guarda a lungo, metà triste, metà sollevata e pensa:Cieco sul letto nuziale lo sposo russa,troppo distante per amare. Hanno ceduto i suoi nervi,ti è venuta meno la coscienza perché non ero veramente il tuo tipo? Ballavi così beneche ho desiderato di esserlo. Resterai dunqueun principe tanto amabile? Forse no.Ma bello sei, non è vero? Persino ora seiun cadavere regale. Ti metterò nella barafinché non regnerai di nuovo.6

Come conciliare l’assenza di conclusione nel poema di Auden con la necessità tipicamente sinfonica di raggiungere un climax? Bernstein ha dichiarato di aver provato a suo modo a giocare con

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La musica americana di Philip GlassSessantotto anni separano la Sinfonia n. 2 The Age of Anxiety

di Bernstein dalla Sinfonia n. 11 di Philip Glass, che ha debuttato l’anno scorso, il 31 gennaio 2017 alla Carnegie Hall di New York in occasione dell’ottantesimo compleanno del compositore, con David Russel Davies alla guida dell’Orchestra Bruckner di Linz. La domanda “quale musica oggi?” e la necessità di definire una musica “americana” su cui Bernstein rifletteva con il suo pubblico e con gli studenti di Harvard, con la passionalità che le sue conversazioni e i suoi scritti trasmettono, sembrano lontane dal minimalismo sornione di Philip Glass. Ma ci sbagliamo, ed è Carlo Boccadoro a porre a Philip Glass la domanda chiave che riporta il compositore nel solco della storia musicale americana del secolo appena trascorso, senza nulla sacrificare alla sua singolarissima esperienza personale:

Carlo Boccadoro: Vorrei chiederti una cosa che mi ha sempre incuriosito. Tu e altri compositori della tua generazione (Steve Reich, Terry Riley, La Monte Young) siete visti in tutto il mondo come autori di una musica americana al cento per cento. Alcuni critici hanno addirittura parlato di una nuova tradizione americana. Quello che trovo curioso è che per raggiungere un risultato di questo tipo voi abbiate voltato le spalle ai musicisti che rappresentano la “scuola americana” prima di voi. Nelle vostre partiture non c’è traccia dell’influenza di autori come Copland, Ives o Barber. Non c’era proprio nulla del loro lavoro che vi interessasse? Per raggiungere un vostro stile avete guardato piuttosto ad altre culture. Reich si è interessato alla musica africana, tu e Riley a quella indiana. Rinunciando alle vostre origini avete, paradossalmente, raggiunto il risultato opposto. La vostra musica, infatti, non suona affatto esotica o imitativa, ma assolutamente americana, e in quanto tale ha successivamente avuto molta influenza anche in Europa. Non ti sembra singolare questo percorso?Philip Glass: In effetti quello che dici può sembrare strano, tuttavia non sono d’accordo sul nostro “rifiuto” della generazione precedente, anzi credo che se ne possano ritrovare diverse caratteristiche. Tutti i compositori che hai nominato sono compositori tonali, e noi anche. In questo senso stiamo continuando la loro tradizione. Specialmente con Copland il legame è molto più stretto di quel che può sembrare a prima vista. Molto del suo lavoro, oltre che a scrivere musica, consisteva in una capillare operazione di stimolo e incoraggiamento verso la musica moderna attraverso conferenze, articoli e interviste che potessero renderla comprensibile a tutti, e anche il mio lavoro si svolge in questa direzione. Lui non apparteneva a nessuna scuola ufficiale, era una persona indipendente. Anche Ives non aveva nulla a che fare con il mondo accademico della musica, si guadagnava da vivere con il suo lavoro di assicuratore, e neppure Barber era un insegnante. Lavorare in assoluta indipendenza all’interno della comunità musicale, senza avere a che fare con le istituzioni ufficiali e cercando un pubblico diverso da quello già esistente: questo è ciò che faccio e che anche loro

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facevano. Anche l’interesse per le musiche di altre culture ha una lunga tradizione nel mio Paese, basta pensare a compositori come John Cage o Henry Cowell, uno dei primi a interessarsi di queste cose. Anche Lou Harrison, che vive e lavora in California, ha studiato a lungo il gamelan balinese. Il suo esempio ha addirittura dato vita a una scuola di compositori americani che scrivono esclusivamente musica gamelan. Nel caso di Cage l’interesse non si è fermato alla musica ma si è esteso anche alle filosofie orientali. Si può dire che il nostro entusiasmo per queste musiche fosse anche una reazione contro l’influenza dell’accademismo europeo. Mi ricordo di quando ero studente alla Julliard School; era estremamente facile avere accesso alla musica di altri Paesi, bastava andare in biblioteca dove c’erano numerosi dischi e nastri. Tutto ciò, però, era catalogato come “musica etnica”, intendendo questo termine in senso peggiorativo. Una musica che non ha tradizioni classiche, per la quale non c’è bisogno di studiare. In realtà sappiamo benissimo che non è così. In molti Paesi africani chi vuole studiare musica spesso lascia la sua famiglia, si trasferisce in casa del suo insegnante e studia dagli otto ai dieci anni con lui per impratichirsi delle tecniche essenziali. Altro che musica primitiva... Nel mio caso l’interesse per l’India è incominciato verso la fine degli anni Sessanta, quando ho collaborato con musicisti come Ravi Shankar e Allah Rakah. Lo studio di queste musiche ha avuto una importanza fondamentale per lo sviluppo del mio stile compositivo. Tornando alla tua domanda iniziale, comunque, l’uso di queste tecniche non veniva certo utilizzato in senso polemico contro Copland, semmai contro Boulez e Stockhausen! In quegli anni né Copland né Barber erano più considerati compositori importanti, tutto l’interesse della critica si era spostato sui musicisti appartenenti all’avanguardia, legati al giro di Darmstadt. Questo era ciò che veniva assurdamente chiamato “il futuro della musica”.10

La fiducia nel sistema tonale (del quale Bernstein finì per fare il primo Credo nella lunga successione di I believe che chiudono l’ultima delle sue Norton Lectures) e nella sua capacità di assorbire stimoli provenienti da altre culture musicali sono due degli elementi che legano Bernstein a Philip Glass, come lo sono il desiderio di prolungare l’arco della musica sinfonica che unisce tradizione europea e americana in un continuum di tre secoli e la stretta relazione con la musica per il teatro. Se Bernstein conclude il ragionamento su Che ne è della grande sinfonia americana? risolvendosi a scrivere un musical, essendo tuttavia pienamente convinto che anche una sinfonia può essere teatrale, Philip Glass giunge alla sinfonia nei primi anni Novanta, dopo una lunga esperienza nel teatro e dopo aver vinto alcuni pregiudizi. Alla fine degli anni Ottanta erano le scarse possibilità di esecuzione a trattenerlo, un senso di inadeguatezza, essendo abituato ad avere a che fare con un contesto musicale più interdisciplinare della sala da concerto, e anche il timore di incontrare un pubblico meno aperto.

