n · Letto e mangiato 10 Pillole di scienza 11 Donne & Compressori 12 Eccezioni 13 Me lo copre il...

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n.17 La citazione del mese 5 Le vite ortogonali 6 Mitomania 7 Il Finzionario 8 Trilogie 9 Letto e mangiato 10 Pillole di scienza 11 Donne & Compressori 12 Eccezioni 13 Me lo copre il prezzo? 14 Interferenze 15 Metaletterari di carta 16 Devo ancora finirlo 17 La lettera che muore 18 Megaviaggi! 19 Biografie edulcorate 20 La posta dei lettori 21 Interpretazioni non ufficiali 23 Ghost World 24 Iperboloser 25

Transcript of n · Letto e mangiato 10 Pillole di scienza 11 Donne & Compressori 12 Eccezioni 13 Me lo copre il...

n.17

La citazione del mese 5

Le vite ortogonali 6

Mitomania 7

Il Finzionario 8

Trilogie 9

Letto e mangiato 10

Pillole di scienza 11

Donne & Compressori 12

Eccezioni 13

Me lo copre il prezzo? 14

Interferenze 15

Metaletterari di carta 16

Devo ancora finirlo 17

La lettera che muore 18

Megaviaggi! 19

Biografie edulcorate 20

La posta dei lettori 21

Interpretazioni non ufficiali 23

Ghost World 24

Iperboloser 25

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Un po’ tutti, almeno una volta, si sono chiesti com’è la vita di un grande scrittore, di uno che come unico lavoro scrive libri. Cosa succede nella sua

quotidianità. Compone tutto il giorno o solo quando ne ha voglia? Quando non parla di libri, con gli amici al bar commenta le moviole di calcio? Se è in crisi di ispirazione va a pesca o sta in casa sul divano a bere birra? Oppure fa il bullo come Conrad che non sapeva «come spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando»?

Robert Walser, che è un genio, nella sua Passeggiata spiega in maniera sotti-le e molto profonda cosa significhi il lavoro intellettuale: cos’è, davvero, la vita per uno scrittore. Il libricino, di suo, consiste semplicemente nella descrizione dell’autore che, stanco di stare in casa, va a fare due passi nella sua piccola citta-dina svizzera e inizia a fare incontri molto particolari e divertenti: giganti, librai, artisti, cantanti, cani e sarti attaccabrighe.

A un certo punto passa un’automobile e Walser, impetuosamente, esclama: «è davvero incredibile la villania con la quale mi s’impedisce di dedicarmi a stu-di raffinati e d’immergermi nelle più nobili profondità. Sebbene abbia motivo di essere indignato, voglio invece comportarmi con mansuetudine e tollerare con garbo: per quanto dolce possa essere il pensiero di ciò che di bello e di eletto ci è passato dinanzi, e il pallido quadro di una gentilezza remota, certamente non v’è ragione, per questo, di voltare le spalle al nostro mondo e al nostro prossimo».

Nella coerenza del libro queste cose lui non le scrive a posteriori, riportando ricordi frammentari. Lui le pronunzia. Immaginarsi un distinto signore che, berciando contro un’automobile puzzolente, scandisce, a braccio, queste esatte parole. Walser parla come un libro stampato. Letteralmente, tanto da abolire la metafora (che ha senso solo se c’è uno scarto tra termine metaforizzato e termine metaforizzante) e trasformare una similitudine in una sovrapposizione. Walser parla davvero come un libro stampato.

Questo è sicuramente il modo più intelligente possibile per far capire, almeno di sfuggita, come dev’essere la vita per un vero scrittore: portarsi la letteratura – i libri stampati, appunto – nella quotidianità più lontana possibile dalle bibliote-che: la passeggiata.

The GodfatherRobert Walserdi JACOPO CIRILLO

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Sommario

Benvenuti all’ultimo numero di Finzioni così come l’avete sempre visto. La copertina, l’impaginazio-

ne e la grafica che ci ha accompagnato fin da quando eravamo piccolini si fa da parte per un rinnovo totale di tutta la rivista. Nuova copertina, nuove immagini, nuovo tutto. Speriamo vi piaccia!

Ma basta con i proclami: il numero 17, che volevamo fare uscire di venerdì ma insomma, editorialmente non era una grande idea, parla di una delle storie più belle mai sentite: il diritto al mugugno dei pescatori genovesi, quella cosa per cui ti fai pagare di meno ma puoi lamen-tarti quanto ti pare. Poi la nuova incredibile rubrica di Andrea Sesta, Letto e mangiato, da cui Benedetta Parodi ha retroattivamente copiato il suo bestseller Cotto e man-

Editorialegiato. Purtroppo nei tribunali l’inversione temporale è molto difficile da provare, quindi per adesso continuere-mo a far finta di niente. Fabio Paris, quello che fa le pillole di scienza, esordisce su Iperboloser e lo fa davvero bene, raccontando la triste storia di due bamba che si sono pre-si il merito della struttura del DNA senza sapere nemme-no allacciarsi le scarpe.

Ci sarebbero tante altre cose ma siamo troppo eccitati per continuare, dunque vi lasciamo il piacere di scoprir-vele da voi. Ci vediamo il mese prossimo, tutti diversi ma sempre uguali a noi stessi (cit.).

La redazione

La citazione del mese 5

Le vite ortogonali 6

Mitomania 7

Il Finzionario 8

Trilogie 9

Letto e mangiato 10

Pillole di scienza 11

Donne & Compressori 12

Eccezioni 13

Me lo copre il prezzo? 14

Interferenze 15

Metaletterari di carta 16

Devo ancora finirlo 17

La lettera che muore 18

Megaviaggi! 19

Biografie edulcorate 20

La posta dei lettori 21

Interpretazioni non ufficiali 23

Ghost World 24

Iperboloser 25

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Quelli che si lamentano di più sono quelli che soffrono di meno.

Tacito

C’è una storia bellissima, quel-la del diritto al mugugno. Succede che in Liguria, qualche secolo fa, i proprietari di pescherecci offrivano ai marinai la possibilità di sceglie-re tra il diritto di lamentarsi (mu-gugnà) e un supplemento di paga. Ora, nonostante la risaputa tirchie-ria simil-scozzese di quei porti, la maggior parte delle persone decli-nava l’offerta monetaria e sceglieva, fieramente, di mugugnare. Mugu-gnare un po’ per tutto: il beccheg-gio, il rollìo, la puzza di pesce, il mal di mare, il proprio stesso mugugna-re, eccetera.

E poi c’erano i marinai di Ca-mogli (che, sì, è anche il panino dell’Autogrill), reputati i migliori al mondo, che avevano l’indiscutibile privilegio di meritare una paga più alta rispetto agli altri e, contempo-raneamente, anche il diritto al mu-gugno. E, paradossalmente, erano quelli che si lamentavano di meno.

Adesso che si avvicina Natale e dunque si va un po’ più spesso in libreria, succedono cose molto si-mili. I grandi libri della storia della letteratura o le piccole perle misco-nosciute ma imperdibili, insomma, i libri di cui non ci si lamenta e, dunque per cui si sarebbe disposti a spendere un po’ di più, seguendo

la dinamica ligure, sono sempre imboscati chissà dove e costano due lire. I mattoni cartonati, con copertina rigida e faccione dell’au-tore in terza o addirittura in quarta, i libri di cui tutti un po’ si lamenta-no, costano uno sproposito e sono impilati in torri dall’architettura complicatissima proprio davanti alla cassa.

Facendo sociologia spicciola, proponiamo allora una divisione tra lettori: i marinai liguri e i Camo-gli. I marinai liguri sono quelli che scelgono di pagare di più per avere il diritto di mugugno: insomma Ken Follett, fai due copertine diverse, bianca e nera, mi costi trenta euri e alla fine mi trovo un mattonazzo

che non si capisce niente; suvvia Dacia Maraini, non puoi titolarmi un libro La seduzione dell’altrove (che io mi aspetto, con quel nome, di fare un regalo culturale), parlare solo dei tuoi viaggi e farmelo pagare venti euri, che poi è cartonato con la costa nera e sta male in libreria. Poi ci sono i Camogli, che pagano di meno – toh, La passeggiata di Wal-ser a sette euro – e non si lamentano mai – ma pensa, Oggetto quasi di Saramago a sei e settanta – e, per loro, è sempre Natale.

Toh, Finzioni di Borges nel cesto-ne dei DVD in sconto in Autogrill a tre e novanta. Quello, un Camogli e la cochina, e con dieci euro sono a posto tutto il giorno.

La citazione del mesedi JACOPO CIRILLO

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Plutarco scrisse una serie di 24 biografie che prese il nome

di Vite parallele. Per ognuna prese una figura greca ed una romana, le mise una affianco all’altra e ne cer-cò le similitudini. Ma qui si parla di finzione, mica di realtà!, e così i miei grandi saranno i personaggi d’inchiostro dei libri. Lavoro ben più umile il mio che, oltre a esa-minare solo una parte della vita di questi personaggi, ne sottolineerà le differenze.

Henry David Thoreau

Mentre il governo degli Stati Uniti continua la guerra contro il Messico — siamo a metà del XIX secolo — un tale di Concord, MA, per protesta si rifiuta di pagare le tasse e finisce in prigione. Quando un amico va a trovarlo gli chiede: “Henry, perché sei lì dentro?” e lui risponde: “Piuttosto cosa ci fai tu là fuori,” nell’ipocrisia di quella guer-ra e senza prendere posizione. Tho-reau è uno di quei filosofi che non ti fanno studiare al liceo.

Uno dei libri per cui ancora oggi viene ammirato e preso da esem-pio si intitola Walden, ovvero: vita tra i boschi, pochi capitoli in cui Thoreau racconta i due anni passati sulle rive del lago Walden, qualche miglio lontano dalla civiltà. Le sue pagine sono un miscuglio di filoso-fia, politica ed economia, ma anche di poesia e di sogno. Certe conside-razioni suonano come premonizio-ni delle crisi economiche, sociali e ambientali a cui siamo andati in-contro.

Le vite ortogonaliHenry D. Thoreau vs Chris McCandlessdi JACOPO DONATI

Thoreau costruisce la casa con materiali di recupero e per due anni e due mesi cercherà di essere il più possibile autosufficiente; poi lasce-rà il suo capanno e tornerà nella Concord che criticò così aspramen-te.

Chris McCandless

Ogni generazione ha più diffi-coltà nel trovare la natura inconta-minata, e più andiamo avanti, più sembra un obiettivo impossibile. A metà degli anni ’90, un ragazzo finisce l’università e fa perdere le proprie tracce; come destinazione ha l’ultimo angolo di natura selvag-gia degli Stati Uniti: l’Alaska. Noi questo lo sappiamo perché Jon Kra-kauer ci racconta la storia di Chris McCandless nel libro Into the wild.

