Nella rete del ragno

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eunoedizioni NELLA RETE DEL RAGNO Manlio Bellomo romanzo

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Don Filippo La Ferla, dopo aver difeso due donne accusate di adulterio (Le lacrime delle signore, 2012), scovato il tesoro di Pietro d’Aragona e istituito una casa per donne-madri sedotte e abbandonate (Un re di denari, 2012) e, esiliato a Salina, incontra un improbabile naufrago a cui offre spunti che diventeranno pagine straordinarie di letteratura (L’isola di Shakespeare, 2013), si ritrova adesso a Catania dove dovrà difendersi dal terribile sospetto di essere l’assassino del vescovo mons. Passilonio.

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Manlio BellomoNella rete del ragno

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Don Filippo La Ferla, dopo aver difeso due donne accusate diadulterio (Le lacrime delle signore, 2012), scovato il tesoro diPietro d’Aragona e istituito una casa per donne-madri sedotte eabbandonate (Un re di denari, 2012) e, esiliato a Salina, incontraun improbabile naufrago a cui offre spunti che diventeranno pa-gine straordinarie di letteratura (L’isola di Shakespeare, 2013), siritrova adesso a Catania dove dovrà difendersi dal terribile so-spetto di essere l’assassino del vescovo mons. Passilonio.

Manlio Bellomo ha insegnato storia del dirit-to nelle Università di Messina e Catania.Laurea honoris causa dell’Universidad Na-cional de Córdoba (Argentina). Vincitore perla storia medievale del Forschungs-Preis 1994dell’Historisches Kolleg, München. L’Ameri-can Historical Association gli ha dedicato uncongresso, “Manlio Bellomo’s Vision of theIus Commune: Its Importance for HistoricalScholarship” (Chicago, 2000). Membro corri-spondente di prestigiosi istituti e accademie distoria in Germania, Portogallo, Cile, Argenti-na e Spagna, ha tenuto conferenze in presti-giose Università europee e americane. Hafondato e dirige l’International School of IusCommune (Centro Ettore Majorana, Erice).È autore di oltre 200 pubblicazioni di storiadel diritto.

Ha pubblicato due romanzi con Sellerio (Die-cimila fiorini d’Aragona; Terra a Girgìa), econ Trisform (Onda su onda).Per le nostre edizioni ha pubblicato Le lacri-me delle signore (2012), Un re di denari (2012)e L’isola di Shakespeare (2013).

Don Filippo La Ferla giunge a Catania inun giorno di settembre sul finire delCinquecento. È stato convocato da monsi-gnor Giovanni Domenico Passilonio,vescovo della città e suo accanito persecu-tore da cui deve difendersi.Nel viaggio che da Lipari lo porta nellacittà etnea, don Filippo incontra una suavecchia conoscenza dei tempi in cui eraparroco a Cala Xibet, don PietroManriquez, il Visitatore del RealPatrimonio di Sicilia, che lo introduce tra isuoi nobili amici catanesi. Le signorinebaronesse Scannapieco, affascinate da que-sto prete poco avvezzo alla vita mondana, sioffrono di ospitarlo nel loro palazzo neigiorni della sua permanenza in città.Don Filippo, reduce dalla vita libera diSalina, si ritrova adesso ad affrontare unasocietà cittadina variegata e complessa, fraproblemi di sesso, di denaro e di vita galan-te, lontana dallo splendore della natura. Vecchi e nuovi personaggi rendono le suegiornate catanesi più complicate di quantoegli stesso non avesse previsto e finisce, suomalgrado, a doversi confrontare col poteregestito da uomini abili o incapaci o sconsi-derati. Così, quando mons. Passilonio cadevittima per avvelenamento, il buon donFilippo rimane impigliato nella rete che unmisterioso ragno sembra aver tessuto appo-sta per lui.

In copertina: Anonimo olandese, L’alchimista, 1646.

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€ 14,00 (i.i.) e e

NELLA RETEDEL RAGNO

ManlioBellomo

romanzo

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Prima edizione 2015

© Manlio Bellomo

© Euno EdizioniVia Mercede 2594013 Leonforte (En)Tel. e fax 0935 [email protected]

In copertina: Ononimo olandese, L’alchimista, 1646

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I

Al porto di Lipari

Nel mese di settembre, anno incerto,

fine del Cinquecento.

Al porto un servo di ignoto padrone lo prese allasprovvista. Aveva un messaggio, doveva recitarlo. In-cespicò su parole che non gli erano familiari. Avevabuona memoria, giunse alla fine.

