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N. 3/2013 MARZO 1 § Anticorruzione: adottate le linee guida per la redazione del Piano Nazionale Comitato Interministeriale, Linee indirizzo per la predisposizione del PNA § Mepa e acquisti in economia Corte dei Conti, sez. contr. Lombardia, deliberazione 92/2013 § Approvato il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici Consiglio dei Ministri, schema di codice di comportamento dei dipendenti pubblici

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§ Anticorruzione: adottate le linee guida per la redazione del Piano Nazionale Comitato Interministeriale, Linee indirizzo per la predisposizione del PNA § Mepa e acquisti in economia

Corte dei Conti, sez. contr. Lombardia, deliberazione 92/2013 § Approvato il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici Consiglio dei Ministri, schema di codice di comportamento dei dipendenti pubblici

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Anticorruzione: adottate le linee guida per la redazione del Piano Nazionale Comitato Interministeriale, Linee indirizzo per la predisposizione del PNA

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Mepa e acquisti in economia Corte dei Conti, sez. contr. Lombardia, deliberazione 92/2013 Approvato il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici Consiglio dei Ministri, schema di codice di comportamento dei dipendenti pubblici

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Revisori enti locali: chiarimenti sulle nuove modalità di scelta Ministero dell’interno, comunicato 8 marzo 2013

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Segretari: devono effettuare un controllo “preventivo” di legittimità degli atti Corte dei Conti, sez. III giur. centrale appello, sentenza n. 40/2013

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Incarichi retribuiti dipendenti p.a.: illegittima l’autorizzazione successiva

Tar Lombardia, Milano, sez. IV, sentenza 614/2013

OIV: revisione dei requisiti e procedimento per la nomina Civit, delibera n. 12/2013

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Scuola materna paritaria: limiti alla derogabilità dei presupposti strutturali Tar veneto, sez. III, sentenza 371/2013

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Privacy: illecita la comunicazione in forma nominativa degli straordinari Garante privacy, newsletter n. 370 del 1° marzo 2013 Privacy: risarcimento in caso di trattamento di dati sensibili eccedenti la finalità del trattamento Tribunale di Matera, sezione distaccata di Pisticci, sentenza 165/2013

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Responsabilità solidale: forniti ulteriori chiarimenti dall’Agenzia delle Entrate Agenzia delle Entrate, circolare 2/E/2013

Non è possibile esercitare il potere di autotutela dopo la stipulazione del contratto Tar Lazio, sentenza n. 2432/2013

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Società: forniti interessanti chiarimenti sui rapporti economico-finanziari con l’ente socio Corte dei Conti, sez. contr. Lombardia, deliberazione 66/2013

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Anticorruzione: adottate le linee guida per la redazione del Piano Nazionale Comitato Interministeriale, Linee indirizzo per la predisposizione del PNA di Federica Caponi Il Comitato Interministeriale (istituito con d.p.c.m.16 gennaio 2013) il 12 marzo 2013 ha adottato le linee guida per l’approvazione del piano nazionale anticorruzione (PNA). Tali linee guida costituiscono lo strumento di supporto per la redazione da parte del Dipartimento della Funzione pubblica del piano nazionale anticorruzione che dovrà essere approvato dalla Civit. L’articolo 1, comma 4 della legge 190/2012 infatti ha stabilito che il Dipartimento della funzione pubblica, dovrà predisporre seguendo le linee guida approvate dal Comitato Interministeriale il Piano nazionale anticorruzione. Le singole amministrazioni dovranno approvare il piano triennale e inviarlo al Dipartimento della funzione pubblica entro il 31 marzo. Per quanto riguarda gli enti locali, si ricorda che l’articolo 1, comma 60 della legge 190/2012 ha stabilito che gli adempimenti e i relativi termini avrebbero dovuto essere regolamentati in un atto approvato dalla Conferenza unificata entro il 28 marzo 2013. Dal dato testuale delle disposizioni contenute nella citata legge 190/2012, parrebbe che gli enti locali, in assenza dell’intesa della conferenza unificata, non dovessero approvare il piano triennale anticorruzione entro il 31 marzo prossimo. Tale termine dovrebbe interessare direttamente le amministrazioni centrali, mentre non troverebbe immediata applicazione nei confronti di regioni, enti locali e altri enti in loro controllo, per i quali "gli adempimenti e i relativi termini saranno definiti attraverso le intese in sede di Conferenza Unificata entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge n. 190 del 2012”, come previsto dall’articolo 1, comma 60, legge 190/2012. Si ricorda, inoltre, che ai sensi dei commi 6 e 7 della citata legge, gli enti locali possono avvalersi anche del supporto tecnico e informativo del Prefetto al fine di assicurare che i piani triennali che devono essere approvati dai singoli enti rispettino le linee guida contenute nel Piano nazionale anticorruzione. Sembra opportuno rilevare che gli enti locali dovrebbero comunque iniziare ad attivarsi per la verifica di eventuali situazioni critiche, con valutazioni e disamina delle problematiche da effettuare collegialmente tra segretario e dirigenti responsabili dei vari servizi, nonostante non siano obbligati formalmente ad approvare il piano triennale entro il 31 marzo. Le attività che dovranno essere attuate dagli enti in concreto (indipendentemente dall’adozione formale del piano triennale) sono, infatti, tra le altre:

individuazione delle attività più esposte al rischio di corruzione, a partire da quelle ritenute

ex lege maggiormente delicate (autorizzazione o concessione, scelta del contraente

nell’affidamento di lavori, forniture e servizi, concessione ed erogazione di sovvenzioni,

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contributi, sussidi, ausili finanziari, concorsi e prove selettive per l’assunzione del

personale);

monitoraggio, per ciascuna attività, del rispetto dei termini di conclusione del

procedimento;

introduzione di adeguate forme interne di controllo specificamente dirette alla prevenzione

e all’emersione di vicende di possibile esposizione al rischio corruttivo;

adozione di adeguati sistemi di rotazione del personale addetto alle aree a rischio, con

l’accortezza di mantenere continuità e coerenza degli indirizzi e le necessarie competenze

delle strutture;

attivazione effettiva di misure a tutela del dipendente che sia venuto a conoscenza di

condotte illecite, ex comma 51 legge 190/2012;

adozione delle misure necessarie all’effettiva attivazione della responsabilità disciplinare

dei dipendenti, in caso di violazione dei doveri di comportamento, ivi incluso il dovere di

rispettare le prescrizioni contenute nel Piano triennale;

adozione di misure di vigilanza in materia di inconferibilità e incompatibilità degli

incarichi (ex commi 49-50 legge 190/2012), anche successivamente alla cessazione del

servizio o al termine dell’incarico (ex comma 16-ter, art. 53 d. lgs. 165/2001);

adozione di misure di verifica dell’attuazione delle disposizioni di legge in materia di

autorizzazione di incarichi esterni, ex comma 42 legge 190/2012;

adozione delle misure in materia di trasparenza, ivi comprese l’adozione del Piano della

Trasparenza (come articolazione dello stesso Piano triennale anticorruzione), l’attivazione

del sistema di trasmissione delle informazioni al sito web dell’amministrazione, del sistema

delle sanzioni e del diritto di accesso civico;

adozione di specifiche attività di formazione del personale, con attenzione prioritaria al

responsabile anticorruzione dell’amministrazione e ai dirigenti o responsabili

amministrativi competenti per le attività maggiormente esposte al rischio di corruzione.

Tali verifiche e valutazioni si ritiene debbano essere attivate dagli enti quanto prima, considerando che devono essere attuate in coerenza con il nuovo sistema dei controlli, già in vigore da gennaio. Sarebbe quanto meno poco coerente attuare i puntuali e peculiari controlli disciplinati dal d.l. 174/2012 senza tener conto dei vincoli posti dalla legge anticorruzione, avendo quale unica

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giustificazione la non obbligatorietà per gli enti locali dell’adozione del piano triennale anticorruzione.

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Mepa e acquisti in economia Corte dei Conti, sez. contr. Lombardia, deliberazione 92/2013 di Manuela Ricoveri Gli enti locali, per l’affidamento di appalti pubblici di importo inferiore alla soglia comunitaria, e quindi anche per gli affidamenti in economia ex art 125 del Codice dei contratti, devono obbligatoriamente ricorrere ai mercati elettronici. L’unica ipotesi in cui può attivarsi una procedura autonoma di acquisizione è quella in cui il bene e/o servizio necessitato non sia reperibile in tali mercati, ovvero, pur disponibile, si appalesi – per mancanza di qualità essenziali – inidoneo rispetto alle necessità dell’amministrazione procedente. E’ quanto affermato dalla Corte dei Conti, sezione controllo della Lombardia, con la deliberazione in commento con la quale ha risposto ad un Comune che chiedeva indicazioni in merito alla corretta interpretazione della novella normativa recata dal d.l. 52/2012 – convertito in legge 94/2012 – in tema di acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria. In particolare l’ente ha chiesto se l'espressione "acquisti di beni e servizi sotto soglia" comprenda anche gli acquisti in economia disciplinati dall’articolo 125 del codice dei contratti pubblici. Dal 1° luglio 2007, la Finanziaria 2007 ha previsto l'obbligatorietà dell'utilizzo del MePA per le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, ad esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie. Il d.l. 52/2012, se da un lato ha ribadito l’obbligo di ricorrere al MePA per le amministrazioni statali, centrali e periferiche, dall’altro lato ha imposto a tutte le Amministrazioni come definite ai sensi dell’art. 1, d.lgs. 165/2001 (ivi compresi, conseguentemente, gli enti locali), di ricorrere al MePA o ad altri mercati elettronici previsti dall’art. 328 dpr 207/2010, per l’acquisto di prodotti e/o servizi sotto soglia comunitaria. Dunque, l’unica discrezionalità lasciata alle “amministrazioni diverse da quelle statali” è quella di poter scegliere “tra le diverse tipologie di mercato elettronico richiamate dall’art. 328 del d.P.R. 207/2010 e, segnatamente, il mercato elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante e quello realizzato dalle centrali di committenza di riferimento di cui all’art. 33 del codice dei contratti”. Il Mercato Elettronico della P.A. (MePA), realizzato da Consip per conto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, è un mercato digitale per la Pubblica Amministrazione, in cui le p.a. registrate possono ricercare, confrontare e acquisire i beni e i servizi - per valori inferiori alla soglia comunitaria - proposti dalle aziende fornitrici abilitate a presentare i propri cataloghi sul sistema. Consip definisce in appositi bandi le tipologie di beni e servizi e le condizioni generali di fornitura, gestisce l'abilitazione e la registrazione dei Fornitori e delle Pubbliche Amministrazioni. Nel Mercato Elettronico, una volta individuati all'interno dei cataloghi i beni di interesse, è possibile acquistare tramite Ordine Diretto o tramite Richiesta d'Offerta. L' Ordine Diretto permette di acquisire sul Mercato Elettronico i prodotti/servizi con le caratteristiche e le condizioni contrattuali già fissate nei singoli bandi e visualizzabili sui cataloghi on line. E' sufficiente scegliere gli articoli presenti sul catalogo, verificare le relative condizioni generali di fornitura, compilare il modulo d'ordine indicando la quantità e il luogo di consegna e sottoscriverlo con firma digitale.

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Al termine della procedura, l'ordine firmato digitalmente è inviato automaticamente al Fornitore che lo evade nei termini e alle condizioni previste nelle condizioni generali di fornitura presenti in ciascun bando di abilitazione. Con la Richiesta d'offerta (Rdo), invece, l'Amministrazione richiede prezzi e condizioni migliorative dei prodotti disponibili a catalogo, a fornitori abilitati al Mercato Elettronico e selezionati sulla base dei criteri di scelta stabiliti dall'amministrazione stessa. Le prime interpretazioni sulla natura vincolistica dei recenti interventi che hanno profondamente innovato il quadro normativo relativo agli acquisti di beni e servizi della p.a. sono state fornite dalla Corte dei Conti, sezione controllo delle Marche, con la deliberazione n. 169 del 29 novembre 2012. Secondo la Corte, dalle recenti disposizioni introdotte dalla “spending review” emerge chiaramente un favor del legislatore per le modalità di acquisto effettuate tramite sistemi di e-procurement che, nell’ambito della complessiva operazione di razionalizzazione del sistema degli acquisti di beni e servizi della p.a., consentono all’amministrazione di:

entrare in contatto con una più ampia platea di fornitori;

assicurare una maggiore trasparenza della procedura d’acquisto, attesa l’automaticità del

meccanismo di aggiudicazione con conseguente riduzione dei margini di discrezionalità

dell’affidamento;

garantire la tracciabilità dell’intera procedura di acquisto.

Ciò posto, la Sezione Marche, ha ribadito l’impossibilità di rivolgersi al mercato libero anche in presenza di beni/servizi a condizioni contrattuali più favorevoli. Dello stesso tenore la deliberazione della Corte dei Conti Lombardia, secondo cui anche “gli acquisti in economia devono esaurirsi ed effettuarsi obbligatoriamente all’interno dei mercati elettronici”. Secondo i magistrati contabili, infatti, l’art. 328, c. 4, lett. b) del Regolamento prevede la possibilità di acquistare beni e/o servizi sotto soglia comunitaria ricorrendo anche alle procedure di acquisto in economia, ex artt. 125 e ss. d.lgs. 163/2006, ovviamente con i limiti di prezzo e quantità previsti da tali norme e nel rispetto degli autovincoli imposti dalla stessa Amministrazione. Si osserva, tuttavia, che il dpr 207/2010 disciplina le acquisizioni sotto soglia e quelle in economia in due capi distinti (rispettivamente capi I e II del Titolo V). Pertanto le Pubbliche Amministrazioni che hanno necessità di procedere ad acquisizioni sotto soglia comunitaria di beni e servizi sono tenute a verificarne la presenza sul MePa e, se presenti, dovranno obbligatoriamente ricorrere all’acquisizione su tale piattaforma, a meno che il bene/servizio presente sul mercato elettronico non sia coerente con le necessità della p.a. acquirente, in quanto privo di requisiti tecnici essenziali. I magistrati contabili hanno evidenziato che tale specifica evenienza dovrà essere prudentemente valutata e dovrà trovare compiuta evidenza nella motivazione della determinazione a contrattare. Pertanto, nella fase amministrativa di determinazione a contrarre, l’ente, da un lato, dovrà evidenziare le caratteristiche tecniche necessarie del bene e della prestazione, di avere effettuato il previo accertamento della insussistenza degli stessi sui mercati elettronici disponibili, e, ove

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necessario, la motivazione sulla non equipollenza/sostituibilità con altri beni/servizi presenti sui mercati elettronici. Si ricorda, infatti, che i contratti stipulati in violazione degli obblighi di approvvigionamento attraverso gli strumenti messi a disposizione da Consip (tra i quali, oltre alle convenzioni quadro, figura anche il MEPA) sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa. Si segnala, per completezza, l’ulteriore interpretazione restrittiva fornita dalla Corte dei Conti, sezione controllo delle Lombardia, con la deliberazione n. 89 del 14 marzo 2013, secondo cui l’obbligo di ricorrere al mercato elettronico o agli altri strumenti elettronici per l’acquisto di beni e servizi di importo inferiore alla soglia comunitaria non ammette deroghe e/o eccezioni di sorta

anche in relazione alle dimensioni demografiche dell’ente. Con ciò, la Corte ha ribadito l’obbligatorietà del ricorso al MePa ovvero al mercato elettronico creato ad hoc dalla stazione appaltante o quello realizzato da centrali di committenza ai sensi dell’articolo 33 del codice dei contratti pubblici, anche per i comuni montani o al di sotto comunque dei 1.000 abitanti, nonostante l’articolo 26, comma 3 della Legge 488/1999 preveda che tali disposizioni “non si applicano ai comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e ai comuni montani con popolazione fino a 5.000 abitanti” . Si segnala che tali tematiche verranno approfondite nel corso del seminario di studio SELF MEPA: obblighi e modalità operative – Firenze 11 aprile 2013

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Approvato il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici Consiglio dei Ministri, schema di codice di comportamento dei dipendenti pubblici di Alessio Tavanti Il Consiglio dei Ministri l'8 marzo scorso ha approvato in via definitiva un regolamento contenente

il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici ancora in attesa di pubblicazione in Gazzetta

Ufficiale, il quale interverrà a abrogare il precedente decreto del Ministro per la funzione pubblica

28 novembre 2000 recante “Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche

amministrazioni”.