Chris McCandless è un idealista deluso dalla società contempora-nea, troppo impegnata a collezio-nare assegni e troppo distratta da ciò che conta davvero vivere. Ab-

bandonata l’auto e bruciati gli ulti-mi soldi, Chris percorrerà gli Stati Uniti in lungo e in largo adottando lo pseudonimo di Alexander Super-tramp; dopo due anni di vagabon-daggi raggiungerà l’Alaska.

Rifugiatosi in un vecchio autobus abbandonato, Chris vivrà l’avven-tura che aveva sognato per molto tempo. Qualcosa però andrà storto, e il ragazzo si ritroverà imprigio-nato nell’Alaska innevata. Quando troveranno l’autobus abbandonato, il corpo di Chris peserà solo 30 kg.

Nello Zen esiste un’opera chia-mata Dieci tori, dieci illustrazioni che rappresentano il cammino ver-so l’illuminazione. L’ultima incisio-ne si intitola Ritorno alla società, ed è un passaggio senza il quale nes-sun cammino spirituale può dirsi davvero concluso. Thoreau riesce a tornare e dà alle stampe un libro che, nel suo piccolo, cambierà la vita di molti; McCandless, invece, si spinge troppo oltre senza poter concludere il suo viaggio.

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donna tutta d’un pezzo e mantiene fino in fondo compostezza e lucidi-tà. Entra in scena attaccando con la solita lagna che ci si aspetterebbe da un personaggio euripideo ma non lascia tempo ai patetismi e si lancia dopo poche battute in una tirata raggelante, intrisa di auto-compiacimento. Il suo congedo dal marito Admeto suona, anzi stona, come un consiglio di politica dome-stica: “non ti sposare mai più cosic-ché i nostri figli possano mantenere la casa e non subire le angherie di una matrigna. Hai una moglie della quale ti puoi di certo vantare. Ad-dio” e muore.

Che abbia fatto quel che ha fatto per amore o per gloria non importa, resta una super-donna, inarrivabi-le, un precedente ingombrante per tutte noi.

Ci si sente più a proprio agio confrontandosi con la rilettura che della tragedia ha dato Marguerite Yourcenar nel suo Il mistero di Al-cesti (Tutto il teatro, Bompiani, 367 pp.).

La regina si trascina per il pa-lazzo angosciata, terrorizzata, non facendo affatto mistero della soffe-renza che sta patendo anzi gridan-dola in faccia al marito Admeto, il quale la vorrebbe invece docile e silenziosa. Il copione è quello clas-sico di una coppia vecchia e stanca: lei che si abbandona ad una sfuriata isterica durante la quale non perde

Alcesti : Euripide Vs. YourcenarParte Seconda

La scorsa volta parlavamo di Alcesti, l’unica donna al cui

cospetto i greci si dimenticano di essere misogini; colei per la quale hanno speso parole di stima pro-fonda, “la più nobile e saggia tra le donne” e che a detta di Platone è addirittura superiore ai colleghi maschi, o almeno ad un loro rap-presentante. Orfeo infatti a parità d’impresa fa la figura del cagasotto, perché scende agli inferi per amore di una donna ma lo fa da vivo, in-gannando Ade grazie alla melodia incantatrice della sua lira. E così sono capace anch’io.

Per fortuna c’è una giustizia di-vina che non risparmia i furbetti e Orfeo finirà dilaniato e decapitato da un branco di baccanti ubriache mentre la coraggiosa Alcesti sarà premiata con la straordinaria con-cessione di tornare dal regno dei morti.

La regina di Fere avrà impressio-nato favorevolmente gli dei, ma ad una mortale un pò cinica come me lascia molto perplessa.

E’ umanamente possibile anda-re incontro alla morte senza mai dare segno di un cedimento o la-sciare trapelare un ripensamento, un dubbio, una ragionevole paura? E’ giusto sacrificarsi per un marito frignone e spergiuro? Alcesti è una

MitomaniaDove si parla delle matte storie inventate dagli antichi Greci e mutuate dai moderni. di VIVIANA LISANTI

occasione per rinfacciare le colpe del marito, da quella volta che in-dugiò un po’ troppo con lo sguardo su una mendicante dai capelli rossi, alle notti in cui la lasciava sola per dedicarsi alle sue passioni (le stel-le, Apollo…); lui che l’accusa di aver sempre avuto in odio i suoi amici e di voler morire soltanto per attirare l’attenzione.

Ma la stoccata finale all’Alce-sti di euripidiana memoria arriva quando ci prova spudoratamente con Ercole rinnegando i sei anni di matrimonio trascorsi ad annoiarsi ascoltando Admeto accordare la lira. Davanti alle resistenze del dio non può che piangere a dirotto e pronunciare la verità che Euripide, dietro il mutismo della sua rediviva eroina, aveva solo fatto intuire “Ed eccomi di nuovo obbligata a rico-minciare a morire per Admeto!”

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attraverso il tuo mirabolante smar-tphone puoi dire a tutti non soltan-to quello che pensi ma anche dove lo stai pensando. Se poi – divenuto finalmente cool e diesel – smetti anche di pensare, puoi lasciarti invadere dall’ideologia puntiforme della tua disseminazione e comu-nicare a tutti, semplicemente, la tua mera posizione. Sono qui, sono là, ah ah ah. A quel punto diventi il terminale di una serie futuribile di azioni incrociate, la più spettacola-re delle quali non riguarda però la tua posizione bensì tutte quelle in cui tu non sei, a cominciare da casa tua. Se risultasse infatti che stai fa-cendo lo sborone al vernissage di qualche artista stronzo e tisico ve-stito di viola, una sola cosa sarebbe veramente certa: casa tua è libera e può essere derubata. Si tratta, anzi, di un vero e proprio invito o, come dicono i fantasmi del marketing, di una call to action. E così, non a caso, è nato www.pleaserobme.com , il primo sito di degeoreferenziazione, che ci mette tutti in guardia dai ri-schi del “ciao mamma guarda come mi diverto qui al vernissage del ti-sico”. Molte le domande che posso-no scaturire da un’interfaccia che rende nota a tutti la tua ubicazione: “Cosa ci facevi davanti a una clinica per aborti? Perché eri in un gay bar? Ti piace dare appuntamenti davan-ti alle moschee?” e via dicendo. Ma c’è un’altra domanda, forse ancora più importante: “Quanto ci metti a tornare a casa tua se parti adesso?”. Nel caso la tua risposta conceda un margine sufficiente, la tua maison diventa il terreno di caccia ideale per ogni ladro che si rispetti.

Nel pianeta sul quale un uomo si sniffa le ceneri del

padre morto, è difficile stabilire la soglia oltre la quale qualcosa di-venta eccezionale, strana o sempli-cemente non convenzionale. Prima di tutto a noi di Finzioni, che siamo tanto scafati, l’unconventional non ci prende per il culo, volgare pie-ghetta cool di una convenzionalità di secondo livello, appena più muta della prima. Inoltre le narici attra-verso le quali sono state aspirate quelle ceneri appartengono a Keith Richards, viziosissima chitarra dei Rolling Stone, alla quale non si può muovere alcun rimbrotto uticense senza apparire immediatamente incongrui. Varrà dunque la pena di sgomitare fra le nuove normalità, dove l’evèrso si annida nel cuore del verso come il controcanto del no-stro ossessivo upload tecnologico.

Dopo esserci aggiornati per di-ventare eco, ad esempio, abbiamo cominciato ad aggiornarci per di-ventare geo. Senza mai smettere, ovviamente, di essere net. Ed è fondamentale, in ogni caso, non superare mai le tre lettere perché la quarta ci apre alla vertigine del respiro e il respiro, permettendo-ci di pensare, non è un cazzo cool. Lo dice la Diesel: “be stupid”. Ci è concesso, al limite, di combinare coppie di triplette e diventare così teo-dem o neo-con, ma in questo caso si finisce per essere ancora dei gran sfigati. Poco importa, co-munque, perché al momento siamo tutti presi dal geo. Geosensibili, geotargettizzati e, soprattutto, ge-oreferenziati. Il che vuol dire che

Non si georeferenzia mai soltan-to il posto in cui siamo, ma anche tutti quelli in cui non ci troviamo. Occhio, ragazzo: fatti tre belle sor-sate di vecchio luddismo e rimetti il culo in carreggiata perché, appena fuori dal vernissage del tisico, c’è un’intera pletora di geo-ladri pron-ta a net-tarti di ogni avere. Estrarre il tuo smartphone dal nuovissimo astuccio in coordinato appena ac-quistato su e-bay non ha ovviamen-te prezzo, ma potrebbe averlo nel giro di due ore, quando rincaserai e saranno spariti tutti gli aggeggi stilosi che a quell’astuccio, per l’ap-punto, avevi coordinato. Finzioni si preoccupa di te, del tuo piccolo universo fatto di lussi assolutamen-te non convenzionali.

Sono due le strade possibili: o la pianti di dire a tutti dove ti trovi oppure scegli i lussi inamovibili, che non possono essere rubati. Il tuo modello diverrà, allora, Sim Jae-duck, presidente della World Toilet Association, associazione mondiale dei produttori di toilette. Il vecchio Sim (nota bene, tre lette-re!) abita in una casa di 420 metri quadri a forma di water (o WC, due lettere!), al centro della quale è in bella mostra una toilette gigante e completamente trasparente, costa-ta 1,6 milioni di dollari. Lo zio Sim, a differenza di te, può andarsene in giro per il mondo gereferenziando-si a piacimento: spostare quel water sarà un problema per chiunque. Please, rob me. If you can, s’inten-de.

Edo, tre lettere.

Il FinzionarioDove non ti trovi. Le mille inside della georeferenziazione di EDOARDO LUCATTI

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TrilogieJ.R.R. Tolkien – Il Signore Degli Anellidi STEFANO FANTI

La storia è nota a tutti, soprat-tutto perché l’adattamento

cinematografico della trilogia di-retto da Peter Jackson (tra l’altro, sono attesi per i prossimi anni – si dice 2012 e 2013 – i due film tratti dal prequel della saga di Frodo & com-pany, ovvero Lo Hobbit) lo ha visto praticamente ogni essere umano che, almeno una volta, è entrato in un cinema, quindi più che de La Compagnia dell’Anello, Le Due Torri ed Il Ritorno del Re nella loro veste di incontro-scontro (in pratica, ol-tre mille pagine in due parole, per essere i più banali possibile), è inte-ressante sottolineare alcuni punti focali dell’opera mastodontica ed irraggiungibile di Tolkien.