I never cared to spend much time writing symphonic music because you just don’t get many performances. Another reason is no one ever asked me to do it. I get asked to write operas, but I don’t get asked to write symphonies. But I would have to struggle with the idea of devoting that much time and effort. In theater terms, a symphonic work is a fairly short work. But even so, you know I think there’s another fact, too, about this – I do think that theater composers and symphonic composers or concert composers are very different kinds of people. I think there’s a very good reason why Brahms did not write a lot of operas and Verdi didn’t write a lot of symphonies. I think that they are what we call a métier, and that if your métier is working in the theater you are inclined to do that, and that you begin to lose the habit of thinking in terms of the concert stage in that way. When people ask me what kind of music I write, I get around the whole business by saying I am a theater composer [...]There is another point, too, which is that the audience that comes to the theater, in my opinion, has a broader interest in the arts. They may know something about the visual arts or something about dance, and I find it a more interesting audience, generally speaking. Whereas the audience that confines itself to the concert hall may not be very much in touch with the rest of the artistic community.11

Va al direttore d’orchestra Dennis Russel Davies, con il quale Philip Glass collaborava da tempo, il merito di averlo convinto che le cose non stanno così e a commissionargli una prima sinfonia nel 1991. L’esperienza si rivela positiva: la sinfonia è il campo nel quale poter elaborare gli stimoli musicali più diversi, dalla musica pop alla tradizione europea, facendo interagire orchestra e masse corali e mettendo a frutto le lezioni di contrappunto che Nadia Boulanger aveva impartito a Philip Glass negli anni Sessanta. I dubbi precedentemente espressi sulle scarse occasioni esecutive e sul pubblico vengono in breve dissipati dal prestigio che la tradizione sinfonica si porta dietro e, oltrepassati i cinquant’anni, Philip Glass deve aver pensato che era ora di dimostrare, anche ai frequentatori delle rinomate sale da concerto di tradizione, di aver raggiunto la maturità.

Nasce quindi Low nel 1992, su temi di David Bowie e Brian Eno, la Sinfonia n. 2 (1994) che egli concepisce come uno studio sulla politonalità prendendo a modello Honegger, Milhaud e Villa-Lobos, la Terza Sinfonia (1995) per orchestra d’archi pensata come un grande ensemble cameristico in cui Glass recupera la forma della ciaccona, la Quarta, Heroes (1996), di nuovo su musiche di David Bowie e Brian Eno, la Quinta Requiem, Bardo, Nirmankaya (1999), la Sesta intitolata Plutonian Ode (2002), dal poema di Allen Ginsberg su cui è basata, nonché la Settima Toltec (2004), l’Ottava (2005), la Nona (2010-2011), la Decima (2012) e infine l’Undicesima, completata un anno fa e presentata ora in prima nazionale italiana.

La sinfonia torna a essere un banco di prova nel quale

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un’orchestra americana, più capace di capire l’aspetto ritmico delle mie composizioni.La Bruckner Orchester, invece, ha suonato i miei lavori meglio di quanto non avessero fatto le orchestre americane, dimostrandomi quanto avessi torto. In qualche modo Bruckner si era conficcato nella mia psiche: avevo ascoltato quei suoi pezzi e li avevo digeriti interi, cosicché mi erano rimasti impressi nella memoria.12

Ma Dennis Russel Davies è anche colui che ha diretto le sinfonie di Philip Glass in tutte le incisioni discografiche, che si sono avvalse delle tecnologie di postproduzione sviluppate nella musica pop e rock e abilmente impiegate dallo storico sound engineer del Philip Glass Ensemble, Kurt Munkacsi.13 Se le registrazioni di musica sinfonica hanno a lungo mirato alla riproduzione il più possibile vicina al suono dal vivo, dagli anni

sperimentare il suono della compagine orchestrale dal vivo, ma allo stesso tempo offre un campo ancora inesplorato in cui giocare con la possibilità di estendere la fase di creazione dell’opera alla postproduzione in studio di registrazione.

In tutto questo, come ricorda Glass, Dennis Russel Davies ha avuto un ruolo fondamentale:

Essere diventato un conoscitore di Bruckner si è inaspettatamente rivelato un grande beneficio quando il mio vecchio collega e amico Dennis Russel Davies, dopo la sua esperienza alla guida dell’Orchestra sinfonica della Radio di Vienna, è stato nominato, nel 2002, direttore musicale dell’Opera di Linz e direttore stabile della Bruckner Orchester Linz. È stato grazie a Dennis che le mie sinfonie sono state eseguite in Austria. La prima volta che sono andato a Linz non avevo grandi aspettative, convinto che la mia musica fosse più adatta a

Il Philip Glass Ensemble durante l’esecuzione di Orion nell’area esterna del Palazzo Mauro De André, Ravenna Festival, 10 giugno 2004.

Alla pagina 16, Philip Glass durante l’esecuzione di Orion.

Alla pagina 22, da sinistra: Michael Riesman, Cristina Mazzavillani Muti, Philip Glass e Riccardo Muti nei camerini del Palazzo Mauro De André.

© Maurizio Montanari

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Sessanta in avanti la popular music si è sempre di più avvalsa delle trasformazioni nelle tecnologie di registrazione sonora per fare della sala di incisione un luogo di produzione artistica completamente diverso rispetto a ciò che si ottiene in una performance dal vivo. Di questo si era già accorto Glenn Gould, che nella trasmissione radiofonica per la Canadian Broadcasting Corporation (l’intervento fu poi pubblicato nella rivista «High Fidelity» del 1966) aveva previsto che le esecuzioni nelle sale da concerto sarebbero state sostituite da quelle mediate dalla registrazione in studio. Philip Glass non poteva che essere particolarmente attratto dalle opportunità che la postproduzione offriva alla musica sinfonica, se già per le esecuzioni dal vivo del suo ensemble amava dichiarare:

Many people recording classical music still now try to create the illusion that the listener is in a concert hall. We’re trying to create the impression that you’re listening to a record.14

Dennis Russel Davies ha accettato la sfida di lavorare con Philip Glass anche in sala di incisione dove, in collaborazione con il suo team, e in primo luogo con Kurt Munkacsi, si prosegue il processo compositivo, registrando con le cuffie (isolandosi dunque dalla risposta acustica della sala), a sezioni separate e con il metronomo, per poi ricomporre la sinfonia in postproduzione, avvalendosi della possibilità di ottenere, con l’uso della tecnologia digitale, risultati impossibili in sala da concerto, in termini per esempio di timbro, intonazione, dinamiche e tempi.

In questo si può riconoscere un contributo originale di Philip Glass alla musica sinfonica: inaugurare una modalità di scrittura che si completa solo a seguito di un lavoro in sala di incisione e

1 [Stravinskij] non è più disposto a dire, diretto dal cuore, “ti amo”, o, del resto, neanche “ti odio”, “mi manchi”, e nemmeno “ti sfido”. Eppure c’è tutto nella sua musica, persino alcune delle dichiarazioni emotive più forti mai fatte in musica: orgoglio, sottomissione, tenerezza, paura della morte e amore per Dio. Com’è possibile, specie nella sua musica neoclassica, che è l’esempio più estremo, il modello più pregnante di quell’obiettività, quell’obliquità, quella maschera che abbiamo imparato a conoscere così bene?

