Nel paese dei balocchi

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BRIAN SUTTON-SMITH edizioni la meridiana NEL PAESE DEI BALOCCHI i giocattoli come cultura p i S t e prefazione di Matilde Callari Galli

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I giocattoli di legno sono più educativi di quelli in plastica? Le bambole anatomiche trasmettono modelli sessuali? I videogiochi diminuiscono la socialità dei bambini? A dispetto della consistenza assunta dal mercato dei balocchi nei consumi quotidiani, dei giocattoli sappiamo poco. Nient’affatto indagato resta l’universo delle relazioni che lega il giocattolo al bambino e agli adulti. Questo testo è fondamentale per chiunque voglia prendere sul serio il mondo dei giocattoli. L’autore sviluppa una sorta di antropologia dei diversi tipi di giocattolo attraverso cui dimostra come “l’interpretazione dei significati assunti dai giocattoli sia imprescindibile dal riferimento ai contesti in cui si ritrovano”. Il lettore viene aiutato a cogliere le connessioni tra il giocattolo e gli schemi culturali di mondi assai diversi tra loro come la famiglia, la scuola, il mercato. Il giocattolo è lo strumento per mediare i conflitti che questi mondi generano all’interno della vita del bambino.

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BRIAN SUTTON-SMITH

edizioni la meridiana

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prefazione diMatilde Callari Galli

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I giocattoli di legno sono più educativi di quelli in plastica? Quali valorieducativi trasmette Barbie? Le bambole anatomiche trasmettono modellisessuali? Le pistole aumentano la predisposizione alla guerra? E i videogiochidiminuiscono la socialità dei bambini?A dispetto dell’enorme consistenza che il mercato dei balocchi ha assuntonei consumi quotidiani, dei giocattoli sappiamo poco. Anzi nulla. Certo, latecnologia del giocattolo si è sviluppata molto, fino a raggiungere prodottisempre più sorprendenti per la loro raffinatezza. Ma nient’affatto indagatoresta l’universo delle relazioni che lega il giocattolo al bambino e agli adulti.Siamo invasi di luoghi comuni che pensiamo di risolvere magicamenteesprimendo l’esigenza che i giocattoli rivestano un valore “educativo”.Questo testo costituisce una lettura fondamentale per chiunque vogliaindagare il mondo dei giocattoli. Con un vasto repertorio di riferimenti edati, l’autore sviluppa un’indagine ricca e intrigante, una sorta di antropologiadei diversi tipi di giocattolo, attraverso la quale dimostra come“l’interpretazione dei significati assunti dai giocattoli sia imprescindibile dalriferimento ai contesti in cui si ritrovano”. Così il lettore è aiutato a coglierele connessioni tra il giocattolo e gli schemi culturali di mondi assai dissimilitra loro come la famiglia, la tecnologia, la scuola, il mercato. Il giocattolo,insomma, è lo strumento offerto per mediare i conflitti che questi mondigenerano all’interno della vita personale del bambino. Attraverso il giocattoloil bambino è chiamato a esprimere e gestire le sollecitazioni culturali che gliprovengono dal suo ambiente, in fondo “il bambino attraverso il giocattolotrasforma il suo mondo” (dall’introduzione di M. Callari Galli).

Brian Sutton-Smith è professore emerito dell’Università della Pensylvaniaa Filadelfia. È stato a lungo direttore di programmi di ricerca di psicologiadello sviluppo. Tra i maggiori esperti internazionali di antropologia del gioco,ha sempre condotto le sue ricerche in maniera interdisciplinare cogliendole connessioni che il gioco - e il giocare- sviluppano tra psicologia e pedagogia,tra storia e folklore, tra lavoro e tempo libero. Le sue ricerche sul gioco e sulgiocattolo sono esposte in numerose pubblicazioni di taglio scientifico odivulgativo.

Euro 18,50 (I.i.)

ISBN 978-88-87507-54-6

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1986 © Gardner Press, New York

Brian Sutton-Smith

Toys as culture

2002 © edizioni la meridiana1

Via G. Di Vittorio 7, 70056 Molfetta (BA) - tel. 080.3346971

http://www.lameridiana.it

ISBN 978-88-87507-54-6

Progetto grafi co L’Immagine

I capitoli 4,5,6,10 e 11 sono stati tradotti da Maria Antonella Delfi ni

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NEL PAESE DEI BALOCCHII giocattoli come cultura

Brian Sutton-Smith

Traduzione di Maristella Gatto

Prefazione di Matilde Callari Galli

edizioni la meridianapiste

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PREFAZIONECultura, gioco, giocattoli 9

INTRODUZIONE Il regno dei giocattoli del Cappellaio Matto 21

PARTE IIL GIOCATTOLO NELLA FAMIGLIA1. Il giocattolo come vincolo e come impegno 372. Il giocattolo come isolamento 453. Il giocattolo come consolazione 67

PARTE IIIL GIOCATTOLO COME TECNOLOGIA4. Il Giocattolo come macchina: i videogiochi 835. La tecnologia dei giocattoli 1096. Il giocattolo come strumento del bambino 125

PARTE IIIIL GIOCATTOLO COME EDUCAZIONE7. Il Giocattolo come conquista 1618. Il giocattolo come lavoro del bambino: 177 il primo anno9. Gioco e lavoro: il secondo anno 199

PARTE IVIL GIOCATTOLO COME PRODOTTO DI MERCATO10. Il giocattolo come novità 221 11. Il giocattolo come agente 24112. L’idealizzazione del giocattolo 275

CONCLUSIONE 303

indice

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capitolo 1

Il giocattolo come vincolo e come impegno

Per la maggior parte di noi il giocattolo è una cosa da regalare ai bambini per Natale. Dal punto di vista economico è un dato di fatto che il 60 per cento di tutti i giocattoli siano venduti in questo periodo e che, dei rimanenti, la maggior parte siano regalati in occasione dei compleanni. Così, qualunque cosa il giocattolo abbia rappresentato storicamente e qualunque cosa abbia da dire sulla natura umana, esso è, prima di tutto, dono natalizio1 .

Se un marziano arrivasse oggi negli Stati Uniti note-rebbe che le principali attività legate a queste “cose” chiamate giocattoli si collocano nel periodo natalizio (si spendono in giocattoli sette miliardi di dollari in questo periodo); scopri-rebbe che il 25 dicembre essi vengono incartati in centinaia di pacchetti insieme a doni d’altro tipo e posati ai piedi degli alberi di Natale di tutto il Paese. Ed è lì che al mattino i bambini si precipitano in pigiama e, fuori di sé per l’eccitazione, comincia-no a scartare i loro doni (ben presto dappertutto ci sono carte e, se non si sta attenti, si corre il rischio di schiacciare i giocat-toli o gli stessi bambini); vedrebbero che alcuni dei bambini si mettono subito a giocare con uno dei giocattoli che hanno scartato, dimenticando tutto il resto, mentre altri sembrano presi principalmente dall’atto di scartare in sé, continuando all’infi nito, come se non dovessero mai fermarsi; e che in altre famiglie, viceversa, a turno ognuno apre un pacco, mostrandolo a tutti gli altri, con il risultato che non si fi nisce di scartare i doni se non dopo l’ora di pranzo; che ci sono famiglie in cui tutto questo si fa la notte prima di Natale, oppure un po’ la sera prima e un po’ la mattina dopo, che alcuni lo fanno un po’ per

