Nell immensa città mia, la notte

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Il romanzo, che prende il titolo dal verso di una poesia di Marina Cvetaeva, poetessa geniale e sofferente che fino alla morte ha lottato contro la “belva acquattata nel folto”, è ambientato in una clinica circondata dalla campagna. In questo microcosmo raccolto intorno a un giardino, l’autrice, ricoverata per una grave forma di depressione, racconta in prima persona il percorso che dall’inferno della malattia la conduce verso l’inaspettata salvezza, restituendole una comprensione nuova del mistero della vita.

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A Tu per Tu

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Gabriella Stanchina

Nell’immensa città mia, la notte

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Prima Edizione: 2014

ISBN 9788898037469

© 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al MarePsiconline® Srl66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/ATel. 085 817699 - Fax 085 9432764Sito web: www.edizioni-psiconline.ite-mail: [email protected]

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Finito di stampare nel mese di Marzo 2014 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconli-ne® Srl)

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Nell’immensa città mia, la nottedalla casa sonnolenta vado via,e pensa la gente: moglie, fi glia,e io solo una cosa ricordo: notte.

Il vento di luglio mi spazza la stradae c’è musica a una fi nestra – appena.Ora il vento soffi erà fi no all’albaattraverso le tenui pareti del cuore.

C’è un pioppo nero, e a una fi nestra – luce,e scampanio sulla torre, e in mano un fi ore,e questo passo dietro a nessuno,e questa mia ombra, ma non ci sono io.

Luci della città, come fi li d’oro,in bocca il sapore di una foglia notturna. Amici, liberatemi dal travaglio del giorno,non sono null’altro che un vostro sogno.

Marina Cvetaeva

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INDICE

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CAPITOLO I

Un tentativo di descrizione del luogo in cui siamo dovrebbe cominciare dalle colline che arginano il cielo a nord e a sud disegnando i due lati di un rettangolo che non si chiude mai, ma si prolunga all’infi nito lungo dorsali curvilinee. O forse sarebbe meglio iniziare dalla strada statale che percorre il fondovalle penetrando nel-le viscere dei campi quadrettati, sfondandone la geome-tria verso un altrove da cui non viene mai nulla.

Dove gli aridi profi li delle colline e la lama d’asfalto non minacciano più lo sguardo comincia un reticolato di vigneti, giardini e prati inselvatichiti che si inerpica-no su pendii di terra rossa. Qua e là ci sono vecchie case coloniche con fi enili e colombaie dove la sera tornano gli uccelli, e ripidi sentieri tortuosi costeggiati da mu-retti di pietre e calce viva.

Il paesaggio si raccoglie in un rettangolo centrale, un impluvio verso cui tutto declina. Qui non c’è più smar-rimento, né rigoglio disordinato, ma solo silenzio. Tutto qui dove noi siamo è progettato per la quiete. I sentieri vi si arrestano contro come fosse una parete di vetro. Dai sentieri non viene mai nessuno. Il rettangolo è divi-so in due grandi campiture. La striscia verde è occupata

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da un giardino con querce e pini ombrosi, quella bianca da un edifi cio di cinque piani, minuscole fi nestre a inter-valli regolari sulle pareti di piastrelle candide. Altrove il verde penetra nelle case con fi le di gerani sui balconi, e perfi no edere che si arrampicano sui muri tremando nella brezza. Qui non ci sono vasi di fi ori, le pareti sono asettiche e le fi nestre chiuse per non fare uscire il silen-zio. E dentro il silenzio ci siamo noi.

I vivi e i morti si affacciano a cadenze prevedibili per parlare con noi, aprire borse, pacchi regalo, discorsi confezionati con dispacci dall’altrove. Noi camminia-mo al centro dell’impluvio, né vivi né morti, percor-rendo corridoi rettilinei o sostando sul bordo di letti di agghiacciante candore. Non apparteniamo più alle mani che disfano gli spaghi, agli sguardi che ci interrogano muti. Esistiamo nudamente in corpi inespressivi e vuo-ti, corpi già fatti luoghi che i morti attraversano sussur-rando, e i vivi scavano zolla su zolla per reperire fram-menti e cifre di quando eravamo umani.