Don Filippo capì che il padrone del servo, o schia-vo, desiderava incontrarlo, alla taverna. Avvertì unbrivido. Alla taverna? E le male lingue? E gli spioni?E i diavoli dell’inferno?

Decise di tentare la sorte. Seguì il giovane, andavaa passo svelto, pretendeva di precederlo.

Giunsero sull’uscio del locale. Don Filippo, concautela, dalla soglia volse gli occhi all’interno dell’o-steria. Avanzò di un passo, per vedere meglio. C’eradentro poca luce. Al primo sguardo non riconobbepersone conosciute.

Si levò una voce dal fondo. Timbro d’autorità, nes-sun tono di ostilità. L’uomo si rivolgeva a lui.

– Don Filippo! – chiamò, e aggiunse, a completa-re: – Don Filippo La Ferla, venite, venite. Noi ci cono-sciamo.

Il prete azzardò un passo, un altro, per tentare di

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individuare chi parlava. Prudenza, si diceva. Attenzio-ne, si ripeteva.

L’uomo, dalla penombra, insisteva, avanti, avanti,perché esitate, nulla da temere.

La voce suonava conosciuta. Qualcosa si rimestavanella memoria.

Don Filippo decise di affrontare l’incognito. Losconosciuto era al centro di allegra compagnia. Sede-va a una tavola riccamente imbandita, un calice in ma-no, forse vino prezioso. Esibiva sontuoso vestito, sbuf-fi fantasiosi al collo e alle braccia, stoffa e merletti.

Faccia a faccia lo riconobbe.Un grido di liberazione, – Voi, don Pietro? – sten-

tava a crederlo.– Esattamente, a servirvi, monsignore – lo adulava,

con garbo e ironia. –Vi ricordate? Sono Pietro Manri-quez, il Visitatore del Real Patrimonio di Sicilia. Cisiamo conosciuti e abbiamo chiacchierato a Cala Xi-bet, in quel tempo lieto che ora è lontano...

Quanto mancava a don Filippo quel tempo lieto elontano!

– Certamente. Bei tempi – cortese, per condividere.– Sedetevi con noi, a questa tavola – un gesto largo

della mano, come per presentare i cinque uomini chegli sedevano attorno, ma nessuno aveva voglia né in-teresse di farsi conoscere.

Don Filippo era incerto. La prudenza gli suggerivadi resistere all’invito.

Il nobile Pietro Manriquez fiutò che per qualcheragione il prete tentennava. Fu irremovibile e gli ven-ne in soccorso.

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– Qui, accanto a me, don Filippo. Nessuno potràspettegolare se mangiate un boccone con persone de-gne e rispettabili. Spalla a spalla col Regio Visitatoredel Real Patrimonio! – parve chiudere col puntoesclamativo.

Rifiutare? Un’offesa. Don Filippo chiese largo esedette dove il conte Manriquez desiderava.

– Siamo a Lipari da un paio di settimane – conside-rò e informò il conte. – Per dovere del nostro ufficio. Evoi, don Filippo, come mai da queste parti? – doman-da inevitabile. Scomoda, per il prete.

Raccontò quel che doveva. Molto era accaduto do-po che si erano lasciati a Cala Xibet, in un anno persoalla fine del Cinquecento. Tacque delle molte moneted’oro che gli erano capitate fra le mani, nel dubbioche il Visitatore del Real Patrimonio accampasse in-giusta pretesa. Raccontò della morte di monsignoredon Pietro Belmonte (una disgrazia, certamente..., no,non ci fu sospetto di omicidio), della costruzionedell’ospizio per le madri perse, quelle sole e abbando-nate con un figlio in braccio. Aggiunse che lo avevaaiutato nell’impresa la nobildonna Caterina Settelan-ce, lasciò intendere che i denari venivano dalla riccaeredità ricevuta dalla potente famiglia di lei, svicolòsulle motivazioni che avevano spinto il vescovo di Ca-tania, monsignore Giovanni Domenico Passilonio, aschiodarlo da Cala Xibet e a destinarlo a Salina.

– A Salina? – saltò su il regio dignitario. – Chestramberia! In un’isola sperduta e deserta... – difficiledarsene una ragione.

Don Filippo stava per rispondere, e ne aveva grave

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impaccio. Lo salvarono l’arrivo e il profumo, invasivi,di un magnifico arrosto che due servi portavano alcentro della tavola.