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volta ogni sera nella settimana che precede il Natale; e ancora altri che si scambiano i doni il primo gennaio o in altri giorni festivi; e che in tutto questo scartare alcuni bambini gridano entusiasti e altri scoppiano in pianto; in alcune famiglie tutto questo porta allegria, in altre è motivo di depressione; ma che in tutte queste famiglie, passato il gran giorno, per prepararsi al quale si sono impiegati mesi e mesi, ciò che segue appare strano e vuoto. Ecco cosa vedrebbe un marziano. Negli Stati Uniti una discussione sui giocattoli non può partire che da questo grande festival del regalo. E per capire cosa signifi ca dobbiamo guardare alle nostre grandi celebra-zioni – Natale, il Giorno del Ringraziamento, i compleanni, le feste nazionali, la festa della mamma, la festa del papà, Pasqua, il giorno di San Valentino e Halloween – per renderci conto di come la maggior parte di queste feste sono diventate feste di famiglia. In origine alcune di queste feste erano principalmente ricorrenze religiose, come Natale e Pasqua, e tuttora lo sono. Altre celebravano il cambio di stagione tra l’autunno e l’inverno (Halloween) o fra l’inverno e la Primavera (Pasqua) e i loro rituali riguardavano la magia della sopravvivenza di fronte ai cambiamenti della natura. Altre erano, e sono, celebrazioni patriottiche – i compleanni di Lincoln e Washington, la Festa dell’Indipendenza, quella dei Veterani, il Columbus e il Memo-rial Day. Nel ventesimo secolo, comunque, la celebrazione di queste feste è stata sempre più incentrata sulla famiglia2 . Per comprendere i giocattoli dobbiamo prima di tutto conoscere qualcosa sulle feste, sulla famiglia e sul dono.

La festaLa parola “festa” può signifi care tante cose, ma di

solito signifi ca una dose extra di emozioni. Signifi ca celebrare qualcosa, signifi ca fare cose che di solito non si fanno: mangiare di più, bere di più, giocare di più, andarsene in giro, vedere mostre, parlare di più, ridere di più; essere più aggressivi, più impulsivi, più volgari, più insolenti o semplicemente oziare di più. Si fa ciò che sarebbe impossibile fare di solito senza correre

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orischi, senza compromettere la salute e il successo personale. Per conservare la consueta sicurezza, la tranquillità, il successo, è necessario non sconvolgere l’ordine usuale del vivere sociale e la nostra vita personale ed emotiva. Ma nella vita quotidiana si creano anche tensioni dovute al super lavoro, ai confl itti con gli altri, con il capo, con il coniuge, con gli orari e con il senso del limite. Il che signifi ca che se la festa ha il vantaggio dell’emozio-ne, la vita ordinaria ha il vantaggio della sicurezza. Oscilliamo così fra l’una e l’altra, sempre in cerca di quell’equilibrio che le renda possibili entrambe: alcune persone potrebbero propen-dere eccessivamente per l’una, (i playboy), altri possono darsi troppo all’altra (i maniaci del lavoro). Secondo le attuali correnti di pensiero, molto probabil-mente nella festa si rifl ettono quei confl itti e quelle pressioni che a livello sociale si percepiscono con maggior intensità3 . Così, in passato, quando la divisione in classi era un grave peso, è molto probabile che la festa rappresentasse un rovesciamento di quella divisione, come nel tradizionale Martedì Grasso in cui gli appartenenti ai ceti bassi facevano fi nta di essere re e spesso insultavano o addirittura colpivano i membri delle classi superiori. Perfi no nell’attuale, rivisitato, festival di New Orleans, membri ordinari della società si vestono da re e regine e lanciano dai carri allegorici doni per i quali la gente si accapiglia, anche se si tratta di collanine di plastica relativamente senza valore, lanciate come fossero i gioielli della regina. C’è ancora un’eco, qui, di quelle divisioni nella società che, per quanto irrise nella festa, non cambiano nella vita di tutti i giorni. Un altro esempio è costituito dalle festività dell’antica Mesopotamia (3000 a.C.) in cui, una volta all’anno, il tradizio-nale buffone veniva fatto re per tre giorni e poteva governare, celebrando così l’idea che il vero re potesse essere deposto, anche se ciò non era mai accaduto. Si narra in una leggenda apocrifa che una volta il re morì durante il regno del buffone e di conseguenza questi divenne re per davvero. (Di qui il detto “gioco è il buffone che diventa re”). Nella festa immaginiamo di vivere la nostra vita come dovrebbe essere sempre. Perché

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non farsi sempre regali? Perché non stare sempre in vacanza? Perché non è domenica sette giorni su sette? Perché lo spirito di concordia del Natale non dovrebbe durare per tutto l’anno? Perché in famiglia non ci si può volere altrettanto bene in tutti gli altri 364 giorni dell’anno? Ma se è vero che era la divisione fra le classi, celebrata dal suo stesso rovesciamento, a essere ricucita nelle feste antiche, e se è vero che le feste di solito rivelano i confl itti fondamentali di una data società, allora potremmo concludere – a partire dalla tendenza attuale a trasformare tutte le festività in feste familiari – che è la famiglia la specie in pericolo fra le forme sociali moderne. Forse abbiamo tutte queste feste di famiglia perché temiamo che, nel mondo moderno, la famiglia si stia disgregando.

La famigliaSotto molti punti di vista la famiglia moderna si sta

sgretolando. Tre secoli fa la famiglia era al centro della forma-zione dell’individuo, della vita lavorativa, politica, religiosa, e della vita riproduttiva. Nel nostro secolo, per la maggior parte delle persone, queste funzioni vengono assolte altrove: ci sono fabbriche, partiti politici, chiese, scuole, centri per la pianifi -cazione familiare. Inoltre, nella società moderna, le persone riescono a far valere le proprie ambizioni individualistiche nella scuola e negli affari, laddove viene ricompensato chi ha messo da parte matrimoni, fi gli, famiglie, comunità, chiesa. Sebbene la maggior parte delle persone riesca a trovare delle forme di compromesso fra la dimensione pubblica del lavoro e quella privata dell’intimità e della famiglia, è sempre più diffi cile riu-scirci. Il numero dei divorzi è salito alle stelle; la psicoterapia familiare e di coppia è un’industria in espansione, così come quella dei libri scritti da specialisti su come allevare i fi gli. La famiglia, nella società moderna, è in crisi.

Non sorprende, perciò, la scoperta che da un lato la famiglia è in crisi e che dall’altro la maggior parte delle festività nella società moderna aiutano ad accrescere il valore della fami-

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oglia agli occhi dei suoi membri. Nella Festa del Ringraziamento e a Natale, in particolare, si può tentare di riprendersi dagli effetti disgreganti del mondo moderno e rimettere insieme la propria famiglia. Ecco qui delle esemplifi cazioni banali sul va-lore terapeutico delle feste per l’uomo moderno. Come sa ogni buon consulente di coppia, affi nché il matrimonio sopravviva, è importante che la coppia trovi con regolarità del tempo per una vacanza da soli: un tempo profi cuo in cui rilassarsi dalle abitu-dini e dagli obblighi del lavoro e prendersi il tempo di gustare insieme la libertà dell’istinto o della vacanza, il divertimento, il rituale religioso. Le vacanze rimettono insieme le persone la cui relazione è disgregata dalle pressioni della vita. E così, rassicurati l’uno dell’altro, i membri della relazione nutrono la sensazione di essere persone più complete, rispetto alle persone altamente qualifi cate, o subordinate, che il loro posto di lavoro richiede. Una famiglia riuscita è nutrimento per tutta la perso-na. La festa in famiglia celebra questi legami e ridesta nei suoi membri la convinzione che la vita è tutta da vivere, e non una monomaniacale dedizione al lavoro.