Ora bisognerebbe partire da qui per completare que-sta descrizione del mondo e tornare indietro, allargan-dosi a cerchi concentrici al giardino su cui già scende la sera, ai sentieri, ai vigneti color ruggine, più in là, verso il rettilineo di asfalto e l’azzurro enigmatico delle col-line. Bisognerebbe, ma non è possibile perché non c’è strada che conduca fuori di noi, e quando si precipita a piombo nel cuore cavo del mondo, nel suo arido implu-vio, come noi siamo precipitati, si può solo tentare la ri-pida parete che ci sovrasta e fatalmente scivolare indie-tro. E giacere nel buio, ciascuno nella posa scomposta

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in cui è caduto la prima volta, respirando senza rumore. Sdraiata sul letto guardo il buio che gonfi a le fi nestre

e penso con sollievo che anche questo giorno e la sua furia se ne sono andati. Ora si sente il vento, solo il ven-to che fruscia tra i rami in giardini remoti, oltre il bordo inarrivabile di noi. Poi cade il sonno.

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CAPITOLO II

Cerco di svegliarmi molto presto, quando la luce ha ancora una consistenza di velluto e il comodino al mio fi anco, il tavolo e la sedia di fronte a me hanno contor-ni indecisi. Nel torpore mi addormento e mi risveglio più volte, brandelli di sogni restano impigliati nella luce dorata. So che avrei bisogno di dormire fi no a tardi e lo sforzo di tenere le palpebre aperte mi dà un sordo malessere. Ma è così bello essere vasti e silenziosi e andare alla deriva come corpi di annegati, fi ngere che lo stordimento sarà eterno e la lancetta continuerà a trema-re, sfocata, sull’orlo del mattino. Non accade mai. Poco prima delle sette l’ingranaggio si avvia, il sonno si ritira e io resto qui, inutilmente aggrappata a lenzuola fradice di sudore. L’infermiera spalanca la porta, preme l’inter-ruttore e una luce metallica scende dall’alto, sul carrello sferragliante una precaria architettura di confezioni di medicinali vibra e si assesta a fi anco del letto. Una li-sta viene consultata e spuntata, e il giorno si annuncia spingendoti nel palmo della mano un obolo di pastic-che, capsule e compresse. L’acqua nel bicchiere di car-ta è sempre tiepida e amara, le pastiglie si inchiodano in gola. Faccio un altro sforzo per deglutire e quando

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restituisco il bicchiere l’infermiera è soddisfatta. Dice: Ecco, brava, con voce strascicata, come se stesse lu-singando un bambino e io accolgo con gratitudine ogni cosa, perché ogni cosa mi dispensa dal pensare.

Dove dovrei esserci io, da qualche parte nello spa-zio buio tra la fronte e la nuca ci sono sillabe che si ripetono, Ecco, brava, sempre più rallentate e impastate e poi lo scricchiolio prolungato di un bicchiere che si accartoccia e cade con allucinata lentezza, e un rivolo d’acqua che cola dal bordo e si gonfi a sul ripiano metal-lico. So che potrei vivere così, in apnea, lasciando che ogni cosa si dilati fi no a riempire tutto lo spazio. Non è diffi cile, basta essere docili e lasciare che la vita viva in tua assenza.

Ma poi l’infermiera intercetta il mio sguardo vuoto e mi dice: Su adesso, si vesta, stavolta senza lusinghe, come dovesse riscuotermi da un pericolo mortale. Al-lora un’ansia mi prende, mi alzo di scatto e comincio a vestirmi e al contatto con la stoffa delle calze il corpo si addensa. Il corpo si ribella all’estranea ruvidezza del mondo e io comincio a esistere a fi or di pelle, una pelle ora fasciata e segnata e costretta dai vestiti. Guardo il tavolo di formica verde, l’acciaio ondulato della sedia, il brillio della polvere nel raggio di luce fi ltrato dalle ve-neziane e non c’è nulla che mi appartenga. Non c’è nul-la a cui io appartenga, e d’improvviso per contraccolpo mi trovo piantata in questa solitudine, mi riscuoto e mi sembra impossibile non aver avvertito subito il dolore di cui sono fatta, questa ferita che mi ha accompagnato fi n dal principio, ed è allora che la lancetta scatta in

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avanti con uno schiocco sordo e mi rovina addosso il tempo e la condanna del respiro.