2 W.H. Auden, L’età dell’ansia. Egloga barocca, Genova, Il melangolo, 1994, pp. 122‑123.

3 W.H. Auden, The Age of Anxiety. A Baroque Eclogue, ed. by Alan Jacobs, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2011.

4 P. Gentry, Leonard Bernstein’s The Age of Anxiety: A Great American Symphony during McCarthyism, «American Music», 29/3, 2011, pp. 308‑331, la citazione è da p. 310.

5 Non avevo immaginato un’opera “esplicativa”, perlomeno non nel senso di un’opera il cui significato fosse basato su dettagli dell’allusione programmatica. Semplicemente ho scritto una sinfonia ispirata a un poema, seguendo la forma generale di quel poema. Tuttavia, al termine di ogni sezione, ho scoperto, rileggendo, dettaglio dopo dettaglio, la relazione programmatica col poema, dettagli che “si erano scritti da soli”. Poiché implicitamente ho fiducia nell’inconscio, che ritengo una sicura fonte di saggezza e un regolatore della proporzione nei prodotti artistici, sono favorevole a lasciare questi dettagli nella partitura (L. Bernstein, The Age of Anxiety: Symphony No. 2 for Piano and Orchestra after W.H. Auden, New York, Schirmer, 1949).

6 W.H. Auden, L’età dell’ansia. Egloga barocca, cit., p. 245.

7 La mia idea originale era parodiare la certezza fideistica, tentare una fiducia posticcia (da un’intervista di Philip Ramey, 1975, in M. Secrest, Leonard Bernstein: A Life, New York, Knopf, 1994. p. 175).

8 L. Bernstein, La gioia della musica, traduzione di Raffaele Mammalella, Milano, Longanesi, 1982, p. 35.

9 Se l’accusa di “teatralità” in un lavoro sinfonico è valida, desidero dichiararmi colpevole. Ho il profondo sospetto che ogni lavoro che scrivo, per qualsiasi medium, sia in realtà in qualche modo musica teatrale (L. Bernstein, The Age of Anxiety: Symphony No. 2 for Piano and Orchestra after W.H. Auden, New York, Schirmer, 1949).

10 C. Boccadoro, Musica coelestis. Conversazioni con undici grandi della musica d’oggi, Torino, Einaudi, 1999, pp. 59‑61.

11 Non mi è mai interessato spendere molto tempo a scrivere musica sinfonica perché non avrei molte occasioni per eseguirla. Un’altra ragione è che nessuno me l’ha mai chiesto. Mi chiedono di scrivere opere, ma non di scrivere sinfonie. Dovrei lottare con l’idea di dedicarci tanto tempo e fatica. In termini teatrali, un lavoro sinfonico è piuttosto corto. E comunque, sai, credo ci sia un’altra questione: credo che i compositori di teatro, di sinfonie o di concerti siano persone diverse. Credo che ci sia una buona ragione per

in fase di postproduzione, trasformando i tradizionali equilibri tra compositore, direttore d’orchestra e musicisti, richiedendo al direttore una versatilità non consueta, ma allo stesso tempo offrendogli la possibilità di differenziare in maniera significativa le esecuzioni discografiche da quelle dal vivo, che pertanto tornano alla loro originaria dimensione, quella dell’oralità e di eventi unici e irripetibili.

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cui Brahms non ha scritto molte opere e Verdi non ha scritto molte sinfonie. Penso che siano da ricondurre a ciò che chiamiamo “mestiere” e se il tuo mestiere è lavorare in teatro, sei portato a fare quello e cominci in quel modo a perdere l’abitudine di pensare al palcoscenico da concerto. Quando mi chiedono che musica scrivo, aggiro l’ostacolo dicendo che compongo per il teatro [...]. C’è un’altra questione, inoltre: che il pubblico che viene a teatro, a mio parere, ha un interesse più ampio per l’arte. È probabile che sappia qualcosa di arti visive e danza e, generalmente parlando, lo trovo un pubblico più interessante. Invece il pubblico che si chiude nella sala da concerto può non essere molto in contatto con il resto della comunità artistica (V. Thomson, P. Glass, G. Sandow, J.B. Clark, The Composer and Performer and Other Matters: A Panel Discussion with Virgil Thomson and Philip Glass, Moderated by Gregory Sandow, «American Music», 7/2, 1989, pp. 181‑204, la citazione è dalle pp. 196‑197).

12 P. Glass, Parole senza musica, Milano, Il Saggiatore, 2015, p. 64.

13 J. Grimshaw, High, “Low,” and Plastic Arts: Philip Glass and the Symphony in the Age of Postproduction, «The Musical Quarterly», 86/3, 2002, pp. 472‑507.

14 Molte delle persone che registrano musica classica ancora tentano di creare l’illusione che l’ascoltatore si trovi in una sala da concerto. Noi cerchiamo di creare l’impressione che stiate ascoltando un disco (Aaron M. Shatzman, The Sound of Minimalism: Philip Glass in Concert and on Record, in Writings on Glass: Essays, Interviews, Criticism, ed. Richard Kostelanetz, New York, Schirmer, 1997, p. 285).

Camaleaudendi Valerio Magrelli

ISi può arrivare a Auden seguendo uno scrocchiolio. È quello

in cui si imbatte il lettore di Passeggiavo una sera, anzi il poeta stesso, quando, ricorrendo a un ben noto espediente, presenta la trascrizione del doloroso canto di un amante. Mentre il motivo si avvia alla conclusione, due strofe si soffermano, trasfigurandoli, sugli oggetti apparentemente familiari di una qualsiasi abitazione borghese: “Il ghiacciaio batte nella credenza, / il deserto sospira nel letto, / e la crepa nella tazza apre / un sentiero alla terra dei morti / [ ... ] / Oh guarda, guarda nello specchio, / oh guarda nella tua angoscia / la vita è sempre una benedizione / per quanto tu non possa benedire”.1

Quella narrata in questa coppia di quartine rappresenta un’autentica metamorfosi, nel corso della quale la piccola cerchia domestica si muta in un paesaggio nuovo, perturbante. Avvertiamo così il lento cigolare di un anfiteatro morenico che cresce tra le mensole della vecchia scansìa, scorgiamo la trasformazione delle lenzuola in una landa desolata, scopriamo che il muto procedere di una fessura lungo lo smalto delle nostre tazzine conduce nel Regno degli inferi. È come se il lieve velo del visibile si lacerasse per lasciar trasparire una realtà sottostante, primigenia. È il Male, o forse soltanto la Morte, che si rivela all’opera in un servizio da tè. D’altronde, per usare due versi di William Blake assai amati dall’autore, “che il diavolo sia un contorno Nero, / lo sappiamo tutti”.2