Doni e obblighiÈ nel contesto della famiglia moderna e del suo far festa,

considerato anche il fatto che il 60 per cento dei giocattoli viene dato ai bambini in occasione del Natale, che possiamo arrivare a comprendere il signifi cato del giocattolo in quanto dono. L’idea moderna è che si diano ai bambini giocattoli o altri doni per manifestare l’amore o l’amicizia nei loro confronti. Fatta salva la speranza che risultino graditi, non ci si aspetta alcuna ricompensa particolare in cambio. E certamente questo vale per i giocattoli donati ai bambini: è troppo presto per aspettarsi da loro che comprendano la reciprocità del dono.

C’è tuttavia un’idea più antica del dono, quella di scam-bio, che implica l’aspettativa da parte del donatore di qualcosa in cambio, anche se non necessariamente altri doni4 . Il donatore potrebbe aspettarsi di ricevere in cambio un aumento dell’amore da parte dei fi gli, di conoscenti e parenti, o un riconoscimento

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della propria bontà come genitore o del proprio prestigio in quanto persona in grado di permettersi tali doni, o della propria abilità nel pensare a doni così appropriati. Provate a immaginare come ci sentiremmo se sapessimo di conoscenti cristiani che si rifi utassero di fare regali di Natale ai loro fi gli: li troveremmo disumani, potrebbero apparirci dei mostri. È chiaro che si av-verte un forte condizionamento sul fatto di dover fare regali di Natale ai bambini. Allo stesso modo, ci si aspetta che, a tempo debito, chi riceve il dono ricambi con qualcosa di pari valore, e fi no a quando non ci riuscirà la sua sarà una posizione di relativa inferiorità sociale. In termini più attuali: quale debito grava su questi bambini! Ad ogni Natale c’è l’annuale prova di esibizio-nismo consumistico dei genitori. I giocattoli vengono riversati sui bambini per essere letteralmente distrutti o abbandonati nell’arco di qualche settimana dopo il grande evento. Le persone da me intervistate dicono che i bambini hanno la possibilità di ricambiare, all’inizio, con baci e coccole, o facendo i “buoni” per mesi nella speranza che Babbo Natale porti loro questo o quell’oggetto reclamizzato in televisione5 . Col passare degli anni si trovano coinvolti in una gran varietà di contratti di scambio con i loro genitori: i voti a scuola, la pulizia della cameretta, lavarsi i denti, appendere i vestiti, raccogliere i vestiti da terra, bere il latte, mangiare le verdure, fare i compiti, abbracciare e baciare papà e mamma, dire che vogliono bene a papà e mam-ma, togliere la polvere e passare l’aspirapolvere, portar fuori la spazzatura, farsi la doccia e, soprattutto, non litigare. La maggior parte degli intervistati sostiene che raramente i genitori tengono fede alle minacce e che essi stessi si sentono a volte terribilmente in colpa per essere stati cattivi e aver comunque ricevuto i doni. Uno degli intervistati mi ha parlato degli elfi impegnati a spiare i bambini per riferire tutto a Babbo Natale. Per alcuni, questi “contratti” natalizi non sono poi così diversi dal mercanteggiare o dalla corruzione in uso per tutto il resto dell’anno, quando i doni vengono utilizzati per ottenere buoni voti e un buon comportamento. Di tanto in tanto, poi, ci sono lontani parenti che offrono doni esagerati e si aspettano onori

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odi ogni tipo in cambio della loro magnanimità.Passato il Natale, spesso i genitori continuano a interes-

sarsi dei giocattoli che hanno donato ai loro fi gli, conservando così un legame tanto con il dono quanto con il signifi cato che non dichiaratamente esso assume all’interno della relazione. Il dono aiuta a conservare il legame sociale fra le parti, genitori e fi gli. Ogni volta che viene usato, il giocattolo è fonte di gratifi cazione per il genitore che lo ha concepito e ha lavorato per ottenerlo, e allo stesso modo genera un certo sconforto il fatto che possa essere subito messo in disparte fra le vecchie cianfrusaglie.

Il festival dei giocattoliÈ questo dunque il ragionamento che ci consente di

affermare che la più importante interpretazione unitaria del ruolo dei giocattoli all’interno della famiglia prevede che essi siano parte di un rituale in cui i doni rappresentano i vincoli e le forme di controllo all’interno della famiglia. Essi sanciscono il legame necessario fra genitori e fi gli contro molte forze, come il divorzio o l’ambizione, che minacciano di separarli. Natural-mente la famiglia moderna cerca di rimanere unita anche in molti altri modi, con molti altri riti o molte altre forme di devozione religiosa e personale. Il punto è però che i giocattoli qui sono uno dei fattori coinvolti, uno dei doni che servono a ricordare a tutti i membri che c’è una unità da preservare. Grande o piccolo che sia il contributo che il giocattolo offre alla famiglia, è proprio questo che lo rende “sacro” nella civiltà moderna, così come in molti altri momenti nel corso della storia. Non ci inchiniamo davanti a lui, né lo riteniamo magico, o lo deponia-mo nella tomba affi nché accompagni i morti. Ma nella nostra società moderna secolarizzata abbiamo imparato a giudicare ciò che la gente ritiene di fondamentale importanza alla luce di come spende i suoi soldi: in questo senso, ciò che per noi ha più valore è la versione secolarizzata di ciò che riteniamo più sacro.

Non vogliamo perdere le nostre famiglie e i nostri fi gli: sono fra le cose che hanno più valore per noi. E nella misura in cui regalare giocattoli contribuisce a rafforzare quel valore,

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costituisce una forma di moderna sacralità. La morale della favola è che sebbene i giocattoli vengano dati in dono, non si può parlare di gratuità.