E’ nota, ai lettori di J.J.R., inoltre, la polemica tutta italiana (dal Bun-ga Bunga ad Aragorn, non ci faccia-mo mancare proprio niente!), che vede lo scrittore britannico inseri-to, da alcuni studiosi, tra le fila del pensatori di destra, alla stregua di un Evola qualsiasi. Si è scritto mol-to negli ultimi tempi a riguardo, su Carmilla, sul blog Lipperatura e soprattutto su quello dei Wu Ming (oltre al diverbio cartaceo tra Ardu-ini su L’Unità e De Turris su Il Gior-nale), e altrettanto se ne è parlato al convegno di Modena di qualche mese fa Tolkien e la filosofia”: inter-venti che hanno, finalmente, smos-so la patina ingiustificata che si era posata sugli scritti di un maestro senza tempo. Ciò che se ne trae è che stiamo parlando di un erede del Romanticismo - per alcuni, ispirato da un retaggio cattolico – analizza-to – ed analizzabile - da più punti

di vista – strettamente letterario, politico, storico – ed in grado di im-bastire, grazie alla sua complessità e stratificazione (universale e non allegorica) dibattiti a 360°.

Soggettivamente, la grandezza di Tolkien sta nella capacità, che solo un grande può avere, di renderti parte della narrazione, senza di-stoglierti da ciò che accade in essa, nonostante così lontana dalla real-tà per come è. Proprio la negazione di una natura allegorica è la chiave per leggere la saga della Terra di Mezzo senza cadere nella sempli-cista relazione con il nostro mondo, al contrario, il fatto di sentirsi (nel limite della sanità mentale, in tem-pi in cui astrarsi da questa realtà non è poi così ingiustificato) a Mor-dor, sede dell’Oscuro Signore Sau-ron, o a Gondor, nel bel mezzo della battaglia è quanto di più corretto ed

allo stesso tempo avvincente. Que-sto comporta decisamente anche una certa dose di interesse verso il fantasy, che non tutti i lettori pre-sentano purtroppo, (addirittura c’è chi pensa ancora che la letteratura di genere sia di serie B, povera Ac-cademia…) ma se il realismo tri-tatesticoli è quanto di più seguito in questa Italia in concorso per “la nazione più ignorante della Univer-so” (escludendo, purtroppo, il Terzo Mondo, la cui forzata ignoranza, è proprio uno dei fattori di maggiore influenza per la miseria a cui sono soggetti), ben vengano elfi ed anelli maledetti.

…“Ma dove troverò il coraggio necessario?”, chiese Frodo. “E’ ciò di cui ho più bisogno”. “Lo troverai nei luoghi più impensati”, disse Gil-dor…

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Un libro si legge, lo si sfoglia, lo si sente e lo si annusa:

l’odore della carta, dell’inchiostro, della polvere. Quello che al libro proprio non si può chiedere, con buona pace di certi fenomeni da baraccone, è quello di gustare. Ma alcuni ci fanno venire l’acquolina: esistono libri di cucina, manuali per cuochi e ricettari per ogni pa-lato.

Nessuno di quegli autori ha an-cora vinto un premio Nobel, né un Pulitzer. Non è un peccato? Un artefatto che chiama in causa tutti i nostri bei sensi merita una qual-che forma di riconoscenza. Ed è per questo che su Finzioni redimiamo la letteratura culinaria, perché a pancia piena si vive meglio e so-prattutto: si legge meglio.

Ora ho in mente una ricetta: Bocconcini di manzo alla birra. La penso adatta per introdurre il libro Factotum, di Charles Bukowski.

Infarinare i bocconcini di man-zo, 800 g per 4 persone, tritare lo scalogno (alcuni usano la cipolla, ma lo scalogno è meglio, perché ha un gusto più delicato ed è facile da digerire) e il prezzemolo. Riporre lo scalogno e il prezzemolo in una padella, con dell’olio d’oliva e la-sciar soffriggere finché lo scalogno non cambia colore. Mettere quindi i pezzetti di carne infarinati nella padella e farli rosolare bene da ogni parte, girando i pezzetti con l’aiuto di un cucchiaio, comunque evitan-do di forarne la superficie. Quando la carne starà rosolando, salare un

po’ e versare la birra (una lattina da 33 cl è la dose perfetta). Come sa chi ama la birra, non esistono due birre uguali. Io propongo (e utilizzo) una birra dorata nostrana. Va versata un po’ per volta, in modo da evitare che la schiuma goccioli fuori dalla padella. Aggiungere, se si crede, delle foglie di salvia e del rosmari-no. Continuare la cottura a fuoco molto lento per 1 ora circa.

Come contorno si può pensare a dei funghi trifolati, o a delle patate. Volete stare leggeri? Allora un’insa-lata mista.

Factotum, secondo romanzo dell’autore, pubblicato nel 1975, parla di Henry Chinaski, alterego dell’autore, che vivacchia tra un lavoro e un altro, subito dopo la se-conda guerra mondiale, provando a sopravvivere in un’America ancora alle prese con quello che rimane della Grande Depressione.

Il tono è divertito e autoironico. Il protagonista spende pagine a la-mentarsi di tutti i lavori che prova; lavori dei quali conosce e lamen-ta la vacuità. Va alla sede del Los Angeles Times, compila un modu-lo per lavorare come reporter. Lo chiamano e gli propongono un po-sto da “uomo delle pulizie”. Accetta subito.

Ma sia chiaro: non c’è mai una riga di lagnanza, odia indistinta-mente i suoi colleghi e i suoi supe-riori; un po’ ricorda Nelson Algren, e il suo Le notti di Chicago.

Dove trova un po’ di pace? Nel bere, nelle donne e nel cibo. Ok, ma perché proprio i bocconcini?

Scrive: “Quando avevamo qual-che soldo andavamo giù ai mercati generali e comperavamo un po’ di carne a buon mercato, carote, pa-tate, cipolle e sedano. Mettevamo tutto in un pentolone e restavamo seduti a chiacchierare, sapendo che avremmo mangiato, annusan-do il profumo del cibo… le cipolle, le verdure, la carne… ascoltandolo cuocere. (…)Poi ci alzavamo e ci mettevamo a cantare.” (Factotum, p.74-75, Tea).

Gli negano il cibo: viene licen-ziato (l’ennesima volta) e sperando di non essere notato va alla mensa del personale. Fa la fila e nota un cartello: “NON DATE NIENTE DA MANGIARE AD HENRY CHINA-SKI”.

Il rapporto di Bukowski-China-ski con il cibo è, tuttavia, invidiabi-le: si magia quando si può. Mossi da un solo motivo, quello che lo spinge ad non utilizzare la corda che ha comprato per impiccarsi (cifr. da Taccuino di un vecchio sporcaccio-ne): la speranza. Un giorno vedrà qualche suo racconto pubblicato.

Chinaski rivela “Mi alzai in pie-di con il bigliettino di accettazione in mano. IL PRIMO. Dalla rivista letteraria numero uno d’America. Il mondo non mi era mai sembrato così bello, così pieno di promesse.”

Letto e mangiatoNon date da mangiare a Henry Chinaskidi ANDREA SESTA

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a se stessa. Ciao Zenone.

Matematicamente si dice che un frattale presenta una omotetia in-terna (ahah... “omotetia”... ahah). Di figure frattali la natura è piena. Prendiamo un abete ad esempio, passando dall’albero ad un ramo principale, poi ai rami secondari fino ai ciuffi di aghi la forma geo-metrica non cambia tanto.

La differenza tra una figura eu-clidea ed un frattale è comunque tanta. Una linea (o qualsiasi altra figura) è descritta da un’equazione, un frattale da un algoritmo. Quindi un frattale rappresenta un metodo. Ecco perché descrive così bene la natura. Torniamo all’esempio della linea di costa.

Noi non sappiamo quali siano stati i processi geomorfologici che hanno portato alla modellazione della costa. Sicuramente sono stati tanti e incasinati, ed in questi pro-

Il 14 ottobre è morto Benoit B. Mandelbrot, il babbo della

geometria frattale. Ricordiamolo tutti con una bella zuppa di cavolo. Già, perché i cavoli sono un bell’esempio naturale di frattale, una classe di figure geometriche che davvero descrive la natura. Infatti la classica geometria euclidea (quella che facciamo a scuola e tanto ci annoia) non descrive poi così bene il mondo esterno come ci fanno credere. Citando Benoit “una delle ragioni [per cui la geometria classica ci appare fredda e arida] risiede nella sua inadeguatezza a descrivere la forma di una nuvola, una montagna, la costa o un albero. Le nuvole non sono sfere, i monti non sono coni, le linee di costa non sono circonferenze e la corteccia non è liscia. Neppure il fulmine corre in linea retta”. In effetti è vero.

Mandelbrot partì proprio dalla natura per definire questa nuo-va geometria: presentò infatti un giorno un metodo per misurare la lunghezza della costa inglese. L’idea era di fare avanzare sulla costa un compasso con apertura nota in modo che ogni nuovo passo cominci dove finisca il precedente. La lunghezza della costa viene così calcolata dal numero di segmenti tracciati dal compasso moltiplica-ta per la sua apertura. È lampante come diminuendo l’apertura del compasso il numero dei passi au-menti ed anche la lunghezza della costa, tendendo all’infinito con passi infinitamente piccoli. Eccolo il frattale: una figura geometrica che ingrandita si ripropone uguale

cessi il caso occupa senza dubbio un ruolo determinante. Solo ricor-rendo ad un approccio statistico possiamo avere una descrizione dell’oggetto in esame. Il caso infat-ti può generare irregolarità, anche così grandi come quelle della costa. Ma con un processo iterativo pos-siamo arrivare ad un’ottima descri-zione, lo possiamo calcolare. Mica male, no? Uno strumento capace di descrivere qualcosa che non si co-nosce... Non pettinava mica le bam-bole Mandelbrot!

Il bello è che come approccio funziona: si possono introdurre an-che variabili aleatorie (casuali, che seguono una distribuzione statisti-ca) et voilà: ci si modella l’erosione del suolo ed i movimenti di faglia, così da capire i meccanismi intrin-sici dei terremoti.

Bravo Mandelbrot, ti ricordere-mo con una zuppa di cavolo roma-nesco!

Pillole di scienzaCome i cavoli a merendadi FABIO PARIS

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Ci sono situazioni ricorren-ti che mi appestano i sogni

da qualche anno ed hanno tutte in comune i banchi del liceo e Igor Bonetti detto “Zapping”. Zapping era un mio compagno di classe, uno di quelli che si vedeva lontano anni luce che lo vestiva sua madre, perchè sarebbe apparso fuori luogo persino negli anni Ottanta quan-do non c’era limite al peggio negli abbinamenti sopra-sotto aprendo l’armadio.