Lo sappiamo tutti, sebbene forse solamente Auden sia riuscito ad esprimerlo, in pieno Novecento, con tanta economia di mezzi. Certo, l’arte di questo supremo poeta, critico, saggista, risulta nutrita di letture vastissime. E per tagliare una volta per tutte il nodo di Gordio delle influenze, nulla di meglio che ricordare Ringraziamento, breve lirica in cui sono elencati i debiti contratti verso scrittori e filosofi quali Hardy, Thomas, Frost, Yeats, Graves, Brecht, Kierkegaard, Williams, Lewis, Orazio e Goethe. Conclude il testo: “Teneramente considero Voi tutti: / senza Voi non avrei potuto maneggiare / nemmeno il più debole dei miei versi”.3 Testimoniando dell’insanabile lacerazione tra la possente dimensione arcaica del mito e la miseria dell’alienazione contemporanea, tra l’Ade di ieri e le stoviglie di oggi, Auden si colloca dunque nel vivo del laboratorio moderno. Eppure, in certo modo, è come se per lui tale contrasto diventasse costitutivo, fondante, ossessivo fino al manierismo (cosa che

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dell’edificio diurno. Qui gli oggetti non lasciano trapelare l’Altro (ghiacciaio, deserto o Aldilà), al pari di un ultracorpo che silenziosamente li divori dal di dentro. Qui la lacerazione tra convenzione e conoscenza si limita a tradursi in una similitudine, un paragone facilmente afferrabile e tuttavia sufficiente a mostrare, con un solo colpo d’occhio, l’incommensurabile distanza tra i due termini. Davanti all’impietosa verità dello sguardo notturno, la carta patinata (e insieme a lei le norme e le forme del vivere sociale) arretra fino al punto da trasformarsi in povero reperto antropologico. Il quotidiano (le cose di tutti i giorni, e in senso traslato il giornale stesso) acquista insomma lo statuto di fossile. Ora non sono più le suppellettili a deformarsi, bensì il nostro rapporto con esse, come se l’azione straniante della notte scalzasse l’uomo dall’alveo delle sue consuetudini percettive, sbalzandolo in un’abissale lontananza.

IIMa nelle due stanze di Passeggiando una sera, il tema della

trasformazione non è l’unico ad interessarci, poiché in questi pochi versi, composti intorno al 1938, convergono alcuni fasci figurativi che innerveranno, dieci anni più tardi, L’età dell’ansia. Innanzitutto, è ovvio, la presenza di quell’area semantica che, nella poesia citata, emerge con il vocabolo inglese distress (“Oh guarda nella tua angoscia”). Spleen, noia, taedium vitae: “Mai come oggi”, chioserà malizioso Montale parlando di Auden e del suo gruppo di amici, “si era visto un così forte plotone di uomini che hanno e dànno il mal di mare”.5

Anche senza ricorrere ad un serrato spoglio delle occorrenze, vale la pena segnalare comunque un particolare aspetto della terminologia impiegata nell’opera del 1948. Rispetto al sostantivo anxiety utilizzato nel titolo (cui corrisponde quell’aggettivo anxious di pagina 148 reso nella versione italiana con “ansia”), troviamo in due occasioni l’opzione anguish, rispettivamente a pagina 242 (“Le età dell’angoscia”) e 268 (“Noi nell’angoscia lottiamo”). Sebbene certe scelte siano spesso frutto di ragioni metriche o eufoniche, occorrerà in ogni caso dedurne che il volume non ruota attorno ad un unico centro, bensì a una coppia di fuochi. Ansia ed angoscia, anxiety e anguish, governano un’ellisse, un’orbita al contempo emotiva ed epocale, al cui interno si colloca il complesso spazio poematico.

Prima di abbandonare le due strofe di Passeggiando una sera, un ultimo appunto. Tra la seconda di esse e il soliloquio di Malin, è agevole rilevare un altro tratto comune, cioè lo specchio. L’enorme valenza simbolica implicita in esso renderebbe superfluo ogni ulteriore commento, se la sua presenza non si imponesse perentoria alle due estremità del racconto. Mentre il breve testo del 1938 ne menziona la semplice comparsa, L’età dell’ansia gli affida infatti la doppia funzione di apertura e chiusura diegetica.

gli sarà talvolta rimproverata, insieme alla sovrabbondanza e discontinuità della produzione).

Lungi dal poter essere ricondotta a un gusto dell’eclettismo o del paradosso fine a se stesso, la stridente giustapposizione di generi, metri, registri, esprime infatti la scelta di una poetica precisa, posta agli antipodi della poesia pura, e volta a designare il Sacro tramite il suo contrario. Da qui l’adozione di un dettato mimetico, via via gnomico, satirico, discorsivo o eloquente. Lo indicherà molto bene Montale, quando, respingendo le accuse di “giornalismo in versi” rivolte ad Auden, scorgerà nel suo neoclassicismo la restaurazione di un ordine svuotato dall’interno, e più o meno consapevolmente parodistico. Secondo il poeta italiano, un simile progetto consisterebbe nel recuperare modi e materiali estranei, per ricomporli in una sorta di ininterrotto collage: “È il verso di un poeta camaleontico, che allude alla tradizione portandola a un punto di rottura”.4

Appunto in questo segno si inscrive L’età dell’ansia, come dimostra ad esempio il lungo monologo conclusivo. Confessa Malin, uno tra i quattro protagonisti dell’azione: “Per gli altri come me, c’è solo il lampo / della conoscenza negativa, la notte che ubriachi / si brancola verso il bagno e si fissa allo specchio / faccia a faccia la nostra pazzia; la notte che le parole / dette da nostra madre ci appaiono / deliziose sciocchezze, e i prudenti consigli / dei settimanali liberali un’arte tanto perduta / quanto la terracotta contadina”.

Anche questa è una metamorfosi, però diversa da quella precedentemente esaminata. Qui non siamo di fronte all’irrompere di un’oscura forza sotterranea, capace di minare le fondamenta

Il poeta Wystan H. Auden. © Alamy Stock

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spirito singolare le cui espressioni sono / la mia ansia carnale, la mia consolazione: / sii molteplice o uno”.

La quadriglia di amici affronta insomma i grandi temi della nostra epoca. Ancora una volta, però, si noti con quanta efficacia il discorso si scioglie nell’immagine. In certo modo, non è azzardato dire che quel dio del dettaglio celebrato da Aby Warburg nei suoi studi sull’iconologia, trova in Auden uno dei suoi maggiori interpreti. Lo si vede nel lieve canto di nozze che Quant intona invocando gli spiriti domestici del xx secolo: “Vaso da notte, P-P, Macinino del pepe, Abat-Jour, / Faccia-al-muro, Olecrano, Rubinetto, / Testa-ingiù e Suvvia-cara, / Borborigmi e Amore-Interessato, / siate buoni, piccoli dei, e vigilate su queste vite”.