Si scatenarono gli appetiti. Ognuno adocchiava ilboccone prelibato e cercava di portarlo al propriopiatto, chi con garbo e tentativo di eleganza, chi senzaritegno lavorando di gomito.

Quando fu silenzio perché le bocche masticavano,della domanda di don Pietro si erano perdute le trac-ce. Un sollievo, per don Filippo.

Il conte si asciugò ben bene barba e baffi e ripresea parlare. Aveva un’altra curiosità.

– Perché siete a Lipari?– Sono di passaggio, per la verità. Il mio compito

alle isole si è concluso questa mattina, ho salutato ilvescovo di Patti e Lipari, che è in sede per la stagioneestiva, e aspetto di partire per Catania.

– Per Catania? – a voce forte, il gran conte. – Per idiavoli dell’inferno, io parto domani per Catania! – esenza avere tempo di pensarci e di pentirsi: – Voletevenire con me? A Messina ho carrozza comoda perdue, e mi dicono che la strada è buona, praticabile, po-che buche, qualche avvallamento.

Ebbe un dubbio.– Avete molto bagaglio?– No. Poche cose. Omnia mecum porto – un tocco

di latino, lo aveva in punta di lingua.– Ci vediamo domattina presto, alla prim’alba. Il

viaggio è lungo. Ho concordato col capitano di un bar-cone per il viaggio da qui a Messina. Non mi farannoproblemi, per voi a bordo.

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Bevvero ancora. Per saluto brindarono allegra-mente, molte coppe di saporosa malvasia.

Fuori dalla bettola, sulla via e al porto, nella nottebuia e fresca, nuvole basse a coprire le stelle, don Fi-lippo strasognava tra i fumi del vino.

Passata la notte, navigarono e scarrozzarono pergiorni e notti.

Alla fine del viaggio, al tramonto, col cielo sereno,videro la Montagna, l’Etna, nitida, gelida. Il vulcanocovava fuoco, fumava, quieto.

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II

La città forestiera

Si risvegliò per una lama di luce che tagliava lastanza e finiva sul letto.

Apprezzò il tepore delle coperte, il soffice mate-rasso di lana cardata da poco.

Ammirò il soffitto a volta e le graziose figure didonne nude, danzanti, veli vaporosi scomposti attornoai fianchi.

Notò al centro della volta, appeso a un breve filo,un globo di vetro luccicante, blu intenso, stava lì perrifrangere guizzi di luci, di lumi e candele, la sera e lanotte.

La camera aveva mobili di pregio.Alle pareti quadri di artisti raffinati.Come mai lui stava in quel letto? E in quella stan-

za? E in quale palazzo?Nulla ricordava della notte precedente. La memo-

ria si fermava al momento in cui era entrato in una ta-verna in compagnia di un uomo dall’aspetto autore-vole. Si erano seduti a un tavolo, avevano ordinato ilmeglio, bocconi squisiti, vino a scorrere. Poi? Il vuoto.

Sforzò la memoria, per ricordare il nome e il viso

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dell’uomo al quale si era accompagnato. Dove lo ave-va incontrato?

Lentamente affioravano stracci di ricordi. DonPietro Manriquez, quello era l’uomo. Certo! Avevanoviaggiato insieme da Lipari a Catania. Perciò ora eglistava a Catania, in una casa straniera, in un letto ospi-tale. Perché?

Il mistero non lo angustiava. Godeva del benesse-re, inutili troppe domande. Col tempo avrebbe saputoe capito.

Salina irruppe con violenza nella mente. La ninfaLighea, le sorelle Sardella, la famiglia dei Quattrocchi:esistevano davvero? E William Shakespeare e i duesfortunati giovani danesi erano stati personaggi reali?O tutto, persone e cose, aveva la sostanza del sogno?

Tornavano lentamente alla memoria scene vissute.A Lipari un vescovo, come accidenti si chiamava!Quel vescovo lo aveva illuso, gli aveva fatto intrave-dere le porte aperte della Regia di Palermo, e la Corteintera del Regno di Sicilia pronta ad accoglierlo comeconfessore della Regia Cappella. Poi, niente. La lungaattesa nell’isola di Salina, i giorni inutili, la noia, lepreghiere recitate per fede, con accanimento, a ripeti-zione. A ripensarci aveva commesso un peccato peraverle pensate e pronunciate con l’animo turbato, co-me ad ostentare una ribellione contro il destino che ilCielo gli imponeva. Così, dopo un anno intero di soli-tudine, si era dovuto adattare a tornare a Catania, do-ve lo reclamava, per punirlo con forza e acredine, ilperseverante vescovo monsignore don Giovanni Do-menico Passilonio dei duchi di Boccaleone.