Il provvedimento, attuativo della legge anti-corruzione n. 190/2012, irrigidisce i codici

comportamentali già esistenti nelle pubbliche amministrazioni, in linea con le raccomandazioni

OCSE in materia di integrità ed etica pubblica, indica i doveri di comportamento dei dipendenti

delle PA e prevede che la loro violazione è fonte di responsabilità disciplinare.

Il regolamento si applicherà alla totalità dei pubblici dipendenti, nonché ai dirigenti e ai consulenti

degli organi politici e ai collaboratori e consulenti della PA e dei suoi fornitori a qualunque titolo

(art. 2)

Di seguito un commento alle principali disposizioni contenute nel regolamento.

Regali, compensi e altre utilità:

Il codice ha previsto il divieto per il dipendente di chiedere e/o accettare, per sé o per altri, regali

compensi o altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore anche sotto forma di sconto connessi al

compimento di attività del proprio ufficio, o alle relazioni interne al rapporto di lavoro.

La disposizione individua, in via indicativa, il valore di tali beni in euro 100, indicando come

misura massima da stabilire da parte di ciascuna amministrazione, nel proprio piano

anticorruzione, l’importo massimo di euro 150.

I regali e le altre utilità comunque ricevuti dovranno essere immediatamente restituiti da parte del

dipendente.

Il dipendente non potrà accettare incarichi di collaborazione da parte di soggetti che abbiano, o

abbiano avuto nei due anni precedenti, interessi economici connessi alle decisioni o alle attività

dell’ufficio di appartenenza.

Il responsabile dell’ufficio dovrà vigilare sulla corretta applicazione di tali disposizioni.

Partecipazione ad associazioni e organizzazioni

Il dipendente dovrà comunicare, al responsabile dell’ufficio di appartenenza, la propria adesione o

appartenenza ad associazioni e organizzazioni (esclusi partici politici e sindacati) i cui ambiti di

interesse possano interferire con lo svolgimento delle attività dell’ufficio.

Comunicazione degli interessi finanziari e conflitti d’interesse

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Il dipendente pubblico dovrà, all’atto dell’assegnazione all’ufficio, comunicare tutti i rapporti di

collaborazione diretti o indiretti avuti con soggetti privati nei 3 anni precedenti e in qualunque

modo retribuiti, oltre all’eventuale persistenza dei medesimi (ancorché sussistenti con il coniuge, il

convivente, i parenti e gli affini entro il secondo grado) o “interferenza” relativamente alle pratiche

affidategli.

In quest’ultimo caso il dipendente dovrà astenersi dal prendere decisioni o svolgere attività

inerenti le sue mansioni in situazioni di conflitto di interessi anche non patrimoniali, derivanti

dall'assecondare pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici.

Obbligo di astensione

II dipendente dovrà, altresì, astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che

possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado del

coniuge o di conviventi, oppure di persone o organismi con i quali abbia rapporti di

frequentazione abituale o altro rapporto preferenziale o in ogni caso condizionato dalla posizione

personale propria o del coniuge, nonché in presenza di gravi ragioni di convenienza

In merito all’estensione dovrà decidere il responsabile dell’ufficio.

Prevenzione della corruzione

Nel rispetto delle misure contenute nel piano anticorruzione, il dipendente dovrà prestare la

propria collaborazione al responsabile a tal fine designato anche attraverso la segnalazione di

eventuali illeciti amministrativi di cui venga a conoscenza.

Tracciabilità e trasparenza

Il dipendente dovrà garantire l’adempimento degli obblighi di trasparenza totale collaborando al

reperimento e trasmissione dei dati soggetti a pubblicazione sul sito istituzionale.

Dovranno essere assicurate la tracciabilità e la trasparenza dei processi decisionali adottati, anche

attraverso un adeguato supporto documentale.

Regole di Comportamento

a. nei rapporti privati

Il dipendente pubblico, nei rapporti privati ivi comprese le relazioni extralavorative

con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, non deve abusare in alcun

modo della posizione lavorativa ricoperta al fine di ottenere utilità non spettanti e

non deve assumere comportamenti che possano ledere l’immagine

dell’amministrazione.

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b. in servizio

Nell’ottica del rispetto dei termini del procedimento amministrativo il dipendente,

salvo giustificato motivo, dovrà adottare i comportamenti idonei a non ritardare

decisioni di propria spettanza tali da far ricadere le relative incombenze su altri

dipendenti.

I permessi di astensione dal lavoro dovranno essere utilizzati nel rispetto della

disciplina normative e contrattuale vigente.

Il dipendente non deve utilizzare a fini privati materiale, attrezzature, linee

telefoniche, mezzi di trasporto di cui può disporre esclusivamente per ragioni

d’ufficio.

c. nei rapporti con il pubblico il dipendente deve:

essere riconoscibile attraverso l’esposizione visibile del badge o altro

supporto identificativo;

rispondere alla corrispondenza telefonica, cartacea e elettronica, in modo

accurato e completo;

indirizzare l’interessato presso il funzionario o l’ufficio competente qualora

non possa provvedere direttamente,

fornire spiegazioni in ordine al comportamento proprio e dei dipendenti

dell’ufficio dei quali abbia la responsabilità o il coordinamento;

salvo diverse esigenze di servizio, rispettare l'ordine cronologico nella

trattazione delle pratiche e non rifiutare le prestazioni a cui sia tenuto con

motivazioni generiche;

rispettare gli appuntamenti con i cittadini e risponde senza ritardo ai loro

reclami.

astenersi da dichiarazioni pubbliche che siano pregiudizievoli dell'immagine

dell'amministrazione precisando, in ogni caso, che le dichiarazioni sono

effettuate a titolo personale, quando ricorra tale circostanza. Il dipendente

tiene informato il responsabile dell’ufficio dei propri rapporti con gli organi

di stampa.

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fornire informazioni e notizie relative ad atti o operazioni amministrative in

corso o conclusi solo nelle ipotesi previste dalle disposizioni di legge e

regolamentari in materia di accesso, informando sempre gli interessati della

possibilità di avvalersi anche dell’URP, senza assumere impegni né

anticipare l'esito di decisioni o azioni proprie o altrui inerenti all'ufficio, al di

fuori dei casi consentiti;

rilasciare copie ed estratti di atti o documenti secondo la sua competenza,

con le modalità stabilite dalle norme in materia di accesso e dai regolamenti

della propria amministrazione.

osservare il segreto d'ufficio e la normativa in materia di tutela e trattamento

dei dati personali e, qualora sia richiesto oralmente di fornire informazioni,

atti, documenti non accessibili tutelati dal segreto d'ufficio o dalle

disposizioni in materia di dati personali, informare il richiedente dei motivi

che ostano all'accoglimento della richiesta.

In tal caso, qualora non sia competente a provvedere, deve trasmettere tempestivamente la richiesta al responsabile dell'ufficio per l'inoltro all'ufficio competente della medesima amministrazione.

Qualora il dipendente svolga attività lavorativa in un'amministrazione che fornisce

servizi al pubblico si preoccupa del rispetto degli standard di qualità e di quantità

fissati dall'amministrazione anche nelle apposite carte dei servizi, nonché di

assicurare la continuità del servizio e di consentire agli utenti la scelta tra i diversi

soggetti erogatori fornendo loro informazioni sulle modalità di prestazione del

servizio e sui livelli di qualità.

Disposizioni particolari per i dirigenti

Le disposizioni del presente codice trovano applicazione anche nei confronti dei dirigenti, o dei

soggetti che svolgono funzioni equiparate ai dirigenti operanti negli uffici di diretta collaborazione

delle autorità politiche, e dei responsabili di P.O.

In proposito, nonostante la disposizione faccia espresso riferimento “agli uffici di diretta

collaborazione delle autorità politiche” è da ritenere che con riferimento agli enti locali la disposizione

sia estensivamente applicabile ai soggetti incaricati ex art. 90 e 110 del Tuel.

Per i dirigenti è in particolare previsto:

l’obbligo di comunicare, prima di assumere le sue funzioni, all’amministrazione le

partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che possono costituire situazioni di

conflitto d’interesse con le funzioni che svolgono dichiarando, a tal fine, le eventuali attività

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politiche, professionali o economiche esercitate da parenti, affini entro il secondo grado, o

conviventi che li pongano in contatti frequenti con l'ufficio che dovrà dirigere o che siano

coinvolti nelle decisioni o nelle attività inerenti all'ufficio.

l’obbligo di fornire informazioni sulla propria situazione patrimoniale e tributaria.

di tenere un comportamento leale, trasparente e imparziale nei confronti di colleghi,

collaboratori e destinatari dell'azione amministrativa avendo cura che le risorse assegnate

al suo ufficio siano utilizzate per finalità esclusivamente istituzionale e non per esigenze

personali.

di curare il benessere organizzativo, favorendo l’instaurarsi di rapporti positivi tra

collaboratori, la circolazione di informazioni, la formazione e l’aggiornamento del

personale, l’inclusione e la valorizzazione delle differenze di genere, età e condizioni

personali.

di assegnare l'istruttoria delle pratiche sulla base di un'equa ripartizione del carico di

lavoro, tenendo conto delle capacità, delle attitudini e della professionalità del personale a

sua disposizione.

di affidare incarichi aggiuntivi in base alla professionalità e, per quanto possibile, secondo

criteri di rotazione.

di fissare le riunioni che prevedono la presenza dei collaboratori tenendo conto delle

flessibilità di orario accordate e dei permessi orari previsti da leggi, regolamenti e contratti

collettivi, assicurando la tendenziale conclusione delle stesse nell'ambito dell'ordinario

orano di lavoro.

di svolgere la valutazione del personale assegnato alla struttura cui è preposto con

imparzialità e rispettando le indicazioni ed i tempi prescritti.

di intraprendere con tempestività le iniziative necessarie ove venga a conoscenza di un

illecito, ai fini dell’accertamento di responsabilità disciplinare, amministrativa o penale.

Nel caso riceva segnalazione di illecito da parte di un dipendente, adotta ogni cautela di

legge affinché sia tutelato il segnalante e non sia indebitamente rilevata la sua identità nel

procedimento disciplinare (articolo 54-bis d.lgs. 165/2001).

di difendere anche pubblicamente l'immagine della pubblica amministrazione, avendo cura

di evitare il diffondersi di notizie non rispondenti al vero quanto all'organizzazione e

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favorendo la conoscenza di buone prassi al fine di rafforzare il senso di fiducia nei

confronti dell'amministrazione.

Tutti gli obblighi di comunicazione devono essere assolti dal dirigente mediante comunicazione

all'autorità di vertice dell'amministrazione.

Contratti ed altri atti negoziali

Nella conclusione di accordi e negozi e nella stipulazione di contratti per conto

dell'amministrazione, nonché nella fase di esecuzione degli stessi, il dipendente non deve ricorrere

alla mediazione di terzi, né corrispondere o promettere ad altri utilità a titolo di intermediazione,

né per facilitare o aver facilitato la conclusione o l'esecuzione del contratto, salvo ipotesi specifiche

di ricorso all’attività di mediazione professionale.

Il dipendente non può concludere, per conto dell'amministrazione, contratti di appalto, fornitura,

servizio, finanziamento o assicurazione con imprese con le quali abbia stipulato contratti a titolo

privato o ricevuto altre utilità, fatti salvi i regali d'uso consentiti, nel biennio precedente.

Nel caso l’amministrazione concluda tali contratti il dipendente che si trovi nelle sudette

condizioni dovrà astenersi dal partecipare all'adozione delle decisioni e alle attività relative

all'esecuzione del contratto, redigendo verbale scritto di tale astensione da conservare agli atti

dell'ufficio.

Il dipendente che concluda accordi o negozi ovvero stipuli contratti a titolo privato con persone

fisiche o giuridiche private con le quali abbia avuti i suddetti rapporti per conto

dell’amministrazione, ne informa per iscritto il dirigente dell'ufficio.

Nel caso in cui le predette situazioni riguardino un dirigente, questi dovrà informare per iscritto il

dirigente responsabile della gestione del personale.

Il dipendente che nel corso di procedure negoziali, nelle quali sia parte l'amministrazione, riceva

rimostranze orali o scritte sull'operato dell'ufficio o su quello dei propri collaboratori, ne informa

immediatamente, di regola per iscritto, il proprio superiore gerarchico o funzionale.

Obblighi di comportamento e valutazione delle performance

L’osservanza delle regole contenute nel codice di comportamento dell'amministrazione costituisce

uno degli indicatori rilevanti ai fini della misurazione e valutazione della performance individuale,

secondo il sistema definito ai sensi del d.lgs. 150/2009.

La grave o reiterata violazione, debitamente accertata in sede di valutazione, delle regole

contenute nel Codice esclude la corresponsione di qualsiasi forma di premialità, comunque

denominata, a favore del dipendente.

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Vigilanza, monitoraggio e attività formative

I dirigenti responsabili di ciascuna struttura, le strutture di controllo interno e gli uffici etici e di

disciplina sono chiamati a vigilare sull'applicazione del presente Codice e dei codici di

comportamento adottati dalle singole amministrazioni (articolo 54, comma 6, del d.lgs. 165/2001).

Per lo svolgimento delle attività di vigilanza e monitoraggio previste dal presente articolo, le

amministrazioni si avvalgono dell'ufficio di disciplina istituito ai sensi dell'articolo 55-bis, comma

4, del d.lgs. 165/2001 che svolge, altresì, le funzioni dei comitati o uffici etici eventualmente già

istituiti.

Le attività svolte dall'ufficio di disciplina si conformano alle eventuali previsioni contenute nei

piani di prevenzione della corruzione adottati dalle amministrazioni (articolo 1, comma 2, legge

190/2012).

L'ufficio di disciplina in particolare è responsabile:

dell'aggiornamento del codice di comportamento dell'amministrazione;

dell'organizzazione della formazione del personale in materia di trasparenza e integrità;

dell'esame delle segnalazioni di violazione o sospetto di violazione dei codici di

comportamento;

della raccolta delle segnalazioni di condotte illecite, offrendo le garanzie previste per il

segnalante (articolo 54-bis d.lgs. 165/200l);

della diffusione della conoscenza dei codici di comportamento nell'amministrazione;

del monitoraggio annuale sulla loro attuazione (ai sensi dell'articolo 54, comma 7, d.lgs.