1 Le statistiche relative ai giocattoli sono tratte da The Toy Industry Fact Book, la pub-blicazione della Toy Manufacturers of America già citata nell’introduzione (vedi nota 2). 2 Il passaggio graduale delle festività americane a feste di famiglia è osservato da Roger Abrahams in Events: A poetics of everyday life, Cambridge, Mass., in corso di stampa. 3 La teoria della festa come risposta e attenuazione dei confl itti sociali qui esposta si ritrova nella teoria del “dramma sociale” della cultura espressiva avanzata da Victor Turner in diversi testi. Cfr. V. TURNER, Dramas, fi elds, and metaphors, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1974 e, dello stesso autore, Celebrations: Studies in festivity and ritual, Washington, DC, Smithsonian Press, 1982. 4 La nozione di dono come scambio qui introdotta è ben nota in antropologia ed è asso-ciata in particolare allo studio di M. MAUSS, The Gift, London, Cohen & West, 1954. 5 Gli intervistati a cui si fa riferimento qui e nei capitoli successivi sono miei studenti e laureati degli ultimi dieci anni presso la Columbia University, la New York University e la University of Pennsylvania. Quando non specifi cato diversamente, si tratta di giovani intorno ai vent’anni, quasi sempre di sesso femminile. Essendo basata su un campione prevalentemente femminile la ricerca dà probabilmente maggior peso ai giochi fatti in luogo chiuso, diversamente da quanto non sarebbe accaduto con un campione preva-lentemente maschile. Le opportunità di gioco offerte alle bambine sono più limitate rispetto a quelle offerte ai bambini e per questo avviene che esse pongano più attenzione ai giocattoli, sebbene paradossalmente i maschietti ricevano in dono una maggior va-rietà di giocattoli. Gli aneddoti, tuttavia, hanno in questo libro uno scopo meramente illustrativo. In quanto testo di interpretazione storica, psicologica, e di interpretazioni di dati ricavati da interviste, tenta solo di formulare delle ipotesi: l’analisi scientifi ca di questi argomenti attraverso una raccolta di dati più sistematica verrà in seguito. Sono particolarmente grato agli studenti per l’entusiasmo con cui hanno partecipato alla discussione e per i loro chiarimenti esaurienti sull’importanza nella loro vita privata delle questioni trattate.

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capitolo 5

La tecnologia dei giocattoli

Nel capitolo precedente si è visto come, ancora una volta, l’avvento di un’invenzione tecnologica (il videogioco) abbia determinato un’ulteriore trasformazione nel carattere dell’infanzia. Quali che siano stati i meriti o i demeriti della televisione, essa ha indubbiamente ottenuto l’effetto di allonta-nare i ragazzi dalla strada e dal gioco all’aperto per una media di 35 ore settimanali. La televisione ha reso più probabile che in passato il gioco solitario nel salotto di casa, con la tv e i gio-chi ad essa collegati, rispetto al gioco in strada con gli amici. I ragazzi sono diventati meno abili nei giochi all’aperto e meno esperti nell’atteggiamento da tenere in strada di quanto lo fos-sero in tempi passati, ma sono anche diventati decisamente più informati e consapevoli circa il vasto mondo che li circonda. Il fatto che negli ultimi cinquant’anni il ricorso a giochi da tavolo e puzzle abbia subito un deciso incremento (dal costituire il 20 per cento delle vendite di giocattoli negli anni ’20, essi sono passati a rappresentare il 40 per cento negli anni ’70), può stare a signifi care che ciò che è andato perso in abilità di tipo fi sico connesse al gioco in strada, è stato guadagnato in dinamiche di tipo simbolico adeguate all’interazione all’interno di piccoli gruppi.

L’alfabeto degli oggettiIn un certo senso, i libri, i giocattoli, la televisione e il

computer, fanno tutti parte di un certo movimento della civiltà moderna che ha spinto i suoi componenti in un mondo più “privato” rispetto al mondo collettivo del Medioevo. Marshall

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McLuhan ha dato molto risalto al fatto che, mentre la stampa avrebbe spinto l’umanità a una condizione più privata e indi-vidualistica, la televisione avrebbe stabilito un “villaggio glo-bale”, dunque una modalità diversa, più dinamica, di porsi in relazione agli altri. Per quanto vi sia un fondo di verità in tutto questo, quello che comunque appare ancora più evidente è il modo in cui libri, videogiochi e computer rendano le persone più solitarie. Televisione, giochi e computer, ciascuno con le sue modalità, potranno indubbiamente fornire a chi ne fa uso nuove forme di comunicazione, ma fi niscono inevitabilmente col proiettare gli utenti in mondi più simbolici e meno reali. Ai fi ni di questa discussione è più importante concentrare l’atten-zione sul loro effetto straniante. Esiste una differenza talmente grande tra il ragazzo di campagna che occupa gran parte della propria infanzia dilettandosi in attività come la caccia e la pe-sca, che da adulto diventa un capace agricoltore, e il ragazzo di città che cresce in un appartamento trascorrendo l’infanzia in compagnia di libri, giocattoli, televisione e computer, che è opportuno considerare gli elementi appena menzionati, prima nel loro insieme e poi procedere alle dovute distinzioni. Libri, giocattoli, televisione e computer sono componenti dell’alfabeto simbolico della società dell’informazione. È necessario imparare a “leggere” gli oggetti (ad esempio i giocattoli), a leggere i libri, a leggere la televisione e a leggere il computer.

Delineato questo ampio scenario, si può procedere a identifi care la prima anomalia, che cercherò di illustrare nei termini della mia attuale tesi, circa l’ambivalenza culturale nei confronti dei giocattoli. L’anomalia è costituita dal fatto che, sebbene i giocattoli rappresentino attualmente uno straordina-rio evento culturale, non esiste, nemmeno a livello embrionale, alcuna teoria sulla tecnologia dei giocattoli. La civiltà moderna è una civiltà tecnologica e nonostante ciò i mezzi utilizzati per trasmettere ai giovani i concetti basilari della tecnologia su cui si fonda la loro società sono stati sinora poco studiati.

In questo capitolo i giocattoli vengono presi in consi-derazione dal punto di vista del loro “ruolo tecnologico”. Si

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particolare momento della storia moderna siano disponibili studi accurati sul modo in cui neonati e bambini vengono in-fl uenzati dalla tecnologia dei giocattoli. In realtà tale argomento è del tutto assente dagli studi attuali sull’infanzia. La maggior parte delle numerose trattazioni sistematiche che hanno per argomento il processo di sviluppo del bambino non presenta alcun riferimento ai giocattoli; in alcuni casi non si parla nem-meno del gioco. Una delle maggiori anomalie della moderna psicologia infantile risiede nel fatto che, mentre è perfettamente chiaro a tutti che i bambini trascorrono gran parte del proprio tempo libero giocando, coloro che hanno creato la “scienza dell’infanzia” nell’epoca attuale hanno ampiamente ignorato l’argomento dell’attività ludica. Per avere un’idea dell’entità di tale anomalia, si potrebbe immaginare un antropologo che, di ritorno da un soggiorno presso una particolare società in cui le dinamiche sociali si basano interamente sul ballo, scriva un libro a proposito di questa esperienza senza includere alcun accenno all’importanza del ballo presso la società in questione, solo perché personalmente poco interessato a quel genere di attività! Lo si potrebbe certamente defi nire un cattivo antro-pologo. Questo è esattamente ciò che fa la moderna psicologia infantile quando decide di dedicare così scarsa attenzione al gioco e agli strumenti del gioco.