Nonostante la cosa che gli suc-cedeva ad intervalli regolari e nell’ordine dei minuti, lo Zapping si stimava a prescindere: aveva la passione della pittura, parlava correttamente il russo per via del-la suddetta madre, praticava il tiro con l’arco. Come fa a non essere ganzo uno che fa tiro con l’arco? In un buco di provincia dove ti offriva-no da bere solo se giocavi a calcio e le ragazzine accettavano di uscire il Sabato pomeriggio solo se indossa-vi la tuta da allenamento, uno che si presentava in classe con faretra di cuoio e frecce andava idolatra-to. Però io mi sono sempre chiesto come facesse a praticare un’arte del genere con quella cosa che lo seguiva ovunque, insomma doveva essere difficilissimo e soprattutto pericoloso, ma proprio roba da la-sciar perdere e provare tutt’altro tipo il rap. Quella cosa, come spiegò il primo giorno di scuola davanti a tutti, con un sorriso d’ordinanza ed un tono di scuse preventivo, era un glioma cerebrale che gli causava la sindrome di Tourette.

Usò queste stesse parole, ma non ce n’era davvero bisogno visto che il mattino l’avevo visto fare una serie di scatti rapidissimi con le braccia e dare dell’idiota al segretario del preside. E’ senza dubbio l’individuo più punk che abbia mai incontrato in vita mia pur non avendo tatuag-gi, cresta e chiodo borchiato con il logo degli Exploited cucito sopra, ma il suo umorismo cinico, le uscite sincere e politicamente scorrette, anche se forzate dal suo cervello malato che si comportava come una specie di sceneggiatore droga-to (anche queste furono le sue pa-role nello spiegarmi la malattia) lo rendevano sì tormentato, ma a suo dire vicino all’ideale che noi pove-racci avevamo di “libertà”.

Ho pensato proprio al buon Zap-ping (così soprannominato per via della faccia che cambiava smorfia ed espressione in un batter di ciglia durante gli attacchi di tourettismo) quando ho scoperto l’incredibile bibliografia di Oliver Sacks, mio

attuale mito letterario. In uno dei racconti de L’uomo che scambiò la moglie per un cappello (Adelphi, 320 pagine, dieci euro) si parla pro-prio di tourettismo ed io ho potuto bullarmi un casino con il mio ego per essere già altamente preparato sull’argomento. "Ray dai mille tic" raccontato (e curato davvero) da Sacks è l’esperienza di una malattia neurologica a cui il paziente arriva addirittura ad affezionarsi, ad iden-tificarsi con essa, ad apprezzare il proprio essere in virtù degli scatti di vitalità e lampi di genio che essa apporta nonostante l’infinito far-dello di problematiche nella vita quotidiana. Zapping era proprio come Ray, arrabbiato col proprio lobo parietale, ma grato ad esso per averlo reso un dritto. “Ehi Zapping, hai mai pensato a cosa rimpiange-resti di più se dovessero curarti?” “Come no: la possibilità di invocare le attenuanti generiche e l’infermità mentale se dovessi ferire qualcuno con l’arco!”.

Donne & CompressoriTourettismidi ALEX GROTTO

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Nessuno vi costringe, ci man-cherebbe, ma recandovi in

una qualsiasi biblioteca o più co-modamente consultando on-line il database del Sistema Bibliotecario Nazionale potreste imbattervi, pas-sando in rassegna i titoli dei volu-mi indicizzati alla voce Aldo Nove, in un curioso libricino recante in copertina l’immagine, grottesca-mente ilare da Stephen King in poi, di un anonimo clown nonché, in quarta, l’indicazione, fintamente apposta a mo’ di etichetta promo-zionale, «Aldo Nove compatibile!». Il libricino in questione, edito nel 1999 – cfr. l’odiosamente puntiglio-so SBN – dal mitico autore di Viggiù dovrebbe poi intitolarsi Route 66, sottotitolarsi (e attestarsi generica-mente come) Romanzo di formatta-zione e precisare, infine, di essere la storia di un teologo che viveva in un gross-market. Detto ciò, per quale motivo, consultandolo – prendendo fisicamente in mano questo librici-no, dico –, potremmo invece iden-tificare, quale suo effettivo autore, tale Aldo Dieci? nientemeno cioè – apriamolo intanto e leggiamone poche righe, ciniche ed esilaranti come da tradizione Castelvecchi prima maniera (1.0, facciamo) – che l’upgrade dell’autore di memorabili short-stories quali Moltissima ac-qua e un po’ di sangue e Video Cata-logo Italia 95, o di efferati romanzi-haiku à la Puerto Plata Market, di cui piace ricordare la dichiarazione rilasciata in limine dal suo paradig-matico italo-protagonista: «Parlan-do generico, le cose che mi piaccio-no di più sono: Beautiful, i porno con le sborrate in bocca, la Juve di

Lippi»? Forse – perché no? – per un banale errore d’archiviazione, Aldo Dieci d’altra parte essendo, po-tenzialmente, nient’altro che uno spin-off di Aldo Nove stesso. È in fondo cosa risaputa, d'altra parte: lo stesso A9, a ben vedere, sarebbe poco più che un fake: a esistere per davvero è semmai l’Antonello Satta Centanin delle poesie di Musica per streghe o di Tornando nel tuo san-gue; anzi no, è l’Antonio Centanin tramandato dalla vulgata (sì, ma quale versione?) e di cui su Wikipe-dia the real one. Oppure no.

Poco importa, in fin dei conti. Anche perché qui, strizzatine d’oc-chio a parte, occorre dare retta ai due ghostwriter (NL e AP le inizia-li dei loro nomi, qui debitamente oscurati) titolari della sigla A10: il vero autore di Route 66 sarebbe in realtà un software, cioè un «Aldo Construction Kit» con il quale qual-siasi editor può «divertirsi un po’» a manipolare e formattare una se-rie di file pre-esistenti. Non che la cosa, intendiamoci, sia da subito chiaramente esplicitata: per im-battersi nel dialogo, rivelatorio e cinicissimo, tra Castelvecchi him-self e ½ di A10 occorre perlomeno oltrepassare provvisori titoli di coda e codici a barre disseminati random tra le pagine, ma soprattut-to familiarizzare con un aspirante scrittore – tedioso e un po’ patetico come tutti i suoi colleghi – che per sedurre la commessa di una libreria Feltrinelli si inventa autore del libro di cui invece è (co)protagonista – R66 stesso, ovviamente. Il teologo che vive in un gross-market e che,

come la sua virtuale compagnia di ribelli, cannibali e bad girls, fa delle merci esposte veri e propri feticci è, evidentemente, proprio lui, un Io taroccato similissimo ai protago-nisti della fiction targata A9: così come tipicamente aldonoviano è il desiderio di ricoprire il corpo nudo dell’amata commessa feltrinellia-na di marmellata (di quella con i pezzettoni di frutta, si intende), ma anche, a ben vedere, il tentativo di campionare, parodiare in chiave po-mo, sfottere o remixare drasti-camente ciò che di meglio riposto la letteratura italiana di dieci anni fa aveva da offrirci: motivo per cui riprenderlo oggi in mano è anche l’occasione per versare qualche lacrimuccia ricordando quanto all’epoca era bello, si fa per dire, leggere Nove Ammaniti Scarpa La-branca e innamorarsi di micidiali incipit come questo: «L’ideale della mia vita è andare nella casa di un mio amico e farmi un sacco di se-ghe guardando giù dalla finestra le persone che passano per anda-re dove cazzo vogliono. Allora mi butto e dal balcone cado giù. Poi mi sveglio con la testa spaccata mi alzo da lì e vado a comperare delle cose da Pam».

EccezioniAldo Dieci - Route 66di FILIPPO PENNACCHIO

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Me lo copre il prezzo?Scacchi d'ottobre e francofoni in Quebecdi LICIA AMBU

darle un po' della nostra carta per fare il pacchetto.

-Va bene, grazie, dieci fogli li ha?

Ma tutto questo non scompensa più di tanto, quello che più manda in furia il potenziale lettore è non poter avere un libro. Sì, giuro! Per una libreria è impossibile, quando non inammissibile, non poter avere un libro. E sia chiusura piuttosto.

(Telefono)- Buonasera sono un cliente, vo-

levo sapere se avete questo libro bla bla...

- Guardi mi dispiace non possia-mo averlo, è un editore che non trat-tiamo.

- PERCHè?- Il nostro magazzino non ha con-

tatti, posso al limite richiederlo in casa editrice con le spese di spedizio-ne a carico però.

- Che vuol dire!? Io l'ho visto sul giornale. Impossibile.

Allora è bello sapere che per un determinato ordine di desideri o richieste, talvolta ottimali, talvolta da calibrare, alcune volte strane un bel po', qualcuno entra in una libre-ria, rinomata espressione depressa da studente in cerca di libro/i di let-tura o sguardo spento del commen-sale implicato nel presente da gala-teo. Lo sconforto li affligge, talvolta la libreria li salva.

- Signora i testi in francese si pos-sono avere in contrassegno.

- Benissimo me li spedite in Que-bec?

- Bonjour.- Bonjour. (una delle uniche sei

parole francesi che conosco)- Vengo a nome di un artista ca-

nadese, vorrei sapere se potete repe-rire questi testi in francese

Non saprei. Volendo ridurre il tutto all'osso ci si aspette-

rebbe che il potenziale cliente entra spinto da curiosità o in cerca, con certezza assoluta, di un libro. Pun-to. Ora, si metta agli atti che questo non esaurisce per nulla lo spettro di possibilità o variazioni sul tema che si presentano in una libreria.

- Cercavo una scacchiera.- Mi dispiace non vendiamo arti-

coli da regalo, può provare al nego-zio di giocattoli.

- Sì, lo so, ma io ne cercavo una di un certo livello.

D'accordo ridiamoci su lì per lì. Ma poi a pensarci è un gran com-plimento, non vi pare? Insomma, da un certo punto di vista è come sentirsi dire che da una libreria, luogo per eccellenza di cultura, ci si aspettano cose di livello ..forse..se per caso fosse previsto un prestito cioè prendo un libro poi lo leggo e te lo riporto, ecco Se può fa? Non fa una piega. Almeno la materia pri-ma è la stessa.

Altra declinazione è la cartoleria vera e propria.

-Possibile che non abbiate dei semplici biglietti bianchi o della car-ta da regalo?

-No mi dispiace, se vuole posso

Quebec. Numero testi francesi reperibili in loco: non pervenuto.

I dialoghi e gli esempi citati sono rimasticazioni pindariche il cui spunto deriva da fatti forse accaduti o forse no.

E comunque non così.

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figli tuoi superstiti, Elettra e Oreste, criminali di una famiglia crimi-nale. Lo capiamo noi? Lo racconta anche la cronaca: quante madri sa-crificano la prole all’ingordigia del proprio uomo, piuttosto che perde-re il compagno? Un’antica legge di natura guida la scelta tra l’uccisio-ne del maschio riproduttore e della prole debole, che ancora non serve a nulla: le leonesse azzannano forse il leone che ne uccide i cuccioli? E allora non ci urta l’apoteosi del sa-cro amore materno?