165/2001);

della pubblicazione sul sito istituzionale e della comunicazione all’Autorità nazionale

anticorruzione dei risultati del monitoraggio.

Ai fini dell'attivazione del procedimento disciplinare per violazione dei codici di comportamento,

l'ufficio di disciplina può chiedere all'Autorità nazionale anticorruzione parere facoltativo (articolo

1, comma 2, lettera d) della legge 190/2012).

L'Autorità nazionale anticorruzione, con la collaborazione del Responsabile per la prevenzione

della corruzione di ciascuna amministrazione, controlla la regolarità e l'efficienza delle funzioni

svolte dall'ufficio di disciplina, esercitando i propri poteri di vigilanza e ispettivi, (ai sensi dell'

articolo 1, comma 2, lettera f) della citata legge 190, nonché verificando la conformità dei contenuti

e delle modalità di attuazione del codice di comportamento ai criteri, alle linee guida e ai modelli

stabiliti dalla stessa Autorità ai sensi dell'articolo 1, comma 44 della medesima legge.

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Le pubbliche amministrazioni sono tenute a favorire attività formative in materia di trasparenza e

integrità, che consentano ai dipendenti di conseguire una piena conoscenza dei contenuti del

codice di comportamento, nonché un aggiornamento annuale e sistematico sulle misure e sulle

disposizioni applicabili in tali ambiti.

Responsabilità conseguente alla violazione dei doveri del codice

La violazione degli obblighi previsti dal presente Codice integra comportamenti contrari ai doveri

d'ufficio e può costituire fonte di responsabilità disciplinare, civile, amministrativa e contabile

La rilevanza disciplinare della violazione delle disposizioni contenute nel Codice, nonché dei

doveri e degli obblighi previsti dal piano di prevenzione della corruzione, deve essere accertata

all'esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di colpevolezza, gradualità e

proporzionalità delle sanzioni.

La determinazione del tipo e dell'entità della sanzione disciplinare concretamente applicabile,

dovrà essere valutata caso per caso in base alla gravità del comportamento e all'entità del

pregiudizio, anche morale, derivatone al decoro o al prestigio dell'amministrazione di

appartenenza.

A tal fine è applicabile la sanzione del licenziamento con preavviso in relazione alla gravità della

violazione connesse:

- alla non modicità del valore del regalo o altre utilità e l'immediata correlazione di questi

ultimi con il compimento di un atto o di un'attività tipici dell’ufficio;

- al comportamento del dipendente che costringa o eserciti pressioni nei confronti di altri

dipendenti per l’adesione ad associazioni o organizzazioni, attraverso la prospettazione di

riflessi sulla carriera lavorativa;

- alla conclusione di contratti di appalto, fornitura, servizio, finanziamento o assicurazione

con imprese con le quali abbia stipulato contratti a titolo privato o ricevuto altre utilità,

oltre la misura consentita, nel biennio precedente;

- alla recidiva di illeciti relativi:

all’affidamento di incarichi di collaborazione a soggetti privati che abbiano, o

abbiano avuto nei due anni precedenti, interessi economici connessi alle decisioni o

alle attività dell’ufficio di appartenenza;

alla mancata astensione in merito a decisioni o attività di conflitto d’interessi di

qualsiasi natura personali o inerenti coniuge, parenti o affini entro il secondo grado

anche se “giustificati” da pressioni politiche, sindacali o del superiore gerarchico;

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alla responsabilità del dirigente relativamente all’avvio del procedimento

disciplinare o alla denuncia di illeciti all’autorità giudiziaria.

In tutti gli altri casi troveranno applicazione le sanzioni disciplinari non espulsive previste in

ciascuna disciplina di settore da norme di legge, di regolamento o dai contratti collettivi.

Disposizioni finali

Le amministrazioni devono dare ampia diffusione del presente codice, e di quelli che saranno

definiti da ciascuna di esse ai sensi dell’articolo 54 del d.lgs. 165/2001, attraverso la pubblicazione

sul proprio sito istituzionale e la trasmissione tramite e-mail a tutti i propri dipendenti e ai titolari

di contratti di consulenza o collaborazione a qualsiasi titolo, anche professionale, ai titolari di

organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione dei vertici politici dell'amministrazione,

nonché ai collaboratori a qualsiasi titolo, anche professionale, di imprese fornitrici di servizi in

favore dell'amministrazione.

Per i nuovi assunti e per i nuovi rapporti, il codice sarà consegnato contestualmente all'atto di

sottoscrizione del contratto di lavoro o di conferimento dell'incarico.

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Revisori enti locali: chiarimenti sulle nuove modalità di scelta Ministero dell’interno, comunicato 8 marzo 2013 di Alessio Tavanti Il Ministero dell’interno – Dipartimento finanza locale con comunicato dell’8 marzo scorso ha dato notizia di alcuni chiarimenti forniti in merito alle nuove modalità di scelta dei revisori dei conti degli enti locali, a seguito di alcuni quesiti pervenuti. Come già indicato nell’avviso pubblicato nella G.U. n. 100 del 21 dicembre 2012, i nominativi estratti successivamente a quelli designati per la nomina subentreranno, in caso di eventuali rinuncia o impedimenti, ad assumere l’incarico dei primi nominativi designati, solo nella fase di nomina dell’organo di revisione da parte del consiglio dell’ente. A tal proposito il Dipartimento ha precisato che la graduatoria che si viene a determinare ha efficacia limitata fino al momento della nomina e non successivamente, con la conseguenza che per le sostituzioni di componenti dello stesso organo a seguito di eventuali cessazioni anticipate dell’incarico, l’ente dovrà procedere a nuovo procedimento di estrazione. Il Dipartimento ha, inoltre, chiarito che le nuove modalità di scelta si applicano anche nel caso l’ente debba procedere alla sostituzione di un singolo componente del collegio nominato con le previgenti disposizioni, mediante estrazione del nominativo riferito al componente da sostituire. In tali casi, tuttavia, occorre distinguere a seconda che il componente dimissionario o cessante dalla carica rivesta o meno le funzioni di presidente. In quest’ultimo caso, le stesse funzioni continuano ad essere svolte dal presidente come precedentemente individuato. Diversamente, qualora il componente dimissionario o cessante dalla carica sia il Presidente, ai fini della sua sostituzione devono essere applicate le disposizioni di cui all’articolo 6 del decreto del Ministro dell’interno 23/2012, con riferimento agli incarichi svolti dai tre componenti dell’organo ricostituito. A tal fine occorrerà fare riferimento al numero di incarichi già svolti della durata di tre anni, in analogia al criterio utilizzato per il requisito richiesto per l’inserimento nelle fasce 2 e 3 dell’elenco (articolo 3) restando, quindi, esclusa la possibilità di considerare incarichi in corso di svolgimento.

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Segretari: devono effettuare un controllo “preventivo” di legittimità degli atti Corte dei Conti, sez. III giur. centrale appello, sentenza n. 40/2013 di Federica Caponi Tra i doveri del segretario comunale sussiste anche quello, fondamentale, di esprimere pareri di legittimità sulle delibere dell’ente locale. Nel caso in cui, il segretario tenga un comportamento “omissivo” e non si pronunci su eventuali illegittimità, come se spettasse a questo una mera funzione di assistenza e collaborazione giuridico/amministrativa nella redazione delle delibere, non può valere da esimente. Al contrario, tale comportamento integra ancor più la responsabilità per il silenzio serbato, considerando che spetta al segretario effettuare un controllo sulla non conformità dei provvedimenti amministrativi alle disposizioni normative. Questo il principio sancito dalla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale centrale d’appello, nella sentenza in commento con la quale ha condannato, tra gli altri, il segretario comunale, il vice segretario e gli amministratori di un comune al risarcimento del danno conseguente all’illegittimo affidamento a soggetti esterni, nel periodo 2002/2008, di numerosi e/o non proficui incarichi per la gestione di pratiche relative alla ricostruzione post terremoto del 1998. Nel caso di specie, la procura generale della Corte dei Conti della Basilicata aveva contestato ai ricorrenti il danno erario prodotto al comune di appartenenza dalla loro condotta ritenuta gravemente colposa. La Corte dei Conti sezione giurisdizionale aveva condannato gli stessi al pagamento di importi tra loro diversi (oltre agli interessi legali) - determinati in via equitativa, nella misura del 20% di quanto chiesto nell’atto introduttivo e comprensivi della rivalutazione - a favore dello Stato, della Regione Basilicata (30% del totale) e del comune (20% del totale). Gli interessati hanno impugnato la pronuncia, contestando, tra l’altro, la prescrizione per le liquidazioni anteriori ai cinque anni antecedenti al primo degli inviti a dedurre e l’errata qualificazione della loro condotta in quanto non sarebbe stata caratterizzata da colpa grave. Il segretario ha anche contesto la valutazione effettuata dal giudice di primo grado in quanto nell’adempimento dei propri compiti d’ufficio aveva svolto solo attività materiale di redazione dell’atto deliberativo, non avendo rilasciato alcun parere. La sezione contrale d’appello della Corte dei Conti ha ricordato che la prevalente giurisprudenza contabile il termine prescrizionale (quinquennale) al diritto al risarcimento è stato individuato “al momento dell’esborso della somma (quando, cioè, si è reso attuale e concreto il danno)”. Nel caso di specie, avendo notificato l’invito “integrativo” a dedurre ai convenuti nel febbraio 2009, l’eccezione di prescrizione quinquennale deve essere respinta poiché, trattandosi di pagamenti avvenuti nel biennio 2007/2008, la costituzione in mora è stata tempestiva. Per quanto riguarda la responsabilità del segretario, i magistrati contabili hanno chiarito che tra i doveri del segretario comunale sussiste anche quello, fondamentale, di esprimere pareri di legittimità sulle delibere dell’ente locale. La circostanza che, nella specie, il segretario non si sia espresso, come se avesse dovuto espletare

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una mera funzione di assistenza e collaborazione giuridico/amministrativa nella redazione della delibera, non può valere da esimente, ma anzi “coinvolge ancor più la responsabilità per il silenzio serbato mentre avrebbero dovuto espressamente evidenziare la non conformità a legge del provvedimento”. La giurisprudenza contabile è chiara nell’affermare che “l'affidamento, alla stregua della previsione normativa di cui all'art. 97 T.U. 18 agosto 2000, n. 267, al segretario comunale di funzioni di assistenza e di collaborazione giuridica e amministrativa con tutti gli organi dell'ente locale assorbe, in qualche guisa, lo specifico compito, previsto dall'art. 53 L. 8 giugno 1990, n. 142, di esprimere un previo parere di legittimità sulle deliberazioni di giunta”(Corte Conti, sez. II giur. appello, sent. 197/2004; idem, sent. n. 88/2004). L'evoluzione normativa in materia non ha determinato la “sottrazione” del segretario dalla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta, in quanto, al contrario, ne ha sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni. Secondo la Corte dei Conti, non può dubitarsi del fatto che il segretario comunale abbia il “preciso obbligo giuridico di segnalare agli amministratori le illegittimità contenute negli emanandi provvedimenti”, al fine di impedire atti e comportamenti illegittimi forieri di danno erariale (Corte Conti, sez. giur. Lombardia, sent. 473/2009). Il segretario rappresenta una figura professionale alla quale è per legge “demandato un ruolo di garanzia, affinché l'attività dell'ente possa dispiegarsi nell'interesse del buon andamento e dell'imparzialità” (Corte Conti, sez. giur. Lombardia, sent. 324/2009). Infine, i magistrati contabili hanno chiarito che per qualificare una condotta come gravemente colposa non è sufficiente la semplice “violazione della legge o di regole di buona amministrazione, ma è necessario che questa violazione sia connotata da inescusabile negligenza o dalla previsione dell'evento dannoso” (Corte Conti, sez. III giur. centrale d’appello, sent. 75/2010; idem, sent. 424/2006). Si ha colpa grave quando si realizza “un comportamento avventato e caratterizzato da assenza di quel minimo di diligenza che è lecito attendersi in relazione ai doveri di servizio propri o specifici dei pubblici dipendenti” (Corte Conti, sez. I centrale d’appello, sent. 305/2009) ossia nella “inammissibile trascuratezza e negligenza dei propri doveri, coniugata alla prevedibilità delle conseguenze dannose del comportamento” (Corte Conti, sez. giur. Calabria, sent. 763/2005) in relazione alle modalità del fatto, all'atteggiamento soggettivo dell'autore, nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l'evento dannoso “di guisa che il giudizio di riprovevolezza della condotta venga in definitiva ad essere basato su un quid pluris rispetto ai parametri di cui agli artt. 43 cod. pen. e 1176 cod. civ.” (Corte Conti, SS.RR., sent. 56/1997). Occorre far riferimento, pertanto, al grado di anomalia e di incompatibilità dei comportamenti concreti rispetto agli schemi normativi astratti, ivi compreso il dovere di svolgere i propri compiti con il massimo di lealtà e diligenza. Si devo esaminare il concreto atteggiarsi dell'agente, calato nella contestualità del momento, nei fini del suo agire, desumibili da indici di presunzione di esperienza, perizia e buon senso, nel grado di prevedibilità di eventi dannosi e nella quota di esigibilità, anche alla stregua di altri doveri e fini pubblici da seguire, della norma infranta. Nel caso di specie, i magistrati contabili hanno ritenuto che le condotte poste in essere dal segretario siano state caratterizzate da scarsa diligenza, superficialità, contraddittorietà e/o trascuratezza del modus procedendi, per aver, in particolare, provveduto al costante rinnovo delle

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convenzioni, tale da configurare la piena responsabilità in ordine al pregiudizio patrimoniale arrecato al comune, nel cui nome e interesse ha operato. La sentenza di I grado ha evidenziato che l’applicazione (contra legem) di personale convenzionato nell’espletamento delle pratiche concernenti il lontano terremoto del 1980, 1981 e 1982 non solo ha inciso sull’efficacia ed efficienza della gestione dell’attività amministrativa riguardante il sisma del 1998, risultata scarsa almeno nella parte della mancata programmazione (e conseguente valutazione) di un risultato minimo da raggiungere annualmente da parte dei tecnici convenzionati, ma ha palesemente violato la legge. La Corte d’appello ha così confermato la pronuncia di I grado ritenendo il “comportamento degli amministratori gravemente colposo (…), nonché dei soggetti che hanno svolto le funzioni di Segretario Comunale nell’occasione, venendo meno a quei compiti di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi elettivi e di garanti della legittimità dell’azione amministrativa previsti dall’art. 97 del d.lgs. 267/2000”.