Altro altissimo esito si ha nella lamentazione finale. Canto dell’esilio e dell’abbandono, del dolore di tutto un popolo e delle sofferenze di un’unica donna, canto di Babilonia e insieme di Didone, quello di Sarah è ancora una volta l’esempio di quanto grande sia la distanza tra l’uomo ed il suo Dio. Nella stessa maniera in cui il Vecchio Testamento prefigura il Nuovo, questa preghiera intende annunciare la chiusa cristologica di Malin. Ma di nuovo, una parola tanto vertiginosa viene fatta cozzare contro gli aspetti più minuti dell’esistenza, affinché lo scandalo della Storia scardini le miserie della vita borghese: “Anche se io celo / i miei peccati segreti nei gabinetti dei medici, / le mie paure egli le vede; scoprirà tutto, / non ignorerà nulla. non mi permetterà / di nasconderGli l’anonima / villetta di mattoni in Laburnum Crescent, / il salottino modesto, i nodi rosa alle tende / del pianerottolo, o la falciatrice / inceppata”. Quello sguardo di Dio descritto in Genesi, che penetrando nelle minime pieghe del creato scoprì Adamo ed Eva dopo il peccato, non potrà certo arrestarsi, ora, davanti a un carburatore difettoso.

IVMolti sarebbero ancora i passi da ricordare, sia pure di

sfuggita. Per limitarsi alla seconda parte, basti solo pensare alla toccante ricostruzione dell’adolescenza fatta da Malin e Quant, alla straziata rievocazione delle bambole condotta da Rosetta, o al tema dell’Ubi sunt da lei sviluppato in controcanto con Emble. Una menzione a sé merita, però, lo sfrenato gioco parodico cui è sottoposto il mezzo radiofonico e il suo linguaggio.

Scandendo o interrompendo i discorsi dei quattro personaggi, musica, notiziari e pubblicità finiscono per ricoprire il ruolo del coro nel teatro greco. Viene così riproposta l’ennesima variante di quella versione degradata del mito tanto cara a Auden. E tuttavia, quanta felicità in quei pastiches verbali! Inutile cercare di ridurla al silenzio: la “Scatola”, come la chiama Quant, riprende imperterrita a parlare o suonare. Sono creme da barba, comunicati, ritornelli, che si susseguono fino a una divertita descrizione del rock: “Presentiamo una , serie

Allo specchio del bar cui si rivolge Quant nell’allegretto dell’incipit chiamandolo “landa di vetro”, ecco allora rispondere quello del bagno di Malin. Alla solitudine condivisa del primo, subentra la solitudine indivisa del secondo. Ed è tra questi due specchi che si situa la vicenda del libro: l’incontro di quattro estranei chiamati a mettere in scena un résumé dell’homo abyssus occidentalis.

IIISei parti compongono quest’opera, tanto ardua e ambiziosa

sul piano filosofico e argomentativo, quanto sofisticata sotto il profilo metrico. L’alternanza di versi lunghi e brevi, la sapienza con cui ci si muove dalla trenodia conclusiva del quarto capitolo all’epitalamo dell’ultimo, il rapido passaggio dalla formula magica all’invettiva, e ancora, l’uso sovranamente disinvolto dell’enjambement, o l’ingegnosità delle rime e in genere dell’intera tessitura fonica – questo e molto altro fanno del virtuosismo prosodico di Auden un autentico scrigno di tesori. “Non fosse che per la sua versatilità stilistica”, ha osservato Iosif Brodskij, “quest’uomo doveva aver conosciuto una dose non comune di disperazione, come dicono e dimostrano molte delle sue liriche più felici, più mesmerizzanti. Perché nell’arte la levità del tocco deriva il più delle volte dal buio in cui la levità è assente”.6 Educare a cantare i propri terrori: non è questo, del resto, che dice appunto Quant (quarta parte, sesto stadio)?

L’età dell’ansia fu pubblicato in Gran Bretagna nel 1948 con il sottotitolo di Egloga barocca. Nel testo vengono prima cantate le sette età dell’uomo (riferimento in cui è stato notato l’esplicito richiamo a Shakespeare), poi i sette stadi di una sua crescita storica ed interiore. Filogenesi ed ontogenesi si intrecciano attraverso le voci di quattro personaggi, incontratisi durante la guerra in un bar. Ai già citati Malin e Quant, si aggiungono il giovane Emble e Rosetta. Dopo i primi momenti, il gruppo si stringerà fino a conoscere istanti di radiosa fusione estatica. L’attrazione tra Emble e Rosetta porterà presto l’armonia collettiva fino al suo acme, destinato però ad essere infranto dal violento anticlimax conclusivo.

Eppure, il tour de force allegorico non dice ancora niente del fascino che emana da queste pagine. Infatti, tranne alcune lungaggini o qualche passo troppo scopertamente didascalico, la danza si rinnova di continuo. Danza macabra, come nella guerra (“Non si distingue/ l’amico dal nemico, un unico flusso di corpi, / una distanza immensa dalla madre, dal matrimonio, / da ogni mondo realizzabile”), o nell’orrore quotidiano (“E ora chi si fiderà di me, / che con scherzi volgari ho annoiato i miei figli / e, al caldo accanto a mia moglie, mentre la rovesciavo supina, / l’ho desiderata morta [ ... ]?”). Ma altresì danza di pace e amore, come nell’invocazione ad Eros che accompagna il ballo tra i due innamorati: “Penetra nei miei disegni da tutte le direzioni, /

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di selezioni selvagge, / eseguite da orchestre brutali di tribù animalesche”.

Come se non bastasse, quando la radio tace, interviene a darle il cambio un altro apparecchio; il juke-box, che sempre nella seconda parte provvederà a diffondere tre canzonette grottesche. Tra ammiccamenti, sberleffi, e una punta di goliardia, arrivano così L’incidente è chiuso, di Čajkovskij Fink, Cimici nel letto, di Bog Myrtle e i suoi “Two-Timers”, Con quella cosa, nell’esecuzione dei “Three Snorts”. Se tutti questi motivi costituiranno altrettante occasioni per costruire nuovi metri e rime, solo con l’ultimo la parodia raggiungerà il suo apice, nel raccontare, al ritmo di un ballabile, nient’altro che la storia dell’umanità.

Giochi? Sì, però giochi con il linguaggio. E quale altro dovrebbe essere il compito del poeta, il suo solo dovere politico, se non quello di difendere la propria lingua dalla corruzione? Sono parole di una celebre intervista all’«Herald Tribune» dell’ottobre 1971, le stesse che hanno suggerito a Brodskij l’ipotesi secondo cui, quali che fossero le ragioni per cui Auden attraversò l’Oceano e divenne americano, il risultato ottenuto, ossia la fusione dei due grandi idiomi inglesi, fece di lui l’Orazio transatlantico.