Clitennestra, tu sei diventata solo l’archetipo di tutte le amanti, la quintessenza di una femmini-lità straripante, mai sazia di letto, tu sei solo una madre scandalosa anche da vecchia, tutta istinto e bi-sogni sensuali, tranne nell’attimo di sbarazzarti dello sposo ingom-brante. Leonessa a letto col lupo, infida, cattiva: questo ti rinfaccia Elettra, la figlia meno amata, che nutre l’odio di cui si infiammerà Oreste per ucciderti. Solo la tua na-tura di mantide ti riconoscono: sai cosa ha detto di te Egisto, tuo tenero amore, illusa? «Io la mente, lei solo il braccio: tramare, d’altra parte, è il compito delle donne.» E quan-do, vecchia, cerchi un varco verso quella figlia ostile e le parli del tuo amore proibito, degli occhi delle donne aperti nel pianto e chiusi nel godere e le confessi che un grande amore può contenere anche i delit-ti, Elettra resta sorda e si fa giudice, con la sua ragione maschia e senza sconti: “è giusto, madre, uccidere chi è ingiusto?” E tu rispondi con una voce che la figlia frigida non

Il dramma greco ci offre un credi-to inesauribile, è uno straordinario

assegno in bianco nel quale ognuno, a turno, può permettersi di leggervi

la cifra che preferisce (M. Yourcenar)

Forse perché di te l’unico ri-cordo che abbiamo è l’im-

magine contraffatta dall’odio di una figlia rifiutata che ci dimenti-chiamo la ragione del tuo dolore, Clitennestra. O forse perché la co-scienza non ha mai perdonato alla donna di farsi vendicatrice lucida del proprio uomo per amore di un figlio. Io non ricordo madri che uccidono per difendere gli agnel-li dall’altare dei padri. Io ricordo piuttosto di pasti sacrileghi (e la schiatta dell’uomo che sposasti ne sa qualcosa), di carni bianche insanguinate di bambino, violen-za per violenza, forse memoria di un’epoca in cui non era scandalo il sacrificio di chi non ancora pos-sedeva la dignità empia dell’uomo. Anche Abramo avrebbe abbassato la sua scure su Isacco per ordine di Dio e così fece il tuo uomo con il tuo primo frutto Ifigenia, obbediente a un ordine divino, quell’Agamen-none per cui da allora perdesti quel poco di affetto, se ancora c’era, che gli dovevi, lui reo solo di vivere nel mondo degli uomini, dove nessuna mano scende dal cielo a salvarci dalle nostre scelte. Tu non hai po-tuto perdonarlo. Con il tuo amante Egisto ti sei fatta strumento di ven-detta di troppi figli immolati, ma a te, invece, non si perdona questo, di aver piuttosto ucciso l’uomo, che pianto di dolore. Non lo capiscono i

può comprendere: “Lui, quell’uomo violento, immolò mia figlia, frutto doloroso del mio parto. Io ho reso giustizia a mia figlia.” Tu rivendi-chi un legame viscerale di dolore, che il dolore sacralizza: “l’amor di madre”, un amore che nasce dalla sofferenza del corpo. Strano gioco di amori mal corrisposti, o forse la famiglia è solo l’illusione dell’amo-re: Oreste dice che non può amarti, perché l’amor filiale è solo ricordo di sensazioni piacevoli e disgusto di quelle spiacevoli. Nulla di meno spirituale e di meno casuale. Come doveva bruciare il tuo cuore, Cli-tennestra, quando hai accolto il padre assassino recitando con la bocca schiusa e gli occhi senza sor-riso le parti della sposa trepidante e nelle orecchie, come vero, quel grido tante notti immaginato, di Ifigenia sbattuta sul ceppo, col col-lo teso, a urlare “Padre, aiutami!”, forse a invocare il tuo nome di ma-dre inutile e lontana! Non è questo che un figlio attende da una madre? Una protezione istintiva che non fa scelte. Una protezione brusca come quella con cui la Madonna dei Pel-legrini avvolge nell’incavo del suo abbraccio il figlio: non porge certo il suo piccolo alle mani sozze dei mendicanti. Ha lo sguardo bruno e sospettoso, che forse fu anche tuo, Clitennestra, quando accogliesti l’assassino di tua figlia. E fu, il farti a tua volta assassina, il tuo tardivo tributo di Madre.

Libera lettura da :Eschilo, Agamennone; Sofocle,

Elettra; M.Yourcenar, Elettra o la ca-duta delle maschere

InterferenzeLa Madredi CRISTINA FARNETI

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culturale rispetto all’Europa. Il se-colo successivo ha invece visto uno sviluppo della letteratura in lingua inglese, fino al Premio Nobel per la letteratura assegnato nel 1991 a Na-dine Gordimer.

La lingua è una delle cose più importanti rispetto all’identità di un popolo. È il motivo per cui Ivano Marescotti recita Dante in romagnolo e per cui i Sud Sound System mischiano dancehall e pizzica cantando in salentino. In 1984 George Orwell ipotizzava la creazione di una Neolingua dove le parole venivano modificate nella forma e ridotte di numero, la strut-tura grammaticale veniva stravolta e non erano ammessi sinonimi o doppi significati. Il fine era impove-

In controtendenza come al so-lito parliamo del Sudafrica

quando non ne parla più nessuno. Perché va bene essere sul pezzo, ma qui a Finzioni ci siamo già da un pezzo e quindi anche basta. Ci sono stati i mondiali, siamo usciti, oh che peccato eccetera eccetera, Shakira ci ha sbomballati di Waka Waka tutta l’estate e Finzioniman ha trasformato in un nerd d’altri tempi il tifoso medio. Passato un po’ di tempo, possiamo tornare a parlare di Sudafrica.

In Sudafrica si parlano undi-ci lingue, tante quante le etnie. Nell’ottocento la creazione di una letteratura boera (In lingua afri-kaans) era interpretata come af-fermazione dell’indipendenza

rire il pensiero, ridurre la possibili-tà anche solo di concepire pensieri diversi da quelli voluti dal Partito. Non sempre serve creare lingua nuove per cancellare una identità: in Tibet (attualmente occupato dal-la Cina) è proibito parlare Tibetano. Per fortuna la lingua -tornando al Sudafrica- marca una identità cul-turale anche nella contaminazione dei generi: decine di anni dopo la letteratura boera i Die Antwoord rappano in Afrikaans.

Ignazio Buttitta scrive in sicilia-no «Un populu / diventa poviru e servu / quannu ci arrobanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sem-pri. / Diventa poviru e servu, / quan-nu i paroli non figghiano paroli / e si mancianu tra d’iddi».

Metaletterari di cartaAfrikaansdi ALESSANDRO POLLINI

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Devo ancora finirloCosì, in pura perdita di SIMONE ROSSI

è un fatto come il parlare; qualcuno a un certo punto piglia la parola e parla, e lo può fare per tante ragio-ni, anche di egocentrismo, di esibi-zione, riscatto, ma anche bisogno di espiare i propri peccati e confes-sare, o tirare il bilancio di una vita intera; uno piglia la biro e si mette a scrivere; così, in pura perdita, per fare aumentare il pattume".

Questa cosa di scrivere in pura perdita, senza temere il giudizio della gente, senza soprattutto te-mere il giudizio della gente-che-se-ne-intende, dei critici, ecco, è una cosa che ho sempre cercato di dire e ci voleva Cavazzoni per dir-la meglio di come l'avrei detta io: i giovani scrittori di 'sta ceppa, i cosiddetti outsiders, gli emergen-ti insomma, quelli che fino a ieri non si cagava nessuno, quelli che vogliono "venire fuori" fanno di tutto per essere diversi, per emer-gere appunto, per farsi notare nel grande mare della scena letteraria italiana che signora mia lei non può capire quant'è zozzo, e per venire a galla bisogna conoscere il mare, e a furia di scrivere-per-essere-pub-blicati, scrivere-per-essere-diversi, insomma, finisce che uno pensa alla pubblicazione e alla diversità e non pensa più alla scrittura.

"Un principiante può venir rovi-nato, convincersi di essere scrit-tore, e inoltre scrittore outsider, e così incomincia a tener d'occhio gli altri, con i critici che lo tengono d'occhio mentre simultaneamente si tengono d'occhio l'un l'altro. Il principiante può essere così molto

Sto leggendo Il limbo delle fan-tasticazioni di Ermanno Ca-

vazzoni e nel momento in cui devo consegnare questo pezzo la sca-denza è scaduta da una settimana e il direttore mi ha detto "Tranquillo vecchio, se per questo mese non fai Oh, Scena! fa niente, davvero, scri-verai il mese prossimo", ma io ho detto "No, qualcosa scrivo", anche se questo mese non ho letto testi te-atrali e l'unico libro su cui mi sem-bra di avere qualcosa da dire questo mese è Il limbo delle fantasticazioni di Ermanno Cavazzoni, Quodlibet, un libro che tra l'altro non ho anco-ra finito, e allora ho pensato che Oh, Scena! è finita il mese scorso con il libro di Davide Enia che è stato un po' un salto dello squalo visto che quel libro non era mica un testo te-atrale, ciao ciao rubrichetta, è stato bello. E insomma inizia oggi una nuova rubrica che si chiama Devo ancora finirlo, in cui parlo dei libri che non ho ancora finito di leggere in ossequio alla solita mossa episte-mologica secondo cui la trama non conta un tubo e quello che conta è il tono di un libro, le sue idee, il suo intorno, blablà.

Il limbo delle fantasticazioni sem-brano gli appunti che la tua com-pagna di corso secchiona-ma-figa ha preso alle lezioni del prof intelli-gentissimo-ma-non-noioso, e quel-lo che viene fuori sono dodici mini-conferenze che si possono leggere in qualsiasi ordine. Magari è con-sigliabile iniziare dalla prima, in cui Cavazzoni spiega cos'è questo "grande sacrosanto territorio delle fantasticazioni, dove (...) lo scrivere

rapidamente rovinato. E finirà in quell'angolo del limbo dove le fan-tasticazioni sono a comando e dove si sta pigiati, col fiato degli altri sul collo. Invece se il principiante resta innocente, dice sì tanto per dire ai critici, pur che lo lascino in pace, e si aggira senza alcuna frenesia di distinguersi, perché tanto il limbo non chiede niente, perdura, per il fatto che non si è battezzati e non c'è altro posto in cui stare; allora il principiante continua a restar principiante, cioè sta lì e ricomin-cia sempre da capo, e più passa il tempo, più arretra e più si fa prin-cipiante in senso assoluto. Ciò non significa che sia felice. Ma questo è un altro discorso".

Ciò non significa nemmeno che sia bravo: non basta essere inno-centi per essere bravi (non basta essere sregolati per essere dei geni), e la retorica dello "scrivo solo per me stesso" è ancora più fastidiosa di "scrivo perché non sono come gli altri". No che non scrivi solo per te stesso, certo che sei come gli altri, certo che scrivi per farti leggere. Ora smettila di pensare agli altri, smettila di pensare a farti leggere, e scrivi. Lo dico a me per dirlo a tutti, eh.