Apparentemente si potrebbe obiettare che, al contra-rio, i giocattoli hanno goduto di grande attenzione in campo scientifi co. Una recente indagine ha dimostrato che si parla di giocattoli in circa un terzo di un campione di articoli tratti da tre delle più note riviste di psicologia infantile1 . Quando però si cerca di capire in che modo si parla dei giocattoli, si scopre che essi raramente vengono presi in considerazione come oggetto di analisi. Di solito, leggendo le riviste, non si riesce nemmeno a capire quale tipo di giocattoli vengano utilizzati dai ricerca-tori che spesso se ne servono come ricompensa per indurre i bambini a eseguire determinati comportamenti che a loro inte-ressa analizzare. I giocattoli vengono cioè utilizzati come parte

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dell’esperimento, per interessare e coinvolgere il bambino in modo che ai ricercatori sia consentito verifi care secondo quali modalità egli apprende, pensa o parla. In questo traspare uno stupefacente disinteresse per i giocattoli in se stessi, come se il tipo di strumento di gioco impiegato non contasse affatto. Un certo giocattolo può fare al caso in questione esattamente come un altro di tipo diverso, perché i giocattoli sono un po’ come lo zucchero: tutte le zollette sono ugualmente buone e ciascuna di esse ha un sapore dolce. Nel caso dei giocattoli ciascuno di essi può procurare divertimento. Sembrerebbe dunque che esista la convinzione che l’universo del pensiero, dell’apprendimento e della parola siano estremamente reali e da studiare attenta-mente in tutti i loro minuti articolari, a differenza del mondo del gioco e dei giocattoli, non altrettanto reale e importante e senza differenze o dettagli di rilievo al suo interno.

Vi sono naturalmente psicologi dell’età infantile che si sono occupati dell’attività ludica e la maggior parte di essi (così come molti altri teorici dello sviluppo infantile), si dichiara d’accordo sull’importanza dell’ambiente fi sico per lo sviluppo del bambino. Anch’essi però riservano all’ambiente la stessa considerazione generica e superfi ciale di coloro che si servono dei giocattoli all’interno degli esperimenti, evitando, cioè, di dedicare studi dettagliati all’ambiente fi sico, come se la varietà delle situazioni ambientali non sortisse effetti diversi a livello culturale. Case, arredamento, camere da letto, giocattoli, cortili, scuole, costituirebbero dunque una massa indistinta. Di solito gli elementi appena menzionati vengono visti semplicemente come componenti di una condizione economica o culturale generale denominata “posizione socioeconomica modesta” op-pure “cultura tribale sioux”. Nei casi in cui gli oggetti vengono invece studiati in dettaglio, ciò avviene di solito all’interno di esperimenti, ciò su cui ci si concentra sono gli effetti sul gioco di alcuni elementi come oggetti bicolori rispetto a oggetti tinta unita, oggetti di forma quadrata rispetto ad altri di forma roton-da o, ancora, di scatole con buchi rispetto a scatole senza buchi2 . Quello che interessa sono cioè le dimensioni astratte degli og-

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oligetti (colore, forma e volume), più che l’effetto sull’esperienza e

sul processo di crescita del bambino di qualche specifi co oggetto reale come un orsacchiotto, un triciclo, un recinto con la sabbia, delle costruzioni, una bambola. Voler considerare i giocattoli come parte indifferenziata della cultura (l’ambiente), oppure come manifestazione di qualche dimensione fi sica (colore, for-ma) rende il primo approccio troppo vago e il secondo troppo astratto. Il giocattolo in quanto elemento culturale concreto e specifi co che infl uenza i vari momenti della vita quotidiana è del tutto ignorato.

In anni non lontani, sono stati elaborati in maniera me-todica numerosi dati relativi alla crescita fi sica, intellettuale ed emotiva del bambino, ma nessun elemento di tipo psicologico relativo all’interazione del bambino con fattori ambientali quali camerette, lettini, giocattoli, cortili, soggiorni, pannolini, scar-pe e simili, è mai stato preso in considerazione. La tabella 5.1 mostra l’indice di un noto testo, piuttosto recente, di psicologia infantile. Gli argomenti riportati si riferiscono al primo anno di vita e corrispondono a quello che generalmente si trova in testi di psicologia di questo tipo. Si può innanzitutto notare come nell’intero elenco esista solamente una categoria che po-trebbe in qualche modo aver a che fare con l’effetto prodotto dall’ambiente fi sico in generale, e dai giocattoli in particolare, e cioè la “permanenza degli oggetti”. A giudicare da questo testo non si direbbe che l’ambiente fi sico rivesta grande importanza. L’unica altra categoria pertinente potrebbe essere “esperienze di bambini all’interno di istituti”.

Quella della permanenza degli oggetti è una nozione inventata dallo straordinario psicologo svizzero Jean Piaget il quale, in qualità di fi losofo e biologo, era interessato a indagare sul modo in cui il bambino elabora originariamente concetti fi losofi ci quali spazio, tempo, cambiamento e causalità3 . In che modo, si chiedeva Piaget, i più importanti interrogativi che han-no interpellato i fi losofi nel corso dei secoli, si sono affacciati per la prima volta nella mente del bambino? Uno di questi interro-gativi ha appunto a che fare con il concetto di oggetto. In quale

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momento il bambino si rende conto per la prima volta che un oggetto esiste al di fuori della sua persona? Piaget ha messo in evidenza che un bambino molto piccolo perde immediatamente interesse per quelle cose che non riesce a vedere. Se il biberon desiderato viene spostato fuori del raggio visivo di un neonato di tre mesi, subito il pianto diminuisce in maniera consistente. Lontano dagli occhi, lontano dalla mente. Attorno ai dieci mesi, però, quello stesso bambino non si lascerà ingannare altrettanto facilmente e continuerà a cercare il biberon. Ciò dimostra, secondo Piaget, che un bambino di quell’età ricorda il biberon anche quando esso è assente dal suo campo visivo. Qualcosa nella mente del bambino conferisce persistenza a un oggetto non visibile.

Nei passati vent’anni si è prestata più attenzione a questo problema che a qualsiasi altra questione relativa all’importanza degli oggetti nell’età infantile. Sono stati condotti numerosi esperimenti sulla permanenza degli oggetti, alcuni dei quali hanno confermato la visione di Piaget, mentre altri l’hanno messa in dubbio. In tutti questi casi, però, i ricercatori erano comunque infl uenzati dalla nozione di oggetto secondo Piaget. È facile dunque comprendere che la questione, nei termini in cui è posta, ha più attinenza con la facoltà mentale di ricordare e ricercare determinati oggetti, che non con gli oggetti in quanto espressione culturale. Esattamente come l’indice della tabella 5.1, gli esperimenti sulla permanenza degli oggetti si trasfor-mano ancora una volta in disquisizioni sul funzionamento della mente umana piuttosto che sulla tecnologia degli oggetti. Che effetto fa, ad esempio, dormire ogni giorno – oppure ogni notte – sullo stesso cuscino, piuttosto che dormire senza cuscino? E quali sensazioni provoca nel bambino quel determinato cusci-no, quella determinata copertina, o il suo pupazzo preferito? In uno dei capitoli precedenti si è visto che solamente in pochi casi educatori e psicologi si sono interessati a questo tipo di oggetti. Nessuno, purtroppo, si è mai dato la pena di prenderli in considerazione in maniera complessiva o di interessarsi allo studio dell’interazione quotidiana con cose e oggetti.