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Incarichi retribuiti dipendenti p.a.: illegittima l’autorizzazione successiva Tar Lombardia, Milano, sez. IV, sentenza 614/2013 di Federica Caponi I dipendenti pubblici possono svolgere incarichi retribuiti, affidati da soggetti esterni all’amministrazione datore di lavoro, solo se preventivamente autorizzati, in quanto l’articolo 53, comma 7 del d.lgs. 165/2001 non consente alcuna autorizzazione postuma. Il dipendente che abbia violato tale disposizione deve restituire all’amministrazione i compensi illegittimamente percepiti, in quanto ha realizzato una condotta in violazione ai suoi doveri d’ufficio. Tale obbligo di restituzione, più che una mera sanzione, infatti prospetta una responsabilità contrattuale del pubblico dipendente. Questo il principio sancito dal Tar Lombardia nella pronuncia in commento, con la quale ha respinto il ricorso presentato da un docente universitario avverso l’atto dell’ateneo con cui è stata disposta la restituzione dei compensi erogati al dipendente a seguito dell’affidamento di un incarico non autorizzato dall’amministrazione. Nel caso di specie, un professore a tempo pieno aveva chiesto all’amministrazione di appartenenza di emettere un’autorizzazione postuma in relazione ad una serie di incarichi da lui svolti e mai autorizzati in via preventiva. L’amministrazione aveva respinto tale istanza e disposto contestualmente che il ricorrente, in attuazione dell’articolo 53, comma 7, d.lgs. 165/2001, corrispondesse all’università la somma di circa € 430.000,00 quali corrispettivi per incarichi svolti in assenza della previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza. Il dipendente ha impugnato l’istanza di rigetto, contestandone la legittimità e chiedendone, in via cautelare, la sospensione, e nel merito, l’annullamento. In particolare, il ricorrente, contestava i provvedimenti dell’amministrazione, in quanto quest’ultima avrebbe potuto rilasciare autorizzazioni “postume” e, in ogni caso, gran parte degli incarichi non avrebbero richiesto l’autorizzazione, trattandosi di incarichi “liberi”. Il Tar ha chiarito che le autorizzazioni postume sono ammesse in relazione ad attività edilizie abusive e con riguardo ad autorizzazioni paesaggistiche, ritenendo che la possibilità di una verifica ex post circa la compatibilità paesistica o urbanistica dell'intervento non sia contraddetta né dalla peculiarità della fattispecie né dal sistema normativo. L’articolo 53, comma 7, d.lgs. 165/2001 stabilisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Depongono nel senso della necessità di un’autorizzazione preventiva degli incarichi irrinunciabili ragioni di buon andamento dell’amministrazione, che deve essere in grado previamente di assentire incarichi esterni a propri dipendenti che possano, in astratto, potenzialmente pregiudicare l’adempimento della pubblica funzione cui gli stessi sono assegnati. Il citato articolo 53 trova il suo fondamento direttamente nel dettato costituzionale, in virtù della previsione, contenuta nell'art. 98 della Costituzione secondo cui i pubblici impiegati “sono a servizio esclusivo della Nazione” e ha il chiaro scopo di conseguire l'obiettivo di garantire l'imparzialità,

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l'efficienza ed il buon andamento della pubblica amministrazione nel rispetto dei principi sanciti dall'art. 97 Cost. Dall’impianto normativo emerge, quindi, una presunzione legale di carattere generale in relazione all’incompatibilità degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio. La situazione di incompatibilità deve essere valutata in astratto e la norma mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente al fine del miglior rendimento, indipendentemente anche dalla circostanza che questi abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia. Il legislatore prevede tuttavia la possibilità che, in presenza di una specifica e preventiva autorizzazione rilasciata da parte dell'amministrazione di appartenenza, il dipendente pubblico possa eccezionalmente ricoprire incarichi ulteriori al di fuori di quelli istituzionali. La relativa disciplina è contenuta al comma 7 dell'articolo 53 e rappresenta l'unico presupposto legale dell'ammissibilità del conferimento di incarichi ulteriori o diversi rispetto a quelli compresi nell'ambito dell'ufficio pubblico ricoperto. Secondo il meccanismo delineato dal legislatore, l'autorizzazione, che va richiesta dal dipendente che intende avvalersi dell'incarico e non dalle singole amministrazioni che intendano conferirlo, è indispensabile nelle sole ipotesi in cui il lavoratore intenda assumere un incarico retribuito. Il provvedimento dell’amministrazione che ha negato le autorizzazioni in via postuma non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e, quindi, ai sensi dell’articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990, il provvedimento impugnato comunque non sarebbe annullabile per violazione dell’articolo 10-bis (comunicazione preavviso esito negativo) ex lege 241/1990. L’articolo 53 del t.u. sul pubblico impiego testualmente prevede che in caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti. Non è necessaria una valutazione in concreto di incompatibilità, e, quindi, l’amministrazione datore di lavoro, nel caso di specie, ha applicato correttamente la citata norma, avendo richiesto al dipendente la restituzione delle somme dallo stesso percepite in esecuzione di incarichi non autorizzati e, quindi, espletati in violazione delle disposizione del testo unico sul pubblico impiego. La norma, non richiedendo una valutazione in concreto, ma ponendo una valutazione di incompatibilità, che può essere superata solo dalla previa autorizzazione, è ragionevole e pienamente compatibile con il sistema complessivo, perché tende a salvaguardare esigenze di buon andamento e di corretta organizzazione, che hanno chiari riflessi costituzionali. Il Tar ha precisato che, nonostante l’articolo 53 non chiarisca se il recupero delle somme debba avvenire al lordo o scomputando le tasse già corrisposte dal contribuente, l’interpretazione della norma non possa che essere nel senso di intendere la somma da recuperare al netto delle imposte già corrisposte, in quanto la richiesta di restituzione dei compensi illegittimamente percepiti dal pubblico dipendente non può che avere ad oggetto “le somme da quest'ultimo percepite in eccesso, ossia quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente, non potendosi, invece, pretendere la ripetizione di somme al lordo delle ritenute fiscali (e previdenziali e assistenziali), dal

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momento che le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente” (Consiglio Stato, sez. III, sent. n. 3984/2011). La richiesta di restituzione dei compensi percepiti ai sensi dell’articolo 53, comma 7 è legittima in quanto il dipendente ha violato una norma di legge.

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OIV: revisione dei requisiti e procedimento per la nomina Civit, delibera n. 12/2013 di Alessio Tavanti La Civit con la delibera n. 12 del 27 febbraio scorso concernente “Requisiti e procedimento per la nomina dei componenti degli Organismi indipendenti di valutazione (OIV)” ha rielaborato i requisiti per la nomina dell’OIV alla luce sia delle integrazioni effettuate alla delibera 4/2012, che aveva previsto in prima istanza i suddetti requisiti, da parte delle delibere 107/2010, 21/2012, 23/2012, 27/2012 e 29/2012, sia dell’emanazione della legge 190/2012 (cd. legge Anticorruzione). Ambito di applicazione Gli enti e le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, d.lgs. 165/2001, sono tenuti a nominare, entro la scadenza del mandato prevista dall’atto di nomina o, in mancanza, del triennio dalla presa di possesso, i componenti dell’OIV, previo accertamento dei requisiti previsti dalla deliberazione e la formulazione del parere favorevole della Civit. Ai sensi degli articoli 16 e 74 del d.lgs. 150/2009 tale disciplina non trova diretta applicazione per gli enti locali i quali, tuttavia, secondo quanto previsto dalla delibera 23/2012, hanno la facoltà, e non l’obbligo, di costituire l’OIV, in quanto, nella loro autonomia, possono affidare ad altri organi i compiti previsti dai principi di cui alle disposizioni del d.lgs. 150/2009. Nel caso detti enti procedano alla nomina dell’OIV, in applicazione della normativa di adeguamento ai principi del d.lgs. 150/2009 o per autonoma decisione, devono individuarne i componenti in conformità all’articolo 14 dello stesso decreto e tenendo conto dei requisiti previsti dalla presente delibera, previo parere favorevole della Commissione. Organo competente a nominare l’ OIV La formulazione della richiesta di parere e il successivo provvedimento di nomina spettano all’organo di indirizzo politico – amministrativo che, per quanto riguarda i comuni, va individuato nel Sindaco, secondo quanto precisato dalla Commissione nella delibera 21/2012. Requisiti generali Possono essere nominati componenti di OIV i cittadini italiani e dell’Unione europea che abbiano un’età tale da assicurare all’Organismo esperienza e capacità di innovazione. A tal fine è da evitare la scelta di componenti privi di una esperienza significativa o alla soglia del collocamento a riposo, mentre non possono essere nominati componenti i soggetti che superato la soglia dell’età della pensione di vecchiaia. Deroghe a tali previsioni sono ammesse solo in considerazione delle specificità organizzative dell’amministrazione, che possono riguardare la sua articolazione interna, la particolare natura delle attività svolte, o l’appartenenza di dipendenti e dirigenti a diversi status professionali. Equilibrio di genere

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La scelta dei componenti deve essere tale da favorire il rispetto dell’equilibrio di genere, che deve essere promosso anche con riferimento alla composizione della struttura tecnica permanente. Eventuali deroghe al suddetto principio possono essere ammesse solo se adeguatamente motivate. Divieto di nomina I componenti dell’Organismo indipendente di valutazione non possono essere nominati tra soggetti che rivestano incarichi pubblici elettivi o cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali ovvero che abbiano rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza con le predette organizzazioni, ovvero che abbiano rivestito simili incarichi o cariche o che abbiano avuto simili rapporti nei tre anni precedenti la designazione (articolo 14, comma 8 d.lgs. 150/2009). In via di interpretazione sistematica delle disposizioni che identificano il ruolo dell’OIV, la Civit ha ritenuto che il componente interno debba comunque cessare dalle funzioni precedentemente svolte, quando il contemporaneo esercizio di queste ultime possa determinare una situazione di sovrapposizione della posizione di valutatore con quella di valutato e, in ogni caso, impedisca il pieno e corretto svolgimento del ruolo assegnato. Non possono essere nominati, inoltre, associazioni, società e, in generale, soggetti diversi dalle persone fisiche, anche nell’ipotesi in cui il conferimento dell’incarico avvenga scindendo il rapporto personale con il candidato dal rapporto economico, in quanto, in tal caso, si configurerebbe un’ipotesi di interposizione, con riflessi anche sul principio della tendenziale esclusività (si veda in tal senso Civit delibera 29/2012 . Conflitto di interessi e cause ostative La commissione, in linea con le previsioni della 190/2012, ha precisato che non sarà rilasciato parere favorevole nei confronti di coloro che:

a) siano stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti dal

capo I del titolo II del libro secondo del Codice Penale (delitti dei pubblici ufficiali contro la

P.A.);

b) abbiano svolto incarichi di indirizzo politico o ricoperto cariche pubbliche elettive presso

l’amministrazione interessata nel triennio precedente la nomina;

c) siano responsabili della prevenzione della corruzione presso la stessa amministrazione;

d) si trovino, nei confronti dell’amministrazione, in una situazione di conflitto, anche

potenziale, di interessi propri, del coniuge, di conviventi, di parenti, di affini entro il

secondo grado;

e) abbiano riportato una sanzione disciplinare superiore alla censura;

f) siano magistrati o avvocati dello Stato che svolgono le funzioni nello stesso ambito

territoriale regionale o distrettuale in cui opera l’amministrazione presso cui deve essere

costituito l’OIV;

g) abbiano svolto non episodicamente attività professionale in favore o contro

l’amministrazione;

h) abbiano un rapporto di coniugio, di convivenza, di parentela o di affinità entro il secondo

grado con dirigenti di prima fascia in servizio nell’amministrazione presso cui deve essere

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costituito l’OIV, o con il vertice politico – amministrativo o, comunque, con l’organo di

indirizzo politico – amministrativo;

i) siano stati motivatamente rimossi dall’incarico di componente dell’OIV prima della

scadenza del mandato;

l) siano revisori dei conti presso la stessa amministrazione;

m) presso gli enti locali, incorrano nelle ipotesi di incompatibilità e ineleggibilità previste per i

revisori dei conti dall’art. 236 del d.lgs. 267/2000.

L’assenza delle situazioni sopra elencate deve essere oggetto di una formale dichiarazione del candidato che deve essere trasmessa alla Commissione. Componenti interni ed esterni all’amministrazione Nel caso di organo collegiale, deve essere assicurata la presenza sia di un componente che abbia un’adeguata esperienza maturata all’interno dell’amministrazione interessata, sia di componenti in possesso di conoscenze tecniche e capacità utili a favorire processi di innovazione all’interno dell’amministrazione. Nel caso di organo monocratico, deve essere comunque assicurata un’adeguata conoscenza dell’amministrazione interessata e la scelta deve essere comunque compensata, quanto alle professionalità occorrenti, all’atto della costituzione della struttura tecnica permanente. Requisiti attinenti all’area delle conoscenze Ai fini della formulazione del parere, la Commissione terrà conto dei requisiti e degli elementi accertati dall’amministrazione, oltre che degli elementi desumibili dal curriculum e dall’eventuale colloquio, preferibilmente attraverso una valutazione comparativa. Il titolo di studio richiesto per poter essere nominato componente di un OIV è il possesso di un diploma di laurea specialistica o di laurea quadriennale conseguita nel previgente ordinamento degli studi o di titoli riconosciuti equivalenti rilasciati in altri Paesi dell’Unione Europea. In particolare è richiesta la laurea in scienze economiche e statistiche, giurisprudenza, scienze politiche, o ingegneria gestionale. Per le lauree in discipline diverse è richiesto, altresì, un titolo di studio post-universitario in profili afferenti alle materie suddette, nonché ai settori dell’organizzazione e della gestione del personale delle pubbliche amministrazioni, del management, della pianificazione e controllo di gestione, o della misurazione e valutazione della performance. Sono ammessi anche titoli di studio universitario e post-universitario in discipline attinenti alle specificità della singola amministrazione. Detti titoli di studio potranno essere valutati solo se conseguiti successivamente al diploma di laurea e rilasciati da istituti universitari italiani o stranieri o da primarie istituzioni formative pubbliche con adeguata ponderazione a seconda che si tratti di titoli conseguiti all’esito di un percorso formativo di durata comunque superiore a quella annuale (dottorato di ricerca, master di II livello, corsi di specializzazione) e altri titoli di specializzazione. Risulta, altresì, valutabile, se afferente alle suddette materie, un congruo periodo post-universitario di studi o di stage all’estero.

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In alternativa al titolo di studio post-universitario, è sufficiente aver maturato un’esperienza professionale di almeno cinque anni (non più sette anni come previsto dalla delibera 4/2012), in posizioni di responsabilità, anche presso aziende private, nel campo del management, della pianificazione e controllo di gestione, dell’organizzazione e della gestione del personale, della misurazione e valutazione della performance e dei risultati, ovvero nel campo giuridico – amministrativo. Requisiti attinenti all’area delle esperienze professionali I componenti in possesso dei titoli di studio sopra citati devono avere maturato un’esperienza di almeno tre anni (non più cinque come previsto dalla delibera 4/2012), in posizioni di responsabilità, anche presso aziende private, nel campo del management, della pianificazione e controllo di gestione, dell’organizzazione e della gestione del personale, della misurazione e valutazione della performance e dei risultati, ovvero nel campo giuridico – amministrativo, tenendo anche conto dei compiti che derivano dall’applicazione della legge 190/2012 (cd. Legge Anticorruzione). Ai fini del rinnovo o della nomina dell’OIV, assume rilievo l’esperienza già maturata nella stessa qualità, salve le conseguenze derivanti da una eventuale rimozione dall’incarico avvenuta prima della scadenza (lett. i). Requisiti attinenti all’area delle capacità I componenti devono possedere adeguate competenze e capacità manageriali e relazionali, dovendo promuovere i valori del miglioramento continuo della performance e della qualità del servizio, nonché della trasparenza e dell’integrità. Ai soggetti interessati a far parte di un OIV deve essere richiesta una relazione di accompagnamento al curriculum, nella quale indicare le esperienze ritenute significative in relazione al ruolo da svolgere. Il componente, ad eccezione degli enti di piccole dimensioni, deve avere buone e comprovate conoscenze informatiche e della lingua inglese. Esclusività del rapporto Nessun componente può appartenere contemporaneamente a più OIV o Nuclei di valutazione. Il principio di esclusività può essere derogato in caso di incarichi in enti di piccole dimensioni che trattano problematiche affini e che operano nella stessa area geografica, anche in relazione alla valutazione complessiva degli impegni desumibili dal curriculum. L’assenza o l’eventuale contemporanea presenza in altri OIV o Nuclei di valutazione deve essere oggetto di specifica dichiarazione sottoscritta dal candidato e trasmessa dall’amministrazione alla Commissione. La Civit ha inoltre evidenziato l’opportunità di non procedere a nomine incrociate di OIV fra enti.