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CAPITOLO III

«C’è una nuova amica!» annuncia l’infermiera, ap-poggiando una valigia di plastica grigia sul letto accan-to al mio. Distolgo l’attenzione dal gocciolio monotono della fl ebo e guardo la ragazza che indugia nella cornice della porta. L’infermiera mi dice il suo nome ma io lo dimentico subito. Non usiamo nomi tra di noi, non ab-biamo necessità di chiamarci. Lei ha i capelli biondi, tagliati corti alla nuca, con tracce di una tintura color rame, occhi spalancati che percorrono le pareti della stanza, labbra pallide, trattenute in un sorriso restio.

Svuota la valigia con lentezza meticolosa, dispone tutto in fi le ordinate. Noto la biancheria infantile, a piz-zi e piccoli fi ori. Sistema il peluche di un coniglio vi-cino alla sveglia e alla trousse dei cosmetici che non userà mai. Aspetto che ogni cosa sia stata riposta con scrupolo. Poi parliamo. Io distesa sul letto ad attendere che il tubicino della fl ebo lentamente mi svuoti in vena la sua solerte consolazione, lei seduta sul copriletto az-zurro cenere. Si stropiccia le mani e si accarezza in con-tinuazione i polsi. Sta imparando a diffi dare del corpo, ad accertarsi in ogni istante dei suoi confi ni. È il lento noviziato dello sgomento.

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«Ho ucciso un bambino», mi dice. Poi abbassa gli occhi, si ritrae nell’ombra. «No, non è vero, non l’ho ucciso. Ma potrei averlo

fatto.»Soppesa il silenzio, traccia cerchi minuti sul len-

zuolo. La voce è limpida, monocorde, precisa. A tratti un’incrinatura appena percettibile, come una puntina che passi su un disco rigato.

«Quando è successo?» chiedo. Ometto di chiedere cosa. C’è stato un solo vero even-

to nella nostra vita. Quello che ha posto fi ne a tutti gli altri eventi. Riconosco quel timbro di voce che è an-che il mio, quando parla della vita di prima. C’è come una commozione, un intenerimento subitaneo, un voler farsi piccoli mentre guardiamo nevicare nella bolla di vetro del nostro giardino perduto.

«Ero in vacanza nella casa di montagna dei nonni, come tutte le estati. Veramente avrei voluto cambiare, andare con le amiche sull’Adriatico, ma poi ho avuto un presentimento, tu ne hai alle volte?»

«Sì», rispondo, «mi capita spesso.» «Bene, ero così indecisa, poi ho ricevuto una telefo-

nata di mia nonna. La sua voce mi è sembrata diversa, più fragile, come se si stesse allontanando da me. Ho temuto che quella sarebbe stata l’ultima estate insieme. Pensavo alla loro morte. Invece è stata la mia.»

Continua ad accarezzare con le dita i rilievi della stoffa azzurra, in tondo e in tondo.

«Ho deciso che non mi sarei trattenuta più di una set-timana. Del resto, già dal primo giorno ho cominciato