Per questo, forse, converrà concludere con un aneddoto, un’istantanea finale su colui che il poeta russo definì la più grande mente del ventesimo secolo: “Lo vidi l’ultima volta a Londra nel luglio 1973, a una cena da Stephen Spender. Wystan, seduto a tavola con una sigaretta nella destra e un

bicchiere nella sinistra, dissertava sul tema del salmone freddo. Poiché la sedia era troppo bassa, la padrona di casa provvide a infilargli sotto la persona due squinternati volumi dell’Oxford English Dictionary. Pensai allora che davanti ai miei occhi stava l’unico uomo che avesse il diritto di usare quei volumi come sedile”.7

Tratto da W.H. Auden, L’età dell’ansia. Egloga barocca, Genova, Il melangolo, 1994, pp. 9-17.

1 W.H. Auden, Passeggiavo una sera, in Opere poetiche, traduzione di Aurora Ciliberti, Roma, Lerici, 1969, vol. II, p. 425.

2 Citato in W.H. Auden, Gl’irati flutti, traduzione di Gilberto Sacerdoti, Venezia, Arsenale Editrice, 1987, p. 57.

3 W.H. Auden, Ringraziamento, in Grazie nebbia, traduzione italiana di Aurora Ciliberti, Milano, Guanda, 1977, p. 83.

4 E. Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 510.

5 Ivi, p. 475.

6 I. Brodskij, Per compiacere un’ombra, in Fuga da Bisanzio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi, 1987, pp. 121‑122.

7 Ivi, p. 132.

gliartisti

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Le sue attività come direttore, sia operistico che sinfonico, pianista e musicista da camera, spaziano su un vasto repertorio che va dal barocco alla musica contemporanea più recente. Ampiamente considerato tra i più innovativi e avventurosi direttori nel mondo della musica classica, ha spesso sfidato e ispirato il pubblico sulle due sponde dell’Atlantico, distinguendosi per i suoi programmi stimolanti e ben strutturati e per le strette collaborazioni con compositori come Luciano Berio, William Bolcom, John Cage, Manfred Trojahn, Philip Glass, Heinz Winbeck, Laurie Anderson, Philippe Manoury, Aaron Copland, Hans Werner Henze, Michael Nyman e Kurt Schwertsik.

Dopo i primi incarichi come direttore musicale della Saint Paul Chamber Orchestra (1972-1980) e come direttore principale dell’American Composers Orchestra di New York (1977-2002), Dennis Russel Davies si trasferisce in Europa, tra Germania e Austria. Qui ricopre i ruoli di direttore musicale della Staatsoper Stuttgart (1980-1987), direttore principale della Beethovenhalle Orchestra, e direttore musicale di Bonn Opera e International Beethoven Festival (1987-1995). È inoltre direttore principale della Stuttgart Chamber Orchestra (1995-2006), con cui incide le 107 sinfonie di Joseph Haydn in quella che risulta essere la terza incisione completa mai realizzata dell’opera.

In Austria ottiene l’incarico di direttore principale della Radio Symphony Orchestra di Vienna (1997-2002). È titolare di una cattedra al Mozarteum di Salisburgo (1997), ed è nominato direttore principale dell’Orchestra Bruckner e Opera di Linz (2002). Tra il 2009 e il 2016 ricopre l’incarico di direttore principale dell’Orchestra Sinfonica di Basilea, in Svizzera.

Nel 2014 il suo mandato a Linz, mantenuto fino al 2017, diventa quello di direttore musicale generale.

Come ospite, Dennis Russell Davies ha diretto orchestre di grande fama, tra cui quelle di Cleveland, Philadelphia, Chicago, San Francisco, Boston, la New York Philharmonic e la Yomiuri Nippon Symphony. In Europa ha lavorato con la Gewandhausorchester di Lipsia, l’Accademia di Santa Cecilia di Roma, la Filarmonica della Scala di Milano, l’Orchestra Nacional de España, le filarmoniche di Monaco e Berlino, la Bamberg Symphony Orchestra e la Concertgebouworkest di Amsterdam.

Dopo il debutto al Festival di Bayreuth (1978-1980), il suo lavoro in campo lirico l’ha portato a dirigere in molti contesti altrettanto importanti: Festival di Salisburgo, Lincoln Center Festival di New York, Houston Grand Opera, Opere di Stato di Amburgo e della Baviera (con registi come Harry Kupfer, Götz Friedrich, Achim Freyer, Peter Zadek, Robert Altmann, Juri Ljubimov, Daniela Kurz, Robert Wilson e Ken Russell), Lyric Opera di Chicago, Metropolitan Opera di New York, Opéra National de Paris, Teatro Reál de Madrid e Wiener Staatsoper.

Durante il suo mandato come direttore musicale generale a

Dennis Russell Davies

Nato a Toledo (Ohio), studia pianoforte e direzione d’orchestra presso la Juilliard School di New York. È membro dell’American Academy of Arts and Sciences.

Insignito del titolo di “Commandeur des Arts et Lettres” del governo francese nel dicembre 2014, riceve solo tre anni dopo il premio “Österreichische Ehrenkreuz für Wissenschaft und Kunst 1. Klasse” del governo austriaco. Dalla stagione 2017/2018, è direttore artistico e direttore principale della Filarmonica di Brno.

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Emanuele Arciuli

Si esibisce regolarmente con alcune fra le maggiori istituzioni musicali. In Italia collabora con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, il Maggio Musicale Fiorentino, La Fenice di Venezia, il Comunale di Bologna, il Teatro Petruzzelli di Bari e l’Orchestra Verdi di Milano; suona in recital al Teatro alla Scala, al San Carlo di Napoli, per l’Arena di Verona, gli Amici della Musica di Firenze, l’Unione Musicale di Torino, l’Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma. È invitato a festival come “Arturo Benedetti Michelangeli” di Brescia e Bergamo, Festival dei Due Mondi di Spoleto, Settembre Musica di Torino, Ravenna

Linz, è inaugurata nell’aprile 2013 la nuova Linz Opera House. Per l’occasione, Dennis Russell Davies dirige la prima mondiale dell’opera di Philip Glass The Lost e il Rosenkavalier di Strauss. Dirige inoltre nuove produzioni dell’intero Anello del Nibelungo, Pelléas et Mélisande, Falstaff, Salomé, la prima europea di McTeague e le anteprime mondiali di Moritz Eggert e Michael Obst al nuovo Musiktheater.

Cruciali e duraturi gli effetti della sua collaborazione con l’Orchestra Bruckner di Linz, che ha conquistato nuove fette di pubblico estendendo il suo repertorio alla contemporaneità pur senza trascurare quello tradizionale, tuttora proposto sia in tournée che in sala di registrazione (con questa orchestra ha inciso tutte le sinfonie di Bruckner).

Nel biennio 2016/2018, Dennis Russell Davies è ospite – tra gli altri – di Gewandhaus (Lipsia), Konzerthausorchester e Deutsche Symphonie-Orchester (Berlino), Südwestrundfunk (Stoccarda), Orchestra Sinfonica Nazionale (Torino), Orquesta Sinfonica de Galicia, New Japan Philharmonic e Yomiuri Nippon Symphony Orchestra, oltre che del Festival Primavera di Praga (con la Filarmonica di Brno).