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con una sostanza tossica e letale. È facile sghignazzare di fronte a una tastiera lucida e accomodante, quando la lettera è innocua come un gattino. C’è chi non lo trovereb-be così divertente. Pensate a Hester Pynne l’adultera de La lettera scar-latta di Hawthorne. La poverina si trova costretta a portare addosso una grande A rossa come il fuoco solo perché colpevole di una sco-patina extra-coniugale (voglio dire, suo marito non si faceva vivo da anni... per quanto ne sapeva poteva anche essere morto!). Lei non muo-re, ma l’ossessione di quella lettera uccide il suo amante, quel pavido del reverendo Dimmesdale, vittima della passione e della sua sfortuna-ta condizione di pastore in una co-munità super-puritana.

Ci sono poi scrittori che ne fan-no una questione personale. Bur-roughs per esempio riteneva che la Parola fosse letteralmente un virus, e che «non è mai stata riconosciu-ta come tale perché ha raggiunto uno stato di relativamente stabile simbiosi con il suo ospite umano». Allora decide di prendere d’antici-po la lettera prima che sia troppo tardi, ed eccoti il cut-up! Burroughs uccide la lettera prima che lei possa uccidere lui.

Anche oggi c’è chi si è trovato faccia a faccia con la temibile let-tera che uccide. Babsi Jones (che da molti è considerata la Burroughs italiana) nel 2007 ha scritto Sap-piano le mie parole di sangue, un romanzo pieno di “lettere-sangui-sughe” che si sono nutrite della sua

Bentornati a La lettera che muore, la rubrica di Finzioni

che, se letta attentamente, può sal-varvi la vita. Eh sì, perché la lettera moribonda e rancorosa che finisce six feet under il più delle volte è così bastarda da aggrapparsi alle cavi-glie di quei poveretti che incrocia-no la sua discesa. E finisce che li trascina giù con sé.

In letteratura sono numerosi gli esempi di tale furia omicida. Possiamo risalire all’Antico Testa-mento, dove la lettera che uccide è la legge antica di Mosè, prima della redenzione cristiana. Proseguendo con la Bibbia troviamo San Paolo (Corinti 3, 6) che ammonisce: «Sono uccisi dalla lettera quei religiosi che non vogliono seguire lo spirito della divina Scrittura, ma piuttosto bra-mano le sole parole e spiegarle agli altri».

C’è da credere che Umberto Eco avesse bene a mente i passi bibli-ci quando ha scritto Il nome della rosa. Qui un assassino decide di giocare un brutto scherzo ai frati che si avventurano a leggere l’ulti-ma copia rimasta del secondo libro della Poetica di Aristotele. Le parole vergate con inchiostro avvelenato uccidono misteriosamente i con-fratelli dello sperduto monastero benedettino, ma per fortuna che c’è 007 ad investigare sulle morti...

Ah! Certo, è facile scherzare di fronte a uno schermo, a un fo-glio Word o a un pdf, senza che la propria incolumità sia messa a repentaglio dal semplice contatto

linfa vitale. Il virus è penetrato fin dentro l’organismo della scrittrice e in un accesso di parossismo ne ha completamente corrotto la carne. A mali estremi Babsi Jones giunge ad estremi rimedi: per debellare definitivamente il virus bisogna agire sul corpo che lo ospita. L’uni-ca azione possibile è terminale, è la morte dell’organismo ospitan-te. Ovviamente Babsi Jones non si è ammazzata, ma ha commesso quello che potremmo definire un “suicidio mediatico”. Dopo slmpds non ha più scritto nulla, perciò la sua morte corrisponde ad una defi-nitiva uscita dal medium letterario.

Vi state cagando addosso dalla paura, eh?!

Non temete, le lettere di questa rubrica sono assolutamente inno-cue e, anzi, possono essere addi-rittura taumaturgiche. Insomma, ora dovreste essere preparati agli attacchi che vi potrebbe sferrare la lettera che uccide. Uomo avvisato mezzo salvato: se volete leggere un libro, o se avete addirittura l’ardire di scrivere, state bene attenti, cal-colate i rischi di farvi male o di fare del male a qualcun altro, perché, come insegna il Cyrano di Gucci-ni, una penna può uccidere tanto quanto una spada: «infilerò la pen-na ben dentro il vostro orgoglio, perché con questa spada vi uccido quando voglio». Tiè!

La lettera che muoreLa lettera che uccidedi MICHELE MARCON

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Senza volerlo una mia collega dice alla nostra responsabile:

«Sì, quell’educatore carino, sempre vestito bene ed abbronzato. Però è bravo.» Ma da cosa si riconosce chi? Dai vestiti, se è vestito male, se lavora in tuta, se è uno da centro sociale, se indossa la camicia non stirata. In quel caso, lavorando nel sociale e vestendosi male, dimo-strerebbe di avere grandi ideali e lavorare bene? Tanti ideali che la sua testa ed il suo cuore ne sarebbe-ro pieni, fino ai polmoni. Soffocare di ideali. Allora anche io non posso curare l'aspetto in maniera eccessi-va. Un po' freak, un po' left prog stile parliamo coi giovani di Repubblica. Perché se, lavorando nel sociale, vestissi fighetto, fossi abbronzato e facessi il surfer, boo. Pioverebbero i fischi (e me li meriterei) perché non ci sta, a questo punto, che chi abbia grandi ideali curi anche l'immagi-ne di sé.

La questione è, per dirla da intel-lettuali, perché noi siamo gente che ce n'è a pacchi, la virtù e il piacere coincidono? Se coincidessero, io go-drei dalla mattina alla sera, oppure non sarei assolutamente virtuoso. Ma del maiale non si butta via nul-la, e ha un orgasmo di mezz'ora. Nel suo caso virtù e piacere coincidono. I maiali però raramente muoiono di vecchiaia. È dimostrato che i vege-tariani vivono più a lungo, se non li ammazzano prima, infatti il maiale è vegetariano ma campa meno del mio vicino di casa, che mangia lo stesso maiale virtuoso di cui sopra e campa tanto a lungo da infastidi-re più d’una generazione di vicini

di casa, tra cui la mia persona - che considerazioni manzoniane! Verrà un giorno anche per lui? Speriamo, e in fretta.

Quindi virtù e piacere coincido-no? Non saprei, ne parla Seneca nel De vita beata, ma finisce ad inveire contro chi lo accusa di predicare bene e razzolare male. Non siamo comunque an-cora arrivati a dire nulla. Wo-ody Allen do-cet, come sem-pre: «Il mondo si divide in buoni e cattivi. I buoni dor-mono meglio ma i cattivi, da svegli, si di-vertono molto di più.» Anche Sc hopen hau-er ricevette la stessa accusa di Seneca. Fa-cile, del resto, proclamare a destra e a man-ca che la vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia e poi fare la bella vita. Sarebbe come se ai giorni nostri venisse fuori che alcu-ni (molti?) dei politici mora-listi che abbia-

mo passassero le notti tra droga e mignotte. Per fortuna non accade (beh) e del resto ogni popolazione ha la classe politica che si merita. Altro che virtù e piacere!

illustrazione:GIUDITTA MATTEUCCI

Megaviaggi!Della virtùdi ALESSANDRO POLLINI

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bra di una camera da letto o alla luce di un camino assopito, siamo capaci tutti, o quasi.

Fu Cortozzi, indirettamente, anni fa, coi suoi libri, a farmi cono-scere Jorge Luis Borges.

La prima volta che lessi Jorge Luis Borges, lessi un racconto, les-si Le rovine circolari, che, cosa te lo dico a fare, è contenuto nella rac-colta Finzioni, che, cosa te lo dico a fare, oltre ad avere ispirato tutto l’ambaradan qui, è semplicemente il migliore titolo possibile per un libro di letteratura; e, niente, cosa te lo dico a fare, a diventare dipen-denti da Jorge Luis Borges ci vuole un attimo (grazie Cortozzi).

Che sottile è la linea che traccia i contorni della realtà o, forse, sa-rebbe più opportuno scrivere che sottile è la linea che traccia i con-torni del sogno; che è sottile la con-sapevolezza che ci crede coscienti in un determinato momento, in un determinato tempo: tutto, a tutti, accade adesso, in questo istante e in questa verità che, di riflesso, ab-biamo accettato; la letteratura può essere dannatamente inutile, le tra-me romanzesche fine a loro stesse, e Borges pare averlo capito talmen-te che ci plasma i presenti sotto il naso, sotto la bocca aperta e sotto gli occhi impegnati, increduli, a leggere di libri immaginari e infini-ti, di autori inesistenti e inesistiti, di

Da Tempo e cristallo, di Gian-paolo Cortozzi, (primo e,

finora, unico autore in lingua italia-na palesemente e dichiaratamen-te borgesiano), (cortozzi.tumblr.com).

Ieri sera, verso le 22, con la mia ragazza, eravamo al cinema, a Mi-lano, paganti e sprofondati in enor-mi poltrone, a guardare un film. Com’era prevedibile, la pellicola fi-nisce e la gente si alza, qualcuno ap-plaude, qualcuno dice Ah, era tutto un sogno, qualcuno dice Capolavo-ro; la mia ragazza, di grazia, non dice niente e si limita a sbadigliare un po’, (forse non ha digerito).

Ieri sera, verso le 22, con la mia ragazza, eravamo a mangiare etni-co, a Milano, paganti e sprofondati in delle specie di buche definite, dai camerieri, creative. Com’era preve-dibile, la cena finisce e io, non sen-za qualche difficoltà, mi alzo dalla trincea e dico, Dai che andiamo; la mia ragazza, di grazia, non dice niente e si limita a sbadigliare un po’, (forse non ha digerito).

Da Creazione, di Gianpaolo Cor-tozzi, (primo e, finora, unico auto-re in lingua italiana palesemente e dichiaratamente borgesiano), (cor-tozzi.tumblr.com).

Ogni parola, ogni situazione esi-ste solo se, e quando, viene condivi-sa. A creare, in verità, nella penom-

BiografieEdulcorateJorge Luis Borgesdi ANDREA MEREGALLI

universi possibili, di poesie duplici e di saggi anacronistici, di specchi, di labirinti, di spade, di tigri.

Nessuno può avere letto quanto Borges, ma Borges ha finto, e ce lo ha scritto, ce lo ha scritto con paro-le quanto mai eleganti e puntuali, eppure Borges è riuscito, altresì, a essere terribilmente serio, nella fin-zione stessa e nel simulacro dei se-gni convenzionali; d’altronde, an-che un clown professionista, dico io, dovrà, (se lo ritiene necessario), essere spigolosamente ragionevole nello scherzo e nel gioco.

Borges giunse al centro, alla chiave, all’algebra, allo specchio, ormai cieco, il 14 giugno 1986, e vi giunse da uomo immortale.