Durata del mandato e eventuale revoca dell’incarico Il mandato ha durata triennale, con decorrenza dalla data indicata nel provvedimento di nomina o, in mancanza, dalla presa di possesso.

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A garanzia dell’indipendenza dell’OIV, non può essere prevista l’automatica decadenza dei componenti in coincidenza con la scadenza dell’organo di indirizzo politico – amministrativo dell’amministrazione che li ha designati. L’eventuale revoca dell’incarico prima della scadenza deve essere adeguatamente motivata e preceduta dal parere della Commissione. Struttura tecnica permanente L’amministrazione deve istituire una struttura tecnica permanente di supporto all’OIV. Alla struttura tecnica devono essere destinate risorse umane e finanziarie adeguate allo svolgimento della suddetta funzione di supporto, nonché un adeguato sistema informativo, tenendo conto delle dimensioni e delle specificità organizzative dell’amministrazione e della esigenza di assicurare, soprattutto in caso di Organismo in forma monocratica, il carattere multidisciplinare delle professionalità. Indicazione del compenso Contestualmente alla formulazione della richiesta di parere ex articolo 14, comma 3, d.lgs. 150/2009, l’amministrazione deve comunicare il compenso previsto per lo svolgimento dell’incarico. La determinazione del compenso è rimessa all’autonoma discrezionalità dell’amministrazione pur nel rispetto del principio, desumibile dal d.lgs. 150/2009, secondo cui devono essere stabiliti importi adeguati alle dimensioni e alla complessità organizzativa dell’amministrazione stessa, salvaguardando il profilo dell’economicità della gestione e del costo opportunità delle risorse, che assume particolare rilievo negli enti di piccole dimensioni. Principio di economicità di gestione Le scelte operate dalle singole amministrazioni devono essere congrue e coerenti con le proprie specificità istituzionali, organizzative e dimensionali nel rispetto del principio di economicità di gestione. Pertanto, deve essere preferita la costituzione di un OIV in forma associata nelle ipotesi di enti di ridotte dimensioni di natura omogenea, o dislocati sulla stessa area territoriale, o che trattano problematiche affini oppure nel caso di consorzi, associazioni e unioni di enti locali. Adempimenti procedimentali L’amministrazione, ai fini dell’acquisizione del parere prescritto dall’articolo 14, comma 3, d.lgs. 150/2009, è tenuta a trasmettere alla Commissione:

i curricula dei candidati;

le rispettive dichiarazioni relative all’assenza di cause di incompatibilità e al rispetto del

principio di esclusività;

la relazione motivata dalla quale risultino le ragioni della scelta;

gli esiti della procedura comparativa eventualmente espletata;

il compenso previsto per lo svolgimento dell’incarico.

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La Commissione esprime il proprio parere entro 30 giorni dal ricevimento della richiesta. Il termine resta sospeso per la durata di un’eventuale istruttoria, da svolgere nel caso di carenze nella richiesta e nella relativa documentazione. Tutti gli atti del procedimento di nomina sono pubblici (atti di nomina, curricula, compensi, parere della Commissione) e devono essere pubblicati sul sito istituzionale dell’amministrazione interessata.

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Scuola materna paritaria: limiti alla derogabilità dei presupposti strutturali Tar veneto, sez. III, sentenza 371/2013 di Alessio Tavanti Il riconoscimento della parità scolastica di una scuola materna in deroga ai prescritti presupposti strutturali, comportanti che le attività educative si svolgano “a diretto contatto con il terreno di gioco e di attività all’aperto”, è subordinato a un’espressa destinazione degli strumenti urbanistici comunali. E’ quanto ha affermato dal Tar Veneto con la sentenza in commento, con la quale ha respinto il ricorso inerente il riconoscimento della parità scolastica di un centro dell’infanzia privato. Nel caso di specie il titolare del suddetto centro costituito da un asilo nido e da una scuola materna, quest’ultima posta al secondo piano dell’edificio ospitante la struttura, aveva presentato domanda per il riconoscimento della parità scolastica. Effettuato il sopralluogo e concluso il contraddittorio procedimentale, l’Ufficio scolastico regionale ha respinto la domanda di riconoscimento della parità scolastica non risultando soddisfatte le condizioni strutturali dell’edificio richieste per le scuole dell’infanzia, con conseguente impossibilità di accedere ai contributi destinati, dalla regione, agli istituti scolastici non statali. A seguito di tale decisione il titolare della struttura ha presentato ricorso al Tar al fine di richiedere l’annullamento del provvedimento che ha negato la parificazione agli istituti statali, poiché ritenuto emesso in violazione della specifica disciplina derogatoria prevista dal dm. 18 dicembre 1975 “norme tecniche aggiornate relative all’edilizia scolastica, ivi compresi gli indici minimi di funzionalità didattica, edilizia ed urbanistica da osservarsi nella esecuzione di opere di edilizia scolastica”. I giudici amministrativi con riferimento al caso di specie hanno precisato che il dm. 18 dicembre 1975, che prevede indici e standard molto elevati per la progettazione e realizzazione di nuove scuole pubbliche, rappresenta la normativa tecnica di riferimento per le scuole che vogliano ottenere il riconoscimento della parità e risulta tutt’ora vigente in regime transitorio in mancanza di specifiche norme regionali per la progettazione esecutiva degli interventi di edilizia scolastica. Il predetto decreto ministeriale, prevede che “l’edificio scolastico deve essere progettato in modo che gli allievi possano agevolmente usufruire, attraverso gli spazi per la distribuzione orizzontale e verticale, di tutti gli ambienti della scuola, nelle loro interazioni e articolazioni ed, inoltre, raggiungere le zone all’aperto” e che ciò comporta che le attività educative si svolgano “per la scuola materna, a diretto contatto con il terreno di gioco e di attività all’aperto”. Lo stesso decreto, in deroga alla disciplina sopra menzionata, dispone che “in funzione delle caratteristiche morfologiche dell’insediamento, o quando previsto in sede di piani regolatori generali e particolareggiati, o di altri definiti strumenti urbanistici, è consentito collocare l’organismo scolastico, progettato secondo le presenti norme, su strutture edilizie non di uso scolastico, o comunque sollevate dal suolo”. Proprio con riferimento a tale disciplina derogatoria, il ricorrente ha sostenuto che l’edificio, in base alle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore, può essere destinato a attività di “terziario diffuso” con le quali risulta compatibile la destinazione d’uso a servizi per l’istruzione.

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Secondo il giudice amministrativo, la deroga prevista dal dm. 18 dicembre 1975 alla disposizione secondo la quale l’attività didattica delle scuole materne deve necessariamente svolgersi al piano terra, non è soddisfatta da una semplice e generica “non incompatibilità” con le previsioni del piano regolatore. Tale interpretazione, infatti, consentirebbe la realizzazione di nuovi edifici scolastici pubblici in deroga in un notevole numero di ipotesi, in quanto i servizi per l’istruzione possono senz’altro ritenersi compatibili con la previsione di servizi connessi e strumentali alla destinazione d’uso residenziale, finendo per ribaltare il rapporto tra regola ed eccezione sancito dal citato decreto ministeriale. La natura di norma eccezionale della disposizione contenuta nel decreto, in quanto tale deve essere necessariamente interpretata restrittivamente, ammettendosi la deroga solo quando vi sia un’espressa previsione negli strumenti urbanistici, giustificata dalla necessità di assicurare la presenza di una scuola nonostante vi siano delle condizioni che impediscono di soddisfare le prescrizioni secondo le quali ogni edificio scolastico deve essere stato appositamente realizzato a questo scopo e, se relativo a scuole materne, deve essere a diretto contatto con il terreno di gioco e di attività all’aperto. Condizione che nel caso di specie non sussiste, mancando un’espressa previsione in tal senso negli strumenti urbanistici idonea a consentire di beneficiare dell’estensione del suddetto regime derogatorio. Il Tar ha respinto il ricorso affermando che il riconoscimento di un scuola materna paritaria in deroga ai presupposti strutturali richiesti è possibile solo in presenza di un’espressa destinazione in tal senso degli strumenti urbanistici comunali.

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Privacy: illecita la comunicazione in forma nominativa degli straordinari Garante privacy, newsletter n. 370 del 1° marzo 2013 di Manuela Ricoveri Il Garante per la privacy con provvedimento 431/2012 diffuso nella newsletter del 1° marzo 2013, ha imposto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia di interrompere la comunicazione, in forma nominativa, del prospetto concernente le prestazioni di lavoro straordinario e le relative competenze effettuate dal personale. L’Autorità, chiamata a pronunciarsi da parte di un commissario di polizia penitenziaria, ha affermato che le pubbliche amministrazioni, in assenza di disposizioni normative o di specifiche clausole contenute in contratti collettivi, non possono comunicare ai sindacati le ore di straordinario svolte da un dipendente indicando anche il nome e il cognome dello stesso. Le comunicazioni vanno fatte in forma anonima o aggregata. Nel caso di specie l’interessato, peraltro non iscritto ad alcun sindacato, ritenendo violate le norme sulla privacy, aveva segnalato l’illecito al Dipartimento, al fine di ottenere il blocco della comunicazione alle organizzazioni sindacali dei dati personali che lo riguardavano relativi alle prestazioni di lavoro straordinario. Non avendo ottenuto riscontro, si era rivolto all'Autorità chiedendo che i suoi dati personali non

venissero né trasmessi alle organizzazioni sindacali, né affissi e quindi diffusi in locali comuni. L’amministrazione resistente ha evidenziato come le modalità di comunicazione dei dati traggano legittimazione dall’articolo 10, comma 9, dell'Accordo Nazionale Quadro per il personale del Corpo di polizia penitenziaria, risalente al 2004, secondo cui "i prospetti concernenti le prestazioni di lavoro straordinario svolto dal personale del Corpo di Polizia penitenziaria sono forniti in via riservata ai rappresentanti delle organizzazioni sindacali di settore con l'indicazione dei nominativi e con il richiamo al rispetto della legislazione in materia di riservatezza delle informazioni (…)", modalità con la quale vengono altresì fornite le comunicazioni relative a "mobilità ordinaria, interpelli, esiti concorsi interni (…)"; tutto ciò nel più generale rispetto delle norme contrattuali che disciplinano le relazioni sindacali nel comparto sicurezza”. L’Autorità ha chiarito che tale disposizione non prevede espressamente e specificamente che la trasmissione dei dati sia effettuata in forma nominativa, evidenziando, al contrario, che attraverso il richiamo alla forma riservata della comunicazione la disposizione sembrerebbe riferirsi alle specifiche ipotesi in cui l’indicazione dei nominativi dei dipendenti sia funzionale al ruolo di tutela del lavoratore interessato da parte dell’organizzazione sindacale. Diversamente, risulterebbe non corretta la prassi dell’invio periodico dei dati relativi allo straordinario contenenti i nominativi dei dipendenti. A conferma di tale interpretazione l’Autorità ha richiamato le "Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico"emanate il 14 giugno 2007 al fine di fornire opportune indicazioni e raccomandazioni alle pubbliche amministrazioni nella gestione del trattamento dei dati personali e sensibili dei lavoratori pubblici,

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con l’obiettivo, altresì, di dare uniformità ai principi applicabili al rapporto di lavoro in alcune specificità che riguardano proprio i soggetti pubblici datori di lavoro. In tale provvedimento, l’autorità aveva già chiarito che “ad esclusione dei casi in cui il contratto collettivo applicabile preveda espressamente che l'informazione sindacale abbia ad oggetto anche dati nominativi del personale per verificare la corretta attuazione di taluni atti organizzativi, l'amministrazione può fornire alle organizzazioni sindacali dati numerici o aggregati e non anche quelli riferibili ad uno o più lavoratori individuabili”. Il Garante della privacy ritenendo illecito il trattamento effettuato dall'amministrazione penitenziaria, ha pertanto disposto il blocco dell'ulteriore comunicazione dei dati personali relativi alle prestazioni di lavoro straordinario del ricorrente alle organizzazioni sindacali.

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Privacy: risarcimento in caso di trattamento di dati sensibili eccedenti la finalità del trattamento Tribunale di Matera, sezione distaccata di Pisticci, sentenza 165/2013 di Alessio Tavanti E’ risarcibile il danno non patrimoniale subito dal dipendente per la pubblicazione non indispensabile di dati sensibili inerenti lo stato di salute. E’ quanto ha affermato il Tribunale di Matera, con la sentenza in commento, con la quale ha parzialmente accolto il ricorso proposto da un dipendente comunale per il risarcimento del danno derivante dalla violazione della propria riservatezza avvenuta tramite comunicazione e diffusione di dati sensibili relativi al proprio stato di salute. Nella caso in esame, la dipendente aveva fatto istanza al Comune per il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di una patologia dalla quale era affetta. Rispetto a tale procedimento la dipendente lamentava varie scorrettezze procedurali da parte del comune, in virtù delle quali sarebbe derivato una lesione del proprio diritto alla riservatezza ai sensi del d.lgs. 196/2003 (Codice Privacy). La dipendente, pertanto, aveva presentato ricorso nei confronti del comune datore di lavoro, avanzando domanda risarcitoria connessa ai danni, patrimoniali e non, ritenuti subiti in seguito alla condotta illecita dell’Ente nel trattamento e nella diffusione dei propri dati personali riservati, oltre che sensibili in quanto aventi ad oggetto la propria situazione di salute. Con riferimento al risarcimento dei danni patrimoniali, il tribunale adito ha affermato che “la violazione dei precetti a tutela della riservatezza di cui al d.lgs. n. 196 del 2003 (c.d. cod. privacy) non sostanzia di per sé una lesione del diritto alla riservatezza del titolare dei dati oggetto di trattamento; occorre, infatti, verificare e accertare, caso per caso, anche a mezzo di elementi indiziari di carattere presuntivo. In assenza di tale prova, non può essere accordato al titolare dei dati alcun risarcimento del danno, dovendosi escludere che nel nostro ordinamento la responsabilità aquiliana possa assolvere, in via generale, una funzione di carattere meramente punitivo, a fronte di condotte illecite concretamente non causative di pregiudizi risarcibili”. I giudici, nel caso in esame, pur riscontrando nei comportamenti tenuti dal comune e lamentati dalla ricorrente, la violazione dei principi previsti dal codice privacy, non ha ritenuto sussistente alcuna lesione del diritto alla riservatezza della titolare dei dati circa l’effettiva conoscenza dei dati sensibili da parte di soggetti terzi. Con riguardo, invece, ai danni di carattere personale, risarcibili ai sensi dell’articolo 15 comma 2 del codice privacy, la ricorrente ha lamentato la violazione del proprio diritto alla riservatezza e all’immagine conseguente ai comportamenti assunti dal Comune, con particolare riferimento al principio della pertinenza e della non eccedenza di cui all’art. 11 del d.lgs. 196/ 2003. In particolare la ricorrente ha contestato la pubblicazione all’Albo pretorio della deliberazione della Giunta avente ad oggetto “Individuazione e nomina rappresentante dell’Ente in seno al Collegio di Conciliazione e soggetto munito del potere di conciliare. Tentativo di conciliazione avviato dalla Sig. XXX”, alla quale risultavano allegate le osservazioni scritte inerenti il merito dell’istanza e indicanti le patologie e le vicende sanitarie della dipendente. Il Tribunale, considerate le finalità della deliberazione consistenti nella necessità di “depositare le proprie “osservazioni scritte”; nominare il rappresentante dell’Ente in seno al Collegio di Conciliazione; incaricare e delegare un soggetto munito del potere di conciliare” ha ritenuto l’allegazione dell’intero