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capitolo 7

Il giocattolo come conquista

A ragione si può ritenere che tanto il vincolo affettivo quanto la solitudine entrino a far parte di un più ampio fe-nomeno di tensione costante della cultura moderna verso il progresso. È il progresso che ha messo a repentaglio l’esistenza della famiglia ed è il progresso che ha voluto la nascita del genio solitario. Nella società moderna il progresso è progresso scienti-fi co, in termini di miglioramenti, sia pure incerti, in tutti i campi della tecnologia, del modo di vivere, e nella relativa capacità di controllo sulla terra e sull’universo; ed è anche progresso materiale, incommensurabile accumulo di industrie, capitale e beni di consumo1 . Oltre al progresso scientifi co e materiale, tuttavia, altre concezioni del mutamento storico come “pro-gresso”, nella società (Marx) e nell’evoluzione umana e animale (Darwin), si sono sviluppate. E, soprattutto, si è giunti a vedere nel raggiungimento personale di obiettivi, il corso ordinario della vita moderna. Crediamo, insomma, nel mito dell’eroe. Raccontiamo ai nostri fi gli storie in cui i protagonisti vengono fuori vincitori. Superano ostacoli, vanifi cano minacce, sposano principesse o principi, e vivono a lungo felici e contenti. La maggior parte di noi, nella vita, si porta dietro un certo numero di storie di questo tipo. Le prime si sviluppano intorno all’età di sette anni e riguardano la proiezione fantastica di ciò che faremo da grandi (il pompiere, il poliziotto, l’uomo d’affari, l’attrice) o chi sposeremo. Intorno agli undici anni si sogna di essere campioni mondiali di maratona, o scienziati, o dottori. Poi incominciamo a raccontarci le caratteristiche della persona che sposeremo, le scuole che frequenteremo, i progressi che faremo nel mondo del lavoro. E alla fi ne, quando scriviamo la

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nostra autobiografi a, rifacciamo la storia che abbiamo effetti-vamente vissuto. E se siamo sfortunati alla nostra morte sono i nostri i fi gli a riscriverla.

L’idea di progressoTutte queste storie di progresso hanno portato all’ela-

borazione di una scienza quasi naturale nota come “psicologia evolutiva”, che studia lo sviluppo umano descrivendo e facen-do supposizioni sull’evoluzione di bambini, degli adolescenti e delle persone adulte. Questa scienza è divenuta una fonte importante di idee non solo su come avviene l’evoluzione, ma anche su come dovrebbe avvenire. Per tutto ciò che riguarda l’essere umano raramente è possibile distinguere la “scienza” di ciò che accade dai condizionamenti culturali relativi a ciò che dovrebbe accadere e i risultati a cui le scienze umane pervengo-no fi niscono ben presto col ridursi a rivendicazioni sulle pagine dei rotocalchi. E questa operazione di “traduzione” non è da imputare ai soli giornalisti. Risulta lampante dagli scritti degli stessi studiosi di psicologia evolutiva che ciò che conta per loro è arrivare alla fi ne della storia, non fermarsi all’inizio. Nessuno propone al bambino di fermarsi allo stadio “infantile”, tutti gli mettono fretta affi nché possa raggiungere il Regno.

E il Regno altro non è che la condizione adulta, quando si è capaci di pensare in astratto, o, dal punto di vista morale, si diventa capaci di provare compassione, o si è capaci di lavorare in modo effi ciente, o si è capaci di esprimere adeguatamente la propria sessualità, o si è capaci di intimità, si è capaci di procre-are, si è integri, si è realizzati. Questi sono i termini dello stadio fi nale in molte delle più importanti teorie sullo sviluppo del bambino. E non c’è dubbio che in ciascuna di esse si consideri miglior posizione quella di chi raggiunge lo stadio fi nale rispetto a chi si ferma in uno qualsiasi degli stadi intermedi.

I bambini hanno la sfortuna di non essere capaci di stati mentali e spirituali tanto complessi. Nei secoli passati si riteneva che i “primitivi” in genere e, fi no agli anni ’70 anche le donne, fossero incapaci di raggiungere questi livelli superio-

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stari2 . In breve, tutte queste teorie e gran parte della psicologia

evolutiva sono parte integrante del mito dell’eroe che domina la società moderna e cerca di spingere sempre più in avanti il bambino attraverso i vari stadi, in modo che, liberatosi del far-dello tipico di ogni livello d’età, possa puntare a cose migliori. La psicologia dello sviluppo infantile è tutta scritta all’interno di questo sistema di valori.

Nella storia passata, e tutt’oggi in alcune aree del Terzo Mondo, sono esistite società che non avevano la nostra stessa idea di progresso, con il risultato che, per quanto ci piaccia visitare questi popoli, vederli danzare, cantare e vivere felici nei propri villaggi, ci è diffi cile scorgerne il valore. Eppure alcune di queste società devono essersi adattate molto bene alla vita sul pianeta, dato che hanno vissuto sempre allo stesso modo per periodi di tempo molto più lunghi rispetto alla nostra società. Mentre noi stiamo inesorabilmente portando il mondo sull’orlo dell’estinzione, esse sono rimaste sempre uguali per un migliaio di anni (gli indiani Hopi) o addirittura 50.000 anni (gli aborigeni dell’Australia), fi no a non molto tempo fa. Poiché la maggior parte delle società di cacciatori e raccoglitori o delle prime socie-tà agricole rimaste hanno subito gli effetti negativi dalla nostra spoliazione dei loro territori, spesso non è tanto facile accorgersi che esse hanno ancora molto da dirci. Occasionalmente, però, alcune società sono state studiate nelle condizioni naturali in cui i loro membri avevano scelto di vivere per lunghi periodi di tempo, ed è in queste società che spesso si ritrovano stupefacenti forme di adattamento e una qualità della vita sorprendentemente alta, anche per gli standard moderni. I Kung che vivono a nord-ovest del deserto del Kalahari, nell’Africa meridionale vivono in gruppi di circa 25 persone e seguono gli schemi tradizionali della caccia e della raccolta. Le donne raccolgono le piante e gli uomini vanno a caccia. I vegetali coprono la maggior parte del fabbisogno di calorie e proteine. Per sopravvivere, tutti lavorano circa due giorni e mezzo alla settimana, cosicché la settimana è per un terzo lavoro, un terzo visite ai parenti, un terzo intratte-nimento di ospiti. L’intrattenimento – o creazione della cultura,

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capitolo 12

L’idealizzazione del giocattolo

Il discorso fi n qui affrontato sulla cultura del giocattolo ha proceduto attraversando una serie di ambiti culturali di volta in volta più ampi – dalla famiglia alla tecnologia, all’educazione, al mercato. Sebbene quest’ordine possa essere messo in discus-sione, risulta necessario, a questo punto, collocare il tutto nel più ampio contesto della storia occidentale. È evidente che tale contesto, come si potrebbe obiettare, precede logicamente tutti gli altri, nella misura in cui implica un rimando all’antica Grecia, al Rinascimento, alla Riforma protestante, alla Rivolu-zione industriale, alle rivoluzioni democratiche in America e in Francia e al benessere economico del XX secolo. Occupandosi dei giocattoli si è cercato di lavorare a partire da piccole unità, per poi ampliare il discorso e non viceversa. Ma questa scelta è stata determinata dalla prospettiva documentaria, non certo da una ipotesi di causalità. Quella che segue è dunque una panoramica, fi n troppo succinta, su alcune delle epoche principali della storia intel-lettuale dell’Occidente e su quello che può essere stato il loro contributo alla nostra attuale comprensione del gioco e dei giocattoli. Si intende mostrare, cioè, quali fossero le idee in circolazione nelle epoche a cui si fa riferimento. Ovviamente, l’origine storica autentica di queste idee (in contrasto con la loro intellettualizzazione), giace a un livello molto più profondo della storia di quanto non sia possibile tener conto in questa sede.