Un hombre que se obstina en ser inmortal / y que ahora ha vuelto a su batalla, / a la violenta luz de la victoria, / hermoso como un leon al mediodia.

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La Posta dei Lettori di Matteo Bettolidi MATTEO BETTOLI

Caro Bettoli, mi sento male e francamente, mi fa male

pure scrivere questa lettera. In-tendo spedirgliela senza pensar-ci, andando personalmente alla buchetta più vicina. Sono 4 chilo-metri di camminata, e pazienza se fuori piove a dirotto. Spero che il medium, una lettera cartacea invece della solita noiosissima e-mail, possa accrescere la forza di quanto scrivo in maniera tra-ballante ed emozionata. Lei non potrà ignorare lo sforzo fatto e mi pubblicherà. Lo farà vero? Ma ve-niamo al punto. Sono di Rodi, di origine italiana. Tutti sanno che Rodi è stata italiana tra il 1912 ed il 1947, ma pochi sanno che non è più greca da qualche mese: la Gre-cia l'ha smerciata di recente ad una industria italiana che produce schiuma da barba, la Rasobono. Sembra fantapolitica, o il Congo di Leopoldo II descritto in Cuore di Tenebra, ma è proprio così: non uno stato, non un sovrano eccitato, non i poteri occulti. Una marca di schiuma da barba possiede Rodi. Le scrivo per chiederle aiuto. Ho prodotto un manoscritto e glielo invio, c'è questa storia. Faccia quel che può. Abbasso chi si fa la barba.

Roberta, Psinthos

Gentile Roberta, è una storia incredibile a cui credo si

debba dare eco. Mi rendo conto del rischio, quindi userò nomi finti per proteggermi da cause e minacce. Ricapitoliamo: Battistoni, padro-ne della Rasobono, storica azienda umbra, conosce personalmente Ioha Onassis, biscugino di un altro

Onassis. Quest'altro Onassis è ami-co da sempre di un quadro (inteso come funzionario) del Ministero delle Finanze di Atene. Questo mi-nisteriale è uomo di fiducia del Mi-nistro. Il Ministro deve ripianare il bilancio, e deve trovare un modo. In fretta! chè l'Unione Europea a sto giro si è infervorata davvero. Nel zittume totale, suggerito dal qua-dro, pianifica lo smaltimento siste-matico di alcune isole in surplus, tra cui Rodi. Interviene la Rasobo-no, che fiuta l'opportunità di scan-sare i sindacati comprando un'iso-la, dichiarandola indipendente, mettendoci stabilimenti a go-go delocalizzando a manetta e facen-do pure finta di niente. La Libera Isola di Rasobono in poche ore è su Google Maps, e Rodi non c'è più. La stampa non ne parla, perchè Bat-tistoni conosce gente. Lei descrive una popolazione smarrita, basita, sconvolta. Niente più inno, squadra di calcio, senso di appartenenza per un popolo che ha prodotto la roba più bella dopo la lo scaldabagno, e cioè il pensiero aristotelico. Solo barbe in segno di rivolta, basette, mustacchi, pizzetti. E una comu-nità internazionale muta. Ho sen-tito Rantolini, una casa editrice in cui lavora un lontano cugino di un tipo che porta il cane dove lo porto io. Glielo pubblicheranno, pare. Ed allora, sicuro, inizierà la crescita silenziosa di sempre più barbe. Co-raggio.

Caro decano, i romanzi mi hanno seccato e da qual-

che tempo leggo solo saggi scritti da vecchi saggi, scusi il gioco di parole ma i giovani mi seccano più dei romanzi. Insomma, siamo qua. Ah dimenticavo! Il motivo della mia lettera. Volevo parlarle di un saggio scritto da Eunice Eu-rastide, Nuove unità di misura: dal rumore del fastidio agli abbracci, ed. Fronkman (euro 13). Mi sem-bra interessante questo tema del-le nuove unità di misura, perchè sostanzialmente quelle vecchie sono superate: con un metro non posso certo misurare la distanza tra me ed un giapponese, se parlo di distanza culturale. Oppure il peso della solitudine: un quinta-le, due quintali, di più, di meno? La mia capacità di sopportazione non la posso misurare in litri, la pressione che mi mette il mio capo viene male in millibar, la forza di volontà non funziona in newton e la potenza dell'amore viene snatu-rata se la esprimo in kilowatt. Per non parlare del lavoro: con tutto questo parlare di disoccupazione, non posso certo ridurlo ad una questione di joule. Temo una cosa: che discorrendo di unità di misu-ra, si veda lontano un miglio che sono un nerd.

Leone, Sarenina

Caro Leone, il suo chiamarmi decano mi ha fatto venire in

mente L'accalappia De-cani, dialo-go semiserio di Teodoro Dostojev-ski. Ma veniamo al volume - da non misurarsi in metri cubi - di Eura-stide. E' un libercolo che sfrutta un

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pretesto per parlarci di ciò che non siamo in grado di misurare, cioè di tutto ciò che è davvero importante. Lo hanno detto in tanti, non lo ripe-terò io, che tra l'altro lo penso solo in parte. Ben vengano le unità di misura innovative, che se niente di ciò che conta davvero è misurabile qua è notte fonda e rimaniamo tutti a letto. Ma se l'unità di misura del fastidio è il grattare con la forchet-ta su un piatto e quella del calore è l'abbraccio dell'orso (che oltre a essere caldo, normalmente è pure letale), passiamo dall'interessante sproloquiare in modalità filosofi-ca-light alla farsa. Servirebbe più coraggio, servirebbe la capacità di meticciare le grandezze, intrec-ciandole: qualcuno che ci dicesse veramente quanto pesa la distanza da un amore; quanto la pressione di fare meglio (o fare più velocemente) ci dia motivazioni e quindi potenza; quanto calore serva, in anni difficili per il lavoro, per farsi forza.

Egregio. Sono organizzatore di corsi di autostima, mezzi

spirituali e mezzi no, mezzi filo-sofici e mezzo no, completamente a pagamento, quello sì. Le scrivo in forma anonima via e-mail. Non provi a rintracciarmi dall'indiriz-zo, non è il mio. Mi trovo in India in un internet cafè, ho trovato aperto l'account di posta di un cer-to Zamil Ehduli e le scrivo, prima di scrivere alla mia ex per insultar-la. Bè, sull'aereo ho trovato questo libro, Non si chiama vita privata perchè priva di significato, di Nevio Weskidini (edizioni Leoghepardi, 17 euro), che un po' mi destabiliz-za. Mi trovo spesso di fronte, du-rante questi seminari da me orga-nizzati in Asia, a giovini chiusi in loro stessi, depressi compensati, proiettati su una ricerca maniaca-le di significati che non troveranno in sé finchè non vedranno un po' di mondo. Io lo so bene, e infatti sta gente la conosco, la sfrutto e ci guadagno. Ma io sono io, e voi non siete un [cut].

Zamil Ehduli

Lei fa come crede, ed è uno di quelli che il bicchiere lo vede

sempre mezzo pieno perchè tanto da bere lo paga qualcun altro. Ma davanti a tanta aridità (e non baste-

rebbe Roiterski con l'idratantismo di cui si parlava mesi fa) penso a quanto mi scriveva tempo fa un ra-gazzo di Sdiriglio. “Ho ricominciato a studiare”, diceva, “piuttosto che non combinare nulla non sapendo di niente, non combinerò nulla sa-pendo di meccanica applicata”. Mi sembra un bel messaggio e lo ripro-porrei. Il provarci sempre, se non altro per passare il tempo in manie-ra poco lamentosa, è ciò che fa an-dare avanti il mondo. Il messaggio di Weskidini è potente, ma torna con insistenza su quanto detto da 4847576 autori prima di lui: è la vita privata a dare un senso alla vita, e il proprio orto interiore va coltivato e concimato. Sono d'accordo, ma è molto anche quello che accade per le strade, in mezzo alla gente, in mezzo alle storie generazionali. Le generazioni esistono, anche se in Italia si vuole fare finta di no per non mettere in discussione l'indivi-dualismo tipico dell'homo italicus. Un pensatore a me vicino mi diceva in tempi recenti che “l'uomo dopo un po' si stanca di fare la guerra ed impara a vivere assieme”. Ecco, as-sieme. Ce lo dice anche il finto Za-mil, che pure è una persona di [cut].

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È capitato a tutti di sfogliare una rivista e incontrare certe

interviste standard fatte ai perso-naggi famosi. Quali canzoni non devono mancare sul tuo i-pod? Se potessi campare mangiando una sola cosa, quale sarebbe? Tra gli abiti che hai nell’armadio, a quale non rinunceresti mai? Se dovessi andare su un’isola deserta e potessi portare con te un solo libro, quale sarebbe?

Io non posso fare a meno di pen-sare che sarei lentissima a scegliere e mi pentirei subito di ogni singola risposta data, ma per la domanda sul libro mi ritaglio sempre qual-che minuto in più. A chi si occupa di letteratura o a chi semplicemen-te considera leggere un fatto serio, l’ultima domanda sembrerà un mini quesito esistenziale. È un po’ come chiedere quale è il tuo libro preferito o quale è il tuo concetto di letteratura, è una roba tosta per la quale di norma non sarebbe tollera-bile un simile aut aut. Io però amo rimanere al gioco e dopo tutte le va-lutazioni del caso mi sono risposta che porterei con me Scar Tissue di Anthony Kiedis.

Scar Tissue, a chi non lo ha letto, apparirà come la classica biografia che un cantante più o meno detta al giornalista-ghostwriter di turno, in

questo caso Larry "Ratso" Sloman, e poi la manda alle stampe farcita di fotografie d’infanzia. Pur rima-nendo nell’ambito della non fiction, Scar Tissue sia allontana, e di molto, dai confini angusti della biografia. L’ingrediente segreto che rende speciale l’impasto del libro – com-posto principalmente da una storia di vita ai limiti dell’incredibile e da uno stile scrittorio discreto, che sci-vola via rapido anche perché privo

dei manierismi giornalistici di cui i libri delle celebrities in genere sono farciti – è l’introspezione. Questo libro bussa prepotentemente alla porta della letteratura vera soprat-tutto perché è un racconto steso da una persona che spesso si è ritrova-ta con gli occhi rivolti verso la sua anima. Kiedis non si premura di farcelo sapere, non è necessario: si vede, si legge, si vive. Finite le 453 pagine (quelle dell’edizione italiana Strade Blu Mondadori) non ti ricor-di le overdose, il sesso o i concerti, ti rimane in mente la forma mentis dell’autore-protagonista (e a questo punto non ti interessa davvero se Anthony Kiedis esista o meno nella realtà). A pagina 453 ti rimane sot-to le unghie la sua, condivisibile, visione del mondo, lasciata filtrare con obiettiva generosità - ed è una cosa che nutre.