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testo delle osservazioni scritte e dei loro allegati senza dubbio non indispensabile ritenendo le stesse utilmente perseguibili anche attraverso indicazioni in modo sintetico o a mezzo di omissis atti a evitare che dati sensibili dell’istante fossero riprodotti all’esterno dell’istruttoria già compiuta. Allo stesso modo la documentazione, sanitaria e non, allegata alle osservazioni, avrebbe dovuto rimanere agli atti interni della Giunta, non rispondendo la loro pubblicazione e diffusione ad alcuna esigenza valutativa o di pubblicità. Secondo il Tribunale risulta, in tal caso, violato il principio della pertinenza e della non eccedenza di cui all’articolo 11 citato, dal momento che le stesse motivazioni dell’atto si sarebbero potute egualmente esprimere adottando una modalità di notificazione tale da non rendere possibile la conoscenza da parte di chiunque dei dati sensibili della ricorrente. La violazione del principio di pertinenza e non eccedenza (art. 11 d.lgs. 196/2003) riscontrata con riferimento all’affissione all’albo pretorio della suddetta delibera cui è connessa l’avvenuta comunicazione della stessa e dei relativi allegati effettuata nei confronti del Presidente del Consiglio comunale e dei consiglieri capi-gruppo, risultano lesive del diritto alla riservatezza e idonee a configurare un danno non patrimoniale per lesione di una situazione giuridica soggettiva a contenuto non economico. La valutazione di tale pregiudizio non può aver luogo che in via equitativa, tenuto conto della delicatezza e sensibilità dei dati rivelati e del numero dei destinatari. Il tribunale ha, pertanto, condannato il comune al risarcimento del danno non patrimoniale causato in conseguenza della comunicazione e diffusione, eccedenti le finalità del trattamento, di dati sensibili inerenti lo stato di salute della propria dipendente.

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Responsabilità solidale: forniti ulteriori chiarimenti dall’Agenzia delle Entrate Agenzia delle Entrate, circolare 2/E/2013 di Manuela Ricoveri L’Agenzia delle entrate ha emanato il 1° marzo 2013 la circolare n. 2/E concernente “Articolo 13-ter del DL n. 83 del 2012 - Disposizioni in materia di responsabilità solidale dell’appaltatore - Circolare n. 40/E dell’8 ottobre 2012 - Problematiche interpretative”. Con la circolare in commento, vengono forniti importanti chiarimenti per quanto riguarda l’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione della norma sulla solidarietà di cui all’articolo 13-ter del d.l. 183/2012 (c.d. “decreto crescita”). Nello specifico, l’articolo 13 del d.l. 183/2012, ha introdotto, per i contratti stipulati dal 12 agosto 2012, la responsabilità dell’appaltatore e del committente per il versamento all’erario delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell’Iva dovuta dal subappaltatore e dall’appaltatore in relazione alle prestazioni effettuate nell’ambito del rapporto, nei limiti dell’ammontare del corrispettivo dovuto. La norma esclude tale responsabilità se l’appaltatore/committente acquisisce la documentazione attestante che i versamenti fiscali, scaduti alla data del pagamento del corrispettivo, sono stati correttamente eseguiti dal subappaltatore/appaltatore, documentazione che, secondo quanto previsto dalla stessa disposizione, può consistere anche nella asseverazione rilasciata da CAF o da professionisti abilitati. La disposizione prevede, inoltre, che sia l’appaltatore che il committente possono sospendere il pagamento del corrispettivo dovuto al subappaltatore/appaltatore fino all’esibizione della predetta documentazione. Al committente che paga l’appaltatore senza che quest’ultimo gli abbia fornito la documentazione attestante la regolare effettuazione dei versamenti fiscali, scaduti alla data del pagamento del corrispettivo, è applicabile la sanzione da € 5.000 a € 200.000, qualora l’appaltatore/subappaltatore non abbia versato iva e/o ritenute. Secondo i primi chiarimenti, forniti con la circolare n. 40/E del 2012, l’Agenzia aveva ritenuto valida, in alternativa alle asseverazioni prestate dai CAF e dai professionisti abilitati, la presentazione di una dichiarazione sostitutiva - resa ai sensi del d.p.r. 445/2000 - con cui l’appaltatore/subappaltatore attestava l’avvenuto adempimento degli obblighi richiesti dalla disposizione. Ciò premesso, con la circolare in commento, l’Agenzia ha fornito ulteriori chiarimenti, puntualizzato l’ambito oggettivo e soggettivo della norma, oltre che fornire un quadro d’insieme circa l’attestazione della regolarità fiscale. In particolare, la circolare ha precisato che la responsabilità solidale si applica non soltanto nel settore edile, ma in tutti i settori in cui si generano prestazioni di servizi. Infatti, anche se l’art. 13-ter del d.l. n. 83/2012 è inserito nel capo III del decreto titolato “Misure per l’edilizia”, la norma che il medesimo art. 13-ter va a modificare, ovverosia il comma 28 dell’art.

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35 del d.l. n. 223/2006, fa parte delle misure a contrasto dell’evasione fiscale (e contributiva) senza alcuna distinzione settoriale. Lo scopo della norma, pertanto, va “ravvisato non nella finalità di introdurre specifiche misure di contrasto all’evasione nel settore edile, ma in quella di far emergere base imponibile in relazione alle prestazioni di servizi rese in esecuzione di contratti di appalto e subappalto intesi nella loro generalità, a prescindere dal settore economico in cui operano le parti contraenti”. Dunque, secondo l’Agenzia delle Entrate, il regime si applica a tutte le tipologie contrattuali che rientrano nel concetto d’appalto, così come definito dall’articolo 1655 del codice civile, secondo cui l’appalto è “… il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di una opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”. A tal fine non è necessaria la presenza (sempre) di uno o più subappalti, ossia la presenza di almeno 3 soggetti (committente, appaltatore e subappaltatore). E’ sufficiente, infatti, la presenza di due soggetti (committente e appaltatore), in cui “l’appaltatore provveda direttamente alla realizzazione dell’opera affidatagli dal committente”. Come chiarito, infatti, dall’Agenzia delle entrate, “la stessa previsione del primo periodo del comma 28-bis, nel delineare gli adempimenti del committente circa l’acquisizione della documentazione che attesti il regolare adempimento degli obblighi fiscali da parte dell’appaltatore, indica il subappaltatore quale figura eventuale, con ciò confermando l’applicazione della disposizione anche nelle ipotesi in cui il subappalto non sia previsto”. Sono escluse, come chiarito dalla circolare in commento, e pertanto il committente non dovrà eseguire alcuna verifica di regolarità fiscale, le tipologie contrattuali diverse dall’appalto di opere e servizi, ovvero:

a) contratti di fornitura di beni; b) contratti d’opera, disciplinati dall’articolo 2222 c.c.; c) contratti di trasporto; d) contratti di subfornitura; e) le prestazioni consortili.

In merito alla individuazione, sotto il profilo temporale, dei contratti interessati dalla disposizione in commento l’Agenzia delle Entrate, nel ribadire quanto già riconosciuto con la precedente circolare n. 40/E del 2012, e cioè che le nuove disposizioni sono applicabili ai contratti stipulati a decorrere dal 12 agosto 2012, ha precisato che la normativa si applica anche ai contratti rinnovati successivamente a tale data, in quanto “l’eventuale rinnovo del contratto deve ritenersi equivalente ad una nuova stipula”. Pertanto, un contratto stipulato prima del 12 agosto 2012 ma rinnovato successivamente è assoggettato alle regole di verifica sulla regolarità fiscale. In merito al profilo soggettivo, la circolare ha chiarito che, ai sensi del secondo periodo del comma 28-ter, dell’articolo 35 del d.l. 223/2006, sono escluse dall’ambito applicativo della norma le stazioni appaltanti di cui all’articolo 3, comma 33, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Secondo la definizione data al comma 33 dell’articolo 3 del codice, “l’espressione stazione appaltante comprende le amministrazioni aggiudicatrici e gli altri soggetti di cui all’articolo 32”, tra cui sono ricompresi, tra gli altri, i concessionari di servizi e di lavori pubblici e le società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, le quali hanno ad

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oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni e servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza, ivi comprese le società di cui agli articoli 113, 113 bis, 115 e 116 del Tuel. Pertanto gli enti, ma anche le società partecipate, per espressa previsione normativa, sono escluse dalla responsabilità solidale, che in tutti gli altri casi si applica nell’ambito degli appalti di opere e servizi. Deve, inoltre, ritenersi escluso il “condominio” in quanto non riconducibile fra i soggetti individuati agli articoli 73 e 74 del TUIR. La circolare, infine, ha fornito chiarimenti in merito all’attestazione di regolarità fiscale che deve essere richiesta dall’appaltatore al subappaltatore e dal committente all’appaltatore. Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che in caso di più contratti intercorrenti tra le medesime parti, l’autodichiarazione ovvero asseverazione del professionista può essere rilasciata in modo unitario, essendo quindi sufficiente la presentazione di una autodichiarazione/asseverazione anche nel caso di più contratti di appalto/subappalto stipulati. La certificazione potrà essere fornita anche con cadenza periodica: in tal caso, all'atto del pagamento dovrà però essere attestata la regolarità di tutti i versamenti relativi alle ritenute e all’Iva scaduti a tale data, che non abbiano formato oggetto di una precedente attestazione. Per i pagamenti effettuati mediante bonifico bancario o altri strumenti che non consentono al beneficiario l’immediata disponibilità della somma versata a suo favore, la circolare ha precisato che l’autodichiarazione/asseverazione dovrà essere riferita ai versamenti fiscali scaduti al momento in cui il committente o l’appaltatore effettuano la disposizione bancaria, non rilevando la successiva data in cui le somme vengono accreditate sul conto corrente dell’appaltatore (o del subappaltatore. La circolare prevede altresì il caso in cui l’appaltatore o il subappaltatore cedano il proprio credito a terzi con particolare riferimento al momento al quale si debba fare rifermento per l’attestazione di regolarità fiscale. A tal proposito l’Agenzia delle Entrate, richiamate le precisazioni fornite dalla Ragioneria generale dello Stato con riferimento alle ipotesi di cessione del credito nell’ambito della disciplina sui pagamenti delle pubbliche amministrazioni, di cui all’art. 48-bis del d.p.r. 602/1973 (Circolare n. 29/2009), ha chiarito che la regolarità fiscale relativa ai rapporti inerenti al credito ceduto può essere attestata nel momento in cui il cedente comunica la cessione medesima al debitore ceduto (committente o appaltatore).

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Non è possibile esercitare il potere di autotutela dopo la stipulazione del contratto Tar Lazio, sentenza n. 2432/2013 di Manuela Ricoveri L’intervenuta stipulazione di un contratto di appalto costituisce circostanza preclusiva all’esercizio del potere autoritativo di revoca. Questo il principio espresso dal Tar Lazio, sez. II ter, con la sentenza in commento, con la quale ha accolto il ricorso presentato da una società avverso la revoca di una procedura aperta per l'affidamento della progettazione esecutiva e dell'esecuzione di alcuni lavori. Nel caso di specie una stazione appaltante aveva disposto la revoca dell’intera procedura di gara, incluso il provvedimento di aggiudicazione definitiva, nonostante il contratto fosse già stato stipulato e l’esecuzione delle relative prestazioni già avviata. La revoca, assunta ai sensi dell’art. 21 quinquies, comma 1 bis, della legge 241/1990, veniva disposta in ragione di sopravvenute mutate esigenze operative nonché del radicale mutamento della situazione esistente al momento dell’indizione della gara. Avverso tali atti, l’appaltatore presentava ricorso al Tar, ritenendo illegittimo l’operato dell’amministrazione che era intervenuta in autotutela su un provvedimento, l’aggiudicazione, che da tempo aveva esaurito i suoi effetti a seguito della stipula del contratto d’appalto. Nelle gare per l'aggiudicazione dei contratti pubblici vige il principio dell'autotutela decisoria che consente all'amministrazione di riesaminare, annullare e rettificare gli atti invalidi. La potestà di agire in autotutela per revocare o annullare la documentazione di gara, infatti, come è noto, risiede nel principio costituzionale di buon andamento che, impegnando l’amministrazione ad adottare atti per la migliore realizzazione del fine pubblico perseguito, si traduce nell’esigenza che l’azione amministrativa si adegui all’interesse pubblico allorquando questo muti o vi sia una sua diversa valutazione. Oggetto dell’esercizio del potere di autotutela possono essere tutti gli atti adottati nel procedimento di gara, compresa l’aggiudicazione definitiva. La revoca si configura come un provvedimento di secondo grado, espressione del potere di autotutela riconosciuto alle amministrazioni pubbliche, il cui fondamento normativo è contenuto nell’art. 21 quinquies della legge 241/1990. Ai sensi di tale disposizione normativa l’amministrazione può procedere alla revoca di un provvedimento amministrativo ad efficacia durevole al ricorrere di una serie di presupposti: a) la sopravvenienza di motivi di pubblico interesse; b) il mutamento della situazione di fatto; c) una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario. Nella materia degli appalti dunque gli atti della procedura di gara possono essere oggetto di revoca da parte della stazione appaltante qualora non siano più corrispondenti alle ragioni dell’interesse pubblico che ne aveva determinato l’adozione. La casistica giurisprudenziale in merito alle ipotesi in cui la stazione appaltante ha legittimamente proceduto alle revoca degli atti di gara è assai ampia e variegata, anche in considerazione dei diversi atti della procedura di gara che sono stati oggetto del provvedimento in questione.