Il gioco come irrazionalità (giocattoli nelle mani del fato) Chi vive nel XX secolo resterebbe alquanto sorpreso all’idea di prendere sul serio la concezione degli antichi greci

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secondo cui l’universo è governato dalla casualità del gioco fra gli dei, e noi esseri umani siamo pedine o giocattoli nei loro giochi di guerra. Come bambini o come in una sorta di lotteria divina, gli dei agiscono in modo arbitrario, indifferenti rispetto alle conseguenze del loro agire su di noi. Come disse il fi losofo greco Eraclito, “La vita è un bimbo che gioca, muove i pezzi su una scacchiera”1 . Abbiamo fi no a tal punto confi nato la nostra nozione moderna di gioco a ciò che noi stessi facciamo, o i bambini fanno, nel tempo libero, che l’idea di essere “giocati” nell’universo del quale facciamo parte è davvero al di là di ogni nostra immaginazione. Se non fosse che in certo senso viviamo in una versione “moderna” di questo gioco, nella misura in cui siamo delle pedine nella grande guerra termonucleare alla quale i russi e gli americani si stanno preparando da anni. Il pensiero di entrambe le parti, in questo confronto, è domina-to da principi strategici derivati dai giochi. Nel fi lm del 1983 War games il bambino protagonista della vicenda, che fa poi partire il conto alla rovescia, chiede al computer: “È vero o è solo un gioco?” e la macchina risponde: “Che differenza c’è?”. Agli antichi greci e a molte società tribali la differenza sarebbe sembrata minima. Che si contempli il gioco metaforico tra gli dei o si partecipi ai giochi stessi, la visione di fondo è che la competizione sia parte della vita sacra e che gli esseri umani ne siano le vittime. Forse non è casuale che da un lato si ingaggi contro i russi una partita per il possesso del mondo (attraverso i war games) e dall’altra, in maniera relativamente incoerente, si entri in confl itto su quale debba essere il terreno di gioco (come nel caso delle Olimpiadi). Sebbene abbiamo razionalizzato il tutto riducendo il mondo intero a un campo di gioco, la portata della prospettiva ludica che avvolge tutta la nostra esistenza non sembra mutata granché. Il che signifi ca anche che, a certi livelli, nella coscienza moderna l’idea di essere dei giocattoli nelle mani del fato è una realtà radicata e terrifi cante. Ma allora di cosa parliamo realmen-te quando pensiamo ai giocattoli come a oggetti per bambini, o elaboriamo teorie sui giocattoli come strumenti per insegnare

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oai bambini a diventare padroni del proprio destino? Essi sono forse più padroni del loro destino di quanto non lo siamo noi adulti del nostro? C’è forse qui un’ulteriore proiezione dei no-stri sentimenti? O non sarà per caso una balla cosmica? Forse noi, che siamo vittime del fato, diamo ai bambini i giocattoli affi nché essi non cadano a loro volta in nostro potere? In fi n dei conti siamo noi gli dei che muovono i fi li del loro mondo. Comunque lo si voglia interpretare, è chiaro che la nozione di giocattolo sta a rappresentare a un tempo la nostra impotenza nei confronti del destino e la capacità di resistere, sia pure in modo elementare e infantile, da parte dei bambini. Il giocattolo è come un feticcio nel quale infi lare gli spilli per colpire magicamente una persona distante che esso rappresenta. Forse i giocattoli in generale sono un feticcio metaforico contro l’impotenza. Sono come la presenza di tifosi in curva a una partita di calcio, o come fi schiettare nel buio, e hanno lo stesso potere di questi espedienti di aiutare a mantenere l’ottimismo e la fi ducia di riuscire farcela. Questa associazione dei giocattoli al fato è il massimo di pensiero metafi sico a riguardo. Tutti i signifi cati “storici” che vengono tratteggiati qui di seguito sono di ordine molto più limitato.

Il gioco come mera apparenza Platone e Aristotele cambiarono la natura del pensiero greco dal tipo piuttosto magico e fatalista che abbiamo abbozza-to, introducendo quell’idea di controllo razionale dell’universo da parte dell’uomo che sarebbe in seguito divenuto il pilastro del pensiero occidentale nell’era della scienza. Così facendo, essi introducevano la distinzione fra pensiero razionale o fi losofi co (divenuti in seguito logico e scientifi co) e pensiero irrazionale ovvero arte, letteratura e gioco. Nella fi losofi a platonica il gioco rappresentava un tipo di conoscenza di seconda classe, spesso si trattava di un inganno, a meno che, naturalmente, non fosse modellato sul pensiero razionale. Al limite, poteva essere una buona imitazione della realtà. Per la prima volta, così, il gioco riceveva l’etichetta di attività di rango inferiore, un appellativo che ancora oggi conserva. In modo quasi impercettibile la nostra

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debolezza di esseri umani nel gioco fra gli dei, è divenuta la de-bolezza del gioco come strumento di conoscenza di qualunque cosa abbia importanza. A partire dal Medioevo vi furono dispute continue su quali tipi di giochi fossero legittimi. La classi dominanti in gene-re cercavano di promuovere quei giochi che si riteneva avessero valore militare, e di bandire invece quelli che non rientrassero in questa categoria. Questo tentativo di controllare il fenome-no così anomalo del gioco attraversa anche in seguito tutta la storia occidentale. In linea generale, i re e le regine d’Europa sostenevano i tornei, le corse a cavallo, le gare, la scherma, il tiro con l’arco, il tennis e la caccia al falcone mentre bandiva-no il calcio, i birilli, il lancio degli anelli e i giochi con la palla contro i muri delle chiese, che erano invece i giochi preferiti dalla classe contadina e che interferivano in qualche modo con l’ordine cittadino. Purtroppo non esistono distinzioni nette all’interno della molteplicità di leggi emanate, dal momento che ciò che era bandito da corte mutava col tempo e lo spazio. Alcune delle diffi coltà nel comprendere cosa veniva ammesso e cosa no, sono ben simboleggiate dalle controversie che sorsero attorno al famoso dipinto di Breughel del 1560 intitolato Giochi di fanciulli. Si tratta del primo dipinto occi-dentale a darci un’immagine della grande varietà di giochi e passatempi dell’epoca. Il dipinto raffi gura circa 240 persone impegnate in una ottantina di passatempi. Si presume che la maggior parte di questi passatempi popolari con cui la gente si cimenta con tanto entusiasmo non fossero apprezzati dalla classe dominante. E in realtà l’interpretazione più frequente del dipinto è che esso rappresenti le follie dell’umanità. La natura così appassionata del gioco dei bambini, si diceva, è paragonabile alla follia degli adulti in campo religioso, poli-tico o in guerra. I protestanti usarono la rappresentazione di bambini che giocano al matrimonio o al battesimo nel dipinto come indicazione dell’infantilismo di alcuni dei rituali praticati dalla Chiesa cattolica. I cattolici, da parte loro, sostenevano che essendo i bambini più vicini a Dio, le loro imitazioni erano da