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Meglio scacciare le delusioni, e dimenticarle.Meglio mettere i piedi per terra, concretamente,

per operazioni necessarie, alcune urgenti.Si alzò, usò il vaso disponibile per lo scopo, si avvi-

cinò a un lavabo posto in bella vista in un angolo dellastanza, trovò la brocca piena d’acqua, la bacinella benpulita. Si lavò, asciugò il viso con cura e soddisfazione,mise in ordine i capelli con mosse abili delle mani, eperò, mentre ruotava con le dita attorno al capo, av-vertì un dolore di fondo, là, nel cervello. Lo conoscevae lo riconosceva. Lo infastidiva, al solito, dopo unanotte di cibo grasso e di larghe bevute.

Aprì la finestra, per tentare di capire dove si trova-va. Vide una piazza, quadrata, regolare, bei palazzid’attorno. Al centro la tagliava una via. Passava pove-ra gente. Sopraggiunse una carrozza elegante, unostemma allo sportello. In giro povertà e ricchezza. Ov-via conclusione. Il palazzo che lo ospitava era al cen-tro della città.

Si mosse per la camera. Di qua e di là, guardava iparticolari del soffitto, ammirava le figure e i coloridei quadri alle pareti. Una goduria. Notò su uno scrit-toio una campanella, pensò di scuoterla per controlla-re se al trillo qualcuno sarebbe venuto.

Qualcuno venne.Si presentò un cameriere vestito a dovere, guanti

bianchi, di rispetto. Reggeva fra le mani un vassoiod’argento. Portava un bricco fumante che emanavaodore strano, caldo, dolciastro, e un pane a forma in-solita, di ciambella, ricoperto di zucchero granuloso.Due uova sode, a completare.

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– Monsignore, avete dormito bene? – si permise dichiedere il cameriere.

– Benissimo, grazie – cortese, convinta, la risposta.Il servitore posò il ben di Dio sullo scrittoio accanto

alla campanella, retrocesse secondo educazione, egiunto oltre la soglia chiuse la porta senza fare rumore.

Strano ambiente, questo catanese. Abitudini maiviste prima, mai provate. Avvertì un vago desiderio dicibo. Prese il bricco fumante e cominciò a versarneparte del contenuto nella tazza predisposta. Stralunò.Veniva fuori un inguardabile intruglio mieloso, scuro,di forte odore, buono in verità a considerarne l’inva-denza e la persistenza all’olfatto. Novità dei tempimoderni, pensò. Che sarà mai?

Scattò il lampo di un sospetto. Liquido avvelenato,se qualcuno aveva deciso. Forse il monsignore vesco-vo, quel don Giovanni Domenico Passilonio che daanni lo perseguitava, aveva progettato di toglierlo dalmondo dei vivi. Immaginò che per lusinghe e favori odenaro lo aveva fatto rapire e portare di notte in quelpalazzo e ora, a tradimento, gli faceva offrire una be-vanda bavosa che si addensava nella tazza e somiglia-va alla melma delle strade insudiciate, malgrado ilbuono odore, somma astuzia di anima dannata perportarlo alla morte.

Decise di non correre il rischio. Recitò una pre-ghiera a purificarsi l’anima per il sospetto, chissà se in-fondato, e addentò senza entusiasmo una delle ciam-belle inzuccherate. Mangiò le due uova. Certamentenon erano avvelenate.

Sostò a riflettere e a considerare l’esistenza uma-

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na, e la sua nel caso particolare. L’uomo esposto alvento del tradimento, incerto il futuro, ostacoli preve-dibili e imprevedibili dappertutto.

Cominciava la prima e incerta giornata ai piedidella Montagna. Impassibile, fumava l’Etna maestosa.

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III

Da Palazzo Scannapiecoallo Studio dell’avvocato Nicola Intriglioli

Cercò il maggiordomo della casa.Lo incontrò in una delle stanze che a filare consen-

tivano di andare da un capo all’altro del palazzo. Eraun uomo di mezza età, corpo alto, forte, aspetto gros-solano. Gentile nei gesti, di misurata educazione separlava e soprattutto se taceva.