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La giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto alla stazione appaltante il potere di annullare l’aggiudicazione di un appalto pubblico anche dopo la stipulazione del contratto qualora sussistano i presupposti del ricorso alla c.d. “autotutela”, ravvisabili nell’illegittimità dell’atto annullato e nella sussistenza di un interesse pubblico da compararsi con quello del privato che abbia riposto un legittimo affidamento sulla stabilità dei suoi effetti (Cons. St., sez. IV, sent. n. 6456/2006). In tale evenienza e in virtù della stretta consequenzialità tra l'aggiudicazione della gara pubblica e la stipula del relativo contratto, l'annullamento a seguito di autotutela degli atti della procedura amministrativa, comporta la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto successivamente stipulato, stante la preordinazione funzionale tra tali atti. Infatti il contratto non ha un’autonomia propria ed è destinato a subire gli effetti del vizio che affligge il provvedimento cui è inscindibilmente collegato restando “caducato” a seguito dell'annullamento degli atti che ne hanno determinato la sottoscrizione. Sul punto peraltro si è distinta l’ipotesi della revoca dell’aggiudicazione per motivi di opportunità e convenienza, la quale, qualora intervenga dopo la costituzione del rapporto contrattuale, è parsa in giurisprudenza difficilmente distinguibile dal recesso di cui all’art. 134, comma 1, d.lgs. 163/2006, che costituisce lo strumento attribuito alla stazione appaltante per sciogliersi volontariamente dal vincolo contrattuale (Tar Lombardia, Milano, sez. III, n. 6171/2008). In particolare, l’articolo 134 del codice dei contratti stabilisce che “la stazione appaltante ha il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto previo il pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti nel cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere none eseguite”. Sul piano della disciplina, il comma 3 della disposizione in questione prevede che “l’esercizio del diritto di recesso è proceduto da formale comunicazione all’appaltatore da darsi con un preavviso non inferiore a venti giorni, decorsi i quali la stazione appaltante prende in consegna i lavori ed effettua il collaudo definitivo”. In proposito, il Collegio, nella sentenza in commento, ha chiarito che, una volta che l’accordo contrattuale sia concluso in modo definitivo e definitivamente efficace, la scelta della p.a. committente di non eseguire l’opera come progettata, compiuta per sopravvenuti motivi di opportunità, rientra nell’ambito del potere, non pubblico di revoca, ma contrattuale di recesso. Secondo i giudici amministrativi, infatti, alla luce della ricordata previsione normativa, per il legittimo esercizio della revoca in autotutela è necessario anzitutto che il provvedimento, ad efficacia durevole o istantanea, non abbia ancora esaurito i suoi effetti quando l’amministrazione decide di intervenire in autotutela, tanto che l’atto determina, per espressa previsione di legge, l’inidoneità del provvedimento a produrre ulteriori effetti.

Invero, secondo il Collegio, “il provvedimento di aggiudicazione, sebbene abbia efficacia durevole, spiega la propria efficacia sino alla stipulazione del contratto di appalto, sicché l’aggiudicazione definitiva di un appalto può ben essere oggetto di revoca ma solo fino alla data di stipulazione del contratto o, più propriamente, sino all’avvio della sua esecuzione, che può farsi coincidere, in un appalto di lavori, con la consegna degli stessi da parte della stazione appaltante”. Di conseguenza, dopo la stipulazione del contratto, il potere autoritativo di revoca non può più essere esercitato, potendo la stazione appaltante agire attraverso lo strumento del recesso di cui all’art. 134 del codice dei contratti. Tale differenza ha una notevole implicazione anche da un punto di vista economico.

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Infatti, l’articolo 134 prevede che il recesso della stazione appaltante faccia sorgere il diritto dell’appaltatore al corrispettivo per i lavori eseguiti, al rimborso delle spese e al mancato guadagno calcolato nella misura fissa del decimo dell’importo. L’amministrazione deve, inoltre, pagare all’appaltatore il valore dei materiali utili esistenti in cantiere, che siano stati ricevuti dal direttore dei lavori prima della comunicazione dello scioglimento del contratto. E’ evidente la differenza con la revoca. Questo provvedimento di autotutela, infatti, qualora incida su rapporti negoziali, determina l’obbligo dell’amministrazione a corrispondere un indennizzo parametrato al solo danno emergente. Sulla base di tali considerazioni, pertanto, il collegio ha accolto il ricorso disponendo l’annullamento del provvedimento di revoca impugnato.

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Società: forniti interessanti chiarimenti sui rapporti economico-finanziari con l’ente socio Corte dei Conti, sez. contr. Lombardia, deliberazione 66/2013 di Federica Caponi L’obbligo di mantenere una sola società partecipata per i comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti decorrerà dal 30 settembre 2014. L’articolo 14 comma 32 del d.l. 78/2010 stabilisce, inoltre, che i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire società e entro il 30 settembre 2013 tali enti dovranno mettere in liquidazione le società già costituite alla data di entrata in vigore del decreto, ovvero dovranno cedere interamente le partecipazioni che non rispettano le condizioni previste dalla medesima disposizione. La stessa disposizione ha stabilito anche che i comuni con popolazione superiore a 30.000 e inferiore a 50.000 potranno mantenere una sola partecipazione dal 30 settembre 2014. I termini del comma 32 sono stati prorogati dall’articolo 29 comma 11-bis del d.l. 216/2011 e tale prorogatio, oltre ai naturali effetti cronologici, produce la modifica di aspetti sostanziali della disciplina contenuta nel citato articolo 14 comma 32. Per effetto del citato decreto mille proroghe, i termini sono stati posticipati (tutti) di nove mesi (“peccato” che per i comuni più grandi il testo della disposizione indica 31 dicembre 2011). Questi alcuni dei chiarimenti forniti dalla Corte dei Conti, sez. contr. della Lombardia, nella articolata deliberazione n. 66 depositata il 27 febbraio 2013, con la quale ha risposto a numerosi quesiti presentati da un comune di 9.000 abitanti in merito all’obbligo di liquidazione o di cessione delle partecipazioni societarie previsto dalla norma del d.l. 78/2010. L’ente ha evidenziato che è socio unico in due società, aventi come oggetto sociale, una, l’acquisto, distribuzione e vendita di energia elettrica, urbanizzazione e riqualificazione urbana, illuminazione pubblica, lampade votive, impianti semaforici e arredo urbano e aree verdi, l’altra la gestione del servizio idrico integrato, distribuzione gas metano, esercizio degli impianti tecnologici degli stabili comunali e degli impianti termici. La prima è la società proprietaria del patrimonio pubblico relativo alle reti (servizio idrico, distribuzione gas, energia elettrica e igiene ambientale) e negli anni 2010-2011 ha chiuso i bilanci in perdita, mentre il 2012 è stato chiuso in utile. La seconda società ha sempre chiuso i bilanci in utile. Il comune sta valutando un'operazione di riorganizzazione societaria ai fini di una riduzione dei costi aziendali di gestione delle stesse, attraverso una fusione per incorporazione di una società nell'altra. L’ente ha chiesto ai magistrati:

se la società l’eventuale neo società sarebbe obbligata alla messa in liquidazione entro il 30 settembre 2013;

quali siano le conseguenze su beni posseduti dalla stessa in caso di liquidazione, avendo nel proprio patrimonio anche alcuni beni pubblici demaniali inalienabili;

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se l’operazione della fusione per incorporazione sia considerata assimilabile alla cessione o messa in liquidazione;

quali effetti produrrebbero sulla proprietà delle reti dei servizi pubblici locali tali operazioni societarie, finalizzate ad ottenete un'unica società (proprietaria delle reti e gestore delle stesse, oltre al servizio);

quali effetti produrrebbero sulla gestione dei servizi pubblici locali, nonché strumentali, affidati attualmente alle due società, le prospettate operazioni societarie. Obbligo di dismissione delle partecipazioni societarie La Corte ha ricordato che con la disposizione dell’articolo 14, comma 32 il legislatore ha compiuto una decisa virata verso la dismissione delle partecipazioni sociali detenute dai comuni demograficamente minori, per potenziare la concorrenza e agevolare l’entrata di operatori privati nel mercato dei servizi pubblici locali, ma anche per limitare la capacità amministrativa dei comuni più piccoli, impossibilitati a sostenere con il proprio bilancio gli oneri di gestione di una o più società partecipate. I nuovi termini entro cui i comuni dovranno dismettere o mettere in liquidazione le proprie partecipazioni sono quelli del 30 settembre 2013 per i comuni sotto 30.000 abitanti e per quelli con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 quello del 30 settembre 2014. L’articolo 14 comma 32 pone un divieto di costituire nuove società e un obbligo di messa in liquidazione o di dismissione mediante cessione della partecipazione già costituita. Il legislatore pone un’alternativa paritetica lasciata alla discrezionalità dell’amministrazione comunale, non indicando una priorità nelle due modalità di eliminazione della partecipazione societaria, “ma è ovvio che la discrezionalità amministrativa debba tener conto dell’opzione che sia più confacente alle specifiche esigenze comunali e conforme alla peculiare situazione economica della società da far cessare, alla luce dei criteri di economicità, efficacia ed efficienza delle decisioni amministrative”. L’alienazione sarà percorribile per le società, appetibili sul mercato, mentre la messa in liquidazione sarà la via preferibile per le società strutturalmente in perdita, per le società strumentali e per tutti quegli asset societari che non trovano collocazione sul mercato, laddove la gara per la vendita vada deserta. Il legislatore (e i magistrati contabili) non sembra considerare “le difficoltà” che potranno realizzarsi per gli enti che non detengano la totale partecipazione del capitale sociale o che comunque non abbiano la maggioranza. In tal caso, l’ente potrà decidere di vendere le proprie quote, ma in caso di mancato acquisto non sempre potrà decidere autonomamente di mettere in liquidazione la società, oltre a considerare comunque la tutela degli altri soci prevista dal codice civile e quindi le possibili azioni di rivalsa degli altri soci verso l’ente pubblico. Comuni sotto 30.000 abitanti A tali enti il legislatore ha riconosciuto una facoltà derogatoria a tali obblighi, laddove la società:

abbia, al 30 settembre 2013, il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi; non abbia subito, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio;

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non abbia subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato dell’obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime.

soci abbiano una popolazione complessiva superiore a 30.000 abitanti. Per quanto riguarda il primo requisito, il riferimento temporale al 30 settembre 2013 e al bilancio in utile negli ultimi tre esercizi ha mutato il periodo di riferimento, non più il triennio 2009-2011, ma 2010- 2012, mentre ovviamente non riguarderà i bilancio 2013, posto che in tale data il bilancio per l’anno in corso ancora non sarà stato approvato. Deve trattarsi di utili effettivi e non fittizi, la cui creazione non derivi da manovre di bilancio artificiose, o peggio fraudolente, tese ad impedire l’emersione di perdite d’esercizio, ad esempio mediante la posticipazione espressa o tacita, sine die certo, del rimborso di prestiti erogati dal comune alla società partecipata in difficoltà finanziaria (pactum de non petendo), l’accollo comunale di passività finanziarie contratte dalla società con gli istituti di credito, la surrogazione nel pagamento delle rate di mutuo stipulato dalla società, la contribuzione straordinaria in conto esercizio o in conto impianti in base al contratto di servizio, al solo scopo di ripianare i costi sociali o il disavanzo di gestione del servizio a tariffa calmierata. Per quanto riguarda gli altri requisiti, in entrambe le ipotesi normative si fa riferimento ad un periodo di tempo indeterminato “a ritroso”. Secondo i magistrati contabili della Lombardia, tali vincoli devono essere interpretati nel senso di considerare tutti gli anni “di vita” della società. La locuzione “precedenti esercizi” è riferita necessariamente ai bilanci anteriori al 2010 e per stabilire il mantenimento della partecipazione, il comune dovrà verificare se a partire dall’esercizio 2009, a ritroso, sino alla data di costituzione della società, la stessa non abbia subito riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio, ovvero non abbia subito perdite di bilancio in conseguenza delle quali l’ente socio sia stato gravato dall’obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime. Certamente, la mera generazione di perdite d’esercizio non conduce automaticamente alla carenza delle condizioni per il mantenimento della partecipazione societaria, ma solo la maturazione di perdite che siano state causa di riduzione di capitale e di perdite che abbiano gravato il comune dell’obbligo di ripianamento delle medesime. Ogni perdita genera una riduzione del capitale (rectius del patrimonio netto) della società. Occorre dunque compiere una ricognizione dei casi di riduzione del capitale per perdite, alla stregua della disciplina stabilita dal codice civile. Sono escluse dalla sfera di applicazione della norma, le ipotesi di riduzione volontaria di capitale, sia essa operata mediante rimborso ai soci delle quote pagate, mediante liberazione di essi dall’obbligo dei versamenti ancora dovuti o mediante l’attribuzione di beni in natura (artt. 2445 e 2482 c.c.). La riduzione del capitale per perdite è facoltativa se le medesime non eccedono la terza parte del capitale sociale. Si tratta di riduzione per perdite inferiori al terzo del patrimonio netto, di norma certificata nel bilancio d’esercizio e riportata a nuovo nell’esercizio successivo, che non necessita d’idonei provvedimenti da adottare secondo il meccanismo formale della delibera assembleare per atto pubblico notarile nei casi previsti dagli artt. 2446, 2447, 2482 bis e 2482 ter c.c..

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La riduzione facoltativa è esclusa dall’ambito di applicazione dell’art. 14 comma 32, in tal modo salvaguardandosi, entro ragionevoli limiti, le società costituite in tempi meno recenti e le società in fase iniziale di attività (start-up). Se invece risulta che il capitale è diminuito oltre un terzo, ma non al di sotto del minimo legale, l’assemblea dei soci, adottando gli opportuni provvedimenti, può rinviare al nuovo anno le determinazioni sul capitale (c.d. anno di grazia). Qualora entro l’esercizio successivo, la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea, in sede di approvazione del bilancio, deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite medesime. E’ a tale ipotesi di riduzione del capitale per perdite che il legislatore ha inteso riferirsi. Qualora invece le perdite abbiano del tutto azzerato il capitale sociale (il patrimonio netto), ovvero siano superiori ad un terzo del capitale con riduzione del medesimo al di sotto del minimo legale sugli amministratori grava l’obbligo, fatta salva la possibilità di deliberare la trasformazione, di convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale e il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo. E’ a tale ipotesi (riduzione con obbligo di ripiano almeno al minimo legale) che il legislatore ha inteso riferirsi. L’obbligo di procedere al ripiano delle perdite può derivare al comune anche in relazione al contratto di servizio in vigore con la propria società partecipata o a seguito di previsione statutaria. Anche in tali casi, si applicherà l’obbligo di dismissione o messa in liquidazione. Il legislatore ha infatti voluto comprendere ogni manovra finanziaria di ricostituzione occulta di perdite gestionali, tradottasi in un finanziamento gravante sul socio pubblico erogato a titolo di soccorso alla società che versa in disequilibrio gestionale, senza attivare il metodo assembleare previsto dalla legge. La prassi invero registra numerosi casi in cui l’amministrazione comunale, pur al cospetto di perdite che obbligherebbero l’adozione degli opportuni provvedimenti di cui agli artt. 2446, 2447, 2482 bis e 2482 ter c.c., provvede a soccorrere la società in modo alternativo: o mediante l’erogazione di prestiti a breve, o attraverso la rinunzia a crediti maturati nei confronti della propria società partecipata. In tali condizioni, l’elusione dei meccanismi assembleari di ripianamento delle perdite e di ricostituzione del patrimonio netto nei limiti legali dissimulano la copertura di perdite d’esercizio già accumulate, vulnerando la sana gestione finanziaria della società partecipata. Infine, il legislatore ha inteso favorire un processo di razionalizzazione delle partecipazioni locali, mediante un processo di accorpamento, di fusione o di costituzione di nuove società con partecipazione paritaria o proporzionale al numero degli abitanti, in cui la compagine sociale è composta da più Comuni la cui popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti. Adottando tale criterio, sono irrilevanti sotto il profilo della legalità finanziaria, le condizioni gestionali della società pluripartecipata, sia essa in equilibrio finanziario, ovvero in perdita. Al riguardo, il tenore testuale della disposizione (società costituite da più Comuni), secondo la Corte dei Conti, non ammetterebbe la costituzione di una società pubblica locale costituita tra unoo più comuni e la provincia, non richiamata dalla norma, in quanto ente territoriale che si sovrappone al livello di governo comunale e pertanto non idoneo ad incidere sulla soglia demografica.