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ad annoiarmi. Mi sono ricordata che nel capanno a due-cento metri da casa c’erano un bersaglio e una scatola di freccette. Sono andata a cercarli. C’era una forte afa e nel capanno un odore di polvere e muffa che mozzava il respiro. Ho dovuto spostare dei vecchi tronchi, frugare tra le casse di legno. In una ho trovato una mela avviz-zita, era piccola e dura come la testa di un bambino e coperta di una specie di lebbra. L’ho gettata via. Quan-do ho trovato il bersaglio e sono uscita per appenderlo alla parete del capanno mi sono accorta che sotto le un-ghie mi era rimasto del sudiciume, mi sono annusata le dita e ho sentito uno strano odore, come di qualcosa che marcisse. Sono andata alla fontana e ho lavato le mani nell’acqua gelida fi no a quando sono diventate livide per il freddo. Ma la sporcizia non è andata via. Faceva sempre più caldo. Ai bordi del pascolo l’aria tremava. C’era qualcosa di strano, irreale. Ho lanciato la prima freccetta e ho mancato il bersaglio. Non ero più abi-tuata a tirare, non ci avevo messo abbastanza forza. Mi sono allontanata, ho preso la seconda freccetta e mentre la lanciavo, una bella parabola alta, sono stata accecata da un riverbero. Ho abbassato lo sguardo. Ho scoperto di avere le braccia e la nuca incrostate di sudore fred-do. Cercavo di asciugarlo, ma non veniva via. E in quel momento ho sentito l’urgenza di ritrovare la freccetta. Non era sul bersaglio. Non era caduta a terra. Mi sono inginocchiata e ho frugato inutilmente tra l’erba. Senti-vo che dovevo trovarla, o qualcosa di terribile sarebbe accaduto. Sul retro del capanno passava una stradina, la usavano ogni giorno i bambini della casa sul monte

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per scendere alla scuola del paese. La freccetta era lì, al centro della strada, piantata nella terra. Ho pensato a ciò che sarebbe potuto accadere. Una folla di immagini mi si è schiantata nella mente. Ho sentito le grida e le risate dei bambini, ho cercato di avvertirli, ma come in un incubo io gridavo e la voce non mi usciva, e ho visto la freccetta fendere l’aria. E piantarsi nel cranio di un bambino. Ha fatto un rumore assurdo, come il guscio di un uovo che si screpola. Non c’era sangue, ma il bambi-no era morto, e io l’avevo ucciso. Non so come spiegar-lo, tutto accadeva e non accadeva, come in un sogno.»

Fa il gesto di asciugarsi una lacrima. Ma non sta pian-gendo. Gli angeli non piangono. E lei per un attimo ha visto il mondo con gli occhi freddi e tristi degli angeli. Un mondo in cui tutto è compiuto e irrevocabile, una fragile sfera di buio dove candide piume scendono nel silenzio.

«Ho pensato di andare a costituirmi ai carabinieri. Ma potevo denunciare un delitto che non era stato commes-so? Eppure avrei voluto andare lì e gridare: Non vede-te? Se una volta posso avere ucciso, potrei avere ucciso sempre. Nessuno passava sulla strada in quell’istante: è una cosa così piccola questa, una coincidenza così gra-tuita. Se solo questa piccolezza mi rendeva innocente, potrei avere ucciso incalcolabili volte. Sono colpevole di tutto il male compiuto, anche di quello che non cono-sco. Ora lo so, e dal momento che l’ho saputo mi sono chiesta come ho potuto vivere ignorandolo. C’era tanta sciocca distrazione in quella felicità che avrei meritato di morire solo per quello. E invece sono viva e non c’è

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nessuna giustifi cazione per questo.» Il suo monologo si interrompe, lo sguardo trema in-

deciso per un attimo tra il pianto e lo smarrimento, poi le labbra si distendono di nuovo in un sorriso di inespri-mibile dolcezza. Non ha più bisogno di me, lo so, né di nessun altro interlocutore. Sorride a tutti e a nessuno.

Esco spingendo il treppiedi della fl ebo. L’Avvocato è seduto sul corridoio. Le braccia conserte, lo sguardo che cerca un orologio invisibile, saldamente concentra-to nell’attesa del suo turno che non verrà mai.

«È una ragazza nuova?» chiede. «Sì. »«Che cos’ha? »«Ha ucciso un bambino», rispondo. Lui non batte ciglio, accoglie la rivelazione con in-

differenza. Non è vero, naturalmente. Ma sono parole vere quelle che di solito ci scambiamo o solo cenni per segnalare la nostra precaria esistenza? Per non scivo-lare l’uno nell’altro, e ferirci, e farci male? La realtà è una superstizione a cui abbiamo smesso di concedere ascolto. Tutto può essere detto, con la certezza che ogni offesa, assurdità o incongruenza sarà accettata. Non resistere più, non avere una forma defi nita, arrenderci all’onda che ci attraversa. Essere trasparenti è la nostra strategia di riduzione del dolore.