Sì, monsignore La Ferla aveva capito bene. Eraospite in un palazzo gentilizio. Lo ospitavano tre di-stinte signore, signorine in verità, due ormai non piùin età di marito, una più giovane che rifiutava di spo-sarsi. Il nome di famiglia? Dei baroni Scannapieco,monsignore, di antica, consolidata nobiltà.

– Si trova in questa casa il conte don Pietro Manri-quez? – chiese d’istinto don Filippo.

– Sì, naturalmente, reverendo. Soggiorna in questacasa quando ha da sbrigare affari a Catania. – E, conpremura: – Monsignore – così continuava a chiamarlo –se ho ben capito state per uscire. Quando pensate di ri-entrare? – detto col tono giusto, di invitante aspettativa.

– Non saprei, dipende – meglio essere vaghi.– Noi il pranzo lo serviamo due tocchi dopo la

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grande campana del mezzogiorno... – era un invito apartecipare.

– Bene, grazie, ne terrò conto. Sarò presente enell’occasione renderò i miei dovuti omaggi e ringra-ziamenti alle padrone di casa.

– Riferirò, monsignore. Le signorine si presente-ranno nella sala un poco prima del pranzo.

In città don Filippo mirava a una meta precisa, loStudio (o ufficio?) dell’avvocato Nicola Intriglioli.

Aveva un vago ricordo dell’unica visita che gli ave-va fatto tempo addietro. Ora lo disorientavano le stra-dine storte e bistorte.

Stentò a riconoscere i luoghi, fra venditori ambu-lanti, questuanti, facce umili o malandrine, cani e gatti,rivoli di liquidi a rifiuto da averne male allo stomaco.

In un vicolo imboccato per sbaglio subì l’irrisionedi donnette scollacciate, di evidente mestiere, com-menti a cascata, “talè che cosa!”, “questo prete ci vie-ne a cercare di primo mattino!”, “è forestiero, si è per-duto”. Una voce sibilava, “poveretto, chissà che pe-ne”, per impertinenza, per malizia scostumata.

Percorse una strada larga. Lo colpì l’insegna di unospeziale che annunciava i miracoli delle erbe. Entrònella stanza ariosa e il mercante, o farmacista, lo guar-dò con curiosità, come uno che conosce i prelati dellacittà e a prima vista riconosce il forestiero.

– Avrei bisogno di un’erba che mi alleggerisse lapesantezza dello stomaco – nulla di più gli sembrò op-portuno aggiungere, per decoro.

– Ho capito – disse l’altro, occhio arguto, di confi-

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denza. Mise le mani su un boccione di terracotta, di-pinto con l’eleganza di armoniosi colori, ne immerseuna nel cavo della bocca e ne trasse un pizzico di erba,odore penetrante. Diede le istruzioni per l’uso e augu-rò allo sperduto cliente ogni bene e fortuna.

Entrò in quel momento un prete. Aveva modi svel-ti e trionfanti, come di chi è abituato a dare ordini. Al-lo speziale non parve vero di potere carpire, grazieall’incontro casuale fra i due sacerdoti, il nome del fo-restiero, e sperava qualcosa di più.

– Reverendo – si intromise rivolto a don Filippo –posso presentarvi a don Pasquale Maccarrone, stima-tissimo canonico della nostra grande Cattedrale?

Il reverendo forestiero disse il proprio nome, e cosìil padrone di bottega riuscì a sapere che il casualecliente si chiamava Filippo La Ferla.

Due parole di convenienza corsero con aria di suf-ficienza da una parte e all’opposto con guardinga scel-ta di parole.

– Statevi bene in questa bella città.– Farò del mio meglio per apprezzarla, la vostra

città, è mio desiderio e obbligo.– Generosità la vostra, per carità!– Bontà vostra, monsignore.– Noi accogliamo a braccia aperte i degni forestieri.Auguri, e un saluto che doveva sembrare caloroso.

Finita la recita per il solitario spettatore, don Filip-po riprese il proprio cammino.

Gira e rigira sbucò finalmente su una piazza grande,abbellita da decorosa fontana, asciutta all’uso isolano.

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L’uscio di casa Intriglioli era aperto, invogliava iclienti ad entrare. Nella sala per l’attesa il solito tra-mestio di chi va e chi viene, il vocìo di chi si dà vanto opena dei propri affari, di chi prefigura i discorsi cheascolterà dal celebre avvocato e in cuor suo immaginadi saperne più dell’uomo di legge.