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I magistrati hanno ribadito il divieto di coesistenza nel medesimo organismo societario di servizi pubblici locali e di servizi strumentali. Le disposizioni legislative in materia hanno statuito specifiche incompatibilità fra la gestione di attività strumentali, che vedono quale destinatario ed interlocutore l’ente locale, e le attività a rilevanza economica, che presentano un’incidenza sul mercato, sia pure locale. Vista la loro natura e considerata la deroga alle ordinarie procedure di affidamento, le società strumentali non possono svolgere, data la loro posizione privilegiata, ulteriori attività a favore di altri soggetti pubblici o privati poiché, in caso contrario, si verificherebbe un’alterazione o comunque una distorsione della concorrenza all’interno del mercato locale di riferimento. Fusione societarie e obblighi di dismissione o di liquidazione delle partecipazioni pubbliche Sul piano descrittivo la fusione è l’unificazione di due o più società in un unico organismo comportante la confusione dei patrimoni e della compagine societaria già appartenenti alle società fuse. Sotto il profilo giuridico, nella fusione in senso stretto, si produce la costituzione di una nuova società con estinzione delle società preesistenti, nella fusione per incorporazione, una società assorbe una o più società preesistenti. Carattere essenziale della fusione è l’assegnazione di quote o di azioni della società risultante dall’operazione ai soci delle società fuse o incorporate. La ratio della fusione è consentire la concentrazione d’impresa, evitando il passaggio della liquidazione delle società originarie con conseguente costituzione di una nuova società fra i medesimi soci, garantendo la continuità dell’attività imprenditoriale. Con la riforma del diritto societario, il legislatore ha inteso unificare i passaggi societari, diminuendo gli impatti fiscali, temporali ed economici delle operazioni di unificazione, al fine di garantire la continuità nell’esercizio dell’attività d’impresa. Secondo la giurisprudenza della Cassazione a Sezioni Unite (Cass., SS.UU., Ordinanza 2637/2006), “la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, né crea un nuovo soggetto di diritto, ma attua l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo”. Pertanto, nella fusione per incorporazione, la società risultante alla fine delle operazioni è la medesima società che sopravvive in un nuovo assetto organizzativo, conservando intatti, senza soluzione di continuità, tutti i rapporti giuridici attivi e passivi riferibili alla società incorporata. La diversità concettuale e di disciplina giuridica fra la fusione per incorporazione e la messa in liquidazione o la cessione della partecipazione societaria, farebbe ritenere illegittima la scelta del comune, eludendo il vincolo contenuto nell’articolo 14. La riorganizzazione societaria delle partecipazioni pubbliche locali presuppone necessariamente l’idoneità della società partecipata ad essere mantenuta in mano pubblica, pertanto, non appare corretto procedere ad operazioni di concentrazione societaria facendo perno su partecipazioni che devono essere dismesse mediante liquidazione o alienazione. L’amministrazione comunale può comunque procedere ad operazioni di riassetto societario, potendo prevedere per la società soggetta all’obbligo di dismissione una fase liquidatoria, cui farà seguito la retrocessione all’ente locale dei beni pubblici già appartenenti al comune, nonché il

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possibile trasferimento d’azienda dei beni e degli assets cedibili alla società da mantenere, in conformità alle norme finanziarie sopra indicate. Regime giuridico dei beni pubblici conferiti alle società patrimoniali gerenti servizi pubblici locali Le società “patrimoniali” si configurano quali detentrici, a titolo di proprietà mediante conferimento in natura, delle reti e/o di altri beni in natura funzionali all’erogazione di servizi pubblici locali o strumentali alla stessa amministrazione. Nella società patrimoniale, lo schema societario non solo è finanziariamente partecipato dall’ente locale, ma è dotato dallo stesso del patrimonio immobiliare. Nella prassi, infatti, può verificarsi che alla società patrimoniale non sia demandata solo l’attività di gestione dei servizi pubblici, ma anche la gestione del patrimonio comunale con la relativa attività strumentale di manutenzione. Si definisce, inoltre, società “operativa” quella cui è demandata anche la possibilità di effettuare interventi sul patrimonio medesimo. Le opere d’intervento manutentivo sul patrimonio trasferito alla società o rimasto in capo al Comune e dato in gestione alla società vengono realizzate direttamente dalla società a capitale interamente pubblico o vengono affidate esternamente nel rispetto dei principi dell’evidenza pubblica, mantenendo in capo alle società medesime l’attività di monitoraggio sull’andamento dei lavori. Ne consegue che la locuzione società patrimoniale non è idonea a qualificare la natura della partecipazione locale e in definitiva la disciplina ad essa applicabile. Per individuare la disciplina giuridica applicabile è necessario accertare se la dotazione patrimoniale sia funzionale all’erogazione dei servizi pubblici locali o alla manutenzione del patrimonio comunale o se, addirittura, in capo alla società patrimoniale ci sia una commistione tra l’attività di interesse generale e quella di tipo strumentale. Il conferimento del patrimonio pubblico ad una società interamente partecipata dall’ente locale impone un distinguo a seconda che i cespiti conferiti siano funzionali o meno all’erogazione di servizi pubblici locali. Il trasferimento di beni demaniali a società patrimoniale interamente pubblica modifica il regime giuridico previsto dagli articoli 823 e 829, primo comma, del codice civile. La Corte Costituzionale (sent. 320/2011) ha chiarito che l’incedibilità del capitale della società a totale partecipazione pubblica non garantisce il mantenimento del regime giuridico proprio dei beni conferiti in proprietà alla società patrimoniale. Il patrimonio sociale costituisce una nozione diversa da quella di capitale sociale. Il primo è rappresentato dal complesso dei rapporti giuridici, attivi e passivi, che fanno capo alla società, mentre il secondo è l’espressione numerica del valore in denaro di quella frazione ideale del patrimonio sociale netto (dedotte, cioè, le passività) che è fissata dall’atto costitutivo e non è distribuibile tra i soci. Ne deriva che l’incedibilità delle quote od azioni del capitale sociale non comporta anche l’incedibilità dei beni che costituiscono il patrimonio della società, che possono liberamente circolare e che integrano la garanzia generica dei creditori (art. 2740 cod. civ.).

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La sola partecipazione pubblica, ancorché totalitaria, in società di capitali non vale, dunque, a mutare la disciplina della circolazione giuridica dei beni che formano il patrimonio sociale e la loro qualificazione. La capacità giuridica dell’ente locale di conferire (nella propria società patrimoniale interamente partecipata) beni necessariamente funzionali all’erogazione di un servizio pubblico incontra due limiti tra loro strettamente interdipendenti. Un limite di carattere generale per cui i beni demaniali e quelli facenti parte del patrimonio indisponibile non sono trasferibili alla società patrimoniale (né in sede di costituzione con un vero proprio conferimento né successivamente con un atto traslativo in generale) senza un procedimento di sdemanializzazione o senza l’inserimento del bene indisponibile nel piano delle alienazioni, perché se così non fosse verrebbe pregiudicato il regime giuridico della demanialità o della indisponibilità dei beni medesimi (in particolare, l’inalienabilità e l’inespropriabilità). Un limite di carattere speciale per cui, per alcune tipologie di beni facenti parte del demanio pubblico, è preclusa all’ente locale la possibilità di procedere ad una sdemanializzazione (e, quindi, di fatto è preclusa la possibilità di trasferirli ad una società patrimoniale). In particolare, tale divieto vale per le “reti” le quali, per loro natura, sono beni unici ed imprescindibili per l’erogazione di un servizio pubblico essenziale. Conseguentemente, le reti devono essere necessariamente nel patrimonio dell’ente locale che ha l’obbligo di rendere il servizio, salva la possibilità di concederne l’uso al soggetto gestore del servizio stesso. Rispetto a detti beni è preclusa all’ente la scelta discrezionale di conferirli o trasferirli ad una propria società, anche se la partecipazione societaria ha le caratteristiche dell’in house providing. Secondo i magistrati contabili, l’ente locale, avvalendosi sia dei poteri autoritativi sia dei poteri tipici del socio unico, deve assicurare che le reti funzionali all’erogazione dei servizi pubblici mantengano il carattere della demanialità e, quindi, anche il regime dell’inalienabilità e dell’inespropriabilità. Società patrimoniali affidatarie di servizi strumentali Non trova applicazione la normativa sui servizi pubblici locali quando alla società patrimoniale è affidata un’attività non qualificabile in termini di servizio pubblico locale di rilevanza economica; infatti, sono riconducibili alla categoria dei servizi strumentali “rispetto ai bisogni dell’amministrazione locale” quei servizi non diretti a soddisfare in via immediata esigenze della collettività. Nel caso delle società patrimoniali esclusivamente strumentali, anche se non viene direttamente in rilievo la questione dell’incedibilità delle reti, si deve tenere sempre conto che il socio che dota del patrimonio immobiliare la propria società è un soggetto di diritto pubblico e, in quanto tale, deve agire nel rispetto del principio di legalità e con il fine di tutelare l’interesse pubblico. In quest’ottica, quindi, il conferimento di beni in una società di diritto privato interamente detenuta dall’ente locale conferente è legittimo se ricorre un duplice presupposto:

ettare i vincoli che conformano la proprietà pubblica, a seconda che i beni siano soggetti al regime giuridico della demanialità, della indisponibilità o della disponibilità;

sociale.

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L’ente locale non può conferire alla società i beni demaniali di cui agli artt. 822 e 824 c.c. (strade, cimiteri ecc.) per i quali, ai sensi dell’art. 823 c.c., al di fuori dei casi specificatamente previsti dalla legge la proprietà non può essere ceduta a soggetti terzi (anche se questi sono interamente partecipati dallo stesso ente locale). In quanto inalienabili, i beni demaniali non sono usucapibili, né pignorabili, né possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei limiti previsti dalla legge. Per gli immobili del patrimonio indisponibile ovvero gli edifici destinati a sede di ufficio pubblico e gli altri beni destinati a un pubblico servizio (ad esempio, scuole, uffici, impianti sportivi, etc.), è possibile, invece, il loro conferimento in proprietà a soggetti terzi, purché questi rispettino il vincolo di destinazione all’uso pubblico (art. 828 c.c.). I beni facenti parte del patrimonio indisponibile, tra l’altro, sono inespropriabili. I beni immobili, che non rientrano nella nozione di demanio pubblico o non fanno parte del patrimonio indisponibile, appartengono al c.d. patrimonio disponibile dell’ente locale e, ai sensi dell’articolo 58 d.l. 112/2008, ciascun ente con delibera di giunta può individuare “redigendo apposito elenco (…) i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica”. Inoltre, l’ente locale deve mettere in evidenza che la cessione del bene in favore della società ha una sua giustificazione in termini di redditività della gestione, sia che la gestione consista solo nello svolgimento dell’attività manutentiva del bene (c.d. gestione statica), sia si traduca nella realizzazione di una vera e propria rendita proveniente dalla gestione dal bene (c.d. gestione dinamica). Se l’ente locale non giustifica la cessione del bene in termini di economicità della gestione dei beni in origine facenti parte del suo patrimonio, l’operazione potrebbe essere solo strumentale a “valorizzare” il bene ceduto alla società che contabilizza il proprio patrimonio secondo le regole della contabilità economica, eludendo il regime di contabilità finanziaria che non consente agli enti locali di iscrivere i beni facenti parte del patrimonio al fair value. Società patrimoniali operative che incrementano la consistenza del patrimonio immobiliare mediante lavori affidati dall’ente locale Nella prassi spesso le società patrimoniali incrementano il patrimonio immobiliare realizzando lavori sul patrimonio originariamente conferito dall’ente. Le maggiori criticità riguardano la scelta del contraente per l’affidamento dei lavori e la contabilizzazione degli oneri sostenuti dalla società per svolgere i lavori. L’Autorità della Vigilanza sui Contratti Pubblici (Avcp) ha escluso la praticabilità dello schema dell’in house providing nel settore dei lavori. L’affidamento diretto rappresenta una modalità di affidamento avente carattere eccezionale a cui l’ente locale può fare ricorso solo nei casi espressamente previsti dalla legge e nel settore dei lavori, una società in house providing può realizzare interventi in affidamento diretto solo quando l’importo è contenuto nei limiti di quelli eseguibili in economia.

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In merito alla contabilizzazione degli oneri sostenuti per svolgere i lavori, la società patrimoniale, con le cautele che impongono i principi contabili, può astrattamente iscrivere i costi sostenuti nell’esercizio di competenza tra le immobilizzazioni che, a loro volta, negli anni successivi alla loro iscrizione devono essere sistematicamente ammortizzate in ogni esercizio. Quando la capitalizzazione dei costi riguarda lavori eseguiti su beni non ancora trasferiti alla società patrimoniale, l’iscrizione avviene alla voce “immobilizzazioni immateriali” per investimenti realizzati sui beni ancora rimasti in capo al comune (altrimenti, se i lavori fossero realizzati sui beni già entrati nel patrimonio della società, l’iscrizione nello stato patrimoniale avverrebbe alla voce “immobilizzazioni materiali”). Questa operazione di “capitalizzazione dei costi”, dunque, è in astratto consentita alla società patrimoniale che opera in regime di contabilità economica, diversamente non è configurabile neanche in astratto per l’ente locale che opera in regime di contabilità finanziaria. A questa diversa modalità di contabilizzazione dei costi (o spese) di investimento, a seconda che si operi in regime di contabilità economica o in regime di contabilità finanziaria, è riconducibile il rischio per l’ente locale che si avvale della propria società patrimoniale per effettuare lavori di investimento. L’ente, infatti, potrebbe contabilizzare il canone di investimento corrisposto alla medesima società patrimoniale incrementando le immobilizzazioni del suo stato patrimoniale (operazione contabile, diversamente, non consentita a quell’ente locale che non si avvale dell’interposizione societaria e per il quale, quindi, la spesa per investimento rimane una mera uscita finanziaria del titolo II). Tale operazione contabile presenta ulteriori criticità quando la società patrimoniale finanzi gli investimenti non solo con il canone di investimento corrispostogli dal comune, ma anche attraverso finanziamenti provenienti da soggetti terzi o dal medesimo socio unico. Una parte della programmazione degli investimenti infatti sfugge al bilancio di previsione dell’ente locale (l’ente nel bilancio pluriennale impegna solo le somme che corrisponderà a titolo di canoni per investimento). Dal punto di vista della società, invece, questa capitalizzando i costi come immobilizzazioni, nei primi anni in cui realizza l’investimento (cioè prima che le immobilizzazioni vengano ammortizzate), finisce per registrare un apparente equilibrio finanziario. Tuttavia, l’equilibrio è solo apparente perché negli anni successivi, se i costi sostenuti per investimenti (e capitalizzati come immobilizzazioni) non produrranno benefici per la società (o, meglio, non consentiranno alla società pubblica di recuperare, nel periodo di ammortamento, le somme investite), la stessa entrerà in una inevitabile crisi finanziaria. Crisi finanziaria alla quale verrà chiamato a farvi fronte il socio pubblico con una richiesta da parte degli amministratori della società di incrementare il canone per il servizio di interesse generale reso o il canone operativo per gli investimenti fatti.