Lei ancora non lo sa, c’è ancora un’enfasi tragica in ciò di cui narra. Mentre uscivo dalla stanza mi ha affer-rato il polso e guardandomi per la prima volta, guardan-domi davvero, mi ha sussurrato:

«Sai, quella sera ho saputo da mia nonna che la casa

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sul monte era disabitata da mesi. Non c’era più nessun bambino. Non avrebbe comunque potuto esserci. E questa, se ci pensi», mi ha detto mostrando i suoi denti bianchissimi e fi nalmente ridendo della sua calma di-sperazione, «questa è la cosa veramente terribile.»

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CAPITOLO IV

Sul tavolo bianco sono sparsi cartoncini di ogni colo-re. «I colori primari e le geometrie elementari hanno ef-fetto blandamente sedativo sul sistema nervoso centrale favorendo l’orientamento spazio-temporale e fornendo griglie in cui incasellare i vissuti...» Ci sono anche pen-narelli, matite, forbici per bambini con punte arroton-date. Noi siamo intorno al tavolo. Le nuche irrigidite, le spalle curve, resistiamo muti alla vivacità del mon-do. Siamo qui per creare, ci spiegano. Guardo la mano del medico tracciare un movimento circolare sopra il tavolo: il palmo è disteso, assertivo, le dita carnose non tremano. Quella mano tesa di patriarca biblico ridesta, non senza un sordo rimprovero, le nostre mani che sotto i tavoli, nella segreta penombra delle ginocchia serrate, si tormentano, spianando pieghe invisibili dei vestiti.

Ci vengono distribuiti fogli bianchi. Le mani della Ragazza delle Freccette escono riluttanti dal buio, avan-zano caute, falange dopo falange come ragni d’argento, fi nché riescono a posarsi sui bordi del foglio. Afferrano una matita e tracciano degli assi cartesiani. Poi ripiega-no sul quadrante inferiore e iniziano a suddividerlo in rettangoli sempre più stretti.

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Il Ragazzo Che Si Lava Le Mani ha dita contratte nel terrore di essere contaminato da qualche genìa di batte-ri, piega il palmo e rivela nocche ustionate dai detergen-ti chimici. Poi con studiata lentezza raccoglie il penna-rello viola e lo colloca su un cartoncino viola, poi fa lo stesso col pennarello giallo, ritrae le mani in grembo e osserva sfi nito. Sa che ogni minuscola scossa, un car-toncino distrattamente tolto dal mucchio, basterebbe a sconvolgere la corrispondenza perfetta che attraverso le sue mani, a prezzo dell’energia che l’avrebbe sostenuto per un pomeriggio intero, si è incarnata nel mondo. Le mani tremanti, lavate e rilavate fi no a piagarne la pelle, stanno strette a pugno.

L’unico a usare i colori è l’Avvocato. Sta disegnan-do un gatto, l’amato gatto siamese che adesso riposa acciambellato su un cuscino nella sua casa e forse pre-sagisce, con un lieve indecifrabile fastidio, la sua as-senza. Ma subito dopo le mani si allungano ad afferra-re i pastelli dai toni più vividi e aureole concentriche circondano il corpo del gatto, lo fanno più elementare e arcaico, lo trasformano in una vampata di energia. E già il gatto del ricordo è tutti i gatti, è il Gatto, lucente potenza infera, ed egli ne è lo sciamano. Le sue dita macchiate di colore stringono convulsamente i pastelli, li gettano e li raccolgono con fervore, percorse e tortu-rate da una forza che viene da altrove.

Guardo le nostre mani, pallide, ossessive, contorte, mani che frugano nei sogni, che annaspano cercando di riportare a galla il corpo che a loro si affi da. Mani sot-tratte all’uso, incapaci di additare le cose, di dare fi gura

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e senso al mondo. Mani possedute e poi abbandonate dagli dei. Mani da scrutare nella penombra, senza più linea della vita, mute a ogni interrogazione. Mani non più umane, da respingere con disgusto, come irricono-scibili, deformi corazze d’insetti.

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