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Festival, Ravello, RedCats di Los Angeles, Miami Piano Festival. Il suo impegno nella musica contemporanea lo porta a esibirsi regolarmente nelle maggiori rassegne (Milano Musica, Biennale di Venezia, Nuova Consonanza di Roma).

Tra le orchestra con cui ha collaborato in ambito internazionale, Rotterdam Philharmonic, Brussel Philharmonic, Residentie Orkest Den Haag al Concertgebouw di Amsterdam, Radio Televisione Svizzera di Lugano, Orchestra Bruckner di Linz, Tonkünstler di Vienna (al Musikverein, per Wien Modern), Filarmonica di San Pietroburgo, Saint Paul Chamber Orchestra, Indianapolis Symphony Orchestra e molte altre.

Fra i direttori con cui collabora: Roberto Abbado, Andrei Boreyko, Dennis Russell Davies, Diego Fasolis, Yoel Levi, Brad Lubman, Wayne Marshall, James MacMillan, Kazushi Ono, Zoltan Pesko, Stefan Reck, Jonathan Stockhammer, Arturo Tamayo, Mario Venzago. Attivo anche in ambito cameristico, collabora regolarmente con l’attrice Sonia Bergamasco e il pianista Andrea Rebaudengo.

Oltre a frequentare il repertorio più tradizionale, ha eseguito in prima assoluta oltre quindici nuovi concerti per pianoforte e orchestra, molti dei quali scritti per lui. Più di cinquanta, infine, le pagine pianistiche composte per lui da autori come George Crumb, Milton Babbitt, Frederic Rzewski, Michael Nyman, Michael Daugherty, William Bolcom, John Harbison, Aaron Jay Kernis. Il progetto ’Round Midnight, eseguito fra l’altro al Miller Theater di New York, e commissionato dal College-Conservatory of Music di Cincinnati, ha ottenuto una grande attenzione a livello internazionale.

Il suo interesse per la musica americana si è concretizzato in un libro, Musica per pianoforte negli Stati Uniti (Edt, 2010) e in numerose lezioni, sia radiofoniche che televisive.

Nel 2011 gli è stato conferito il premio della critica musicale italiana “Franco Abbiati” come miglior solista dell’anno. Tra gli altri riconoscimenti, una nomination per i Grammy Award per il cd dedicato a George Crumb.

Incide per Stradivarius, Chandos, Innova Recording, Recentissimo è il disco Walk in Beauty, una ricca antologia di musica americana.

Insegna pianoforte contemporaneo all’Accademia di Pinerolo, è docente di pianoforte al Conservatorio di Bari, tiene regolarmente workshop per numerose università degli Stati Uniti, dove si reca dal 1998 ed ha tenuto oltre quaranta tournée.

Orchestra Giovanile Luigi Cherubini

Fondata da Riccardo Muti nel 2004, l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini ha assunto il nome di uno dei massimi compositori italiani di tutti i tempi attivo in ambito europeo per sottolineare, insieme a una forte identità nazionale, la propria inclinazione a una visione europea della musica e della cultura. L’Orchestra, che si pone come strumento privilegiato di congiunzione tra il mondo accademico e l’attività professionale, divide la propria sede tra le città di Piacenza e Ravenna. La Cherubini è formata da giovani strumentisti, tutti sotto i trent’anni e provenienti da ogni regione italiana, selezionati attraverso centinaia di audizioni da una commissione costituita dalle prime parti di prestigiose orchestre europee e presieduta dallo stesso Muti. Secondo uno spirito che imprime all’orchestra la dinamicità di un continuo rinnovamento, i musicisti restano in orchestra per un solo triennio, terminato il quale molti di loro hanno l’opportunità di trovare una propria collocazione nelle migliori orchestre.

In questi anni l’Orchestra, sotto la direzione di Riccardo Muti, si è cimentata con un repertorio che spazia dal Barocco al Novecento alternando ai concerti in moltissime città italiane importanti tournée in Europa e nel mondo nel corso delle quali è stata protagonista, tra gli altri, nei teatri di Vienna, Parigi, Mosca, Salisburgo, Colonia, San Pietroburgo, Madrid, Barcellona,

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protagonista di nuove produzioni e di concerti, nonché, dal 2010, del progetto “Le vie dell’amicizia” che l’ha vista esibirsi, tra le altre mete, a Nairobi, Redipuglia, Tokyo e, nel 2017, a Teheran, sempre diretta da Riccardo Muti.

La gestione dell’Orchestra è affidata alla Fondazione Cherubini costituita dalle municipalità di Piacenza e Ravenna e dalle Fondazioni Toscanini e Ravenna Manifestazioni. L’attività dell’Orchestra è resa possibile grazie al sostegno del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali del Turismo.

violini primiAdele Viglietti**Elena NunzianteLavinia SonciniGiulia GiuffridaOlga Beatrice LosaManuel ArliaSofia CiprianiPriyanka RavanelliMichela D’AmicoElena Sofia De VitaLetizia LaudaniFederica CastiglioniElisa MoriElena GoriDiana Pellegrini

violini secondiMattia Osini*Daniele FanfoniElisa ScanzianiSerena GalassiEmanuela ColagrossiDebora FuocoFederica ZanottiMonica MengoniGeorgia GhioChiara CivaleAnna CarràSamuele Michele CascinoFlavia SucchiarelliFabio Grossi

violeKatia Moling*Stella Degli Esposti

Marco GallinaMontserrat Coll TorraLaura Hernandez GarciaMarcello SalvioniClaudia ChelliCarlotta AramuMarco ScandurraStefano SancassanElisa ZitoVirginia Luca

violoncelliCostanza Persichella*Maria Giulia LanatiBruno CrinòMichele TagliaferriSimone De SenaAlessandro BruttiGiovannella BerardengoAnna MolaroFrancesca GaddiAntonio Salvati

contrabbassiGiulio Andrea Marignetti*Valerio SilvettiVieri PiazzesiAlessandra AvicoMichele BonfanteMassimiliano FavellaLuca InnarellaLara Oggero

flautiViola Brambilla*Bianca Maria Fiorito

Lugano, Muscat, Manama, Abu Dhabi, Buenos Aires e Tokyo.Il debutto a Salisburgo, al Festival di Pentecoste, con Il ritorno

di Don Calandrino di Cimarosa, ha segnato nel 2007 la prima tappa di un progetto quinquennale che la rassegna austriaca, in coproduzione con Ravenna Festival, ha realizzato con Riccardo Muti per la riscoperta e la valorizzazione del patrimonio musicale del Settecento napoletano e di cui la Cherubini è stata protagonista in qualità di orchestra residente.

A Salisburgo, poi, l’Orchestra è tornata nel 2015, debuttando – unica formazione italiana invitata – al più prestigioso Festival estivo, con Ernani: a dirigerla sempre Riccardo Muti, che l’aveva guidata anche nel memorabile concerto tenuto alla Sala d’Oro del Musikverein di Vienna, nel 2008, pochi mesi prima che alla Cherubini venisse assegnato l’autorevole Premio Abbiati quale miglior iniziativa musicale per “i notevoli risultati che ne hanno fatto un organico di eccellenza riconosciuto in Italia e all’estero”.