E se devo proprio andare sull’iso-la deserta eviterei come la peste di portare con me il mio libro pre-ferito, I Fiori del Male: credo che durerei forse tre giorni prima di ar-rampicarmi su una palma per farla finita.

Interpretazioninon ufficialiScar Tissue,Anthony Kiedisdi MICHELA CAPRA

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Here,in the limbo of the gutter,

human imagination takes two separate images and transforms

them into a single idea.

Nei primi numeri di questa piccola rubrica, scrivevo

che “i personaggi delle graphic no-vel sono intrappolati in un limbo, una terra di mezzo tra il virtuale e l’attuale: la vita della parola e la morte dell’immagine intesa come realizzazione e chiusura. I perso-naggi delle GN, insomma, asso-migliano a fantasmi”. Il che, come leggete nel titolo, ha poi fornito la scusa di base per il nome-citazione Ghost World. Scott McCloud, nel 1992, parecchi anni prima di Jim-my Corrigan e Black Hole insomma, ha scritto un manuale di – niente più e niente meno che – semiotica del fumetto. Lui la chiama “l’arte invisibile” e l’idea è la stessa: una “silent dance between the seen and the unseen”.

Ghost WorldUnderstanding Comics,di Scott McClouddi MARINA PIERRI

Per McCloud il “gutter” è lo spa-zio bianco tra i pannelli statici ed è l’anima dell’arte del fumetto, ma anche in concetto chiave attorno a cui ruota la sua dissertazione. In effetti, si tratta di una cifra unica e peculiare: il cinema offre, ugual-mente, fotogrammi in successione (come i cartoni animati) ma quel luogo vacante è soppresso dalla percezione che unifica in manie-ra istantanea diverse immagi-ni – fenomeno definito “closure” nell’accezione di completamento. Conservandolo, invece, il fumet-to, bidimensionale per eccellenza, crea nella mente del lettore non solo una terza, ma una quarta dimen-sione. Se la vista viene chiamata in causa dalle immagini (che, come spiegavo all’esordio della rubrica, sono “totali” e “chiuse”), lo spazio bianco permette la generazione di un contesto comprensivo dei colori, suoni e sapori convenuti attraverso stilemi classici come le onomato-pee, o le transizioni. Il risultato è

un tipo di co-creazione attiva della storia che richiede tutti e cinque i sensi, unica nel suo genere e diffe-rente da tutte le altre arti.

Se a questo punto vi state chie-dendo se io “abbia mangiato un vocabolario” (così si dice dalle mie parti, almeno, quando qualcuno utilizza un repertorio di parole for-bite), la risposta è si. Understanding Comics è un vocabolario e qualco-sa di più: è un immagin-ario, un “pictionary” dal momento che, per la sua sistematizzazione, McCloud utilizza il mezzo stesso in maniera egregia. Non è stato il primo, na-turalmente, a tentare l’impresa: con autorità forse maggiore, Will Eisner, il creatore di The Spirit, l’ha fatto nel 1985 e ci ha provato anche Matt Madden, più o meno, con 99 Ways To Tell a Story.

Comunque, come accade con molti tentativi di creare una teoria comprensiva e totale, leggendo Un-derstanding Comics a volte vengono i brividi. Il salto è lungo per defini-zione e l’azzardo filosofico, e stori-co, notevole. Ciò non toglie che il lavoro vada preso per quello che è: il secondogenito della necessità di legittimare un mezzo di espressio-ne esecrato, per antonomasia, dagli intellettuali. Ciò non toglie che il libro sembri rivolgersi proprio a noi che già i fumetti li amiamo: non è l’evangelizzazione l’obiettivo, ma l’analisi e l’autocoscienza.

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Ci sono due modi per raccon-tare storie: la noiosa veri-

tà e la mirabolante esagerazione dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una cari-catura. Wittgenstein (yawn) diceva che fare una caricatura non è altro che privilegiare e mettere l’accen-to su una parte in rapporto con il tutto, creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’assim-metria. L’asimmetria fa ridere e fa pensare, perché non è regolare, dunque buffa, e va messa a posto gestalticamente con la propria te-sta. L’iperbole, la storia esagerata, segue esattamente questa dinami-ca: è divertente e fa lavorare il cer-vello. Fa ridere e fa pensare.

Ci sono poi due ruoli che si al-

Jim Watson e Francis Crick sono noti alla storia per essere gli

scopritori della struttura del DNA. In realtà dovrebbero essere noti per la loro sfacciata fortuna. Watson era uno scemo, ma un giorno con un gratta e vinci vinse la Guinea, una laurea ed un posto di dottorato. Crick era un gran losco, aveva un posto da ricercatore precario e la laurea l’aveva ottenuta pochi anni prima copiando dai pizzini. Si in-contrarono in una birreria di Cam-bridge, Watson, americano, stava facendo un erasmus in Inghilterra.

Quando i due entrarono nel la-boratorio il capo disse loro “oh, fate un po’ quello che vi pare ma NON studiate il DNA. Perché siete due

IperboloserRosalind Franklindi FABIO PARIS

ternano nelle storie: la banalità dei vincitori e il sorprendente spessore dei perdenti. Le storie dei vincitori sono retroattivamente incastrate nel rasoio di Occam: la soluzione è spesso la più semplice e ovvia. Quando le leggi, sembra che tutto sia andato liscio, che sia succes-so quello che doveva succedere e niente altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che vinca. Non si scappa.

Le storie dei perdenti invece sono più belle perché i perdenti, per tira-re acqua al loro mulino, si raccon-tano in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti ogget-tivi. Trovano la verità dentro di sé,

non fuori, come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione.

E la verità soggettiva è infinita-mente più interessante: come di-ceva qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di an-noiarvi ancora di più), con sogget-tivo non si intende un attributo re-lativistico ma una appropriazione della verità in termini esistenziali. La verità per me.

In questa rubrica accoppieremo felicemente questi due fenomeni, raccontando storie esagerate di grandi perdenti. Quel ganzo di Wal-ter Benjiamin ha detto che la storia è il bottino dei vincitori. L’iperbole, allora, è la risorsa, forse l’ultima, dei perdenti.

inetti e perché lo sta già studiando altra gente e non dovete rompere i coglioni”. Allora i due iniziarono ad investigare il DNA. Non ci capivano nulla e chiesero un spiegazioni a chi faceva ricerca vera, tra cui Ro-salind Franklin.

Rosalind aveva speso infatti tutta la sua esistenza inseguendo quella immagine ai raggi X del DNA che avrebbe chiarito la sua struttura e, quindi, un po’ tutto il mistero della vita. Finalmente ci riuscì e si con-cesse, per festeggiare la scoperta del millennio, un chinotto. Men-tre uscì Crick entrò nel laborato-rio, guardò in una busta dove c’era scritto “segretissimo” e rubò la foto. Ancora i due non ci capivano nul-

la e chiesero a Maurice Wilkins, il capo di Rosalind, che ne pensava della loro foto, accollandosi i meriti mentre Rosy cercava la busta della sua vita in tutti i cassetti.

Finì che Crick chiedendo un po’ qua e un po’ si fece fare un model-lo del DNA dalla morosa perché, facendo la sarta, aveva una buona manualità (è vero!), con Watson presentò i dati a Nature, mettendo in CC anche Maurice, mentre Rosy ancora cercava sotto al tappeto. E appena Rosy fu stroncata da una leucemia dovuta ai troppi raggi X assorbiti negli anni passati ad in-seguire quella foto, Watson, Crick e Wilkins, vinsero il premio Nobel per la scoperta del DNA.

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Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semioti-ca, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fonda-tore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che legge.

Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiun-to traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno con-cesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.

Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo conti-nuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco di cose. Attualmente la posizione più quotata per guar-dare il mondo le sembra a testa in giù.

Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamici-tà. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 te-levisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in Sud Africa, Austria e Belgio. L'acronino di questi tre pae-si è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è sull'orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto.

Michel Capra, She lives on Love Street, lingers long on Love Street… Nata in provincia di Varese nell'aprile 1983, ha trascorso gran parte dell'infanzia sulle spiag-gie liguri. Ha frequentato il liceo linguistico, dove ha iniziato a conoscere e amare la letteratura americana. Alla facoltà di Lettere Moderne ha incontrato la lettera-tura francese, innamorandosi della sua poesia. Laurea-

ta in Filologia Romanza, è appassionata lettrice di ogni forma di scrittura medievale. Compone racconti sin da piccina e vive immersa nel verde insieme al marito e ai suoi tre gatti.

Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il po-sto a nuove manie.

Stefano Fanti è fuggito da Milano e ora vive nella bu-colica provincia alessandrina. Scribacchino per varie testate online e non, si occupa principalmente di mu-sica, letteratura ed ambiente. Soffre di una grave di-pendenza da serie tv che lo porta a confondere Randy Hickey con Randy Marsh. Ama, tra le altre cose, fanta-scienza, horror e grindcore.

Alex Grotto è la conseguenza di un'adolescenza sba-gliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo di musica su Vitaminic. E' sovrappeso, si veste malissi-mo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può permettersi.

Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e stu-dia cultura editoriale all’Università Statale di Milano. Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna cono-scenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare

Contributi da:

n. 17 / Novembre 2010

[email protected]

www.finzionimagazine.it

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una laurea a detta di molti “inutile”.

Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodo-rante. Performer di incauta protervia, aruspice della si-gnificazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi al vostro personale sconcerto teoretico.

Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presen-ta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’au-tenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamen-te dalla nascita.

Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore di autostrade nonché massimo esperto in campo in-ternazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate, piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte dei cessi nei centri commerciali.

Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evi-tare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Dopo un passato da sedicente esperto di nanotecnologie ora gira il mondo andando di miniera in miniera. Le sue miniere preferite sono quelle di litio.

Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe perso-nale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, fre-quenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri

nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leg-gendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conse-guenza, alle volte si annoia tantissimo.

Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità medianiche con l'obiettivo di essere invitato a Misteri e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un giorno diventerà anche un templare così sposerà la fi-glia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto saltellando allegramente tra le piramidi.

Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del por-tale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film e serie televisive americane.

Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Il suo primo libro si chiama La luna è girata strana (Zandegù, 2008). Il suo secondo libro si chiama sbriciolu(na)glio per ragioni che potete pure chiedergliele, ma tanto vi risponde a caso. Il suo gatto invece si chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’. Sta abbastanza su internet: tutte le sue cose, sbriciolu(na)glio compreso, sono suhttp://simone-rossi.it

Andrea Sesta ha capito che gli piaceva scrivere quel giorno che alle elementari ha trovato un modulo per il presito dei libri della biblioteca della scuola, e l’ha riem-pito di tutte le parolacce che conosceva. La situazione è andata peggiorando quando gli hanno detto che su internet poteva avere un blog tutto suo. C’è chi dice che le suppliche di sua madre affinché mantenesse un qual-che residuo di contegno abbiano funzionato. Continua a studiare, e si è anche un po' laureato.

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