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ovedere piuttosto come santifi cazioni delle pratiche religiose. Altri ancora videro nel dipinto una manifestazione di quegli stessi eccessi sfrenati che Rabelais aveva descritto, parodiato, e forse anche consacrato, nel suo romanzo Gargantua e Panta-gruele di 30 anni prima (1532). Dal suo punto di vista, il gioco per sua natura può essere immoderato, grottesco, e osceno; il gioco irrazionale degli dei era divenuto il gioco irrazionale del popolo e la libertà degli dei si era trasformata nella pericolosa libertà dei giocatori. Altri, viceversa, sostenevano che se anche il dipinto mostrava la corruttibilità dei fanciulli, pure ne mostrava l’innocenza e il bisogno di essere guidati2 . Ci sono molti oggetti in questo dipinto. Ventinove sono oggetti per giocare: il gioco degli astragali, biglie, tappi, trampoli, bottoni smaltati, corda, un falò, cerchi, mollette, carretti, mattoncini, pietre, bastoncini, fazzoletti, soldi di carta, bende per gli occhi, scarpe, noci, scope, mucchi di sabbia, ac-qua, alberi, cesti, carta, birilli, il gioco della lippa. Quattordici sono giocattoli veri e propri, tra cui: un altare e delle candele, maschere, altalene, yo-yo, bolle di sapone, uccellini, cavallucci, cavalli a dondolo, pistole ad acqua e un sonaglio. Nel secolo successivo, quando la Riforma era ormai compiuta, è stato documentato il dialogo su quali giochi e su quali giocattoli fossero buoni e quali inutili. Esistono documenti, ad esempio, sugli atteggiamenti di vari moralisti nei confronti dei giochi e dei giocattoli raffi gurati nella pittura fi amminga del diciassettesimo secolo. Il Backgammon, per citarne uno spesso rappresentato in scene di bordelli, mostrava secondo alcuni moralisti il carattere “fatale” di questo genere di dissipazioni. Perfi no la presenza delle carte da gioco o dei dadi in una scena poteva avere le medesime implicazioni, dal momento che si tratta di simboli riconosciuti della precarietà della vita. Degli scacchi, invece, si dice che fossero accettati perché coltivano l’astuzia, e anche il pattinaggio poteva essere concesso in quanto associato alla forma fi sica, anche se alcuni moralisti lo usavano come metafora della fugacità della vita. A volte anche i cerchi erano condannati poiché si trattava di correre dietro a qualco-

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sa senza importanza. I giochi d’azzardo erano una questione di fortuna, dunque follia. Una girandola mossa dalla brezza leggera non era che un’illusione, cavalcare su un cavalluccio a dondolo un autoinganno e fare le bolle di sapone un esercizio sulla transitorietà. Far girare la trottola però era ben accetto, perché era un decantare la virtù della disciplina3 . Vedendo il gioco come forma secondaria di conoscen-za, Platone aveva gettato le basi dal punto di vista intellettuale per quella visione del gioco come forma di ozio e dei giocattoli come realtà insignifi canti incoraggiata dalla Riforma e succes-sivamente dal Puritanesimo. La debolezza del genere umano, “giocattolo” nelle mani del fato, diveniva ora la debolezza dei giocattoli come strumento per far progredire lo stato dell’uomo nel mondo. O piuttosto diveniva la debolezza di alcuni giocattoli e di alcuni giochi non utili. Si tratta della stessa distinzione che poi è stata operata fra i giocattoli fi nalizzati al puro divertimento e quelli che hanno valore educativo e che possono perciò ri-fl ettere la vera conoscenza. Questa ambivalenza del valore del giocattolo è ancora molto presente sulla scena moderna. Come si è visto in uno dei capitoli precedenti, gli educatori del XIX secolo Froebel, Pestalozzi e Montessori favorirono il passaggio di questa distinzione nella coscienza di quanti avessero istru-zione, e nel XX secolo i produttori di giocattoli hanno cercato farne di l’ancella del buon senso.

Il gioco come inganno (fl essibilità) Prima di questi ulteriori sviluppi, tuttavia, già il Rina-scimento parve operare una radicale trasformazione del pen-siero che infl uì, a sua volta, anche sul modo di considerare il gioco. Ciò che emerse come fatto nuovo nel modo di guardare al gioco in quest’epoca riguarda il problema dell’individualità e il contrasto fra le maschere di circostanza che una persona presenta al mondo, da persona seria, e il sé vero che sta dietro la maschera. Le grandi parodie del sedicesimo secolo ad opera di Erasmo da Rotterdam (1509), Rabelais (1532) e Cervantes (1605) mettono tutte a fuoco la distanza tra un ruolo che si pone

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BRIAN SUTTON-SMITH

edizioni la meridiana

NEL PAESEDEIBALOCCHIi giocattolicome cultura

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prefazione diMatilde Callari Galli

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I giocattoli di legno sono più educativi di quelli in plastica? Quali valorieducativi trasmette Barbie? Le bambole anatomiche trasmettono modellisessuali? Le pistole aumentano la predisposizione alla guerra? E i videogiochidiminuiscono la socialità dei bambini?A dispetto dell’enorme consistenza che il mercato dei balocchi ha assuntonei consumi quotidiani, dei giocattoli sappiamo poco. Anzi nulla. Certo, latecnologia del giocattolo si è sviluppata molto, fino a raggiungere prodottisempre più sorprendenti per la loro raffinatezza. Ma nient’affatto indagatoresta l’universo delle relazioni che lega il giocattolo al bambino e agli adulti.Siamo invasi di luoghi comuni che pensiamo di risolvere magicamenteesprimendo l’esigenza che i giocattoli rivestano un valore “educativo”.Questo testo costituisce una lettura fondamentale per chiunque vogliaindagare il mondo dei giocattoli. Con un vasto repertorio di riferimenti edati, l’autore sviluppa un’indagine ricca e intrigante, una sorta di antropologiadei diversi tipi di giocattolo, attraverso la quale dimostra come“l’interpretazione dei significati assunti dai giocattoli sia imprescindibile dalriferimento ai contesti in cui si ritrovano”. Così il lettore è aiutato a coglierele connessioni tra il giocattolo e gli schemi culturali di mondi assai dissimilitra loro come la famiglia, la tecnologia, la scuola, il mercato. Il giocattolo,insomma, è lo strumento offerto per mediare i conflitti che questi mondigenerano all’interno della vita personale del bambino. Attraverso il giocattoloil bambino è chiamato a esprimere e gestire le sollecitazioni culturali che gliprovengono dal suo ambiente, in fondo “il bambino attraverso il giocattolotrasforma il suo mondo” (dall’introduzione di M. Callari Galli).

Brian Sutton-Smith è professore emerito dell’Università della Pensylvaniaa Filadelfia. È stato a lungo direttore di programmi di ricerca di psicologiadello sviluppo. Tra i maggiori esperti internazionali di antropologia del gioco,ha sempre condotto le sue ricerche in maniera interdisciplinare cogliendole connessioni che il gioco - e il giocare- sviluppano tra psicologia e pedagogia,tra storia e folklore, tra lavoro e tempo libero. Le sue ricerche sul gioco e sulgiocattolo sono esposte in numerose pubblicazioni di taglio scientifico odivulgativo.

Euro 18,50 (I.i.)

ISBN 978-88-87507-54-6