All’intensa attività con il suo fondatore, la Cherubini ha affiancato moltissime collaborazioni con artisti quali Claudio Abbado, John Axelrod, Rudolf Barshai, Michele Campanella, James Conlon, Dennis Russel Davies, Gérard Depardieu, Kevin Farrell, Patrick Fournillier, Herbie Hancock, Leonidas Kavakos, Lang Lang, Ute Lemper, Alexander Lonquich, Wayne Marshall, Kurt Masur, Anne-Sophie Mutter, Kent Nagano, Krzysztof Penderecki, Donato Renzetti, Vadim Repin, Giovanni Sollima, Yuri Temirkanov, Alexander Toradze e Pinchas Zukerman.

Impegnativi e di indiscutibile rilievo i progetti delle “trilogie”, che al Ravenna Festival l’hanno vista protagonista, sotto la direzione di Nicola Paszkowski, delle celebrazioni per il bicentenario verdiano in occasione del quale l’Orchestra è stata chiamata ad eseguire ben sei opere al Teatro Alighieri. Nel 2012, nel giro di tre sole giornate, Rigoletto, Trovatore e Traviata; nel 2013, sempre l’una dopo l’altra a stretto confronto, le opere “shakespeariane” di Verdi: Macbeth, Otello e Falstaff. Per la Trilogia d’autunno 2017, la Cherubini, diretta da Vladimir Ovodok, ha interpretato Cavalleria rusticana, Pagliacci e Tosca. Negli ultimi anni il repertorio operistico viene affrontato regolarmente dall’Orchestra nelle coproduzioni che vedono il Teatro Alighieri di Ravenna al fianco di altri importanti teatri italiani di tradizione. Dal 2015 al 2017 la Cherubini, ha partecipato inoltre al Festival di Spoleto, sotto la direzione di James Conlon, eseguendo l’intera trilogia “Mozart-Da Ponte”.

Il legame con Riccardo Muti l’ha portata a prender parte all’Italian Opera Academy per giovani direttori e maestri collaboratori, che il Maestro ha fondato e intrapreso nel 2015: se in quel primo anno la Cherubini ha avuto l’occasione di misurarsi con Falstaff, gli anni successivi l’attenzione si è concentrata su Traviata e Aida.

Al Ravenna Festival, dove ogni anno si rinnova l’intensa esperienza della residenza estiva, la Cherubini è regolarmente

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ottavinoTommaso Dionis

oboiFrancesco Ciarmatori*Marco Ciampa*

corno ingleseAnna Leonardi

clarinetti/clarinetto piccoloEdoardo Di Cicco*Domenico Guido (anche piccolo)

clarinetto basso/clarinetto contrabbassoGaia Gaibazzi

fagottiMarco Bottet*Beatrice Baiocco*

controfagottoEdoardo Casali

corniStefano Fracchia*Remi Faggiani*Giovanni MainentiMattia Battistini trombeLuca Betti*Giorgio Baccifava*Giovanni Lucero

tromboniSalvatore Veraldi*Biagio Salvatore MicciullaCosimo Iacoviello

tubaAlessandro Rocco Iezzi

timpaniSebastiano Girotto*

percussioniAlessandro BecoDavid DioufPaolo GrillenzoniFederico MoscanoSebastiano NidiPaolo NocentiniSaverio Rufo

arpeAnna Astesano*Andrea Solinas

pianoforte/celestaMichelangelo Rossi*Maddalena Altieri

** spalla* prima parte

Si ringraziano Costanza Bonelli e Claudio Ottolini per la donazione all’orchestra in memoria di Liliana Biolzi

luoghidelfestival

2018

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programma di sala a cura diCristina Ghirardini

coordinamento editoriale e graficaUfficio Edizioni Ravenna Festival

stampato su carta Arcoprint Extra White

stampaEdizioni Moderna, Ravenna

L’editore è a disposizione degli aventi diritto per quanto riguarda le fonti iconografiche non individuate

EFFE LABEL 2017-2018

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ESTIVAL

Ravenna Festival

Il Palazzo “Mauro De André” è stato edificato alla fine degli anni ’80, con l’obiettivo di dotare Ravenna di uno spazio multifunzionale adatto ad ospitare grandi eventi sportivi, artistici e commerciali; la sua realizzazione si deve all’iniziativa del Gruppo Ferruzzi, che ha voluto intitolarlo alla memoria di un collaboratore prematuramente scomparso, fratello del cantautore Fabrizio. L’edificio, progettato dall’architetto Carlo Maria Sadich ed inaugurato nell’ottobre 1990, sorge non lontano dagli impianti industriali e portuali, all’estremità settentrionale di un’area recintata di circa 12 ettari, periodicamente impiegata per manifestazioni all’aperto. I propilei in laterizio eretti lungo il lato ovest immettono nel grande piazzale antistante il Palazzo, in fondo al quale si staglia la mole rosseggiante di “Grande ferro R”, di Alberto Burri: due stilizzate mani metalliche unite a formare l’immagine di una chiglia rovesciata, quasi una celebrazione di Ravenna marittima, punto di accoglienza e incontro di popoli e civiltà diverse. A sinistra dei propilei sono situate le fontane in travertino disegnate da Ettore Sordini, che fungono da vasche per la riserva idrica antincendio.

L’ingresso al Palazzo è mediato dal cosiddetto Danteum, una sorta di tempietto periptero di 260 metri quadri formato da una selva di pilastri e colonne, cento al pari dei canti della Commedia: in particolare, in corrispondenza ai pilastri in laterizio delle file esterne, si allineano all’interno cinque colonne di ferro, tredici in marmo di Carrara e nove di cristallo, allusive alle tre cantiche dantesche.

Il Palazzo si presenta di pianta quadrangolare, con paramento esterno in laterizio, ravvivato nella fronte, fra i due avancorpi laterali aggettanti, da una decorazione a mosaico disegnata da Elisa Montessori e realizzata da Luciana Notturni. Al di sopra si staglia la grande cupola bianca, di 54 metri per lato, realizzata in struttura metallica reticolare a doppio strato, coperta con 5307 metri quadri di membrana traslucida in fibra di vetro spalmata di PTFE (teflon); essa è coronata da un lucernario quadrangolare di circa otto metri per lato che si apre elettricamente per garantire la ventilazione.

Quasi 4.000 persone possono trovare posto nel grande vano interno, la cui fisionomia spaziale è in grado di adattarsi alle diverse occasioni (eventi sportivi, fiere, concerti), grazie alla presenza di gradinate scorrevoli che consentono il loro trasferimento sul retro, dove sono anche impiegate per spettacoli all’aperto.

Il Palazzo dai primi anni Novanta viene utilizzato regolarmente per alcuni dei più importanti eventi artistici di Ravenna Festival.

Gianni Godoli

© Silvia Lelli

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