Il segretario lo accolse in malo modo. Era il suo sti-le, don Filippo lo ricordava.

– Voi vorreste essere ricevuto appena arrivato? –l’incredulità traboccava insieme con vago accento dirimprovero, represso.

– Quando possibile – tentava difesa, timida, colla-borante, il prete pellegrino.

– Siete impaziente, monsignore? – secca, autorevo-le la voce di chi dirigeva l’anticamera dell’avvocato.

– E dunque? – un modo per insistere.– Dunque, si vedrà. Terrò presente la vostra richie-

sta di udienza. Prendo nota su questo quaderno...Leccò il dito indice per voltare la pagina, avviò

spettacolare operazione, intinse la penna in un lerciocalamaio, e fu mossa da teatro, gomito alzato, a segna-lare che da lui tutto dipendeva. Poi, con calma e cura,chiese il dovuto.

– Con chi parlo, in questo momento?– Con me, che vengo da lontano...– Facciamola corta, reverendo. Come vi chiamate?

Con quale nome dovrei annunciarvi a don Nicola In-triglioli, se e quando avrà tempo per ricevervi?

– Gli direte che chiede di incontrarlo, per un segnodi rispetto e di stima, il reverendo don Filippo La Fer-la, da Lipari.

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– Siete di Lipari? – scosso, l’impiegatuccio.– La frequento spesso... – apriva il varco al dub-

bio. – Sono appena arrivato da quell’isola assai lonta-na – bene darsi vanto d’uomo di lunghi viaggi.

– Veramente? – lo scrivano si disorientava.– È vero, sono qui, mi vedete, voglio incontrare

don Nicola Intriglioli. Fra l’altro, per portargli i salutidel cavaliere Daniele Schlorck, il noto mercante eo-liano – tirò dritto il colpo, il nome difficile a pronun-ciarsi, impossibile a scriversi.

Il segretario lo guardò perplesso. Aveva davanti uncliente insolito, che non era un uomo d’affari e neppu-re un amministratore di beni propri, come qualcuno sivantava di essere per significare che viveva di renditae d’ozio, per patrimonio ereditato o acquisito.

Tenne il punto e tentò di dare sfogo alla indiscretacuriosità.

– L’avvocato desidera, anzi mi ordina, che devo an-notare quale è lo scopo della visita. Qual è il problemadi diritto?

– Voi scrivete solo “visita di cortesia”. È un buonproblema – ce ne volevano di scrivani e segretari persmontarlo o disorientarlo.

L’altro, perplesso, finse di pensare, imbarazzato, si-lenzioso.

– Perché esitate? Non è un buon problema? – asmuoverlo all’azione.

– Buono, sì e no. Non capisco come una visita dicortesia abbia qualcosa in comune con un problemadi giustizia, con una questione processuale – non erasciocco, il poveretto, e stentava ad arrendersi.

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Meditò in silenzio. Decise, alla fine, che non erapunto che lo comprometteva.

–Va bene, monsignore. Scrivo quel che volete, scri-vo “visita di cortesia” – e mentre lasciava scorrere lapenna, lentamente, sul foglio unto e bisunto, sillabavale poche parole, come a chiudere un varco ventoso,con quel prete davanti, un dannato.

– Quando torno per parlare con l’avvocato? – vin-ta la partita servivano il giorno e l’ora.

– Vediamo... – il segretario tentava l’ultima difesa,viso di uomo che riflette. – Vediamo come stanno lecose... – e sfogliava il quadernetto, due o tre pagineall’indietro, bisbigliava nomi e cognomi, supponeva diintimorire il prete venuto da lontano.

Don Filippo stava al gioco, aveva tempo da perde-re.

Finalmente l’altro parlò.– Oggi è martedì – constatò con enfasi – domani è

mercoledì – logica successione temporale. – Poi finiscela settimana. Venite il venerdì della prossima settima-na, che è giorno di digiuno e avete più tempo da per-dere – scintillò a chiusura la villanìa, pensata e inflittaa compenso dell’umiliazione subìta da quell’irritanteprelato.

– Bene, verrò fra dieci giorni, se non sbaglio il cal-colo, il venerdì della prossima settimana, di buon’ora,dacché risparmio il tempo del boccone del mattino –la stoccata a ripagarlo.

– Benedicite, reverendo – azzardò il malcreato.– Santo e ricco – si meritò la risposta.